This Side of Paradise

di Water_wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***
Capitolo 5: *** Cinque ***
Capitolo 6: *** Sei ***



Capitolo 1
*** Uno ***


THIS SIDE OF PARADISE
 

Parte Prima: Il Muro di Cristallo

 

uno

 

La coda di cavallo ondeggiava ritmicamente dietro di lei, mentre Annabeth faceva il suo ingresso nella sala dei simulatori. L’aria era carica di elettricità e promesse di guai futuri. Annabeth si disse che era solo un po’ di tensione per l’inizio del secondo semestre, eppure non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava. Sensazione che si intensificò man mano che si avvicinava al proprio simulatore, trasformandosi in un ronzio nelle orecchie che ottundeva i suoni attorno a lei. Poi lo vide.
Un ragazzo. Un ragazzo in piedi davanti al suo simulatore.
Annabeth si impose di rimanere calma. Non era detto che quel tipo si trovasse lì per quella ragione. Poteva essersi trasferito al Campo Mezzosangue dopo le vacanze invernali ed essersi perso. Oppure era semplicemente mezzo addormentato e si era confuso, dopotutto erano appena le nove. Sì, probabilmente il suo vero compagno lo stava aspettando di fronte a un simulatore vicino domandandosi che fine avesse fatto.
Raddrizzò le spalle e si avvicinò, cercando di mostrarsi affabile. «Ciao. Hai bisogno di una mano? Se ti sei perso, posso aiutarti a ritrovare la tua postazione.»
Il ragazzo alzò lo sguardo su di lei e le rivolse un piccolo sorriso. «Grazie» rispose, e Annabeth provò un’improvvisa ondata di gioia. «Ma non mi sono perso. Sono appena stato assegnato a questa unità. Tu sei Annabeth Chase, giusto?»
La diretta interessata bypassò la domanda. «Assegnato a questa unità?» ripeté, cinquanta sfumature di incredulità rintracciabili nella sua voce.
Lo sconosciuto annuì. Si frugò nella tasca interna della giacca e ne tirò fuori un foglio spiegazzato. Annabeth non aspettò che glielo porgesse per artigliarlo. Lo aprì e lesse freneticamente le poche righe che conteneva. Sbatté le palpebre e lo lesse una seconda volta, e una terza. Capiva, ma la sua mente si rifiutava di processare. Si trattava di uno scherzo. Doveva trattarsi di uno scherzo. Il timbro ufficiale del Campo alla fine della pagina, però, sembrava ridere delle sue ridicole speranze.
«Comunque» proseguì il ragazzo, «mi chiamo Percy Jackson.»
A questo, lo sguardo di Annabeth scattò su di lui. Il nome non le era nuovo. Mentre lo ripeteva tra sé per cercare di capire dove l’avesse sentito, la sua bocca divenne secca e sentì sulla lingua il sapore della cenere. Ora ricordava. Percy Jackson aveva stabilito il nuovo record di schianti, fallendo il settanta percento delle simulazioni cui aveva partecipato. Si era schiantato trentasette volte solo nel primo semestre.
Annabeth tentò inutilmente di deglutire. Non era possibile che il ragazzo davanti a lei—una zazzera indistricabile di capelli neri, occhi verdi e divisa appena uscita dalla lavatrice—fosse quel Percy Jackson. Non stava capitando a lei.
«Sono il tuo nuovo copilota.»
«Questo è ancora da vedere» replicò, sbattendogli il foglio contro il petto e allontanandosi a grandi passi.
La sua voce la raggiunse poco dopo. «Ehi, ma cosa ti ho fatto?» domandò, visibilmente offeso. «Si può sapere dove stai andando?»
Annabeth non lo degnò di uno sguardo, neanche di un’occhiata da sopra le spalle. «Da Chirone» chiarì. «Non ho fatto nessuna richiesta per un copilota e di certo non ne ho bisogno. Io volo da sola.»
E soprattutto non con te, aggiunse tra sé.
Allungò il passo, tentando di lasciarselo dietro, ma Percy Jackson continuava a tallonarla con insistenza. Un gruppetto di studenti diretti alle proprie postazioni lanciò loro un’occhiata stranita. Annabeth immaginò si stessero chiedendo per quale ragione stessero uscendo dalla sala di simulazione, quando la lezione stava per incominciare. Li superò velocemente, lasciandosi scivolare addosso i giudizi e gli sguardi curiosi.
Aveva quasi raggiunto il portellone d’uscita, quando quest’ultimo si aprì davanti a lei, rivelando la figura dell’istruttore capo. Chirone era un centauro, ciò significava che dalla testa fino alla cinta era un uomo normale nei suoi quaranta, mentre dalla vita in giù era uno splendido stallone bianco. Nel primo semestre aveva spiegato che preferiva evitare attacchi di panico tra le matricole come loro, celando la sua forma naturale in una sedia a rotelle. Ma tutti sapevano che proveniva da un distante pianeta nella costellazione del Sagittario e che se c’era un torto da raddrizzare, lui era l’uomo a cui rivolgersi. E quella mattina Annabeth era certa ce ne fosse uno che la riguardasse da vicino.
«Annabeth, Percy» esordì non appena se li trovò di fronte. «Stavo cercando proprio voi.»
«Anch’io avevo bisogno di lei, prof» replicò la ragazza. «Questa mattina ho trovato lui» e indicò l’altro senza voltarsi «davanti al mio simulatore. Dice di essere il mio nuovo copilota, ma non è possibile. Ci dev’esser un errore.»
Percy incrociò le braccia e borbottò: «Non è vero.»
Quando Chirone non si mostrò sorpreso, Annabeth avvertì di nuovo la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava. Aleggiava nell’aria come un presagio nefasto. Il centauro sospirò e abbassò lo sguardo per qualche momento, come faceva sempre quando doveva dare una comunicazione spiacevole. «Mia cara, sono dispiaciuto per te, ma non c’è alcun errore.»
La frase, semplice e concisa, la colpì come una pugnalata alle spalle. Indietreggiò, la bocca semi aperta e gli occhi sgranati fissi sul suo istruttore. «Ma… Ma…» balbettò, tentando di recuperare il proprio equilibrio.
«Camminiamo» suggerì Chirone, portandosi al fianco della ragazza. I tre si diressero lentamente verso il loro simulatore. Attorno a loro, gli altri studenti li osservavano con la coda dell’occhio, cercando di capire la ragione di tutta quella confusione. «Immaginavo che la notizia non sarebbe stata ben accolta, per cui sono qui per spiegarvi tutto.»
«Allora nemmeno lei è d’accordo?» domandò subito Annabeth, sollevata all’idea che il centauro fosse dalla sua parte. «Può far ritirare l’ordine del comando?»
Chirone scosse la stessa. «No.»
Annabeth si pizzicò la pelle del polso, ma la sala davanti ai suoi occhi non si trasformò nella sua stanza e lei non si ritrovò sdraiata nel letto. «Cosa?» mormorò, più a se stessa che agli altri. Non riusciva ancora a credere che ciò che le stava accadendo fosse reale.
Chirone si sentì interpellato, per cui rispose: «Sono stato io ad assegnare Percy Jackson come tuo copilota. Credo sia tempo di farti lavorare di nuovo con qualcuno. Dopo quello che è successo, eri emotivamente provata. Ti ho lasciato libera iniziativa nella ricerca di un compagno per aiutarti. Ma sono passati due mesi e tu non hai ancora deciso con chi fare squadra. Siamo all’inizio del secondo semestre, non posso continuare a chiudere un occhio davanti al tuo caso.»
Annabeth avrebbe voluto mettersi a gridare. Invece, decise di lasciare da parte la frustrazione e usare la logica per rivolgere la situazione a proprio favore. «Capisco quello che vuole dire» replicò. «Non è raro che coppie si separino per trovare qualcuno con cui vadano più d’accordo, in questa parte dell’anno. Mi dia solo un altro paio di giorni e troverò un nuovo copilota. Glielo prometto.»
L’istruttore annuì al suo breve discorso, dopodiché si rivolse a Percy. «Tu cosa ne pensi, figliolo?»
Il volto del ragazzo si illuminò. Sembrava non avesse visto l’ora di poter dire la sua. «Personalmente» esordì, lanciando un’occhiataccia ad Annabeth, «non capisco perché lei non voglia volare con me. Ho il diritto di diventare il suo nuovo copilota tanto quanto qualsiasi altro. Dopotutto, anch’io rientro tra le coppie che hanno deciso di sciogliersi.»
Chirone sorrise sotto i baffi. Spostò lo sguardo sulla sua allieva, invitandola a esprimere la sua opinione. «Annabeth?»
«Non voglio che lui sia il mio partner perché conosco il suo record di schianti. Trentasette, in un solo semestre. Chiaramente non è al mio stesso livello.» Si voltò brevemente verso il ragazzo e aggiunse: «Senza offesa.»
Il moro si ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni e lasciò che un ciuffo di capelli gli ricadesse sugli occhi, nascondendo il suo sguardo omicida. «Lo dici come se lo facessi apposta.»
Il centauro alzò una mano, prevenendo ulteriori commenti da ambo le parti. «Le vostre capacità differenti fanno parte delle ragioni per cui ritengo Percy il candidato perfetto al ruolo di tuo copilota, Annabeth» spiegò, incrociando le dita delle mani e assumendo la sua posa da professore. «Due persone così diverse hanno tanto da imparare l’una dall’altra. Questa è un’opportunità di crescita enorme per entrambi. Sono certo che sarete abbastanza maturi da sfruttarla al massimo.» Sollevò il braccio sinistro e controllò l’orologio. «Mancano meno di cinque minuti all’inizio della lezione. Ho scommesso su di voi, ragazzi. Non deludetemi.»
Detto questo, si voltò e ritornò sui suoi passi. Annabeth fissò la sua schiena finché non scomparve dietro il portellone insieme alle sue speranze.
«Quindi» fece la voce di Percy dietro di lei, soffermandosi in modo eccessivo sulle i. «Suppongo che adesso sia ufficialmente il tuo nuovo copilota.»
Almeno ci hai provato, si disse, ma il pensiero non era per nulla consolante. Con estrema lentezza, si voltò verso il suo compagno e replicò senza energia: «Entra nel simulatore e basta.»
Il ragazzo scrollò le spalle e premette il pulsante per far aprire la porta. Prima che potesse varcare la soglia, però, Annabeth lo afferrò per un braccio, lo tirò vicino a sé e guardandolo negli occhi mormorò in tono di minaccia: «Se per colpa tua—perché sarà sicuramente colpa tua—oggi ci schiantiamo, sappi che non smetterò mai di cercare di liberarmi di te.»
Le labbra di Percy Jackson si arcuarono in un grande, sfrontato e deliberatamente provocatorio sorriso sarcastico. «Ricevuto.»
Dopodiché, entrò nel simulatore e Annabeth fu costretta a seguirlo.
 
 
Annabeth si strappò cuffie e microfono e si precipitò fuori dal simulatore come una furia. Aveva assolutamente bisogno di un posto tranquillo dove poter sbollire la rabbia. Odiava essere costretta a fare coppia con qualcuno. Odiava che questo qualcuno fosse Percy Jackson. Ma più di tutto, odiava come la sua sola presenza fosse sufficiente a farle saltare in nervi. Annabeth coltivava il rispetto e la civiltà nei rapporti. Credeva di possedere un ottimo autocontrollo su se stessa e le sue emozioni. Poi aveva incontrato Percy Jackson e questa certezza si era incrinata.
«Annabeth.»
 No, ti prego. Lasciami stare.
«Annabeth, dai… Possiamo parlarne.»
Perché insisti? Perché? si domandò lei. Prese un bel respiro, ricordò i suoi ideali di civiltà e si voltò. «Okay» rispose. «Parliamone.»
Doveva essere apparsa più minacciosa di quello che intendeva, perché Percy fece un mezzo passo indietro e perse momentaneamente la facoltà di parola. «È stato solo il nostro primo volo» riuscì a dire infine. «Non è andata poi così male. Abbiamo giusto bisogno di un po’ di pratica in più.»
Annabeth dominò l’impulso di inarcare entrambe le sopracciglia. «Se con “non è andata poi così male” intendi “almeno non ci siamo schiantati”, ti do perfettamente ragione» replicò. Il ricordo dell’atterraggio di emergenza—molto di emergenza—era ancora troppo vivido nella sua memoria. «E sì, dovremmo fare più pratica. Molta più pratica. Il pilota e il suo co devono entrambi aver ben presente quali sono i loro ruolo all’interno della nave.»
«Woha. Frena» si impuntò il ragazzo, iniziando a gesticolare per enfatizzare le sue parole. «Tu stai dando la colpa a me per il risultato della simulazione?»
«Non sto dando la colpa a te. Ho detto il pilota e il suo co» puntualizzò lei, piccata. «Mi sono assunta la mia parte di responsabilità. È questo che fa una persona matura.»
«Quindi io non sarei una persona matura?»
Annabeth emise un verso di esasperazione. «Smettila di far girare tutto quanto attorno a te.»
«Io non sto facendo girare tutto intorno a me. Sei tu, piuttosto» ribatté Percy.
La ragazza incrociò le braccia sotto il seno e resistette all’impulso di inarcare un sopracciglio. Era fermamente convinta di essere una persona matura, perciò non si sarebbe messa gridare pronomi personali nel mezzo della sala delle simulazioni di volo. Litigare con Percy Jackson non avrebbe portato a nulla. «Spiegati» lo incalzò.
«Hai messo bene in chiaro che non ti piaccio.» Un sorriso sarcastico gli incurvò le labbra nel pronunciare quelle parole. «Va bene, non credo di poterci fare qualcosa, anche se continuo a non capire. Perché di me sai solo come mi chiamo e che, nel primo semestre, mi sono schiantato trentasette volte. Non credo che questo sia abbastanza per conoscere una persona. Magari neanche tu mi piaci. Ma là dentro» indicò il loro simulatore con un dito, «ho cercato di rendermi utile. Non importava che mi avessi appena trattato da schifo, nonostante ne avessi tutto il diritto non ne ho tenuto conto, perché non ti conosco e ho tentato di mettermi nei tuoi panni. Ma tu non hai voluto collaborare, o almeno non per davvero, come se il fatto che mi sia schiantato trentasette volte basti a etichettarmi come un incapace, come qualcuno non degno del tuo tempo. Per cui sbagli quando dici di esserti assunta la tua parte di responsabilità» concluse, «perché fino ad adesso non avevi nemmeno realizzato che i pregiudizi che hai contro di me ti impediscono di trattarmi come un tuo pari.»
Annabeth rimase a fissarlo in silenzio per un intero minuto. Aveva così tanta ragione, ed Annabeth era così tanto in torto. Persino in quel momento, l’idea che Percy Jackson fosse capace di un discorso simile la stupiva, perché aveva assunto che non ne fosse capace, così come aveva assunto non fosse capace di molto altro. C’erano un milione di ragioni per spiegare come avesse fatto a stabilire quel nuovo record di schianti, ma lei aveva semplicemente dato la colpa a lui. La vastità dei suoi pregiudizi andava oltre il ragazzo di fronte a lei e si estendeva a tutti le matricole del Campo, perché pensava che nessuno avrebbe mai potuto prendere permanentemente il posto accanto al suo nel simulatore.
Ma questo probabilmente è vero, cercò di giustificarsi. Dopotutto, non era rimasta senza copilota per tre mesi perché si era dimenticata di cercarne uno. Non era rimasta senza copilota per tre mesi perché non aveva voglia di esaminare diversi candidati. Non era rimasta senza copilota per tre mesi perché preferiva volare da sola. Era rimasta senza copilota per tre mesi perché lei ne aveva già uno e, nonostante fosse scomparso per tutti quanti, non lo era per lei. Nessuno sarebbe stato in grado di prendere il posto di Luke.
Ciò non toglieva che si fosse comportata da stronza e che doveva a Percy Jackson delle scuse. «Mi dispiace» sospirò. «È come hai detto tu. Non ho realizzato di tenere questi pregiudizi contro di te fino ad ora.»
Il ragazzo le rivolse un sorriso che mal celava il gusto che provava nell’aver ottenuto quelle scuse. «Ciò significa che mi darai una seconda possibilità?»
Annabeth annuì. «Io credo in Chirone. Non voglio deluderlo» rispose. «Spero…spero che abbia ragione su di noi. Ti darò una seconda possibilità. Ovviamente se tu vorrai darla a me.»
Gli occhi di Percy sembrarono brillare. «Certo» confermò. «Dubito che quello che ho visto sia il meglio di Annabeth Chase.»
«Okay.»
«Okay. Ci vediamo più tardi a lezione?»
Annabeth alzò il pollice in segno affermativo, dopodiché gli diede le spalle e non si voltò indietro.
 
 
«Mia cara, dolcissima amica, non sai quanto io sia fiera di te.»
Piper, seduta di fronte a lei, la fissava con una luce strana negli occhi e senza smettere di sorridere. La sua voce si era levata chiara sopra il brusio onnipresente della mensa, che purtroppo non era riuscito a soffocarne il tono zuccheroso. Il racconto di cos’era successo quella mattina l’aveva coinvolta talmente tanto che si era scordata di continuare a mangiare e il suo piatto era ormai freddo. Giocherellò con le posate finché Annabeth non le intimò di mangiare quei dannati pisellini e finirla di guardarla così.
«Non è stato poi questo granché» si schermì. «Ammetto che non sia stato facile scusarmi, ma ho solo fatto quello che chiunque dotato di cervello avrebbe fatto nei miei panni. Anzi» si corresse, puntando la forchetta in un gesto d’accusa contro l’amica, «ho pensato soprattutto a te e quello che mi dici sempre riguardo all’essere meno scontrosa.»
Gli angoli della bocca di Piper schizzarono immediatamente verso l’alto. Si sporse in avanti e strinse la mano di Annabeth sul tavolo. «Vedi? Mi rendi fiera di te.»
Annabeth scosse la testa, ma stava ghignando. «Lasciamo perdere.»
Piper si sedette meglio e si riportò indietro i capelli. Dal momento che non stava studiando per diventare pilota, non era obbligata alla rigidità di acconciature ritenute “adatte al ruolo” e poteva permettersi di portarli come più le piaceva. Quel giorno aveva intrecciato le ciocche castane e le aveva fissate dietro la nuca insieme a delle piume, riprendendo lo stile dei Nativi Americani.
«Il problema» proseguì Annabeth, «è che Percy è ancora molto indietro rispetto a me. Ed è una verità universalmente riconosciuta che non avere un copilota è meglio che averne uno incapace.»
«Be’, vorrà dire che gli spiegherai tu» ribatté l’amica. «Sei un’ottima insegnante. Se avessi un po’ di pazienza in più, saresti addirittura perfetta.» Si ficcò una forchettata di quinoa in bocca prima di proseguire. «Hai mai pensato che Chirone abbia tenuto conto di questo nell’accoppiarvi?»
Annabeth era riluttante a risponderle di sì, sebbene fosse un’ipotesi ben più che probabile. Dalla prospettiva del centauro, comprendeva chiaramente le ragioni della sua scelta. Lei e Percy si trovavano agli antipodi e appunto per questo riuscivano—o meglio, in un futuro lontano sarebbero riusciti—a completarsi a vicenda.
«Parlando seriamente, invece, posso darti un consiglio?»
L’attenzione di Annabeth si spostò immediatamente su Piper. Mentre rifletteva, non si era accorta di stare fissando il vuoto. «Certo» rispose.
I consigli di Piper erano dei salvavita. Avrebbe potuto riempirci centinaia di bigliettini da mettere insieme a dei cioccolatini o biscotti della fortuna e aprire un business. Solo che, a differenza dei biscotti della fortuna, le sue frasi avrebbero davvero aiutato le persone.
«Dagli la seconda possibilità che gli hai promesso» iniziò la mora, «e dagliela per davvero. Percy Jackson ha una brutta reputazione e non è sicuramente il primo della classe, però ti ha anche chiesto di parlare. Questo significa che ci tiene. Con un po’ di costanza, sana determinazione e un buon insegnante si può arrivare ovunque. Dopotutto, nemmeno tu sei diventata il pilota che sei adesso da sola. Luke è stato il tuo mentore. Nessuno prenderà mai il suo posto, soprattutto non Percy Jackson. Anche se si siederà alla sua postazione ogni giorno, volerà con te ogni giorno e frequenterà i tuoi corsi ogni giorno, non sarà mai Luke. Non avere paura di questo. Se smetti di focalizzarti sul ruolo che deve ricoprire e ti concentri sulla persona che è, te ne renderai conto anche tu. Il problema non è che sia il tuo copilota, il problema è che non è Luke. Ed è legittimo pensare che non sarà la stessa cosa, che non sarà altrettanto perfetto ma ehi, questo non significa che sarà orribile. Anzi, probabilmente sarà okay. Più che okay.»
Annabeth lasciò che le parole andassero a fondo, toccando tutti i suoi punti deboli. Distrattamente, pensò che il suo discorso era troppo lungo per dei biscotti della fortuna. Piper aveva un talento con le parole e con la verità e, anche se quello che diceva poteva colpirti in zone scoperte e farti un po’ male, ti costringeva a fare un passo avanti e andare incontro ai problemi di petto. Era la sua migliore amica e, come tutte le migliori amiche, a volte sembrava conoscerti meglio di te stessa. L’ondata di affetto per lei colpì Annabeth in pieno e le fece venire voglia di scavalcare il tavolo e precipitarsi ad abbracciarla.
«Ti adoro» disse invece. «Lo sai, vero?»
Piper si atteggiò come un pavone che mostra le sue piume. «Come non potresti?» ribatté, sbattendo le lunghe ciglia prima di mettersi a ridere. Ma nello sguardo che le aveva rivolto Annabeth aveva scorto altro oltre al divertimento, segno che l’intenzione nelle sue parole aveva colpito il punto giusto.
La bionda si schiarì la gola e riportò un ciuffo ribelle dietro l’orecchio. «Va bene, però adesso finisci quella povera quinoa e parliamo d’altro. Percy Jackson non riuscirà a monopolizzare anche le mie conversazioni.»
Piper le sorrise e annuì solennemente, facendo oscillare le piume tra i suoi capelli. «Sono perfettamente d’accordo con te, amica.»
 

