Fĕbrŭāre

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Febbre o non febbre ***
Capitolo 2: *** 2. Ai matti si dà sempre ragione ***
Capitolo 3: *** 3. Strega!! ***
Capitolo 4: *** 4. La febbra ***
Capitolo 5: *** 5. Ancora nella tempesta ***
Capitolo 6: *** 6. Il metodo più veloce ***
Capitolo 7: *** 7. Andrà tutto bene ***
Capitolo 8: *** 8. Triage ***
Capitolo 9: *** 9. L'occasione fa l'uomo ladro ***
Capitolo 10: *** 10. Febbre a 90° reloaded ***



Capitolo 1
*** 1. Febbre o non febbre ***


★ Iniziativa: Questa storia partecipa al Flu&Fluff a cura di Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 100.
★ Prompt: 14 A ha avuto la febbre altissima per tutta la notte.
Quando si sveglia trova B addormentato sul letto, senza ricordarsi di averlo visto arrivare.


 





1.  Febbre o non febbre

 
Prompt: Febbre/ Fandom: Saint Seiya - Lost Canvas /Personaggi: Aquarius Dégel, Scorpio Kardia
 


Non sai dire quando sia arrivato; stanotte, certo, mentre ti sembrava di bruciare vivo. Nel preciso istante in cui hai sentito le sue mani sulle tue tempie hai saputo che sarebbe andato tutto bene, che la febbre sarebbe scesa, che la tua vita sarebbe andata avanti ancora un po’.  
Madido di sudore e spossato, osservi il tuo angelo custode dormire, rannicchiato in un angolo, le mani a cuscino. Gli posi una coperta sulle spalle, in segno di ringraziamento, ché se dovessi confessargli quanto lui sia prezioso, per te, ti scoppierebbe il cuore una volta per tutte. Febbre o non febbre.
 

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Capitolo 2
*** 2. Ai matti si dà sempre ragione ***


★ Iniziativa: Questa storia partecipa al Flu&Fluff a cura di Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 823.
★ Prompt: #8 A ha la febbre così alta che delira e si lascia
sfuggire cose su B, mentre questi cerca di aiutarlo.
 






2. Ai matti si dà sempre ragione



 


Prompt: Delirio/ Fandom: Saint Seiya - post Hades /Personaggi: Gemini Saga, Gemini Kanon


 
 
«È tutta colpa tua!»
«Dimmi qualcosa che non so…»
Viktoras sa essere una vera tegola tra capo e collo. Ha la febbre, delira, ma, nonostante il termometro segni i quaranta gradi, riesce ancora a resistere. Facendo il peso morto – strategia della non violenza, la chiamerebbe lui – e impedendoti di applicare le spugnature di alcol sulla sua pelle bollente. Dicono che funzioni. Fotinê non lesinava. Vi sfregava la pelle, nemmeno foste posate d’argento da lucidare, e al mattino stavate meglio: stanchi, spossati e bisognosi di sonno, ma la febbre era scesa. Speri possa servire anche in questo caso, ché figurati se tuo fratello ha una confezione di aspirine in casa!
Noi uomini duri? Ma scherziamo?, pensi, sollevando il braccio di Viktoras come se fosse fatto di piombo. Lui protesta, smanaccia, t’insulta.
«È tutta colpa tua!» ripete – come un mantra, come un disco rotto – e la tua già scarsa pazienza raggiunge il colmo.
«Non ti ho attaccato io, l’influenza. Gira. E se sei così imbecille da startene in ammollo come una camicia da candeggiare, il problema di chi è? Mio o tuo
«È tutta colpa tua!», insiste Viktoras, e tu getti la spugna. Letteralmente. Che si impicchi da sé. Tanto, se lo si lascia fare, tuo fratello è bravissimo a… «Mi hai lasciato solo!»
Fermi tutti.
«Cosa?»
«Mi hai lasciato solo», dice – confessa – gli occhi lucidi e le labbra screpolate. «Tu sei diventato Santo di Athena, e io no.»
Sbatti le palpebre. Possibile che tutto il delirio che vi è capitato – lui nella grotta a Capo Sounion, tu che per il rimorso dai di matto, l’assassinio di Aiolos, la Guerra Galattica, la Battaglia al Santuario e quella ad Atlantide – sia accaduto perché Viktoras si è sentito abbandonato?
«Sei sempre stato geloso di me», prosegue, seguendo una logica tutta sua. «Perché Fotinê voleva più bene a me che a te.»
Okay. Straparla, pensi, ché se è mai esistito qualcuno di imparziale, quel qualcuno era proprio Fotinê.
«Certo, certo», dici, assecondandolo, ché ai matti si dà sempre ragione. Dovessero diventare pericolosi…  «Quando hai ragione, hai ragione», ribatti, riprendendo la spugna in mano. «Adesso posso continuare, o devi confessare qualcos’altro?»
«Non voglio le spugnature. Mi fanno schifo», protesta, addossandosi sulla pila di cuscini che gli hai sistemato alle spalle.
Sapessi a me, pensi. «Lo so», dici. «Ma ti fanno bene. Come le verdure, ricordi?»
«Sì», soffia fuori. «Me le ricordo, le verdure lesse. Facevano schifo, ecco la verità», e tu non te la senti di dargli torto.
«D’accordo», dici. Stanco di quel botta e risposta delirante. «Adesso posso continuare?»
«Non mi hai chiesto il permesso», ribatte Viktoras. «Fai sempre così, tu. Dritto per la tua strada, fregandotene degli altri…»
«Posso, sì o no?», e qualcosa nella tua voce si incrina. Stai per perdere la pazienza, rovesciargli il bacile pieno di alcol in testa ed uscirtene dalla quella stanza di gran carriera, sbattendoti la porta alle spalle. E lui l’ha capito, febbre o non febbre.
«Prego», risponde Viktoras, abbandonando ogni resistenza e lasciando che la spugna imbevuta di alcol scorra sulle braccia, l’addome, la schiena, le gambe, il collo. Puzzerà da fare schifo, domani, ma pazienza. Non si possono fare le frittate senza rompere le uova, no?
«Ecco fatto», dici, abbandonando la spugna nel bacile e lasciando Viktoras nudo come un verme sulle lenzuola.
«Ho freddo», si lamenta.
«Adesso passa», lo rincuori, posandogli una mano sulla fronte. Scotta. Nemmeno fosse appena tornato dall’inferno.
«Non lasciarmi solo, Vassi», mugugna. «O dirò a tutti che facciamo Vasilikòs di cognome», e crolla addormentato prima che tu possa ribattere qualsiasi cosa – qualsiasi scusa, qualsiasi minaccia.
E adesso, che fai? Lo lasci da solo? Sicuro? Perché tu lo sai che Viki se ne rammenterà – eccome, se se ne rammenterà – e che quando meno te l'aspetti darà fiato alle trombe, spiattellando il tuo cognome – il vostro cognome – ai quattro venti, ma non è quello a preoccuparti. Gli altri rideranno fino a sganasciarsi le mascelle, ma pazienza; passerà. La tua reputazione s’inabisserà dove la luce del sole non ti arriva, ma dopo quello che hai combinato, te ne freghi.
Ti preoccupa di più che Viktoras se la leghi al dito e te lo rinfacci. E tu vuoi davvero avere tuo fratello che ti ricorda ad ogni piè sospinto – da qui all’eternità e ritorno – quanto sei stato arido e senza cuore a lasciarlo da solo, nel momento del bisogno, senza il conforto di una presenza amica accanto?
Certo che no, ti dici, osservando la tua fotocopia russare della grossa e chiedendoti se anche tu hai quel cipiglio mentre dormi. Se lo strozzassi colle tue stesse mani, Athena non la prenderebbe affatto bene. Nossignore. Hai le mani legate, caro mio.
Che ho fatto di male, io?, ti chiedi. Affidando il bacile e la spugna alla sedia su cui li avevi posati in precedenza. Ti armi di un libro, ti sdrai accanto a tuo fratello – un cuscino di distanza – e ti prepari alla veglia. I matti vanno assecondati, giusto?


