Due cuori, un'anima di mikimac (/viewuser.php?uid=775246)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Se una notte d'inverno due viaggiatori ***
Capitolo 2: *** Senza memoria ***
Capitolo 3: *** Un ballo in villa ***
Capitolo 4: *** Sogno in un valzer ***
Capitolo 5: *** Colazione da Globe Tavern ***
Capitolo 6: *** Alla ricerca di John ***
Capitolo 7: *** Sogno di una notte di mezzo inverno ***
Capitolo 8: *** Parole stonate ***
Capitolo 9: *** Addio ai sogni ***
Capitolo 10: *** Il matrimonio della mia anima gemella ***
Capitolo 11: *** L'ora della verità ***
Capitolo 12: *** Lunga è la strada... ***
Capitolo 1 *** Se una notte d'inverno due viaggiatori ***
Se una notte d'inverno due viaggiatori
Con l’estate, il sole e il
caldo, torno a trovarvi con la minacciata long, che si svolge
nell’universo alternativo Soulmate. Il rating verde forse
è dovuto alle vacanze, che fanno bene al mio umore
cosicché non maltratto troppo i nostri amati personaggi. Oppure
l’ambientazione riesce a fare emergere il mio lato romantico
sopprimendo quello perfido. Il racconto è completamente scritto.
È composto da 12 capitoli, abbastanza corti, che verranno
pubblicati giornalmente da oggi (lunedì 25 giugno) a
venerdì 6 luglio.
La trama è vagamente
ispirata al film del 1950 “Non voglio perderti” di Mitchell
Leisen con Barbara Stanwyck e John Lund.
I personaggi non mi appartengono.
Questo racconto non ha scopo di lucro. Se dovesse ricordarne altri, mi
dispiacerebbe moltissimo e mi scuso in anticipo, ma sarebbe
assolutamente involontario.
Buona lettura.
L’inverno era particolarmente
mite. Le giornate inglesi erano fredde, ma la neve non aveva ancora
bussato alle porte dell’isola, lasciando spazio al sole e alla
nebbia. Da qualche giorno era iniziato dicembre, che avrebbe
traghettato l’umanità dal vecchio al nuovo anno.
L’allegria e la frenesia erano le compagne inseparabili
dell’ultimo mese dell’anno. Le feste imminenti e la
speranza che l’anno nuovo portasse novità e cambiamenti
costringevano le persone a mostrare un ottimo umore, che a volte era
solo di facciata. Le tradizioni imposte dalla società, legate al
periodo festivo e imprescindibili per la buona riuscita dei
festeggiamenti, imponevano di aggiungere altre attività a quelle
già pressanti della normale vita quotidiana. L’atmosfera
allegra permeava anche il vagone del treno, che stava correndo verso
Londra, avvolto dalle ombre della sera.
La carrozza era piena,
perché il weekend soleggiato aveva invitato chi abitava nelle
località limitrofe a visitare la capitale, sia per ammirarne le
sfavillanti decorazioni sia per invaderne i numerosi e variopinti
negozi, in cerca dei regali perfetti da mettere sotto l’albero di
Natale.
I due giovani uomini occupavano dei
posti alla fine della carrozza. Si assomigliavano moltissimo, tanto da
sembrare quasi fratelli gemelli. Coetanei, erano entrambi non molto
alti, ma ben proporzionati. Entrambi biondi, con lo stesso taglio corto
di capelli. Entrambi con gli occhi azzurri. Avevano persino il medesimo
nome di battesimo. Indossavano abiti sportivi e non molto costosi. Le
loro voci si perdevano nel chiacchiericcio della vettura, che correva
incontro al proprio destino.
Se una notte d’inverno due viaggiatori
I due uomini avevano prestato
servizio nell’esercito insieme ed erano diventati amici. Si erano
conosciuti durante un corso di addestramento speciale, riservato alle
truppe militari di stanza all’estero, in zona di guerra. Si erano
trovati subito in sintonia e molti loro commilitoni avevano scherzato
sul fatto che i due uomini fossero fratelli gemelli separati alla
nascita. Dopo il corso, le loro strade si erano divise perché
erano stati assegnanti a reggimenti diversi, ma si erano presto riunite
in quell’inferno caldo chiamato Afghanistan. I due giovani uomini
erano rimasti gravemente feriti durante la stessa missione,
perciò erano stati congedati dall’esercito con tutti gli
onori.
John Watson e John Rowling stavano
andando a Londra non per le luminarie o per i negozi, ma per iniziare
una nuova vita. John Watson era stato assunto in un piccolo centro
medico come dottore generico, mentre John Rowling si doveva sposare. I
due giovani uomini ridevano e scherzavano, parlando di commilitoni e
parenti.
John Rowling giocherellava
inconsciamente con un anello d’argento, che portava
all’anulare sinistro. Lo sguardo dell’amico cadde su quel
movimento e lo osservò per qualche secondo, prima di inclinare
la testa e sussurrare: “Sembra molto pesante.”
Rowling aggrottò la fronte, confuso dall’affermazione dell’altro: “Di che cosa stai parlando?”
Watson indicò la piccola
fede con un dito: “L’anello di fidanzamento. Lo stai
rigirando fra le dita da quando siamo partiti. È così
fastidioso?”
Rowling appoggiò i gomiti
sui braccioli della poltroncina, intrecciando le dita sullo stomaco e
guardando fuori dal finestrino. Il buio gli impediva di vedere il
paesaggio, che scorreva rapido di fianco al treno, ma gli era difficile
sostenere lo sguardo dell’amico. Non voleva leggervi pietà
o compassione.
“Ti ricordi che io non ho
incontrato la mia anima gemella e che non ho nemmeno un anello di
fidanzamento al dito, vero?” Mormorò Watson comprensivo,
come se avesse letto nella mente dell’altro.
Con un sorriso sbilenco, Rowling
tornò a voltarsi verso l’amico: “In una
società in cui, se non mostri il simbolo del legame con la tua
anima gemella, tutti ti guardano come se fossi un essere inferiore, tu
hai sempre l’aria di chi non saprebbe che cosa farsene.”
“In realtà, ben il 36%
della popolazione mondiale non incontra la propria anima gemella,
durante la propria esistenza. Come vedi, siamo in buona compagnia. Se
il destino ha deciso in questo modo, chi sono io per lamentarmene? La
mia vita è comunque completa. Sono utile alla società
perché ho un lavoro. Ho degli amici. Un giorno potrei incontrare
qualcun altro, che non abbia trovato la propria anima gemella, e
innamorarmi di lui o lei. Non sarebbe la stessa cosa, certo, ma chi
assicura che il legame sia meglio? Ci sono coppie formate da anime
gemelle che vivono l’inferno, mentre altre che, pur non avendo
questo tipo di rapporto, trascorrono un’esistenza in armoniosa
felicità. La perfezione della vita in coppia con l’anima
gemella è solo un mito.”
“Tu avrai anche ragione,
Watson, ma sai che sei uno dei pochi a pensarla così. E tutti ti
direbbero che lo credi solo perché non hai incontrato la tua
dolce metà. Inoltre, tu sei un medico e hai un futuro, malgrado
l’esercito ti abbia congedato. Io ero un artificiere. Dove vuoi
che riesca a trovare un lavoro?”
“Ciò non toglie che si
veda benissimo che vorresti toglierti quel peso dal dito e buttarlo
fuori dal finestrino.”
Rowling sospirò. Non poteva
negarlo. Sapeva quanto fosse evidente che non avrebbe mai voluto
portare quell’anello. E non solo perché era un segno
palese della morte della sorella: “Non posso fare altrimenti. Se
non accettassi di prendere il posto di Kathy, Moran toglierebbe ogni
sostegno economico alla mia famiglia. Se fosse solo per Trent, non
esiterei un solo istante a mandarli tutti al diavolo, ma mia madre e i
gemelli non meritano di soffrire solo perché il mio caro
patrigno è una carogna e un fallito.”
Watson scosse la testa: “Non
capirò mai perché sia stata mantenuta questa usanza
medievale. Nei tempi antichi poteva avere un senso. Costringere un
altro membro della famiglia a sposare il compagno dell’anima
gemella, che era morta, serviva a mantenere le alleanze raggiunte
tramite il primo matrimonio. Ora non serve più a nulla.
Però, solo perché Moran è ricco e potente,
pretende di continuare a presentarsi in pubblico con un’anima
gemella, anche se tua sorella è morta.”
“Lo sai. Ne va del suo
prestigio. Presentarsi in pubblico senza la sua anima gemella sarebbe
uno smacco incalcolabile alla sua immagine. Proprio perché
è così potente, lui non ha solo una anima gemella, ma ben
due. Certo, il legame con la seconda è molto minore, ma lui
rimane pur sempre un essere completo, non qualcuno con un cuore e
un’anima a metà. Lui è perfetto, non è
difettoso come me o te, che vediamo e vedremo per sempre il mondo in
bianco e nero, completamente privo di colori,” la voce di Rowling
era diventata sempre più furiosa, man mano che continuava a
parlare. Il respiro era affannato, come se lottasse contro
l’istinto di mettersi a urlare. Watson allungò una mano,
per coprire quelle di Rowling, che le stringeva in modo convulso:
“Sono sicuro che andrà tutto bene. Vedrai che questo Moran
sarà un uomo comprensivo. Nel contratto che avete firmato, sei
obbligato alla fedeltà coniugale, ma non ad assolverne gli
obblighi. Quando la tua famiglia avrà raggiunto una sicura
stabilità economica, potrai divorziare e farti una vita tua.
Potresti persino incontrare la tua anima gemella.”
Rowling inspirò un paio di
volte, per calmarsi. Sorrise imbarazzato all’amico: “Scusa
per lo sfogo…”
“Non devi dirlo nemmeno per scherzo. A che cosa servono gli amici?”
“Grazie… per
tutto… non sai quante volte ho sperato che tu fossi la mia anima
gemella. È un vero peccato che siamo solo amici.”
“Migliori amici, però.
Sai che io ci sarò sempre. Anche quando tu sarai un ricco
bastardo sposato e annoiato, io ti porgerò sempre una spalla su
cui piangere,” ridacchiò Watson, con un ghigno sardonico.
“Se ci sarà qualcuno
che piangerà, quello sarai tu! Io avrò una bella casa
lussuosa e tu abiterai in un piccolo monolocale alla periferia di
Londra, che sarà grande come il mio bagno personale.
Vorrà dire che qualche volta ti inviterò a cena, per
farti vedere come sia la vera vita,” ribatté l’altro
con un sorriso sarcastico.
“E sia! Io ti concederò persino di pagare il conto. Tanto i soldi saranno di tuo marito…”
Il silenzio calò fra i due
uomini. Rowling aveva ripreso a giocherellare con l’anello,
immerso nei propri pensieri. Watson gli concesse un momento tutto per
sé. Sapeva che l’amico aveva molto su cui riflettere e che
la decisione presa avrebbe influenzato la sua vita futura in modo
profondo.
“E se, dopo il matrimonio, io
incontrassi la mia anima gemella? Non potrei stare con lei…
saremmo due essere infelici…” mormorò infine, a
voce così bassa che Watson fece fatica a sentirlo.
“Se dovesse accadere, saprete che cosa fare. Lo deciderete insieme,” Watson rassicurò Rowling.
Con un gesto improvviso, Rowling si tolse l’anello e lo porse a Watson: “Mettitelo.”
“Perché?” Domandò l’altro stupito.
“Giusto per vedere come ti stia e per sapere se lo senti così… alieno… anche tu.”
“Non sarà mai la
stessa cosa, JR. Per me non rappresenta nulla. Non è il mio
anello di fidanzamento. Fortunatamente, o forse no, Harry non si
è legata e sposata con qualcuno così ricco da pretendere
che io prendessi il suo posto, quando hanno divorziato,”
ribatté Watson, sconcertato.
“Fammi questo favore, JW.
Voglio vedere quell’anello indosso a qualcun altro. Forse mi
convincerò che sposare quell’uomo sia giusto.”
Con un sospiro, Watson prese
l’anello, se lo infilò e allungò la mano verso
l’amico, in modo che potesse ammirare come apparisse il gioiello
che gli procurava tanti pensieri. Trascorsero alcuni secondi, prima che
Rowling dicesse qualcosa: “Visto su di te, sembra innocuo. Un
ornamento semplice e quasi bello, da vedere. Quando lo indosso io,
invece, lo sento opprimente, soffocante.”
Prima che Watson potesse replicare,
un pianto disperato sovrastò l’allegro chiacchiericcio
della carrozza, che si spense immediatamente. La voce di una donna,
preoccupata e allarmata, era l’unico altro suono che si udisse:
“Mark! Che cosa hai fatto! Ti avevo detto di non saltare sul
sedile! Oddio, quanto sangue…”
John Watson si alzò dal
proprio posto, prendendo la borsa da medico dalla rastrelliera e
andando verso la fonte del pianto convulso. Un bambino moro, che doveva
avere cinque o sei anni, era seduto sul pavimento della carrozza e
aveva il viso inondato di sangue. La presenza di una macchia di sangue
sul bordo del tavolino, posto fra i sedili, evidenziava come il bambino
fosse caduto dalla poltroncina, battendo la fronte.
“Mi scusi, signora, mi chiamo John Watson e sono un medico. Posso aiutarla?”
La giovane donna, con i capelli
corvini e profondi occhi neri, rivolse un sorriso grato al medico:
“La ringrazio molto, dottore. Non ho nulla per fermare il
sangue.”
John si accucciò di fianco
al bambino, prendendolo sotto le ascelle e mettendolo a sedere su uno
dei sedili. Sollevò il mento del piccolo delicatamente e
studiò il taglio presente sulla fronte: “Oh, non sembra
nulla di grave. Ora lo disinfetto, ma direi che non sia profondo.
Questo genere di tagli sanguina molto, ma, generalmente, non causa
problemi di altro genere. Come ti chiami, ometto?”
Il bimbo tirò su con il naso e singhiozzò la propria risposta: “Mark.”
Il medico si infilò un paio
di guanti monouso e prese del disinfettante e alcune garze dalla
propria borsa: “Che bel nome. Scommetto che sei molto coraggioso,
vero Mark?”
“Mi farai male?”
“Forse brucerà un
pochino, ma, se starai fermo, faremo in fretta e sarà come se
non fosse successo nulla.”
Il bambino chiuse la bocca, ma le
labbra tremavano leggermente. La madre si era seduta accanto a lui e
gli teneva una manina fra le sue, mentre John procedeva a disinfettare
il taglio: “Sei proprio bravo. Non ti rimarrà nemmeno la
cicatrice. Ora mettiamo un paio di cerottini e guarirai prestissimo.
Hai sentito male?”
Il bambino gonfiò il petto e sorrise: “No. Io sono coraggioso.”
“Ecco fatto. Ora fai a modo e obbedisci alla mamma.”
“Grazie di tutto, dottore. – sorrise la giovane donna – È stato veramente gentile.”
“Dovere, signora,” Watson ricambiò il sorriso.
“Auguri per il suo matrimonio. Merita tanta felicità,” aggiunse la donna, con calore.
“Come?” Domandò John, interdetto.
La donna indicò la piccola fede ad dito del medico: “L’anello di fidanzamento.”
Il dottore si guardò la mano
e fece una smorfia: “Ah, questo. Non…” la frase
rimase a metà. Un fragore violento e urla di terrore furono gli
ultimi suoni che John Watson udì, mentre veniva sollevato e
gettato lungo la corsia centrale della carrozza, volando come se fosse
stato una foglia trasportata da un vento dispettoso.
E poi tutto fu buio e silenzio.
Angolo dell’autrice
Il primo capitolo si chiude qui.
Spero di avervi incuriosito e che sarete ancora qui, domani, per il
secondo capitolo. Non fatevi spaventare dal termine angst. Questa
è una commedia, non una tragedia, anche se non mancherà
un po’ di dramma.
Intanto, grazie a chi sia arrivato fino a qui e a chi voglia lasciare qualche riga di commento.
A domani.
Ciao!
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Capitolo 2 *** Senza memoria ***
Senza memoria
Il
giovane uomo emerse dallo stato di incoscienza come se stesse risalendo
troppo velocemente da una immersione in acque profonde. Tutto sembrava
lontano e attutito. I suoni erano indistinti e di difficile
identificazione. Sentiva delle voci e dei rumori, ma erano così
tenui e confusi da essere incomprensibili. Il suo stesso corpo si
rifiutava di rispondere agli ordini che il cervello gli inviava.
Avrebbe voluto aprire gli occhi, ma le palpebre non si alzavano, troppo
pesanti per muoversi anche solo di un millimetro. Braccia e gambe
sembravano intrappolate da stretti lacci da cui non riuscivano a
liberarsi. E sentiva male ovunque. In ogni parte del corpo. Persino
sollevare il petto, per permettere ai polmoni di dilatarsi leggermente
e immettere un po’ d’ossigeno nel sistema respiratorio, gli
procurava un dolore così lancinante da desiderare di non
respirare più, pur di mettere fine a quell’agonia.
Rimanere nell’oscurità sembrava la soluzione migliore e il
giovane uomo decise di lasciarsi nuovamente fagocitare dal buio, privo
di dolore e di sogni.
Senza memoria
L’uomo riemerse nuovamente
dal buio. L’unico suono, che sentiva, era il regolare bip di
un’apparecchiatura elettronica. La mente del giovane lo
associò subito a uno strumento medico, che misurava i parametri
vitali di un malato: “Chi è il paziente? Che cosa gli è accaduto?”
Si chiese il giovane uomo, prima di aprire gli occhi. Con molta fatica,
le palpebre si sollevarono. Ovunque si trovasse, il luogo aveva una
luce fioca, che non infastidì le pupille. Il giovane uomo fece
un inventario mentale delle parti del proprio corpo, cercando di
ottenere qualche risposta, anche minima. Con un certo sollievo,
percepì una reazione da ogni arto che voleva muovere. Il dolore
era molto meno intenso. Solo la testa gli doleva ancora in modo
lancinante, rendendogli quasi faticoso anche il solo pensare. Il ritmo
del cuore era leggermente accelerato, ma poteva essere l’ansia
che accompagnava il risveglio in un luogo sconosciuto. Un lieve rumore
gli fece girare lentamente la testa verso la sua fonte. Una porta era
stata aperta e una donna mora di mezza età, non molto alta e in
sovrappeso, vestita con un camice azzurro, si avvicinò
all’uomo, sorridendogli con simpatia: “Finalmente si
è svegliato, signor Rowling. Ci ha fatto preoccupare, sa?”
L’uomo fissò la donna interdetto. “Chi è il signor Rowling?”
Si domandò, ma tentò di chiedere altro:
“Dove…” fermandosi subito. La gola era in fiamme,
riarsa e incapace di emettere suoni comprensibili. Gli sembrava di
avere ingoiato un intero deserto di sabbia.
“Non cerchi di parlare.
– lo interruppe l’infermiera, prendendo un bicchiere con
una cannuccia dal ripiano vicino al letto e aiutando l’uomo a
tenere sollevata la testa – Beva un sorso d’acqua…
lentamente… così… bravo… meglio?”
“Sì… grazie…” sorrise l’uomo, appoggiando delicatamente la testa al cuscino.
“Vado a chiamare il dottore, signor Rowling. Non cerchi di alzarsi,” sorrise ancora la donna, uscendo.
Rimasto solo, l’uomo
cercò di capire che cosa fosse accaduto. Era sicuramente
ricoverato in un ospedale, ma non riusciva a ricordare come vi fosse
arrivato e perché. La sua mente era vuota. Completamente.
L’uomo tentò di ricostruire il proprio passato. Quando e
dove fosse nato. Come si chiamassero i suoi genitori. Se fossero ancora
in vita. Se avesse dei fratelli o delle sorelle. Se avesse una moglie o
un marito o un fidanzato o un’amante. Se avesse un lavoro. Se
fosse una persona perbene o un delinquente. Il suo nome di battesimo.
Nulla.
La sua mente era una tabula rasa. Qualsiasi domanda si ponesse, non otteneva risposta: “Come è possibile? Che cosa mi è successo?”
Il ticchettio dell’apparecchio per il monitoraggio dei segni
vitali si fece sempre più rapido, mentre il respiro diventava
sempre più affannoso. La porta fu spalancata da un uomo, che si
avvicinò rapidamente al letto, afferrando il polso del paziente
e parlando dolcemente: “Si calmi, John. Respiri…
così… lentamente… inspiri… espiri…
bravo… continui così… bene…”
Il ticchettio
dell’apparecchio cominciò a rallentare. John iniziò
a respirare normalmente. Il medico gli tenne il polso fino a quando il
paziente si calmò completamente: “Sono il dottor Paul
Banner. Sono il suo medico da quando è stato ricoverato.”
“Dove… perché… da quanto…” sussurrò John, con un filo di voce rauca.
“Si trova all’Ospedale
Saint Bartholemew di Londra. È stato tenuto in coma
farmacologico per due giorni, dopo essere stato coinvolto in un
incidente ferroviario.”
“Non… ricordo…”
“Si tratta di una condizione momentanea e normale…”
“NON.RICORDO.NULLA!” Urlò John, nel tono più alto che riuscì a trovare.
Il dottor Banner lo fissò interdetto: “Nulla?”
“Nulla. Chi sono. Cosa faccio. Se ho famiglia. Nulla,” ribadì John, in un sussurro.
“Capisco. Farò venire
un neurologo e faremo degli esami. Il trauma cranico potrebbe essere la
causa della sua perdita di memoria. Non deve agitarsi. Le faccio
somministrare un blando sedativo, ma non vorrei darle una dose troppo
forte. Capisco che la situazione le possa sembrare disperata, ma,
quando si riportano ferite come le sue, è possibile soffrire di
un’amnesia temporanea. Nella maggioranza dei casi, si risolve
senza interventi. Forse ci vorrà un po’ di tempo, ma non
deve perdere la speranza.”
“Il tempo risolve ogni cosa?”
“Le statistiche sono tutte a suo favore,” sorrise il dottor Banner.
“Spero che abbia ragione. È così… strano…”
“Si riposi. Faremo gli accertamenti necessari.”
John sentì le palpebre
nuovamente pesanti. Non lottò per rimanere sveglio. Forse,
quello era solo un brutto sogno e al risveglio avrebbe scoperto che era
tornato tutto alla normalità.
John si svegliò da un sonno
agitato e notò una donna seduta accanto al letto, che lo fissava
con apprensione. Il giovane osservò la donna, cercando di
ricordare chi fosse. Era minuta e bionda. Doveva avere superato da poco
i cinquanta anni. Gli occhi azzurri erano cerchiati da profonde
occhiaie scure. Sembrava che negli ultimi giorni avesse pianto molto e
dormito poco. Per quanto frugasse nella propria memoria, John non aveva
proprio idea di chi fosse quella donna: “Buongiorno,
signora,” la salutò.
La donna si portò le mani
alla bocca, prima di rispondere: “Non… non sai chi
sono?” Domandò, esitante.
“Mi dispiace, non la riconosco. Non ricordo nulla del mio passato…”
La donna prese una mano di John fra le proprie: “Povero caro, mi dispiace tanto,” sussurrò.
“Immagino che ci conosciamo. Siamo parenti?”
Per un attimo, la donna
abbassò lo sguardo, come se si vergognasse di guardare il
giovane uomo negli occhi. Fu un lampo, che John non fece in tempo a
notare: “Io… io… io sono tua madre,” disse
infine la donna.
“Oh.”
“Il medico ci ha riferito che hai perso la memoria,” riprese la donna.
“Mi dispiace…”
“Non è colpa tua,
caro. – la donna interruppe John, stringendogli la mano con
più forza – L’importante è che tu sia
vivo… per il resto… forse la memoria
tornerà… anche se non dovesse succedere… ti
costruirai nuovi ricordi…” la voce si ruppe, come se la
donna non potesse aggiungere altro.
John non sapeva che cosa dire o
fare. Quella donna gli era completamente estranea, ma provava una certa
compassione per una persona che non era più riconosciuta dal
proprio figlio: “Mi vuole… vuoi… raccontare
qualcosa sulla nostra famiglia?”
“Volentieri. – sorrise
la donna – Io mi chiamo Allyson Mills. Ho incontrato tuo padre,
la mia anima gemella, quando eravamo entrambi alle superiori. Lui si
chiamava Dean Rowling. Quando si è creato il legame, è
stato uno dei giorni più belli della mia vita. Ci siamo sposati
appena abbiamo terminato l’università e sei arrivato tu.
Siamo stati molto felici. Veramente. Alcuni anni dopo è nata tua
sorella Kathy. Purtroppo… purtroppo Dean è morto in un
grave incidente stradale. Eravamo rimasti soli. Tu, Kathy ed io.