Le lezioni di Meccanica I erano le peggiori, Annabeth ne era certa. Si trattava di un corso base ed era pensato per piloti in situazioni di emergenza, non doveva formare né ingegneri né meccanici di professione. Il suo scopo principale era, oltre a fornire le nozioni essenziali su come funzionava questo o quel pezzo e come ripararlo, evitare una catena infinita di autostop galattici. Ma nessuno sembrava averlo detto al professore, Efesto. Annabeth aveva sempre pensato che fosse un tipo bizzarro, con i vestiti sempre macchiati di olio per motori e i capelli ritti in testa. Aveva un po’ dell’inventore o dello scienziato pazzo. Alcuni insinuavano che sangue alieno scorresse nelle sue vene, perché era dal tempo di Stephen Hawking che l’universo non era stato messo di fronte a un’intelligenza del suo calibro.
La ragazza era d’accoro che, se riuscivi a seguire il filo del discorso, era impossibile negare la genialità racchiusa nella mente di quell’uomo. Se. Parlava a una velocità media pari al miglior rap di Eminem, rendendo impossibile prendere appunti. In più, i suoi discorsi erano contorti e spesso restavano senza una conclusione, perché Efesto si perdeva nell’approfondire un particolare spunto di riflessione e poi si dimenticava dell’argomento da cui era partito. Trovare le sue spiegazioni sul libro di testo era pressoché inutile. Per questa ragione, metà classe sudava per riportare tutto quanto diceva, mentre l’altra aveva rinunciato da tempo.
Annabeth aveva un crampo alla mano a furia di scrivere così in fretta e i ricci biondi le finivano davanti agli occhi continuamente, ma non poteva sprecare tempo per sistemarli. Efesto stava spiegando come classificare i danni subiti da un motore e come ripararli—in teoria fino all’arrivo dei soccorsi, in pratica trasformandolo da un modello standard a uno adatto a un’astronave da corsa. Fu per questo che, quando una tendina si aprì sullo schermo del tablet di cui ogni studente era dotato, non se ne accorse subito, troppo presa nel prendere appunti. Intuendo da chi proveniva, si rifiutò di aprire la chat per principio. Dargli una chance era una cosa, non seguire le lezioni per lui era un’altra. Non si sarebbe messa a parlare con lui nel mezzo della lezione, soprattutto quella lezione. Ma la vista della finestrella lampeggiante, proprio davanti ai suoi occhi, non le permetteva di concentrarsi. Le faceva venire in mente Percy Jackson e la sua sfrontatezza e il fatto che fosse seduto dietro di lei e che si aspettava una risposta. L’irritazione corrose irrimediabilmente la sua attenzione.
Con uno sbuffo di frustrazione, cliccò sulla tendina e smise di farla illuminare a intermittenza.

thepercyjaxon: non dirmi che stai capendo veramente questa roba

Scrisse velocemente una risposta prima di chiudere la chat e ritornare al file che stava riempiendo con i suoi appunti.

ann_chase: Se la smetti di distrarmi, forse ci riesco anche.

Si sistemò meglio sulla sedia e riportò la sua attenzione su Efesto. Per fortuna stava ancora parlando dei vantaggi di un motore a cristalli, per cui non fu troppo difficile raccapezzarsi. Poi un’altra notifica comparve sullo schermo e lacerò gli ultimi brandelli di attenzione rimasti. Chiuse gli occhi e prese un lungo respiro. Dopodiché, lesse la risposta di Percy.

thepercyjaxon: allora sei umana. se mi avessi risposto di sì avrei iniziato a preoccuparmi

ann_chase: Sono felice? replicò. Però così le sembrava di dargliela vinta, per cui aggiunse: Comunque inizia a preoccuparti lo stesso, perché non ho intenzione di fare un altro atterraggio di emergenza.

La risposta di Percy fu ancora più veloce. Ormai continuare a seguire la spiegazione era inutile.

thepercyjaxon: ti ripeto che non lo faccio di proposito. neanche per me è stato divertente
thepercyjaxon: ho quasi sbattuto il naso contro la cloche
ann_chase: Te lo saresti meritato.
thepercyjaxon: aia

Annabeth ghignò nel leggere il commento.
La voce di Efesto era diventata un sottofondo continuo e monocorde, le parole si fondevano insieme e smettevano di avere senso. Cercare di ritrovarsi e non perdere gli ultimi, densi minuti di lezione si rivelò un’impresa più ardua del previsto, soprattutto perché ogni volta che si accingeva a scrivere altri appunti, spuntava la notifica di un nuovo messaggio. Annabeth corrugò la fronte e si mordicchiò le labbra. Sapeva che sarebbe andata a finire così, eppure aveva avuto la bella idea di rispondere lo stesso. Fortuna che era una persona matura.
Il rumore di sedie che si spostano e piedi che strusciano sul pavimento anticipò di un paio di secondi il suono della campanella. Annabeth recuperò con calma il proprio tablet, mentre gli studenti sciamavano intorno a lei per uscire dalla classe il più in fretta possibile. Non sentiva il bisogno di scappare da nessuna parte, visto che, metaforicamente, l’aveva già fatto. Il suo corpo era rimasto seduto sulla sedia per tutto il tempo, ma la sua mente si trovava in un altrove in cui inviava messaggi a Percy Jackson e subito dopo si pentiva di averlo fatto, senza che questo le impedisse di scrivergli ancora. Era senza speranze.
Il richiamo del professore la colse totalmente di sorpresa.
«Chase, gradirei scambiare due parole con te. Anche tu Jackson, non ci lasciare.»
Annabeth deglutì, ma non riuscì a eliminare la sensazione di disagio. Si avvicinò lentamente alla cattedra, cercando di nascondere dal suo viso ogni traccia di colpevolezza per apparire come sempre: sicura, attenta e rispettosa. Al suo fianco, Percy non era così abile nel celare le sue emozioni. Ne suoi occhi si aggiravano il sospetto e la grande, grandissima voglia di esclamare merda. Erano fregati.
Efesto si sedette, prendendosi il suo tempo per riporre il portatile e documenti stampati nella propria borsa. «E così» iniziò, tamburellando le dita sulla cattedra, «so che oggi è il vostro primo giorno come squadra. Come vi state trovando?»
Annabeth sentì l’esigenza di grattarsi il collo, lì dove una goccia di sudore era appena scesa, ma preferì rimanere immobile. Un gesto del genere non avrebbe fatto altro che rivelare il disagio che provava.
«Oh» stava dicendo intanto Percy. «Annabeth è… Annabeth è forte.»
«Anche Percy non è male» aggiunse lei. «Abbiamo solo bisogno di tempo, poi sono certa che diventeremo una coppia affiatata.»
Il professore annuì più volte. «Naturale, è così. Ciò che non lo è, invece» riprese, «è che rubiate quel tempo alle mie lezioni.»
Il ragazzo aprì la bocca per replicare, ma venne zittito.
«Di solito, non sono il tipo a cui importa se viene amato o meno dai suoi studenti, l’importante è che i suddetti studenti trovino un modo per passare i miei esami e, magari, riuscire a cogliere le meraviglie di questa materia. Ma Chirone ha chiesto a me e ad altri professori di tenervi d’occhio, dunque…» Sospirò. «Devo agire di conseguenza, mi spiace. Credo che vi assegnerò tre giorni di pulizie insieme alle arpie, al termine delle lezioni.»
Gli occhi di Annabeth volarono da Efesto a Percy e da Percy a Efesto come dischi volanti impazziti. «Tre… giorni?» balbettò, incredula.
«Hai ragione» rispose l’insegnante. «Tre giorni sembravano pochi anche a me. Meglio il doppio.»
Percy aveva l’aria di chi vuole strapparsi le orecchie e rimettersele a posto per vedere se funzionassero bene. «Cosa?» esclamò. «Non può parlare sul serio. Sa anche lei che metà della classe non stava prestando attenzione, eppure solo noi veniamo puniti. È un’ingiustizia.»
Esatto!, pensò Annabeth. Che cosa è successo al “non sono il tipo a cui importa se viene amato o meno dai suoi studenti”? Ma fu abbastanza saggia da tenersi quel commento per sé.
Efesto ripose il portatile e gli ultimi documenti nella cartella. «Vedi, Jackson» iniziò, sospirando lievemente. «L’intero universo è un’ingiustizia. Non c’è bisogno di andare troppo lontano. La fame nel mondo, il buco nell’ozono, i bambini soldato in Afghanistan sono delle grosse ingiustizie, ma prova a pensare a questo: professore rinomato costretto a tenere lezioni a una banda di diciottenni con difficoltà a collegare le sinapsi, mentre sua moglie—» Si interruppe. Sollevò la borsa dalla cattedra e si avviò zoppicando verso la porta. «L’ingiustizia è terribile, eppure c’è un solo fatto che la rende sopportabile.» Il suo volto si aprì in pallido paragone di un sorriso, prima di concludere: «Poterne essere l’autore.»
Era già oltre la soglia, quando le sue ultime parole raggiunsero le orecchie di Annabeth. Godetevi i sei giorni di pulizia straordinari, mi raccomando!




Angolino dell'autrice
Salve, popolo di EFP.
(Se ancora di popolo si può parlare, guardando ai numeri sempre decrescenti di utenti di questo sito.)
Tu, lettore. Se sei giunto fino a qui, ti ringrazio per il tempo che mi stai dando. Giuro che te ne rubo solo un altro po' con questo angolino, ma è importante.

È un po' che non pubblico nulla e le ragioni sono diverse, ma visto che non devo dilungarmi non starò qui ad elencarle. Questo è un progetto a cui tengo abbastanza e mi preme che venga alla luce. Volevo trovarmi più avanti nella stesura prima di pubblicare, per essere più organizzata e regolare, ma mi sono accorta che non funziona. Ho bisogno di prendermi un impegno per far funzionare le cose. Ho bisogno che qualcuno mi stia col fiato sul collo per continuare a scrivere e non fermarmi. Non posso promettere aggiornamenti regolari, ma posso promettere il mio impegno a portare a termine questa storia. Se hai pazienza, lettore, scoprirai che ne sarà valsa la pena.
Mi sono liberamente ispirata a Voltron: The Legendary Defender, Star Wars e Guardiani della Galassia. Se almeno uno di questi film/serie ti piace, c'è una probabilità abbastanza alta che ti piaccia pure questa fic.
Spero che la mia rappresentazione dei personaggi di Zio Rick sia il più fedele possibile, ma mi scuso se così non dovesse essere. Sono sempre pronta ad aggiungere OOC alla lista di avvertimenti.
Il titolo è tratto da una canzone di Hayley Kiyoko, che ho ascoltato parecchio nella genesi della prima idea per questa storia.
La romance tra Percy e Annabeth sarà molto lenta, di quelle che ti fanno sclerare per quantoci mettono a svilupparsi, ma è tutto per il meglio. Niente di buono è frutto della fretta.
Per le ragioni là sopra, ti sarei molto grata se lasciassi una recensione, non importa il colore della bandierina. Mi impegnerò a ricambiare.
Un bacione,

Water_wolf

 

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Capitolo 2
*** Due ***


due

 
 
«Annabeth! Alla tua destra!»
La ragazza alzò la pistola laser e sparò due colpi prima ancora di aver messo a fuoco il nemico. Il suono squillante che segnalava l’eliminazione di una minaccia riempì la sala di allenamento. Ne seguirono altri due, prima che Annabeth potesse concedersi un secondo per detergersi il sudore dalla fronte con il dorso della mano e riportarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Fu allora che realizzò che quelle erano le prime parole che Percy le aveva rivolto in tutta la mattina. I “ciao” mugugnati sulla soglia dell’aula di Termodinamica, la lezione precedente, non contavano, visto che potevano benissimo suonare come versi animali o gargarismi. Annabeth non aveva digerito bene la punizione di Efesto—anzi, per niente. Nemmeno a Percy era andata giù. C’era stato un tentativo di discutere la cosa, ma nulla si era risolto. Probabilmente la situazione si era complicata, rifletté la ragazza, visto il comportamento passivo-aggressivo che si era stabilito tra di loro.
«Grazie» disse in un sospiro, cercando di recuperare fiato. Non aveva senso tenere il broncio, ora che le aveva rivolto la parola.
«Niente» le rispose lui senza voltarsi, alle prese con un drone dalla forma cubica che gli fluttuava attorno.
L’aveva ammaccato con il primo colpo, ma non era riuscito a centrare l’occhio al centro della faccia, l’unico punto debole della macchina. Entrambi furono costretti a spostarsi, quando il robot fece fuoco contro di loro. Ancora accovacciato a terra, Annabeth lo vide strizzare un occhio per individuare meglio il bersaglio e fare fuoco.
Percy si rialzò e scosse il capo, nel vano tentativo di sistemarsi il nido d’aquile che aveva al posto dei capelli. «Quanto…» iniziò, ma fu costretto a interrompersi per mancanza di fiato. Si portò una mano al fianco e fece due grandi respiri. Nonostante questo, gli occhi gli brillavano e aveva un sorriso che gli andava da orecchio a orecchio. Eliminare un drone dopo l’altro aveva spazzato via il suo cattivo umore. «Quanto stiamo durando?»
Annabeth si guardò attorno. C’erano ancora sette coppie di studenti attorno a loro, che significava aver resistito più di metà della classe. Non dovevano aver fatto un cattivo tempo finora, forse quindici minuti. Quando controllò l’orologio elettronico appeso al centro della sala, un rettangolo lampeggiante che ricordava quelli degli incontri di boxe, scoprì che ci era andata vicina.
«Quattorci minuti quarantotto—» Colse un movimento con la coda dell’occhio. Si fermò a metà frase.
«Quarantotto? Buono» commentò Percy in tono tranquillo, prima di trovarsi una pistola puntata contro la testa. Sgranò gli occhi ed esclamò: «Sei impazzita?»
Annabeth lo afferrò per una spalla e lo spinse in basso. «Sta giù!» ordinò. Con l’altra mano, premette il grilletto. Le tremò leggermente il polso per il rinculo, ma non ci badò, gli occhi fissi verso il drone che stava attaccando Percy alle spalle.
Le proteste di quest’ultimo si spensero quando vide il robot fumante. La sua espressione passò da “perché diamine hai tentato di uccidermi” a “aspetta un attimo” a “cavolo” in poche frazioni di secondo. «Oh» fece solo.
Annabeth si sarebbe messa a ridere per quanto era buffo, soprattutto con quella fossetta nel mezzo della fronte corrucciata, invece replicò: «Come si dice?»
«Che siamo pari?» ribatté Percy, ripresosi dalla sorpresa iniziale. «Un salvataggio per un salvataggio. Se non ti avessi avvisato, prima, quel drone ti avrebbe terminato.»
La ragazza sbuffò al modo in cui pronunciò la parola “terminato”, quasi sillabandola. Che bambino. «Hai ragione. Però» e vide l’espressione vittoriosa spegnersi sul viso del compagno «però, la mia mossa è stata decisamente più spettacolare.»
«Veramente, pensavo mi volessi far esplodere il cervello.» Si passò una mano sul mento, facendo finta di considerare l’alternativa. «Okay, in effetti quello sarebbe stato spettacolare. Tranne per me, ovvio.»
Prima che Annabeth potesse pensare a una risposta adeguata, scorse un drone avvicinarsi velocemente verso di loro, mentre caricava il colpo. «Attento. Dietro di te.» Strinse la presa sulla pistola laser e tese le braccia.
«Oh, non ancora. Se hai intenzione di farmi uno scherzo, ti avviso che io sono il re degli scherzi e riconosco quando uno sta mentendo» ribatté il ragazzo, incrociando le braccia.
Il desiderio di dargli una botta in testa e fargli entrare un po’ di buon senso fu molto forte, ma Annabeth riuscì a dominarlo. «Infatti» gli fece notare a denti stretti, «io non sono la regina degli scherzi e non sono brava a farli. Per favore, girati e controlla.
«Vaaa beneee.» Il suo tono trasudava sufficienza.
Si voltò lentamente, la mano che impugnava la pistola lasciata ciondolare lungo il fianco. Alla vista del drone, tutti i muscoli del suo corpo si irrigidirono nello stesso istante. Perlomeno la sua reazione fu pronta. Annabeth non fece in tempo a chiedergli se aveva intenzione di sparare, che lui aveva già mirato il bersaglio e premuto il grilletto. Solo che il cubo non si disattivò come gli altri, nessun segnale di avvenuta eliminazione risuonò per la sala di allenamento.
«Che diamine…» mormorò.
«Ne ho sentito parlare» disse Percy, il respiro corto. «Superati i quindici minuti, il computer passa automaticamente al livello di difficoltà successivo. Credevo fosse una leggenda.»
Il cervello di Annabeth prese a lavorare a pieno ritmo. «Non è una leggenda. E finché non capiamo come distruggerlo, possiamo fare un’unica cosa: correre
Il ragazzo si voltò verso di lei il tempo di scambiarsi uno sguardo d’intensa, dopodiché scattò in avanti. Annabeth aveva sempre pensato che la sala d’addestramento fosse enorme, perfetta per ogni tipo di allenamento. Ma scoprì che nessuna stanza è abbastanza grande, quando si sta scappando da un drone capace di lanciare raggi laser in quattro direzioni contemporaneamente. Correre a zigzag non funzionava. Sparargli contro non funzionava. Gridare non funzionava. Gli studenti rimasti, ognuno alle prese con il personale nemico robotico, stavano tentando una o due di queste opzioni nello stesso momento.
Annabeth era sempre più stanca di correre. Aveva trascorso l’intera lezione saltellando di qua e di là, accovacciandosi e rialzandosi in continuazione. La sua tuta era zuppa di sudore. Conosceva i limiti del suo corpo e sapeva che li avrebbe raggiunti presto. Continuare a scappare non era una soluzione. Allora decise di fermarsi. Piantò i piedi per terra e smise di correre. Al diavolo il resto, aveva bisogno di pensare.
«Annabeth!»
Percy fece due passi di salsa e una mezza piroetta nel tentativo di evitare i raggi che gli lanciava contro il drone e arrivare da lei senza farsi beccare. Le stava così vicino che poteva vedere le goccioline di sudore sulla sua fronte e sentire il suo fiato caldo sulla pelle, mentre il suo petto viaggiava su e giù.
«Che ti prende?» Gesticolò ampiamente con le mani e rimase a braccia spalancate, come se fosse indeciso se spostarla di peso. Poi, osservandola con occhi verdi e mobilissimi: «Hai un piano?»
Annabeth strinse le labbra. Voleva avere un piano. Doveva avere un piano. Ce l’aveva sempre. «Non possiamo nasconderci. Non abbiamo niente da usare come scudo. Se le nostre pistole non sono abbastanza potenti per abbattere i droni, allora ci dev’essere qualcosa che non abbiamo notato. L’istruttore Ares non ci abbandonerebbe qui senza una possibilità di salvarci tra le mani.»
Lo sguardo del ragazzo si accese di una luce ancora più vivida. «Forse non tra le mani» considerò. «Ma sotto gli occhi.»
Annabeth sollevò di poco il mento per vedere meglio. I droni davano la caccia agli studenti rimasti nella sala, angolando raggi laser in quattro direzioni diverse. La mano stretta attorno alla pistola le formicolò. Se le nostre pistole non sono abbastanza potenti per abbattere i droni, allora ci dev’essere qualcosa che non abbiamo notato. Se le nostre pistole non sono abbastanza potenti per abbattere i droni… allora saranno i droni a distruggere se stessi. «Dobbiamo dirlo agli altri» disse velocemente, riprendendo a muoversi. «Abbiamo bisogno del loro aiuto per far funzionare il piano.»
«Non c’è tempo» obiettò Percy. Allungò un braccio a indicare i compagni che lottavano per non essere eliminati. «Sta a noi. Possiamo farcela.»
Annabeth si voltò nuovamente verso il suo copilota, scuotendo la testa e mettendo le mani avanti a sé per bloccare la sua irruenza. «No. Dobbiamo—»
«Fidati di me» la interruppe. L’attimo dopo era già scomparso.
La bionda lo vide sfrecciarle davanti e sentì la faccia diventarle rossa per la rabbia. Non potendo fare altro, sollevò la pistola e sparò più velocemente che poteva per coprirgli le spalle. Osservò Percy Jackson piazzarsi davanti a un drone e agitare le braccia per ottenere la sua completa attenzione. «Ehi, tu!» gridò. «Sì, parlo con te, razza di cubo di Rubik sotto steroidi! Credi di essere abbastanza veloce per me?»
Annabeth avvertì chiaramente la propria mascella abbassarsi di colpo.  Il volto che le scottava ancora per l’arrabbiatura, si domandò se Percy Jackson stesse tentando di ucciderla con la sua avventatezza. Era certa che il suo cuore non avrebbe retto un altro shock del genere.
Se la sua idea era quella di attirare l’attenzione, ci riuscì benissimo: ogni drone all’interno della sala smise di sparare e si concentrò su di lui, mettendolo a fuoco con le telecamere incorporate. Evidentemente non avevano digerito bene le offese del ragazzo.
«Wow, voi intelligenze artificiali non avete senso dell’umorismo» commentò quest’ultimo, con un sorriso forzato stampato in faccia. «Stavo solo scherzando.»
Sei droni caricarono all’unisono i loro colpi più potenti. Ubbidendo all’istinto senza porsi domande, Annabeth si lanciò in avanti e urlò: «Spostati da lì! Corri, corri, corri!»
Percy non fu abbastanza rapido. Il primo raggio lo raggiunse al garretto, spedendolo a terra, mentre il secondo lo colpì al centro della schiena. La ragazza ebbe un secondo per pensare al dolore che dovevano avergli provocato le due scariche, prima che un concerto di luci la accecasse. Sbatté le palpebre più volte, cercando di scacciare i puntini luminosi che le danzavano davanti agli occhi. Un improvviso odore di bruciato le riempì le narici e capì. Il piano aveva funzionato. Il piano aveva funzionato! Alzò un pugno in aria in segno di vittoria.
Peccato che il piano non avesse funzionato poi così bene. Solo due droni su sei si erano sparati a vicenda, mentre gli altri erano rimasti attivi e letali. L’euforia di Annabeth venne stroncata nel momento in cui fu colpita dritto al petto. Cavolo. Menomale che non erano veri raggi laser, ma delle semplici scariche elettriche che ne simulavano l’effetto.
Una botola si aprì sotto i suoi piedi e, dopo un volo di pochi metri, atterrò di sedere sul pavimento della sala dove aspettavano tutti gli eliminati assieme all’istruttore Ares. Impegnata a massaggiarsi il fondoschiena ammaccato e a tossire per l’altro colpo ricevuto, Annabeth impiegò qualche attimo per realizzare che tutti la stavano fissando. Benché seduti su delle panche, l’intera classe si era sporta in avanti per osservarla. Il professore stava in mezzo a due file di allievi a braccia incrociate, gli occhi che lampeggiavano e un sorriso indecifrabile a incurvargli le labbra. Era quasi più spaventoso così che quando sbraitava a destra e a manca e uno vedeva in azione la potenza dei suoi bicipiti e delle sue manone.
Annabeth si alzò lentamente, non sapendo cosa aspettarsi e non avendo idea di come prepararsi. Cercò Percy con lo sguardo e lo trovò poco più avanti, con un braccio appoggiato alla panca. Il ragazzo le rivolse un cenno del capo. Gli occhi del suo vicino continuavano a spostarsi da lui allo schermo in fondo alla parete, dove si potevano vedere le ultime due coppie proseguire l’allenamento. L’orologio segnava ventitré minuti, cinquantanove secondi e sessanta centesimo dall’inizio del gioco. Le erano sembrati molto di più, mentre correva su e giù per la sala sparando ad ogni oggetto in movimento.
L’istruttore Ares batté le mani, riportando l’attenzione su di sé. «Bene. Quei quattro verranno eliminati, prima o poi, non occorre aspettarli» esordì. «Come avete notato, il secondo semestre presenta una novità nelle regole.»
Le sue parole vennero accolte da un coro di proteste generali da parte degli studenti. Imponendo la propria voce al di sopra delle altre, Ares proseguì: «Essere pronti a reagire in ogni situazione è esattamente lo scopo di questo esercizio, oltre che rendervi dei giovani uomini e donne forti, scattanti e attenti. Potete studiare i vostri noiosis… ah corposissimi libri di Astrofisica, ma se vi trovate in pericolo e la vostra mente non è in grado di trovare la soluzione nel minor tempo possibile, siete fuori. Nello spazio non ci sono reti di sicurezza.»
Sullo schermo, una figura che assomigliava a Michael Yew venne colpito alla spalla da un raggio laser. Una tessera del pavimento si aprì sotto i suoi piedi e pochi attimi dopo un tonfo annunciò il suo arrivo a destinazione.
«Oh, benvenuto» fece il professore distrattamente. «Come stavo dicendo, niente reti di sicurezza. E oggi abbiamo visto quanto sono nocive! Siete stati lenti, goffi e pavidi. Una marmaglia disordinata che si è fatta subito prendere dal panico. Ero molto tentato di assegnarvi venticinque giri di pista supplementari.»
Prese un respiro profondo prima di continuare. «Per fortuna, per fortuna c’è stato qualcuno che ha usato la testa. Se non fosse stato per loro la vostra classe si sarebbe dimostrata una totale e completa delusione. Ringraziate Percy Jackson e Annabeth Chase» abbaiò. «Vi saresti meritati quei venticinque giri di corsa.»
Annabeth stentò a credere alle proprie orecchie. L’istruttore Ares—lo stesso istruttore Ares che portava sull’orlo delle lacrime ogni studente, lo stesso istruttore Ares che spezzava loro le ossa e disintegrava ogni parvenza di stima di sé—aveva detto che aveva salvato la classe. Che era stata la migliore. E, fatto ancora più incredibile, aveva raggiunto quel risultato assieme a Percy Jackson, il suo nuovo, imbranato copilota con il record di schianti più alto del Campo Mezzosangue.
«Comunque, voi due non montatevi la testa.» Il richiamo del professore fu una doccia fredda. «Siete stati svegli a capire come distruggere i droni, ma per il resto… diamine! Cos’era tutto quel battibeccare nel mezzo di un’azione? È un miracolo che non siate stati eliminati entrambi mentre eravate impegnati a giocare a marito e moglie. E per quanto riguarda la capacità di prendere decisioni in comune? Sapete almeno cosa significa, in comune
Annabeth e Percy accennarono un segno affermativo.
«Be’, non sembrava, quando eravate là dentro» replicò aspramente Ares, inarcando entrambe le sopracciglia. «Vi coprivate le spalle, ma per tutto il resto del tempo ognuno pensava a se stesso e a dimostrare quanto avesse ragione. Non c’era affiatamento. Non c’era collaborazione. Non c’era fiducia.» Sospirò, esasperato. «Lasciatemelo dire: singolarmente, siete entrambi dei buoni elementi, o perlomeno migliori di altri. Ma insieme siete un completo disastro. Era da anni che non mi capitava una squadra terribile come la vostra.»
Annabeth si dimenticò di ascoltare l’incoraggiamento finale dell’istruttore. Dopo quello che aveva detto, un “dovete lavorare sodo” non le sarebbe andato giù. Aveva già abbastanza da digerire ed era certa che una frase del genere le si sarebbe bloccata in gola.
Ares aveva ragione, ovviamente ne aveva. Non c’era affidamento, non c’era collaborazione, non c’era fiducia. Il problema era che affiatamento, collaborazione e fiducia non si costruiscono in due giorni e due giorni prima, per lei Percy Jackson era un completo sconosciuto. In un certo senso, lo era ancora. Frequentavano le stesse classi, si scambiavano commenti sarcastici ogni tanto, ma non c’era niente di più. Annabeth era cosciente di non conoscere affatto il suo nuovo copilota, eppure la realizzazione la colpì ugualmente, abbastanza forte da arrestarle il respiro.
Ciò che era di peggio, però, era che non era sicura di volerlo fare. Conoscere e conoscersi richiede un grande sforzo e, come ogni grande sforzo, deve avere le sue radici in volontà e determinazione. Quando aveva detto a Piper che avrebbe dato una chance a Percy Jackson, si era illusa che sarebbero diventati una squadra senza compiere quello sforzo. Ma, appunto, si trattava di una mera illusione.
«A cosa stai pensando?»
Percy Jackson si era seduto sulla panca e la studiava. Continuava a torcersi le mani, incapace di rimanere fermo, e si stava involontariamente scavando un solco nel palmo. Prima di rispondere Annabeth si girò e lo guardò, lo guardò davvero. Si era tolto la giacca parte della divisa e l’aveva appoggiata accanto alla sua coscia, senza curarsi di piegarla. Il pegaso simbolo del Campo compariva al centro della maglietta al di sotto, più grande rispetto alla ricamatura circolare sulla spalla del giubbino. Il tessuto arancione era impregnato di sudore, ma Annabeth non ci fece tanto caso, immaginando che anche la sua dovesse avere un aspetto simile.
La pelle della spalla destra si stava arrossando a causa della scarica elettrica, probabilmente il giorno dopo sarebbe comparso un livido. Gli occhi della ragazza indugiarono sui muscoli delle sue braccia, ne studiarono lo spessore e la snellezza, prima di concentrarsi sul suo viso. Una massa di ricci neri gli ricadeva sul volto, coprendogli parzialmente gli occhi che per qualche miracolo erano riusciti a catturare il colore del mare. Senza il classico sorriso da combina guai a renderle un’arma letale, le sue labbra apparivano piene e rosee.
Ammesso che il concetto di normalità esistesse, Annabeth l’avrebbe definito esattamente così: un ragazzo normale. Non un record di schianti. Non un usurpatore. Non una punizione inaspettata. Solo un ragazzo.
Se lasciava andare i suoi pregiudizi, riusciva a vederlo.
«Sto pensando a quello che ha detto Ares» rispose infine.
Percy emise un verso come per dire “ovvio”.
«Credo che si sbagli.»
Questo gli fece sollevare la testa di scatto. «Cosa?»
«Credo che si sbagli» ripeté Annabeth. «Forse non c’era fiducia, è vero, ma c’era affiatamento. Abbiamo avuto un momento di intesa. Dobbiamo solo imparare a credere uno nell’altra e non ritenere la nostra opinione superiore a quella dall’altro. Ma io mi fido più di Chirone che di Ares, e se lui dice che ce la possiamo fare, ce la possiamo fare.»
Percy rimase a fissarla per qualche momento ad occhi sgranati. «Wow. Ok–wow» balbettò. «Pensavo… Insomma, che saresti stata d’accordo con lui. Dopo quello che è successo ieri, ero convinto che non saremmo mai diventati una squadra.»
Annabeth sciolse la coda di cavallo e lasciò che i capelli le ricadessero liberi sulle spalle, accogliendo con piacere la sensazione di sollievo. «Ad essere onesta, ho ancora i miei dubbi» confessò. «È ragionevole, visto che siamo una coppia da un giorno e mezzo, ma non per questo devo abbandonarmi ad essi e lasciare che mi controllino. Non mi piace perdere e, se siamo davvero destinati a non funzionare, almeno potremmo dire di averci provato.»
Il ragazzo annuì. «Nemmeno a me piace perdere» replicò. «Non siamo entrati al Campo Mezzosangue senza fare fatica. Per cui, se dobbiamo lavorare per ottenere dei risultati, be’, mettiamoci sotto.»
«Giusto.» Annabeth sorrise.
Il cronometro segnava ventotto minuti. Ormai solo una coppia, formata da Clarisse Rodriguez e Silena Beauregard, resisteva contro i droni. A seconda di quanto avrebbero impiegato ad essere eliminate, avrebbero stabilito un record. Poteva volerci un po’, per cui Ares dichiarò la lezione terminata e spedì tutti a farsi una doccia.
Nel corridoio illuminato dalle luci al neon gialle che indicavano l’area di allenamento, Annabeth camminava fianco a fianco con Percy. Avevano due ore libere prima della lezione successiva, sufficienti a darsi una ripulita e mettere qualcosa sotto i denti. La ragazza lanciò uno sguardo fugace al compagno, si torse le mani, contò fino a tre e poi pronunciò le parole che avrebbero potuto salvare il suo percorso universitario oppure rovinarlo definitivamente.
«Senti… Ti andrebbe di pranzare insieme, oggi?»
Gli occhi di Percy furono subito su di lei, la sua attenzione catturata completamente. «Dopo la doccia?» chiese, prima di sorridere. «Sì, ci sto. Alla mensa o alla caffetteria?»
«Mensa» rispose lei, incredula che il ragazzo avesse accettato al risposta così alla leggera, senza riflettere su tutto ciò che comportava. Quel pranzo non era un semplice pranzo, eppure lui sembrava ignorare le implicazioni. «La caffetteria è sempre piena a quell’ora.»
Percy alzò un pollice in segno affermativo. «Allora ci vediamo lì» dichiarò, affrettando il passo per distanziarla. «A tra poco.»
Annabeth lo osservò allontanarsi per qualche attimo, prima di tirare fuori il cellulare dalla tasca e aprire la chat con Piper. Sempre continuando a camminare, le scrisse un messaggio breve ma efficace.