Note: nel mio personalissimo headcanon, i Santi di Athena prendono il nome con cui li conosciamo al momento dell'investitura, come accade ai sacerdoti che prendono i voti attraverso il sacramento dell'ordine. Saga all'anagrafe fa Vasilios (Re), mentre Kanon è Viktoras (Vittorioso). Vasilikòs, il loro cognome, significa, letteramente, basilico, e voi capite che chiamarsi Re Basilico manda in frantumi qualsiasi credibilità e decenza.
Mi scuso per un qualche eventuale OoC. Lo giustifico col delirio di Kanon, ché la febbre, si sa, scioglie le lingue tanto quanto il vino.
Le spugnature con l'alcol denaturato (quello rosato che si usa per disinfettare le superfici e puzza come la morte) sono un rimedio della nonna non molto efficace (parola di chi c'è passato): dovrebbero abbassare la febbre, ma l'unico risultato che si ottiene è quello di puzzare come merluzzi dimenticati sul fondo del bagagliaio...

 

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Capitolo 3
*** 3. Strega!! ***


★ Iniziativa: Questa storia partecipa al Flu&Fluff a cura di Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 100.
★ Prompt: #2 Quando A ha detto a B di essersi beccato l’influenza e di avere bisogno di una “crocerossina” non immaginava che B si sarebbe presentato vestito da infermiera.
 






3. Strega!!



 


Prompt: Crocerossina/ Fandom: Saint Seiya - post Hades /Personaggi: Pegasus Seiya, Ophiuchus Shaina


 
 
Te lo fa apposta, non ci sono altre spiegazioni. Oppure è sadica. Sì, ecco: sadica. Il fatto che t’abbia mitragliato di scariche elettriche a profusione – senza spiegarti a chiare lettere il perché, altrimenti l’avresti fermata all’istante – avrebbe dovuto metterti sull’avviso, ma non credevi che Shaina potesse arrivare a tanto.
Si può sempre scavare, ti ricordi, osservando le gambe spuntare da sotto la minigonna bianca.
«Vedrai che con un po’ di coccole starai meglio», t’assicura, ma presentarsi vestita da crocerossina – una crocerossina molto sexy – quando sei troppo spossato per alzare anche solo un dito, non è terapeutico: è una tortura. Strega!!

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Capitolo 4
*** 4. La febbra ***


★ Iniziativa: Questa storia partecipa al Flu&Fluff a cura di Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 1146.
★ Prompt: #7 A e B hanno un’accesa discussione su medicine e omeopatia/rimedi della nonna mentre C dorme stremato dall’influenza.
 






4. La febbra



 


Prompt:Tisane/ Fandom: Saint Seiya - post Hades /Personaggi: Cancer Death Mask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite


 
 