All’inizio è stato molto duro. Tu avevi appena nove anni,
Kathy sei. Io… io mi sentivo completamente persa, senza tuo
padre. Poi… poi… un giorno ho incontrato un altro uomo.
Si chiama Trent Davemport. Ero a una festa di compleanno di una
collega. Lui era un amico di un amico della mia collega. Trent mi ha
fatto ridere… era tanto tempo che non ridevo in quel modo. Mi ha
fatto riscoprire la gioia di vivere. Mi ha fatto sentire ancora bella e
desiderabile. Me ne sono innamorata e ci siamo sposati. Tu non hai
voluto assumere il suo cognome, perché ti sembrava di rinnegare
tuo padre. Alcuni anni dopo sono nati i gemelli. Hai sempre voluto bene
ai tuoi fratellastri. Ora hanno tredici anni. Tu hai lasciato la nostra
casa, quando hai compiuto diciotto anni e ti sei arruolato
nell’esercito. Kathy ha trovato la propria anima gemella e si
è sposata con lui. Purtroppo, anche Kathy ci ha lasciato. Lei
era rimasta incinta. Ci sono state delle complicazioni durante il
parto. Il suo bambino è nato e sta bene, ma tua sorella è
morta. Tu sei stato congedato con onore dall’esercito, dopo
essere stato ferito durante una missione in Afghanistan. Ora ti trovi
in ospedale, perché stavi venendo a Londra in treno, quando il
convoglio su cui viaggiavi è deragliato. Ci hai fatto
spaventare, ma non hai riportato ferite gravi.”
La donna si fermò. Mentre
raccontava della propria storia, aveva mantenuto un tono basso e
uniforme. Lo sguardo era assente, lontano, come se stesse rivivendo le
gioie e i dolori, che avevano punteggiato la sua vita. John la aveva
ascoltata con attenzione, ma niente, di quello che la donna aveva
narrato, gli aveva acceso qualche ricordo: “Mi dispiace per le
tue perdite. È stata una vita difficile,” si sentì
in dovere di mormorare, per consolare la madre.
La porta si aprì e un uomo
alto, moro, con profondi occhi verdi, fece il proprio ingresso nella
stanza. Il suo portamento era elegante. I vestiti che indossava erano
molto costosi. Il suo atteggiamento arrogante e sicuro, come se
quell’uomo fosse il padrone del mondo intero: “Come stai
John?” Chiese, con un sorriso freddo, che non raggiunse gli occhi.
“Meglio. Grazie. Lei chi è?” Ribatté John, irrigidendosi.
“Sebastian Moran,” rispose l’uomo, come se questo spiegasse tutto.
John lo fissò seriamente, in
attesa di ulteriori spiegazioni. Fu la madre a presentare l’uomo:
“Sebastian è stato il marito di tua sorella Kathy. Voi non
vi siete mai incontrati. Quando Sebastian e Kathy si sono sposati, tu
eri all’estero e non sei riuscito a ottenere un permesso per
presenziare alle nozze. Alla morte di tua sorella eri ricoverato in un
ospedale militare lontano da Londra e non eri in grado di sostenere un
viaggio per venire al funerale.”
“Ho parlato con il medico. Mi
ha detto che non ricordi nulla. Immagino che in quel nulla sia compreso
anche il nostro matrimonio,” intervenne Moran.
“Matrimonio?” Chiese John, interdetto.
“Il nostro. La cerimonia si
terrà fra quindici giorni. Fra una settimana ci sarà una
festa per presentarti in società, ai miei amici e
conoscenti,” rispose Sebastian, in tono secco e perentorio.
“E perché mai dovremmo sposarci, se non ci conosciamo nemmeno?”
“Perché questa
è la tradizione. Hai accettato il mio anello, John. È
quello che porti all’anulare della mano sinistra. Hai firmato il
contratto prematrimoniale. Non mi interessa che tu non ricordi nulla.
Mantieni la parola data o taglierò tutti i fondi alla tua
famiglia.”
I due uomini si fissarono per
qualche secondo. John non sapeva che cosa ribattere. Allyson non osava
guardare il figlio negli occhi. Moran sorrise, gelido: “Il medico
mi ha detto che ti dimetteranno fra tre giorni. Ti verrà a
prendere il mio autista personale, che ti porterà
all’hotel in cui ho prenotato le stanze per te e i tuoi genitori,
dove alloggerete fino al giorno del matrimonio. Tu, intanto, rispolvera
le nostre tradizioni e capirai che non hai altra scelta che sposarmi. A
presto,” concluse, girandosi e uscendo dalla stanza.
John fissò a lungo la porta.
Non sapeva che cosa pensare. Spostò lo sguardo sulla donna
seduta accanto al letto. Gli stringeva la mano convulsamente, ma
fissava il pavimento. Lui non ricordava nulla. Il ticchettio del
rilevatore dei segni vitali risuonava nella stanza rapido. John si
sentiva preso in una trappola, dalla quale non avesse alcuna
possibilità di fuggire.
Angolo dell’autrice
E Sherlock? Dove è il nostro
consulente investigativo preferito? Quando comparirà nella
storia? Portate pazienza fino a domani. Sherlock Holmes farà il
suo trionfale ingresso e la sua strada si incrocerà con quella
di John. Qualsiasi sia il suo cognome.
Grazie per avere letto fino a qui. Grazie a chi abbia segnato la storia in qualche categoria.
Grazie a CreepyDoll per il commento al primo capitolo.
Se volete lasciare un commento, siete sempre benvenuti.
A domani!
Ciao!
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Capitolo 3 *** Un ballo in villa ***
Un ballo in villa
Era
stata una delle prime giornate veramente fredde di quello strano
inverno. La gente camminava frettolosamente per le strade di Londra,
rifugiandosi velocemente in luoghi caldi e accoglienti. Persino i
turisti non si attardavano troppo ad ammirare le luminarie e le
vetrine, ma cercavano rifugio nei locali, nei musei, nelle chiese e nei
negozi, sempre più affollati.
L’auto nera era parcheggiata
davanti al 221B di Baker Street. Chiunque la vedesse, capiva subito che
doveva appartenere a qualcuno di importante. I vetri oscurati non
permettevano di capire se vi fosse qualcuno all’interno, ma
l’autista era appoggiato pigramente all’auto. Se qualcuno
lo avesse osservato con attenzione, avrebbe notato l’espressione
di rassegnata pazienza, dipinta sul viso dell’uomo giovane e
moro. Malgrado il giaccone lo avvolgesse completamente in un caldo
abbraccio, non si poteva non notare il suo fisico perfettamente
allenato. Con lo sguardo scorreva la via, in modo indolente, ma i sensi
erano all’erta e l’uomo era pronto a scattare, al minimo
segnale di un pericolo. L'autista sapeva perfettamente che
l’unico problema, in quel momento, era rappresentato dal fratello
minore del suo capo e che, probabilmente, Mycroft Holmes, l’uomo
ai cui ordini obbediva, lo avrebbe chiamato per trascinare il giovane e
recalcitrante Sherlock Holmes fuori di casa. Il ballo li attendeva e
loro non potevano mancare.
Un ballo in villa
L’uomo dai capelli brizzolati
sospirò. Attraverso il legame, sentiva chiaramente
l’irritazione crescente del marito per il comportamento infantile
del fratello minore. Gregory Lestrade stava cercando di convincere il
giovane cognato Sherlock Holmes ad andare al ballo con loro, prima che
il marito Mycroft Holmes perdesse la pazienza e decidesse di adottare
le maniere forti.
Sherlock Holmes indossava una
vestaglia viola su una t-shirt bianca e un paio di pantaloni
appartenenti a un pigiama blu. Il giovane uomo era seduto
scompostamente su una poltrona. Una delle lunghe gambe penzolava
indolente su uno dei braccioli, mentre l’altra era appoggiata sul
tavolino posto fra le due poltrone sistemate accanto al caminetto, in
cui brillava un fuoco vivace. Con le mani stringeva un violino e
l’archetto, ma erano le lunghe dita affusolate della mano destra
a pizzicare le corde dello strumento, che emetteva suoni striduli e
fastidiosi. Il consulente investigativo, come lui stesso si definiva,
non guardava nessuno dei due uomini presenti nella stanza. Sapeva che
il fratello si stava arrabbiando e ne era divertito, più che
preoccupato. In fin dei conti, Mycroft voleva solo costringerlo a
partecipare a un noiosissimo ballo. Sherlock era conscio del fatto che,
alla fine, sarebbe stato costretto a cedere alle pressioni del
fratello, ma voleva fargli pagare con gli interessi il tedio che
avrebbe dovuto sopportare.
“Sherlock, smettila di
comportarti come se tu avessi cinque anni. Ti avevamo avvertito che
saremmo passati a prenderti per andare al ballo di Lord Moran,”
stava dicendo Greg, in tono quasi supplice.
“Non mi sembra di avere mai
risposto che sarei venuto,” puntualizzò Sherlock, suonando
l’ennesimo accordo dissonante.
“Adesso basta! Vai a
prepararti o faccio salire Adam e gli ordino di vestirti con la
forza!” Ringhiò Mycroft, facendo picchiare la punta
dell’ombrello nero sul pavimento.
Sherlock non si scopose, ma
alzò un sopracciglio, fissando il fratello con uno sguardo di
ostentato rimprovero: “La signora Hudson non apprezza che si
faccia tanta confusione.”
“Mycroft! Ci penso io!”
Intervenne Lestrade, attraverso il loro legame. Il poliziotto si
rivolse al giovane Holmes a voce alta: “Non vuoi proprio aiutarmi
a prendere il ladro, di cui ti ho parlato? Ha fatto dei colpi in molti
paesi stranieri. Se noi risolvessimo il caso, ci sarebbe una ricaduta
positiva e prestigiosa a livello internazionale sia per Scotland Yard
sia per te.”
“Non è sicuro che il ladro sia presente al ballo. Perché dovrei venire ad annoiarmi a morte
a una festa di fidanzamento di gente che non conosco nemmeno? E che non
mi interessa conoscere. Vorrei anche dire che trovo ridicolo che questo
Moran si fidanzi e sposi il fratello della sua defunta anima gemella.
Questa usanza è medievale, barbara, sorpassata,
stupida…”
“Non siamo interessati a
conoscere la tua opinione sulle tradizioni della nostra nazione,
Sherlock. Vatti. A. Vestire!” Lo interruppe Mycroft, in tono
esasperato e minaccioso.
Il giovane Holmes assunse
un’espressione pensierosa: “Quindi, quando tu morirai a
causa di tutti i dolci con cui ti ingozzi regolarmente, alle spalle di
Gary, io dovrò sposarmi con il tuo vedovo?”
“NO!” Sbottarono all’unisono Mycroft e Greg.
Sherlock non nascose un ghigno sardonico: “Perché tu non sei così importante come vuoi farmi credere?”
Lestrade si passò una mano
fra i capelli brizzolati: “Sherlock… per favore…
vieni o farò in modo che nessuno a Scotland Yard ti chieda
più di collaborare alle indagini,” lo minacciò.
Sherlock si irrigidì: “Non oseresti. Se tu lo facessi, a Scotland Yard non risolvereste più un caso!”
“Non mettermi alla prova.”
Sherlock e Greg si fissarono negli
occhi per qualche secondo. Il giovane Holmes vide la determinazione
nello sguardo del cognato e strinse le labbra in una linea sottile:
“E va bene! Verrò a quella noiosissima festa, ma voglio
che sia messo agli atti che cedo al tuo ricatto
solo per il bene del nome di Scotland Yard. Tu sei così cocciuto
che mettesti veramente in pratica la tua minaccia, anche a costo di
permettere agli assassini di scorrazzare liberi per Londra. Lo faccio
per la giustizia, non per te né per mio fratello,”
sbottò Sherlock, alzandosi in piedi di scatto e andando a passo
di marcia verso la propria stanza.
Mycroft e Greg si scambiarono uno
sguardo tra il soddisfatto e il preoccupato. Avevano ottenuto quello
che volevano, ma non erano sicuri che Sherlock non gliela avrebbe fatta
pagare in qualche modo.
La villa di Sebastian Moran
occupava tutto un isolato nella prima periferia di Londra.
L’edificio vero e proprio era circondato da un enorme parco, che
nascondeva la villa a sguardi indiscreti. Il grande cancello era
spalancato per permettere l’ingresso degli invitati. Mentre
l’auto nera percorreva il vialetto, che conduceva alla villa,
Sherlock osservò l’edificio emergere dalle fronde degli
alberi. Le luci del piano terra risplendevano nella notte, sfarzose e
fastidiose, oscurando completamente i piani superiori. I tre uomini
scesero dall’auto ed entrarono nella villa, accolti da risate,
chiacchiere e musica. Sherlock storse il naso, ma Mycroft gli
afferrò un polso, sibilandogli in un orecchio: “Non fare
nulla che mi metta in imbarazzo o giuro che la tua carriera come
consulente investigativo finirà stanotte.”
Sherlock alzò gli occhi al
cielo e si liberò dalla stretta del fratello: “Spera che
il ladro sia qui e lasciami lavorare. Potrei essere io quello che deciderà di non aiutarti più, quando verrai a supplicarmi di risolvere quei casi in cui i tuoi inefficienti uomini brancolano nel buio.”
Greg lanciò
un’occhiata verso i due fratelli, pronto a intervenire per
dividerli, ma non fu necessario. Entrambi si stamparono un sorriso di
circostanza sulle labbra e si diressero verso il padrone di casa, che
accoglieva gli ospiti davanti alla porta che dava nella sala da ballo.
Sherlock studiò Sebastian Moran, un pari d’Inghilterra che
aveva visto molte volte sorridente dalle pagine dei giornali. Era alto,
moro, con gli occhi verdi e un sorriso glaciale sempre presente sulle
labbra: “Mycroft! Mi fa piacere che tu abbia trovato il tempo di
venire alla mia piccola festa,” li accolse, in tono mellifluo,
allungando una mano.
Il maggiore degli Holmes prese la
mano che gli era stata porta e la strinse brevemente: “Non sarei
mai potuto mancare, Sebastian. Non capita tutti i giorni di festeggiare
un’unione con la seconda anima gemella.”
“In effetti, sono stato molto fortunato. Permettimi di presentarti il mio futuro marito, John Rowling.”
L’attenzione di Sherlock si
spostò sull’uomo in piedi accanto a Moran. Doveva avere
solo qualche anno in più di Sherlock stesso. Non era molto alto,
ma ben proporzionato, con un fisico atletico e allenato, che lo smoking
nero non riusciva a nascondere. Anche se il suo mondo era tutto in
bianco e nero, Sherlock associava le tonalità e le variazioni
del grigio ai vari colori che non riusciva a percepire. Dedusse,
quindi, che i capelli erano biondi, anche se si intravedeva qualche
filo che doveva essere veramente grigio. Gli occhi erano di un azzurro
profondo. Il sorriso che stirò le sue labbra stanche era
sincero. Dal portamento, si capiva che il giovane futuro sposo aveva un
passato militare. Ogni tanto trasaliva, come se qualcosa gli facesse
male. Sherlock ricordò di avere letto che l’uomo era
rimasto coinvolto nell’incidente ferroviario accaduto poche
settimane prime alle porte di Londra, in cui erano morte quattro
persone.
“Piacere di fare la sua conoscenza, signor Holmes,” John salutò, in tono gentile.
“Piacere mio, signor Rowling.
Mi permetta di presentarle mio marito, l’ispettore di Scotland
Yard Gregory Lestrade, e mio fratello Sherlock.”
John rivolse un sorriso e
allungò una mano a salutare i due uomini. Solo in quel momento
Sherlock si rese conto che John indossava un paio di guanti di pelle
nera. La sua espressione si fece dura, quando ricordò che
l’uomo non aveva e non avrebbe mai trovato la propria anima
gemella, perché un’usanza troglodita lo avrebbe legato a
un uomo che per lui non sarebbe mai stato nulla. Anche Sherlock non era
legato a nessuno. Lui non dava importanza alla cosa. Affermava sempre
che avere dei legami e degli obblighi verso qualcuno avrebbe ostacolato
il suo Lavoro. In realtà, il giovane Holmes non voleva ammettere
nemmeno con se stesso che temeva di non trovare nessuno capace di
accettarlo così come era.
John vide l’espressione sul
volto di Sherlock indurirsi. Sapeva che molti disapprovavano quello che
lui aveva accettato di fare, perché lo consideravano uno
svilimento del reale significato del legame che univa due vere anime
gemelle. Una parte di lui concordava con loro, ma lui lo stava facendo
per la propria famiglia e non si sarebbe mai tirato indietro.
Abbassò gli occhi e strinse le spalle, assumendo inconsciamente
la posa tipica di un militare che eseguiva gli ordini ricevuti da un
superiore. Rialzò la testa giusto in tempo per vedere gli Holmes
entrare nella sala da ballo. John riprese a stringere altre mani
sconosciute, adempiendo al compito che gli era stato affidato.
Gli ospiti erano tutti arrivati ed
era giunto il tempo di dare inizio alle danze. Ad un cenno di Moran, il
direttore dell’orchestra interruppe la musica di sottofondo. Gli
invitati si disposero intorno alla pista da ballo, mentre il padrone di
casa andò al centro, tenendo il futuro sposo per mano. Sebastian
circondò i fianchi di John con un braccio e il direttore
d’orchestra agitò la bacchetta, dando inizio alle danze.
Il valzer viennese d’apertura era solo per i promessi sposi.
Tutti li guardavano, mentre piroettavano rigidamente sulle note di
“Bouquets” di Johann Strauss figlio. Sherlock, in piedi ai
lati con gli altri invitati, sbadigliò, guadagnandosi una
gomitata da Greg e un’occhiataccia da Mycroft. Un angolo delle
labbra del giovane Holmes si sollevò appena in modo sardonico,
per nulla intimorito dalla disapprovazione del cognato e del fratello.
Finito il valzer, gli invitati applaudirono l’esibizione dei
fidanzati, che ringraziarono con un cenno del capo.
“Ringrazio tutti quanti per
avere deciso di condividere con me e John questo momento così
importante e felice per noi. Che le danze abbiano inizio.
Divertitevi,” sorrise Sebastian, rivolto agli ospiti. Prima di
lasciare andare la mano di John, avvicinò la bocca a un orecchio
del promesso sposo: “Io devo occuparmi degli affari di famiglia.
Tu balla con tutti e intrattienili gentilmente. Non ti piacerebbe
vedermi arrabbiato, se qualcuno dovesse venire a lamentarsi di
te,” sibilò, in tono minaccioso.
John si irrigidì, ma non
permise a Moran di andarsene, senza avere ascoltato la sua risposta:
“Non so come tu trattassi mia sorella e non mi interessa.
Ricorda, però, che io non sono lei. Sono un ex militare. Prova a
toccarmi con un solo dito e potresti non averlo più attaccato
alla mano. Spero che ci siamo chiariti.”
I due uomini si fissarono negli
occhi per qualche secondo. John era deciso e risoluto. Sebastian era
furioso. Nessuno si era mai azzardato a ribattere a quello che lui
ordinava. Questo piccolo uomo osava sfidarlo. In casa sua. Davanti a
tutti. Una mano gentile sfiorò un braccio di John, che si
voltò, trovandosi davanti il viso timidamente sorridente di una
giovane donna: “Posso ballare con lei?”
“Certamente,” le sorrise John.
Sebastian si allontanò dalla
sala da ballo. Non poteva fare una scenata durante la festa, ma non
avrebbe mai permesso all’insignificante John Rowling di cavarsela
in quel modo. Presto sarebbero stati sposati e, allora, gli avrebbe
ricordato chi comandava.
La festa procedeva monotona e
lenta. Sherlock aveva iniziato a danzare, per poter controllare meglio
gli invitati. Si trovavano tutti nel grande salone da ballo. Si erano
allontanati solamente alcuni uomini d’affari, che avevano seguito
il padrone di casa nel suo studio. Evidentemente, la festa era servita
anche come diversivo per discutere e raggiungere accordi finanziari e
politici lontano da occhi e orecchie indiscreti. Sherlock sapeva che
nessuno di quegli uomini era il ladro che Greg stava cercando di
arrestare. Per quanto potessero avere commesso qualche reato, Scotland
Yard se ne guardava bene dall’interessarsi degli affari di alcuni
degli uomini più potenti del Regno Unito. Dalla pista da ballo,
il giovane Holmes aveva un’ottima visuale di chiunque fosse nella
sala e poteva osservarne i movimenti senza destare sospetti. Aveva
già escluso che il ladro si trovasse fra i ballerini, se non
altro perché derubare qualcuno sotto gli occhi di tutti sarebbe
stato molto difficile. Sherlock stava cercando di elaborare un piano
per vendicarsi di Greg e Mycroft, che lo avevano costretto a
presenziare a quella festa tediosa, per un caso che si era rivelato non
essere nemmeno da tre. Mentre ballava, gli avevano pestato i piedi
molte volte e qualcuno aveva persino osato fare conversazione. Sherlock
aveva sempre tagliato corto, in modo sbrigativo e sgarbato,
affinché il malcapitato non tentasse di parlargli ancora,
distogliendolo dalla sua (ora non più infruttuosa e inutile)
indagine. L’orchestra terminò di suonare l’ennesimo
valzer. La ragazza con cui Sherlock stava ballando si allontanò,
quasi sollevata dal fatto di non dover continuare a danzare con
quell’individuo certamente bello e affascinante, ma scorbutico e
antipatico. Il consulente investigativo non si degnò né
di salutare la sua ultima compagna di ballo né di osservare chi
fosse la persona che la aveva sostituita. Sherlock afferrò i
fianchi di qualcuno e lo strinse a sé. L’orchestra
suonò le prime note del “Libertango” di Astor
Piazzolla. Sherlock sospirò, convinto che quel pezzo gli avrebbe
procurato diverse pestate di piedi. Invece, la persona con cui stava
ballando riusciva a seguire perfettamente i suoi passi. Sentiva come se
stringere fra le braccia quel corpo particolare fosse… giusto.
Sì, giusto. I guanti potevano indicare che fosse una donna, ma
non sentiva la presenza di un seno contro il proprio petto e il
ballerino aveva muscoli allenati e tonici, come quelli di un atleta.
Sherlock abbassò gli occhi per vedere con chi stesse ballando e
si scontrò con sorridenti e curiosi occhi di quello che doveva
essere il blu più profondo che avesse mai visto.
“Chi sta cercando?” Domandò John, curioso.
A Sherlock bastarono pochi secondi
per capire che il futuro sposo fosse veramente interessato a quello che
lui stava facendo. Si meravigliò di come quel piccolo uomo,
evidentemente stanco e provato dalle ferite non ancora completamente
guarite, riuscisse a seguire i passi di quel tango così ritmato
e complesso, senza sbagliare nemmeno una volta: “Sto sorvegliando
un ladro,” rispose, senza riflettere sulle conseguenza della
propria risposta.
“Un ladro? Al mio ballo di fidanzamento?” Ridacchiò John, divertito.
“Perché no? Ci sono
tante signore riccamente agghindate. Se fossi un ladro, questo sarebbe
il posto adatto per un bel colpo.”
“Mi era sembrato di capire che il poliziotto fosse suo cognato.”
“Infatti. Io sono un
Consulente Investigativo. L’unico al mondo. Ho inventato il
lavoro,” ribatté Sherlock, senza nascondere il proprio
orgoglio per la propria professione.
“Non sapevo che Scotland Yard si facesse aiutare dai dilettanti,” obiettò John.
“Io non sono un dilettante.
Mi vuole aiutare a prendere il ladro, prima che rovini la sua festa?
Potrebbe essere pericoloso,” sussurrò Sherlock, con voce
calda e bassa, sollevando appena le labbra per un sorriso.
“Ha individuato il ladro?” Chiese John, i cui occhi brillarono eccitati.
“La ladra.”
“Ladra? Donna?”
“Oh, sì. Ladra. Donna.
Anche le donne sanno rubare. E questo contesto si addice molto a questa
ladra, in particolare. Bella. Spavalda. Sicura di sé. Ha persino
circuito il giusto accompagnatore, che sta ubriacandosi, inconsapevole
di chi sia realmente la persona che ha portato alla festa.”
“Che cosa dobbiamo fare?”
“Al mio tre, ti lascio. La
donna è bionda, con i capelli corti. Non molto alta, ma con un
fisico perfetto. Indossa un abito nero, senza maniche, con lunghi
guanti bianchi che arrivano al gomito. Si trova alle mie spalle, subito
dietro Lady Smallwood, cui vuole sottrarre la collana che indossa.
Pronto?”
“Pronto,” annuì John, sincero e deciso.
Gli invitati avevano lasciato la
pista da ballo per osservare Sherlock e John ballare. I loro movimenti
erano eleganti e sicuri, fluidi e perfettamente in sincrono. Sembrava
che avessero ballato insieme per tutta la vita. “TRE!”