ann_chase: Oggi pranziamo insieme. Non puoi rifiutarti. Ti voglio bene.
 
 

Piper non si rifiutò. Non che le avesse dato altra scelta, rifletté Annabeth. Le venne incontro all’ingresso della mensa e la salutò con un bacio sulla guancia, a cui subito fece seguire un sentito grazie.
«Di nulla. Anche se ancora non so perché tutta questa urgenza» replicò l’amica, prima di corrugare la fronte e correggersi: «Aspetta, non è vero. Credo di saperlo.»
Alla bionda sfuggì un mezzo sorriso. «Tira a indovinare.»
«C’entra con Percy Jackson» disse subito Piper. Vedendo l’espressione dell’altra, le fece l’occhiolino e le sue labbra si arcuarono in un sorriso malizioso. «Lo sapevo. Che è successo, huh?»
Annabeth roteò gli occhi. «Nulla. Cioè, credo che siamo giunti a una sorta di intesa. E il primo passo è mangiare insieme.»
«Oggi.»
«Oggi.»
Piper sospirò. «Va bene, sarò il tuo supporto morale. Però mi devi un favore.»
«Andata.»
Il sorriso appena nato sul suo volto rischiò di scomparire alla vista di un ragazzo moro e quello che aveva tutta l’aria di un alieno che si avvicinavano.
«A quanto pare anche lui si è portato dietro il suo supporto morale. Non siete così diversi, in fondo» le sussurrò Piper velocemente, riuscendo a evitare una rispostaccia da parte sua e sorridere ai nuovi arrivati.
Annabeth si passò le mani sui pantaloni della divisa e presentò la sua amica, controllando la reazione di Percy. Doveva essersi asciugato i capelli di corsa—ammesso che l’avesse fatto—perché erano ancora più ricci e gonfi del solito. Non sembrava minimamente a disagio, anzi. Arrivò in fondo ai convenevoli senza battere ciglio.
Annabeth strinse la mano di Grover, quello che Percy aveva definito il suo amico di più lunga data. Gli zoccoli, gli arti inferiori ricoperti di una folta peluria caprina e due piccole corna che spuntavano dai suoi capelli tradivano le sue origini straniere. Cercò di capire da che pianeta venisse, ma non riconosceva la bandiera ricamata sulla spalla della sua divisa. Mentre si mettevano in fila per prendere il cibo, si chiese come si fossero conosciuti e in quali circostanze erano diventati migliori amici.
Piper diede frutto ai suoi studi di Mediazione Intergalattica e intavolò una conversazione che non lasciasse fuori nessuno, senza che questo le impedisse di riempirsi il vassoio di burrito vegetariano e lanciare occhiate nella direzione della bionda. Annabeth preferì non pensare a cosa le avrebbe chiesto in cambio dell’aiuto che le stava dando, concentrandosi sull’immediato. In quel caso, gli occhi le caddero sul vassoio strabordante di Percy.
«L’ultima lezione ti ha messo fame, eh?» lo punzecchiò, con un mezzo sorriso.
Il ragazzo rise. «Se fossi una persona normale ti risponderei di sì» disse, «ma visto che non lo sono… Confesso di avere sempre fame. In qualunque momento della giornata. Anche se sto scoppiando, anche se ho appena finito di mangiare, ho comunque fame.»
«Confermo» commentò Grover, spuntando da dietro la spalla dell’amico. «È un pozzo senza fondo.»
«Grazie, bro.»
Sia lei che Piper ridacchiarono. Terminata la fila, navigarono tra gli altri studenti alla ricerca di un tavolo libero, finché dei ragazzi non si alzarono e loro corsero ad occupare i posti. Si trovavano accanto a una delle grande finestre vista spazio, si vedeva persino uno scorcio di Luna.
«Ora capisco dove ti ho già visto!» esclamò a un certo punto Piper, rivolgendo interamente la sua attenzione a Grover. «Frequenti il corso di Scienze Ambientali con il prof. Pan, giusto?»
L’alieno, intento ad inghiottire una lattina, deglutì e la buttò giù in un sol colpo. Pensare che poco fa ha appena dato a Percy del “pozzo senza fondo”, rifletté Annabeth.
«Sì» rispose lui, eccitato. «Vuoi dirmi che anche tu segui le sue lezioni?»
«Ah-ah, all’inizio per avere crediti extra, adesso perché mi sono completamente innamorata del modo in cui spiega.»
Grover trangugiò un altro pezzo di latta e si lanciò in un’appassionata discussione con Piper sull’argomento. Mentre cercava di stare dietro alla conversazione animata, che faceva avanti indietro tra nuovi metodi di riciclaggio e quanto Pan fosse un oratore straordinario, Annabeth lasciò che il suo sguardo scivolasse su Percy.
Era seduto di fronte a lei e si dava da fare con il secondo cheeseburger, osservando con un mezzo sorriso l’amico e Piper. Pareva fosse fiero di come stessero interagendo e perfettamente soddisfatto di non partecipare, godendosi quello scambio da una posizione privilegiata. Quando il ciuffo gli cadde sugli occhi, il ragazzo fece un gesto con la testa per scostarli e lei smise immediatamente di fissarlo. Perché era quello che stava facendo, fissarlo come una maniaca. Ma non fu abbastanza svelta, e lui la notò.
Sollevò le sopracciglia, si indicò vagamente il volto con una mano e chiese: «Mf pfono pforfato?»
«Eh?»
Percy inghiottì il pezzo di carne che stava masticando e ripeté: «Mi sono sporcato da qualche parte, vero? Mi stavi guardando con una faccia…»
Annabeth ringraziò l’innocenza del suo copilota. «Sì, in effetti sei sporco lì» rispose. «No, non lì, più in giù… ti è colato del grasso sulla maglietta, non lo vedi?»
«Dove?» continuava a domandarle lui, controllandosi l’uniforme ma non trovando la macchia.
Un sorriso andò disegnandosi sul viso della bionda. «Certo che sei proprio cieco» lo prese in giro. «È lì sotto il tuo naso. Leggermente più a destra. Lì. No, lì lì. Eccola. Quella.»
«Io non vedo nulla» si lamentò il ragazzo, spostandosi sulla panca e posizionandosi più sotto una delle lampade a led. «Sarà possibile…» La sua testa si alzò di scatto. «Chase.»
Annabeth dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere. Il modo in cui aveva pronunciato il suo cognome, come se fosse davvero indignato, era semplicemente troppo divertente.
«Non ti pensavo capace di commettere una simile bassezza. Per di più ai danni del tuo compagno di volo.»
Non doveva cedere, non doveva cedere.
«Vergognati.»
Ma alla fine, che male c’era ridere a un po’? La sua facciata crollò e una sana risata la scosse tutta. Percy si unì a lei poco dopo.
«Mi dispiace» si scusò Annabeth tra un attacco di risa e l’altro, non riuscendo più a fermarsi, il che rendeva le sue parole poco efficaci. Ma a Percy non sembrava dispiacere essere l’oggetto dello scherno.
Gli addominali avevano iniziato a tirarle, quando infine smise di ridere. Aveva ancora un piccolo sorriso sciocco stampato in faccia e si sentiva la testa più leggera. Intavolare la conversazione le venne incredibilmente facile. Conoscere Percy—conoscerlo per davvero, questa volta—le venne incredibilmente facile. Era vagamente cosciente di Piper, accanto a lei, ma non si ricordava perché avesse tanto insistito affinché fosse la sua spalla.
Lei e Percy si scambiarono le tipiche domande che le persone fanno per gettare le basi di un’amicizia, quelle tipiche domande che ancora non si erano posti l’un l’altra. Dove si trova la tua casa, sulla Terra? Come hai trovato il test di ammissione? I tuoi genitori sono fieri di te? E come si chiamano? Sei l’invidia dei tuoi fratelli, o sono contenti di essersi liberati di te?
Percy era loquace, entusiasta e profondamente ironico. Annabeth non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma parlare con lui le piaceva. Le piaceva perché lo trovava una persona diversa, una persona interessante. Qualcuno da cui imparare qualcosa. Ma non da cui imparare a volare, si ricordò mentalmente.
Fu Piper a riportarla alla realtà, posandole una mano sulla spalla. «Io ho lezione tra poco» disse, mentre si alzava in piedi. «Devo andare.»
«S-sì» fece lei, sbattendo un paio di volte le palpebre. «Non andare da sola, ti accompagno, tanto ho finito di mangiare.»
La sua amica aveva l’aria di voler protestare, ma Annabeth prese il proprio vassoio e si alzò a sua volta. Salutò Grover e rivolse a Percy un sorriso prima di allontanarsi al fianco di Piper.
«Direi che è andata bene, no?» commentò la cheeroke.
«Già» confermò Annabeth. «Non so nemmeno come sia stato possibile.»
«Non farti troppe domande, Sapientona. Goditela e basta» replicò l’altra, scoccandole un’occhiata saputa. «Tu e Percy Jackson diventerete amici, te lo dico io.»
La ragazza sospirò. «Non correre. È simpatico, nulla di più. Diventerà più facile sopportarlo.»
«Ah-ah. Ceeerto» la prese in giro Piper. «Come vuoi tu. Ma ricordati solo che te l’avevo detto.»
Annabeth roteò gli occhi. Accompagnò l’amica davanti alla porta della classe, la salutò e ritornò sui suoi passi. Il cellulare le vibrò all’interno della tasca posteriore dei pantaloni. Si fermò, appoggiando la schiena alla parete e tirò fuori il telefonino. Sullo schermo comparve l’anteprima di due messaggi.
Per un momento, smise di respirare.

thepercyjaxon: tra tutte le domande che ti ho fatto oggi mi sono dimenticato quella che volevo farti all’inizio
thepercyjaxon: se non mi ero sporcato col cibo… perché mi stavi guardando?

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Capitolo 3
*** Tre ***


tre

 

Visualizzare e non rispondere è un’arte. Richiede sangue freddo, sfrontatezza e un pizzico di menefreghismo. Al contrario di quanto pensano le masse, l’indifferenza non è la causa, ma il risultato. L’indifferenza è il traguardo che ogni persona cerca di raggiungere quando visualizza e non risponde. L’indifferenza è una mera maschera, un velo, una facciata che cela la complessità insita nel visualizzare e non rispondere.
Annabeth non avrebbe detto di saperla padroneggiare bene fin quando non si trovò davanti il messaggio di Percy Jackson.

thepercyjaxon: se non mi ero sporcato col cibo… perché mi stavi guardando?