«Se continua così, non credo passerà la notte…»
Sollevi lo sguardo al soffitto, in cerca di pazienza. Quando ci si mette, Yngve sa essere melodrammatico più di una diva del cinema muto sul viale del tramonto. E la parte peggiore di queste esternazioni non sono il tono con cui dà fiato a certe frasi ad effetto o il tempismo con cui snocciola le sue affermazioni – una settimana di pioggia ininterrotta farebbe perdere la pazienza anche ai santi – ma il fatto che lui ci creda. Fin nel midollo.
«Adesso non ti sembra di esagerare?»
Domanda inutile: ti scocca uno sguardo assassino – di quelli che avvisano Attento, o assaggerai le mie rose! – e storce le labbra. «No», dice. «Ha la febbra
«La febbre, semmai.»
«Nossignore», ribatte serio. Serissimo. «La febbre è un sintomo. Fa il suo decorso. Sale, perdura, scende. Come un giro sulle montagne russe.»
«Okay. Quindi?»
«Quindi, quella di Marco non è una febbre. Sono tre giorni che il termometro segna quaranta gradi. Quella di Marco è la febbra. Con la a finale.»
Sbuffi aria dal naso, come un toro che sta per caricare. La febbra. Certo. L’ennesima stronzata sparata da Marco a cui Yngve ha abboccato con tutte le scarpe; ma guai a dirglielo. Ti fisserebbe con quello sguardo deluso apostrofandoti con un «Avanti. Non sai davvero fare di meglio?».
«Okay. D’accordo. E febbra sia», dici – concedi – alzando le mani, ché a discutere coi matti si diventa come loro. «Un po’ di sano paracetamolo dovrebbe fare al caso nostro.» E avrebbe già risolto il vostro problema, ti dici, se Yngve non si fosse intestardito a far sfebbrare Marco. Che se ne sta nella stanza accanto, a mugugnare suoni inintelligibili nemmeno fosse in punto di morte, con il gatto di Yngve – otto chili e passa di norvegese delle foreste – acciambellato sul suo plesso solare.
«Nossignore», ribatte Yngve, le mani sui fianchi e l’espressione scandalizzata. «Non è così semplice.»
E tu pensi che sì, lo è semplice; anzi, di più: è maledettamente facile. Si va all’infermeria del Santuario, si prende una cazzo di confezione di paracetamolo, gli si fa ingoiare quelle pasticche ad intervalli regolari e la febbre – la febbra, pardon – scenderà da sola.
«Ah, no?», chiedi. Col sorrisetto che metti su quando stai per perdere la pazienza.
«No. È troppo tardi per il paracetamolo», dice, e tu pensi che Yngve si sia fottuto il cervello. Forse è l’odore delle rose che l’ha fatto ammattire. Forse devi essere pazzo, per essere amico di uno squinternato come Marco. O forse, quando s’è alzato stamattina, ha battuto forte la testa. Di spigolo, possibilmente. «Ha la gola troppo secca e gonfia per mandare giù qualsiasi pastiglia. E tu non vorrai ricorrere alle supposte, vero?»
«Fossi matto!», rispondi. Piuttosto, lasci che Marco schiatti, così impara ad andarsene in giro in canottiera quando fuori fanno sì e no dieci gradi. «Quindi, l’unica soluzione è una tisana, che lo aiuti a sfiammare la gola», conclude Yngve, e poco ci manca che si sistemi gli occhiali da saputello in punta di naso.
«Una tisana.»
Lo ripeti come se nemmeno tu credessi alle tue stesse orecchie, e infatti non ci credi, perché non è possibile che nel Terzo Millennio la gente ancora si curi con le tisane e i decotti. Ché sì, aiutano e danno un senso di conforto quando la gola assomiglia ad una spianata di carta vetrata; ma da qui a curare i malanni, ce ne corre. «Senti», fai per dire, quando lui prosegue imperterrito.
«Una tisana di tassobarbasso», specifica, l’indice che scatta all’insù mentre i tuoi occhi si dilatano dalla perplessità.
«Mi stai pigliando per il culo.»
Sarà un’altra delle cazzate di Marco, pensi, un’altra delle fesserie che spara a raffica, nemmeno fosse una mitragliatrice. Non esiste una cosa con un nome così cretino. Così palesemente falso. Da dove salta fuori, da Harry Potter? E, in un angolo della tua mente – un angolo piccolo piccolo – pensi che forse se la merita quella febbre – quella febbra – così alta. Così impara a raccontare cazzate, ché a furia di spararle grosse prima o poi lo incontri il matto che ti crede e ti asseconda. Ed è in quel momento, che cominciano i guai.
«Non sei il mio tipo», sbuffa Yngve. Acido.
«Neppure tu», replichi. «Non esiste il tassobarbarasso!»
«Tasso. Barbasso», scandisce con quel suo accento impossibile che suona come una mannaia su di un ciocco di legno da gettare nel fuoco. «Esiste eccome, invece. Se ne fanno decotti miracolosi per la febbre. Funzionerà anche per la febbra
«E questa adesso da dove salta fuori?», domandi. «È un’altra delle cazzate di Marco?»
«No», risponde Yngve. «Me le preparava mia madre, quando ero piccolo e avevo la febbre alta. Ricetta di famiglia.»
«Ma lui ha la febbra», ribatti alla sua faccia da poker. Hai deciso di venire a vedere il suo gioco, quale che sia, perché Yngve non fa mai le cose tanto per farle, ma sempre seguendo un ragionamento, un fine, uno scopo. Ed è questo, a spaventarti.
«Appunto», chiosa Yngve, arricciando all’insù le labbra da fotomodello. «Certe battaglie vanno combattute ad armi pari», soffia fuori, come un gatto che finge di essere sazio, ma che è pronto ad assestare la zampata letale all’ingenuo passerotto che gli si avvicinerà. E tu capisci che non è mai saggio prendere per i fondelli uno come Yngve: calmo, pacifico e indolente quanto vuoi, ma che, come l’acqua, sa aspettare e nascondere un grumo di orgoglio e amor proprio talmente intricato che, se per disgrazia ci finisci con un piede dentro, ti trascina dove non arriva il sole.
Deglutisci a vuoto.
«Sicuro?», gli chiedi. E devi chiederglielo, per scaricarti dalle spalle ogni responsabilità, pesante più di un sacco di mattoni bello pesante. Marco se l’è cercata, d’accordo, ma se dovesse morire un’altra volta non credi che Athena farebbe i salti di gioia, non dopo quello che le è costato resuscitarvi, uno per uno.
«Sicurissimo», e sembra quasi che Yngve stia facendo le fusa. «Ho del tassobarbasso pronto all’uso che mi diede mia madre anni fa.»
«Non sarà scaduto?»
«Sciocchezze!», e fa un gesto con la mano, come a scacciare una mosca fastidiosa. «Hanno ritrovato del grano nelle piramidi perfettamente conservato, figuriamoci! Il mio tassobarbasso andrà benissimo.»
«Non ti spiace se scendo in infermeria, vero?», domandi. «Per sicurezza», aggiungi, ché Yngve è capace di legarsela al dito.
«Per sicurezza», ripete Yngve, sorridendo. «Uno scrupolo in più non ha mai ucciso nessuno», dice, mettendo a bollire dell’acqua. «Vuoi un caffè?»
Annuisci. Meglio procurarsi del paracetamolo, pensi, con un po’ di pena per Marco. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, d’accordo; ma un’intossicazione alimentare non si augura a nessuno, neppure al re dei Cretini. Chissà se all’infermeria hanno il necessario per una lavanda gastrica?, ti chiedi, mentre osservi la schiena di Yngve preparare il caffè e la coda di Non Plus Ultra sollevarsi quasi ad orchestrare i lamenti di Marco.



Note:
Ogni riferimento a
La Febbra, il geniale capolavoro di Ennio Annio, non è puramente casuale!!
Il Tassobarbasso esiste davvero, e se ne ricavano tisane e decotti che alleviano la febbre. Giurin giurello.

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Capitolo 5
*** 5. Ancora nella tempesta ***


★ Iniziativa: Questa storia partecipa al Flu&Fluff a cura di Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 100.
★ Prompt: #5 A crede di avere l’influenza perché continua a dare di stomaco.
 






5. Ancora nella tempesta



 


Prompt:Nausea/ Fandom: Saint Seiya - post Hades /Personaggi: Leo Aiolia, Aquila Marin


 
 
«Desidera?»
Se rimetti da cinque giorni è per un brutto virus intestinale, ma quando Aiolia, dubbioso, t’ha domandato se i sintomi dell’influenza includessero anche le nausee mattutine, le tue certezze si sono incrinate. T’ha proposto di toglierti lo scrupolo, hai visto mai?; hai accettato, a patto d’arrivare ad Atene. Onde evitare pettegolezzi.
Peccato che ora la tua sicurezza s’è sgretolata come un castello di sabbia: ti tremano le gambe, ti manca la voce, sei terrorizzata. Ti aggrappi alla mano di Aiolia, ancora nella tempesta.
L’affronteremo insieme, dice il suo sguardo cobalto.
«Un test di gravidanza», risponde Aiolia, al posto tuo.


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Capitolo 6
*** 6. Il metodo più veloce ***


★ Iniziativa: Questa storia partecipa al Flu&Fluff a cura di Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 1137.
★ Prompt: #9 “Non mi ammalo mai!”, le ultime parole famose di A.
 