Urlò Sherlock e i due uomini si precipitarono verso la donna
indicata dal giovane Holmes. Gli invitati li osservarono sbigottiti,
mentre John afferrava Lady Smallwood, spostandola di peso e mettendola
in salvo, e Sherlock intrappolava una donna in una morsa ferrea:
“La tua ladra, Gary. Spero che tu abbia portato le
manette,” disse, con un sorriso trionfante sulle labbra.
La donna cercò di
divincolarsi, ma John arrivò ad aiutare Sherlock e per lei non
vi fu possibilità di fuggire. Greg la ammanettò e
andarono in una sala vicina, dove l’ispettore recuperò i
gioielli rubati: “Bene bene bene. Questa è la fine della
tua carriera, mia cara. Torna pure a casa, Sherlock. Penserò io
alle formalità burocratiche. Domani puoi passare a Scotland Yard
per rilasciare la tua testimonianza.”
Sherlock inclinò la testa di lato: “Mmmm. Sì. A domani,” mormorò, tornando nella sala da ballo.
La musica era ripresa, ma John
stava ancora parlando con Lady Smallwood, scusandosi con lei e
spiegandole il motivo del suo inconsueto comportamento. La donna non
era per nulla arrabbiata, ma quasi divertita dal fuori programma.
Sherlock osservò quello strano piccolo uomo, che aveva accettato
di essere suo alleato, fidandosi ciecamente delle sue parole. John
spostò lo sguardo e vide Sherlock. Gli sorrise, riconoscente per
quella brevissima avventura. Uno strano lampo triste e malinconico gli
attraversò gli occhi. La mascella di Sherlock si
irrigidì. Qualcosa, nel profondo del suo essere, gli urlava che
doveva intervenire, per riportare il sorriso nell’oceano blu che
lo stava avvolgendo. Senza riflettere, si avvicinò a John:
“Mi permette un altro ballo? Vorrei ringraziarla per il suo aiuto
nell’arresto della ladra,” propose, tornando stranamente
formale.
John aggrottò la fronte, leggermente sorpreso: “Volentieri.”
Sherlock afferrò la mano di
John, per condurlo al centro della sala, dove gli altri invitati
avevano ripreso a ballare, dopo la breve interruzione dovuta
all’arresto della ladra. Nessuno dei due si accorse che John
aveva perso un guanto. I loro corpi furono percorsi da un fremito
piacevole e intenso. Si guardarono negli occhi, specchiandosi ognuno
nel blu delle iridi dell’altro.
Angolo dell’autrice
Finalmente tutti i personaggi hanno
fatto il loro ingresso nella storia. O meglio, manca un ultimo
personaggio, che è stato citato nello scorso capitolo e che
entrerà in scena fra qualche capitolo.
Spero che questo nuovo “primo contatto” fra John e Sherlock vi sia piaciuto.
Grazie per avere letto fino a qui. Grazie a CreepyDoll e a 1234ok per i commenti agli scorsi capitoli.
Come sempre, ogni commento è sempre benvenuto.
A domani!
Ciao!
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Capitolo 4 *** Sogno in un valzer ***
Sogno in un valzer
Il ballo era
ricominciato. Sherlock tornò nella sala. Doveva rivedere John.
Non capiva bene nemmeno lui perché, ma era attratto dal futuro
sposo di Sebastian Moran. John stava parlando con Lady Smallwood e
notò il consulente investigativo, che si avvicinava a lui.
“Vorrei ringraziarla per l’aiuto che ci ha dato ad
arrestare una ladra internazionale. So che abbiamo già danzato,
ma siamo stati interrotti. Mi permette di ballare con lei una seconda
volta?” Domandò Sherlock, in tono dolce.
John aggrottò la fronte perplesso, ma le labbra si aprirono in un sorriso: “Volentieri.”
Sherlock prese la mano di John. Nessuno dei due si accorse che il
futuro sposo aveva perso un guanto. Quando Sherlock strinse la mano
nuda di John, un brivido violento attraversò i loro corpi.
Entrambi provarono una vertigine, come se le gambe non riuscissero a
sorreggerli. Strinsero più forte la mano l’uno
dell’altro, per cercare di reggersi a vicenda. Il capogiro
passò, ma in quel breve lasso di tempo il mondo era cambiato.
Sherlock e John aprirono gli occhi e annegarono l’uno nelle iridi azzurre dell’altro.
Sogno in un valzer
Il mondo era esploso in un’infinità di sfumature che non
riguardavano più solo il bianco, il nero e il grigio. Per la
prima volta nella loro vita, Sherlock e John potevano vedere i colori.
Avrebbero dovuto imparare ad abbinare un nome alla tinta
corrispondente, ma questo non era importante. Nella mente di entrambi
gli uomini esplose simultanea la spiegazione di ciò che era
appena avvenuto: loro erano anime gemelle. Sherlock Holmes e John
Rowling erano uno la metà dell’altro. Sherlock e John si
completavano a vicenda.
Si sorrisero.
Felici.
Curiosi.
Eccitati.
Fino al momento in cui John spalancò gli occhi, quando la
consapevolezza di dover sposare Sebastian Moran lo travolse, come una
doccia gelida, portando via la prospettiva di una vita insieme alla
propria anima gemella. Sherlock sentì scivolare via la mano di
John, ma la afferrò saldamente, impedendogli di lasciarlo.
“Va tutto bene, signor Rowling?” Domandò Lady Smallwood, leggermente preoccupata.
John si scosse e le sorrise: “Sì… grazie…
sto bene, Lady Smallwood. Ho solo avuto un leggero capogiro.
Evidentemente l’eccitazione dell’arresto non ha fatto bene
alle ferite, che si stanno ancora rimarginando.”
“Posso portarle qualcosa da bere? Vuole che andiamo a sedere fuori da questa calca?” Chiese Sherlock.
“No, grazie. Se non ricordo male la scaletta, ora
l’orchestra suonerà un valzer lento. Ballare andrà
benissimo.”
Sherlock annuì. John si voltò verso Lady Smallwood: “Grazie ancora per la sua comprensione, milady.”
“È stato un piacere conoscerla, signor Rowling. Spero che
il nostro prossimo incontro sia meno emozionante e movimentato di
questo,” sorrise la donna.
I due uomini si diressero verso il centro della pista da ballo, mentre
l’orchestra attaccò le prime note di “Auld Lang
Syne” di Robert Burns. Le note del famoso valzer, lente e
malinconiche, sembravano la giusta colonna sonora per un legame
impossibile, per dirsi addio ancora prima di conoscersi. Sherlock
strinse John a sé con più forza. Non avrebbe permesso a
nessuno di separarli. Sherlock si era sempre definito un sociopatico
iperattivo. Questo giustificava il fatto che l’universo non gli
avesse permesso di incontrare la propria anima gemella. Come avrebbe
potuto essere la persona che lo completava? Sherlock era incuriosito
dalla risposta, ma anche molto spaventato. Per quanto lui si sentisse
superiore alla maggior parte dell’umanità per intelligenza
e conoscenze, soffriva per non essere accettato dagli altri. Temeva che
la sua anima gemella fosse qualcuno che odiasse il genere umano e che
potesse scatenare il mostro che Sherlock pensava si celasse nel
profondo del proprio animo. Invece, l’uomo che stringeva fra le
braccia in quel momento era una persona gentile, che sapeva rapportarsi
con gli altri. John poteva essere il suo cuore. Qualcuno che gli
insegnasse come rapportarsi con il resto dell’umanità. Un
compagno di avventure. Quando gli aveva chiesto di aiutarlo a prendere
la ladra, John non si era sottratto, non aveva fatto domande o chiesto
spiegazioni, ma si era lanciato con entusiasmo nell’azione. Con
fiducia. In Sherlock. Si erano mossi all’unisono, come se fossero
stati amici da anni. E stava per perderlo. Lo aveva incontrato troppo
tardi. John era il promesso sposo di Sebastian Moran, un uomo potente e
pericoloso che non avrebbe rinunciato al simbolo del proprio status
privilegiato con facilità. Eppure… eppure il destino non
poteva essere stato così crudele da fargli incontrare
l’anima gemella e separarlo da lui prima ancora che potessero
conoscersi bene.
Lui… loro.
Entrambi.
Non doveva pensare solo a se stesso. Ora aveva un’altra persona
per cui preoccuparsi. Di cui prendersi cura. Non era solo lui ad avere
diritto ad essere completo. Felice. Anche John lo meritava. Quel valzer
lento era la colonna sonora non della loro separazione, ma
dell’addio alla sua vecchia vita di uomo solitario e misantropo.
Doveva lottare perché potessero stare insieme. Perché ambedue potessero raggiungere il lieto fine, che meritavano. Come nelle fiabe.
“Non ti credevo così romantico. Quasi melenso.”
Il pensiero apparve nella mente di Sherlock, inatteso e improvviso. Il
giovane Holmes capì subito che non era suo. Abbassò gli
occhi su John, le cui labbra erano appena piegate in un sorriso ironico.
“Telepatia. Interessante,” Sogghignò Sherlock.
“La telepatia è molto
comune fra le anime gemelle. Tu, però, pensi troppo velocemente.
Avrò afferrato sì e no la metà di ciò su
cui stavi riflettendo.”
“Stavo cercando una soluzione al nostro piccolo problema.”
“Sebastian Moran,” sospirò John.
“Già. Sebastian Moran. Il tuo promesso sposo.”
Rimasero in silenzio per qualche secondo, lasciandosi trasportare dalle note malinconiche del valzer.
“Mi dispiace,” sussurrò John, nella mente di Sherlock.
“Per cosa?”
“Ho causato io il problema. Se
io non avessi firmato il contratto con Sebastian, noi avremmo potuto
conoscerci meglio e instaurare un vero rapporto da anime gemelle.”
Sherlock scrollò le spalle: “Chi
può dirlo con sicurezza? Forse dovremmo affrontare un altro
problema. Oppure, non ci saremmo mai incontrati. Posso assicurarti che
troveremo una soluzione.”
“Davvero? Nel turbinio dei tuoi pensieri hai già capito come io possa rescindere il contratto con Sebastian?” Domandò John, sollevato dalle rassicurazioni dell’altro uomo.
Sherlock si irrigidì leggermente: “No.
Non ancora. Le leggi e le regole riguardanti le anime gemelle non
rientrano nel mio ambito di competenza. Ero sicuro di non avere
un’anima gemella. O meglio, ero certo che non la avrei mai
incontrata. Quindi ho cancellato dal mio mind palace qualsiasi
informazione relativa a questo argomento.”
“Mind palace?”
“Un sistema mnemonico di archiviazione delle informazioni,”
sbuffò Sherlock, in tono sbrigativo. John sorrise, per nulla
offeso dall’atteggiamento quasi sgarbato del giovane Holmes.
Sherlock ne fu sorpreso e compiaciuto. Generalmente le persone si
arrabbiavano per i suoi modi bruschi e lo ritenevano borioso,
indisponente e maleducato. Quando pensavano bene di lui. John non aveva
sbuffato. Aggrottato la fronte, offeso. Ribattuto in tono arrabbiato.
No.
John aveva sorriso.
John gli aveva rivolto un sorriso sincero.
Il loro legame era neonato e Sherlock non era sicuro di quali
sentimenti fossero suoi e quali appartenessero a John, ma non percepiva
né astio né rancore. John aveva veramente capito che
quello era il suo modo di fare. Che Sherlock non voleva offendere o
insultare nessuno, ma che non accettava che gli altri facessero domande
su cose ovvie e scontate o non vedessero ciò che avevano davanti
al naso. Sherlock ricambiò il sorriso, interdetto e
divertito da questo nuovo approccio al suo modo singolare di
comportarsi con il prossimo.
“Perché sei così
sorpreso? Che anima gemella sarei se ti rimproverassi per il tuo modo
di fare le cose?” Ridacchiò John.
“Non mi capita spesso. Il più delle volte le persone si offendono.”
“Il valzer sta per finire. Non
possiamo ballare ancora insieme. Sarebbe sospetto. Non è il
momento di comunicare al mondo che siamo anime gemelle. Fino a quando
non avremo trovato un modo per liberarmi dal contratto con Moran senza
arrecare danni alla mia famiglia, il nostro legame dovrà
rimanere segreto. Non riuscirei mai a essere completamente felice,
sapendo che la mia felicità è stata costruita sulla
rovina delle persone che tengono a me.”
“Dobbiamo studiare il contratto
che hai firmato. Riesci a procurartene una copia per domani? Potremmo
incontrarci al Globe Tavern, verso le undici. Dovrebbe essere un posto
abbastanza tranquillo, da poterci permettere di parlare senza dare
troppo nell’occhio.”
“Troverò il locale.
Procurarmi una copia del contratto non sarà difficile. La
chiederò a mia madre. Non so perché, ma la ho lasciata a
lei, quando sono partito per Londra. Mi ha detto che la ha portata con
sé, affinché io potessi leggerla, dato che non ricordo
nemmeno di averla firmata.”
“Molto bene. Stai attento che
nessuno ti segua. Dobbiamo trovare una soluzione a questo problema
prima che qualcuno capisca che cosa sia accaduto questa sera. Non
è solo della reazione e dell’intromissione di Sebastian
Moran che ci dobbiamo preoccupare.”
“E chi altri potrebbe metterci i bastoni fra le ruote?” Chiese John, sorpreso.
“Mio fratello Mycroft,” sibilò Sherlock.
“Perché mai tuo fratello dovrebbe contrastare il nostro rapporto?”
“Dipende dal suo tornaconto
personale e politico. Se vuole ostacolare Sebastian Moran, Mycroft si
schiererà al nostro fianco e farà qualsiasi cosa per
aiutarci. Se, invece, ha bisogno che Moran sia un suo alleato, non si
farà scrupoli a impedirci di stare insieme.”
John scosse la testa: “Non posso credere…”
“Credici. Per Mycroft la
famiglia e i sentimenti non hanno alcuna importanza. A lui interessa
solo il proprio potere. Se ti può usare per ottenere qualcosa,
lo fa. Se gli sei di ostacolo, ti schiaccia come se fossi una formica.
È per questo che lo considero il mio arcinemico. Non fidarti mai
di lui.”
La musica terminò. John e Sherlock si fissarono negli occhi per
qualche secondo. I loro sguardi erano determinati. Avrebbero fatto
qualsiasi cosa per raggiungere il loro obbiettivo. Sherlock
lasciò andare John a malincuore. Era così giusto
stringerlo a sé, che sentì il gelo, quanto i loro corpi
si separarono. Una coppia si avvicinò per fare lo scambio di
ballerini, ma John sorrise loro: “Chiedo scusa, ma sono veramente
stanco. Vado a sedere per un po’.”
“Sarà per la prossima volta, signor Rowling,” uno dei due invitati ricambiò il sorriso.
Sherlock prese la mano di John e si avviarono verso le poltroncine
poste a bordo della pista da ballo. Stavano cercando un posto
tranquillo in cui continuare a parlare, quando Sebastian Moran si
parò davanti a loro, tenendo in mano un guanto nero. Le dita di
John scivolarono fuori dalla mano di Sherlock, che scrutò Moran
in modo gelido, cercando di capire se si fosse accorto di ciò
che era accaduto. Le labbra di Sebastian erano piegate in un sorriso,
che non raggiungeva gli occhi, gelidi e duri: “Credo che tu abbia
perso questo, John,” esordì, in un falso tono affabile.
John allungò la mano, prese il guanto e lo infilò:
“Lo stavo cercando. Si deve essere sfilato quando abbiamo fermato
la ladra.”
“Mi è giunta voce del trambusto causato da Holmes junior.”
“Ho impedito a una ladra di derubare i suoi ospiti, facendo
sì che questo ricevimento fosse ricordato per il vostro
fidanzamento e non per avere perso un prezioso gioiello di
famiglia,” sibilò Sherlock.
“Di questo la ringrazio, signor Holmes. Sarebbe stato meglio,
comunque, se fosse riuscito nella sua impresa usando metodi più
discreti e senza coinvolgere il mio fidanzato. John si sta ancora
riprendendo dalle ferite riportate in un incidente ferroviario. Se le
sue condizioni si fossero aggravate…”
“Io sto bene. Grazie per esserti preoccupato per me,
Sebastian,” lo interruppe John. Attraverso il loro legame, John
aveva sentito crescere la rabbia di Sherlock e doveva evitare che i due
uomini arrivassero allo scontro.
“Credo che sia ora di andare a casa, fratello caro,” intervenne una voce tranquilla, ma risoluta.
John si voltò verso Mycroft Holmes. L’uomo sorrideva
rilassato, come se non si fosse reso conto della tensione creatasi tra
i tre uomini: “Spero che non ti offenda, Sebastian, ma dobbiamo
proprio andare. Mio marito Greg è stato costretto ad andare a
Scotland Yard, per registrare l’arresto della ladra. Io ho
ricevuto un messaggio dalla mia assistente e devo tornare in ufficio.
Sherlock ha portato brillantemente a termine il proprio incarico e non
ha motivo a fermarsi ancora al ballo. So che non è cortese
dirlo, ma mio fratello odia gli incontri mondani e diventa irritante.
Se io lo lasciassi qui, causerebbe sicuramente una rissa. È
stato un piacere partecipare al tuo ricevimento, ma per noi è
ora di andare.”
“Vi aspetto alle nozze,” ribatté Sebastian, con un cenno del capo.
Sherlock chiuse la mani a pugno.
“Pazienza, Sherlock. So che non
è facile, ma non fare nulla che li insospettisca. Ci vediamo
domani al Globe Tavern. Quando avremo trovato una soluzione, li
affronteremo,” lo rassicurò John.
Sherlock si voltò verso l’uscita e lasciò la sala: “A domani,” sussurrò a John.
I fratelli Holmes lasciarono la villa. Gli ospiti continuarono a
ballare, scherzare e divertirsi, inconsapevoli del fatto che quella
sera aveva cambiato inesorabilmente le vite di due giovani uomini. Se
per unirli per sempre o gettarli nella disperazione più profonda
era ancora troppo presto per saperlo.
Angolo dell’autrice
Grazie a chi stia leggendo la storia. Spero che vi stia piacendo.
Ovviamente, ogni fiaba (o commedia), che si rispetti, vede i
protagonisti lottare per la propria felicità. Questa non poteva
essere diversa.
Grazie a 1234ok e CreepyDoll per il commento allo scorso capitolo.
Se volete lasciare un commento, sarà sempre benvenuto.
A domani!
Ciao!
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Capitolo 5 *** Colazione da Globe Tavern ***
Colazione da Globe Tavern
Baker
Street era una strada tranquilla, prevalentemente residenziale, che non
attirava i turisti. Vicino c’era un grande parco, ma era
abbastanza lontana dalle attrazioni turistiche principali di Londra, da
essere frequentata soprattutto dai londinesi. Martha Hudson era una
signora che aveva superato la sessantina. Probabilmente anche la
settantina, ma chiedere l’età a una signora era da sempre
considerato disdicevole, una grave mancanza di educazione e di
rispetto. La signora Hudson, qualunque fosse la sua età, era una
donna ancora affascinante, curata e sempre impeccabilmente in ordine.
Il suo carattere vivace, allegro e altruista la facevano amare da
chiunque la conoscesse. Era anche profondamente paziente, dote
fondamentale per interagire con il suo giovane affittuario. Martha
Hudson viveva al 221A di Baker Street. Aveva scelto di abitare in
quella casa, fra le sue molte proprietà, perché qui aveva
vissuto un periodo felice con il suo sventurato marito. Solo
perché si era assicurata che fosse condannato a morte, non
voleva dire che volesse dimenticare gli anni felici che avevano
trascorso insieme. La signora Hudson aveva affittato il 221B al giovane
uomo che la aveva liberata dal marito. La donna provava un profondo
affetto per Sherlock Holmes e non solo perché aveva trovato le
prove che incastrassero definitivamente il consorte. Martha Hudson
considerava Sherlock Holmes come il figlio che non aveva mai avuto. Per
quanto brontolasse e gli ricordasse che lei non era la sua governante,
l’anziana signora non perdeva occasione per prendersi cura del
giovane uomo, assicurandosi che mangiasse e ripulendo
l’appartamento. Oppure preparando il tea per gli ospiti del suo
inquilino. Come in quel momento. La signora stava salendo le scale che
portavano al 221B, sorreggendo un vassoio con sopra teiera, tazze,
zucchero, latte e un piattino con qualche biscotto. Aveva usato il
servizio che le aveva regalato sua sorella Margareth. Alla signora
Hudson non piaceva, quindi non le sarebbe importato molto se fosse
andato in pezzi, qualora Sherlock avesse litigato con il suo attuale
ospite. Già. Era sempre meglio essere previdenti. Non si poteva
mai sapere come andasse a finire quando Mycroft Holmes faceva visita al
fratello minore.
Colazione da Globe Tavern
Il salotto era nel caos più
totale, come sempre. Carte, libri, giornali erano sparsi in quello che
molti avrebbero definito solo disordine. Per Sherlock Holmes era
ordine. Non era colpa sua se gli altri non lo capivano. Il due fratelli
erano seduti uno di fronte all’altro, nelle poltrone poste
davanti al camino. Mycroft indossava uno dei suoi usuali completi neri
a tre pezzi, con camicia bianca e cravatta nera.
“È morto qualcuno di
importante?” Lo aveva apostrofato Sherlock, vedendolo entrare in
salotto alle otto del mattino.
Mycroft aveva sospirato, ignorando
il commento del fratello, e si era andato a sedere nella poltrona di
solito utilizzata dai clienti di Sherlock. Aveva appoggiato
l’immancabile ombrello nero al bracciolo e deposto un fascicolo
sul tavolino, che si trovava fra le due poltrone. Senza dire una
parola. Sherlock aveva alzato un sopracciglio, in modo interrogativo.
“Qui ci sono tutte le
informazioni che i miei uomini hanno trovato su John Rowling. Stanno
ancora indagando. Ti porterò ulteriori notizie quanto prima.
Intanto, questo potrebbe aiutarti, quando oggi vi incontrerete. Non ti
ho portato il fascicolo su Sebastian Moran perché credo che
persino tu sappia chi sia e quanto possa essere pericoloso,”
rispose Mycroft alla domanda muta del fratello.
I lineamenti di Sherlock si
indurirono. Non aveva bisogno di chiedere come facesse Mycroft a sapere
che si sarebbe incontrato con John. Per quanto esitasse ad ammetterlo,
Sherlock sapeva benissimo quanto fosse intelligente il fratello
maggiore e come gli fosse semplice dedurre le persone. In questo, era
persino più bravo di lui. Ad ogni modo, Sherlock non voleva che
Mycroft si intromettesse nella sua vita, che cercasse di controllarla,
che lo obbligasse a fare quello che voleva lui, a comportarsi in modo
adeguato, adattandosi alle noiose e banali regole comuni. Sherlock si
era sempre considerato uno spirito libero, alieno alle restrizioni
imposte dalla cosiddetta società civile. In fondo, lui avrebbe
voluto essere un pirata e scorrazzare per l’oceano con i capelli
scompigliati dal vento e la pelle abbrustolita dal sole e dalla
salsedine. Negare l’appuntamento era inutile. Avrebbe solo
tediosamente prolungato la discussione e lui non aveva tempo:
“Non potrai dire o fare nulla per impedirmi di incontrare
John,” ribatté invece.
“Ti sembro uno che stia cercando di impedirti di fare qualcosa?” Domandò Mycroft.
La signora Hudson entrò nel
salotto in quel momento: “Yoohoo. Ho pensato che gradiste un tea.
Non è mai troppo tardi o presto per una buona tazza di
tea.”
“Lei è sempre gentile,
signora Hudson. Mi dispiace che si sia disturbata per niente. Nulla mi
farebbe più felice che sorseggiare il suo tea, mangiando uno dei
suoi squisiti biscotti, ma non posso proprio. Sono atteso a una
riunione molto importante,” si scusò Mycroft, alzandosi e
prendendo l’ombrello. Fece un sorriso al fratello e si diresse
verso la porta.
“Non hai proprio nulla da dirmi?” Chiese Sherlock, interdetto e sospettoso.
Mycroft si fermò in mezzo
alla stanza, come se stesse riflettendo su che cosa dire. Si
voltò lentamente verso il fratello e lo fissò negli
occhi, in modo serio: “Ho sempre desiderato che tu incontrassi la
tua anima gemella, perché speravo che fosse una persona che si
prendesse cura di te. Questo John Rowling sembra un brav’uomo.
È un peccato per quel contratto. Mi auguro che ci sia un modo
per annullarlo e che voi due possiate vivere insieme. Nel fascicolo ci
sono anche i nomi di alcuni avvocati che potrebbero aiutarvi.”