Una persona normale non faceva quel genere di domande, o almeno così credeva la ragazza. Anche se il non sapere ti rode dentro e la questione continua ad assillarti, la domanda doveva rimanere entro i confini della propria mente. Esigere una risposta a quel tipo di domande era imbarazzante sia per il mittente che per il ricevente. Il fatto che Percy Jackson—il suo dannato, dannatissimo copilota, ricordò a se stessa—ignorasse quella regola non scritta era un chiaro affronto alla convivenza pacifica.
“Perché mi stavi guardando?” Sul serio?
Annabeth chiamò a raccolta il proprio sangue freddo, la sfrontatezza che salvava per le occasioni speciali e giusto il pizzico di menefreghismo che le serviva. Dunque, visualizzò e non rispose. Si infilò il cellulare in tasca e, decisa a dimenticare persino che quel messaggio esistesse, imboccò il corridoio che l’avrebbe portata ai dormitori.
La mente umana è di una forza sorprendente, quando si applica con tutta se stessa a un solo compito. Quella di Annabeth era particolarmente decisa nel suo intento e difatti riuscì benissimo a rimuovere dalla propria memoria l’inconveniente, finché non giunse il momento di recarsi all’ultima lezione della giornata. Aggrappandosi con le unghie all’illusione da lei stessa creata, raggiunse l’aula 107 e si sedette al banco che occupava di solito. Tirò fuori il tablet e fece finta di sistemare i propri appunti, in modo che Percy la trovasse occupata al momento del suo ingresso in classe. Niente avrebbe potuto impedirgli di importunarla comunque, ma sperava che il ragazzo conoscesse la nozione di rispetto.
I suoi occhi fissi su quanto aveva scritto della precedente lezione di Meccanica I, ovvero non molto, non lo vide arrivare, ma lo sentì scostare la sedia alla postazione dietro la sua. Le si rizzarono i peli delle braccia e una scarica elettrica le attraversò il corpo. Le prudeva la schiena dove percepiva il suo sguardo.
Annabeth visualizzò e non rispose al panico crescente.
Non ebbe tempo di rifletterci oltre, perché Efesto fece il suo ingresso e nel giro di due minuti si era lanciato alla carica con il nuovo argomento di quella lezione. Le dita di Annabeth iniziarono a muoversi sul tablet di loro spontanea volontà, riportando simultaneamente tutto ciò che usciva dalla bocca del professore. La speranza—vana, ma comunque speranza—era che bastasse per capirci qualcosa in un secondo momento. Dopo un’ora e mezza di rap ininterrotto, le facevano male i polpastrelli e le andava insieme la vista. Efesto, invece, non aveva bevuto nemmeno un sorso d’acqua.
Un condannato a morte, alla notizia di essere stato graziato, sarebbe stato meno contento e sollevato di lei allo squillo della campanella.
In un movimento unico e armonico che nessuna coreografia sarebbe mai riuscita a riprodurre, gli studenti scostarono le sedie, balzarono in piedi e si affrettarono ad uscire. Annabeth osservò con invidia i suoi compagni andarsene e sospirò. Alle sue spalle, un uguale verso di sconforto la fece girare. Percy si stava passando una mano sul viso; quando la notò, scosse la testa e le rivolse uno sguardo sconsolato.
Annabeth aveva appena aperto la bocca per pronunciare parole di conforto, che la voce del professore la interruppe.
«Jackson, Chase» li chiamò. Un sorriso divertito aleggiava appena dietro gli angoli della sua bocca, ma probabilmente se lo stava immaginando. «Prima di andare, voglio augurarvi buon lavoro. Spero che questa punizione possa esservi d’insegnamento e rafforzi il vostro legame. Oh, ecco l’arpia a portavi tutto ciò che vi serve» disse, facendo un cenno alla bidella aliena affinché entrasse. Recuperò la propria borsa e si avvicinò alla porta. «Forse pulendo quest’aula rifletterete sull’importanza della Meccanica. Ma non vi rubo altro tempo, dopotutto credo ne abbiate molto bisogno.»
Uscì col suo passo zoppicante. L’arpia, una delle creature dalle fattezze rapaci che da sempre si occupavano delle pulizie al Campo Mezzosangue, riservò loro un’occhiata di disprezzo e lo seguì poco dopo.
Percy aspettò che si fosse allontanata un po’ nel corridoio, prima di alzarsi in piedi in uno scatto che la diceva lunga sul suo stato d’animo e ripeté le parole di Efesto. «“Spero che questa punizione possa esservi d’insegnamento e rafforzi il vostro legame”» motteggiò. «Sicuramente rafforza la mia di ammazzarmi. O ammazzare lui.»
Annabeth si alzò a sua volta e si diresse verso il materiale lasciato dalla bidella. «Dubito che avrai le forze per commettere un omicidio, dopo questa sera» commentò sospirando.
«Già» replicò il ragazzo, raggiungendola. «Allora diciamo che rafforza la mia intenzione di non alzarmi dal letto prima che senta delle vere cannonate, domani mattina.»
Annabeth sogghignò. «Forza» lo incitò, passandogli una scopa. «Prima iniziamo, prima finiamo. E di meno cannonate avrai bisogno domani.»
Si sistemò la coda di cavallo, dopodiché si armò di straccio e spruzzino e puntò la cattedra. Percy si liberò della giacca della divisa, la appoggiò su una sedia e, dopo l’ennesimo sbuffo, si accinse a spazzare il pavimento. Annabeth non si ricordava l’ultima volta che aveva dovuto pulire alla vecchia maniera. Ormai, i supermercati erano invasi da robot di piccole dimensioni in grado di fare qualsiasi cosa, dallo spolverare al lavare i vetri. Era possibile che le nuove generazioni non sapessero nemmeno farle, le pulizie alla vecchia maniera, tanto erano abituati a quel tipo di macchine.
«Come fai ad essere così serena?» le chiese Percy, dopo un po’. «Non sei nemmeno leggermente incazzata?»
«Oh, ti assicuro che lo sono» rispose lei, ridendo. «Ieri hai visto la mia reazione, no? Sono solo più brava di te a nascondere la frustrazione.» Spruzzò altro prodotto sulla superficie liscia del tavolo e riprese a strofinare. «Poi, non è la mia prima punizione.»
Il ragazzo smise di spazzare per un secondo. «Maddai. Non ci credo» disse, scrutandola con sorpresa e curiosità.
«Mm-mm.»
«No» ribatté lui, ancora scettico. «Hai voti alti, sei sveglia e piaci ai professori. Tu sei una brava ragazza, Annabeth Chase. E una brava ragazza non finisce in punizione. Non sei un tipo difficile, non sei me.»
Stuzzicato il suo interesse, la bionda alzò la testa e gli chiese: «Pensi di esserlo sul serio?»
Percy ricambiò lo sguardo. «Un tipo difficile? Sì, direi che la definizione mi calza.»
Se non avesse distolto gli occhi subito dopo, probabilmente Annabeth non si sarebbe accorta che l’etichetta che si era accollato con tanta prontezza gli pesava.
«Essere iperattivo non fa di te un ragazzo difficile» rispose. Al suo mostrarsi sorpreso, aggiunse: «Non ci vuole un genio a capirlo. In palestra reagivi molto meglio degli altri agli stimoli, ma stare seduto su una sedia e seguire la lezione ti è quasi impossibile. Ho dedotto fosse a causa di un disturbo da deficit dell’attenzione e, a quanto pare, non mi sono sbagliata.»
«Per niente» ammise il moro. «ADHD e dislessia: il cocktail perfetto.»
«Lo so.»
Percy creò un altro mucchietto di polvere e sporcizia, prima di domandare, sarcastico: «Davvero?»
«Mi dispiace rovinare l’immagine di brava ragazza che hai di me, Jackson» replicò lei, infastidita dal suo tono saccente, «ma non sei l’unico tipo difficile, qui. Sono dislessica anch’io, però questo non mi ha mai impedito di raggiungere gli obiettivi che mi ponevo. Da piccola è stata dura, poi, con le giuste tecniche e i giusti trucchi, ho imparato a conviverci e a non considerarlo un freno.»
«Va bene, Sapientona. Ora sono curioso di sapere come hai fatto a finire in punizione prima d’oggi.»
«Alle medie, trovavo le ore di Inglese estremamente noiose. Così mi portavo da casa dei libri e li leggevo, al posto di stare attenta. Quando l’insegnante mi ha scoperto, mi ha chiesto perché e diciamo che la riposta non le è piaciuta» raccontò. Si bloccò a metà movimento e scoccò un’occhiata al suo compagno. «Come mi hai chiamata, scusa?»
Percy si produsse in un largo sorriso. «Ero sicuro che mi avessi sentito.»
La bionda lo fissò a bocca aperta per qualche secondo. Percy Jackson non era un ragazzo difficile, era un ragazzo sfrontato. Ma la sottovalutava, se pensava che bastasse così poco per farle perdere le staffe.
Sorrise a sua volta, recuperando il suo aplomb. «Be’, vedo che hai capito chi ha ragione e chi no, qui» replicò. Si avvicinò alla prima fila di banchi per pulirli, e aggiunse: «Ora dovrebbe essere il tuo turno di condividere come in passato sei finito in punizione.»
A Percy sfuggì una mezza risata. «Mi è toccato così tante volte che ormai i motivi si confondono uno con l’altro. Di solito non era direttamente colpa mia, anche se sembravo una calamita per i guai» disse. «Conoscevo l’ufficio del preside meglio di qualsiasi altra aula. Ed era così per ogni scuola che ho frequentato.»
Ammantare le proprie parole di ironia è un’arte, il tipo perfetto per ingannare chi ti sta intorno, perché nessuno sospetta che chi ride di tutto, soprattutto di se stesso, sia capace di provare una grande sofferenza. Percy la praticava molto bene e molto spesso, eppure Annabeth riusciva a vedere dietro quella maschera.
Gli diede un colpetto sulla spalla e ammise: «Okay, forse sei davvero un tipo difficile.»
Riuscire a farlo ridere di cuore le strappò un sorriso. Come galvanizzato da quell’ultima battuta, Percy si frugò in tasca e tirò fuori il proprio cellulare. «Ho appena capito cosa manca.»
Annabeth aggrottò la fronte. «Ehm, cioè?»           
«Musica» sussurrò il ragazzo come se le stesse rivelando un segreto. Visto che lei non reagiva, esclamò: «Musica! Qui manca della musica!»
Premette freneticamente alcuni tasti, alzò il volume e piazzò il telefono sulla cattedra. Pochi secondi dopo, gli altoparlanti spararono un vecchio tormentone estivo. Attento a rispettare il ritmo, Percy gettò la polvere che aveva raccolto, girò attorno a lei e stese un braccio per afferrare il moccio in tempo per il ritornello. Buttò indietro la testa, scosse i capelli e quando ritornò su passò una mano sul ciuffo, dandosi arie da John Travolta.
Annabeth lo osservò muovere i fianchi e sillabare il testo della canzone, che doveva conoscere parola per parola, mentre passava il pavimento. Non sapeva se scoppiare a ridere, ritenersi scioccata o unirsi a lui. Nel dubbio, rimase impalata al suo posto a fissarlo come si fissano le tigri allo zoo: con timore e meraviglia.
Percy aveva quasi finito di lavare l’intera stanza, quando partì un altro pezzo. Si udirono appena le prime note e subito il ragazzo spalancò gli occhi, facendo gesti perché lei si muovesse. «Questa non posso ballarla da solo» disse velocemente e con un che di categorico. «Forza.»
Annabeth fece un passo indietro. «No, no, no. Io non ballo.»
Il ragazzo la inchiodò al suo posto con uno sguardo penetrante. «Tutti ballano i Blues Brothers» disse, e le porse il braccio. Quando intuì che si sarebbe rifiutata ancora, aggiunse: «Mi dispiace, ma questo messaggio non puoi visualizzarlo e basta.»
La bionda sgranò gli occhi, esclamò un “cosa?” strozzato e fece un altro passo indietro, ma Percy le prese una mano e la tirò fuori dall’aula mentre la canzone attaccava con Uhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh! Twist it!
Si riprese in tempo per seguirlo in una danza sfrenata nel mezzo del corridoio, cercando di stare dietro al ritmo incalzante.
Shake it, shake it, shake it, shake it baby! Here we go loop di loo! Shake it out baby! Here we go loop di lie!
Percy non le lasciò la mano un secondo, mentre si molleggiava sulle gambe ed eseguiva i passi con una scioltezza che in quel momento Annabeth gli invidiava parecchio. Aveva il fiatone e i capelli le stavano finendo tutti in faccia e ballare non le era mai piaciuto. Eppure sentiva il petto pieno di qualcosa molto simile alla gioia e sorrideva e una parte di lei voleva continuare a scatenarsi altri cinque minuti, solo altri cinque minuti.
Ma la canzone finì, e Annabeth si ritrovò con la schiena appoggiata alla parete, le ginocchia deboli e i polmoni in disperato bisogno d’ossigeno. Percy si sistemò la maglietta arancione del Campo, che gli era salita fino a scoprirgli il ventre, e si avvicinò a lei con un ghigno che andava da orecchio a orecchio.
«Visto?» la pungolò, ma anche lui era a corto di fiato. «Tutti ballano i Blues Brothers, persino Annabeth Chase.»
«È stato un caso, Percy Jackson» replicò lei, divertita dal fatto che avesse usato il suo nome completo e non volendo essere da meno. «Mi hai preso in contropiede.»
Il ghigno del moro non vacillò. «Non credevi avrei tirato fuori la storia del visualizzare e non rispondere? Perché non l’hai fatto, comunque?» indagò.
Annabeth si impose di non distogliere lo sguardo e mostrargli quanto le sue parole la spiazzassero. «Perché la tua era una domanda stupida, Jackson» lo apostrofò. «Pensavo fossi in grado di arrivarci da solo, ma evidentemente ti ho sopravvalutato. Ti guardavo perché volevo farlo. Ora, se non hai altre domande idiote, abbiamo altre dieci aule da pulire.»
Gli diede le spalle e si incamminò verso la prossima stanza, lasciandolo lì inebetito a fissare il muro.
 
 
Era mezzanotte meno un quarto quando Annabeth rientrò nella propria camera. Lasciò che la porta si chiudesse automaticamente alle sue spalle, mentre si sfilava le scarpe e iniziava a spogliarsi, gettando tutto sulla sedia accanto alla piccola scrivania metallica. A parte i diversi gradi di ordine, non c’erano differenze tra le stanze dei cadetti.
Togliersi il reggiseno fu una liberazione tale che la ragazza sospirò letteralmente di sollievo. Mosse le spalle, sciogliendo la schiena che le doleva. Pulire alla vecchia maniera era estenuante; come avevano fatto generazioni e generazioni di uomini ad andare avanti così? Pensare che aveva altre cinque sere di quel tormento le fece sprofondare il cuore.
Si infilò svogliatamente la maglietta del pigiama e, con ancora metà t-shirt a coprirle la faccia, si diresse in bagno. Si lavò i denti in una sorta di stato catatonico. Il suo riflesso nello specchio—ricci biondi spettinati, sguardo spento e occhiaie—non batteva ciglio. Una parte di lei si chiese: sei davvero andata in giro in questo stato tutto il giorno? La voce del suo amor proprio e della sua autostima rispose: e anche se fosse? Da quando ti importa? Un’altra parte di lei, più prepotente, brontolò: dormire.
Per quanto il suo corpo lo desiderasse, Annabeth aveva un’ultima faccenda da sbrigare prima di potersi concedere il lusso del riposo.
Cercò i pantaloni a tentoni e pescò il telefono da una delle tasche. La luce intensa dello schermo la abbagliò per un attimo. Mentre inseriva il codice di sblocco, le sue gambe la portarono a letto e si infilarono sotto le coperte. Come ogni sera o ogni altro momento in cui fosse completamente sola, aprì l’applicazione che lei stessa aveva creato. Si agganciava ai server della sala di controllo del Campo Mezzosangue e si inseriva nel sistema di invio e recezione di informazioni.
La maggior parte delle volte si trattava di comunicazioni tra la Terra e la base spaziale, la base e astronavi in avvicinamento o tra loro e altre stazioni orbitanti attorno ai pianeti del Sistema Solare. Occasionalmente captava scambi con alieni di passaggio e incerti della loro posizione attuale all’interno della Galassia. Non era così strano, considerato che il pianeta blu aveva un’ubicazione periferica, rispetto ad essa. Molti allievi ci scherzavano su, dicendo che la Terra era l’Australia dello spazio.
Ma ad Annabeth non interessava nulla di tutto ciò. Se aveva inventato quell’app che, tra l’altro, violava almeno cinque regole fondamentali della base, era nella speranza di ritrovarlo. Perché Luke Castellan, astro nascente dell’aviazione intergalattica nonché Primo Pilota del Campo, non poteva semplicemente scomparire nel nulla.
Doveva aver lasciato una traccia, per forza. Annabeth lo pensava ogni volta che si apprestava a quel compito, e ogni volta la convinzione si radicava in lei con più tenacia. Quella traccia c’era e lei l’avrebbe trovata. Era passato troppo tempo perché l’indignazione facesse ancora presa su di lei, soprattutto in una notte come quella, quando i muscoli le dolevano per i movimenti inusuali e il cervello non connetteva dopo le interminabili ore di lezione. Eppure, si chiedeva ancora come fosse possibile che tutti si fossero rassegnati.
Al Campo, Luke era una personalità: con un passato fumoso alle spalle, una cicatrice che gli correva lungo la guancia a ricordarlo, un innegabile talento per il volo e un sorriso che faceva impazzire, il suo nome non mancava mai di essere pronunciato tra i corridoi. C’era chi lo venerava, chi lo disprezzava e, soprattutto, chi lo invidiava. Niente di tutto questo gli aveva impedito di essere dimenticato.
Annabeth scorse il registro di comunicazioni avvenute, in cerca di anomalie. Non notando nulla di fuori dall’ordinario, controllò se qualcuno avesse risposto al segnale ad onde lunghe che il sistema trasmetteva ininterrottamente, appoggiandosi segretamente all’antenna del Campo. Aveva fatto del suo meglio per camuffarlo, in modo che nessuno dei piani alti si accorgesse di quello che stava facendo. In ogni caso, Luke o chiunque fosse entrato in contatto con lui non avevano reagito.
Annabeth emise un lungo sospiro tremante. Gettò un’ultima occhiata allo schermo, dopodiché appoggiò il cellulare sul comodino e si sistemò meglio sotto le coperte. Rimase a fissare il soffitto scuro, calmando il proprio animo in tumulto. Perché niente le assicurava che Luke non fosse morto per davvero, niente le assicurava che gli altri avessero torto e lei non fosse una povera illusa. Certe notti, quelle più dure, si era poste quelle domande allo sfinimento, l’angoscia e la disperazione due mani che si stringevano attorno alla sua gola fino a toglierle il fiato.
Chiuse gli occhi.
Dietro le palpebre, lui era ancora lì. Riusciva a vedere la sua uniforme tirata a lucido, le mostrine di Primo Pilota che brillavano sul lato destro del petto. Teneva il casco sotto un braccio, e i suoi capelli biondi tenuti corti parevano illuminare la stanza. L’aveva salutata giusto qualche minuto prima.
«È una missione da nulla. Dobbiamo solo raccogliere qualche campione di terreno e poi a casa» le aveva detto. «Sarò di ritorno entro domani mattina. Non sentirai nemmeno la mia mancanza, piccolo copilota.»
Lei aveva inarcato un sopracciglio e gli aveva ripetuto per la centesima volta che non voleva essere chiamata così. «Va bene che sei più grande di me, ma questo non ti dà il diritto di comportarti da bullo. Soprattutto se devi ancora prendere il diploma e completare le tue ore di volo» l’aveva rimbrottato, pungolandolo su uno dei suoi punti deboli.
Luke era troppo abile, oltre che troppo consapevole delle sue capacità, per seguire il percorso normale. Aveva praticamente costretto il direttore a consegnargli il titolo di Primo Pilota, così il Signor D., in aggiunta ai doveri del suo ruolo, l’aveva obbligato a seguire le lezioni finché non avesse superato tutti gli esami e raggiunto il monte massimo di ore di volo. Per questo, si era ritrovato al fianco Annabeth nel simulatore.
«Ti sbagli» aveva ribattuto il ragazzo. «L’anzianità mi dà precisamente questo diritto.»
Si era allontanato sorridendo e aveva raggiunto il resto della squadra, composta da un altro pilota e due scienziati.
In seguito, Annabeth si era pentita di non avergli nemmeno augurato buona fortuna.
La mattina seguente, Luke non era tornato. Nessuno lo era.
La mattina seguente, Chirone e il Signor D. avevano convocato gli studenti in aula magna e avevano mostrato loro un filmato. Mostrava l’atterraggio dell’astronave su Gaia, un pianeta distrutto a causa di un’esplosione all’interno del suo nucleo. Mentre gli scienziati scendevano e procedevano alla prelevazione di campioni, la voce di Luke, fuori campo, stava riferendo i dati sullo stato del carburante e altre minuzie del genere. Poi il video aveva iniziato a scattare, l’audio a farsi intermittente. L’ultima cosa che videro fu la schermata nera, accompagnata dal grido dell’equipaggio. Infine, il bip che annunciava la perdita di segnale. Il direttore aveva spiegato che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per ritrovare l’equipaggio scomparso, ma, data la natura di quell’ultima trasmissione, i ragazzi avrebbero dovuto prepararsi a dire addio ai loro compagni più anziani.
Quattro settimane e nessuna novità dopo, Luke e il resto degli uomini erano stati dichiarati deceduti in missione. Si era tenuta una cerimonia in loro onore. Chirone aveva fatto un discorso solenne e commovente, che aveva portato alle lacrime molti studenti. Al termine di esso, aveva assegnato agli scomparsi una medaglia per il loro valore. Annabeth aveva gli occhi asciutti e la bocca atteggiata in una smorfia, incredula e disgustata da ciò a cui stava assistendo. Non credeva possibile che la questione fosse chiusa, che le ricerche sarebbero terminate. Non c’era nessuno indignato quanto lei, in quella stanza? Non c’era nessuno non disposto ad accontentarsi?
Fu in quel momento che giurò a se stessa che non avrebbe dimenticato Luke, che avrebbe continuato a cercarlo finché non l’avesse trovato o avesse ottenuto una prova definitiva della sua morte. Voleva la verità tanto quanto voleva Luke.
Annabeth si rigirò sotto le coperte, spostandosi di lato e scacciando via i ricordi dolorosi.
Da allora erano passati due mesi, forse qualcosa di più. Non se ne era resa conto fino a quel momento. Era certa che se avesse provato a parlare con qualcuno delle sue indagini, del suo scetticismo e, non lo si poteva negare, della sua testardaggine, l’avrebbe presa per pazza. Violando tutte quelle norme, stava mettendo a rischio la sua permanenza sulla base, il suo intero futuro come pilota, per cercare una persona che con ogni probabilità era morta.
Avrebbe dovuto farsene una ragione, ma non ci riusciva. Non voleva. È quello che succede quando perdi una persona troppo importante, pensò Annabeth, ormai prossima ad addormentarsi.
Luke si era sbagliato. La sentiva la sua mancanza, diamine se la sentiva.



Angolino dell'autrice
Innanzitutto, buona Pasqua a tutti.
So che questo capitolo è più breve dei precedenti, me ne scuso, ma volevo preservare l'unità narrativa e aggiungere un'altra parte mi sembrava un po' troppo, viste tutte le nuove informazioni. Qui si delinea la vera tram di questa fic.
La canzone a cui faccio riferimento è "Twist It (Shake Your Tail Feather)" del film dei Blues Brothers. Se non la conoscete, andate ad ascoltarla e a guardare quei film, sono meravigliosi! Trovo impossibile ascoltare questa canzone e non sentire la voglia di mettersi a ballare.
Se anche voi visualizzate e non rispondete, o peggio, non visualizzate nemmeno (bestie di satana), lasciate una recensione e giustificate il vostro comportamento ignobile.
Se invece i vostri messaggi vengono visualizzati ma rimangono senza risposta (vi capisco), lasciate una recensione e ditemi con chi e perché vi capita.
Grazie a chi sta continuando a leggere questa storia, un capitolo ogni due settimane, alla prossima!