6. Il metodo più veloce



 


Prompt:Supposte/ Fandom: Saint Seiya - post Hades /Personaggi: Aquarius Camus, Scorpio Milo


 
 

Uno abituato ai rigori dell’inverno siberiano non può ammalarsi. E avrà pure scoperto di avere dentro di sé un’estate invincibile, nessun dubbio; ma, checché ne pensi lui, anche l’algido Camus dell’Acquario è fatto di carne e sangue, come il resto dell’umanità. E sì che può ammalarsi. Eccome. Specie se insiste ad andarsene in giro in maniche di camicia quando fuori ci saranno dieci gradi sotto zero. Ma è abituato, lui. Vuoi mettere queste temperature straordinarie con quelle che ci sono in Siberia da ottobre fino a maggio inoltrato?
Certo che no.
Allora perché il Principe dei Ghiacci è svenuto – è stramazzato – stamattina nel bel mezzo del campo d’addestramento centrale?
E perché proprio tu te lo sei dovuto trascinare di peso fino all’Undicesima Casa?
Perché Camus – perché Étienne ha la febbre. Solo che è troppo orgoglioso e testardo per ammetterlo, preferendo negare l’evidenza e ignorare quegli occhi arrossati, quell’aria sbattuta e la voce più nasale del solito, come se si fosse infilato una patata nel naso per evitare di soffiarselo in continuazione.
«Allora? Quant’è?», chiedi, le gambe a dondolare sul bracciolo della sua adorata poltrona rosso bordeaux.
«Trentanove. E mezzo», vaticina Phi col termometro in mano.
«Quel coso è rotto», ribatte lui. Tirando su col naso.
Forse la patata non è una soluzione così efficace, pensi.
«Non. Ho. La. Febbre», insiste. Poi ti lancia uno sguardo assassino – uno sguardo che vorrebbe essere assassino, ma che le palpebre a mezz’asta fanno assomigliare a quello di un miope che ha perso i suoi occhiali – e sibila: «Giù le gambe. Mi rovini la poltrona.».
«Stai andando a fuoco», gli fa notare Phi.
«Sciocchezze», fa lui, alzandosi e barcollando verso di te per sradicare le gambe dal suo amato bracciolo. Se non cade disteso è perché lo sorreggete. In due. Sembra magro, Camus dell’Acquario, ma pesa un accidenti. «Giù i piedi dalla poltrona!»
«Étienne, adesso basta», lo rimprovera Phi, mentre lo stendete sul letto.
«È solo un’infreddatura», concede. «Una sudata e passerà.»
«No, che non passa così», ma Phi non ha ancora finito di parlare ché suo fratello è già scivolato nel regno di Morfeo. «Oh, putain
«Almeno dormirà», dici. E non sverrà da qualche parte, pensi.
Perché chi mai sarebbe uscito a cercarlo? Phi, ovvio. O meglio: lei si sarebbe preoccupata non vedendolo passare per l’Ottava Casa, sarebbe andata avanti e indré per una decina di minuti e poi avrebbe fatto la sua mossa.
«Adesso basta! Io esco a cercarlo», avrebbe detto, prendendo cappotto e cappello e sciarpa; e chi si sarebbe trovato nella scomodissima posizione di dover dire «Vengo con te, tesoro», e mandare a gambe all’aria una serata cuore a cuore?
Tu. Non certo lui, che il diavolo se lo porti.
Gli sfilate le scarpe, lo coprite per bene sotto un altro paio di strati e Phi gli posa una mano sulla fonte.
  «Scotta», dice – sbuffa.
«Vedrai. Una bella sudata e passa tutto», le dici, cingendole le spalle con un braccio. Se Camus dorme, non può rompervi le uova nel paniere. E se non può rompervi le uova nel paniere, stasera la passerete cuore a cuore a…
«…paracetamolo.»
«Eh?», dici. Non l’hai sentita, perso com’eri a programmare la vostra serata romantica.
«Il paracetamolo», risponde lei sbuffando. «Non ha preso la medicina. Deve sfebbrare. Come facciamo?»
«Glielo faremo prendere appena si sveglia», rispondi, ché a te, di ridestare il Bell’Addormentato, non ti va proprio. Già di suo, Camus ha l’umore di un orso appena uscito dal letargo e guai a dirgli mezza parola prima che il suo cervello abbia iniziato a carburare; svegliarlo a forza significa andare a ficcare la testa nelle fauci del suddetto orso. Che non ci penserà due volte ad azzannarti fino a renderti un ammasso di carne macinata.
Grazie, ma no, grazie.
«Non sono tranquilla», sospira Phi, le braccia incrociate e l’aria preoccupata. E tu sai che quei segnali e quella postura significano che si alzerà ogni due per tre per andare a controllare il malato e sincerarsi che la febbre non gli abbia cotto il cervello. E Shura è al Santuario. E, preciso com’è, sarebbe capace di accompagnarla a visitare il moribondo. Perché dopo l'avventura ad Asgard sono diventati molto amici, quei due, tanto. Troppo, per i tuoi gusti. «Prima prende le medicine, e meglio è.»
«D’accordo», le dici, alzando bandiera bianca. «Facciamogli prendere ‘ste benedette compresse e poi…», pensiamo a noi due, ma Phi apre un cassetto e ti porge una confezione. Di supposte.
La guardi come se le fosse spuntata una seconda testa.
«È il metodo più veloce», ti spiega. «Il calore stesso scioglierà la supposta e la medicina entrerà in circolo all’istante.»
«Sì, ma…» io che c’entro?
«I guanti in lattice sono in bagno.»
«COSA?!», gridi, e al diavolo se il Bell’Addormentato si sveglia di colpo. «Non scherzare! Sono un uomo…»
«Sono sua sorella. Non vorrai che lo faccia io…», dice Phi, sfarfallando le ciglia. «Ti aspetto all’Ottava Casa, mon p’tit chou», sussurra ed esce dalla stanza, lasciandoti da solo a solo con un malato febbricitante, svenuto e testardo e la confezione tra le mani.
«E adesso?», mormori.
«Tu provaci, e io ti faccio ingoiare tutti i denti», sibila la voce di Camus alle tue spalle.
Ma non eri svenuto?, pensi. E poi glielo chiedi: «Ma non eri svenuto?».
«Mi sono ripreso. Giusto in tempo», dice, ansimando per la febbre. «Non azzardarti a farlo. O ti ammazzo.»
Dovresti prima provarci, pensi. «Fossi matto», gli dici, lanciandogli la confezione di supposte. «Sono tutte tue!»
Lui guarda la scatola, stringe le palpebre, poi mormora: «Sono scadute».
«Merda…»
«Ho delle compresse in bagno», ti dice, e riprendi a respirare, ché scendere fino all’infermeria a cercare le medicine per quella testa dura – e tornare indietro – proprio non ti va.
Recuperi le pillole e un bicchiere d’acqua e glieli porgi.
Camus ingoia il paracetamolo, beve l’acqua come se fosse un cammello appena uscito dal Sahara e si lascia cadere esausto sulle lenzuola.
«Ehi…», ti dice, fermandoti sulla soglia della sua camera da letto.
«Checcè
«Grazie. Sei un amico», mugugna, prima di svenire e di lasciar fare alle medicine.
«Prego», rispondi, sapendo che Étienne è di nuovo tra le braccia di Morfeo.
E sapendo che, con quel Sei un amico, ha creato una piccola breccia nel muro che s’è innalzato tra di voi – che lui ha innalzato tra di noi, rettifichi – dacché siete tornati dall’Ade. Piccola, ma sufficiente per far passare uno spiraglio di luce bastevole a farti sperare che anche quel testardo, prima o poi, si arrenda all’evidenza.
Gli rimbocchi le coperte, lo imbacucchi per bene, e spegni la luce. Per Natale gli regalo un piumino d’oca e ce lo cemento dentro. Vivo, pensi, le mani nelle tasche, mentre ti lasci l’Undicesima Casa alle spalle, la Casa del Capricorno che svetta nella sera fredda e limpida. Shura è sempre al Santuario. Meglio affrettare i tuoi passi.