I due fratelli si fissarono negli
occhi, senza aggiungere altro. Mycroft se ne andò. Sherlock
guardò la porta chiusa per qualche secondo.
“Non è poi così cattivo,” sorrise la signora Hudson, porgendo a Sherlock una tazza di tea.
“Dipende. Mai fidarsi di
Mycroft. Ha sempre un proprio fine,” borbottò il giovane
Holmes, ma lui stesso non era pienamente convinto delle parole che
stava dicendo.
La signora Hudson lo lasciò
solo. Sherlock studiò il fascicolo di John. Non conteneva nulla
di straordinario. Una famiglia comune, con qualche disgrazia di troppo.
John era stato un artificiere, congedato dall’esercito con onore
a seguito delle ferite riportate in un agguato, in cui era caduta la
sua unità. Mentre viaggiava verso Londra, era rimasto coinvolto
in un incidente ferroviario. Sherlock ricordava di avere letto qualcosa
sull’incidente. Erano morte alcune persone. Un ex medico militare
e una vecchia signora. Una coppia in viaggio di nozze. In quel
fascicolo non c’era nulla che lui non avrebbe potuto dedurre
personalmente. Sherlock lo gettò sul tavolino quasi con
disgusto. Congiunse le mani sotto il mento, riflettendo sulla visita
del fratello. Perché Mycroft si era preso il disturbo di
portargli quell’inutile fascicolo? Che cosa voleva da lui? Non
gli aveva chiesto nulla. Nemmeno di stare alla larga da John. Voleva
dimostrargli che John era solo un uomo comune, per cui non valesse la
pena mettersi contro un uomo potente come Sebastian Moran? Non poteva
essere questo. Mycroft non aveva detto nulla contro John. Voleva solo
metterlo in guardia contro Moran? Sherlock sapeva che avrebbero dovuto
lottare contro un serpente, non aveva bisogno che il fratello maggiore
si scomodasse tanto per avvisarlo. Che Mycroft avesse voluto fargli
sapere che sarebbe stato dalla sua parte e che lo avrebbe aiutato in
ogni modo possibile a unirsi a John? Senza volere nulla in cambio?
Mycroft? No. Non poteva essere. Mycroft non era così altruista.
Nemmeno con lui. Sherlock sbuffò e si alzò di scatto. Non
aveva tempo per tentare di comprendere i reconditi fini che si
nascondevano dietro le azioni del suo ambiguo fratello maggiore. Era
arrivato il momento di andare da John. Era giunto il tempo di
incontrare il proprio futuro.
The Globe Tavern
era un locale molto frequentato, sia per la sua posizione sia per la
sua cucina. Si trovava in Bedale Street, nel cuore di Borough Market, e
aveva un menù ricco e vario, che poteva soddisfare i gusti sia
dei turisti sia dei londinesi. John e Sherlock si erano seduti in un
tavolo appartato del piano superiore, posto in un angolo interno del
locale, lontano da porte e vetrate, da cui entrava una strana luce
bianca. Prima di sera sarebbe sicuramente nevicato, per la gioia di
chiunque desiderasse un bianco Natale. Sherlock era arrivato per primo
e aveva fissato la porta quasi con ansia, fino a quando una testa di
capelli biondi era entrata e un paio di profondi occhi blu aveva
scandagliato il locale in cerca di lui.
“Sono qui in fondo,” aveva detto Sherlock, senza aprire bocca, solo per John.
“Ti ho visto,” aveva risposto John, prontamente, dirigendosi verso di lui.
Sherlock adorava la telepatia. Era
qualcosa di intimo e riservato. Nessuno poteva condividerla con loro.
Avrebbero potuto raccontarsi tutto ciò che avessero voluto,
senza che qualcuno potesse sentirli.
Gli occhi di John erano circondati da profonde occhiaie nere. “Stai bene?” Sussurrò Sherlock, preoccupato.
“Sì,
certo. La festa è finita molto tardi. Mi sono alzato presto per
cercare il contratto prematrimoniale. Ho controllato fra le mie cose e
ne ho trovata una copia in un cassetto. Ne ho fatto una fotocopia,
così nessuno si accorgerà che lo ho portato fuori.”
Sherlock sentiva che c’era
dell’altro. Era strano percepire i pensieri e i sentimenti di
un’altra persona. Lui aveva sempre fatto fatica a comprendere che
cosa provasse la gente intorno a lui, ma con John era facile. Anche
troppo. Sentiva tutto come se fosse lui stesso a provare quelle
sensazioni: “Che cosa c’è che non va?” Domandò, prendendo i fogli che John di allungava.
La cameriera arrivò in quel
momento e prese le loro ordinazioni. Sherlock l’aveva ignorata,
impegnato nella lettura del contratto prematrimoniale, così John
aveva ordinato una colazione inglese tradizionale per entrambi. Quando
la ragazza se ne andò, John rispose con un sospiro: “Temo che non ci sia nulla da fare per evitare il matrimonio.”
“Perché?
Non hai bisogno di essere mantenuto da Moran. Potremmo lavorare
insieme. È da un po’ che sto pensando di cercare un socio.
Tu sei un ex militare e saresti perfetto.”
“Se
dovessi pensare solo a me stesso, non direi nemmeno di no. Però,
ci sono anche mia madre e i miei fratellastri. Se io non sposerò
Moran, loro perderanno tutto.”
“Il tuo patrigno…”
“Dopo
l’incidente ferroviario ho perso la memoria e non ricordo nulla
del mio passato. Non mi ci è voluto molto, però, per
comprendere Trent Davemport. È un poco di buono. Lavora per
Moran, certo, ma è solo un impiego di facciata, per giustificare
i soldi che Sebastian gli passa per mantenere la famiglia. Se io non
rispettassi la mia parola, Moran avrebbe ogni motivo per cacciarlo e la
mia famiglia sarebbe sul lastrico.”
Sherlock sbatté una mano sul
tavolo, facendo voltare i vicini, che fissarono i due giovani uomini
con sguardo preoccupato. John sorrise rassicurante e mise una mano su
una di quelle di Sherlock: “Mi dispiace molto,”
mormorò, avvilito.
Sherlock prese la mano e la strinse fra le sue: “Non
è colpa tua. Quell’uomo sta approfittando del tuo buon
cuore. È con lui che sono arrabbiato, non con te. Per quanto i
miei rapporti con la mia famiglia non siano molto convenzionali,
capisco che tu sia preoccupato per la tua e che voglia prenderti cura
di tua madre e dei tuoi fratelli. Solo… avevo fatto tanti piani
per il nostro futuro… non mi sembra giusto doverci rinunciare
perché il tuo patrigno è un bastardo egoista.”
“Non
dobbiamo rinunciare per tutta la vita. I gemelli fra qualche anno
saranno maggiorenni e potranno mantenersi da soli. A quel punto, io
potrò divorziare da Moran e venire da te. Dovremo solo avere
pazienza. Inoltre… se davvero vuoi che lavoriamo insieme,
potremmo farlo da subito. Nel contratto non c’è nessuna
clausola che mi impedisca di lavorare con qualcuno. Anche se Moran
capisse che siamo anime gemelle, non cambierebbe nulla, fino a quando
io starò sposato con lui e non lo tradirò.”
Sherlock allontanò lo
sguardo da John. Non voleva dividerlo con nessuno. Lui voleva averlo
tutto per sé. Da subito. Senza attendere anni. Era la sua anima
gemella! Aveva il diritto di trascorrere ogni secondo con lui. E di
amarlo, se questo era il loro destino. John mise due dita sotto il
mento di Sherlock, costringendolo dolcemente a guardarlo in viso: “Anche
a me farebbe molto piacere trascorrere ogni secondo della mia vita con
te, correndo dietro a ladri e assassini per le strade di Londra. Sono
sicuro che ci divertiremmo moltissimo. E sarà così. Solo
che dovremo avere pazienza,” sorrise.
“La pazienza non è esattamente la migliore delle mie virtù,” sbuffò Sherlock.
“Chissà perché, ma lo avevo sospettato!” Ridacchiò John.
Un urlo improvviso interruppe la
loro conversazione. Entrambi si girarono di scatto e videro una donna
in piedi accanto al marito, che non riusciva a respirare. La donna
chiamava disperata il nome del marito. Senza pensarci, John si
alzò di scatto e si diresse verso la coppia: “Che cosa
è successo?” Domandò, prendendo il volto
dell’uomo fra le mani.
“Stava mangiando del pollo, quando ha iniziato a tossire convulsamente,” rispose la donna.
John visitò rapidamente
l’uomo: “Ha qualcosa che ostruisce le vie respiratorie.
State indietro. Ho bisogno di spazio,” ordinò, alzandolo
di peso e posizionandolo con la schiena contro il proprio petto.
Strinse le mani a pugno in una morsa ferrea, circondando il corpo
dell’uomo. Con un paio di colpi secchi sotto lo sterno, John gli
liberò le vie respiratorie. Provato, ma capace di respirare in
modo autonomo, l’uomo si accasciò fra le braccia di John,
che lo aiutò a sdraiarsi sul pavimento, mettendolo su un fianco.
Un cameriere si avvicinò, solerte: “Sta arrivando l’ambulanza,” informò.
“Perfetto. Dovrebbe essere
tutto passato, ma è il caso che si faccia visitare in pronto
soccorso. Il pezzo che ha ostruito la gola potrebbe avere fatto qualche
danno,” disse John alla donna.
“Grazie. Grazie dottore. Non so che cosa avremmo fatto, se non ci fosse stato lei,” lo ringraziò la donna.
John sorrise, imbarazzato. Non
riuscì a spiegare che non fosse un medico, perché gli
infermieri entrarono nel locale e si presero cura dell’uomo che
era stato male.
Sherlock aveva osservato la scena
attentamente. John si era comportato in modo sicuro e deciso, come se
non avesse fatto altro nella propria vita che curare le persone. La
manovra di Heimlich era insegnata in molti corsi di primo soccorso, ma
la gente comune era restia a eseguirla e non così precisa e
diretta nell’individuare il punto esatto su cui fare pressione.
John, invece, non aveva avuto esitazioni. Aveva dato pochi ordini
diretti e secchi, cui tutti si erano prontamente attenuti. Non
c’era da meravigliarsi che quella donna lo avesse scambiato per
un medico. Se non avesse saputo che era un artificiere, vedendolo in
azione, Sherlock stesso avrebbe pensato che John fosse un dottore.
Persino il modo in cui aveva dato gli ordini, faceva supporre che
nell’esercito avesse avuto un grado più alto di sergente.
Qualcosa non quadrava.
C’erano tante cose che facevano supporre che John potesse non
essere chi gli avevano raccontato che fosse. Doveva indagare. Scoprire
qualcosa di più sulla propria anima gemella. Risolvere il
mistero che avvolgeva John Rowling poteva essere la strada che li
avrebbe portati a trascorrere la loro vita insieme.
Angolo dell’autrice
C’è qualcuno che
condivide i sospetti di Sherlock? C’è qualcuno che pensa
che John non sia chi gli hanno detto di essere? Direi proprio tutti.
Grazie a chi stia leggendo la storia. Grazie a 1234ok e a CreepyDoll per il commento allo scorso capitolo.
The Globe Tavern è un locale che esiste veramente a Londra. Google aiuta sempre tantissimo, in questo tipo di ricerche.
A domani.
Ciao!
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Capitolo 6 *** Alla ricerca di John ***
Alla ricerca di John
I primi fiocchi
di neve avevano cominciato a cadere su Londra, pigri e radi. Le
luminarie brillavano e rendevano le persone allegre, perché le
previsioni che avevano preannunciato un bianco Natale si stavano
rivelando esatte. La gente camminava per la strada godendosi il freddo
secco e sorridendo ai piccoli fiocchi di neve.
Sherlock Holmes si stava dirigendo verso Scotland Yard. Aveva salutato
John, promettendogli di contattarlo appena avesse avuto qualche
novità sul suo contratto prematrimoniale. Il consulente
investigativo, però, non aveva alcuna intenzione di rivolgersi a
un avvocato. Il dubbio che la sua anima gemella non si chiamasse John
Rowling gli stava rendendo impossibile pensare a qualsiasi altra cosa.
Ogni volta che riesaminava il problema, arrivava alla stessa
conclusione: il John Rowling, che lui conosceva, non era l’uomo
di cui aveva letto il fascicolo. L’uomo con cui aveva fatto
colazione doveva essere un medico. Dal resoconto sull’incidente
ferroviario, che aveva letto, risultava che fosse morto un medico.
Possibile che i genitori di John Rowling non si fossero accorti dello
scambio di persona? Se se ne erano accorti, perché stavano
portando avanti quella commedia? Per i soldi? Non aveva senso.
Avrebbero potuto essere smascherati in qualsiasi momento. Sarebbe
bastato che a John fosse tornata la memoria o che qualcuno lo avesse
riconosciuto, perché loro perdessero tutto.
Sherlock aveva deciso di non parlare a John della propria ipotesi,
perché non voleva dargli false speranze, se si fosse rivelata
sbagliata. Doveva indagare e scoprire tutto il possibile
sull’incidente e sulla sua anima gemella. Ne andava del loro
futuro insieme e lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per non perdere
l’altra metà di se stesso.
Alla ricerca di John
Il taxi si stava dirigendo verso Scotland Yard più lentamente di
quanto Sherlock avrebbe voluto. Erano caduti solo pochi millimetri di
neve, ma il traffico ne stava risentendo. La gente sembrava essere
impegnata ad ammirare la neve che cadeva, più che a guidare,
quasi fosse stata la prima nevicata da millenni! Sherlock era irritato,
ma non poteva fare nulla per velocizzare il percorso. Quando arrivarono
davanti a Scotland Yard, Sherlock pagò il taxista e scese
velocemente dall’auto, quasi correndo verso l’edificio. Per
pochi secondi il giovane Holmes aveva preso in considerazione la
possibilità di rivolgersi a Mycroft, ma non voleva avere debiti
con il fratello, quindi aveva optato per chiedere informazioni al
cognato, con cui si sarebbe sicuramente sdebitato risolvendo uno dei
casi noiosi che gli avrebbe proposto.
La sala agenti antistante l’ufficio di Gregory Lestrade era
tranquilla. I poliziotti in servizio stavano redigendo rapporti,
facendo ricerche o chiacchierando della partita di calcio del giorno
prima. Sembrava che anche i criminali avessero deciso di prendersi
qualche giorno di vacanza, in vista delle feste di Natale. Oppure
stavano pianificando i colpi che avrebbero messo a segno ai danni dei
turisti e dei londinesi, che avrebbero affollato piazze, strade e
negozi della capitale inglese. Gli agenti rivolsero appena lo sguardo
verso Sherlock. Erano abituati a vederlo comparire in ufficio e non
facevano molto caso al suo passaggio.
Sherlock spalancò la porta dell’ufficio di Greg senza
nemmeno bussare e si fermò davanti alla scrivania, con le mani
affondate nelle tasche del suo cappotto nero e lungo: “Voglio
vedere il fascicolo sull’incidente ferroviario della settimana
scorsa,” pretese, senza tanti preamboli.
Greg alzò gli occhi dal monitor del computer e incrociò
le braccia sul petto. Il tono di voce era più curioso che
arrabbiato o seccato per l’intrusione: “Perché ti
interessa quell’incidente ferroviario? Non c’è nulla
di misterioso. È stato dimostrato che il pezzo, che ha causato
il deragliamento, si è rotto perché era usurato.”
Sherlock fissò il cognato, incerto su che cosa rispondere. Non
sapeva fino a che punto lo avrebbe aiutato nella sua ricerca se avesse
capito che stava tentando di mandare a monte il matrimonio fra
Sebastian Moran e John Rowling. Mycroft non sembrava contrario alla
cosa, ma Greg avrebbe potuto pensare che fosse sbagliato intromettersi
in un legame per cui era già stato sottoscritto un contratto
legale, regolarmente depositato. Dalle poche ricerche che aveva fatto,
aveva scoperto che il fatto che lui e John fossero anime gemelle non
annullava automaticamente il contratto.
Greg continuava a fissare il cognato, immobile. Per nulla intenzionato
a fornirgli un fascicolo, che non aveva alcun diritto di esigere di
vedere, a meno che non gli avesse fornito un valido motivo per violare
le regole di Scotland Yard.
Sherlock si lasciò cadere scompostamente sulla sedia, davanti
alla scrivania: “Mycroft che cosa ti raccontato di John
Rowling?” Domandò, in tono secco.
“Che siete anime gemelle. È un peccato che John abbia
già firmato il contratto con Moran. My teme che sarà
complicato annullare le nozze. Moran non è certo l’uomo
più altruista del regno. Tuo fratello pensa, comunque, che la
presenza della tua anima gemella non potrà che farti del bene e
farà qualsiasi cosa in suo potere per aiutarti.”
“Sì, certo. Come no. Il mio caro fratello si
schiererà contro un pari del regno per me,” sbuffò
Sherlock, in tono sarcastico.
Greg allungò le braccia sulla scrivania, congiungendo le mani
davanti a sé: “Qui lo dico e qui lo nego. Tuo fratello
tiene molto a te. Esattamente come tu tieni molto a lui.”
Sherlock emise un verso di disgusto: “Sei il solito sentimentale,
Gary. Ormai avresti dovuto capire che mio fratello è il mio
peggior nemico… e viceversa.”
Greg scosse la testa. Era inutile dilungarsi in questo discorso con i
fratelli Holmes. Ormai aveva imparato che nessuno dei due avrebbe mai
ammesso quali fossero i reali sentimenti che provavano l’uno per
l’altro. Con un sospiro rassegnato, rivolse la propria attenzione
al computer e cercò un file, che mandò in stampa:
“Questo è tutto ciò che abbiamo. Dato che si
è trattato di un incidente, non abbiamo svolto indagini
approfondite. Ci sono, comunque, i dati dei feriti e delle
vittime.”
Sherlock si alzò, prese le stampe e uscì
dall’ufficio di Greg, senza ringraziare. L’ispettore
sorrise e prese in mano il proprio cellulare, appoggiato sulla
scrivania, accanto alla tastiera del computer:
[15.59] Sherlock si sta veramente impegnando per unirsi al signor Rowling.
La risposta arrivò in pochi secondi:
[16.00] Vorrei solo che dall’altra parte non ci fosse Sebastian Moran. Perché Sherlock è venuto da te?
[16.01] Sta indagando sull’incidente ferroviario in cui è
stato coinvolto Rowling. Ovviamente non mi ha spiegato perché.
[16.02] Anthea sta cercando informazioni. Ti farò sapere se
scopre qualcosa di interessante così potrai passarlo a Sherlock.
Greg scosse la testa e sospirò:
[16.03] Perché mai dovresti far sapere a tuo fratello che lo stai aiutando?
[16.04] Perché non me lo ha chiesto. Devo andare. Ho una riunione.
Sherlock lesse il resoconto dell’incidente mentre un altro taxi
lo stava portando a casa di Harriet Watson. La donna era la sorella del
dottor John Watson, ex medico militare, deceduto nell’incidente a
seguito delle gravissime ferite riportate: “Stesso nome. Stessa età,”
constatò Sherlock. Nel file erano elencati anche i nomi dei
feriti. Oltre a John Rowling c’erano un’altra trentina di
persone, che si trovavano tutte sulla carrozza che era deragliata. Era
stata una fortuna che l’incidente avesse interessato seriamente
un unico vagone, mentre negli altri c’erano stati solo contusi.
Harriet Watson abitava in una zona periferica di Londra. Era un
quartiere degradato, i cui palazzi avevano visto anni migliori e
avevano tutti bisogno di una urgente ristrutturazione. Sherlock
salì le scale che separavano il marciapiede dalla porta di
ingresso di una palazzina di quattro piani. In origine, la facciata
esterna doveva essere stata di colore verde chiaro, ma ora era solo una
parete scrostata. Il portone era aperto e dava su un ingresso buio e
dall’odore nauseabondo. L’ascensore era subito davanti a
lui, ma era fuori servizio. Sherlock guardò le cassette della
posta. Su molte non c’erano nomi. Forse gli appartamenti erano
vuoti oppure gli abitanti non volevano fare sapere che loro vivessero
lì. Per fortuna, su una delle cassette c’era un adesivo
logoro con scritto “H. WATSON”, al 3C.
Sherlock si infilò per le scale, evitando accuratamente di
toccare le pareti e il corrimano. Nelle scale c’erano tanti
odori, che riportarono la mente del giovane Holmes ai giorni in cui si
drogava, nascondendosi in posti come quello. Il 3C era una porta
anonima. Sherlock bussò. Per qualche minuto non sentì
movimenti. Bussò ancora. Passi strascicati si avvicinarono alla
porta. Lo spioncino venne spostato e Sherlock capì che qualcuno
lo stava squadrando. La porta si aprì quel tanto che le
permetteva la catenella.
“È molto presto, per un lavoretto, ma se mi lasci il tempo
di vestirmi, sarò a tua completa disposizione, tesoro,”
gli sussurrò con voce rauca una donna dall’età
indefinibile.
Sherlock arricciò il naso, con disgusto. Anche a quella distanza poteva sentire che la donna avesse bevuto:
“Non sono qui per un lavoretto, ma per avere informazioni.”
“Chi sei? Che cosa vuoi?” Domandò la donna, diventando diffidente.
Sherlock intravide appena un occhio azzurro, con le borse accentuate:
“Mi chiamo Sherlock Holmes, signora Watson. Vorrei parlarle di
suo fratello John.”
La donna scoppiò a ridere. Era una risata secca, che non
esprimeva allegria, ma rammarico e rimpianto: “Nessuno mi chiama
signora Watson, tesoro. E hai fatto tanta strada per nulla. Mio
fratello John ha risolto tutti i suoi problemi. È morto la
settimana scorsa.”
“Ne è sicura? Ha riconosciuto il suo corpo?”
“Quello che ne rimaneva.”
“Quando è andata all’obitorio, era sobria o ubriaca?” Chiese Sherlock, in tono secco.
I lineamenti della donna si indurirono: “Non sono affari tuoi,
saputello. John è morto. È andato. Pace all’anima
sua. Mi ha lasciata sola, come ha sempre fatto in vita sua, il piccolo
bastardo egoista. Lui era il grande dottore. Doveva salvare il mondo,
ma non aveva tempo per prendersi cura di me,” ringhiò
Harriet.
“Oppure si è stancato di risolvere i suoi problemi al suo posto,” sibilò Sherlock.
“Non starò qui a farmi insultare da te, damerino. Hai
avuto la tua risposta. Il mio fratellino è morto. Non ho
più nessuno per cui valga la pena vivere. Sarebbe stato meglio
se fossi morta io. John, almeno, aiutava le persone. Io trascino la mia
vita, in attesa della morte. Vattene! E non farti vedere mai
più!” Urlò Harriet, sbattendo la porta.
Sherlock sapeva che non avrebbe ottenuto altro da quella donna. Rimise
le mani in tasca e lasciò l’edificio, senza voltarsi
indietro.
Mentre il taxi lo portava da casa di Harriet Watson all’obitorio,
Sherlock era molto irritato. Il viaggio si era rivelato completamento
inutile. Quella donna era un’alcolizzata, evidentemente
abbandonata dalla propria anima gemella, stanca di convivere con un
coniuge che era sempre ubriaco. Harriet non gli sarebbe mai stata di
alcun aiuto per dimostrare che la sua anima gemella fosse John Watson,
non John Rowling. Probabilmente sarebbe stato inutile andare anche
all’obitorio, ma non poteva sapere da dove sarebbe arrivato un
qualsiasi indizio che potesse avvalorare la sua ipotesi. Doveva battere
tutte le piste.
L’obitorio era un luogo familiare, in cui si era sempre trovato a
proprio agio. I morti non gli facevano paura. Non potevano ferirlo, a
differenza dei vivi. Molly Hooper stava eseguendo un’autopsia e
lo accolse con un sorriso timido: “Buongiorno, Sherlock. Sei in
cerca di parti anatomiche per qualche esperimento?”
“No. Chi ha eseguito l’autopsia su John Watson?” Domandò, senza nemmeno salutare.
Molly lo fissò stranita per qualche secondo, tentando di ricordare di chi stesse parlando.
“John Watson. Ex medico militare. Una delle quattro vittime
dell’incidente ferroviario della settimana scorsa,”
spiegò Sherlock, in tono sbrigativo e nervoso.
“Ah, sì, ricordo. Povera sorella. Piangeva disperatamente.
Non ha più nessuno. I genitori sono morti e…”
“E la sua anima gemella la ha lasciata perché beve,
sì lo so. Era sola? Hai svolto un test del DNA? Qualcun altro ha
riconosciuto il cadavere o il riconoscimento è stato fatto solo
da quell’alcolizzata di Harriet Watson?” Sherlock la
interruppe bruscamente.