Water_wolf

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Capitolo 4
*** Quattro ***


quattro

 
 
C’era solo una cosa peggiore delle lezioni di Zero-G delle 8.30: l’odore di vomito che si spandeva durante le lezioni di Zero-G delle 8.30. Annabeth non capiva come certe persone si ostinassero a fare una colazione pesante, se tanto rimettevano tutto subito dopo. Sembrava quasi lo facessero apposta. Mentre il colpevole di quel giorno veniva accompagnato fuori dal compagno, un’arpia entrò nell’area a gravità zero e si affrettò a pulire le particelle di vomito che fluttuavano a mezz’aria.
«Che schifo» sentì dire qualcuno, suscitando una serie di assensi tutt’intorno a lui.
Annabeth ringraziò mentalmente l’esistenza delle arpie, che in quelle occasioni non battevano ciglio, e distolse lo sguardo da quello spettacolo disgustoso. Percy, a qualche metro di distanza da lei, sbadigliò. Quando si accorse del suo sguardo, commentò il suo stato con un tono che esprimeva il concetto meglio di quanto avrebbero mai fatto le sue parole. «Ho puntato cinque sveglie e mi sono alzato dopo aver ritardato l’ultima due volte.»
Troppo stanca per ridere, la bionda si limitò a sorridere, gesto che probabilmente sottolineò le borse sotto gli occhi. Avrebbe voluto replicare, ma al posto di una frase, dalla bocca le uscì uno sbadiglio.
«Ti odio» disse, fulminando il suo copilota con lo sguardo. «Adesso andremo avanti così per tutta la mattina.»
Percy non sembrava molto dispiaciuto. Non ebbe tempo di verificarlo, perché l’istruttore Eolo batté le mani e richiamò la loro attenzione.
«Bene. Dopo questa interruzione» pronunciò l’ultima parola con gli occhi rivolti al soffitto, «possiamo riprendere l’allenamento. Quest’oggi vorrei che prestaste particolarmente attenzione e ripassaste tutti i movimenti di base, perché poi le metterete alla prova sul campo e non ho voglia di assistere ad attacchi di panico.» Scandagliò la classe, osservando una ventina di diciottenni in preda all’estasi e all’incredulità. «Sì, questo significa che è arrivato il momento della vostra prima passeggiata nello spazio.»
L’annuncio venne accolto da una serie di esclamazioni di giubilo. Annabeth si stupì di essere una delle tante voci. Si voltò di lato per vedere chi stesse gridando più forte, scoprendo che, naturalmente, si trattava dei fratelli Stohl. Quando Connor, o forse Travis, la notò, le rivolse un ghignò e fece un dub. Percy, che aveva assistito a tutta la scena, rise. I suoi occhi verdi erano accesi da una luce nuova, vitale, che aveva spazzato via la stanchezza di pochi attimi prima. La ragazza lasciò che quell’energia la contagiasse, nella speranza che sortisse lo stesso effetto.
Non era certa si trattasse di un passo in avanti nel loro rapporto, eppure lei e il moro non ebbero bisogno di parole per mettersi d’accordo sul fingere di ripassare i movimenti cui aveva accennato Eolo. In ogni caso, si giustificò, l’eccitazione aveva raggiunto livelli tali che anche volendo non sarebbero riusciti a prestarci attenzione. La colpa era indubbiamente dell’istruttore, perché dare una notizia del genere di prima mattina aveva molti effetti collaterali ed era suo compito conoscerli.
Dopo quindici, lunghissimi minuti, l’istruttore alzò il coperchio che proteggeva la leva e la abbassò, ripristinando la gravità all’interno dell’ampia sala di esercitazioni. Annabeth provò una leggera sensazione di instabilità a posare nuovamente i piedi per terra, simile a quando si scende da una barca.
Al click di un altro pulsante, la parete davanti a lei smise improvvisamente di essere una parete, aprendosi nel mezzo e rivelando una stanzetta oltre di essa. Sentì qualcuno dietro di lei mormorare “figata” e non poté fare a meno di essere d’accordo.
La sua attenzione fu catturata immediatamente da Eolo, che se ne stava a gambe larghe davanti al compartimento segreto. «Come potete vedere» iniziò, «dietro di me ci sono due set di tute spaziali. Per la vostra prima uscita, utilizzerete un modello un po’ meno alla moda di quelli che potete vedere nelle missioni ufficiali, ma senza dubbio più sicuro. Se pensavate che avrei lasciato dei ragazzi del primo anno con degli stivali a propulsione, vi sbagliate di grosso.»
Percy si sforzò di non apparire deluso, anche se sembrava vicino a mettere il broncio. Annabeth fece del suo meglio per non mostrarsi divertita dal suo comportamento.
«Entreranno due coppie alla volta e usciranno scaglionate. Farete un percorso di trenta metri, dopodiché tornerete indietro. Questa è la prima volta che uscite al di fuori del Campo. Si tratta di un inizio graduale, oggi non farete nulla di complicato. Dalla prossima lezione, però, inizieremo a lavorare sodo. Non pensate che sia facile. Ci vorrà molto esercizio, prima che riusciate a essere disinvolti nella tuta e—»
«Ci fa uscire o no?»
Il professore sembrò farsi improvvisamente più grosso, come se dalla bocca aperta avesse risucchiato tutta l’aria della sala e l’avesse usata per gonfiarsi come un palloncino. «Stohl» tuonò. «Voi sarete gli ultimi.»
«Ma—»
«Niente ma. Siete fortunati se vi faccio partecipare ancora all’esercitazione» lo interruppe. «Queste premesse sono necessarie. Là fuori, sarete voi, il vostro copilota e le vostre due teste. Se volete rimanere vivi, dovete farle funzionare. E per farlo, dovete prima ascoltare me.»
I fratelli Stohl non obiettarono oltre. Si cucirono la bocca e rivolsero gli occhi al pavimento, evitandosi di vedere l’espressione goduta di Clarisse, poco distante. Ma le lunghe, lunghissime premesse di Eolo cancellarono anche quella.
Annabeth percepì Percy inclinarsi pericolosamente verso di lei e preparò una mano per sostenerlo, ma la voce del professore lo riscosse in tempo.
«Allora? Chi saranno i primi?»
Il suo piede destro scattò involontariamente in avanti. Nel momento in cui gli occhi di Eolo incontrarono i suoi, Annabeth cercò di convogliare nello sguardo tutto il suo desiderio. L’istruttore annuì e la ragazza lo udì pronunciare il suo cognome come in un sogno. Percy strinse un pugno e lo portò lievemente in avanti in segno di vittoria. Subito dopo, seguirono Clarisse La Rue e Silena Beauregard.
Si tolsero le scarpe e la giacca della divisa e, seguendo le istruzioni di Eolo, indossarono stivali e tute spaziali. Si trattava di un modello più antiquato rispetto a quelli usati nelle vere missioni, quello che Annabeth aveva visto indossare a Luke in più di un’occasione. Queste erano più larghe, più pesanti e di un materiale meno performante, con una libertà di movimento limitata. A confronto con le prime tute costruite dall’uomo, così ingombranti e poco pratiche che alla ragazza veniva difficile credere che fossero state usate per davvero, erano dei gioiellini.
«Controllate che il vostro partner abbia indossato correttamente la tuta» ordinò l’istruttore, «dopodiché, infilate il casco. Il collegamento radio si attiverà subito.»
Percy si avvicinò a lei e allargò le braccia, come a chiedere se fosse pronto oppure no.
Annabeth lo osservò per bene, prima di decretare: «Hai la zip aperta.»
Il ragazzo inarcò le sopracciglia e fece per guardare giù, ma si trattenne. «La zip non c’è.»
La bionda ghignò. «Ci hai quasi creduto, però» ribatté. «Non sei abbastanza attento.»
«Metti il casco, Sapientona» brontolò lui, «che è meglio.»
L’istruttore aspettò che tutti quanti avessero ultimato di vestirsi, prima di rivolgersi a loro parlando attraverso il piccolo microfono appuntato dietro l’orecchio. «Prova. Prova. Mi sentite, ragazzi?»
«Sì» rispose Annabeth, mentre alle sue orecchie giungevano le parole di Eolo e gli assensi dei suoi compagni. Era come indossare delle normali cuffie.
«Avvicinatevi alla parete sud» comunicò Eolo. «Le protuberanze che vedete sono i contenitori dei cavi di sicurezza. Il cavo è letteralmente il vostro cordone ombelicale, visto che senza di esso fluttuereste in giro senza controllo. Inoltre vi fornisce l’ossigeno necessario a completare la passeggiata. Aprite le custodie protettive e agganciate il cavo al retro della tuta del vostro partner, preferibilmente senza attorcigliarvi e incastrarvi come fate sempre. Così, perfetto.»
Il cuore di Annabeth iniziò a battere più forte. Era una questione di minuti, poi sarebbe andata nello spazio. Era conscia di esserci già, nello spazio, ma trovarsi su una base era ben diverso dall’essere là fuori, senza nessun vetro tra lei e le stelle. Tutto il suo essere anelava a trovarsi all’esterno, solo lei e la sterminata vastità dell’universo.
Non recepì le ultime raccomandazioni di Eolo né fece caso a un portone che si chiudeva e sigillava dietro di lei, separandola definitivamente dall’insegnante. Il tempo necessario per l’airlock le parve infinito. Stare ferma le riusciva difficile, così voltò la testa e spiò il viso di Percy in cerca della sua reazione. Vi lesse concentrazione e determinazione, entusiasmo e impazienza.
Il ragazzo non si accorse subito di essere osservato. La notò con la coda dell’occhio e un pigro sorriso sornione gli incurvò le labbra. «Mi guardi ancora perché vuoi farlo, Sapientona?»
Annabeth annuì. «Già.»
«Eh-ehm» tossì Clarisse. «Sapete che siamo tutti in collegamento, vero? Sentiamo ogni cosa. Per cui, per favore, risparmiate le romanticherie per un altro momento.»
«Romanticherie?» ripeté la bionda, esprimendo la sua incredulità e la sua indignazione, mentre Percy roteava gli occhi e ribatteva: «Non rompere, Clarisse.»
Silena mise una mano sulla spalla dell’amica per trattenerla dal continuare la discussione, ma il suo intervento risultò superfluo, perché il muro di fronte a loro si divise e si aprì sull’esterno.
Annabeth rimase senza fiato. Di fronte a lei c’era il vuoto, l’oscurità infinita chiamata spazio. Ma c’era anche il resto del Campo Mezzosangue, la base circolare che orbitava intorno alla Luna—oh, la Luna. Satellite non era il termine giusto per descrivere la perfezione di quel corpo celeste, il suo biancore evanescente e i crateri sulla superfice. La Luna, l’ispirazione di ogni vero poeta, la guida di ogni anima sola. Non le era mai sembrata così bella come in quell’istante. Sotto di lei, intravedeva il pianeta blu, la sua Terra. Casa era magnifica da lassù. Mancava da mesi, da quando era salita sullo shuttle che l’aveva portata fino al Campo.
Si riscosse. Si trovava lì per una ragione, in quel momento portare a termine il percorso di trenta metri e avvicinarsi di un altro passo al sogno di diventare pilota. Non poteva concedersi il lusso della nostalgia e dei sentimentalismi.
«Iniziamo» sussurrò, più a se stessa che agli altri.
Individuò le sbarre poste a intervalli regolari sul fianco della base. Bastava un piccolo slancio per muoversi dall’una all’altra, aiutandosi poi con le braccia. Tuttavia era sufficiente calcolare male la distanza per mancare la presa e rimanere sospesi nel vuoto, con solo il cavo di sicurezza a impedire di fluttuare via.
«Vai pure» la incoraggiò Percy. «Io ti sono subito dietro.»
La risposta di Silena le giunse attraverso gli auricolari inseriti nel casco. «Lo stesso vale per noi.»
Annabeth non se lo fece ripetere una seconda volta. Misurò a occhio lo spazio tra lei e la prima sbarra, fece un respiro profondo e si lanciò. La sensazione di subbuglio la prese allo stomaco durante il salto. Il corpo reagì prima della mente, e le sue mani guantate si chiusero attorno al metallo, arrestando il suo volo. Inspirò ed espirò, imponendosi di recuperare la calma. Quando il cuore smise di batterle nelle orecchie, si accinse a compiere il secondo movimento. Si aggrappò al sostegno successivo con più facilità, e così con quello seguente. Eolo le era sembrato esageratamente apprensivo, ma adesso comprendeva la ragione del suo comportamento. Senza l’allenamento in ambiente Zero-G, nessuno avrebbe definito quel percorso una passeggiata.
Aveva appena raggiunto il quarto appiglio, quando Percy si aggrappò al primo. Accompagnata dal suono lieve del suo respiro attraverso gli altoparlanti, passò da sbarra a sbarra con agilità crescente e attenzione costante. Aveva trovato un ritmo, rendendo il suo incedere stabile e regolare. Aveva percorso all’incirca quindici metri, eppure sentiva già il sudore impregnarle la fronte e bagnarle la schiena. Ma la fatica non era che un effetto collaterale di quell’esperienza fuori dal comune.
L’armonia dei suoi movimenti venne interrotta dall’improvvisa intromissione di Clarisse alla radio. «Jackson, sei troppo lento. »
«Va bene» rispose il ragazzo, scocciato ma rimanendo entro i limiti dell’educazione. «Hai altre critiche da farmi, o posso andare avanti in pace?»
Tenendosi saldamente alla sbarra, Annabeth controllò la situazione alle proprie spalle. A separarla dal suo copilota c’erano due sostegni, una distanza di circa tre metri; appena dietro di lui era ferma La Rue. Probabilmente era partita troppo presto e ora doveva aspettare che Percy si muovesse per fare lo stesso, però era incapace di aspettare il suo turno e gli stava col fiato sul collo.
«Per favore, Clarisse» intervenne, sforzandosi di suonare appacificante, «lascia stare il mio copilota.»
«Nessuno ti ha interpellata, Chase» ribatté quella, piccata. «Il tuo copilota» quotò, scimmiottandola, «mi ha chiesto se avessi altre critiche e, in effetti, è così. Non solo è troppo lento, ma è anche imbranato e incapace. Mi domando come ci si senta a fare così pena.»
Annabeth percepì la propria bocca spalancarsi. Era conscia che Clarisse fosse prepotente e competitiva, però non pensava fino a quel punto. Anche se non si riferivano a lei, prese quegli insulti sul personale.
Stava per ribattere che non si doveva permettere, ma Percy la precedette. Con una calma che era essa stessa una presa in giro, la voce che trasudava sarcasmo, disse: «E io mi domando come ci si sente ad essere così stronza. Immagino non troveremo mai una risposta.»
Dopodiché, allungò un braccio, puntò gli stivali e si diede la spinta necessaria a raggiungere la sbarra seguente. Sarebbe stata una traiettoria perfetta, se non fosse stato per Clarisse. La ragazza saltò nello stesso momento, dandosi il doppio dello slancio, finendo addosso al moro e sbalzandolo via. Mentre lei si appropriava dell’appiglio, Percy si ritrovò a fluttuare lontano dalla base spaziale, il vuoto a circondarlo.
Il suo grido si propagò attraverso gli altoparlanti. Una doccia fredda sarebbe stata preferibile a quel suono e alla disperazione che comunicava.
Annabeth pensò in fretta.
«Percy.» Scandì il suo nome lentamente, cercando di trasmettere quanta più calma riuscisse. Doveva farlo ritornane in sé, se voleva che lo ascoltasse. «Percy. So che senti la mia voce. Concentrati solo su di me, okay?»
Passarono due estenuanti secondi, prima che lo sentisse rispondere. «Okay.»
«Perfetto. Devi respirare. Non lasciare che il panico abbia il sopravvento. Non stai correndo nessun pericolo, sei legato al cavo di sicurezza. Non volerai via nello spazio. Sei al sicuro, ancorato al Campo e a noi» disse. «Il cavo ti sta passando tra le gambe. Afferralo—e continua a respirare. Esatto, lentamente, così. Bravissimo. Ce l’hai fatta! Ora ti basta tirare e arriverai dritto al punto di partenza. Io ti raggiungo subito.»
Solo quando lo vide fare come diceva, concesse a se stessa di respirare. Avvisò le due ragazze della sua intenzione di tornare indietro e intimò loro di fare spazio e non muoversi. Superarle richiese una dose maggiore di agilità, ma per fortuna i sostegni avevano una forma oblunga che le permise di aggrapparsi anche considerando l’ingombro di un altro corpo. I piedi di nuovo sulla piattaforma iniziale, comunicò via radio il suo ritorno ed Eolo eseguì le manovre per fare rientrare lei e Percy. Trascorso l’airlock, Annabeth si levò immediatamente il casco e colmò la distanza tra di loro.
«Come stai?» chiese. Non lo lasciò rispondere, perché aggiunse subito: «Quello che ha fatto Clarisse è imperdonabile, oltre che crudele. Si merita una sospensione bella e buona.»
Il ragazzo era scuro in volto, eppure nel rivolgersi a lei il suo tono era caldo. «Sto bene. Sono solo un po’ scosso. In quanto a Clarisse…»
«In quanto a Clarisse, saremmo noi professori a decidere il da farsi, non voi allievi» intervenne Eolo, avvicinandosi a passo lento verso di loro.
Annabeth non aveva nemmeno registrato la sua presenza, sopraffatta da ciò che era appena successo. Ora che lo vedeva, però, sentì la rabbia montare dentro di lei e dovette compiere uno sforzo su se stessa per contenerla. «Lei era in contatto con noi per tutto il tempo» lo accusò. «Perché non è intervenuto? È un istruttore, è responsabile di tutto quello che accade durante le sue lezioni, eppure è rimasto in silenzio e ha lasciato la situazione in mano a delle matricole inesperte.»
«Il senso è proprio questo, Chase» replicò Eolo, rilassato. «Ho deciso di non intromettermi volontariamente, perché volevo capire se eravate in grado di gestire una circostanza imprevista. I problemi, gli errori sono inevitabili. Saper fare i conti con lo stress e l’ansia è essenziale per diventare un pilota a tutti gli effetti. Se non ce l’aveste fatta o se la minaccia fosse stata reale, sarei intervenuto a guidarvi.»
«A me la minaccia sembrava abbastanza reale» commentò Percy.
L’istruttore fece un gesto minimizzante con la mano. «Sei sempre rimasto attaccato al cordone ombelicale, Jackson, non agitarti. Piuttosto, ringrazia la tua compagna. È stato grazie alla sua logica e al suo sangue freddo se avete superato la prova. Chase, complimenti.» Le sorrise, prima di aggiungere: «Ora cambiatevi e tornate di là. Molti devono ancora provare.»
Indecisa tra provare orgoglio per il complimento o fastidio per la poca considerazione, risolse di fare come le era stato detto e rimandare il problema a dopo.
Dall’altra parte della stanza nascosta, i suoi compagni di corso erano in trepidante attesa. Non appena la videro uscire, si strinsero attorno a lei e Percy e iniziarono a bombardarli di domande. Dopo aver risposto dieci volte a “è difficile?”, sette a “hai avuto paura?” e venticinque a “com’è andata?”, riuscì a smarcarsi e poté andare a sedersi in fondo alla palestra. Il moro si posizionò di fronte a lei a gambe incrociate.
Mentre Annabeth si sistemava la coda di cavallo, cercando di dare un aspetto decente alla massa di ricci biondi appiattiti dall’uso del casco, il ragazzo chiuse gli occhi e appoggiò la nuca al muro, sospirando di sollievo. Rimase in quella posizione per qualche minuto, poi aprì un occhio e la guardò. «Eolo ha ragione, comunque» esordì. Con la testa reclinata all’indietro, il pomo d’Adamo era in evidenza e sottolineava i movimenti articolatori del parlato. «Là fuori sei stata fantastica. Senza di te, mi sarei lasciato prendere dal panico. Grazie.»
«Non c’è bisogno, ho solo ragionato sul problema e cercato una soluzione» ridimensionò, eppure sentiva le orecchie scottare. «Siamo una squadra ormai. Tu avresti fatto lo stesso per me.»
«Vero» confermò lui. Poi si mise a ridere. «Una squadra in tutto tranne che nel simulatore di volo. Lì siamo pessimi.»
La battuta strappò ad Annabeth una risata, ma l’ilarità non durò molto. Il sorriso di Percy si spense poco dopo e risalire al motivo non le risultò molto difficile.
«Mi dispiace per quello che ha detto Clarisse» iniziò. «Ma credimi, l’ha fatto solo per distrarti e darti sui nervi. Non c’è niente di vero nelle sue parole.»
«Apprezzo la gentilezza, ma non devi mentire per farmi sentire meglio» replicò lui. «So di avere dei punti deboli, così come so di averne anche di forti. Per qualche ragione, però, non riesco mai a dimostrare le mie qualità.»
«Tre giorni fa sarei stata più che d’accordo con te» ammise Annabeth. «Anche adesso ho i miei dubbi, non ti montare la testa. Però qualcosa sei riuscito a dimostrarlo, perché non sei terribile come pensavo. O almeno, riesci ad essere terribile con una buona musica di sottofondo.»
Percy ghignò. «Questo significa che la playlist Pulizie di Punizione ti piace?»
«Abbastanza.»
«E ‘sta sera ballerai con me?»
La bionda sbuffò. «Te lo scordi.»
Il ragazzo aveva la risposta sulla punta della lingua, ma ammutolì all’improvviso. Ad Annabeth bastò girarsi per comprendere la ragione del suo comportamento: Silena Beauregard stava camminando dritta verso di loro. Si fermò a pochi passi dalle gambe di Percy e gli rivolse un ciao con la sua voce dolce e armoniosa.
«Clarisse non lo farà mai» proseguì, «per cui mi scuso al posto suo. Mi dispiace, Percy. Spero tu possa perdonarla e dimenticare l’accaduto.»
«Non preoccuparti, Silena. È tutto a posto» sdrammatizzò lui. «Potevo avere una banale passeggiata, invece ho provato il tuffo nel vuoto.»
Silena sorrise educatamente e si allontanò, lo sguardo di Percy che indugiava sulla sua figura slanciata. Annabeth ottenne la sua attenzione solo quando gli parlò nuovamente. «Magari fossi bravo a volare quanto lo sei a parlare…» sospirò, fingendo esasperazione.
Il ragazzo rise. «Se lo fossi, la nostra strada per il diploma sarebbe decisamente più noiosa.»
A quella frase, anche Annabeth rise.
 

 
«Aspetta, aspetta, aspetta.» La voce di Piper aveva raggiunto un volume talmente alto che si sentiva nitidamente anche al di là della porta del bagno. «Non ci credo. Mi stai prendendo in giro. Ma io non ci casco.»
Seduta sul wc, le brache calate, Annabeth alzò gli occhi al cielo. «Pipes, non ti sto prendendo in giro, lo giuro. È successo.»
«Tu hai salvato Percy Jackson da una lenta morte per assideramento durante l’esercitazione. Cose del genere semplicemente non succedono.»
«Infatti non sarebbe morto» ribatté la ragazza, riprendendo lo stesso tono puntiglioso dell’amica. «Né io l’ho salvato. C’è stato un brutto imprevisto, Clarisse è stata una stronza, io ho risolto la situazione e basta.»
«Dici poco!» esclamò Piper. «Se è vero, perché ancora ho difficoltà a crederci, hai eguagliato Wonder Woman.»
Annabeth tirò lo sciacquone e aprì la porta del bagno. Mentre si avvicinava al lavabo per pulirsi le mani, domandò: «Wonder Woman?»
«Sì, perché è sia una badass sia una brava persona» rispose, seguendola da vicino. «Stai davvero dando il tuo meglio con Percy. Lui ti stimola.»
La bionda le lanciò un’occhiata stranita. «Anche Luke mi stimolava, se è per questo.»
«Mm. Giusto.» Piper si prese un momento per considerare l’intera situazione. «Forse il punto è che Luke non aveva bisogno di te per migliorare, mentre Percy sì. Entrambi crescete grazie all’altro. Non c’è fine a quello che potete imparare, insieme.»
«Forse hai ragione» ammise Annabeth. Si asciugò le mani e si voltò verso l’amica. «O forse è solo il tuo lato romantico che prende il sopravvento.»
La cheeroke le diede una gomitata. «Non si insulta il mio lato romantico.»
«Aia. Okay» rispose Annabeth, massaggiandosi il fianco.
«Alla fine, il mio istinto non sbaglia mai» ribadì l’altra.
La bionda cercò di non sorridere. «Okay.»
«Sono seria.»
«Okay.»
Piper incrociò le braccia.
Annabeth mantenne la faccia da poker.
«Meglio per te che sia davvero okay» minacciò la ragazza, «altrimenti la prossima volta che verrai a raccontarmi di Percy Jackson, io non ti ascolterò.»
«Ma—» Annabeth rimase interdetta, poi rise.
Piper lasciò crollare la sua faccia da finta arrabbiata e sorrise. «Ci siamo intese, Chase.»
«Intese» confermò lei. «Ora muoviamoci, altrimenti arriveremo tardi a lezione.»
 

