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di Anya_tara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Londra, aeroporto di Stansted
Ore 00:20
 
In perfetto orario, l’aereo tocca il suolo inglese. Con non molta dolcezza, in verità; il contraccolpo mi fa sussultare, ma è un bene, almeno mi sveglio un po’. Due ore di differenza cominciano a pesare sul mio fisico, senza contare ch’è dalle due di ieri pomeriggio che sono in viaggio. Prima un’ora e mezzo di treno, mezz’ora per la navetta fino in aeroporto, e un’attesa snervante per l’imbarco. Poi il volo con qualche scossone, che improvvisamente mi ha fatto tornare credente e molto praticante, per giunta. 
E adesso, finalmente, Londra.
Credo che non dimenticherò mai lo spettacolo che mi si è presentato davanti agli occhi – anche se appannati dalla stanchezza. Un oceano di luci, rosse, dorate, arancioni e blu. Come nugoli di stelle raccolte in galassie.
Nonostante tutto non posso fare a meno di considerarlo come un buon auspicio.
Un po’ meno la voce allegra, sensuale che mi canta nelle orecchie. Mi è vagamente familiare, però devo sfilare il cellulare dalla tasca e controllare a chi appartenga.
San erthei i mera, Ivi Adamou di insieme a Stavento. La conosco, bella fi … ehm, ragazza, ma non è il genere che di solito ascolto io. Proprio no.
Ma come cavolo ci è finita, questa canzone nel mezzo? In questo momento poi, che sono davvero lontano chilometri da casa. E queste parole minacciano di mandarmi in depressione, ora più che mai.
Ma ora basta. Sfilo gli auricolari, e appena il segnale di cinture allacciate si spegne, mi libero, pronto a scattare.
La voce metallica della hostess negli altoparlanti dà il benvenuto, e le ultime informazioni ai passeggeri. E’ un peccato: dal vivo è molto più gentile. Mi alzo, recuperando i miei bagagli a mano; e percorro il corridoio come in sogno, ancora intontito.
Quando passo davanti al gruppetto degli assistenti di volo però riesco ad abbozzare un sorriso, e le due di sesso femminile fanno altrettanto. Una delle due, Diana, dice la targhetta sul bavero della divisa, mi chiede addirittura com’è stato volare con loro.
<< Magnifico, grazie >>.
Lei sorride più visibilmente. I due maschi, invece, mi guardano di traverso, con aria di sufficienza.
Ma ci sono abbastanza abituato. D’altronde, non ha fatto che passare e ripassare dal mio posto, domandandomi se non gradissi qualcosa di caldo, da leggere, o da sgranocchiare.
Non fosse per il mio senso dell’onore, avrei sperimentato volentieri l’ebbrezza del celebrato “sesso ad alta quota”. Ma non ho più diciott’anni; e inoltre, se sono qui è proprio perché devo dar prova della mia maturità.
Con un saluto gentile, imbocco la porta e scendo la scaletta. Appena tocco terra guardo in alto: mi fa effetto pensare che fino a pochi minuti fa ero lassù, sopra le nuvole, e adesso invece sono qui.
Welcome, Alexandròs, dico a me stesso, respirando a pieni polmoni l’aria fredda e umida della notte londinese.
Poi mi riscuoto, e raggiungo la navetta che mi condurrà all’interno dell’aeroporto. Dentro mi aspetta Milo: il mio migliore amico.
La nostra è una lunga storia di sbronze adolescenziali, nottate di rimorchi e casini a non finire. Ci conosciamo dalle medie: veramente non sempre siamo stati culo e camicia come per un certo periodo, anzi, sarei stato disposto a giurare che mai e poi mai avrei stretto amicizia con uno di quella fatta, che portava i capelli biondi e ondulati lunghi sulle spalle e si vestiva come fosse scampato ad un’apocalisse nucleare. Poi col sopraggiungere della pubertà ci siamo ritrovati ad avere degli interessi in comune, e – più da parte sua, che dalla mia, devo essere sincero- si è reso conto che gli conveniva avermi come amico, piuttosto che come rivale.
L’interesse in comune? Ragazze. Ovvio.
All’inizio del ginnasio ci siamo ritrovati i tanti di quei casini ch’è un miracolo se abbiamo ancora braccia e gambe al loro posto. Un paio di volte veramente ce le hanno anche suonate, perché avevamo la pessima abitudine di puntare le ragazze più grandi, di terzo o addirittura quarto.
Non che questo ci abbia mai fermati. Al contrario: se c’è una cosa in grado di farmi uscire dai binari della ragione, sono appunto le sfide. Di qualsiasi genere: si tratti di una partita di calcio, di un manuale d’istruzioni o anche solo di un sudoku sul giornale.
Ed è stata una sfida anche questa. Quanto meno una delle ragioni che mi hanno spinto a venire fin qui. Forse una delle più pressanti.
Purtroppo però Milo è un valente avversario, in questo. Se si mette in testa una cosa è difficile riuscire a smuoverlo dal suo intento.
E questo mi ha messo su un attimo d’incertezza, in verità: da quando gli ho detto che avevo deciso – perché mai ammetterò che è stata praticamente una scelta forzata- di venire in Inghilterra, a frequentare l’Erasmus, lui si è messo a fare il conto alla rovescia sperando di rinverdire i bei vecchi tempi andati del liceo. Ho cercato di spiegargli che non sono più quella persona, che ho messo la testa a posto: ma dubito che ci creda granché. Mi auguro che vedermi gli faccia cambiare idea una volta definitiva.
Anche se … be’, in realtà, ad essere onesto … non è che in questo momento sia tutto rose e fiori come dovrebbe essere.
E no, e che, ricominciamo?
Subito scaccio via questi pensieri al limite della depressione. Sono a Londra, no? E basta, al diavolo il resto. E’ un’ottima occasione per risistemare anche quello.   
Accendo il cellulare, reggendomi con la spalla ad uno dei vetri del bus-navetta.
E comincia a suonare.
Tutti mi guardano malissimo, anche se nessuno dice niente. E per un attimo mi pare siano tornati i tempi del liceo. << Ehm … sorry >>, mugugno, azzittendo la suoneria. 
Ma forse dopo un volo di tre ore, anche una sinfonia di Bach non sarebbe gradita. Forse neanche le ninne-nanne sarebbero gradite.
Però. Quattro minuti e mezzo, e già sono riuscito a far irritare un intero bus-navetta. Un record.
Forse dovrei prendere in considerazione l’idea di iniziare a fare lo steward anch’io. Almeno ad alta quota sono riuscito a non dare ai nervi a nessuno. 
Se Dio vuole scendiamo, e mi trascino dietro il borsone. I messaggi continuano a fioccare, sono costretto a fermarmi per digitare il numero di Milo, e intralcio il passaggio a tutti gli altri che corrono come dovessero fare i centodieci ostacoli alle Olimpiadi. Quasi istantaneamente vengo travolto dall’ondata dei miei compagni di volo: io, che da bravo greco me la stavo prendendo comoda a momenti finisco schiacciato nella calca, e sì che non passo inosservato, non fosse altro che per il metro e ottantacinque di cui Madre Natura mi ha generosamente rifornito.
Dopo ventimila “sorry”, e diciotto tentativi falliti finalmente riesco a prendere la linea.
Ma non risponde. Tipico di Milo.