 

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Capitolo 7
*** 7. Andrà tutto bene ***


★ Iniziativa: Questa storia partecipa al Flu&Fluff a cura di Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 100.
★ Prompt: #25 A vorrebbe poter assistere per bene B, malato, ma la verità è che non ne capisce niente di medicine, cucina e altro. Quindi chiama C come ultima spiaggia.
 






7. Andrà tutto bene



 


Prompt:Emergenza/ Fandom: Saint Seiya - Episode G /Personaggi: Leo Aiolia, Capricorn Shura, Galan


 
Afferma di odiarlo. Di volersi vendicare.
Eppure, chi t’ha mandato a chiamare con urgenza perché il Nobile Shura sta male?
Lui, Aiolia del Leone. Il tuo occhio vede chiaramente quello che Aiolia s’ostina a negare. È troppo vicino alla luce del faro, pensi, avvicinandoti al capezzale con un sorriso accennato.
«È svenuto all’improvviso», dice Aiolia, preoccupato, mentre controlli la temperatura del malato.
«Mica potevo abbandonarlo! Non… non morirà, vero?», chiede. «Abbiamo un conto in sospeso, noi due.»
Chiamiamolo così. «Ha la febbre alta, ma guarirà. Fategli prendere le medicine ad orario.»
«Io?»
«Voi. Stategli accanto», e andrà tutto bene, pensi.


Possiamo affermare senza ombra di dubbio che Saint Seiya- Episode G e Episode G- Assassin siano non tanto la fiera del fanservice becero, quanto un luogo dove tutte le richieste e i sogni dei fan sono ascoltati ed esauditi.
Grazie, maestro Okada.
Ovviamente, la sottoscritta non si sbilancia troppo - mica scema - ma è innegabile che mi piaccia quest'ossessione che porta Aiolia a tenere sotto controllo Shura. Dovessero accopparglielo prima che metta in atto la sua vendetta...

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Capitolo 8
*** 8. Triage ***


★ Iniziativa: Questa storia partecipa al Flu&Fluff a cura di Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 2204.
★ Prompt: #4 A è bravo in cucina e prepara qualcosa di sostanzioso e appetibile per B, inchiodato al letto dal malanno.
 






8. Triage



 


Prompt:Triage/ Fandom: Saint Seiya - post Hades /Personaggi: Aries Mu, Cancer Death Mask


 
Ti svegli con dolcezza, piano piano, attirato tra i vivi da un profumino invitante che ti solletica narici, palato e stomaco, ridestando un appetito lupigno che mai avresti creduto di esperire. Patate arrosto, qualche spezia mediterranea – Aglio? Rosmarino? Entrambi? – e un sentore familiare che non riesci a mettere a fuoco.
Che è successo?, ti chiedi. L’ultima cosa di cui hai contezza è la voce di Death Mask che buca l’aria paziente della mattina con quella risata da smargiasso, tanto per fare una cosa nuova, e questo ricordo ti lascia in bocca un gusto viscido ed un senso di malessere che non ha nulla a che fare con la spossatezza con cui ti sei svegliato stamattina. Affatto.
Perplesso, sbatti le palpebre e ti metti a sedere. Sì, c’è stato qualcuno in cucina, ma chi sarà?
Non Kiki, pensi – speri – che il tuo allievo è tanto volenteroso, affettuoso e premuroso, ma è meglio se se ne resta lontano da coltelli, pentole e fornelli. Per tutti.
Si sarà trattato della stessa persona che ti ha messo a letto.
Aldebaran?, supponi. È l’unico nome plausibile; peccato solo che Adriano sia partito ieri per una missione dall’altra parte del globo. Ma allora chi diamine è stato?
Ti abbandoni all’indietro, la federa è fresca contro il viso accaldato.
Facciamo mente locale.
Stamane ti sei alzato con la voglia di ignorare la sveglia e girarti dall’altra parte, ma no, non si può, ché avevi del lavoro da fare. E le armature saranno pure preziose, saranno pure cose vive, saranno pure doni di Athena eccetera eccetera, ma da quando sei rientrato al Santuario non passa giorno che qualcuno non si presenti alla Prima Casa con dei rottami sottobraccio chiedendoti di dargli una sistematina.
«È solo un graffiettino, qui, un’ammaccaturina là. Roba da nulla», ti dicono con una faccia da bronzo da primato olimpionico, e tu accetti – e tu sei costretto ad accettare, ché mica i Santi di Athena possono andare in battaglia in jeans e maglietta, no? – col risultato che ogni giorno avresti bisogno di più ore delle canoniche ventiquattro a tua disposizione. Settantadue, ad esempio.
E si lamentano pure quando chiedo loro qualche goccia di sangue, pensi, aggrottando le sopracciglia e sbuffando.
Quanto avrai riposato?
Un’ora, due?
Fuori c’è una luce calda; se sei fortunato, saranno le sei.
Posso ancora combinare qualcosa, ti dici, scostando il lenzuolo e mettendo i piedi a terra. Ti gira un po’ la testa, ma le armature non possono aspettare. Non per quei gaglioffi dei loro portatori, nossignore. Per loro, poverette. Ti piange il cuore a vederle ammaccate, graffiate, opache. Così, afferri un plaid, te lo drappeggi sulle spalle, e un piede leva e l’altro metti, raggiungi in silenzio la soglia della cucina.
Silenzio assoluto, nemmeno fossi diventato sordo.
Meglio così, non hai voglia di parlare. La gola assomiglia ad una spianata di carta vetrata. Ci vorrebbe qualcosa di caldo. Una tisana al miele, ad esempio, pensi, affacciandoti nella stanza, una mano sul battente della porta.
Niente tisana, ma, in compenso, c’è una pentola sul fornello spento e il profumino che giunge dal forno è quello inequivocabile delle patate arrosto.
Di Kiki, non c’è traccia.
Ti guardi attorno, aspettandoti che sbuchi da un momento all'altro; poi ti ricordi la ragione di tutta quella quiete: Kiki è a Goro Ho, per allenarsi con Shiryu. Ma il mistero si infittisce, pensi, ché non hai mai creduto alla favoletta della Fata Madrina. Chi è stato qui?
Ciabatti fino al tavolo apparecchiato – la scodella rovesciata cosicché non vi entri della polvere – ti appoggi e sollevi il coperchio della pentola. Un aroma caldo e invitante prende possesso delle tue narici e delle papille gustative senza che tu te ne renda conto. C’è un cucchiaio, lì accanto. Lo afferri, mormori un roco «Grazie per il pasto», e, restando all’impiedi con i lembi del plaid stretti in una mano, ne assaggi una prima cucchiaiata. Squisito. Delizioso. Ancora, pensi, sentendo la gola ammorbidirsi sotto quell’abbraccio caldo e avvolgente.
C’è un retrogusto affumicato che riempie e rende rotondo il sapore della minestra che inizi a mangiare con gusto, voracemente, nemmeno non mangiassi da un mese.
Afferri la pentola, la posi sulla tovaglia, scosti la sedia, rovesci la scodella e vi versi la zuppa dentro, facendo onore alla tavola un paio di volte prima di allontanare i piatti e abbandonarti sullo schienale, la pancia piena e il cuore soddisfatto. Ed è in quel momento che ti accorgi che, sotto al piatto piano, c’è un foglietto ripiegato. Sbatti le palpebre, lo prendi, lo spieghi e lo leggi.
 