Molly era abituata ai modi sbrigativi di Sherlock e non si offese per
il suo comportamento: “C’era un uomo con lei. Era il
patrigno di un caro amico di Watson, che viaggiava con lui quel giorno.
Si chiamava…”
“Trent Davemport!” Sbottò Sherlock, interessato.
“Sì. Esatto. Proprio lui. La signora Watson faceva fatica
a stare in piedi. Aveva gli occhi annebbiati… ecco…
sembrava…”
“Ubriaca. Puoi dirlo. Non ti può sentire né
offendersi. Continua,” la sollecitò Holmes, impaziente.
“Lei non sembrava sicura. Continuava a dire che non vedeva il
fratello da anni. Era fuggito da casa appena diciottenne, per
arruolarsi nell’esercito. Devono avere avuto un’adolescenza
difficile. L’uomo le rispose che se avesse riconosciuto il corpo,
l’esercito le avrebbe versato la pensione del fratello, come sua
unica parente vivente.”
“E la cara Harriet Watson ha immediatamente riconosciuto il
fratello,” concluse Sherlock, con un sorriso entusiasta sulle
labbra.
“Beh, sì,” ammise Molly, perplessa.
“E tu non hai eseguito alcun test del DNA.”
“Non ce ne era bisogno. La vittima era stata identificata da due
conoscenti. La causa della morte era lampante. Non c’era bisogno
di procedere con ulteriori esami. Ho consegnato il corpo alle onoranze
funebri incaricate dalla sorella. Come da prassi,”
borbottò Molly, sulla difensiva.
“Lo hanno cremato, vero?”
“Sì. La sorella ha detto…”
“… che era volontà del defunto. Certo.
Comodo,” tagliò corto Sherlock. Senza aggiungere altro, si
girò per andare verso la porta. La sua teoria era finalmente
avvalorata da una prova. Circostanziale, certo, ma pur sempre una prova.
Le ore seguenti trascorsero tediose e infruttuose. Sherlock aveva
deciso di interrogare i passeggeri che viaggiavano nella stessa
carrozza dei due ex militari, per capire se qualcuno potesse confermare
che il sopravvissuto fosse John Watson. La neve stava ricoprendo le
strade e spostarsi da una parte all’altra di Londra stava
diventando sempre più lento. Alcuni dei viaggiatori vivevano
fuori città ed erano tornati alle loro case. Sherlock li avrebbe
contatti telefonicamente, anche se odiava telefonare. I testimoni che
vivevano a Londra erano stati inutili. Avevano notato i due giovani
uomini biondi, soprattutto perché sembravano gemelli, ma nulla
di più. La donna, da cui stava andando, era l’ultima della
sua lista. Il giorno dell'incidente viaggiava con il figlio, di ritorno
da una visita alla madre. Sherlock si stava scoraggiando. Per
convincere John a sottoporsi a un test del DNA doveva trovare prove
convincenti, non solo una teoria fondata su un complotto. C’era
una domanda, che continuava a martellargli la mente, cui non sapeva
dare una risposta: Trent Davemport e sua moglie come pensavano di
portare avanti la loro truffa? John poteva riacquistare la memoria in
qualsiasi momento o qualcuno poteva riconoscerlo. Era questo il punto
debole della sua ipotesi. Se avesse trovato una risposta soddisfacente
a questa domanda, avrebbe convinto tutti della bontà della sua
teoria. La casa era di periferia, ma molto più accogliente e
curata di quella di Harriet Watson. Quando suonò alla porta, si
presentò ad aprire una giovane donna sorridente, che lo
fissò con curiosità.
“Buonasera. Mi chiamo Sherlock Holmes e sto facendo delle
ricerche su una delle vittime dell’incidente ferroviario della
scorsa settimana,” ripeté per l’ennesima volta.
“Prego, si accomodi – lo invitò la donna, in tono
triste – Posso offrirle qualcosa? Un tea? Un caffè?”
“No, grazie. Solo poche domande. Nella sua carrozza c’erano
due uomini. Uno si chiamava John Rowling e l’altro John
Watson…”
“Il dottore, certo. Un giovane gentile e premuroso. Mi è
tanto dispiaciuto leggere che fosse morto,” lo interruppe la
donna, con un sorriso malinconico.
“Lei conosceva John Watson?” Una piccola speranza accese nella mente di Sherlock.
“Non prima del viaggio. Mio figlio Mark si è fatto male,
appena prima dell’incidente. Il dottor Watson è stato
così gentile da medicarlo.”
“Quindi il dottore era vicino a voi, quando c’è stato l’incidente?”
“Sì. Aveva terminato di medicare Mark e gli stavo facendo
gli auguri per il suo matrimonio, quando il vagone è
deragliato.”
Gli occhi di Sherlock si allargarono per la sorpresa: “Gli auguri per il suo matrimonio?”
“Il dottor Watson indossava un anello di fidanzamento, di quelli dati ai sostituti delle anime gemelle.”
“Lei ne è sicura al cento per cento? John Watson indossava un anello di fidanzamento?”
“Ne sono sicurissima. È l’ultima cosa di cui abbiamo
parlato prima dell’incidente. Non lo dimenticherò mai. Il
promesso sposo del dottor Watson è davvero un uomo sfortunato.
Prima ha perso la propria anima gemella, poi il suo sostituto.
Poveretto… chissà come starà
soffrendo…”
“Oh, sì, davvero molto. Grazie per il suo prezioso. Devo
andare,” Sherlock volò fuori dalla casa, in cerca di un
taxi. Ora aveva una prova. Dalle notizie, che aveva raccolto su John
Watson, sapeva che l’uomo non era fidanzato con nessuno.
Evidentemente, per qualche arcano motivo, al momento
dell’incidente John Watson indossava l’anello di John
Rowling. Ora aveva un testimone dello scambio di persona e poteva
parlarne con John. La felicità era veramente vicina.
Angolo dell’autrice
Si sta alzando un leggero velo sulla fumosa identità di John.
Sherlock riuscirà a convivere John a fare il test del DNA? Il
matrimonio sarà annullato?
Se volete farmi sapere che cosa pensate della storia, per me sarà un piacere leggere quello che scriverete.
Grazie per avere letto fino a qui. Grazie a CreepyDoll e a 1234ok per la recensione allo scorso capitolo.
A domani.
Ciao!
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Capitolo 7 *** Sogno di una notte di mezzo inverno ***
Sogno di una notte di mezza estate
La sera era
calata su Londra. La neve stava scendendo sempre più fitta,
ricoprendo le strade, i giardini e i tetti delle case. I suoni erano
attenuati dallo strato candido. Sherlock era completamente indifferente
allo spettacolo offerto dai bianchi fiocchi, che scendevano danzando
dal cielo. Mentre il suo taxi stava dirigendosi verso il 221B di Baker
Street, lui digitava freneticamente un messaggio sul proprio cellulare:
[21.38] Dobbiamo incontrarci. Subito. 221B Baker Street. Ottime notizie. SH
John lesse il messaggio e sorrise. Sherlock doveva avere trovato una
soluzione al loro problema. Era stato veramente rapido. Attraverso il
loro neonato legame, John aveva percepito la frustrazione e la
delusione crescere in Sherlock. Lui stesso era avvilito a causa della
situazione. Gli sembrava di essere rinchiuso in una gabbia dorata, da
cui fosse impossibile fuggire. Ora la sua anima gemella era ottimista e
piena di speranza. John non sapeva che cosa Sherlock avesse scoperto o
a quale cavillo potessero appellarsi per impedire il matrimonio, ma
anche lui era pervaso da un nuovo sentimento di fiducia nel futuro:
[21.40] Cercherò di arrivare il prima possibile. Il tempo di trovare un taxi che mi porti fino a te. JW
John si infilò il cappotto, mise il cellulare in tasca e
uscì dalla stanza d’albergo, in cui viveva da quando era
stato dimesso dall’ospedale, in attesa di sposare Sebastian
Moran. Trovare un taxi non fu difficile, ma il tragitto fra
l’hotel e Baker Street sembrò interminabile.
Sogno di una notte di mezzo inverno
Quando il taxi si fermò, davanti alla sua destinazione, John
scese e si fermò un attimo sul marciapiede per studiare
l’edificio in cui viveva Sherlock Holmes. La palazzina aveva due
piani e un aspetto curato. La zona sembrava tranquilla. In quel momento
non c’era molta gente in giro, ma poteva essere a causa della
neve.
“Ti piacerà vivere qui,”
l’allegra voce di Sherlock esplose nella mente di John, che
abbassò lo sguardo sulla porta. Sherlock era sull’uscio e
aspettava che John entrasse, con un sorriso soddisfatto sulle labbra
rosse.
“Mi hai aspettato dietro la porta per tutto questo tempo?” Domandò John, fra il sorpreso e il divertito.
“Non proprio,” rispose Sherlock, vago.
L’uscio del 221A si aprì. La signora Hudson indossava un
cappotto e scarponcini adatti alla neve. Fissò i due giovani
stupita: “Oh. Scusate. Non ho sentito suonare il
campanello.”
“Saluti la signora Turner per me,” ribatté Sherlock sbrigativo, infilandosi per le scale.
John sorrise alla donna, imbarazzato: “John Rowling. Sono…
un amico di Sherlock,” si presentò, allungando una mano.
La signora Hudson strinse la mano e rivolse al giovane uomo biondo un
sorriso radioso: “Martha Hudson. Sono la padrona di casa. Come
sono contenta di conoscerla! Non ha idea di quanto quel ragazzo abbia
bisogno di un amico. Può sembrare un po’ scorbutico,
maleducato, insensibile e pieno di sé, ma, in fondo in fondo, ha
un cuore d’oro. Lo scoprirà anche lei, se avrà la
pazienza di vedere oltre la sua maschera,” sussurrò la
donna, in tono complice.
“Io la penso già come lei.”
“Bene! Allora ci rivedremo e le preparerò un po’ di
tea e biscotti. Ora vado. La signora Turner, la mia vicina, mi aspetta
per giocare a carte. Buona serata, caro.”
“JOHN!” L’urlo arrivò dal piano superiore, impaziente.
“Buona serata, signora Hudson,” ricambiò John e
salì rapidamente le scale. Si trovò su un pianerottolo.
La porta dell’appartamento era spalancata. John entrò e si
trovò davanti il caos. Percepì l’imbarazzo di
Sherlock, che si affrettò a spostare alcune carte dal divano al
ripiano della scrivania, come se questo potesse far apparire la stanza
più ordinata.
“Scommetto che tu sai perfettamente dove sia ogni cosa che ti serva,” ridacchiò John.
“Infatti,” sospirò Sherlock, sollevato dal sentire
che John non fosse deluso dal modo in cui teneva l’appartamento:
“Quando verrai ad abitare qui, farò in modo che ci sia
più ordine,” promise.
John entrò e chiuse la porta. Davanti al camino c’erano
due poltrone. Su una c’era un cuscino, la cui stoffa riproduceva
la bandiera inglese. John si andò a sedere su quella, come se
fosse stato richiamato dalla bandiera, che aveva servito per anni.
“Allora? Che cosa hai scoperto?” Domandò, curioso.
Sherlock si lasciò cadere sulla poltrona di fronte, appoggiando
i gomiti alle ginocchia e congiungendo le mani davanti a sé:
“John Watson,” rispose semplicemente.
John lo fissò, attendendo che Sherlock continuasse a parlare.
Passarono un paio di minuti, prima che John capisse che Sherlock non
avrebbe aggiunto altro: “John Watson? Dovrei conoscerlo?”
“Davvero non ti dice nulla? Prova a pensarci,” Sherlock era deluso, ma tentò di incoraggiare John.
L’uomo biondo cercò di frugare nella propria memoria, ma
era tutto come sempre: nebuloso, inafferrabile. Ogni tanto aveva
l’impressione che la nebbia sul suo passato stesse per aprirsi e
mostrare la luce, ma era sempre un’illusione. Quando tentava di
afferrare un ricordo, questo gli sfuggiva, come sabbia fra le dita di
una mano. Sherlock percepì la frustrazione di John e gli si
strinse il cuore. Non poteva nemmeno immaginare che cosa volesse dire
non ricordare nulla. Anche se c’erano avvenimenti, cose e persone
(sì persino persone) di cui avrebbe voluto perdere ogni memoria,
non sapere nulla del proprio passato sarebbe stato devastante.
“Ciò che siamo lo dobbiamo alle esperienze vissute nella
nostra vita. Come possiamo vivere, se non sappiamo chi siamo?”
Domandò John, con un sospiro.
“Il Capitano John H. Watson era un ufficiale medico. Ha svolto il
proprio servizio in Afghanistan, fino a quando è stato
rimpatriato e congedato con onore, a seguito di una grave ferita
riportata a una spalla,” spiegò Sherlock, nel tono
più neutro possibile.
John portò la mano destra alla spalla sinistra e la
massaggiò, quasi sovrappensiero: “Anche io ho una
cicatrice alla spalla sinistra. Devo essermela fatta in guerra, visto
che la rimarginazione della ferita è troppo avanzata per essere
stata causata dall’incidente ferroviario.”
“Davvero? – domandò Sherlock con entusiasmo – Quindi abbiamo un’altra prova!”
“Un’altra prova di che cosa?” Ribatté John, sorpreso.
“Ora ascoltami attentamente e fammi parlare senza interrompere.
Due persone viaggiano su un treno, dirette a Londra. John Rowling e
John Watson. I due uomini si assomigliano tanto da sembrare gemelli. Si
conoscono perché entrambi hanno prestato servizio
nell’esercito. John Rowling è un artificiere ed è
fidanzato con Sebastian Moran. John Watson è un dottore e sta
venendo a Londra perché ha trovato lavoro in una clinica medica.
Non è fidanzato. Entrambi sono sulla carrozza che deraglia. Uno
muore, l’altro sopravvive, ma perde la memoria. Chi è
morto? Chi è sopravvissuto?”
Sherlock si fermò. Aveva parlato a voce bassa e in modo
velocissimo. John lo fissò perplesso, avendo compreso che cosa
implicasse la domanda di Sherlock: “Io non posso essere John
Watson. Portavo al dito l’anello di Moran. Inoltre, mia madre e
il mio patrigno mi hanno riconosciuto. Perché dovrebbero mentire
sulla mia identità, quando potrebbero essere facilmente
smascherati?”
“Posso rispondere parzialmente alle tue obiezioni. Ho trovato una
testimone, una donna che viaggiava con suo figlio nella vostra stessa
carrozza, che ha visto un anello di fidanzamento al dito del dottor
John Watson. La donna è sicurissima che fosse lui, perché
ha medicato il figlio, che si era fatto male. Non so dirti
perché Watson portasse l’anello di fidanzamento di
Rowling. Eppure lo aveva lui, appena prima dell’incidente. Il
dottore non ha fatto in tempo a restituirlo all’amico. Tu portavi
l’anello, quando sei stato estratto dalle lamiere del vagone.
John Watson aveva l’anello al dito pochi secondi prima del
deragliamento. Tu devi per forza essere John Watson! È un ragionamento logico,” concluse Sherlock, scrollando le spalle.
“Questo posso concedertelo, ma come spieghi la menzogna dei
Davemport? Che senso ha mentire, quando possono essere facilmente
smascherati? Basterebbe che mi tornasse la memoria. I medici non hanno
mai escluso che non possa accadere.”
“Soldi. Hai letto il contratto. Se John Rowling non sposasse
Sebastian Moran, la famiglia Davemport si troverebbe sul lastrico.
Tutto ciò che hanno appartiene a Moran. Senza il matrimonio
perderebbero la casa e il lavoro. Loro hanno tutti gli interessi a
tenere in vita John Rowling. Forse pensano che, se ti tornasse la
memoria, tu accetteresti di aiutarli. Probabilmente ti lascerebbero una
parte dei loro beni.”
John rifletté per qualche minuto, in silenzio, fissando il fuoco
che saltellava nel caminetto. Se lui fosse stato veramente
un’altra persona, poteva mandare a monte il matrimonio senza
alcun rimorso. Non era compito suo prendersi cura della famiglia
Davemport. Non potevano pretendere che lui rinunciasse a vivere con la
propria anima gemella per qualcuno che per lui non era niente. Era
troppo bello per essere vero: “La tua teoria non sarà
sufficiente a fare annullare il matrimonio. Non credo proprio che
Sebastian si farebbe convincere da un ragionamento che è logico
certo, ma che non è suffragato da prove materiali.”
“Ovviamente. Esiste, però, il test del DNA. Potrei
domandare a mio fratello Mycroft di usare la propria influenza per
ottenere i risultati il prima possibile. Forse riusciremmo ad avere un
esito anche prima delle nozze, ma sarebbe meglio se Moran accettasse di
rinviare il matrimonio, anche solo di una settimana. In questo modo,
avremmo il tempo di effettuare con calma un esame e scoprire chi tu sia
veramente.”
“Chiederesti davvero a tuo fratello di aiutarci? Lo stesso fratello di cui hai detto che non possiamo fidarci?”
“Suo marito asserisce che Mycroft tenga a me. Chissà. Se
Greg avesse ragione… e poi è Natale. Questo potrebbe
persino influenzare il cuore di ghiaccio di mio fratello,”
sogghignò Sherlock, con un sorriso sfrontato.
John emise una risata strozzata, ma tornò subito serio:
“Domani mattina parlerò con Sebastian e farò di
tutto per cercare di convincerlo a rinviare le nozze. Ora, sarà
meglio che io torni in hotel,” terminò John, alzandosi
dalla poltrona. Era riluttante a salutare Sherlock, ma avevano un piano
e John aveva deciso di essere ottimista. Tutto sarebbe andato bene.
“Tutto andrà bene,” sussurrò Sherlock, in tono basso e suadente.
John stava per ribattere, quando la porta di aprì e apparve la
signora Hudson, completamente coperta di neve: “Oh, caro. Per
fortuna è ancora qui. Non so dove lei abiti, ma temo che le
sarà difficile andare da qualsiasi parte. Erano anni che non si
vedeva una nevicata come questa a Londra. Le auto non riescono a
circolare e la metropolitana è stata costretta a sospendere il
servizio, perché molte zone della città sono rimaste
senza luce. Le conviene trascorrere la notte qui. Sono sicura che
domani mattina tutti i problemi saranno risolti e potrà tornare
a casa in sicurezza.”
“Oh… io non…”
“Il divano è molto comodo e ho delle coperte,” Sherlock si affrettò a offrire una soluzione.
John passò lo sguardo dalla signora Hudson a Sherlock. I loro
visi erano sorridenti. Invitanti. John scrollò le spalle:
“Che divano sia. Sarà sempre più comodo delle
panchine gelide della metropolitana.”
“GraziesignoraHudsonpuòandarepensoatuttoio!” esalò Sherlock in un unico fiato.
“Buonanotte, ragazzi,” sorrise la donna, sorniona, lasciando soli i due uomini.
“Coperta e cuscino,” elencò Sherlock, precipitandosi
verso la propria stanza e tornando velocemente. John si era tolto le
scarpe e si sdraiò sul divano. Sherlock lo fissò per
qualche secondo, come se volesse dire qualcosa, ma non ne avesse il
coraggio.
“Tu non vai a letto? È tardi. Devi essere stanco anche tu,” domandò John.
Sherlock non rispose subito, ma si prese il labbro inferiore fra i
denti. John percepiva il desiderio di Sherlock e sentiva la domanda che
l’altro non osava porre né a voce alta né tramite
il legame. John gli fece un cenno, invitante: “Sei così
magro, che staremo comodi anche in due, su questo divano,”
sogghignò.
Sherlock si sdraiò accanto a John e coprì entrambi con la coperta.
“Buonanotte, Sherlock.”
“Buonanotte, John.”
Rimasero in silenzio. Solo il fuoco nel caminetto crepitava pigramente.
La neve continuava a cadere su Londra, avvolgendola in un candito
abbraccio, mentre John e Sherlock si addormentavano con il sorriso
sulle labbra.
Angolo dell’autrice
Non fatevi influenzare dall’ottimismo di Sherlock. Anche nelle
fiabe migliori, gli innamorati devono lottare e soffrire un po’,
prima di arrivare al lieto fine.
Grazie a chi stia leggendo. Grazie a chi abbia segnato la storia in una categoria qualsiasi.
Grazie a 1234ok e a CreepyDoll per i commenti al capitolo di ieri.
Come sapete, le recensioni sono sempre gradite.
A domani.
Ciao!
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Capitolo 8 *** Parole stonate ***
Parole stonate
Le prime luci
dell’alba trovarono Londra coperta di neve. Tutto sembrava
più lento e silenzioso. Il cinguettio degli uccellini
infreddoliti. Le ruote delle poche auto che si avventuravano per le
strade, ripulite durante la notte, ma costeggiate da basse colline di
neve sporca, che le rendeva più strette. Il sole fece
timidamente capolino fra le bianche nuvole, che promettevano nuove
nevicate.
Sherlock non prestava attenzione all’ovattato silenzio che
avvolgeva la città. Ogni suo senso era concentrato
sull’uomo dormiente, che stringeva fra le braccia. Ascoltava il
suo respiro. Il battito del suo cuore. Lo strano piccolo rumore emesso
dalle labbra semiaperte.
Quando aveva capito che John si era profondamente addormentato,
Sherlock aveva osato circondarlo con le braccia e stringerlo
delicatamente a sé. John non si era svegliato. Non aveva tentato
di liberarsi dall’abbraccio. Aveva continuato a dormire,
tranquillo e rilassato. Sherlock lo aveva presto seguito nel mondo dei
sogni e si era svegliato alle prime luci dell’alba.
Nessuno dei due si era mosso.
Sherlock aveva sorriso. Era la prima volta in vita sua che si sentiva a
proprio agio in prossimità di un altro essere umano.
Generalmente non amava essere toccato o abbracciato da qualcuno
né toccare o abbracciare le persone, salvo che questo non fosse
indispensabile per risolvere un caso. Sherlock Holmes poteva fare e
sopportare qualsiasi cosa per il Lavoro.
John, però, non rientrava nella generica categoria “persone”.
Era così giusto e naturale toccarlo e abbracciarlo, che Sherlock
sarebbe rimasto in quella posizione per ore, senza annoiarsi. Anzi. Era
stato costretto ad allontanare il pensiero di come si sarebbe sentito
quando John avesse lasciato Baker Street per andare a parlare con
Moran. Strinse John leggermente più forte a sé. Provava
un leggero senso di possessività verso John. Era la sua
anima gemella. Nessuno doveva osare separarli. Ora capiva perché
alcune persone arrivassero a uccidere per amore di qualcuno. Ora lo
avrebbe fatto lui stesso.
Uccidere per John.
Morire per John.
E la cosa non lo spaventava. Sentiva che entrambe le cose sarebbero
state giuste. Per questo le labbra di Sherlock Holmes erano
piegate in un sorriso dolce e pieno di affetto.
Parole stonate
La signora Hudson salì le scale che portavano al 221B con
attenzione. Sul vassoio aveva due tazze, una teiera, zucchero, latte,
limone e biscotti. Era il suo servizio migliore. Si era alzata presto
per preparare i biscotti. Il giovane John era un ragazzo ben educato,
che avrebbe sicuramente influenzato positivamente Sherlock, smussando i
lati spigolosi del suo carattere. La signora Hudson era molto
affezionata a Sherlock, ma ne vedeva tutti i difetti, proprio come una
buona madre. Se John aveva deciso di trascorrere la notte a Baker
Street, senza opporre troppa resistenza al suo invito, non si era certo
fatto né spaventare né scoraggiare dai modi di Sherlock.
L’ipotesi che il suo inquilino si fosse comportato in modo
più civile ed educato, per non fare scappare, John era da
scartare. Sherlock era Sherlock, sempre e comunque. Quindi, sicuramente
era stato John a vedere il cuore di Sherlock, andando oltre i suoi modi
bruschi e scortesi. D’altra parte, salvo essere un santo, John
poteva spazientirsi e decidere di non tornare più a Baker
Street. Non doveva succedere. Lei avrebbe fatto la propria parte per
trattenerlo. Tutti sapevano che per arrivare al cuore di un uomo
bisognava passare per il suo stomaco. Anche se la signora Hudson
ripeteva di essere la padrona di casa e non la governante di Sherlock,
poteva fare il piccolo sacrificio di preparare la colazione, se questo
significava che John sarebbe rimasto in quella casa. Inoltre, anche se
non lo avrebbe mai ammesso con Sherlock per evitare che ne
approfittasse, lei adorava prendersi cura del proprio inquilino e
sarebbe stata felicissima di viziare anche John.
Arrivata in cima alle scale, appoggiò l’orecchio alla
porta. Dall’altra parte c’era silenzio. Bussò
leggermente all’uscio e lo aprì: “Yoohoo!