Non è cambiato per niente, malgrado siano trascorsi quattro anni. Subito dopo il diploma, la famiglia di Milo si è trasferita in Francia, per lavoro; abbiamo continuato a sentirci, anche se a vederci soltanto per le vacanze estive, quei quindici giorni in agosto o giù di lì.
Quest’anno poi non è potuto venire affatto, perché ha scelto di trascorrerle qui in Inghilterra, per un corso avanzato di lingua. Di quale genere fosse poi questa lingua, non oso immaginarlo. Fatto resta che avrei dovuto serbargli eterno rancore per aver mancato l’appuntamento di ogni anno da quando eravamo ragazzini; e invece gliene sono stato grato, così non ho dovuto ritrovarmi diviso tra lui e … il resto.
Chiaro che col senno di poi sarebbe stato meglio che mi avesse raggiunto. Ma il senno di poi è come il latte versato: non serve più a un cavolo.
Ora è in Erasmus, così quando gli ho detto, “casualmente”, che anch’io mi stavo preparando a partire, ma non ero sicuro che avrei scelto Londra, mi ha fulminato via Skype con il suo solito tono invelenito: << Ti meriteresti che ti levassi il saluto! >>.
<< Dai, che scherzavo >>.
<< Ci mancherebbe! Anche perché se vieni qui, ovviamente stai con me >>.
<< Spiacente, Milo, ma non credo di essere pronto ad un così grande salto … >>.
<< Coglione, che hai capito? >>.
<< Cioè ma insomma, non capisci più neanche quando scherzo? Vedi che succede a non rinfrescarti il cervello dallo smog, quelle due settimane l’anno? >>.
<< Falla finita. E datti una mossa, che questo è l’Eden >>.
Eden o no, mentre cammino mi rendo davvero conto di essere solo in un mondo estraneo. Tutti corrono, ti urtano e mormorano un “sorry” che ripeteranno appena dieci centimetri dopo, al prossimo malcapitato. Mi sento una specie di alieno appena sbarcato sulla Terra, e per un attimo mi trovo spaesato, smarrito, un imbecille piantato nel mezzo con un borsone e uno zaino.
Per fortuna ho messo la giacca, la temperatura è davvero molto differente da quella che ho lasciato in Grecia. Ad Atene c’erano ben sedici principeschi gradi; qui forse a malapena sette.
Al controllo passaporti fisso l’omone baffuto dietro la scrivania, che squadra la mia carta d’identità e poi me, poi di nuovo la foto e ancora me. Cioè, è vero che devo avere la faccia sconvolta e due occhiaie da far paura, ma l’ho rinnovata appena due mesi fa, penso mi somigli.
<< Alexandròs, Diamantis. From Kalliniki, Greece >>, dice.
<< Yes >>.
<< Okay. It’s all right >>. Mi restituisce la carta, congedandomi con un gesto della mano. Sono così confuso che invece di rispondere “Thank you” mi viene fuori “efcharistès”, e passo oltre.
Seguendo i cartelli vado al recupero bagagli. Attendo che il mio trolley scorra sul carrello, lo recupero e adesso mi decido a controllare il cellulare.
Ventisei messaggi, tra ordinari e whatsapp. Il più recente è un vocale di Milo: “ Dove sei?”.
“Appena arrivato”.
“ Mi trovi alla caffetteria Friska, se tardi altri cinque minuti mi fai un favore. C’è una banconista particolarmente carina, vorrei vedere di rimediare il suo numero prima della tua apparizione, sai”.
Sorrido. “Stronzo. Lo sai che non risolverai nulla, lisciandomi l’ego. Comunque sto arrivando, ordina un caffè, giacché ci sei”. Meno male ch’era in greco, almeno non dovrò preoccuparmi di fare figure del cavolo appena sbarcato.
Ed ecco spiegato perché non rispondeva al telefono. Era impegnato, il bastardo.
Riesco a destreggiarmi tra i corridoi, e quando intravedo tra le panche gremite di avventori e viaggiatori l’inconfondibile chioma bionda di un tizio in piedi davanti alla cassa ritrovo tutto il mio spirito. Gli arrivo di soppiatto alle spalle, e riesco a sentirlo che fa lo spiritoso con quella che dev’essere la banconista. In effetti è molto carina, è truccata con garbo, e ha un tatuaggio sull’avambraccio, una specie di fiore con un piccolo uccello che lo tiene nel becco. Una lunga treccia biondo rame su una spalla che ricade sulla maglia verde bosco, coprendo per metà la targhetta col nome; e non riesco a leggerlo.
Lo so, è più forte di me. I nomi mi danno stabilità. Conoscere il nome di una persona è già un po’ come conoscere lei, e se magari mi piace anche come suona, o per il suo significato è facile che mi vada anche più a genio la persona stessa. E i particolari: un buon odore, un taglio o un colore di capelli o di occhi che m’incuriosisce, anche un tatuaggio. Ad esempio questo è molto bello, chissà che significato ha per lei.
E poi a volte, certe cose sono un segno. Qualcuno direbbe che sono superstizioso, forse è solo il comodo alibi che ho usato tutta la vita per giustificare la mia, come dire, vivacità. Il mio cognome significa “indomabile”, per cui mi è sempre venuto facile attribuirgli la colpa delle mie “scelleratezze”. Chiaro che è appunto un pretesto: lo portiamo in tre, in casa, e io sono l’unico ch’è venuto fuori così.  
La ragazza mi scorge, sorride e inclina la testa, la treccia si scosta e finalmente leggo: Kayleigh O’Donnell. Ha origini irlandesi, dunque, come me. In realtà ho solo una traccia di sangue celtico nelle vene: la mia nonna materna era originaria di un posto sperduto nelle verdi campagne dell’Eire. Ma è bastato per farmi ereditare alcuni tratti somatici tipici, un amore smisurato per le leggende dei Sidhe, e una conoscenza approfondita d’irlandese e inglese.
Non posso davvero non considerarlo come un segno. Non come lo intenderebbe Milo, ma che sta andando tutto nel modo giusto, e ho fatto bene a prendere questa decisione.
Milo ancora non si è accorto di me, tutto intento a flirtare con la giovane, che sembra anche un tantino in difficoltà. Curioso caso, anche lui non è del tutto greco: suo padre è scozzese, anche se è cresciuto a Malta; di nobile discendenza, per giunta. Eppure si comporta come un imbecille qualsiasi.
Provo quasi vergogna io al posto suo. Così decido di rivestirmi della scintillante armatura, e liberare la povera ragazza dalle maldestre manovre di seduzione del mio amico battendogli sulla spalla.
<< Philòs! >>, grida, abbracciandomi. Kayleigh mi rivolge un sorriso grato, che ricambio.
<< Milo … allora, hai ordinato i caffè? >>.
<< Be’, veramente … >>.
<< Sì, vabbé. Faccio io >>. Mi volto nuovamente verso la ragazza. << Two coffees, please >>.
<< Just a minute, mister >>. Si allontana, lasciandomi solo con il mio amico.
<< Fatti guardare … cazzo, come sei ridotto. Hai fatto benissimo a venire qui, ci penso io a metterti in sesto >>, sbotta, squadrandomi da capo a piedi. E’ come se ci fossimo lasciati una settimana fa. << E la vampira? >>.
<< Ah, Mi … non essere sgradevole già fin d’ora. Si chiama Shaina, non te lo scordare >>.
Lui fa un cenno di sufficienza. << Sì, okay. Shaqualcosa. Per me è una vampira, punto. Se ha fatto qualcosa di buono, è stato convincerti a venire qui >>.