Qualcuno ha preso una brutta influenza.
Tu.
Mi sei svenuto davanti, come una mela che cade dall’albero.
PAFF, hai presente? Ecco.
Mi sono permesso di metterti a nanna e di prepararti del brodo. Una cosetta leggera, ma sostanziosa, così ti rimetterai in fretta. Ora, spero che tu abbia letto queste due righe dopo aver mangiato, ché a casa mia c’è un detto: “
La minchia e la panza non vonno pinseri.” Tradotto: quando si mangia, si mangia e basta. Non si legge, non si parla, non ci si affatica. Altrimenti non si gusta quello che si mangia. E il cuoco potrebbe offendersi, non trovi?
 
Quella grafia nervosa – mancina, come sono i granchi – può appartenere ad una persona sola. Death Mask. Sollevi lo sguardo e lo porti dalla scodella vuota – che hai quasi leccato, per quant’era buono quel brodo – alla pentola e ai fornelli. E provi a visualizzare – con una certa difficoltà, siamo onesti – il Santo del Cancro intento a spignattare, un canovaccio allacciato alla bell’e meglio sui fianchi – magari proprio quello ripiegato con cura sulla sedia di fronte a te – e un cucchiaio di legno tra le mani.
Death Mask. Nella cucina della Prima Casa.
«E tu che ci facevi qui?», chiedi, come se quel foglio o il silenzio potessero risponderti, mentre le spalle si abbassano e il plaid si affloscia in uno sboff. Allora non l’ho sognato. L’ho sentito ridacchiare per davvero.


Ti ho preparato la zuppa d’accia, scrive ancora nel suo biglietto, come a rassicurarti.  È la ricetta di mia nonna, che rimetteva in sesto pure gli zombie.

«Accia

Qui lo chiamate sedano. Sedano, caciocavallo, cipolle di Tropea, uova, pecorino, salsiccia e soppressata. Ma, non avendo trovato in dispensa uno straccio di carne nemmeno a pagare, ho realizzato una versione vegetariana. È tutta roba vegetale, stai tranquillo. Con voi fricchettoni non si sa mai, aggiunge.

«Fricchettoni?», chiedi, guardando accigliato la porta della dispensa. Che sì, è vuota. E da qualche giorno pure. Sbuffi. E chi ce l’ha avuto il tempo di fare provviste?, pensi.

Siccome il tuo allievo è uccel di bosco, dai retta a un cretino: fatti una sana dormita, mangia (la zuppa è accettabile e dovrebbe bastarti per un paio di pasti), manda giù un paio di aspirine e dormi di nuovo. Alle armature penserai dopo, quando ti sarai ripreso.

«Accettabile? Ma è buonissima!», protesti, come se lui fosse lì, davanti a te, e non alla Quarta Casa.

Se posso essere onesto – e di me tutto si può dire, tranne che io non sia onesto - , non ti fa bene ammazzarti di lavoro così. Sei caduto a terra come una pera matura. Se non fossi passato dalla Prima Casa, saresti rimasto lì, svenuto sul pavimento per chissà quanto tempo.
Non va bene.
Le armature possono aspettare. Lo so che sei oberato di lavoro, ma se istituissi un
triage le cose andrebbero meglio, non credi?

«Un… cosa?», chiedi all’aria, mentre il sole si avvicina all’orizzonte. Sai che ti stai per ficcare dentro ad un maelstrom vorticoso, malmostoso e parecchio incasinato, e lo stai facendo di testa per giunta, e che prima di proseguire la lettura sarebbe saggio mandare giù le due compresse di aspirina di cui parla Death Mask; ma magari, pensi – speri – che ti spiegherà tutto, possibilmente per filo e per segno, nelle righe successive.
 
Aspetta. Non so quanto tempo è che manchi dalla civiltà. Comunque. Il triage è un’invenzione di quegli spocchiosi dei francesi, i quali, per una volta, ne hanno fatta una giusta. Praticamente si tratta di assegnare un colore in base alla gravità del paziente. Rosso, per i casi più gravi. Giallo, per quelli di media urgenza. Verde, per quelli che possono attendere senza spazientirsi. Bianco per quelli da rimandare a casa a calcioni nel culo. Negli ospedali funziona così. Ogni caso che arriva al pronto soccorso ha una sua gravità e un tempo di attesa variabile. Chi sta peggio, passa avanti a tutti gli altri, a prescindere dall'ordine di arrivo. Come un semaforo, ma al contrario.

«Il triage», mormori. E, forse forse, non è un’idea sbagliata, pure se arriva da un pazzo folgorato come lui. Com’era la storia dell’orologio guasto che segna l’ora giusta due volte al giorno?
Sbatti le palpebre. Interessato.

Per farti un esempio, una corazza a brandelli è un codice rosso. Un pezzo saltato è un codice giallo, ché mica puoi andare in battaglia se non ti si chiudono i lacci e le giunture, no? Graffietti, ammaccaturine, urti vari possono aspettare tempi migliori. Quando non avrai casi più gravi o quando t’avanzeranno cinque minuti di tempo.
In forno ci sono delle patate arrosto. Anche quelle sono fatte secondo la ricetta di mia nonna. Tu oggi ti riposi, e domani, se ti senti meglio, riprendi a lavorare. Intesi?