C’è qualcuno che ha fame?” Domandò
allegramente.
“Ssshh! John sta ancora dormendo!” Sibilò Sherlock, sottovoce.
John si scosse e aprì gli occhi. Sbatté le palpebre un
paio di volte, non riconoscendo il luogo in cui si trovava. La
sensazione più strana, però, era sentirsi stretto a
qualcuno. L’odore dell’altro era piacevole. Un misto di
muschio, tea e nicotina. John non ricordava di essersi mai destato
sentendosi così piacevolmente al sicuro. Sbuffò, quando
gli tornò in mente che, in realtà, non aveva molti
termini di paragone, dato che i suoi ricordi risalivano alla settimana
precedente. Le braccia si allontanarono di scatto, insieme al corpo che
gli aveva fatto da cuscino. Con un tonfo sordo, Sherlock si
trovò seduto sul pavimento. John provò un certo
disappunto, come se fosse stato abbandonato: “Perché sei andato via?” Brontolò, guardando Sherlock in quegli occhi di un azzurro così chiaro da essere quasi trasparenti.
“Non volevo infastidirti,” rispose Sherlock, dispiaciuto.
“Non mi stavi infastidendo. Anzi. Era piacevole averti vicino.”
“Davvero?” Sorrise Sherlock, incoraggiato dalla frase di John.
“Davvero,” confermò John, con un sorriso sincero.
“Siete anime gemelle!” Esplose la signora Hudson, di cui i
due uomini si erano dimenticati la presenza. Entrambi si irrigidirono,
ma la signora continuò, in tono ciarliero: “Non negate,
ragazzi. Riconosco lo sguardo di due persone che comunicano
telepaticamente, quando lo vedo.”
Sherlock sospirò, rassegnato: “Signora Hudson, dovrebbe
tenere la cosa per sé. La situazione è un po’
complicata e vorremmo aspettare, prima di rendere ufficiale e pubblico
il nostro legame.”
“Sarò muta come un pesce. Se avete bisogno di un complice,
per qualsiasi cosa, contate su di me. Sarà divertente ed
eccitante. E anche così romantico,” terminò, in
tono quasi sognante.
John si alzò dal divano e intervenne velocemente, prima che
Sherlock sbottasse sul lato romantico del loro rapporto: “Grazie
per la comprensione, signora Hudson. E per la colazione. Mi dia pure il
vassoio, penserò io a riordinare appena avremo finito.”
“Sei proprio un bravo ragazzo. Sei stato fortunato,
Sherlock,” aggiunse la donna, lanciando al giovane Holmes
un’occhiata ammonitrice che voleva dire: “Guai a te se lo fai scappare!”
Sherlock emise uno sbuffo quasi disgustato, ma la signora Hudson salutò sorridente e lasciò soli i due uomini.
“Vieni a fare colazione. Questi biscotti hanno un aspetto delizioso,” sorrise John.
Sherlock si alzò da terra e raggiunse John in cucina. Il tea era nelle tazze.
“Vengo con te da Moran,” esordì Sherlock, come se non ci fossero possibilità di replica.
“No. Tu resterai qui,” ribatté John, con pazienza.
“Perché?” Ringhiò Sherlock, a denti stretti.
“Perché la tua presenza potrebbe complicare le cose. Da
solo avrò più possibilità di far ragionare
Moran,” insisté John.
Sherlock incrociò le braccia sul petto, pronto a puntare i piedi
pur di ottenere quello che voleva. John riuscì a trattenere il
sorriso che voleva increspargli le labbra: “Quello di oggi
potrebbe essere solo il primo round con Moran. Se lo irritiamo,
potrebbe intestardirsi a ostacolarci anche solo per una questione di
principio. Abbi fiducia in me. Andrà tutto bene.”
“E sia. Facciamo quello che vuoi tu,” si arrese Sherlock, in tono lamentoso.
“Mangia,” ordinò John, mettendo un biscotto in bocca
a Sherlock. Il consulente investigativo ne morse un piccolo angolo, con
un sorriso irriverente: “Vedi che ho ragione io? Potrai anche non
ricordarti chi tu sia, ma sai dare gli ordini come solo un capitano
può fare!”
John lo fissò negli occhi per qualche secondo e scoppiarono a ridere insieme.
Era ancora quella risata che John aveva nelle orecchie e nella mente,
mentre il taxi si fermava davanti alla villa in cui viveva Sebastian
Moran. Scese e pagò il taxista, fermandosi davanti al grande
cancello in ferro battuto, chiuso. John si chiese vagamente
perché Sherlock si fosse arreso così facilmente. Era
sicuro che avrebbe dovuto insistere di più affinché non
andasse da lui con Moran. Probabilmente, aveva deciso di rimanere a
casa per cercare informazioni sul suo futuro marito, in modo da trovare
qualcosa che lo costringesse a lasciarlo andare. John respirò
profondamente, si strinse nelle spalle e irrigidì la schiena.
Era pronto per la battaglia.
Il maggiordomo lo aspettava, tenendo aperta la porta:
“Buongiorno, signor Rowling. Lord Moran è ancora a
letto.”
“Sono alzato, Jervis. Preparaci un caffè,”
ordinò una voce seccata, dalla cima delle scale. John
alzò gli occhi e vide Moran scendere le scale, mentre si
allacciava la cintura della vestaglia di seta marrone: “John, che
cosa fai qui a un’ora così indecente?”
“Veramente, sono più delle dieci, Sebastian. Oggi è
un giorno lavorativo,” ribatté John, seccamente.
“Per la gente comune può anche andare bene, ma io sono
stato impegnato in un incontro d’affari fino alle cinque del
mattino. Per me è l’alba. Sarà meglio che ti abitui
subito ai miei orari non proprio usuali, così eviterai di
seccarmi, quando saremo sposati.”
John strinse le labbra per non rispondere a Moran per le rime. Doveva
mantenere il controllo e non litigare con lui o non avrebbe mai
ottenuto quello che voleva: “Me lo ricorderò. Vorrei
parlarti proprio del matrimonio.”
Moran aveva raggiunto John nell’ingresso e alzò un sopracciglio: “Ci sono problemi?”
“Non proprio, ma…”
“Dove hai trascorso la notte?” Domandò una voce furiosa alle spalle di John.
Il giovane uomo biondo si voltò e si trovò davanti la
madre e il patrigno. Trent era furioso, mentre la madre sembrava
preoccupata, ma evitava lo sguardo del figlio. Il cuore di John
saltò un colpo. Parlare con Moran davanti a loro sarebbe stato
molto più complicato: “Ero fuori, quando le linee della
metropolitana si sono bloccate. Ho trovato ospitalità presso un
conoscente,” rispose evasivamente. In fin dei conti era la pura
verità.
“Sei stato da quel tossico, vero? Hai trascorso la notte da Sherlock Holmes.”
“Sherlock non è un tossico,” sbottò John, arrabbiato.
“Lo è. Il giovane Sherlock è la pecora nera della
famiglia Holmes. Il fratello maggiore ha faticato molto per rimetterlo
in carreggiata. Ora dicono che sia pulito da diverso tempo, visto che
collabora con Scotland Yard, ma con Mycroft Holmes non si sa mai.
Sarebbe capace di insabbiare tutto, pur di salvare le apparenze e il
suo buon nome,” intervenne Moran.
John non poteva credere alle proprie orecchie. Non avrebbe mai sospettato che Sherlock fosse un ex drogato. Ex,
comunque, era la parte importante della cosa. Sherlock non era
più un drogato e John avrebbe impedito che ricadesse in
quell’inferno: “Non vedo che cosa c’entri Sherlock in
tutto questo. Stavo parlando con Sebastian e vorrei farlo privatamente,
se non vi dispiace.”
“Stavate discutendo del matrimonio e questo riguarda anche noi,” ribatté Trent.
John era con le spalle al muro. Si voltò verso Sebastian,
cercando di ignorare la presenza dei Davemport: “Vorrei che
rinviassimo il matrimonio. Anche solo di una settimana,” disse,
risoluto.
“Perché?” Moran aggrottò la fronte, più curioso che arrabbiato.
John sospirò: “Quando ho avuto l’incidente,
c’era un altro uomo con me. Un mio carissimo amico. I testimoni
dicono che ci assomigliavamo moltissimo, tanto da sembrare quasi
gemelli. Potremmo essere stati scambiati. Io potrei chiamarmi John
Watson e non John Rowling.”
Allyson soffocò un grido, portandosi una mano alla bocca, ma fu
Davemport a intervenire, ringhiando furioso: “Stai insinuando che
una madre non sappia riconoscere il proprio figlio?”
“Da quello che mi ha raccontato… Allyson… non ci
siamo visti per anni. Potrebbe essersi confusa per non dovere ammettere
di avere perso anche il suo primogenito,” spiegò John.
“E io? Credi che io non possa riconoscerti?” Protestò Trent.
“Già. La signora Davemport potrebbe essersi sbagliata, ma
Trent che motivo poteva avere per non correggere il suo errore?”
Domandò Moran.
“Stai pensando ai soldi, vero? Eccolo qui, il piccolo bastardo
ingrato. Uno gli dà tutto. Lo alleva come se fosse suo figlio.
Non gli fa mancare nulla, ma lui continua a pensare che tu non sia
all’altezza del padre naturale. Beh, sappi che tuo padre non era
un santo. Lui ha tradito tua madre, la sua anima gemella, con diverse
donne…”
“TRENT!” Esplose Allyson.
“NO! È giunto il momento che il tuo caro e spocchioso
figliolo sappia tutta la verità sul suo papà perfetto.
È abbastanza grande per sapere che se la faceva con qualsiasi
gonnella che respirasse…”
“SMETTILA! Non dire un’altra parola. Qualsiasi cosa sia
accaduto, appartiene al passato. John non ricorda nemmeno suo padre e
tu non hai il diritto di infangare la sua memoria, sparlando di
lui.”
“Forse non hai capito una cosa, Ally. Il caro John sta cercando
di mandarci sul lastrico. Lui si è trovato un pollo da spennare
senza che a noi tocchi nemmeno un centesimo. Se annulla il matrimonio
con Sebastian, noi perderemo tutto!”
“Io non sto cercando di annullare il matrimonio! Voglio solo
essere sicuro di chi io sia, prima di sposarmi! Voglio sottopormi a un
test del DNA per accertare la mia identità. È
nell’interesse di tutti. Se io fossi John Watson e me lo
ricordassi a matrimonio avvenuto, questo sarebbe comunque nullo e voi
perdereste ugualmente tutto. Non è meglio saperlo prima di
commettere un errore?” Disse John, in tono ragionevole.
“Per chi mi hai preso? Mi credi veramente così stupido?
Pur di fare felice il suo caro fratellino, Mycroft Holmes sarebbe
capace di fare carte false. Per quell’uomo sarebbe anche troppo
semplice falsificare un test del DNA per farti passare per John Watson
e regalare un compagno di avventure a quello squinternato di suo
fratello,” ribatté Trent, in tono sarcastico.
John si voltò verso Sebastian, in cerca di appoggio: “E se
Sherlock avesse ragione? Se io fossi veramente John Watson, che cosa ne
sarebbe del tuo prestigio personale?”
“Pensi veramente che questa donna mi stia imbrogliando?” Chiese Moran, con un sorriso enigmatico sulle labbra.
John trattenne il respiro: “NO! Non sto dicendo…”
“Sì, che lo stai facendo. – si intromise Trent
– Stai affermando che tua madre sia una imbrogliona, una
truffatrice. Vuoi davvero sostenere una cosa così davanti a un
giudice? Perché questo sarebbe il solo modo che avresti per
rimangiarti la parola che hai dato il giorno in cui hai firmato il
contratto prematrimoniale, accettandone tutte le clausole. Davanti a
noi. A me e a tua madre. Quando siamo venuti a trovarti
nell’ospedale in cui eri ricoverato, dopo essere stato ferito in
missione,” concluse, in tono basso e minaccioso.
John non sapeva più che cosa dire. Trent Davemport stava
evidenziando la parte debole della sua tesi, mentre Allyson non
riusciva nemmeno a guardarlo negli occhi. John riportò la
propria attenzione su Moran, sperando ancora in un suo aiuto. L'uomo,
però, lo fissava con uno sguardo gelido e duro: “Non vi
sarà nessun rinvio. Se credi che il giovane Holmes abbia
ragione, annullerò le nozze e manderò in galera i
Davemport. Li rovinerò. I loro figli finiranno in qualche
orfanotrofio e mi assicurerò personalmente che rimangano dei
pezzenti, come i loro cari genitori. Non avrò nessuna
pietà. Già mi sono abbassato a sottostare a questa
ridicola usanza di sposare un fratello della propria anima gemella per
adeguarmi alle idee di vecchi parrucconi, che mi taglierebbero fuori
dai loro affari, se non lo facessi. Inoltre, voglio onorare la memoria
di mia moglie. Ho amato molto Kathy, ma ho sempre pensato che la sua
famiglia la sfruttasse e approfittasse del suo buon cuore. È
meglio che tu sia sicuro di quello che vuoi fare, John. Non ti
darò tempo per fare il test del DNA. C'è stata la festa.
Ti ho presentato a tutti come John Rowling, il mio futuro sposo, la mia
seconda anima gemella. Se ora io mettessi in dubbio la tua
identità, sarei coperto di ridicolo. Tutta la nobiltà
inglese, i miei soci e i miei avversari mi riderebbero dietro. Non
voglio, però, che mi consideri insensibile. Ti concedo una unica
possibilità, poi non ne parleremo mai più. Annulliamo il
matrimonio e io rovinerò i Davemport. Se hai ragione, loro
avranno quello che si meritano, ma se hai torto spedirai in galera tua
madre e suo marito, rendendo la vita dei tuoi fratellastri un inferno.
Sposami e io rispetterò tutte le clausole previste dal nostro
contratto prematrimoniale. La scelta è tua, John. ORA,” lo
sollecitò Sebastian, con voce dura e secca.
John sentiva la rabbia e la delusione di Sherlock, attraverso il loro
legame, perché il consulente investigativo sapeva che cosa
avrebbe deciso di fare John. Non aveva altra scelta. Nel dubbio, senza
una prova certa dello scambio di identità da mostrare in quel
preciso istante, John doveva proteggere quella che poteva essere la
propria famiglia. Moran non gli lasciava alternative: “Io…
accetto… mi sposerò con te… rispetterò il
contratto prematrimoniale…” mormorò, in tono appena
udibile.
Trent sorrise trionfante a Moran: “I patti vanno rispettati, Sebastian.”
“Lo farò. Come sempre. Non parleremo mai più di
questa storia. Non costringermi a comportarmi come il cattivo della
fiaba, John. Non ti piacerei.”
John non ascoltò il resto della conversazione fra i due uomini.
Sentiva solo la disperazione di Sherlock e il suo desiderio di
sopprimere il dolore che stava provando, in qualsiasi modo. Spaventato
da quello che Sherlock poteva fare, John uscì velocemente dalla
villa. Doveva raggiungere Sherlock e impedirgli di fare qualcosa di
stupido. Doveva fargli capire che non tutto era ancora perduto, per
loro. E che lui non avrebbe rinunciato facilmente a un futuro insieme.
Angolo dell’autrice
Non siate troppo cattivi con il povero John. Purtroppo, Sebastian e
Trent lo hanno messo con le spalle al muro, uno per salvare la faccia,
l’altro per il proprio tornaconto personale. Non disperate,
però. Ricordate che l’Universo (e l’autrice di
questa storia, ammorbidita del romanticismo delle Soulmate e dalle
vacanze) non permetterà mai che due anime gemelle rimangano
separate.
Aspetto i vostri commenti, se avete voglia di lasciarne.
Grazie per avere letto fino a qui. Grazie a 1234ok, a meiousetsuma e CreepyDoll per il commento allo scorso capitolo.
A domani.
Ciao!
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Capitolo 9 *** Addio ai sogni ***
Addio ai sogni
Stava di nuovo
nevicando. Stavolta, però, non era la neve soffice e giocosa del
giorno prima. I fiocchi erano piccoli e gelati. John non se ne rese
conto. Correva lungo il viale che dalla villa di Sebastian Moran
portava al cancello. Doveva raggiungere Sherlock e spiegargli che non
si sarebbero persi. Rassicurarlo. Garantirgli che non lo avrebbe mai
lasciato. Impedirgli di fare qualcosa di stupido. John sapeva di dovere
fare in fretta. Non riusciva a comunicare con lui attraverso il loro
neonato legame. Erano troppo lontani. Percepiva appena le emozioni di
Sherlock, come fantasmi aleggianti nella periferia della propria mente.
Eppure, John sapeva con assoluta certezza che quelle emozioni,
profonde, violente e devastanti, appartenevano a Sherlock. Il giovane
uomo biondo provava un profondo senso di colpa verso la propria anima
gemella. Si sentiva come se lo avesse tradito. Allo stesso tempo,
però, era conscio del fatto che non avrebbe mai potuto
abbandonare a se stessa quella che avrebbe potuto essere la sua
famiglia. Per quanto disprezzasse Trent, John sentiva di essere
responsabile per il benessere della madre e dei fratellastri,
incolpevoli per la grettezza di Davemport.
Arrivò al cancello quasi senza fiato. La strada era deserta,
salvo per un’auto nera, con i vetri oscurati, parcheggiata poco
distante dalla villa di Moran. John si guardò intorno, cercando
la fermata di un qualche autobus o della metropolitana. Non poteva
sperare nel passaggio causale di un taxi. Quella era una zona
residenziale di lusso e i suoi abitanti avevano anche più di un
autista al proprio servizio. Inoltre, non sapeva dove andare. Sherlock
non era certo a Baker Street e John non aveva idea di dove cercarlo.
L’auto nera si mosse e si fermò davanti a lui. La portiera
posteriore fu aperta e comparve il volto sorridente di una giovane
donna mora: “Signor John Rowling? Prego, salga. La porto da
Sherlock Holmes.”
John la fissò, interdetto: “Lei chi è? Come fa a conoscermi?”
“Lavoro per Mycroft Holmes. Mi ha chiesto di passare a prenderla per portarla dal fratello.”
John non esitò oltre. Salì sull’auto e chiuse la portiera.
Addio ai sogni
L’auto nera partì subito. L’interno era lussuoso, ma
non pacchiano. Era una dimostrazione di autorità e ricchezza,
senza essere troppo manifesta. John aveva incontrato Mycroft Holmes una
sola volta, al ballo, ma quella macchina rispecchiava completamente la
sua personalità di uomo riservato e severo.
La giovane donna mora era molto bella. Doveva essere alta e aveva un
fisico perfetto, sottolineato in modo delicato da un abito lungo e
nero. I capelli neri e ondulati cadevano ordinati sulle spalle, mentre
gli occhi neri sorridevano divertiti, come se lei sapesse qualcosa che
a John sfuggiva: “Mi può chiamare Anthea,” si
presentò, allungando una mano.
“Che, ovviamente, non è il suo vero nome. –
ribatté John, inclinando la testa e sorridendo – Se me lo
dicesse, poi mi dovrebbe uccidere?”
La risata della donna fu cristallina e divertita: “Quasi.”
John prese la mano che la donna gli aveva porto, ma la ritrasse subito,
provando una fitta. Si guardò la mano e vide che stava
sanguinando. Anthea portò lo sguardo sulla mano ferita e
frugò rapidamente nella propria borsetta, dispiaciuta:
“Oh, santo cielo. Mi dispiace. Il mio anello ha un difetto
nell’incastonatura di una pietra, ma di solito la tengo in alto,
in modo che nessuno si ferisca. Evidentemente si è spostato
senza che me ne accorgessi. Spero che non le faccia troppo male. Prenda
questo fazzoletto. Sono veramente mortificata. Non è una ferita
profonda, vero?”
John le sorrise rassicurante, tamponando la ferita: “Non è
nulla di grave. Guardi. Si sta già fermando,” aggiunse,
mostrando il piccolo taglio superficiale. John stava per mettere in
tasca il fazzoletto, quando Anthea lo prese: “Lasci pure a me. Lo
farò lavare io. È il minimo che posso fare, visto che si
è ferito per colpa mia.”
“Ho subito ferite peggiori, non si preoccupi. Dove stiamo andando?”
“Il signor Holmes ha fatto portare il fratello in un luogo
sicuro. Ci aspettano là,” rispose Anthea, evasivamente.
John sospirò e sperò che il posto sicuro fosse vicino.
Dai finestrini poteva vedere il paesaggio esterno. Evidentemente i
vetri oscurati erano stati pensati per non permettere di vedere chi si
trovasse all’interno dell’auto, ma i passeggeri potevano
vedere dove stessero andando. Questo lo rassicurava appena un
po’. Era salito sull’auto senza pensarci due volte,
fidandosi di una sconosciuta che poteva anche avere cattive intenzioni
o non lavorare affatto per Mycroft Holmes. John scrollò
mentalmente le spalle. Percepiva sempre più forte la presenza di
Sherlock e questa era l’unica cosa che contasse per lui.
Il tragitto sembrò eterno, ma non durò più di
mezz’ora. La neve ghiacciata continuava a cadere, rendendo le
strade scivolose. Davanti agli occhi di John si aprì quella
parte della periferia di Londra, caratterizzata da fabbriche e
magazzini abbandonati.
“Il luogo perfetto per eliminare e far sparire qualcuno,” si disse.
“Mio fratello ha un senso dell’umorismo molto particolare,” gli rispose Sherlock.
John non poté evitare di sogghignare. Qualsiasi cosa stesse per
accadere, loro sarebbero stati insieme e questo era rassicurante.
L’auto entrò in quello che era stato un enorme magazzino
per le merci della fabbrica posta accanto. Entrambi erano stati
abbandonati da molto tempo. Le intemperie e gli anni avevano lasciato
segni indelebili sulla grande struttura. La macchina si fermò e
John scese, accolto da Mycroft. Il maggiore degli Holmes sorrideva,
appoggiato pigramente al proprio ombrello.
“Signor Holmes,” lo salutò John, esitante.
“Mi chiami pure Mycroft. In fin dei conti, è pur sempre
l’anima gemella di mio fratello. Siamo quasi parenti e le
formalità fra noi sono superflue.”
“Mycroft… dove è Sherlock?”
“Sono qui,” rispose il giovane Holmes, comparendo alle spalle del fratello.
“Mi dispiace. Non sai quanto
vorrei non averti deluso. Quanto vorrei che le cose non fossero andate
in quel modo. Io…” proruppe John, superando Mycroft e andando verso Sherlock.
“Non devi scusarti. Sapevamo
che sarebbe stato difficile rimandare o annullare il matrimonio, non
avendo prove concrete in mano,” lo interruppe Sherlock.
I due uomini si allontanarono dall’auto. Anche se nessun altro
era in grado di percepire i loro pensieri, volevano avere più
intimità possibile. Mycroft non diede segno di essere
infastidito dai movimenti di John e Sherlock. Anzi, si rivolse alla
propria assistente: “Fatto?”
“Fatto,” rispose Anthea, picchiettando leggermente sulla propria borsetta.
“Allora vada subito. Pensiamo noi a riportare John in hotel.”
“Bene, signore. Farò ogni pressione possibile per avere i
risultati al più presto,” garantì la donna.
“Non ho dubbi,” Mycroft inclinò il capo, riconoscente.
L’auto con a bordo Anthea lasciò il vecchio magazzino.
Sherlock e John erano talmente impegnati nella loro discussione che non
se ne accorsero.
“Se ci fosse stato solo
Sebastian, forse sarei riuscito a convincerlo a rinviare le nozze. Non
pensavo di trovarmi davanti Trent… e… Allyson. Non so
nemmeno come chiamarla. Ho così tanti dubbi,” John scosse la testa, avvilito.
“Posso immaginare la scena madre recitata da Trent Davemport. Su che cosa ha fatto leva?” Chiese Sherlock, senza nascondere il proprio disgusto verso il presunto patrigno di John.
“Mi ha accusato di volere fare
il test per non mantenere la parola data, per il mio tornaconto
personale, ma soprattutto… – John esitò,
volgendo lo sguardo verso una finestra, posta troppo in alto e troppo
sporca per potervi vedere attraverso – Mi ha detto che stavo dando dell’imbrogliona e della truffatrice a mia madre,” sospirò infine.
“Che bastardo! Ha approfittato
del fatto che non ricordi nulla del tuo passato per fare leva sui
sentimenti che provi o che ti senti in obbligo di provare per quella
donna. Che cosa ha detto lei?”
“Nulla. Ascoltava, ma non
è mai intervenuta veramente. Ha tentato di impedire a Trent di
essere troppo duro, ma non ha mai parlato con me.”
“Ti è sembrata offesa dalle tue parole?”
John rifletté per qualche secondo: “Non direi. Fa qualche differenza?”