<< Non è stata lei a convincermi. Ho deciso io di farlo, sai che sogno da sempre di venire in Inghilterra. E poi mi serviva >>. Ci sediamo ad un tavolo libero. <<  Tra l’altro devo anche perfezionare la lingua >>.
<< Altroché. Non ti preoccupare, ora hai il tuo Milo, vedrai che tra qualche settimana saprai fare magie … devi solo togliere un po’ di ruggine >>.
<< Milo. Non ricominciare >>.
<< Ah, che palle >>.
Kayleigh ci serve i caffè, e mi sorride nuovamente nel posarmi il bicchiere di carta davanti. Non so cosa voglia dire il suo nome, ma conto di darci un’occhiata appena si calmano le acque.
<< Te l’ha dato il suo numero, poi? >>.
<< Macché. Sei arrivato troppo presto >>.
<< Visto? Non mi dovresti incoraggiare, sennò ti rovino la piazza >>.
<< Mhmm. La piazza è sempre abbastanza grande, lo è stata Kalliniki, figurati Londra >>, osserva lui, zuccherando il suo caffè al limite del coma diabetico. << Ehi, ti ricordi di Dafne? >>.
E come no. Dafne Kalligaris, soprannominata Lythos, la ragazza che diceva a tutti di no. Sono bastati due giorni, e tutte le sue convinzioni al riguardo sono finite in un soffio. << Che c’entra. E’ stato tanti anni fa … e non ne vado fiero >>.
<< Sì, troppo ci credo. Non è quello che mi ricordo io, invece >>, mi fa notare. E a ragione: ma non ci tengo a rivangare questi episodi del passato.
<< E comunque non siamo andati fino in fondo >>.
<< Perché non hai voluto tu. Ma se schioccavi le dita, ti dava quello e altro >>.
<< Sì, okay, ma parliamo un po’ di cose sensate, adesso. Allora, come funziona, da te? Devo pagare in anticipo, o a fine mese? No perché, te l’ho spiegato, ho solo i miei fondi personali a cui attingere, per cui devo cominciare a capire come muovermi. So che qui non è come Kalliniki, per cui … >>.
<< Eh .. già >>, fa lui. E di colpo si fa evasivo.
<< Mi? >>.
<< Non hai … ricevuto il messaggio? >>.
<< Messaggio? Che messaggio? >>.
<< Quello che ti ho inviato … stamattina >>.
<< Sì, ma tra una cosa e l’altra mi è passato di mente, e non l’ho letto. Perché, che è successo? >>.
<< Che … ecco … hai presente Marit? La ragazza che doveva lasciare l’appartamento? >>.
<< Eh sì, eh! E’ appunto per questo che sono venuto tranquillo. Mi hai detto che lei se ne andava a convivere e io subentravo >>.
<< Non … insomma … ecco .. >>.
<< Mi, non portarmi in giro >>.
<< Ma niente. Lei e il suo ragazzo … hanno avuto una piccola crisi >>.
<< Di che genere? >>.
<< Che l’ha piantata. All’ultimo momento non se l’è più sentita di andare a vivere con lei … e l’ha lasciata con un messaggio >>.
<< Oh porca miseria … Milo! >>.
<< E io ti ho avvisato! Ma non ti preoccupare, vuol dire solo che ci vorrà qualche giorno >>.
<< Qualche giorno? Ma sei scemo? Hai detto che l’ha piantata! >>.
<< Sì, ma è appena appena un attimo di debolezza … sai come siamo noi uomini >>. Manda giù un sorso di caffè. << Tanto un paio di settimane al massimo e si fa di nuovo vivo, vedrai >>.
<< Un paio di settimane?! >>. Sospiro. Mi tocca fare buon viso a cattivo gioco. << Okay, va bene. Se hai una brandina posso accontentarmi … >>.
<< Ehm… questo è un altro problema. Stanno girando un sacco di controlli di questi tempi, fanno ispezioni sanitarie a sorpresa. A quanto pare, c’è stata un’invasione di cimici in diversi quartieri, e qui non è come a casa … noi abbiamo solo lo stretto necessario, riguardo ai posti letto. La proprietaria è categorica >>.
<< Ma se è solo per qualche giorno … >>.
<< No, mi spiace >>. Sorride, l’infame. << Ma sereno. Ti ho fissato un posto letto in un ostello, davvero buono, sopra gli standard. Conosco una delle ragazze che ci lavorano, puoi stare tranquillo. Offro io >>.
<< Senti, Mi … >>.
<< No, davvero. Non era previsto ma ehi, ormai sei qui, no? Ti chiedo solo un po’ di pazienza. Non muore nessuno se per qualche giorno stai in un ostello, no? >>.
E no. tanto non ho altra scelta, a parte ritornare a Kalliniki.
Ma piuttosto vado a dormire sotto il Tower Bridge. Coi corvi che mi svolazzano intorno alla testa, pronti a beccarmi gli occhi. << Va bene >>.
<< Lo sapevo, io >>. Milo mi batte la mano sulla spalla, quasi mi fa rovesciare addosso il caffè bollente. << Sono o non sono il tuo Mi? Ci penso io a tutto, tranquillo >>.
 
Angolino di Anya: allora, chiedo immediatamente perdono, così, a prescindere; non so nulla di Erasmus, corsi di studio, nemmeno di Università, quindi mi dovrete perdonare tutte le licenze che mi prenderò in questa storia. L’incipit è ispirato alla trama di “L’appartamento spagnolo”, non so quanti di voi l’abbiano visto, ma il protagonista si ritrova a dover partire per Barcellona a seguire un corso di estrema importanza per la sua carriera, anche se lui sogna di diventare uno scrittore; qui, lontano dalla fidanzata, si ritroverà a condividere gioie e dolori dei suoi coinquilini. In effetti all’inizio dovevo ambientarlo a Barcellona, ma poi sono stata a Londra, e ho capito che poteva essere solo quella, la città perfetta.
Il brano, San erthei i mera, è di Stavento e Ivi Adamou, com’è appunto riportato. Ed è stato un autentico colpo di fortuna, quando si dice la cosa giusta al momento giusto. Vi invito a cercare la traduzione, non la posto io perché lo sapete, sono perfida! XDXDXD
Mi raccomando, per reclami-suggerimenti-correzioni ecc, ecc, sempre a disposizione!
Bacioni,
Anya

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Capitolo 2
*** 2. ***


Ci penso io a tutto un cazzo.
Sei notti. Sei maledette notti insonni, casino, bagni lerci, gente che entra ed esce sbattendo le porte.
E nessuna buona notizia. << Sai come sono le ragazze. Non ce l’hanno fatta a mandarla via in questo stato … e che vuoi farci? Dai, fratello, un altro po’ di pazienza >>.
Ne ho già avuta fin troppa. La settima notte, esasperato, decido che in un modo o nell’altro devo andarmene da qui.
Mi presento in facoltà che sembro un zombie, praticamente barcollo da un angolo all’altro senza riuscire a capire cos’è che sto facendo. Ora come ora ci vorrebbe un caffè, anzi magari anche un paio.
Senza volerlo urto qualcuno. << Sorry >>, borbotto. Ma appena mi accorgo ch’è una ragazza, sorrido. << Oh, excuse me … >>.
<< Tranquillo >>, replica lei in un ottimo greco. E rimango di sasso.
<< Come hai fatto a capirlo? L’accento? >>. E io che sono sempre andato fiero della mia pronuncia.