 
L’odore di detergente chimico le riempiva le narici da due ore, ormai. Stava iniziando a darle alla testa. Forse avrebbe fatto meglio a controllare l’etichetta e assicurarsi che non potesse sballarsi con quella roba. Il pensiero era talmente assurdo che la fece sorridere.
«Se trovi dell’umorismo in questa situazione» esordì Percy, «condividilo, per favore. Anch’io ho bisogno di ridere.»
Annabeth smise di passare il moccio e alzò la testa nella direzione del compagno. Tutto il suo corpo esprimeva stanchezza, a partire dalle spalle incurvate fino alla mano con cui si massaggiava la parte bassa della schiena. La ragazza non si illudeva di trovarsi in uno stato migliore. A giudicare dai segnali che le inviavano le sue membra, portava i diciott’anni come se fossero novanta.
In quel momento, Annabeth realizzò che non potevano andare avanti così. «Ci serve una pausa.»
«Adesso?» chiese lui.
«Sì, adesso» rispose la bionda, con ancora maggiore convinzione. «Siamo in punizione, non in schiavitù. Puliremo dopo le ultime aule. Ora, andiamo a prenderci qualcosa da bere e rilassiamoci un attimo, a meno che tu preferisca ammazzarti di fatica.»
Percy sorrise. «Mi avevi convinto a “sì”.»
Annabeth ricambiò. Dopodiché, si diressero fianco a fianco verso l’area relax. Le luci del passaggio sfumarono dal bianco al verde man mano che si avvicinavano. Il corridoio si aprì su una grande sala, con il pavimento metallico rivestito di un materiale elastico, punteggiato di poltroncine, divanetti e pouf a forma di sacco. Vedere quel luogo completamente vuoto, quando di solito era preso d’assalto dagli studenti, le provocò una sensazione aliena. Diverse console per videogame erano posizionate in giro per l’ambiente, ma gli schermi erano spenti e nessuna coda si era formata dietro di esse. Dall’attrazione principale, una piscina di palline di venti metri quadrati, non provenivano né urla né schiamazzi.
«Sembra di stare su un altro pianeta» commentò Percy, invitato a sussurrare dal silenzio innaturale che regnava.
«Già» concordò Annabeth.
Non era mai stata una grande amante dell’area svago. L’aveva sempre trovata troppo rumorosa e caotica, oltre che vagamente odorante di formaggio. Piper sosteneva ci fossero solo due possibili spiegazioni: o erano le decine di pacchetti di patatine al formaggio che si mangiavano là dentro, o erano i piedi scalzi. Annabeth preferiva di gran lunga la prima possibilità, nonostante non ci passasse comunque molto tempo. Semplicemente, l’area relax non faceva per lei.
Ora che era vuota, però, assumeva tutto un altro fascino. In quel momento, il posto apparteneva a lei e Percy, solo a lei e Percy. Erano liberi di fare tutto ciò che passasse loro per la testa e la tentazione risvegliò il suo spirito piegato dalla punizione.
 «La adoro» aggiunse. «Cosa facciamo? Hai qualche idea?»
«Solo una» rispose il ragazzo. I suoi occhi verdi brillarono di malizia nel rivolgerle un sorriso da combina guai. «Ma è una dannatamente fantastica.»
Le afferrò la mano e iniziò a correre, lanciando un grido di guerra. Annabeth non ebbe il tempo di protestare, trascinata via dalla sua forza e dal suo entusiasmo. Volarono sulle gambe fino alla piscina, evitarono per un pelo di rimanere incastrati nella rete protettiva e arrivarono sul bordo. La ragazza ebbe appena il tempo di visualizzare l’oceano di palline colorate davanti ai suoi occhi, prima di venirne sommersa.
Affondò di diversi centimetri, ma si mosse subito e guadagnò la superfice. L’immagine di piedi scalzi e sudati le invadeva la mente. Nuotò fino al margine e vi si issò, ripetendosi di respirare dalla bocca. La nausea non le era ancora passata, quando la testa di Percy fece capolino tra le palline, seguita poco dopo dalle braccia e parte del busto.
«È stato stupendo!» esultò. «Lo rifacciamo?»
Annabeth non sapeva se sorridere a quel tono da bambino o andare a vomitare in angolo all’idea. «Io passo» rispose. «Però tu fai pure. Non troverai mai più la piscina in queste condizioni.»
Il moro scrollò le spalle. «Come vuoi.»
Il suo secondo lancio fu un tuffo a bomba, che sparò palline da tutte le parti. Annabeth ne afferrò una al volo, evitando che la colpisse alla tempia. Quando Percy emerse di nuovo, scuotendo i capelli come una fotomodella che esce dall’acqua, la tirò nella sua direzione. Lui la evitò, poi si girò per protestare. «Ehi! Non vale, non ero pronto.»
«Un pilota deve essere sempre pronto» ribatté lei, andandoci giù pesante col sarcasmo.
«Ah-ah» fece l’altro. Il suo sguardo vagò sulle palline attorno a lui e le sue dita ne accarezzarono una. «Non iniziare una guerra se non sei pronta a combattere, Sapientona.»
Annabeth decise che non era il caso che la situazione degenerasse, tantomeno ritrovarsi più a lungo a contatto con quel ricettacolo di germi. «Sono troppo stanca per combattere» replicò, alzandosi lentamente per evitare che i suoi muscoli doloranti protestassero. «Ho sete, vado a comprare da bere. Vuoi qualcosa?»
«Sì, grazie» rispose. «In realtà sto morendo.»
Annabeth fece un cenno d’assenso col capo, scese dalla piattaforma rialzata della piscina e si diresse alla macchinetta più vicina. Sfilò il cellulare dalla tasca dei pantaloni, controllando le notifiche mentre decideva cosa prendere. Aprì l’applicazione da lei stessa creata, giusto per un controllo veloce, prevedendo che quella notte non avrebbe avuto abbastanza forze per farlo. Per scacciare la delusione nel non vedere niente di fuori dall’ordinario, si mise a elencare ad alta voce, così che anche Percy potesse sentirla.
«Tè freddo, Sprite, Fanta, Diet Coke…» enumerò. «Io penso prenderò la Diet Coke, tu in…»
Si interruppe. La lingua rimase paralizzata all’interno della sua bocca, incapace di portare a termine la frase.
«Io pure» rispose il moro.
Udì a malapena la sua voce, tanto era distante da quel luogo e quel momento. La mente aveva abbandonato il suo corpo.
«Sapientona, mi hai sentito? Io pure una Diet Coke.»
No, non l’aveva sentito. Non aveva registrato una singola parola che aveva pronunciato. Come poteva, quando il mondo si era appena capovolto?
«Annabeth, mi stai facendo paura. Se è uno scherzo, non è divertente.»
È uno scherzo?, si domandò Annabeth. Non lo so, si rispose.
Si accorse che la mano che reggeva il telefono era in preda a un tremito. Sbatté le palpebre, uscendo da quella sorta di stato catatonico, e si impose si smetterla. Con rinnovata attenzione, fissò lo schermo del cellulare.
Un pop-up lampeggiava con urgenza al centro di esso.

 
Il segnale HB-037Z è stato rilevato.
Poi:
Tentativo di comunicazione da astronave sconosciuta a Campo Mezzosangue.
Tentativo di comunicazione da astronave sconosciuta a Campo Mezzosangue.
Tentativo di comunicazione da astronave sconosciuta a Campo Mezzosangue.
 
È uno scherzo?, si domandò di nuovo.
No, si rispose. Non lo è.
Luke era vivo.
E voleva parlare con loro.



Angolino dell'autrice
Mi scuso se l'aggiornamento è arrivato più tardi del solito. La mia vita al di fuori di qui è una montagna russa, al momento. Spero che la maggiore lunghezza possa compensare haha
Se anche a voi piace Wonder Woman, scrivetelo in una recensione.
Se da bambini amavate (o odiavate) le piscine di palline, scrivetelo in una recensione.
Se vi domandate perché i personaggi non vanno mai in bagno e vi è piaciuto che Annabeth si sia provata un essere umano con dei bisogni primari, scrivetelo in una recensione.
Se vi siete rotti le palle di queste scuse o buone ragioni (a vostra discrezione) per recensire e farmi capire se la storia piace o meno, scrivetelo in una recensione.
Un bacione, alla prossima!

Water_wolf

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Capitolo 5
*** Cinque ***


cinque
 
Gli addetti alla comunicazione del Campo Mezzosangue accettarono di ricevere la trasmissione, un’operazione che Annabeth non poteva compiere, se voleva mantenere l’anonimato sulle sue azioni. Era già tanto che un segnale in teoria inesistente fosse stato rilevato. Toccò velocemente il cellulare, facendo scorrere una tendina e assicurandosi di registrare la chiamata, oltre che triangolare la posizione dell’emittente.
Lo schermo divenne nero per una manciata di secondi. I pixel si colorarono lentamente, fino a completare l’immagine dell’interno dell’abitacolo di una navicella spaziale. Diverse luci di emergenza lampeggiavano a intermittenza, gettando riflessi rossi sul viso del pilota. Annabeth sobbalzò nel riconoscere Luke in quel ragazzo innaturalmente magro, deperito al punto di essere una mera copia di se stesso e dallo sguardo folle. La cicatrice che gli attraversava la guancia sembrava ancora più scavata all’interno del suo volto, pallido e lucido di sudore.
«Primo Pilota Luke Castellan a campo base. Mi ricevete?» domandò.
Un pugno nello stomaco le avrebbe fatto meno male del suono della sua voce.
«Ripeto, mi ricevete?» continuò Luke. Solo allora Annabeth si accorse delle lievi interferenze che disturbavano il segnale. «Dio, spero di sì.» Si passò una mano sulla fronte, detergendosi il sudore. Era il gesto stanco di un uomo esausto. «Dovete ascoltarmi. La missione Olympus va interrotta a effetto immediato. Il pericolo è troppo grande. Ve lo assicuro, è meglio non trovare ciò che stiamo cercando.» Il suo tono parlava di inquietudine e angoscia mai provate prima d’ora. «Per me è troppo tardi ormai, sono compromesso. E se non volete che a voi accada lo stesso, smettete immediatamente di trasmettere questo segnale. Dovete rimanere nascosti, al sicuro. Per questo, non venite a cercarmi. Non fatelo» pregò con la voce e con gli occhi. Occhi azzurri, chiarissimi, ora pieni di panico e dolore, ma anche determinazione. «Ascoltatemi, cancellate Olympus, e probabilmente sarete salvi. Questa sarà la mia ultima comunicazione. Da questo momento in poi, consideratemi morto.»
Un bip la avvertì che la trasmissione era terminata.
Annabeth esalò un respiro tremante. Si dovette appoggiare al distributore di merendine per non crollare a terra. Se fosse successo, non era sicura che sarebbe riuscita a rialzarsi.
Questa sarà la mia ultima comunicazione. Da questo momento in poi, consideratemi morto.
Le parole le rimbombarono nella mente, riaprendo una ferita mal rimarginata. L’aveva appena ritrovato, l’aveva appena sentito parlare, l’aveva appena visto vivo, e adesso lui stesso voleva che lo credesse morto. Qual era la logica crudele del fato? Ce l’aveva almeno, una logica? O la sofferenza che provava era destinata a non avere senso?
«Cosa cazzo è appena successo?»
La voce di Percy la riscosse. Si voltò immediatamente, scoprendo il ragazzo a pochi centimetri da lei, una distanza sufficiente a permettergli di guardare il video, nonché ascoltarlo. Nella fretta, Annabeth non aveva nemmeno inserito le cuffiette.
«Tu non hai visto niente» rispose, deglutendo. L’emozione era tanta da renderle difficile persino parlare. «Niente, okay?»
Lo sguardo del moro la inchiodò al suo posto, glaciale. «No» ribatté. «Io ho visto. C’era il Primo Pilota, lì. Parlava al centro comunicazioni del Campo. Come hai fatto a connetterti alla rete? E perché diceva di abbandonare le ricerche, quando lo abbiamo già fatto due mesi fa, dichiarandolo deceduto?»
Annabeth sostenne il suo sguardo e le sue accuse. Incrociò le braccia sotto il seno, come se bastassero a proteggerla dal caos in mezzo al quale si trovava. «Non avresti dovuto intrometterti in affari che non ti riguardano» lo apostrofò, ricordandosi che la miglior difesa è l’attacco. «Quindi non hai il diritto di conoscere le risposte.»
«Cosa? Ma ti senti?» esclamò, allargando le braccia in segno di incredulità. «Ho il diritto di sapere dal momento in cui ho assistito a tutto questo. Non sono immagini che si scordano facilmente.» Non ottenendo alcuna reazione, sospirò pesantemente e aggiunse: «Non voglio litigare con te, okay? Ti ho raggiunta perché non mi rispondevi più e mi sono preoccupato, non volevo ficcare il naso. Ma adesso ho bisogno di capire, per cui parlami, per favore.»
«È un peccato che tu non voglia litigare» replicò Annabeth lentamente, assicurandosi che ogni parola arrivasse dove intendeva, «perché è l’unico modo in cui forse potresti ottenere qualche informazione da me.»
Gli occhi di Percy furono attraversati da qualcosa di simile alla delusione. «Annabeth…»
«Restane fuori» ribadì lei, impietosa. «Va bene cercare di andare d’accordo, ma adesso stai oltrepassando il limite. Siamo copiloti, non migliori amici. Voliamo insieme, non aspettiamo che faccia buio per sussurrarci segreti all’orecchio.»
Percy guardò di lato, fece schioccare la lingua contro il palato e annuì più volte. La mascella contratta era l’unico segno della rabbia trattenuta a stento. Quando ritornò a concentrarsi su di lei, i suoi occhi erano più intensi che mai. «Se le cose stanno così, allora ti farò un’altra domanda, copilota» ribatté, tagliente. «Prima di me, chi era il tuo compagno di squadra? O è un segreto anche questo?»
Annabeth si sentì punta sul vivo. Non aveva energie sufficienti per continuare quella discussione, tantomeno per dire la verità. Abbassò lo sguardo e replicò solo: «Ci restano due aule da pulire. Io prendo la 113, tu la 115.»
Si allontanò camminando piano, tentando di ignorare gli occhi Percy fissi sulla sua schiena.
 

 
Mentre attraversava l’ampia sala, diretta al simulatore di volo, Annabeth non vide nulla di quanto si era aspettata. Niente sguardi carichi di curiosità, niente conversazioni concitate, niente bisbigli cospiratori o commenti cinici. I suoi compagni chiacchieravano amichevolmente, alcuni sbadigliavano e si lamentavano della stanchezza, altri ridevano dell’ultimo meme comparso la mattina sui social. Non si comportavano in modo fuori dall’ordinario, perché, Annabeth realizzò, per loro non ce n’era ragione. La notizia non era stata diffusa. Gli organi dirigenti avevano deciso di tenere tutto nascosto, insabbiare ancora di più l’accaduto.
La ragazza si scoprì a stringere i pugni senza rendersene conto. Possibile che Luke resuscitasse giusto per comunicare di considerarlo morto, e alla gente andasse bene? Possibile che fosse l’unica a cui importasse?
Non proprio l’unica, pensò, ritrovandosi faccia a faccia con Percy davanti alla loro postazione. Lui non era rimasto indifferente alla vicenda.
Le parole che gli aveva diretto la sera prima, affilate come coltelli, le pesavano ancora sul cuore. Era stata spietata, colpendolo dove sapeva avrebbe fatto male, per evitare che la confrontasse e le tirasse fuori la verità. Eppure, non era totalmente pentita. C’era una parte di lei che la pensava esattamente così e gioiva per aver finalmente trovato espressione.
Il moro alzò la testa al suono dei suoi passi, riabbassarla subito dopo e tornare a fissare lo schermo del cellulare. Annabeth fece lo stesso, lasciando che la distanza fisica tra di loro equivalesse a quella emotiva. Non sarà bravo a guidare un’astronave, rifletté pigramente, ma è decisamente fantastico a mettere il broncio.  La sua coscienza protestò. Poteva quasi vederla prendere forma, trasformarsi in un angioletto dalle sembianze di Piper e posarsi sulla sua spalla, obiettando prontamente: «Non è corretto. Da quando è con te, non vi siete schiantati nemmeno una volta. Dagli del credito.»
Non ebbe tempo di indugiare oltre in quelle o altre riflessioni—se stesse perdendo la ragione, ad esempio—, perché Chirone fece il suo ingresso nell’aula e incitò gli studenti ad entrare nei simulatori. Annabeth fece un profondo respiro e sciolse le spalle, cercando di liberare la mente. Se voleva portare a termine l’esercitazione con un buon risultato, doveva lasciare indietro l’angoscia per Luke. Per fortuna era sempre stata brava a compartimentalizzare.
Le bastò indossare le cuffie e ascoltare Chirone dare i dettagli della missione del giorno, per capire che non sarebbe stato tanto semplice. Essa consisteva nell’attraversare un campo di asteroidi, il che richiedeva calcoli precisi e una profonda conoscenza delle forze che si stabilivano tra i diversi corpi in movimento.
«Per superare gli ostacoli indenni, pilota e copilota devono lavorare all’unisono» concluse l’istruttore. «Buona fortuna.»
L’enorme schermo curvo davanti ad Annabeth si accese, illuminando l’ambiente altrimenti scuro. Leve e pulsanti di controllo, situati di fronte e affianco a lei su un pannello rialzato, fecero lo stesso, riempiendo lo spazio di lucine colorate. Quando il computer finì di caricare la simulazione, la ragazza si ritrovò a fissare una riproduzione tridimensionale e accurata del luogo descritto da Chirone.
Si sistemò meglio sulla poltrona, studiata per ricreare quella di una vera astronave, e non resistette alla tentazione di lanciare un’occhiata al proprio compagno. Illuminati dal basso, gli zigomi sembravano più pronunciati, conferendogli un’aria seria e concentrata. Dal momento che nulla al di fuori del paesaggio roccioso pareva importargli, Annabeth si focalizzò nuovamente sulla missione.
Ad alta voce, enumerò le varie sequenze di comando. Percy rispose ad ognuna di esse con un “check”, confermando la loro operatività. La vera prova iniziò nel momento in cui Annabeth strinse la mano attorno alla leva responsabile della potenza del motore e la spostò lentamente in avanti, avvicinandosi a velocità graduale agli asteroidi, dando così il tempo al moro di calcolare la traiettoria del loro movimento.  Arrivarono tanto vicini alla zona di pericolo che Annabeth cominciò a preoccuparsi. Le mani le fremevano per entrare in azione, mentre gli occhi rimbalzavano da un asteroide all’altro.
Finalmente, Percy le comunicò i dati. «Trentasette gradi, direzione sud-ovest. Avanti così per sette metri, poi spostati di dodici gradi verso ovest.»
La bionda annuì, inserendo le coordinate nel sistema computerizzato della nave e dando avvio alla rotta. Lo schienale della sua poltrona vibrò leggermente, riproducendo l’idea di movimento. Quando i calcoli del compagno si rivelarono corretti, la felicità per quel primo successo era contaminata da un pizzico di sorpresa, solo un’altra prova della sua mancanza di fiducia. La sensazione si ripresentò identica ogni volta che superavano un ostacolo, zigzagando tra la cintura di asteroidi senza intoppi. Le ultime manovre, che l’avevano portata ad aggirare un masso inclinandosi pericolosamente sulla sinistra, avevano richiesto tutte le sue capacità e il suo sangue freddo per non rigirarsi su se stessi.
Percy non poté trattenersi dall’emettere un sospiro di sollievo. «Per fortuna è andato tutto liscio. Ottimo controllo» commentò. «Adesso, prosegui su quest’asse per tre metri, dopodiché aumenta la velocità e spostati a nord di ventinove gradi e mezzo.»
Annabeth inarcò un sopracciglio. «Se lo faccio, corro il rischio di non posizionarmi correttamente.»
«Lo so, ma altrimenti l’asteroide accanto tende ad avvicinarsi e molto probabilmente colliderà e noi potremmo ritrovarci lì in mezzo» spiegò il ragazzo.
«Non sono convinta» obiettò lei. «Non sarebbe meglio lasciare che l’uno colpisca l’altro, liberando la via?»
«Non ci sarebbe via libera.» L’irritazione nella voce del moro era palpabile. «Secondo i miei calcoli, dopo l’impatto le forze si altererebbero sensibilmente e il rischio di venire abbattuti da un'altra roccia aumenterebbe. Questa è la nostra unica possibilità.»
Annabeth rimase in silenzio, ponderando la situazione. Il margine di manovra diminuiva ogni secondo e, se non avesse preso una decisione in fretta, presto non avrebbe più potuto fare nulla. Chi doveva ascoltare, la sua testa o il ragazzo seduto poco lontano da lei?
«Non ti sto chiedendo di rivelarmi i tuoi preziosi segreti, copilota, solo di fidarti di me, per una volta» sbottò Percy. «È così difficile?»
Annabeth strinse i denti. Perché sì, era difficile, ma anche perché era la scelta giusta. Sfruttando gli ultimi momenti disponibili, strinse la mano destra sulla cloche e si portò in posizione, mentre la sinistra faceva scivolare in avanti la leva, dando potenza ai motori. Tenne gli occhi fissi sullo schermo, guardando con preoccupazione l’asteroide avvicinarsi sempre di più. L’astronave stava passando praticamente rasente alla sua superficie, quando un movimento sulla destra colse la sua attenzione. L’altro corpo celeste, di una dimensione decisamente superiore al primo, stava compiendo un arco. Annabeth aumentò la velocità, pregando di riuscire a passare prima dell’imminente collisione. L’enorme roccia gettò un’ombra sull’abitacolo della nave, oscurandola in parte, e la ragazza chiuse gli occhi. Anche se si trattava di una simulazione, la grafica era così realistica da farle temere la vista dell’impatto. Quando li riaprì, però, nessuna luce rossa di avvertimento lampeggiava sullo schermo, nessun simbolo di pericolo compariva a intermittenza sul monitor. Davanti a lei si estendeva ancora l’immensa oscurità dello spazio, parzialmente riempita dal campo di asteroidi.
Un verso a metà tra lo stupore e la gioia sfuggì dalle sue labbra, mentre diceva: «Ci siamo riusciti.» Si voltò verso Percy, pronta a complimentarsi con lui, ma la risposta del ragazzo arrivò prima.
«Non c’è bisogno. Chiaramente non lo credevi possibile» replicò, quasi senza distogliere lo sguardo dalla simulazione. «Il prossimo ostacolo è vicino. Inclinati a sud, sud-est di cinque gradi.»
Annabeth sbatté le palpebre, rimanendo immobile. Allora il moro si girò verso di lei, guardandola per davvero. Lo vide lottare con se stesso per mantenere il distacco, o forse se lo immaginò e basta, perché la sue parole furono: «Hai bisogno che te lo ripeta?»
«No. Cinque gradi sud, sud-est.»
Scosse la testa. Eppure non riuscì a scuotere via l’impressione che Percy Jackson fosse stato sul punto di ringraziarla per essersi fidata di lui.
 