“Avrei dovuto venire con te. Mi sarebbe bastato osservare quella donna per capire se ti stessero mentendo.”
“Mi dispiace. Non volevo ferirti,” ripeté John.
“Non è colpa tua. Tu sei
un uomo buono, un’anima generosa, che non approfitterebbe mai
delle debolezze altrui per raggiungere il proprio tornaconto.”
“Sebastian mi ha messo davanti
a un aut aut. O le nozze o la prigione per Allyson e Trent. Non ho
potuto fare altro che confermare le nozze. Non potevo permettere che
Moran distruggesse i Davemport, senza avere l’assoluta certezza
che loro non fossero la mia famiglia.”
“Lo so,” ribatté Sherlock in tono secco.
John non poté evitare di percepire il senso di abbandono e
solitudine provato da Sherlock. Gli arrivò nella mente
l’immagine di un bambino magro e alto, preso in giro dai compagni
di scuola per la sua intelligenza. Vide il bambino soffrire,
perché non era accettato. Lo vide diventare sempre più
solo e acido, perché nemmeno crescendo veniva compreso. Il cuore
di John si strinse in una morsa dolorosa. Sherlock si sentiva
abbandonato anche da lui. Dalla sua anima gemella. Dall’unica
persona nell’universo che non avrebbe mai dovuto respingerlo.
“Io non ti lascerò mai,” disse John, a voce alta, con trasporto.
“John…”
“Non è tutto perduto. Solo perché mi sposerò
con Moran, non significa che non possiamo rimanere amici, vederci,
indagare sui tuoi casi insieme. Io non farò la parte dello sposo
mantenuto. Non rimarrò chiuso nella mia gabbia dorata. Il
contratto prematrimoniale prevede il divorzio solo nel caso in cui io
tradisca Sebastian fisicamente. Non mi impedisce di avere un lavoro e
rapporti con il resto del mondo. Nemmeno con la mia anima gemella.
Sebastian Moran e Trent Davemport devono solo provare a impedirmi di
frequentarti, come amico. Tu mi vuoi ancora come tuo assistente?”
Sherlock sorrise dell’entusiasmo e della spavalderia di John:
“Potrebbe essere pericoloso,” sussurrò, suadente.
“Lo stai dicendo a uno che è stato in guerra in Afghanistan,” ribatté John, con lo sguardo serio.
“Ti voglio,” affermò Sherlock, in tono altrettanto serio. “Ti
voglio in qualsiasi modo mi sia possibile averti. Come assistente,
amico, anima gemella, amante, compagno, alleato. In ogni modo tu mi
permetterai di averti. Fino a quando ti stancherai di me,” aggiunse, solo per loro.
“Se aspetti che io mi stanchi di te, dovrai abituarti ad avermi fra i piedi per sempre,”
concluse John, avvicinandosi a Sherlock di un passo. Erano così
vicini che potevano sentire i loro cuori battere velocemente,
all’unisono. Erano così vicini da sentire uno il respiro
dell’altro sul proprio viso. Erano così vicini da vedersi
riflessi negli occhi dell’altro.
“Promettimi che non farai nulla di stupido,” sussurrò John.
“Prometto di non fare nulla che non approveresti,” mormorò Sherlock.
John inclinò la testa di lato: “Mi sa che mi debba accontentare di questo, vero?” Sorrise.
“È meglio che lei vada. Non vogliamo che Moran venga a cercarla, vero?”
John esitava. Non voleva lasciare solo Sherlock. Non era giusto.
“Vada pure, John. La mia auto la riporterà in hotel,” intervenne Mycroft.
“Voi come tornerete?”
“Oh, non si preoccupi. Noi ce la caveremo.”
John fece un cenno con il capo, strinse le spalle e marciò verso
l’auto. Sherlock lo osservò mentre si allontanava. Poteva
anche avere perso il primo round, ma non era detto che la partita fosse
veramente chiusa.
Angolo dell’autrice
Sherlock comprende sempre le azioni di John e non gli rinfaccia mai
nulla. Del resto, come si fa a rinfacciare qualcosa a qualcuno, quando
questo cerca di proteggere la propria famiglia?
Grazie per avere letto anche questo capitolo. Grazie a 1234ok,
meiousetsuna, CreepyDoll ed emerenziano per i commenti ai capitoli
precedenti.
Ogni commento è sempre benvenuto.
A domani!
Ciao!
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Capitolo 10 *** Il matrimonio della mia anima gemella ***
Il matrimonio della mia anima gemella
Era il 23
dicembre. Natale era sempre più vicino e un manto bianco di neve
avvolgeva Londra, ma la giornata era soleggiata e il cielo era di un
azzurro terso, atipico per il mese di dicembre. I londinesi e i turisti
erano felici, perché le previsioni del tempo avevano annunciato
sole per tutto il periodo delle vacanze natalizie. Il sole di
mezzogiorno illuminava la stanza dell’hotel in cui John si stava
preparando. Quello era un giorno importante, che l’uomo avrebbe
ricordato per il resto della propria vita.
Era il giorno del suo matrimonio.
John si stava guardando allo specchio. Osservava l’uomo riflesso,
avvolto da un tight nero. La camicia bianca aveva ai polsi dei gemelli
con delle pietre azzurre, che richiamavano il colore degli occhi di
John. I gemelli erano un regalo personale di Sebastian Moran. John
capiva che fosse stato un gesto cortese e amichevole, ma non riusciva a
guardare i gioielli senza provare rabbia. Gli sembrava che i gemelli
fossero le catene che lo avrebbero legato a Sebastian Moran per
più tempo di quello che John avrebbe voluto. Gli sembrava che
rappresentassero il prezzo pagato per comprare la sua libertà e
separarlo dalla sua anima gemella. Non aveva più incontrato
Sherlock. I preparativi per il matrimonio avevano riempito le sue
giornate. Lo avrebbe chiamato appena quella giornata da incubo fosse
terminata. John si guardava allo specchio e continuava a chiedersi chi
fosse l’uomo riflesso. Continuava a non riconoscerlo. A
considerarlo come un estraneo. A chiedersi se mai avrebbe saputo chi
fosse in realtà.
Il matrimonio della mia anima gemella
Un lieve bussare alla porta distolse John dai propri pensieri.
L’uomo biondo andò ad aprire la porta. Allyson era vestita
con un abito lungo azzurro, semplice, ma elegante. Un cappellino dello
stesso colore, messo in diagonale sui capelli biondi raccolti in un
semplice chignon, completava il vestiario: “Buongiorno, John.
Sono venuta a vedere se tu abbia bisogno di qualcosa.”
“Prego, accomodati,” sorrise John, facendosi da parte. Non
sapeva mai come rivolgersi alla donna. Non riusciva a chiamarla
“mamma”, perché per lui era una perfetta
sconosciuta. D’altra parte, non voleva trattarla in modo freddo e
distaccato per non procurarle un inutile dolore.
Allyson entrò e si fermò in mezzo alla stanza. Sembrava insicura su che cosa dire o come cominciare a dirlo:
“Ero venuta a vedere se tu avessi bisogno di aiuto, ma vedo che sei già pronto,” ripeté timidamente.
“Grazie per il pensiero, ma le ferite non sono più dolorose e sono riuscito a vestirmi con facilità.”
“Bene. Sono contenta,” annuì Allyson.
Tra i due calò un silenzio imbarazzato. John non sapeva che cosa
altro aggiungere, mentre Allyson cercava il coraggio di porre una
domanda, la cui risposta la spaventava molto.
“Posso offrirti un po’ di tea? Dovrebbe esserne rimasto
dalla colazione, anche se potrebbe essere un po’ freddo,”
propose John, per superare l’imbarazzo.
“Grazie. Va bene anche freddo. Senza nulla,” rispose
Allyson, andandosi a sedere su una delle poltrone del salottino.
Sebastian Moran aveva affittato per John una suite in uno dei migliori
hotel di Londra. La suite era grande quanto un piccolo appartamento e
comprendeva un salotto, una stanza da letto e un grande bagno. Ogni
stanza era separata dall’altra da porte in legno pregiato.
John porse ad Allyson la tazza di tea e si sedette nel divano, di
fronte a lei. La donna sorseggiò appena il tea: “So che
tra noi non c’è molta intimità e non te ne faccio
una colpa, John. È difficile confidarsi con una sconosciuta,
anche se questa asserisce di essere tua madre…”
“Mi dispiace, io…”
“… no, caro, ti prego, non mi interrompere o non
riuscirò ad arrivare fino in fondo. Come dicevo, io ti capisco,
ma ho… bisogno… sì bisogno… devo sapere se Sherlock Holmes sia la tua anima gemella.”
John rimase leggermente interdetto: “Perché per te
è così importante sapere se Sherlock ed io siamo anime
gemelle?”
“Ti prego, rispondi solo alla domanda,” insisté Allyson.
John la vide così agitata, che decise di non porre ulteriori
domande: “Sì. Sherlock ed io siamo anime gemelle. Abbiamo
deciso di non divulgare la notizia per non rendere ancora più
complicata una situazione già problematica. Ti sarei molto grato
se tu tenessi questa confidenza per te.”
Allyson annuì e sembrò sul punto di dire qualcosa, quando
qualcuno bussò in modo frenetico alla porta. John
aggrottò la fronte, si alzò e andò ad aprire.
Trent aveva ancora il pugno alzato a mezz’aria, pronto a batterlo
ancora sulla porta, quando John la spalancò. I due uomini si
fissarono guardinghi.
“Mia moglie è qui?” Domandò Trent, in tono secco.
“Sì,” rispose John, senza scontarsi dall’ingresso, impedendo a Trent l’accesso alla stanza.
“Vorrei parlare con mia moglie,” sibilò Trent, in tono irritato.
“Ero solo venuta a vedere se John avesse bisogno di aiuto per
vestirsi,” intervenne prontamente Allyson, mettendosi alle spalle
del giovane uomo biondo.
“Credo che John sia cresciuto abbastanza da potersi vestirsi da solo,” ribatté Trent, in tono sarcastico.
“Per favore, Trent. Oggi è il giorno in cui mio figlio si
sposa. È una giornata importante. Mi sembra giusto trascorrere
un po’ di tempo con lui,” Allyson stava quasi supplicando
il marito, per essere lasciata sola con John.
“È un uomo adulto, Ally. Non ha bisogno che tu gli tenga
la mano. Soprattutto perché si tratta di un matrimonio di
facciata. Non ci sarà alcuna prima notte di nozze di cui tu ti
debba preoccupare. Andiamo in chiesa a ricevere gli ospiti. È
questo il nostro compito.”
Allyson sospirò, ma non osò contraddire il marito.
Lasciò un lieve bacio sulla guancia di John: “Ci vediamo
in chiesa, caro,” sussurrò in un orecchio del giovane uomo
biondo.
John la osservò, mentre usciva velocemente a occhi bassi. Trent
sembrava furioso e afferrò saldamente la moglie per un braccio,
per essere sicuro che non tornasse indietro. John, perplesso, si chiese
di che cosa volesse parlargli Allyson e se Trent le avesse impedito di
rivelare qualcosa che avrebbe potuto compromettere il matrimonio.
Gregory Lestrade Holmes sospirò avvilito, passandosi una mano
tra i capelli prematuramente ingrigiti. Aveva una strana e spiacevole
sensazione di déjà-vu. Non era trascorso tanto tempo da
quando aveva dovuto convincere Sherlock a partecipare al ballo alla
villa di Sebastian Moran. Ora stava trovando la stessa opposizione per
andare al matrimonio di John. Persino le loro disposizioni nella stanza
erano le stesse. Sherlock buttato sulla propria poltrona davanti al
caminetto. Greg seduto su quella di fronte. Mycroft in piedi accanto
alla porta. L’unica cosa diversa, che irritava moltissimo
l’ispettore, era la totale indifferenza del marito a quello che
stava accadendo nella stanza. Mycroft continuava a sbirciare il proprio
cellulare, come se fosse molto più importante del convincere
Sherlock a vestirsi per accompagnarli al matrimonio.
“Potresti mettere via quel dannato cellulare e aiutarmi con Sherlock?” Ringhiò, irritato.
“Ti sto già aiutando,
Gregory. Sai benissimo che, se io intervenissi, il mio caro fratellino
si impunterebbe ancora di più. Insisti. Vedrai che troverai le
parole giuste per convincerlo. Lo fai sempre.”
Greg sbuffò, scompigliandosi ulteriormente i capelli sale e pepe: “Avere a che fare con voi due, mi ha fatto perdere dieci anni di vita!”
“Senza noi due ti saresti annoiato a morte,” sogghignò Mycroft.
“Smettetela di comunicare telepaticamente! Siete irritanti e melensi,” sbottò Sherlock.
“Vai a vestirti. Non puoi mancare a questo matrimonio!” Intimò Greg.
“Dammi una sola ragione sensata perché io partecipi alle
nozze della mia anima gemella con un altro. Tu saresti andato al
matrimonio di Mycroft, se avesse sposato un’altra persona?”
“Sì. Perché avrei saputo che la mia presenza
sarebbe stata di conforto a Mycroft. Se lui avesse sposato qualcun
altro, lo avrebbe fatto solo perché costretto. Quindi gli avrei
dato tutto il sostegno possibile, presentandomi alle nozze e
assicurandogli che non lo ritenessi responsabile del fatto che non
potessimo stare insieme,” rispose Greg, in tono deciso.
Sherlock lo studiò per qualche secondo. Le mani congiunte sotto
il mento. Gli occhi azzurri fissi in quelli marroni del cognato, come
se stesse cercando di leggergli nella mente.
“John sta sacrificandosi per la propria famiglia. Sta compiendo
un gesto nobile, generoso e altruista, rinunciando alla propria
felicità per il bene della madre e dei fratellastri. Tu devi
essere orgoglioso di lui e dimostrargli tutto il tuo appoggio alla
difficile decisione che è stato obbligato a prendere. Per farlo,
devi venire al suo matrimonio insieme a noi,” insisté
Greg, in tono accorato.
Sherlock spostò lo sguardo sul fratello. Mycroft si stava
comportando in modo insolito. Il suo continuo consultare il cellulare
era irritante, ma sembrava che stesse attendendo notizie di vitale
importanza. Non poteva essere una questione di lavoro. Mycroft era
molto più discreto, quando doveva occuparsi di un problema
delicato, che riguardava la sicurezza nazionale. Mycroft voleva
sicuramente che Sherlock lo notasse, ma non gli avrebbe mai spiegato il
perché. Era come se il fratello maggiore stesse inviando un
messaggio in codice al minore, ma a Sherlock mancasse la chiave per
decifrarlo. Il consulente investigativo riportò lo sguardo
sul cognato per qualche secondo, prima di alzarsi di scatto:
“Vado a vestirmi.”
Greg sorrise: “Grazie, Sherlock.”
“Lo faccio per John,” spiegò il giovane Holmes.
“Lo so. Ti ringrazio da parte sua. John apprezzerà la tua presenza.”
Con uno svolazzo del fondo della vestaglia viola che indossava,
Sherlock si diresse alla propria stanza, per prepararsi alla battaglia.
La chiesa era affollata. Tutta la nobiltà inglese e la borghesia
ritenuta importante era presente al matrimonio. Gli uomini erano tutti
obbligatoriamente in tight nero. Le donne indossavano abiti variopinti
di ogni stile, rigorosamente lunghi. Sherlock osservava quasi con
orrore i cappellini femminili dalle estrose e intricate forme,
appoggiati su acconciature complicate.
Sebastian Moran era ritto in piedi davanti all’altare. Le prime
note del Preludio Opera 28 numero 6 in Si minore di Fryderyk Chopin
zittirono il chiacchiericcio degli ospiti, che si voltarono verso il
fondo della chiesa. John apparve e iniziò a percorrere la
navata, zoppicando leggermente verso il proprio futuro sposo. Non aveva
voluto il bastone. Non voleva apparire come un invalido e celava
stoicamente il dolore provato nel camminare appoggiando il peso sulla
gamba rimasta ferita nell’incidente ferroviario.
Sherlock strinse i denti, trattenendosi appena dall’andare da John per aiutarlo.
“Grazie. Sono contento che tu sia qui.”
“Non vorrei essere da
nessun’altra parte. Vorrei urlare al mondo intero quanto io sia
orgoglioso di te. Anche se ti picchierei, per avere deciso di
sacrificarti per persone che non lo meritano.”
“Anche tu sei molto importante per me,” mormorò John, con un accenno di sorriso.
John arrivò davanti all’altare e si fermò accanto a
Moran, che lo prese per una mano. Padre Julian O’Brien
iniziò a celebrare la cerimonia e tutto procedeva con una calma
noiosa. Padre O’Brien stava parlando dei diritti e dei doveri
degli sposi, quando Sherlock domandò irritato: “ Nessuno ha informato il prete che questo è un matrimonio finto e che sta solo sprecando il fiato?”
“Se anche lo hanno informato, non sarebbe opportuno che lui lo sbandierasse ai quattro venti,” ribatté John, cercando di non sorridere.
“Le solite ipocrite convenzioni
sociali. Perché fingere che tutto sia perfetto, anche quando
tutti sanno che non è così?”
“Bisogna sempre salvare le apparenze, Sherlock,” sospirò John, che si girò di scatto verso il prete, quando sentì qualcuno che si schiariva la voce.
“Accetti?” Chiese Padre O’Brien.
John lo fissò interdetto, rendendosi conto che il prete
attendeva una risposta, ma lui non aveva sentito la domanda. John
arrossì violentemente: “Sì?” Rispose
titubante, evitando accuratamente di guardare verso Sebastian.
Padre O’Brien tirò un sospiro di sollievo e sorrise,
rivolgendosi verso Moran: “Vuoi tu Sebastian Phillip Devon Moran
prendere il qui presente John Harry Rowling come tuo legittimo sposo,
giurando di amarlo, onorarlo, prenderti cura di lui fino a che morte
non vi separi?”
“Sì,” ringhiò Moran, decisamente furioso per
la distrazione di John. Sherlock sogghignò, guadagnandosi
un’occhiataccia da parte di Greg.
“Mycroft è perennemente attaccato al suo cellulare. Sgrida lui!” Sbottò sottovoce.
Greg fulminò anche il marito, ma non ottenne nulla. Scosse la
testa, rassegnato, e prendendo mentalmente nota del fatto che, a
cerimonia terminata, avrebbe fatto una bella ramanzina a entrambi i
fratelli Holmes. In quel momento, il cellulare di Mycroft vibrò.
Il maggiore degli Holmes lesse rapidamente il messaggio e sul suo viso
si dipinse un’espressione trionfante.
Padre O’Brien stava portando a termine la cerimonia con la
formula di rito: “Se qualcuno dei presenti conosce un motivo
perché questi due uomini non debbano essere uniti nel sacro
vincolo del matrimonio, parli ora o taccia per sempre,”
pronunciò in tono solenne. Aveva appena terminato di pronunciare
la frase, quando due voci si levarono all’unisono, affermando:
“Io ho qualcosa da dire!”
Angolo dell’autrice
Per la serie “Questo matrimonio non s’ha da fare!” Ho
sempre desiderato fermare un matrimonio in questo punto. Questa mi
è sembrata un’ottima occasione per farlo. Qualcuno pensava
che avrei permesso veramente a John di sposare Sebastian Moran?
Aspetto i commenti di chi voglia lasciarmi anche solo due righe.
Grazie per avere letto fino a qui. Grazie a 1234ok, meiousetsuna e CreepyDoll per la recensione allo scorso capitolo.
A domani!
Ciao!
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Capitolo 11 *** L'ora della verità ***
L'ora della verità
Il
pomeriggio inglese era soleggiato e gelido. La chiesa era illuminata
dal sole, che filtrava attraverso le finestre colorate, creando
arcobaleni variopinti sul marmo bianco dei pavimenti. I banchi erano
pieni di ospiti, che assistevano al matrimonio, testimoni
dell’unione di due uomini che sarebbero stati dichiarati marito e
marito e anime gemelle.
Era tutto perfetto?
No.
Almeno a giudicare dalle
espressioni sconvolte e allibite presenti sui volti degli ospiti e di
Padre Julian O’Brien, il prete che stava officiando la cerimonia.
Padre O’Brien aveva quasi
settanta anni e si stava avviando verso il termine della propria
onorata carriera al servizio della Chiesa Anglicana. Era un uomo alto e
robusto, con radi capelli bianchi e vivaci occhi marroni. Sempre pronto
al sorriso e disponibile verso tutti, aveva sposato tanti giovani (e
meno giovani) durante gli anni della sua carriera ecclesiastica, che
era stata tranquilla e ordinaria. Non gli era capitato mai nulla di
strano o particolare. Aveva celebrato anche matrimoni combinati o
imposti o contrastati. Aveva visto sposi felici o arrabbiati o
disperati, ma non gli era mai successo che qualcuno rispondesse alla
domanda di rito: “Se qualcuno conosce un motivo per cui queste
due persone non debbano essere unite nel sacro vincolo del matrimonio,
parli ora o taccia per sempre.” Anche nei matrimoni più
contrastati, a quella frase era seguito l’assoluto silenzio.
Padre Julian O’Brien non
avrebbe mai dimenticato quel giorno. Alla sua domanda avevano risposto
ben due voci distinte che si opponevano al matrimonio che lui stava
celebrando.
Le teste di tutti si voltarono, curiose e incredule, verso Allyson Davemport e Mycroft Holmes.
L’ora della verità
Greg non riusciva a capacitarsi del
fatto che il marito stesse opponendosi al matrimonio di John con Moran.
Sapeva che Mycroft e Moran appartenevano a due schieramenti
politicamente contrapposti, ma non poteva credere che il marito avesse
atteso quel preciso momento per mettere in difficoltà un
avversario politico.
“Ovviamente
ho avuto la conferma solo ora, altrimenti avrei fermato questa farsa
molto prima. Sai quanto sia complicato avere i risultati del test del
DNA da tre laboratori inappuntabili e inattaccabili nel giro di pochi
giorni?” Sbottò Mycroft, alzando un sopracciglio
quasi indignato all’indirizzo del compagno. Prima che Greg
potesse ribattere, uno sorridente Sherlock attirò
l’attenzione del fratello su di sé: “Hai scoperto
qualcosa su John che impedisca questa follia, vero?”
Mycroft non riuscì a
rispondere nemmeno al fratello minore. Un vociare furioso dalla prima
fila attirò l’attenzione di tutti gli astanti. Allyson e
Trent Davemport litigavano e le loro voci stavano assumendo toni sempre
più alti e concitati.
“Sei impazzita? Che cosa
pensi di fare? Vuoi mandare tutto a monte? Pensa a Ken e Barbie. Che
cosa ne sarà di loro? Stai rovinando la vita dei tuoi figli per
permettere al piccolo bastardo di essere felice?”
“Quello che stiamo facendo
non è giusto! John ha trovato la sua anima gemella e noi non
abbiamo il diritto di negargli la sua felicità,”
ribatté Allyson, cercando di liberarsi dalla presa del marito.
“Questa storia
dell’anima gemella è troppo sopravvalutata. Si vive
benissimo anche senza,” sibilò Trent.
“Lo dici solo perché tu non hai mai trovato la tua.”
Un lampo furioso attraversò
gli occhi di Davemport: “Voi, che avete trovato la vostra anima
gemella, vi sentite superiori a noi e ci guardate con pietà, ma
non siete altro che spocchiosi e altezzosi bastardi…”
“Direi che lei abbia detto
già anche troppo, signor Davemport,” Mycroft si era
portato di fianco ai due litiganti e intervenne in tono tranquillo, ma
deciso, interrompendo l’invettiva del patrigno di John.
“Che cosa vuoi tu? Sto parlando con mia moglie.”
“Credo sia meglio che andiamo
a parlare in sacrestia. A meno che lei non voglia spiegare
perché John e Sebastian non si possano sposare qui, davanti a
tutti,” rispose Mycroft, in tono minaccioso.
Allyson e Trent si irrigidirono
entrambi. Con un gesto deciso, la donna si liberò dalla ferrea
stretta del marito e andò verso il maggiore degli Holmes:
“Lo sa anche lei,” affermò, sollevata.
“Ne ho le prove, ma sarebbe più opportuno se fosse lei a spiegare tutto,” annuì Mycroft.
“Grazie per avermi dato
questa possibilità. Padre O’Brien, potremmo andare in
sacrestia? Dovremmo parlare di una cosa molto importante.”
“Ora? A cerimonia quasi conclusa?” Domandò il prete, incredulo.
“Sì padre, ora,” confermò Allyson.
“Se non terminiamo la
cerimonia, il matrimonio non sarà valido!” Sbottò
padre O’Brien, sconvolto.
“Ed è giusto che sia
così,” sentenziò la donna, con sicurezza. Allyson
si diresse verso John e gli accarezzò il viso, teneramente:
“Spero che tu possa capire e perdonarmi,” sussurrò,
in tono dispiaciuto.