<< No, è che ti ho sentito imprecare, prima. Quando hai sbattuto il piede contro la porta >>.
<< Cavolo >>. Meno male che credevo di non correre rischi, tirando giù qualche santo in greco.
Evidentemente le precauzioni non sono mai sufficienti, nemmeno qui. << Mi dispiace >>.
La giovane sorride. << Ho visto che stai un attimo perdendo colpi. Fuso orario? >>.
<< Ostello >>, replico. E lei risucchia l’aria tra i denti. E’ carina, di statura media per essere una donna, e ha dei begli occhi nocciola dorato, le lentiggini sul nasino che arriccia in una smorfia che fanno il paio con i capelli rossi e ondulati, lunghi fino alle spalle.
<< Brutta storia. Ci ho passato una settimana appena arrivata, e ho deciso ch’era meglio dormire nella stazione della metropolitana >>.
<< Amen >>.
Ride, porgendomi la mano. << Larissa >>.
<< Ah, ti chiami come la città >>.
<< No, sono di Larissa >>, spiega, sorridendo di nuovo. Io storco le labbra, imbarazzato. << Mi chiamo Alyké Kouranaki >>.
<< Alexandròs Diamantis. Di Kalliniki >>.
<< Temo di non averlo mai sentito nominare >>.
<< Buon per te >>. Poi di colpo mi sovvengono le buone maniere. Vedi a praticare Milo cosa succede: diventi uno zoticone peggio di lui. << Posso … offrirti un caffè? >>.
Lei si stringe nelle spalle, si mordicchia un labbro. << Grazie, ma sono già in ritardo. Comunque, se accetti un consiglio, va’ a dare un’occhiata nella bacheca giù all’entrata. Ci sono un sacco di occasioni, io ho trovato così un posto letto >>.
<< Ed è buono? >>.
<< Sì, molto. Ti aiuterei, ma come ti ho detto, sono già in ritardo >>. << Be’, allora … ci vediamo. E … ricordati che mi devi un caffè >>.
<< Se trovo casa, ti offro un’intera colazione >>.
Ride ancora, e annuisce. << Ci sto >>. Si allontana velocemente, la cartella che sbatte ritmicamente sul fianco ad ogni passo.
Però. Carina.
Ma inaccessibile. Come qualsiasi altra ragazza, d’altronde.
Torno in aula e aspetto con pazienza la fine della lezione, che seguo piuttosto svogliatamente. Senza sonno non connetto, e ho già accumulato arretrati per un paio di mesi.
Dopo aver segnato appunti più in arabo che in inglese sul taccuino, finalmente mi alzo e corro di sotto, raggiungendo la bacheca. Scarto immediatamente un buon settantacinque per cento degli annunci: troppo cari. Mi rifiuto categoricamente di rivolgermi a chicchessia per i liquidi, devo tirare sul mio, già scarsetto dopo l’irragionevole spesa per quella maledetta moto che adesso mi sembra la gran cazzata della vita. Forse dovrei chiamare casa e dire a pà di venderla … ma me la valuterebbero quattro soldi, e lui non se ne intende di certe cose.
Raccatto una decina di numeri di telefono, e appena uscito mi attacco a manetta a chiamare a destra e manca. Già nel primo pomeriggio fisso tre appuntamenti, che però vanno di merda: non sono puntiglioso, ma andare ad abitare in un quartiere che sembra Falluja non è il massimo, e d’altro canto nemmeno dividere casa con sedici asiatici che fanno i turni in un ristorante cinese e nei sette letti a disposizione è quanto di meglio possa sperare per trascorrere i tre mesi del corso. Al terzo non mi presento proprio: la voce al telefono mi è parsa alquanto inquietante, e non ci tengo a ritrovarmi disteso su un tavolaccio con un taglio al fianco e un rene in meno.
Sono quasi sul punto di piantare baracca e burattini, e dichiarare la mia prima sconfitta in assoluto, quando intravedo una luce. Non ho ben considerato l’annuncio, quando l’ho preso. Un numero di telefono e un messaggio alquanto strano. Una richiesta … fin troppo esplicita, persino per una città all’avanguardia come Londra.
Cercasi coinquilino esplicitamente omosessuale. E poi il numero di cellulare, nessun nome.  
Tutto qui. Nessuna tariffa, nessuna indicazione su come sia strutturato l’appartamento. E diversamente dagli altri annunci non c’era il tipico “ offresi posto letto”, anche se c’è da credere che sia piuttosto ragionevole che manchi, causa possibili fraintendimenti.
E’ una cazzata, lo so. Sto facendo un enorme sbaglio. Ma tentare non nuoce, e piuttosto che ridurmi a farla in una bottiglia, preferisco sfidare la sorte.
Così chiamo. La voce dall’altra parte è rassicurante, una signora di una certa età, cordiale e disponibile: mi informo sul prezzo, e devo ammettere che è decisamente conveniente, considerata la zona in cui si trova. Non sono un mago, ma qualcosina l’ho letta, prima di partire.
Chiaramente non è lei la mia eventuale coinquilina, anche perché sarebbe piuttosto strano che richiedesse qualcuno di … esplicitamente gay. A meno che non tema di venire molestata, e l’idea mi fa ridacchiare come uno scemo.
Accetto di vedere l’appartamento, fissando l’appuntamento per il giorno dopo, alle otto. Mi tocca un’altra notte in questo macello. Forse sarebbe più semplice andare in un altro ostello, ma visto che la svedese non si decide ad andarsene, e io non posso campare indefinitamente della generosità – si fa per dire- di Milo, devo prendere provvedimenti seri. Sia pure estremi.
In fondo non mi sto impegnando a nulla. Posso sempre rifiutare, no?
Con questo pensiero, mi addormento, o quanto meno ci provo. E questo viaggio che all’inizio avevo cercato di vedere come un’opportunità, soprattutto per non darla vinta a chi l’ha posto sul piatto come condizione per avere altre cose, a me più care e importanti, in questo momento, mi adesso sembra ogni istante più simile ad una specie di incubo.
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** 3. ***


Bene. Ci siamo.
Onestamente, sono nervoso. Da morire. Sto cercando di non pensare in modo troppo lucido a quello che sto facendo, e che in fondo è soltanto una cosa sensata, almeno dal punto di vista economico.
Il peggio deve ancora venire.
Suono, sforzandomi di non notare come mi stiano sudando le mani. Appena il cancello esterno si apre, entro e faccio i pochi scalini fino alla porta d’ingresso.
Oh, ma guarda. Il batacchio ha la forma di una testa di leone … okay, è un po’ pochino per sentirsi rassicurati, ma di certo è un segnale positivo. Sopra, il sedici è altrettanto beneaugurante. Lo sapevo già, però ora che lo vedo fa decisamente un’altra figura.
Spero valga anche per il mio possibile coinquilino.
Mentre salgo i due piani di scale – davvero orrende, coperte di moquette grigio topo, obbligatoria a quanto pare per attutire il rumore dei passi- tutti i pensieri che ho cercato eroicamente di reprimere fin qui mi affollano la mente. Per esorcizzarli busso forte, forse troppo, dacché la porta è già aperta, come realizzo subito dopo.
E qui comincio a rabbrividire sul serio.
E se fosse un travestito? Una checca isterica? Uno di quei fighetti che si vedono nelle serie tv e captano se uno è gay o meno in mezza occhiata?