 

Annabeth aveva saltato la cena. Al termine delle lezioni, era tornata in stanza ed era crollata sul letto per la stanchezza, recuperando qualche ora di sonno arretrato. Si era svegliata di soprassalto al suonare della sveglia Punizione delle 20.30, ed ora si dirigeva a passo di marcia verso l’aula 101. Come spesso accade dopo i pisolini, più che sentirsi fresca e rilassata, era più sconvolta e rallentata del solito, quindi ci mise un po’ a riconoscere la sedia a rotelle di Chirone proprio di fronte alla porta della classe.
«Prof» esclamò, fermandosi di fronte a lui e cercando di darsi un tono. Ma si rendeva conto di quanto fosse difficile, se non inutile, considerati i capelli che sfuggivano al codino, il volto congestionato a causa della corsa e la maglietta del Campo uscita direttamente dalla lavatrice. «B-buona sera. Ehm…Cosa la porta qui?»
«Ho bisogno di parlare con te, figliola» rispose il centauro, con la calma che lo contraddistingueva.
Tuttavia una sensazione di disagio iniziò a farsi strada dentro la ragazza. «Solo con me?» domandò, nascondendo il proprio malessere dietro una maschera di cortesia. «Vuole chiedermi come va con il mio nuovo copilota?»
«No, mia cara, non si tratta di Percy» sospirò l’istruttore capo.
Il brutto presentimento si concretizzò in un brivido lungo la schiena. Forse cominciava a capire dove sarebbe andato a parare quel discorso.
«Cosa non si tratta di Percy?»
Il ragazzo giunse dal corridoio alle spalle di Annabeth e si piazzò tra lei e il centauro, osservando entrambi con crescente interesse. Gli sguardi che si scambiarono per il minuto successivo erano così intensi che avrebbero potuto creare un campo elettrico.
«Va bene» capitolò infine Chirone. «Entrambi, seguitemi in direzione. Vi spiegherò una volta lì.»
Annabeth deglutì. Non era mai stata in direzione. Dopotutto, ci finiva solo chi aveva commesso un’infrazione e lei era una studentessa modello. In apparenza, almeno, si corresse mentalmente. Ad ogni modo, ora è troppo tardi per rimediare. Lasciò che il centauro la precedesse, camminando lentamente dietro la sua sedie a rotelle. Mentre proseguivano lungo il corridoio, le luci passarono dall’azzurro all’arancione, segnalando l’ingresso in una zona riservata.
Percy le si fece vicino, si assicurò che Chirone non potesse sentirli e le chiese a bassa voce: «Sei nei guai?»
Annabeth girò il viso verso di lui, lanciandogli un’occhiata significativa. «Hai messo da parte il broncio?»
Lui roteò gli occhi. «Onesto» concesse. «Ma ora ci sono cose più importanti di cui parlare.»
La ragazza fu costretta ad annuire. «Ho la forte sensazione di essere finita in un grande, grandissimo casino» mormorò.
«Riguardo ieri sera...»
Annabeth lo mise a tacere con uno sguardo. «Sì, riguardo ieri sera. Se fingi di non sapere nulla, probabilmente ne resterai fuori.» Bloccò le sue proteste sul nascere, aggiungendo: «Sono i miei segreti, copilota. Dunque sono i miei problemi.»
Percy aprì la bocca per contestare, però lei decise di mettere fine a quella conversazione portandosi al fianco del professore. Percepì il cellulare vibrare nella tasca dei pantaloni, ma lo ignorò.
Mancavano pochi passi alla sala di comando, non aveva più senso continuare a parlare. Si fermarono davanti a un portone metallico. Chirone appoggiò la mano destra su un pannello lì accanto, poi avvicinò leggermente il viso per lo scan della retina. A procedura completata, le porte scivolarono verso l’interno, aprendosi su un’ampia zona circolare. La maggior parte dello spazio era occupato da una vetrata vista Pianeta Blu, davanti alla quale era sistemata una scrivania, esattamente al centro della stanza. Le pareti e la fornitura bianche concedevano un’aria sospesa nel tempo, interrotta solo da alti vasi di piante finte e una singolare testa di leopardo incorniciata.
Tra quello e le misure di sicurezza, ad Annabeth parve tutto un po’ eccessivo. Ma dopotutto il Direttore in sé era un po’ eccessivo.
Il Signor D. stava dando loro le spalle, contemplando lo spazio attraverso il vetro, quando lo schiudersi delle porte lo aveva fatto voltare. Come al solito, trasgrediva le regole di abbagliamento che imponevano la divisa. Indossava un completo scuro, probabilmente nel tentativo di slanciare la propria figura tarchiata, su cui spiccava la scelta della camicia: una fantasia animalier sui toni del fucsia.
«L’approccio diplomatico non ha funzionato?» domandò non appena la porta si richiuse alle loro spalle. Girò attorno alla scrivania e fece loro cenno di avvicinarsi. «Venite, ho sistemato queste due poltrone apposta per voi.»
Dopo un attimo di esitazione, Annabeth si sedette come richiesto. Anche Percy fece lo stesso, gettando un’occhiata nervosa al Direttore appoggiato allo spigolo. Chirone andò a posizionarsi dall’altra parte del tavolo, accanto al seggio vacante che sarebbe spettato all’altro.
«Ho ritenuto più saggio cambiare strategia» rispose nel frattempo. «In fondo, le informazioni che abbiamo sono abbastanza chiare…»
«Sì, sì» lo anticipò il Signor D. «Ha già spiegato a Chase e Johnson perché si trovano qui?»
«No» replicò il centauro, mentre Percy tossicchiava educatamente. «Veramente è Jackson, signore.»
«Certo, io che ho detto, Perry?» ribatté l’ometto, infastidito.
Il ragazzo aveva appena aperto bocca per correggerlo di nuovo, ma Annabeth lo prese per un braccio e strinse. Ignorando il flebile lamento del compagno, sorrise e si rivolse a Chirone. «Ci stava raccontando perché siamo stati convocati.»
«Giusto» confermò. «La scorsa notte, una navicella sconosciuta si è messa in contatto col Campo. Il pilota menzionava l’esistenza di un segnale, emesso da noi e diretto il più lontano possibile. Il problema: non c’era stata nessuna autorizzazione da parte della direzione per un’operazione del genere. Naturalmente i nostri tecnici hanno controllato, l’hanno trovato ed eliminato all’istante.» Fece una pausa, congiungendo le mani e soffermandosi con lo sguardo sui giovani davanti a lui. «Ci siamo subito chiesti chi avesse violato il sistema. Gli informatici sono riusciti a capire che il comando è stato attaccato dall’interno, ma i firewall erano troppo complessi perché identificassero la fonte specifica.»
«Se volete scoprire chi è stato, contate pure su di noi» intervenne Percy.
Annabeth dovette riconoscere che era un bugiardo nato. Sapeva benissimo che non cercavano il loro aiuto, eppure quella frottola gli era uscita con una facilità e una credibilità ammirabili. Peccato che non l’avrebbe aiutata a uscire da quella situazione.
«Oh, figliolo» replicò Chirone, ingannato dal suo bluff. «È chiaro che non sai nulla.»
«Meno un sospettato» fischiettò il Signor D., smettendo di controllarsi la manicure. «O meglio, meno un complice. Non abbiamo mai pensato che fosse lei la mente dietro tutto questo, Johnson. Senza offesa.»
Il moro assunse un atteggiamento confuso. Cambiò la posizione sulla poltrona e corrugò la fronte, prima di chiedere: «Complice? Significa che pensate si tratti di Annabeth?» Simulò una mezza risata. «E che motivo avrebbe per fare una cosa simile? È una ragazza seria, usa il tempo per studiare, non per violare la rete della base.»
Chirone sembrava sempre più amareggiato. «Se ti mostrassimo il video, credo che capiresti.»
«Non ce n’è bisogno.» Annnabeth si stupì di quanto suonasse salda la sua voce. «Sono stata io.»
Percy sgranò gli occhi. Gli altri avrebbero detto per la meraviglia, ma lei sapeva che era per l’incredulità. Era la rabbia per aver buttato all’aria i suoi tentativi di coprirla a farlo reagire così. Ma Annabeth aveva tenuto la bocca chiusa per molto tempo, lasciando che l’indignazione si accumulasse dentro di lei, ed ora la stava soffocando. Ciò che aveva fatto era necessario, era logico, e l’avrebbe provato.
«Sono stata io» ripeté, attingendo alle emozioni che si agitavano dentro di lei per trovare la forza di parlare. «Quando avete dichiarato il decesso di Luke, non ci potevo credere. Una persona importante come lui, e voi vi arrendevate alla prima difficoltà. Così, ho hackerato il centro di comunicazioni per trasmettere un segnale, nella speranza che lui lo trovasse e tornasse a casa. Ci è voluto del tempo, ma è successo. Adesso non potete ignorarlo.»
Il Direttore smise di sorridere. Si alzò, sistemandosi i polsini della giacca, e andò a sedersi alla scrivania. «Bla bla bla» disse. «Molto commovente. Ma la verità è che possiamo ignorarlo, perché è precisamente ciò che faremo. Ora, per quanto riguarda il tuo comportamento, Annabel Chase…»
«Sta scherzando.» Annabeth non si soffermò a correggerlo. «Il Primo Pilota del Campo Mezzosangue, scomparso da più di due mesi, si mette in contatto con noi e lei ha intenzione di guardare dall’altra parte? È assurdo.»
«L’ex Primo Pilota del Campo Mezzosangue, il tuo ex copilota» precisò l’ometto, i ricci neri scesi ad oscurargli il volto, «ha dichiarato, e cito testualmente, “non venite a cercarmi”, “consideratemi morto”.»
La ragazza piantò le unghie nei braccioli della poltrona, sfogando sull’oggetto la proprio frustrazione. «È chiaro che è sconvolto. Le sue parole potrebbero essere il risultato dello shock e della mancanza di contatto umano» obiettò, cercando di rimanere calma. «La cosa più ragionevole da fare è raccogliere dati, ricostruire il quadro completo per poi decidere come agire. Luke è l’unico in possesso di queste informazioni, ci serve.»
«Già, intanto avremmo salvato una vita» la spalleggiò Percy.
Chirone si schiarì la gola. «Purtroppo la situazione è più complicata di così. Siete troppo giovani per ricordare ciò che successe cinquant’anni fa e le sue implicazioni.»
La ragazza annuì. «La Grande Apertura.»
«Cinquant’anni fa» riprese il centauro, assumendo il suo tono da professore, «un oggetto non identificato attraversò l’atmosfera della Terra e si schiantò nelle vicinanze di Astana, Kazakistan. Come sapete, quell’ufo si rivelò essere un’astronave proveniente da Kuron, un pianeta lontano. Il fatto straordinario è che due membri dell’equipaggio sopravvissero all’impatto. Non fu semplice comunicare con loro, ma quando ci riuscimmo, grazie agli sforzi congiunti di linguisti e scienziati provenienti da tutto il mondo, scoprimmo che scappavano dalla guerra e cercavano rifugio. Si erano spinti fino all’estremità della galassia, fino alla nostra minuscola Terra, per sfuggire alla persecuzione. Eccetto il loro essere alieni, non avevano nulla di diverso dai migranti che sbarcavano sulle coste italiane nello stesso periodo. Presto arrivarono altri come loro, tutti in fuga da Crono, un titano che aspirava a controllare l’intero universo. In cambio di protezione, misero a disposizione le loro conoscenze avanzate e diedero avvio a una epocale rivoluzione scientifica. Scoprimmo nuove fonti di energia, sviluppammo innovativi congegni tecnologi e, soprattutto, potenziammo i programmi spaziali. Nell’arco di trent’anni, la Terra si apriva al resto del mondo.»
«Ehm… Cosa c’entra questo con Luke Castellan?» domandò Percy.
«Vedi, figliolo, nulla di ciò che ho raccontato sarebbe successo se quei primi extraterrestri fossero stati seguiti dall’esercito di Crono. Se insieme a loro avessero portato la guerra, saremmo stati spacciati. La nostra salvezza consistette nell’essere un pianeta relativamente piccolo, distante dal centro della galassia e, di conseguenza, distante del pericolo. Mentre prosperavamo al sicuro nell’isolamento, il tiranno venne sconfitto, e noi prosperammo ancora» rispose l’istruttore capo. «Siamo tutti molto legati a Luke. È un giovane brillante, incredibilmente brillante. Ci fidiamo della sua capacità di giudizio. Per questo non possiamo andare a cercarlo. Se, come dice, farlo metterebbe a rischio la sicurezza del Campo e della Terra stessa, gli daremo ascolto. Lo scoppio di un conflitto ci annienterebbe. Si tratta di una vita, in cambio di milioni.»
Percy sprofondò nella poltrona. Annabeth si morse l’interno della guancia, sperando che il dolore le restituisse la lucidità di cui aveva bisogno.
«Capisci perché quello che hai fatto è così grave?» proseguì Chirone, rivolgendosi direttamente a lei. «A causa dell’affetto che provavi per Luke, non solo hai infranto le regole, ma hai anche potenzialmente messo in pericolo tutti quanti.»
«Io e gli altri professori ci riuniremo in consiglio al più presto per decidere il tuo destino» aggiunse il Signor D. «Si parla di espulsione.»
Annabeth se l’aspettava da quando aveva varcato la soglia, eppure sentirlo dire ad alta voce la lasciò senza fiato. Il sangue si congelò all’interno delle vene. Impallidì. Udì vagamente Percy prendere le sue difese, ma il suono del suo raggiante futuro che andava in frantumi le riempiva le orecchie.
«Capisco» riuscì finalmente a buttar fuori. «Se mi è permesso, ho solo un’ultima domanda fare.»
Sia Chirone sia il Direttore le fecero cenno di andare avanti.
Prendendo coraggio, chiese: «Che cos’è Olympus? Intendo, cos’è veramente
«Informazione riservata» rispose il Signor D., annoiato.
La bionda scosse la testa. «Lo immaginavo.»
Si alzò in piedi, augurò una buona serata e camminò verso l’uscita. Un sensore rilevò la sua intenzione e le porte si aprirono all’istante. Udì i passi di Percy alle sue spalle, per cui non si stupì di sentirlo chiamare il suo nome.
Si allontanò di qualche passo dall’ufficio, prima di fermarsi nel corridoio e aspettarlo. «Sono molto stanca» lo avvisò, e persino il suo tono era fiacco. «Sinceramente, non sono proprio in vena per un altro discorso.»
«Lo capisco. Anch’io ho molto su cui riflettere» rispose l’altro. Si muoveva circospetto, cercando l’approccio giusto. «Volevo solo dirti che mi dispiace. Davvero.»
Le rivolse un piccolo sorriso. Poi si allontanò, lasciandola sola.
La colpì la realizzazione che era da parecchio che si sentiva così, sola, fisicamente e spiritualmente. Nemmeno Piper—Piper, la sua migliore amica; Piper, che la capiva; Piper, che le voleva bene—era riuscita ad eliminare quella sensazione. Altrimenti, l’avrebbe messa a parte dei suoi piani dal principio. Inconsciamente, si era creata il vuoto attorno. Ora che la sua unica certezza, il diploma da pilota al Campo Mezzosangue, era a rischio, si sentiva instabile, malferma.
Sospirando, prese il cellulare dalla tasca e controllò che ore fossero. Se aveva iniziato con le riflessioni filosofiche, doveva essere sicuramente tardi. Una notifica sullo schermo segnalava la presenza di un messaggio non letto. Intuì che si trattava di quello inviatole prima da Percy, quello che aveva scelto di ignorare, così lo aprì solo per liberarsi del pop-up.
La sua mano tremò impercettibilmente nel leggerlo.

 
thepercyjaxon: sei la mia copilota, dunque sono anche i miei problemi



Angolino dell'autrice
So che molti avevano perso le speranze, ma finalmente ecco il nuovo capitolo. Come avevo già detto, dovete avere pazienza con me haha
Sono successe molte cose e temo di essere andata parecchio OOC nel cercare di seguirle tutte. Regalerò pacchi di gocciole a chi me lo farà sapere in una recensione.
Ultimo ma non per importanza, Felice Pride Month a chi, come me, lo festeggia!

Water_wolf

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Capitolo 6
*** Sei ***


sei



Ad Annabeth piaceva fare colazione insieme a Piper. I loro orari di lezione non sempre coincidevano e la mattina risultava l’unico momento in cui riuscissero a vedersi. Chiacchierando di temi leggeri o rimanendo in un confortevole silenzio, si prendevano il loro tempo—spesso troppo, rischiando di fare tardi. Negli ultimi giorni, si erano aggiunte altre due presenze fisse, Percy e il suo amico Grover. Ad Annabeth piaceva fare colazione insieme a Piper, davvero, ma non quando era costretta a nasconderle qualcosa. Dirle che rischiava l’espulsione, e soprattutto perché la rischiava, non era un’opzione. Non era pronta a gestire la sua reazione, dopotutto a malapena controllava la propria.
«Cosa sono questi musi lunghi?» domandò Piper, posando il vassoio sul tavolo della mensa dove avevano deciso di sedersi. «Le lezioni non sono ancora iniziate, quindi non può essere un’esercitazione andata male» rifletté ad alta voce.

«Esatto, bro. Hai una faccia» rincarò Grover. «Problemi in paradiso?»
Annabeth intercettò un’occhiata di Percy e scosse la testa. Il ragazzo sospirò, prima di mentire: «Pulire pavimenti fino a mezzanotte non è esattamente la mia idea di paradiso, bro. Siamo solo stanchi.»
Attaccarono a parlare di quanto quella punizione fosse immeritata e facesse schifo, ma Annabeth smise di ascoltare. Si perse a fissare i cereali che navigavano nella ciotola di latte davanti a lei. Erano a forma di anello, come la base spaziale del Campo. Il Campo e i suoi segreti.
«Guarda che non li puoi mica assorbire per osmosi, quelli.»
La bionda si riscosse alla voce dell’amica. «Mh? Ah, già.» Immerse il cucchiaio nella tazza, provocando onde sulla superficie del latte che sommersero i cereali.
Piper le rivolse un sorriso compassionevole. «Mangia, altrimenti ti addormenterai sui comandi e non potrai dare la colpa a Percy.»
Annabeth rimase spiazzata per qualche secondo a quelle parole, poi scoppiò a ridere. «Questo è uno dei consigli migliori che tu mi abbia mai dato.»
«Lo so. Ormai sta diventando difficile tenere il conto» replicando, gettandosi indietro i capelli, facendo finta di tirarsela. Abbassò la voce e continuò: «Comunque il ragazzo deve stare seguendo i tuoi, di consigli, visto che non vi siete schiantati una sola volta da quando siete una coppia.»
La bionda era sul punto di rispondere che non sarebbero mai diventati quel tipo di coppia, quando Percy intervenne: «Non mi piace questo tono cospiratorio, Mc Lean. Cosa complotti alle mie spalle?»
Piper gli sorrise in modo malizioso. «Cosa ti piacerebbe che complottassi?»
Annabeth gli lesse la risposta in faccia. Avrebbe potuto stamparla su una fascia e legarsela in fronte, tanto era ovvio. Un modo per salvarla dall’espulsione e, allo stesso tempo, salvare il seme di qualcosa di buono: le chiacchierate, le battutine, i ritrovi sicuri, le risate, l’inizio di un’amicizia.
Ma Percy non disse nulla di tutto ciò. Sfoggiò uno dei suoi sorrisi alla Jackson e, modulando la voce in modo che risultasse più squillante, rispose: «Ovviamente un modo per eliminare queste occhiaie terribili, tesoro. E tu?»

Annabeth si unì al coro di risate, ma non ci mise il cuore. Non ci riuscì.

 

Lei e Percy non parlarono molto durante la giornata. Ognuno aveva i propri rompicapi da risolvere, ognuno le proprie riflessioni da portare a termine. Eppure, Annabeth sospettava che se avesse condiviso i propri pensieri con il ragazzo, lui l’avrebbe ascoltata attentamente. Forse stava aspettando proprio quel momento e le stava lasciando spazio. Perché per quanto ci provasse, non riusciva a cancellare dalla memoria il suo ultimo messaggio.

thepercyjaxon: sei il mio copilota, dunque sono anche i miei problemi

L’aveva scritto prima di sentire tutta la storia, quindi era plausibile che dopo avesse cambiato idea e non volesse più stare dalla sua parte. Tuttavia, aveva visto il video. Aveva sentito parlare Luke, l’aveva guardato pregare che Olympus venisse abbandonata, e non era rimasto indifferente. Se il suo interesse era sincero, non poteva scomparire nell’arco di una notte.
Ciò che le premeva di più, però, era la questione Olympus. Annabeth aveva memorizzato tutto quanto riguardava l’ultima missione di Luke, nella speranza di scoprire la ragione per cui fosse scomparso, nome di azione compreso. Non ce ne sarebbe stato bisogno, ma aveva ricontrollato: la sua missione non si chiamava Olympus, bensì Flora V. Aveva senso, considerato che il team di scienziati era volato su Gaia per raccogliere campioni di minerali.
Quando aveva cercato Olympus, aveva trovato un file così spoglio di informazioni che era chiaro fosse una copertura. Aveva provato ad hackerare il sistema, ma i livelli di protezione erano talmente complessi che non ci era riuscita. Tanta segretezza era già indice di qualcosa di losco, qualcosa che il Signor D. e i professori, ammesso che ne fossero al corrente, non desideravano venisse alla luce.

Mentre l’insegnante di Elettrofisica proseguiva la sua spiegazione, Annabeth sollevò lo sguardo dagli appunti che stava prendendo e rivolse l’attenzione su Percy. Era un altro rompicapo, forse persino il più complicato.
Il suo compagno di banco strizzava gli occhi, quasi lo aiutasse a comprendere meglio il disegno del circuito sulla lavagna. Molleggiava la gamba destra, distraendo la parte del suo cervello che, a causa dell’AHDH, voleva essere distratta. Osservò il profilo delle spalle muscolose appena accennato dalla divisa bianca e arancione del Campo, i tratti del viso simmetrici, così in contrasto con i ricci neri che si ribellavano a ogni parvenza di ordine.

Cosa sapeva di lui? Poteva fidarsi—confidarsi? Era un altro rompicapo, forse persino il più complicato.
Percy Jackson. Record di schianti. Campione di sarcasmo. Intelligente, solo non nel modo convenzionale. Idiota, nel modo convenzionale. Lo conosceva abbastanza perché fosse suo partner, ma non abbastanza perché fosse suo amico. Alla fine, si riduceva a questo: Percy Jackson. Copilota.
Si erano affibbiati l’un l’altro quella definizione, con sprezzo o affetto a seconda del caso, come una moneta che al posto di testa e croce oscilla tra maledizione e benedizione. L’avevano lanciata in aria e girava ancora e ancora, dal momento in cui Chirone li aveva accoppiati. Impossibile predire quale faccia avrebbe mostrato quando si sarebbe fermata. In ogni caso, il legame che ora li univa era innegabile.
La domanda era: sarebbe bastato?
Il piano che aveva in mente era rischioso e divulgarne i dettagli lo era ancora di più. Annabeth si morse l’interno della guancia e distolse lo sguardo. Non era ancora giunto il momento di darsi risposta.