E quell’Intesi?, sottolineato almeno quattro volte, ti risuona nella testa come se Death Mask fosse lì, dall’altra parte del tavolo, un braccio sullo schienale della sedia e le gambe allungate sotto la tovaglia, come a voler reclamare il possesso della terra che calpesta, e forse anche qualche metro più in là.
«Intesi», dici, le quattro mura attorno a te spettatori silenziosi e discreti di questo dialogo senza fili.
Ti ha fatto piacere, un piacere che ti lascia addosso una sensazione di spiazzante calore. Perché su tutti avresti scommesso, tranne che su di lui. Anche perché voi due non è che abbiate poi granché in comune. Anzi. Se – Quando – non vi scannate amabilmente, avete la tendenza ad ignorarvi, come se non esistesse alcun Santo dell’Ariete – o del Cancro, a seconda dei punti di vista – tra i rocchi del Santuario.
Eppure, lui si è preso la briga di metterti a letto e prepararti da mangiare, ti ricorda la tua coscienza, facendoti sentire in colpa. Cos’è che vi ha chiesto Athena, una volta tornati in vita?
Di perdonarvi l’un l’altro, ti rispondi osservando il tuo riflesso capovolto sul dorso del cucchiaio.
Ti ha porto un ramoscello d’ulivo. A modo suo, ché chi nasce tondo non può morire quadrato, giusto?
Giusto, pensi, chiedendoti se non sia il caso di dargli una voce, tanto per ringraziarlo e dirgli che non sei morto, che la zuppa era buonissima, che.
Forse ha da fare, ti dici. Forse lo disturbo. Forse.
Ma poi, dopo aver sistemato la pentola semi-vuota sui fornelli e la scodella nell’acquaio, decidi che tocca a te, adesso, rispondere alla sua gentilezza. La cortesia della pace armata, insomma.
Ti schiarisci la voce – come se ne avessi davvero bisogno – e lo contatti via Cosmo.

Death Mask? Disturbo?

Oh, Pecorella! Nessun disturbo. Ti sei ripreso?

Pecorella?!, pensi.
Sì, sto meglio. Volevo ringraziarti.

E di cosa?

Di esserti preso cura di me.

Dovere. Se non ci si aiuta tra compagni d’arme…
 
E tu pensi che i miracoli esistono. Che forse – forse – Athena aveva ragione, che la sua era tutta una sceneggiata – teatro, come dice lui – per non mostrare le sue fragilità e che c’è del buono anche in uno come lui. Sotto quella scorza dura come il carapace di un granchio.

Com’era la zuppa d’accia? Accettabile?

Accettabile? Ma se era buonissima, protesti.

Naah. Dici così perché non hai assaggiato la versione originale.

Fidati. Era buonissima.

Bene, ne sono contento. Adesso prendi le tue aspirine e rimettiti a dormire. Intesi?

Intesi. Ma me la toglieresti una curiosità?, gli chiedi.

Pure due.

Che ci facevi alla Prima Casa?


Silenzio.
Death Mask?
Ancora silenzio.
Tutto a posto?

Sì. Sissì. Ero sceso a Rodrio a fare provviste. Sono passato dalla Prima Casa, t’ho visto a terra come un merluzzo, e t’ho messo a nanna.


Capisco.

Ma non l’hai letto il biglietto?

Sì. Perché?

Perché mi sono dimenticato di scriverti che non ho messo il sale alle patate. Ah, già che ci sono: la giuntura del busto non chiude bene. Ci ho passato un po’ di orrichalkos, ma non va. Si vede che quel disgraziato di Cos, lì... Fáfnir, o come diamine si chiamava, deve aver avuto una botta di culo. Non è che potresti dare una sistemata anche a quello?

Anche?!

Ti ho spiegato tutto nel secondo foglio. Adesso, scusami, ma sono atteso alla Tredicesima Casa. Sai, per il pokerino del venerdì sera…

e mentre nella tua testa i suoi pensieri si affastellano in maniera incoerente, come un’ondata di marea che si infrange sugli scogli schiaffeggiandoli, lo sguardo ti cade sullo scrigno dell’armatura del Cancro, posato in un angolo, che occhieggia poco oltre la soglia del disimpegno tra le tue stanze private e il laboratorio.
Sbatti le palpebre, una volta, due, tre, e poi metti a fuoco tutti i tasselli.
Il giramento di testa, la stanchezza, la sua voce.
Provviste un cazzo, pensi.
Lo senti sorridere – il lampo abbagliante della tagliola aperta, in attesa tra l’erba alta – e poi non fatichi a vederlo che si stringe nelle spalle prima di risponderti: Tana. Ero passato per un’emergenza. Però a Rodrio sono sceso davvero. A fare provviste. Per te.

Ah.

Comunque. La mia ragazza ha un graffietto. Un’ammaccaturina. Niente che una passata del tuo scalpello magico non possa sistemare, ecco… Ma siccome è tanto bella quanto permalosa, vorrei che tu la sistemassi appena puoi. Quando avrai cinque minuti da dedicarle, s’intende…

Certo. S’intende, rispondi, mentre lui t’ha già salutato e si sta avviando verso la Tredicesima Casa col passo del condannato che si avvicina al patibolo. Aphrodite lo spennerà, lo sapete entrambi, così come sapete entrambi che aprirai lo scrigno dell’armatura, prenderai martello, scalpello e polvere di stelle e sistemerai Cancer stasera stessa.
Lo faccio per lei, ti dici, tirando la catena d’apertura, la coperta sulle spalle e il sole che tramonta all’orizzonte.


Nel mio personalissimo headcanon Death Mask è un asso ai fornelli. Ho trattato questa cosa un po' ovunque nelle mie storie, sicché troverete degli accenni più o meno onnipresenti quando entra in scena il Santo del Cancro (leggi: sempre).

La
zuppa d'accia è una ricetta della tradizione calabrese, e nel mio headcanon Death Mask è calabrese, nato sullo Ionio e svezzato sul Tirreno (così non s'offende nessuno). Gli ingredienti sono quelli elencati da Death Mask nel biglietto a Mu, e posso assicurarvi che la Pecorella ha ragione, è buonissima anche senza la salsiccia e la soppressata (lo dico per i vegetariani all'ascolto!). L'unica rogna è dover togliere tutti i filamenti dai gambi di sedano, ma questi sono dettagli.

E sempre al mio
headcanon è da ascrivere il pokerino del venerdì sera alla Tredicesima Casa. In tempo di pace, con Hades e i fattacci brutti di Soul of Gold alle spalle, è bene riallacciare rapporti e crearne di nuovi, mettendoci un po' di solenne cialtronaggine. Kurumada può e io no?
Se volete affacciarvi, fatelo pure, a patto di restare in silenzio e di non sedervi a giocare quando c'è Aphrodite al tavolo, che, stando a Marco/Death Mask, "ha più culo che anima".
Uomo avvisato, eccetera eccetera...

Il detto 
La minchia e la panza non vonno pinzieri è spudoratamente tratto dai romanzi di Andrea Camilleri.
 

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Capitolo 9
*** 9. L'occasione fa l'uomo ladro ***


★ Iniziativa: Questa storia partecipa al Flu&Fluff a cura di Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 100.
★ Prompt: #29 A finge di stare male per avere attenzioni da B.
 