Oddio no, davvero, non ci posso pensare. Lancio uno sguardo alle scale … forse sono ancora in tempo a sparire.
Ho procrastinato troppo. La porta si apre del tutto, e davanti a me c’è un giovane uomo bruno, alto all’incirca quanto me, con addosso un dolcevita nero e un paio di pantaloni della tuta grigio scuro. Porta degli occhiali dalla montatura leggera.
Oh, be’, se non altro, niente boa di piume di struzzo rosa shocking o pashmine verde acido. E già mi tranquillizzo un attimino.
Ma forse aspetta di venire rassicurato anche lui. << Ehm … ciao. Io sono … >>.
<< L’aspirante coinquilino. Piacere, Alejandro >>. Mi porge la mano, che prendo nella mia senza alcuna esitazione.
Ha una bella stretta calda, virile. Come la voce. Anche se non sorride, basta questo a farmi sentire benaccetto. E ovviamente, la curiosa casualità. << Ti chiami come me >>, osservo.
Gli occhi dietro le lenti hanno un guizzo, prima di restringersi in due fessure indagatrici. << Sì? >>.
<< Già. Mi chiamo … Alexandròs. Ma … puoi chiamarmi Leo. Mi chiamano tutti così >>. Mi rendo conto di essere stato precipitoso, e subito aggiungo: << Se … decidi che ti vado bene, chiaro >>.
Mi fissa per qualche istante, prima di annuire. Poi stende il braccio a prendere la mia valigia. Sto per avvertirlo ch’è pesante quando la solleva e la porta dentro, come fosse un fuscello.
Cavolo. Mi sento quasi una ragazzina, ad averla trascinata fin qui con le rotelle. << Ma non stare lì sulla porta. Vieni dentro >>.
Mi mordo un labbro prima che mi sfugga una risatina. Devo calmarmi, prima che mi bolli come psicopatico e mi butti fuori. Sono terrorizzato all’idea che mi scappi qualche battuta molto fuori luogo, e mi tradisca da solo in meno di un minuto. Non sono mai stato bravo a mentire, persino quando ne combinavo qualcuna delle mie finivo sempre con lo sgamarmi.
Però, ad essere sincero, visto così non dà affatto l’impressione di essere … be’, sì, insomma, dell’altra sponda. Anzi. Sembra molto serio, e non pare incoraggiare granchè la confidenza.
Meglio. Almeno non dovrò preoccuparmi troppo delle balle che dovrò rifilargli.
Chiudo la porta ed entro nel disimpgeno, minuscolo, che si affaccia su quello ch’è evidentemente il soggiorno. Bianco e grigio la fanno da padrone: un divano a tre posti, una parete attrezzata stracolma di libri, un tappeto grigio chiaro di quelli che sembrano un cane appena uscito dalla lavatrice con sopra un tavolino a vetri. In un angolo troneggia un pouf giallo, un tocco vivido accanto al camino. Anche i quadri sono in grigio e nero.
<< Qui c’è la cucina >>. M’introduce nel vano adiacente. E’ molto sobria, piuttosto piccola se ragguagliata agli standard di casa mia, ma pulitissima. Due piantine in vaso, una felce e un bambù sul davanzale della finestra ingentiliscono l’atmosfera, il resto spazia anche qui dal bianco al grigio in varie tonalità, dal perla al piombo.
<< Seguimi. Ti mostro il resto della casa >>, dice, posando il mio bagaglio accanto al tavolo.
Mi guida in un piccolo disimpegno con tre porte, due a battente e una a soffietto. La apre. << Questo è il bagno. E’ in comune, ma di solito io non ci metto più di un quarto d’ora a prepararmi, la mattina, quindi non dovremmo avere problemi >>. Dimensioni medie, piastrellato in bianco e nero. Una tenda copre l’angolo doccia, e sullo specchio del lavabo sono posate ordinatamente alcune bottigliette di prodotti personali. Nulla di eclatante, o meglio, nulla di differente da quelli che uso anch’io. << Preferisci sopra o sotto? >>, mi chiede a bruciapelo.
<< Come? >>.
Accenna al mobiletto dietro la porta, bianco anche lui << L’armadietto. Puoi prenderne metà. Preferisci sopra o sotto? >>.
<< Ehm … fa lo stesso >>.
Diamine. E’ già la seconda figura di merda in meno di cinque minuti. Devo smetterla, o mi fregherò subito.
<< Okay >>. Alza le spalle, uscendo e dirigendosi alla porta di fronte, aperta. << Questa è la tua camera >>. Un letto, due mensole, uno scrittoio con sopra una mezza libreria. Un armadio a due ante, e un comodino a due cassetti. Qui ci sono due cuscini rosso vivido, appoggiati su un lato del materasso nudo, proprio sotto la finestra a ponte.
La porta chiusa sull’altro lato dev’essere la sua camera. Non si offre di farmela vedere, ed è un sollievo: non c’è due senza tre, si dice, e ho come il presentimento che stavolta avrei fatto la figuraccia decisiva, quella che l’avrebbe costretto a tirar su me, e mettermi fuori, assieme alla mia valigia.
<< Ti dico subito che io lavoro. Quindi, non sarai costretto ad avermi troppo intorno >>, dice, invitandomi con un cenno della mano a posare lo zaino che mi portavo ancora in spalla, come un bimbo di terza elementare in gita scolastica.
<< Grazie. Cioè, non che non debba … averti troppo intorno >>, spiego, vagamente a disagio. Ho superato l’esame, sono promosso, niente “ti farò sapere”, “torna domani” o “ non penso che potremo vivere assieme “.
Eppure paradossalmente mi sento inquieto, anche più di prima. Il pensiero di dover … fingere, mentire a questo ragazzo, malgrado l’abbia appena conosciuto, mi fa sentire sporco, quasi.
Senza dubbio è la voce della mia coscienza. Perché l’idea di abitare con lui non mi infastidisce. Ora che ho visto da vicino com’è, come si comporta, credo di non dover alcuna difficoltà a conviverci. Non sarebbe diverso che abitare con un perfetto estraneo in generale.
Torniamo in cucina. << Ti va un caffè? O preferisci un tè? >>.
<< Un caffè va bene, grazie >>. Mi accomodo al tavolo, osservandolo mentre riempie la caffettiera. Ha delle belle mani, dalle dita eleganti e forti. << Di dov’è che sei? >>.
<< Kalliniki. Un paesino sperduto in mezzo ai monti della Grecia. Mille abitanti contando anche le capre, più o meno >>.
Di solito tutti sorridono a questa battuta. Lui invece no. Annuisce e basta. << Parli bene inglese >>.
<< Grazie. In realtà non è tutto merito mio, però. La famiglia di mia madre  >>. Accende il fornello, prende due tazzine e i piattini di semplice ceramica smaltata, la zuccheriera, due cucchiaini,  mette tutto sul tavolo e si volta incrociando le braccia appoggiandosi al lavandino con la schiena.  
No, non si può definire certo un tipo espansivo. E’ chiaro che me l’ha chiesto per pura cortesia, ed è anche abbastanza evidente il fatto che non dovrò aspettarmi domande sulla mia vita intima.
Grazie a Dio. << Tu … sei di qui? >>. Anche se ha un nome straniero, potrebbe benissimo essere figlio di immigrati. Oppure a sua mamma piaceva l’idea di dargli un tocco esotico, così.