 

Al suono dell’ultima campanella, Chirone si materializzò all’uscita dell’aula, il suo personale giudice infernale. Annabeth venne assalita da un attacco d’ansia improvviso. L’angoscia si era fatta strada nel suo corpo durante il corso della giornata, logorandole le ossa e la mente. Era giunta a credere che la decisione sul suo futuro fosse stata rimandata, vista la mancanza assoluta di notizie. Prima di quel momento, ovviamente. Da qui l’ondata di subitaneo terrore.
Annabeth si mosse con una calma che non aveva, cercando di posticipare il più possibile, anche di un solo secondo, quell’incontro. Alla fine, l’incertezza non era così male, giusto? L’ansia mischiata alla paura stringeva i suoi intestini più saldamente di un bulldog il proprio osso, facendola sentire vicino al vomito.
Una mano calò sulla sua spalla e la strizzò, attenuando il malessere. La ragazza si voltò, incontrando lo sguardo di Percy.
«Andrà tutto bene» le disse, ma i suoi occhi verdi non splendevano come al solito, forse perché entrambi sapevano che probabilmente non sarebbe stato così. Ad ogni modo, apprezzò lo sforzo.
Chirone si avvicinò solo quando tutti gli studenti furono ben avviati lungo il corridoio. Gli bastò un cenno del capo per liquidare l’insegnante. La sua espressione era illeggibile, per quanto cercasse di mostrare il suo solito atteggiamento di quieta cordialità.
«Percy, Annabeth» li salutò. «Il consiglio è terminato. Sono qui per portarvi nell’ufficio del direttore.»
Quindi era più il suo speciale Caronte, che giudice infernale, rifletté la bionda. Si limitò ad annuire e seguire i suoi passi, preferendo concentrarsi sul tenere a bada l’ansia che sulle parole da usare.
Mentre percorrevano all’incirca lo stesso percorso della sera prima, Annabeth si scoprì a combattere un inaspettato fastidio. Perché era così nervosa? Quando si era inserita nel sistema di comunicazione del Campo per mandare un messaggio a Luke, sapeva che sarebbe potuto succedere. Sapeva perfino che avrebbero potuto scoprirla senza che il Primo Pilota rispondesse, rendendo la sua ricerca e, di conseguenza la sua punizione, inutile. Conosceva le regole e aveva deciso di infrangerle comunque. Luke era più importante.
Se venire sbattuta fuori la spaventava tanto, significava che si pentiva delle sue scelte? Che si pentiva di aver cercato una delle persone più importanti nella sua vita?

Diamine, no.
Avrebbe rifatto tutto daccapo, al diavolo dove quella decisione l’avrebbe portata. Quindi smettila di piagnucolare come una ragazzina e inizia ad assumerti la responsabilità delle tue scelte, Chase, si sgridò da sola. Spalle dritte, testa alta.
La sicurezza appena acquisita evaporò giusto un poco nel varcare la soglia dell’ufficio del Direttore. In ogni caso, ormai non aveva più senso dubitare. Era una questione di minuti e avrebbe scoperto se fosse giunto il momento di preparare le valigie. Oltre che fare la cosa più rischiosa della sua vita, ancora più rischiosa dell’hackeraggio. Parte dell’agitazione era dovuta anche a quello.
Il Signor D. sedeva alla scrivania. La giacca era la stessa, ma la camicia era diversa, con una fantasia maculata ancora più esuberante. «Avanti, avanti» li invitò sia con la voce sia con i gesti.
Chirone si andò a sistemare accanto al superiore, scambiando con lui uno sguardo che Annabeth non riuscì a interpretare. Il Direttore si schiarì la voce e appoggiò i gomiti sulla superficie liscia della scrivania, scrutando i due ragazzi di fronte a lui.«Sono certo che il mio qui presente collega preferirebbe una lunga introduzione e un elenco dei punti focali della discussione ci ha impegnato quest’oggi» iniziò, senza preoccuparsi di non lasciar trasparire la sua noia, «ma io non sono un amante delle chiacchiere e ho già dovuto sorbirne parecchie in un lasso di tempo decisamente ridotto. D’altra parte, non vedo l’ora di versarmi un bicchiere di Chardonnay per calmare il mio mal di testa.» Per un attimo, il suo sguardo si perse in lontananza, come se stesse già assaporando il momento. Dopo qualche secondo, tornò in sé e riprese: «Dunque, in seguito alle gravi infrazioni al nostro codice di sicurezza eccetera eccetera, Annabeth Chase, lei è tenuta a lasciare questa scuola.»
Annabeth sentì il fiato abbandonare i suoi polmoni. Accanto a lei, Percy divenne improvvisamente immobile. La ragazza se lo aspettava, ma la consapevolezza non rendeva il colpo meno duro. Fece appello alla propria forza e, in un sussurro, chiese: «Quando?»
«Domani» rispose il Signor D. con leggerezza.
Alche, Chirone intervenne, non prima di aver lanciato un’occhiata carica di significati all’altro. «Hai fino a domani mattina per fare i bagagli e salutare i tuoi amici. Qualunque spiegazione deciderai di dare, noi ti supporteremo. Capirai però che, per ragioni di sicurezza, non ti è permesso informarli del video. Per quanto riguarda i tuoi genitori, abbiamo già provveduto a metterli al corrente di tutto. Tuo padre ti aspetterà alla pista di atterraggio sulla Terra.» Sospirò, massaggiandosi la radice del naso. «Mi dispiace molto, figliola. Vorrei che tu mi credessi quando dico che ho fatto il possibile.»
Le sue parole la toccarono più di quello che si immaginava. Chirone era sempre stato gentile con lei, l’aveva tenuta d’occhio fin dal primo giorno. Nascose la mani sotto le cosce per non far vedere quanto tremassero. «Le credo» mormorò.
Percy non sembrava altrettanto convinto, perché borbottò qualcosa di incomprensibile e cambiò posizione sulla sedia, incrociando le braccia sul petto.
Il suo movimento catturò l’attenzione del Direttore. «Johnson, mi stavo quasi dimenticando di lei.»
«Non ne dubito, visto che si è già dimenticato il mio cognome» brontolò sottovoce, in modo che solo Annabeth riuscisse a sentirlo.
Nel frattempo, il Signor D. era andato avanti senza farci caso. «Non vogliamo che rimanga senza copilota per troppo tempo. Per velocizzare il processo, è libero di suggerirci dei candidati. Chirone prenderà nota.»
«Avremo modo di parlarne a fondo in seguito, ragazzo» aggiunse il centauro. «Adesso non è proprio il momento adatto.»
Percy annuì. «Già.»
Annabeth non avrebbe potuto aggiungere altro anche se avesse voluto, perché il Direttore premette un tasto per far aprire le porte dietro di loro e li congedò senza tanti giri di parole. Avrebbe giurato di averlo sentito discutere tra sé su quale annata scegliere.

Solo quando la porta si richiuse definitamente dietro di lei si concesse un lungo respiro. Era così concentrata sul riprendere fiato dopo un incontro che aveva vissuto praticamente in apnea, che le ci volle qualche momento per registrare la presenza di Percy.
«Cosa ci fai ancora qui?» domandò, stringendosi nelle spalle. «Hai sentito quello che hanno detto. Sei libero.» Un angolo della sua bocca scattò verso l’alto. «Pensare che una settimana fa ero io a volermi liberare di te…»
Credeva che il commento l’avrebbe fatto ridere, per cui rimase sorpresa nel non vederlo sorridere. Inclinò la testa di lato, osservandolo meglio. «C’è qualcosa che non va?»
«In realtà, sì» ribatté lui, il tono basso e vicino alla rabbia. «Dovrei essere io a farti questa domanda. Perché sei così tranquilla? Perché non hai cercato di ribellarti alla loro decisione? Perché non hai detto niente?»
Annabeth fece un passo indietro. «Avrei dovuto mettermi a urlare? Aggrapparmi con le unghie al pavimento mentre mi trascinavano via per dimostrare che ci tengo a restare al Campo?» Scosse la testa. «Non avrebbe cambiato nulla. È più sensato accettare il verdetto senza fare storie, mantenendo la dignità intatta.»
«Questo non spiega perché adesso, lontano dai loro sguardi, non stai dando sfogo alle tue emozioni» obbiettò il ragazzo, corrugando la fronte nello sforzo di comprendere ciò a cui ancora non arrivava.
La bionda sbuffò. «Semplicemente non sono il tipo emotivo.»
«No, non è questo.» Percy stava praticamente riflettendo ad alta voce. «Sei troppo calma. Non ti lasci andare a sfoghi passionali, è vero, ma sei polemica. Non accetti le decisioni e basta. Se non sei d’accordo, le contesti, non importa cosa ne potrebbero pensare gli altri. È quello che hai fatto quando mi hai visto davanti al simulatore di volo il primo giorno. È quello che hai fatto quando ti hanno detto che Luke era morto. Adesso non hai nemmeno aperto un dibattito. L’unica ragione che spiega perché ti comporti in modo strano, è che hai qualcosa in mente, un modo più intelligente per opporti.»
Annabeth si sentì improvvisamente esposta. Da quando il moro prestava tanta attenzione al suo comportamento? Fece un altro passo indietro, rendendosi conto troppo tardi che la sua assomigliava parecchio a una ritirata.
Si obbligò a guardare Percy dritto negli occhi e, le braccia incrociate sotto il seno, replicò: «Okay, è vero. Se non sono d’accordo con qualcosa o qualcuno, li contesto. Quindi forse sbagli a credere che non sia d’accordo con Chirone e il Signor D. Lanciando quel segnale ho messo in pericolo tutti quanti qui al Campo, te incluso. Forse è giusto che mi espellano per non aver usato la testa. Forse ti dovresti preoccupare meno di un mio fantomatico piano di ribellione e più a trovarmi un rimpiazzo.»

Percy le si avvicinò, annullando lo spazio che si era creato fra loro. La superava di diversi centimetri in altezza, ma Annabeth si rifiutava di essere intimidita dalla sua statura. Non ruppe il contatto visivo, osservando le sue labbra mentre formavano le parole seguenti. «Ma non mi sbaglio, non è così?» sussurrò il moro. «E il fantomatico piano di ribellione esiste, giusto?»
La pelle le prudeva, sempre più esposta, proprio come se Percy la stesse tirando fuori a forza dal suo guscio, mettendola di fronte alla verità. Era difficile mentire, quando lui sembrava averla capita così bene. Era difficile mentire, quando li separava meno di un capello.
«Sbagliato» rispose piano, sperando che la voce non la tradisse.
Dopodiché gli diede le spalle e si avviò lungo il corridoio.

 

Più tardi, Annabeth voleva colpirsi da sola. Era stata a tanto così da vuotare il sacco con Percy, dal raccontargli tutto quanto, eppure si era tirata indietro.
«Perché?» interrogò il soffione della doccia. «Perché?»
L’oggetto, però, rimase ostinatamente muto.
La ragazza sbuffò, frustrata. Percy aveva dimostrato di saperla capire—o almeno, capire la logica secondo cui agiva. Si era guadagnato la sua fiducia. E lei cos’aveva fatto? Gli aveva mentito. Aveva allontanato il suo unico possibile alleato, il solo che avrebbe potuto darle una mano.
Con un comando vocale, ordinò alla doccia di aprire l’acqua e poi si posizionò sotto il suo getto. Presto i suoi capelli biondi si appiattirono, rivelando la vera lunghezza dei ricci. Lasciò che le gocce scivolassero lungo il suo corpo, distendendo i muscoli in tensione e rischiarandole i pensieri.
Nonostante fosse completamente sola di fronte al destino che si era scelta, forse non coinvolgere Percy era stato meglio. È vero, il piano le dava conforto, ma non per questo l’espulsione faceva meno male.
Era costretta a dire addio a un luogo che amava e a un futuro da pilota che sognava da sempre. Era obbligata a separarsi da Piper, senza nemmeno poterle dire la verità. Molto probabilmente aveva deluso i suoi genitori. Non erano una famiglia molto legata—dopo la separazione tra Atena e Frederick, poco dopo la sua nascita, suo padre si era sposato con una donna che la disprezzava ed era riuscita nel distanziarla dal nucleo affettivo—ma, anche se deboli, quei legami esistevano e si facevano sentire. Considerando l’alta stima che entrambi avevano dello studio, vedere la propria figlia sbattuta fuori dalla migliore scuola del pianeta doveva assomigliare a un tradimento.
Annabeth era la prima a non voler percorrere quella strada, ma non aveva avuto scelta. Non avrebbe mai costretto nessuno a farlo, nemmeno Percy Jackson.
Uscì dalla doccia con la mente più tranquilla. Poi, diede inizio ai preparativi.
Riempì uno zaino di vestiti, evitando quelli che riportavano il logo del Campo e prediligendo capi tecnici e pratici. Per ultimo, infilò il cappellino degli Yankees che le aveva regalato sua madre anni prima. Controllò quanti contanti avesse con sé—quarantatré dollari e venticinque centesimi—e si morse le labbra, constatando che non erano molti. Avrebbe dovuto pensare al più presto a come procurarsene altri, se non voleva che la sua avventura si fermasse non appena il serbatoio si fosse svuotato. Si buttò lo zaino in spalla e, dopo aver osservato la stanza in cui aveva dormito negli ultimi mesi, uscì.

La prima tappa consisteva nelle cucine. Era più o meno sicura che nessuno si sarebbe aggirato nei dintorni nel mezzo della notte, per cui era più preoccupata che qualche nottambulo la notasse gironzolare nei corridoi con aria sospetta e pensasse di fermarla. Si mosse veloce e silenziosa, le suole delle sneakers a malapena toccavano terra. Ma non poteva nascondersi dalle luci che illuminavano la base ventiquattr’ore su ventiquattro, l’unica fonte di visibilità in un mondo altrimenti immerso nell’oscurità.
Tirò un sospiro di sollievo quando arrivò in vista della mensa. L’ambiente appariva ancora più grande del solito, i lunghi tavoli vuoti e le sedie libere invece che occupate dai ragazzi e i loro pasti. Annabeth si diresse verso il bancone dove di solito veniva disposto il buffet e lo scavalcò senza difficoltà.
Sapeva che le telecamere avrebbero ripreso ogni sua mossa, ma per lei non faceva alcuna differenza. Aveva già un piedi fuori del Campo. Il trucco era essere abbastanza veloce da prendere ciò che le serviva e andarsene prima che la beccassero. Non sapeva ogni quanto fossero analizzati i filmati e sperava vivamente che non ci fosse qualcuno a guardarla e dare l’allarme in quell’esatto momento.
Oltre il bancone, si trovava l’ingresso alle cucine, due porte da cui le arpie entravano e uscivano con il cibo pronto. Naturalmente era necessaria una chiave d’accesso per aprirle. Ma Annabeth era riuscita ad entrare nel sistema di comunicazione del Campo Mezzosangue; recuperare quella password era decisamente più semplice. Prese in mano il cellulare e iniziò a digitare sulla tastiera. Cinque minuti dopo, aveva trovato il codice in uso e lo stava inserendo nel pannello accanto alla porta. Era progettato per chiudersi automaticamente dopo dieci minuti, per cui impostò un timer e varcò la soglia.
Evitò le sagome scure di forni e fornelli, addentrandosi nelle cucine. Sentì un rumore simile a un risucchio vicino a lei, ma quando si fermò a controllare non vide nessuno. Non aveva tempo da sprecare, per cui liquidò la faccenda con una scrollata di spalle e si affrettò a raggiungere il retro del locale. Finalmente trovò armadietti e scaffali dove erano stipati scatolette e ogni tipo di verdura cresciuta nella serra artificiale del Campo. C’erano persino delle fragole, peccato che non fossero adatte a un lungo viaggio nello spazio.
Annabeth aprì lo zaino e vi infilò diverse razioni di cibo liofilizzato, barattoli e bevande energetiche. Non aveva idea di quanto sarebbe stata lontana, quindi prese il più possibile. Rubò il più possibile. Scacciò il senso di colpa prima che potesse fare presa su di lei.

In quel momento, udì di nuovo lo strano risucchio e si immobilizzò. Davanti a lei c’era una casa zeppa di patate. Lentamente, ne afferrò una e disse ad alta voce: «So che ci sei. Smettila di nasconderti.»
Questa volta, il risucchio fu seguito da un sospiro. Annabeth corrugò la fronte, mentre un terribile sospetto si faceva strada dentro di lei. Il tubero ancora in mano, si voltò.
Le sue prime parole furono uno sbuffo esasperato. «Oh, no. Non tu.»
Percy Jackson abbandonò la protezione che gli offriva uno scaffale carico di manzo in scatola e uscì allo scoperto. Le sue scarpe produssero quello strano rumore a contatto col pavimento piastrellato. «Vorrei poter dire che mi aspettavo un’accoglienza migliore» esordì, «ma in realtà temevo di peggio.»
Annabeth fu tentata di scagliargli addosso la patata che stringeva tra le dita per dimostrargli che il peggio doveva ancora arrivare. Andò dritta al punto. «Mi stavi seguendo?»
Il moro non si prese nemmeno la briga di fingere. «Già.» Al suo sopracciglio inarcato, articolò: «Siamo nel 2078, Sapientona. Localizzare un cellulare è un gioco da ragazzi.»
Diavolo, se aveva voglia di colpirlo in fronte con la verdura. Tuttavia, una piccola parte di lei era contenta che fosse lì. «Finiamo questa conversazione fuori da qui» ordinò, mettendosi lo zaino in spalla e ritornando sui suoi passi.
Percy fu subito dietro di lei e, insieme, misero quanta più distanza possibile tra loro e il misfatto prima di procedere nella discussione. Quando si fermarono, le luci sopra di loro erano gialle a indicare la vicinanza alle palestre.
«Non mi hai creduto» disse Annabeth, dopo essersi assicurata che non ci fosse nessuno.
Il ragazzo ghignò. «Sei una brava bugiarda, te lo concedo. Solo uno migliore di te ti avrebbe scoperto. Per tua sfortuna, io sono un bugiardo fenomenale.»
«E modesto» borbottò la bionda. «Va bene, sei qui. Ora cosa pensi di fare?»
«Voglio sentire il piano da te» rispose. «Poi, voglio farne parte.»
Solo allora Annabeth notò che anche il suo compagno aveva uno zaino con sé, e il sospetto si concretizzò in un malessere. Iniziò a scuotere la testa e muoversi a scatti, agitata. «Ti racconterò tutto, ma non posso coinvolgerti» ribatté. «Non posso.»
«È una mia decisione» replicò Percy serio. Le mise una mano sulla spalla, bloccando i suoi movimenti. «E voglio conoscere i dettagli prima di prenderla.»
Annabeth sospirò, ma smise di opporre resistenza. «Luke Castellan è da qualche parte ed è vivo, Percy. Non posso ignorarlo, neanche se volessi, neanche dopo la lezione di storia di Chirone. In più, ci sono molte cose che non tornano.»
Prese fiato e continuò: «La possibilità che Luke fosse vivo è sempre esistita, il problema è un altro. Il nome della missione di cui faceva parte è Flora V, invece lui ha parlato di Olympus. Ho controllato, e il file Olympus è palesemente una copertura. Stando a quei dati, non avrebbe senso temere per la nostra sicurezza. Hai sentito cosa mi ha risposto il Signor D. quando gli ho chiesto di cosa si trattasse. Informazioni riservate, o sarebbe meglio dire segrete. Così segrete che Chirone non vuole che nessuno al di fuori di noi due le conosca.»
Alzò lo sguardo, incontrando quello del ragazzo. Vide che le credeva e proseguì. «Mi sono messa a cercare Luke perché non potevo accettare che fosse morto. Ma adesso non si tratta più solo di lui. Voglio ritrovarlo, certo. Non sono riuscita a dimenticarlo prima e sicuramente non ce la farò ora, quando so che è vivo. Ma voglio, anzi, ho bisogno di scoprire la verità. Il Direttore e Chirone ci stanno tenendo nascosto qualcosa di grosso. Solo Luke può dirci cosa. Se Olympus è davvero pericoloso come credono, solo in quel caso, mi tirerò indietro e comunque non prima di aver detto addio come si deve al mio migliore amico.»
«Dunque hai intenzione di fare provviste, rubare un’astronave e andare a cercarlo?» completò Percy.
«Avevo anche intenzione di procurarmi un’arma, ma… essenzialmente, sì, è così.»
Il moro si umettò le labbra e sorrise. «Pensa a tutto il divertimento che mi sarei perso se ti avessi creduto» commentò con ironia. «Ci sto. Sarò il tuo complice.»
«No» ribatté Annabeth, in un tono che sperava suonasse perentorio. «Io sono stata espulsa. Non ho niente da perdere. Tu, al contrario, hai tutto. Non posso permetterti di stravolgere la tua vita per una missione in cui non credi e che probabilmente non avrà neanche successo.»

«È qui che ti sbagli.»
Percy alzò una mano per prevenire una replica.
«In questa missione ci credo, perché ho guardato il video. Ho visto un ragazzo poco più grande di me, un ragazzo che ammiravo, risorgere dalla tomba e ho visto un uomo di cui mi sono sempre fidato dirmi che non l’avrebbe aiutato. Vorrei poter credere ciecamente alle sue parole riguardo la protezione del Campo e della Terra, ma la verità è che non ci riesco, ancora di più dopo le ragioni che hai appena elencato. Non sono capace di non fare niente, se so che c’è la possibilità di salvare una vita. Poi te l’ho già detto» la guardò, inchiodandola al posto col suo sguardo penetrante, «i tuoi problemi sono i miei problemi, copilota. Non ti lascerò volare da sola.»

Annabeth deglutì, colpita. «Cosa dirà tua madre?» domandò soltanto, ricordando le conversazioni che avevano avuto in passato sulle rispettive famiglie.
Percy non lasciò che la domanda scalfisse la sua determinazione. «Mamma capirà perché l’ho fatto. Sa che ciò che sembra impossibile raramente lo è» ribatté. «Ma sarebbe comunque meglio se riuscissimo a trovare Luke.»
Il commento le strappò una risata. «Okay.»
«Okay» le fece eco il ragazzo, sorridendo. «Qual è il prossimo passo, copilota?»
«Il prossimo passo, copilota» rispose Annabeth, sentendo un sorriso aprirsi sul suo viso, «credo ti piacerà.» Fece una pausa ad effetto, prima di aggiungere: «Andiamo a rubare una pistola laser.»




Angolo dell'autrice:
Questa volta è importante, quindi dedicami altri due minuti del tuo tempo, lettore, e risparmiati numerose domande in seguito.
Le vacanze sono arrivate anche per me. Questo significa che 1) avrò meno tempo per scrivere e 2) connessione a internet orribile, che equivale a rallentamenti nell'aggiornamento. Farò comunque del mio meglio, ma lettore avvisato, mezzo salvato.

Avrei voluto arrivare fino alla vera e propria partenza, però il capitolo si stava facendo lungo e non l'avresti visto nascere prima di mooolto tempo, quindi la Svolta verrà rimandata.
Fatemi sapere cosa ne pensate (ehi, non avrete a che fare con me per un po', accontentatemi) un bacio a tutti e buone vacanze!

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