9. L'occasione fa l'uomo ladro



 


Prompt:Termometro/ Fandom: Saint Seiya - Episode G:Assassin /Personaggi: Taurus Aldebaran, Yoshino Hino, Ophiuuchus Shaina (in absentia)


 
Hai avvicinato il termometro al kotatsu quanto basta per far credere a Yoshino d’esserti preso un’infreddatura con tutti i crismi.
«Vuoi che ti prepari del tè, papà? O magari una zuppa di miso? Sai per la gola…», ti chiede, accarezzandoti il viso.
«Bell’idea, il tè…», e Yoshino scivola fuori dalla stanza, lasciandoti ad ascoltare l’acciottolio della cucina riempire la quiete del mattino.
«Non ti vergogni?», ti chiederebbe Shaina, ma Shaina non c’è. E sì, prendere per il naso Yoshino è mortificante, ma l’occasione fa l’uomo ladro, e alla prospettiva di ricevere delle coccole extra non riesci proprio dire di no.


Il kotatsu è un'intelaiatura che funge da tavolino pieghevole. Lo si apre, un po' come le sedie a sdraio, si piazza la stufetta eletterica nell'apposito alloggiamento, e si ricopre il tutto con la trapunta del futon, e lo si ripiega per metterlo dentro allo shoji quando non serve.
Durante il giorno, specie quando fa un freddo che ti spella mani e viso, si stendono le gambe sotto al
kotatsu per mangiare, cucire, guardare la tv, stare in compagnia, eccetera eccetera.
Poiché in
Episode G: Assassin Aldebaran e Shaina e Yoshino vivono in una casa tradizionale, il kotatsu è stata una scelta obbligata.

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Capitolo 10
*** 10. Febbre a 90° reloaded ***


★ Iniziativa: Questa storia partecipa al Flu&Fluff a cura di Fanwriter.it!
★ Numero Parole: 644.
★ Prompt: #19 A si ammala in piena estate.
 






10. Febbre a 90° Reloaded



 


Prompt:Febbre quartana/ Fandom: Saint Seiya - post Hades /Personaggi: Saori Kido, Cancer Death Mask


 
Sorseggi senza fretta un bicchiere di tè alla menta. Non hai certo premura di rientrare al Santuario che, oltre le colline sullo sfondo, è flagellato da una febbre che, anche stavolta, non durerà a lungo.
Una furia – una smania – di un rosso un po’ stinto aleggia alla Decima Casa.
E poi ci sono i lamenti ed i pianti e le maledizioni che si levano dall’Ottava, dalla Quinta e dalla Terza Casa.
Sudori freddi alla Seconda Casa –  ché il ricordo del Maracanà è ancora vivo e vegeto e dolorosamente vivido.
Il delirio febbricitante all’Undicesima, quella fierezza che solo un vero Gallo possiede – nonostante le testate generose lo accomunino ad un caprone isterico.
La barocca sontuosità russa che fa incedere il Cigno come se fosse Nure’ev sul palco del Bol'šoj.
L’orgoglio dei piccoli, irriducibili, irrefrenabili samurai che avanzano meticolosi verso la meta.
La fierezza dei Vichinghi che si leva dalla Dodicesima Casa, come un soffio che profuma di resina di pino, biscotti allo zenzero e salmone marinato all’aneto, con buona pace dell’aroma fragrante delle rose.
E, alla Quarta, il silenzio indispettito di chi è rimasto a casa a guardare. E si chiede, con una punta di meschinità, che cosa ci sia, poi, di così divertente in ventidue uomini in mutande che rincorrono un pallone...
Il sorriso atarassico di chi è alieno a certe umane faccende – facezie, insiste a chiamarle lui –, Shaka ha evitato di sussurrarti che passerà – Mu è finito a guardare le partite assieme ai Santi di Bronzo. Per curiosità, dice lui. Perché un uomo è pur sempre un uomo, dici tu. –; l’hai imparato da te.
È quello che si chiama esperienza, giusto?, e l’esperienza ti dice che una febbre quartana come quella che sta flagellando il Santuario è solo rognosa. Passa da sé, con una bella sudata, una sana dose di batticuore, qualche brutto sogno e, per alcuni, un risveglio che lascia un sapore amaro in bocca. Ma passa.
«Speriamo solo che non si verifichino incidenti proprio adesso.»
Ai piedi un carico di sacchetti e sacchettini, bottino di un pomeriggio di shopping per le boutique di Licabetto, e una sigaretta accesa per inganno, Death Mask filosofeggia, un sorriso a fior di labbra che non si decide a mostrare.
Dovesse saltar fuori Yngve…
«Sarebbe… increscioso», conclude, quasi augurandosi l’esatto contrario.
«Sembra quasi ti dispiaccia», lo pungoli sorseggiando il tuo tè.
Lui si esibisce in un sorriso da faina, luccicante come una tagliola nell’erba alta.
«Dispiacermi? No, e perché mai?», ti risponde, socchiudendo appena le palpebre. «I crucchi sono fuori dai giochi, il sole splende e tu sei qui con me. E se i miei compagni non fossero… come dire?... ecco, sì, disponibili…»
«Ti toccherebbe risolvere la faccenda da solo, temo», e sbirci da sotto le ciglia scure la sua espressione da galletto afflosciarsi come un soufflé che ha aspettato troppo.
No, non ne sarebbe affatto contento.
«Temo anch’io», ribatte, tanto per mantenere il punto. «Pazienza. La Valle dell’Ade è stupenda, in questa stagione…»
E, osservando il fremito della cenere che cade dalla sigaretta, sai che no, non accadrà nulla di tutto ciò. Perché è su di quelle facezie – come le liquida Shaka – che si regge il mondo. Che continua a girare lo stesso, ci mancherebbe, palloni che s’insaccano nelle reti avversarie o meno; ma quelle facezie sono una boccata d’ossigeno, per i mortali – okay: per gli uomini mortali, rettifichi tra te e te – che le rispettano e le proteggono come fossero una pace olimpica. E nessun Olimpio sarebbe così pazzo da far scendere in campo i propri guerrieri con un occhio al nemico e l’altro al televisore.
Neppure il Guerriero, pensi. Sorseggiando il tuo bicchiere. Un po’ di shopping, ecco quello che ci vuole. La versione della casa di una pasticca di paracetamolo in dose da cavalli. Sì, shopping, istituto di bellezza e una bella cenetta fuori. Al braccio di Marco. Tanto lui non ha una nazionale per cui tifare, no? Sarebbe da sciocche non approfittarne…
 

Quattro anni fa scrissi questa sciocchezzuola all’alba dei mondiali brasiliani. All’epoca, ancora non potevamo sapere che la Germania avrebbe rifilato un clamoroso 7-1 al Brasile (a casa loro, per altro), che la Svezia, toma toma cacchia cacchia, ci avrebbe silurato alle qualificazioni, che la Corea del Sud avrebbe mandato a casa i Crucchi, ma la solfa resta la stessa: date ad un uomo una partita di calcio in tv, e questi seguirà ventidue uomini in mutande (venticinque, contando l’arbitro e i due guardalinee) correre appresso ad un pallone, nazionale o non nazionale, armatura o non armatura…

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