Fa un cenno di diniego con la testa, e un tiepido raggio di sole si posa sulla sommità. Accidenti. Non credevo esistessero dei capelli così neri, e lucidi, senza esser tinti. Neri come l’ala di un corvo, in contrasto con la carnagione pallida.
Se non altro, s’intona all’arredamento. << Toledo. Ma vivo qui da quasi un anno, ormai >>.
Mi sforzo di non ricominciare a blaterare a vanvera. Non credo gl’importerebbe sapere che stavo giustappunto imparando lo spagnolo, perché l’Erasmus che avevo in mente di prendere era a Barcellona.
Come ho già detto, non incoraggia la confidenza.
Inoltre non sarebbe sano mettermi in piazza così. Rischierei di iniziare a spiegare come, quando e perché ho cambiato idea, e mi conosco. Potrei farmi sfuggire qualcosa, e addio sogni di gloria.
Così mi limito a fare un’osservazione indolore. << Anche tu … parli bene inglese >>.
<< Grazie >>. Occupandosi della caffettiera, domanda: << Cos’è che studi? >>.
<< Economia >>.
<< Uhm >>.
<< Tu? >>.
<< Filosofia medievale >>.
<< Sembra … interessante >>.
<< Non sono in molti a pensarlo >>, ribatte lui, in tono neutro.
<< Be’, di sicuro io non ci capirei un granché. E già questo la rende … interessante >>.
Si gira a guardarmi per qualche istante, e mi domando se non abbia detto una sciocchezza. Tipo, aver buttato lì “interessante” al posto di “astrusa, incomprensibile e assolutamente inutile”.
Spero tanto di no. Non sarebbe un buon inizio.
Il caffè, seppur non alla greca, ci mette comunque un bel po’ ad essere pronto, a differenza dell’espresso fatto con la macchinetta.
E il silenzio incoraggia la mia stupida boccaccia. << Senti, ma … posso chiederti una cosa? >>.
<< Certo >>.
<< Perché … hai richiesto … un coinquilino esplicitamente … omosessuale? >>.
<< Mah, per varie ragioni >>, fa lui, alzando le spalle. Dev’essere un gesto che compie spesso, quasi per scemare importanza alle parole che introduce. << Ho avuto diversi coinquilini, e non è mai andata bene. I ragazzi etero all’inizio ci scherzano, fanno gli uomini di mondo ma quando s’imbattono in un uomo che esce dalla tua camera al mattino s’imbarazzano e cominciano a temere chissà cosa. Le ragazze invece dopo un po’ si ficcano in testa di provare a guarirti, quasi fosse una malattia >>. Fa una smorfia, che mette in risalto la fossetta sul mento. << Ma credo che questo lo sappia anche tu >>.
Ecco. L’inciampo. << In realtà .. io non ho ancora fatto outing. Non lo sa nessuno >>.
Lui tace. Spegne il fornello, e versa il caffè. << Ti capisco. Non è facile, purtroppo. Ci si sente sempre come se si stesse deludendo qualcuno >>. Lascia la moka sul lavandino e si siede anche lui, prendendo la tazzina. La sua espressione è distante. Mi chiedo se non ho toccato un punto sensibile, senza volerlo.
<< Tu sei figlio unico? >>.
<< No, ho un fratello >>.
<< Io ho una sorella, di tre anni più piccola >>. Beve il caffè in un solo sorso, quasi fosse uno shottino. Senza averlo zuccherato. << Be’, io vado al lavoro. Se hai fame c’è qualcosa in frigo, serviti pure. In genere ognuno ha la sua spesa personale, ma finché non ti sarai un po’ ambientato puoi usufruire di quel che c’è >>.
Il tono è piatto, metodico, come se parlasse un manuale d’istruzioni. Ma la voce vitale, unita all’attimo di poco fa, mi permette d’intuire che la sua è soltanto una difesa dal mondo esterno.
<< Grazie. E … dov’è che lavori? >>.
<< In un bar >>. Si tira su, prende la giacca posata sulla spalliera della sedia, la tracolla del computer.
<< Per … quelli come noi? >>.
<< Intendi dire studenti? Oppure … >>.
<< No! Cioè, insomma … >>.
<< E’ un bar normale >>.
<< Oh, ehm … bene >>. 
<< Questa è la tua copia delle chiavi, portone e porta d’ingresso. Domani passiamo dalla padrona di casa per sistemare le faccende burocratiche, contratto e tutta la manfrina relativa. L’affitto è il primo del mese. Hai un conto? >>.
<< Sì >>.
<< Bene. Non voglio impicciarmi degli affari tuoi, ma se ti serve un lavoro posso vedere in giro se ci sono delle offerte convenienti. Con la tua conoscenza della lingua, non dovrebbe essere un problema >>.
<< Grazie, Alejandro >>.
<< Per qualsiasi cosa … questo è il mio numero di cellulare. Se non si tratta di un’urgenza del tipo è esploso un tubo in bagno, o sei rimasto incastrato in una finestra, ti pregherei che m’inviassi un messaggio, piuttosto che chiamare. Il mio capo non è un tipo ossessivo, ma preferisco evitare se possibile. Questa è la mia e-mail, e la password per il wi-fi. Se hai voglia di qualcosa, a duecento metri sulla destra c’è un negozio di alimentari, e poco oltre una farmacia. Tu fumi? >>.
<< Veramente … sì >>.
<< Non c’è problema, l’essenziale è che non lo fai in casa. C’è un terrazzino con un paio di sdraio, puoi usare quello. Se devi prenderti le sigarette, scendi da qui dietro e prosegui per qualche centinaio di metri, verso quel grande grattacielo in costruzione, l’Atlas. Poco oltre il Tesco, il supermercato, c’è una tabaccheria. Non so quanto tu ti sia ambientato, ma se devi spostarti, giusto di fronte, a qualche metro di distanza c’è la fermata dell’autobus, e se prosegui sulla destra trovi la metro. Tutto chiaro? Hai qualche altra domanda? >>.
Mi sento spaesato. E’ di una precisione … clinica, a dir poco. Sembra un medico che dia le prescrizioni ad un paziente.
Non quanto in realtà io abbia capito di quello che ha detto, ma se sono sopravvissuto fin qui, penso di potercela fare. quanto meno, ci spero. << Ehm … no >>.
<< Okay, allora. Scusa se non ti tengo compagnia >>.
<< Ma no. Figurati. Grazie di tutto, Alejandro >>.
Lui annuisce, prende le chiavi. << Ci vediamo >>.
<< Ciao >>.
Si ferma sulla soglia. Si volta un istante, lanciandomi uno sguardo da sopra la spalla. << Ah, e … Leo? >>.
<< Sì? >>, scatto senza volerlo. Ho quasi il terrore che mi abbia già smascherato, e stia per dirmi qualcosa di spiacevole.
Invece stira un mezzo sorriso. Che rafforza l’impressione di essergli andato a genio, oltre al fatto che … probabilmente non lo fa molto spesso. << Benvenuto >>.
 
Angolino di Anya: allora, credo ormai si sia capito che non è mia intenzione fare di questa storia un’altra Nemesis; è una storia leggera, senza troppi approfondimenti, stringata al massimo. Ho cambiato il titolo perché ho ripescato in rete il testo di “Point of View” di BD Boulevard, un brano che secondo me si adatta piuttosto bene alle circostanze di cui si narra qui.