Prima che John potesse chiedere
qualche spiegazione, Allyson si avviò verso la sacrestia. Lei
sapeva che cosa volesse dire avere un’anima gemella. Lei sapeva
quale fosse la differenza fra il vivere con la propria anima gemella o
con qualcuno di cui ci si era solo innamorati. Era giunto il tempo che
ciò che l’universo aveva creato per stare insieme, fosse
finalmente unito.
La sagrestia era piccola e arredata
con semplicità, quasi in modo spartano. Padre O’Brien non
amava il lusso o i mobili troppo vistosi. L’armadio, la scrivania
e le sedie erano senza decorazioni e avevano delle fogge semplici ed
essenziali. In quel momento, la stanza era affollata. Oltre a Padre
O’Brien, che spalancò la finestra posta di fronte alla
porta anche se fuori la temperatura era gelida, c’erano i coniugi
Davemport, John, Moran, i fratelli Holmes e Greg. Decisamente troppe
persone per quel piccolo luogo di pace.
Allyson si andò a sedere,
tenendo la schiena rigida, in una delle sedie e si voltò verso
John, accennando all’altra sedia con una mano: “Devo dirti
una cosa, ma è meglio che tu sia seduto.”
John aggrottò la fronte, ma
non disse nulla. Si sedette accanto alla donna con il cuore che batteva
a mille. La sua mente riusciva a formulare un unico pensiero: “Forse
Sherlock aveva ragione. Forse io sono davvero John Watson. Altrimenti,
perché Allyson avrebbe interrotto la cerimonia?”
“Imparalo da ora, John. Io ho sempre ragione,” sogghignò Sherlock.
John lo ignorò,
concentrandosi sulla donna. Allyson respirò profondamente, come
se dovesse fare appello a tutto il proprio coraggio per riprendere a
parlare: “Avevi ragione. Tu non sei mio figlio. Tu sei il suo
caro amico, il dottor John Watson,” pronunciò tutto
d’un fiato.
“Questa donna è pazza!
Sta mentendo! Si sta inventando tutto per permettere a suo figlio di
andare a vivere con la propria anima gemella!” Sbraitò
Trent, furente, quasi lanciandosi sulla moglie per aggredirla
fisicamente.
Greg si parò prontamente fra
i due coniugi, minaccioso: “Sarà meglio che si calmi,
signor Davemport. La sua posizione è già abbastanza
grave, non mi sembra il caso di aggiungere altre accuse a quelle che
verranno sicuramente mosse a lei e a sua moglie per questo piccolo
imbroglio che avete orchestrato.”
Allyson si afflosciò sulla
sedia, quasi in lacrime: “Dopo l’incidente, la polizia ci
ha informato che mio figlio John era in ospedale, ferito gravemente. La
polizia ci disse che non aveva documenti, dato che aveva lasciato la
giacca al suo posto, ed era stato identificato grazie all’anello
di fidanzamento che portava al dito. Quando ti vedemmo in ospedale,
capimmo immediatamente che c’era stato uno scambio di persona. Io
ero sconvolta, perché anche mio figlio era morto. Trent mi disse
che dovevamo lasciare le cose come stavano. Se avessimo rivelato la
verità, noi avremmo perso tutto. Dovevamo pensare ai nostri
figli, al loro futuro e al loro benessere. Prendere tempo per trovare
una soluzione. Io accettai. Sapevo che John stava viaggiando con un
amico, che non aveva né una famiglia né un’anima
gemella. John Watson. Una volta che ti fossi svegliato, ti avremmo
chiesto di aiutarci, almeno per un po’ di tempo. Sapevo che era
una truffa, ma Sebastian è un uomo molto ricco. Quello che ci
avrebbe dato non lo avrebbe mandato in rovina, mentre per noi quella
cifra era di vitale importanza. Avremmo approfittato della cosa per
poco tempo. Trent si sarebbe trovato un lavoro, così tu avresti
potuto divorziare da Sebastian e riprendere la tua vita. Quando i
medici ci hanno informati del fatto che tu non ricordassi nulla, mi
è sembrato quasi un segno del destino. Come se il nostro piccolo
sotterfugio fosse stato compreso e approvato dall'alto. Non pensare
male di noi, John. Volevamo solo guadagnare un po’ di tempo per
risolvere i nostri problemi, ma ti avremmo rivelato tutto.”
“Sotterfugio? Hai un bel coraggio, Allyson! Questa è una truffa,” sibilò Moran, furioso.
“Mi dispiace, Sebastian,” mormorò la donna, avvilita.
“Smettila di fare la scena,
Ally, non mi inganni più. Avete sempre approfittato del buon
cuore di Kathy per spillarle più soldi che potevate. Ora avete
sfruttato l’amnesia di quest’uomo per continuare a
pretendere denaro che non avevate il diritto di chiedere…”
“Non abbiamo mai chiesto soldi a Kathy!” Sbottò Allyson, scattando in piedi, oltraggiata.
“Come no? Ogni mese il tuo
caro marito veniva a battere cassa con Kathy, facendola sentire in
colpa per avere un uomo pieno di soldi come anima gemella. Kathy gli ha
sempre dato tutto quello che lui chiedeva. Questo era l’unico
motivo per cui litigavamo in continuazione. Kathy non riusciva a dirvi
di no. Ho dovuto accettare di sposare John a causa di quella stupida
tradizione. Se non fosse stato che avrei perso prestigio e potere,
avrei rotto i ponti con voi sfruttatori senza pensarci due volte, dopo
la morte della mia Kathy.”
Allyson era incredula. Si
portò un pugno alla bocca, come per impedire a un urlo di
uscire. Guardò il marito, inorridita: “Trent… che
cosa hai fatto…” mormorò.
“Non penserai di riuscire a farmi credere che non ne sapevi nulla!” Ringhiò Moran, sarcastico.
“Non sta mentendo. –
intervenne Sherlock, in tono deciso – Ha accettato di far passare
John Watson per suo figlio, ma non sapeva veramente che il marito
chiedesse soldi alla figlia.”
“E io penso che non sappia
nemmeno che il marito stia avvelenando John,” si intromise
Mycroft, pigramente appoggiato alla porta della sagrestia.
L’attenzione di tutti si
spostò sul maggiore degli Holmes. Trent lo fissava furioso,
consapevole che non avrebbe potuto fuggire da nessuna parte.
“Sta avvelenando John?” Chiese Sherlock, stupito e arrabbiato.
“Io ho fatto eseguire un test
del DNA, per sapere chi fosse veramente John. Per evitare che qualcuno
mi accusasse di avere imbrogliato le carte, ho fatto eseguire il test
in tre laboratori diversi. Ti farò avere i nomi, Sebastian. Il
medico di uno dei laboratori ha chiesto l’autorizzazione a
eseguire altri esami, per testare alcuni nuovi macchinari appena
arrivati. La mia assistente ha accettato. In fin dei conti, i risultati
non sarebbero mai stati resi pubblici. Quando ha avuto gli esiti, il
medico è rimasto molto sorpreso, notando che qualcuno stava
avvelenando John con del cianuro.”
“No. Non è possibile,” mormorò Allyson.
“Perché mi dovrebbero avvelenare? Sto facendo tutto quello che vogliono!” Domandò John, allibito.
“Bisogna sempre leggere le clausole scritte in piccolo, John,” Mycroft sorrise sornione.
“La clausola sul
mantenimento! – Sherlock intervenne, con gli occhi che brillavano
per la rabbia – Il contratto prematrimoniale prevedeva che, in
caso di divorzio, John Rowling avrebbe ricevuto 250.000 sterline al
mese, fino al termine della sua vita. Alla sua morte, la famiglia non
avrebbe ricevuto nemmeno un centesimo. Invece, se John Rowling fosse
deceduto mentre era ancora sposato, Moran sarebbe stato costretto a
versare alla famiglia Davemport 500.000 sterline al mese.”
“Ricordo quella clausola.
È abbastanza comune nei contratti prematrimoniali firmati in
circostanze come queste. Io non ero molto propenso a farla inserire, ma
Davemport ha insistito per metterla comunque. Ha spiegato che lo faceva
per Allyson, per assicurarle un futuro sereno nel caso in cui fosse
successo qualcosa anche a John. Ho ritenuto che non ci fosse nulla di
strano, in quella richiesta. Come ho detto, è una prassi comune
inserirla nei contratti prematrimoniali,” chiarì Moran.
“Anche perché avresti
fatto di tutto per far durare questo matrimonio il meno possibile. Ti
sei adeguato alla tradizione per convenienza. Inoltre, sapevi che
l’eventuale divorzio non ti avrebbe causato alcun danno
d’immagine. Tutti sanno che i matrimoni con la seconda anima
gemella non durano. Avresti solo confermato la statistica e avvalorato
l'idea che solo le vere anime gemelle possono convivere,” Mycroft
interloquì, con un sorriso sarcastico sulle labbra.
“Davemport conosceva le
statistiche, come tutti. Non poteva permettere che Moran esasperasse
John fino al punto di chiedere il divorzio. Davemport non avrebbe
ricevuto benefici economici. Anzi. Allora, ha fatto inserire quella
clausola, prima dell’incidente ferroviario. Aveva già
pianificato di uccidere John Rowling, per riceverne
l’eredità. Dopo lo scambio di persona, l’omicidio di
John è diventato ancora più impellente. Davemport non
poteva permettere che John Watson riacquistasse la memoria,
rovinandogli il piano di farsi mantenere da Moran a vita,”
concluse Sherlock.
Allyson scuoteva la testa, incredula: “Trent… ti prego… nega…”
“Kathy e John avevano trovato
la loro gallina dalle uova d’oro. Perché dovevano goderne
i benefici solo loro? Perché non anche noi? Era giusto che anche
noi avessimo la nostra parte. E io mi sono assicurato che fosse
così. Tutto sarebbe andato bene, se questo piccolo bastardo non
avesse incontrato la sua dannata anima gemella. Ora siamo rovinati,
perché tu ti sei lasciata impietosire!” Urlò Trent,
con disgusto.
“Trent Davemport, la dichiaro
in arresto per truffa e tentato omicidio. Chiuda la bocca ed eviti di
peggiorare la sua situazione. Allyson Davemport…”
“Non sporgerò denuncia
contro mia suocera. Ha perso due figli. Direi che abbia già
pagato abbastanza. Per Trent non provo alcuna pietà. Potete
sbatterlo in cella e buttare via la chiave. Se il dottor Watson vuole
sporgere denuncia contro entrambi, faccia pure,” Moran interruppe
Lestrade.
“Sono d’accordo con
Sebastian. Allyson mi ha rivelato la verità. Non farò
nulla, contro di lei,” concordò John.
Un leggero bussare alla porta fece spostare Mycroft, che aprì l’uscio. Alcuni agenti entrarono nella stanza.
“Arrestate Trent Davemport e
portate anche Allyson Davemport a Scotland Yard. Io vi
raggiungerò subito,” ordinò Greg. I poliziotti
scortarono i Davemport fuori dalla sagrestia e dalla chiesa.
Sebastian si rivolse a John:
“Ovviamente, dottor Watson, non è tenuto a rispettare il
contratto prematrimoniale, dato che non la riguarda. Credo che possiamo
dichiarare chiusa qui la nostra conoscenza. Vado a spiegare ai miei
ospiti che non vi sarà alcun matrimonio. Visto che è
già pagato, li inviterò tutti a quello che doveva essere
il nostro banchetto di nozze. Festeggerò il fatto di essere
sfuggito a un imbroglio ben combinato. Le auguro una vita felice,
insieme a Sherlock Holmes. Sono sicuro che non si
annoierà.”
“Avrebbe potuto evitare tutto
questo, se avesse accettato di rinviare le nozze, come le aveva chiesto
John,” ridacchiò Sherlock.
Moran si irrigidì. Le labbra
divennero una linea sottile: “La storia di John sembrava
incredibile. Non potevo credere che Trent e Allyson potessero
architettare una truffa come questa.”
“Grazie, Sebastian. Credo che non ci rivedremo più,” lo salutò John, prima che Sherlock ribattesse.
“Lo credo anch'io,” annuì Moran, uscendo dalla sagrestia.
Padre O’Brien si passò
una mano nei capelli: “Immagino che voi due non siate ancora
pronti a sposarvi,” sorrise a John e a Sherlock.
“Direi che sia prematuro,
Padre. Quando saranno pronti, Sherlock e John verranno sicuramente da
lei,” rispose Mycroft.
“Allora è il caso che
io vada ad aiutare Lord Moran a spiegare agli ospiti che cosa sia
accaduto. Prendetevi tutto il tempo che vi serve, figlioli. Capisco che
la vostra vita insieme sia cominciata in modo complicato e diverso dal
solito, ma avete dimostrato di essere forti e di poter superare
qualsiasi cosa. Insieme. Sono sicuro che la vostra convivenza
sarà interessante,” sogghignò Padre O’Brien,
uscendo dalla sagrestia.
Nella stanza rimasero solo i fratelli Holmes, Greg e John.
E ora?
Angolo dell’autrice
Manca solo un ultimo brevissimo
capitolo alla conclusione di questa storia. Come avrete capito, non
voleva essere un racconto complesso e dalla trama intricata. Siamo in
estate, c’è caldo, quindi ho optato per qualcosa di molto
leggero. Forse può sembrare tutto semplicistico, ma una commedia
non deve avere necessariamente una trama complicata.
Se vi va, fatemi sapere che cosa ne pensate.
Grazie per avere letto. Grazie a
emerenziano, Night_Angel, CreepyDoll, 1234ok e meiousetsuna per i
commenti agli scorsi capitoli.
A domani per l’ultimo capitolo.
Ciao!
|
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Capitolo 12 *** Lunga è la strada... ***
Lunga è la strada...
Le ombre della
sera calavano sul tardo pomeriggio dell’antivigilia di Natale. Il
mormorio proveniente dalla chiesa si era attenuato. Gli ospiti, venuti
ad assistere a un matrimonio, stavano andando a una cena nuziale, anche
se lo sposalizio non era stato celebrato. Sebastian Moran aveva
spiegato che vi era stato uno scambio di identità fra John
Rowling e John Watson, ma che ora era stato tutto chiarito e risolto.
Greg, John e i fratelli Holmes erano ancora nella sagrestia.
L’aria fresca della sera entrava dalla finestra spalancata,
raffreddando la stanza, ma nessuno pensò di chiuderla.
John e Sherlock si stavano fissando negli occhi, senza dire una parola o scambiarsi un pensiero.
Si sorridevano.
Felici.
Era successo l’incredibile. L’intuizione di Sherlock sulla
reale identità di John si era rivelata esatta. La verità
era stata svelata. John Watson e Sherlock Holmes potevano progettare il
loro futuro insieme, come facevano tutte le anime gemelle del mondo.
“E ora?” Domandò John, inclinando la testa.
Lunga è la strada…
“Per prima cosa ti porteremo in un ospedale, per fare degli
accertamenti. Dobbiamo essere sicuri che il cianuro non abbia fatto
danni,” rispose Sherlock.
“Stando agli esami già fatti, Davemport ha iniziato con
piccole dosi. Non potevi morire troppo presto o sarebbe stato sospetto.
Quindi non dovresti avere problemi. Comunque, Sherlock ha ragione. Per
prima cosa andremo in ospedale,” concordò Mycroft.
“Grazie per la tua approvazione,” ridacchiò Sherlock, sarcastico.
“In secondo luogo, dovremo farti resuscitare,” riprese il maggiore degli Holmes, ignorando il commento del fratello.
“Resuscitare?” Ripeté John.
“Ci vorrà un po’ di tempo. La burocrazia sa essere
piuttosto lenta, qualche volta. Figuriamoci quando dovremo spiegare che
c’è stato uno scambio d’identità, avvalorato
da dei congiunti. Insomma, dovremo presentarci da un giudice che ti
dichiari… posso darti del tu, vero John? Ora siamo ufficialmente
parenti … dicevo, il giudice deve dichiararti vivo e certificare
il decesso di John Rowling. Fortunatamente abbiamo già i
risultati del test del DNA eseguiti da tre laboratori riconosciuti dal
Tribunale di Sua Maestà, che dichiarano la corrispondenza del
tuo con quello del Capitano John Watson. Non ti preoccupare per
l’avvocato. Te ne procurerò uno io. È uno dei
migliori che si possano trovare a Londra, se non in tutto il Regno
Unito. La mia assistente lo sta contattando proprio ora. Ti
fisserà un appuntamento con lui per il giorno dopo Natale.”
“Grazie?” Borbottò John, interdetto.
“Che cosa vuoi in cambio di tanta generosità?” Chiese Sherlock, sospettoso.
“Potrai anche non crederci, fratello caro, ma non voglio nulla.”
“Non ti credo,” ribatté Sherlock, aggrottando la fronte, come se volesse leggere nella mente di Mycroft.
“Sherlock! – sbuffò Greg, alzando gli occhi al cielo
– Smettila di comportarti come se My fosse il tuo peggior nemico.
Siamo una famiglia e ci aiutiamo fra di noi. Come si fa in ogni
famiglia.”
“A parte il fatto che Mycroft è
il mio arcinemico, dimmi Gary in che mondo vivi e che lavoro fai? Da
quando i membri delle famiglie sono così disponibili gli uni con
gli altri? Proprio tu, come ispettore di Scotland Yard, dovresti sapere
quanti delitti siano compiuti all’interno delle mura domestiche
da membri di amorevoli famiglie!” Rimbrottò Sherlock.
John appoggiò una mano su una di quelle di Sherlock:
“Mycroft la… ti ringrazio per il tuo aiuto disinteressato.
Ovviamente, ora come ora non potrei pagare nulla. Dire che sono un
nullatenente è un eufemismo. Gli abiti che indosso e la stanza
dell’hotel, in cui ho alloggiato fino a oggi, sono stati pagati
da Sebastian Moran, che adesso non ha alcuna motivazione per continuare
a saldare i miei conti. Dato che non sono John Rowling, non ho diritto
nemmeno alla sua pensione. Come John Watson, invece, sono morto e
l’esercito non mi può pagare nulla.”
“Sarà un problema riavere la tua pensione da tua sorella.
Harriet con quella ci paga l’affitto della casa e i liquori con
cui si ubriaca,” interloquì Sherlock, in tono secco.
“Sherlock…” sospirò Greg, in tono di rimprovero.
“Non ricordo mia sorella. E anche questo è un bel
problema. Io non ricordo ancora nulla del mio passato. Anche se mi
restituiscono l’identità, che cosa farò della mia
vita? Mi dite tutti che sono un medico. Mi fa piacere, ma come
potrò svolgere la mia professione, se non ricordo quello che ho
studiato? Chi si fiderà a darmi un lavoro?”
“Io!” Rispose Sherlock, con entusiasmo.
John lo fissò sbalordito. Sherlock continuò: “Come
ti ho spiegato, io sono un Consulente Investigativo, l’unico al
mondo. Il lavoro lo ho inventato io. Scotland Yard viene a chiedere la
mia consulenza ogni volta che non sa come fare a risolvere un caso. Il
che vuol dire molto spesso…”
Greg emise un grugnito fra l’irritato e il disgustato.
“Poi ci sono i privati, che mi assumono per problemi di vario
genere. Sappi che non mi occupo di mariti o mogli traditi, non sono un
investigatore privato. Io scelgo sempre casi interessanti e
particolari, che mi facciano usare il cervello. Cosa che la gente
comune dimentica spesso di fare. Tu potrai non ricordare i tuoi studi,
ma il tuo subconscio ha una propria memoria. Sono sicuro che la tua
preparazione medica mi sarà molto utile. Molto spesso i medici
della polizia non sono propensi ad aiutarmi…”
“Chissà perché, visto come li tratti!” Esclamò Greg.
“… avere un collaboratore con le tue conoscenze,
sarà solo un vantaggio, per il mio Lavoro. Inoltre, qualche
volta mi trovo a inseguire i colpevoli da solo…”
“Qualche volta? Ci fosse una volta in cui aspetti che arrivino i rinforzi!” Lo rimproverò Mycroft.
“… se tu collabori alle indagini con me, potrai anche
coprirmi le spalle. In fin dei conti, sei stato in guerra, hai ricevuto
un addestramento, quindi saprai sicuramente sparare o difenderti.
Queste sono tutte conoscenze che non vengono cancellate da una semplice
amnesia,” continuò Sherlock, come se non fosse mai stato
interrotto.
John lo guardava sempre più sbalordito: “Ne sei sicuro?”
“Certo che ne sono sicuro o non te lo avrei mai proposto!” Sbottò Sherlock, alzando gli occhi al soffitto.
“Avrò anche bisogno di un posto in cui andare a vivere.
Soprattutto, fino a quando non avrò accesso a qualche sterlina,
che mi permetta di pagare un affitto,” riprese John.
“221B di Baker Street, ovviamente!” Proruppe Sherlock, spazientito.
“Casa tua?” Domandò John.
“Siamo anime gemelle, John! Non c’è nulla di strano
a vivere insieme. E non ti preoccupare. Non attenterò alla tua
virtù. Non sono così interessato al sesso da saltarti
addosso mentre dormi.”
“Chi ti assicura che non lo faccia io? Per quanto ne sappiamo,
potrei essere un serial killer o uno stupratore o uno cui piace
torturare i propri amanti,” sospirò John, esasperato.
“Non c’è nulla del genere nel tuo file, John. E ti
assicuro che io ho accesso a informazioni cui persino tu non potresti
mai arrivare,” intervenne Mycroft.
“Se ci fosse stato qualcosa di sospetto o ambiguo sul tuo file,
My ti avrebbe fatto sparire nel nulla, facendo in modo che non
rimanesse nessuna traccia di te. Nulla di personale. Lo avrebbe fatto
solo per proteggere Sherlock,” si intromise Greg, scrollando le
spalle con noncuranza.
“Immagino,” ridacchiò John.
“Direi che sia stato tutto stabilito e che possiamo
andarcene,” sorrise Sherlock, soddisfatto, allungando una mano
verso John.
“Sì. Lo penso anche io,” John ricambiò il sorriso e prese la mano, che gli era stata porta.
“Andiamo a casa,” sussurrò Sherlock.
“Andiamo a casa,” annuì John.
Sherlock e John uscirono dalla sagrestia per immergersi nella fredda sera, tenendosi per mano, seguiti da Mycroft e Greg.
“Se non ricordo male, tu non hai fatto l’albero di Natale,” osservò John.
“L’albero di Natale è solo una stupida tradizione…” iniziò Sherlock, ma venne subito interrotto.
“Che inizieremo a rispettare da
quest’anno. Perché questo sarà il nostro
anniversario. Dovevamo essere separati per tanto tempo, invece siamo
insieme. Non è un meraviglioso regalo di Natale?”
Sherlock storse la bocca in una smorfia schifata: “Se vogliamo chiamarlo così… io penso…”
“Bene. Direi che avremo il
tempo necessario per procurarci ciò che ci serve per festeggiare
il nostro primo Natale insieme nel migliore dei modi. Sarà un
bel Natale. Cui ne seguiranno tanti altri. Perché non ti
libererai facilmente di me.”
“Né tu di me,” ribatté Sherlock, stringendo forte la mano di John.
L’aria gelida li avvolse, mentre radi fiocchi di neve cadevano da
un luminoso cielo bianco, colorati dalle luci delle decorazioni
natalizie. In lontananza, si sentivano i canti dei cori, che
celebravano il Natale. Sherlock e John si scambiarono un sorriso. Era
lunga la strada che avrebbero dovuto percorrere prima di definirsi
veramente una coppia. Quel giorno avevano compiuto il primo passo verso
il loro futuro. Quel giorno era iniziata la loro avventura. Dovevano
imparare a conoscersi. A convivere. A comprendersi. Ad accettare uno i
pregi e i difetti dell’altro. John e Sherlock sapevano che vi
sarebbero riusciti, perché loro erano anime gemelle. Loro si
completavano a vicenda. Avrebbero trovato una soluzione a qualunque
problema si fosse presentato. Perché loro erano e sarebbero
stati sempre insieme. Sostegno l’uno dell’altro. Cuore e
mente l’uno per l’altro.
Per il resto dei loro giorni.
FINE
Angolo dell’autrice
Così si conclude la storia che spero vi abbia piacevolmente
accompagnato in queste due settimane. Finiscono pure le mie ferie, ma
questo è un altro paio di maniche.
Ringrazio di cuore tutti quelli che hanno letto il mio racconto e quelli che lo leggeranno in futuro.
Se mi volete lasciare due righe, sapete che mi fate sempre piacere vi ringrazio fin da ora.
Grazie a 1234ok, CreepyDoll, meiousetsuna ed emerenziano per tutte le belle recensioni lasciate al racconto.
Ciao!
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