Come sempre, per critiche e commenti a disposizione4,
Anya

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Capitolo 4
*** 4. ***


La convivenza nei giorni seguenti si rivela molto meno complicata di quello che avevo già immaginato dopo averlo conosciuto. Praticamente c’incrociamo sì e no per qualche minuto, durante il giorno; e nelle rare sere in cui non è di turno, o va a correre, o esce a fare il bucato. I pomeriggi liberi invece li passa chiuso in camera sua, riemergendo di tanto in tanto per farsi un caffè o passare di volata lo straccio su qualche mobile.
Mi sembra di vivere con un fantasma. Mi domando come sia possibile che una persona così poco … problematica possa aver incontrato tanti fastidi a dividere casa con altra gente.
In fin dei conti posso dire di essere davvero contento che quella poveretta sia stata scaricata dal fidanzato.
Milo continua a contattarmi ogni momento, si sente ancora in colpa nonostante gli abbia garantito che mi ha fatto un grandissimo favore. Vorrebbe vedere come mi sono sistemato, e diciamo che mi sono mantenuto alquanto evasivo sulla mia nuova residenza e il mio coinquilino. Non sono del tutto certo che capirebbe, e soprattutto che non si farebbe scappare qualcosa. Se c’è una persona meno controllata del sottoscritto, quella è appunto lui.
Lo studio mi assorbe quasi totalmente, e sono davvero contate sulle dita di mezza mano le occasioni che ho di incontrarmi con il mio amico, ovviamente fuori da qui. 
Stasera, ad esempio.
Viene a recuperarmi alla stazione della metropolitana, e andiamo ad una tavola calda lì vicino. Ordiniamo due pizze e due birre medie e ci sediamo in un tavolo d’angolo, l’unico libero.
<< Allora, come va? >>, mi chiede.
<< Tutto okay >>.
<< Ma ancora non mi dici dove stai. Sicuro che non dormi in qualche scatolone, vero? >>.
<< Macché. Te l’ho detto, il mio coinquilino è un tipo molto riservato. E poi quando non lavora studia, mi spiacerebbe disturbarlo >>.
<< Ma non credo possa incazzarsi se un amico viene a trovarti >>. Fa uno sguardo furbo. << Non è che questo coinquilino … ha la quinta e le gambe da gazzella, vero? E temi la concorrenza >>.
<< Ma va’ … >>, sbotto, addentando un trancio di pizza. << Mica sono come te, io. Ce l’ho, una ragazza >>.
<< Sì, a tremila chilometri >>.
<< Che c’entra, tremila o trenta, sono impegnato. E sai come funziono. Se sto con una, le altre non le guardo proprio >>.
<< Ma le altre guardano te. E non so se te ne sei reso conto, ragazzo, ma non sei da buttar via >>.
<< Ah, grazie. Così non mi rassicuri sul fatto che sarei dovuto venire ad abitare con quattro ragazze >>.
<< Nooo, quelle non le considero proprio. Marit è l’unica decente, ma è fidanzata >>.
<< Era, mi pare >>. D’un tratto fa una faccia strana, che riconosco al volo, purtroppo. << Non ci credo. Te la sei scopata, non è vero? >>.
<< Nah … mi consideri capace di una cosa del genere? >>. Al mio sguardo eloquente, sorride. << Era giù di corda. Diciamo … che le ho dato una mano a tirarsi su >>.
Non riesco a reprimere un’espressione di riprovazione. << Tu sei malato. Che gusto c’è ad andare a letto con una che piange per il suo ex, con cui doveva andare a convivere? >>.
<< Be’, mica piangeva, in quel momento. Anzi, sembrava parecchio contenta >>.
<< E ti pareva. Ma l’altro ragazzo? >>.
<< Ah, se ne sta sempre chiuso in camera a studiare. Inizio a pensare che sia frocio >>.
La pizza mi va di traverso, devo bere per mandarla giù. << Oh, ma che hai? >>.
<< Nie … niente. Mi si è impigliata la mozzarella in gola >>.
Milo alza le spalle. E subito mi accorgo che Alejandro lo fa in modo diverso, non per strafottenza, ma per autoironia. Lo fa sempre prima di dire qualcosa di sé. << Comunque, non è che se uno non è assatanato come te, per forza dev’essere gay. E poi l’hai detto tu, delle tue coinquiline se ne salva solo una, anzi salvava, dacché te la sei fatta tu >>.
Scuote la testa, infastidito. << Sì, okay, ma nemmeno lui è Brad Pitt. Insomma, ci si può giostrare >>.
<< Ma magari non gl’interessa. Forse ha una ragazza, ed è fedele >>.
<< Oh, ma hai deciso di fare l’avvocato del diavolo, stasera? Devo forse ricordarti i tempi d’oro della premiata ditta Leo e Milo, al liceo? >>.
<< Gradirei di no, grazie. Sono cambiato, da allora >>.
<< Seee … come no. La verità è che secondo me cominci ad avere qualche problemino, là sotto, e allora ti sei convertito casa e chiesa >>.
<< Vabbè. Pensala come ti pare >>.
Se Dio vuole finiamo di mangiare, pago il conto – veramente è stato un braccio di ferro con Milo, al quale la cameriera ha assistito con un’espressione divertita, oltre che parecchio interessata- e ci avviamo.
<< Sicuro che non vuoi che ti accompagni? Metti che ti perdi … >>, ridacchia.
<< Ho molte più probabilità di perdermi se sei tu, ad accompagnarmi >>, osservo io, serio. << E comunque davvero, non prendertela a male, Mi >>.
<< Macché. Sai che non aspetto altro che la tua chiamata. Uno squillo, e sono ai tuoi ordini, Maestro >>.
Alzo gli occhi al cielo, nuvoloso. Mi mancano un po’, le stelle. Qui, un po’ per lo smog, un po’ per il maltempo, è difficile vederle.
Ricordo quando mio fratello mi portava sul terrazzo di casa, e restavamo per ore a fissare quei puntini luccicanti, fino a farci bruciare gli occhi. Mi indicava le costellazioni, e scoppiava a ridere quando borbottavo che gli antichi dovevano essere strambi, per vedere di tanti e tali oggetti, animali e figure umane in dei semplici ammassi di puntini.
Non sono mai stato bravo con certe cose. Anche se con Shaina mi pareva di aver rimediato, almeno per un periodo.
Vorrei mandarle un-mail, un messaggio, farle almeno una telefonata. Ma quando è venuta a salutarmi, il giorno prima che partissi, è stata abbastanza chiara.
Lasciami i miei spazi, mi ha chiesto. Ti cercherò io, quando mi sento pronta.
E almeno in questo, credo di essere stato bravo. Ho rispettato il suo desiderio, finora.
Anche se non posso fare a meno di starci male. Ho virato su Londra, per lei, perché quando ho detto Barcellona pareva le fosse preso un accidente, era convintissima lo volessi perché avevo in mente di tutto tranne che il corso.
E poi il giorno prima di partire viene a dirmi che vuole una pausa.
Vero è anche che forse mi sono lasciato condizionare un po’ troppo in fretta. Avrei dovuto insistere, ma il connubio dei miei, di lei e di Milo che pregava di raggiungerlo mi hanno convinto a fare questo passo. Come anche il fatto che l’inglese lo parlavo già abbastanza bene, e che così magari un giorno non troppo lontano sarei potuto andare da Andrèas, a Melbourne.
Un insieme di fattori che mi hanno fatto cedere. Forse troppo in fretta, appunto.
Ma probabilmente anche il discorso di mio padre ha contribuito a spingermi in questa direzione.
“ Chiaro che vuole andare a Barcellona. Che altro vuoi che abbia, per la testa? Non pensa altro che a divertirsi, lui. Ed è colpa tua, Althea. Tu l’hai sempre coccolato, vezzeggiato …. Solo perché quand’è nato sei stata male. Mica eri l’unica. E adesso, ci ritroviamo con uno scansafatiche, che si è iscritto all’Università giusto per avere la scusa per fare i suoi porci comodi, e spendere e spandere alle mie spalle. Economia un corno! Quello di economia non capirà mai un accidente, per il semplice motivo che non sa neppure dove sta di casa, l’economia! Hai visto quella porcheria che si è comprato? Un pozzo di soldi, solo per rischiare ancora meglio di rompersi l’osso del collo! Per portare in giro quella ragazzina, che prima o poi metterà incinta, ne sono sicuro. E allora verrà a mendicare l’aiuto di papà, perché lui non sa nemmeno da dove si comincia, a mandare avanti una famiglia “. E qui aveva taciuto. “ Se solo fosse come suo fratello …”.
“ Lo sarebbe stato, se non avessi tormentato anche lui all’estremo, spingendolo ad andarsene via, fino in Australia, e non volerne più sapere di noi due. E Alex è rimasto da solo, quando aveva più bisogno di lui ”. Una risposta che mai sarebbe arrivata, dalle labbra di mamma.
Non sa che l’ho sentito, raggomitolato dietro la porta come facevo quand’ero bambino. E non sa nemmeno che potevo chiaramente immaginare la scena, con lui che camminava nervosamente avanti e indietro sul tappeto persiano, e mamma zitta, che versava le sue gocce per dormire nel bicchiere, già svuotata dalle sue quotidiane due dita di brandy. Cosa che assolutamente non dovrebbe fare, ma che le è necessaria, per non dar voce a quel fiele che la rode dentro da anni, e che ingoia stoicamente in silenzio.
Mi sono sempre sforzato di non avercela con Andrèas, perché in fondo è sempre stato il mio eroe. Anche nella scelta coraggiosa di sfidare papà, di dirgli chiaramente in faccia che no, lui non avrebbe studiato economia perché non gl’interessava mandare avanti la baracca, per quello bastava e avanzava nostro padre, con la testa sempre ai soldi, agl’investimenti, agli affari; lui voleva studiare altro, voleva costruire qualcosa di diverso nella vita, che non un impero fondato su una famiglia in crisi. Ha lasciato che gli tagliasse i fondi, e lui niente. Si è trasferito ad Atene, si è trovato un lavoro, una casa, insieme con dei suoi amici, ha iniziato a ricevere borse di studio e alla fine se n’è andato in Australia.
E nel mezzo si è dimenticato di me. Quando veniva a trovarci, per il Natale, era sempre la stessa storia; musi lunghi, e frecciate aspre. Alla fine non è più tornato nemmeno per quello. Si limitava a chiamarci, salutando appena papà, rassicurando mamma e parlando più a lungo con me. Che non avevo molto da dirgli, solo che
studiavo, mi comportavo bene, e basta.
Chiaro che non era vero, nemmeno per metà. Uno che si comporta bene non finisce in ospedale alle tre del mattino per una lavanda gastrica. O rischia una denuncia per lesioni per aver attaccato briga con un buttafuori in una discoteca di Mykonos. Non si fa bocciare anche in una scuola privata perché invece che impegnarsi sui libri escogita nuovi metodi per saltare le lezioni, come dire ch’era morta sua nonna ma omettendo di dire ch’era avvenuto cinque anni prima, e rimediandosi una sospensione che sarebbe stata in realtà una vacanza, se non avesse dovuto sopportare i sarcasmi e le ramanzine di suo padre, una volta a casa.
Poi, dopo aver superato – a rotta di culo- l’esame di maturità, l’ho fatto anch’io. Ho puntato i piedi, dicendo chiaro e tondo a mio padre che non m’importava di frequentare l’Università, che si fottessero gli studi, io volevo vivere, non vegetare sui libri come si aspettava che facessi. Ho preso la porta sbattendola, e sono andato a sbronzarmi in un bar, senza Milo che nel frattempo era già partito e io mi ero ritrovato improvvisamente solo, senza alcun legame con il mondo esterno.
Ed è accaduto. Mamma ha provato a togliersi la vita, l’ho trovata nella vasca da bagno con accanto due boccette vuote delle sue medicine, al posto dei sali. Sono rimasto per tutta la notte nel corridoio fuori dalla sua stanza, davanti all’icona della Vergine, pregando che ce la facesse; in quel momento avrei dato tutto, sono arrivato persino a promettere che mi sarei comportato bene, che non le avrei più dato dispiaceri. Che mi sarei iscritto alla facoltà che mio padre voleva per me, così come l’aveva voluta per Andrèas.
Lei era uscita dal coma, si era ripresa. E io ho mantenuto fede alla mia promessa, cercando di barcamenarmi per quanto possibile tra cifre e conti, mordendomi le labbra quando vedevo mio padre passarmi dietro e scuotere la testa con un ghigno. 
Di tutto questo, nessuno sa. Nemmeno Milo, a stento Andrèas. Lui è venuto, ha passato un po’ di tempo con me, con mamma, ma neppure a lui ho raccontato di quella notte in cui sono rimasto chiuso fuori nel gelo di un reparto di ospedale mentre l’equipe di rianimatori cercava disperatamente di riportare indietro mamma dal pozzo freddo e nero in cui stava scivolando inesorabilmente.
Nessuno deve sapere. Mai. << Vabbé. Ci sentiamo, Mi >>.
<< Buonanotte >>. Riprendo a camminare, a passo svelto, ignorando la gente che mi passa accanto. I pensieri sono ancora in agguato, e fanno male. stasera più che mai.
Apro il cancello, e reprimo la voglia di sedermi fuori a restare a guardare in alto. Non farebbe altro che deprimermi ancora di più, e credo sia meglio evitare, sennò finisce che mi sbronzo e chissà che potrebbe venire fuori.
In realtà Alejandro non c’è, è al lavoro. Quindi potrei anche devastarmi, giusto per mettermi l’anima in pace. Da quando abito qui, ho smesso di rigirarmi nel letto tormentato dal prurito, che immagino fosse solo un fattore psicosomatico; in compenso, quando non vado in coma perché ho passato tutta la giornata sui libri, perso in calcoli astrusi dormo da schifo. Faccio sogni complicati in cui alla fine vengo abbandonato da tutti, e mi sveglio in un bagno di sudore sperando di non aver parlato nel sonno.
Chissà se finirò anch’io, a prendere lo Xanax per dormire. Per ora tento di non pensarci, provo a concentrarmi sul presente, e non spostare lo sguardo troppo avanti.
La verità è che ho perduto tutte le mie certezze.
Per questo sono capace di mentire. Di … fingermi quel che non sono, pur di continuare a lottare, con le unghie e con i denti, senza arrendermi.
Pur di dimostrare che adesso sono davvero diverso, che voglio crederci, che non sono solo il ragazzino che tutti pensano dedito soltanto al divertimento.
Anche perché di quel divertimento ho sentito l’amaro gusto di feccia, sul fondo. 
Apro la porta ed entro, stupendomi di trovare la luce accesa.
La figura slanciata di Alejandro si staglia accanto al tavolo in cucina. Ha davanti a sé la vasca della biancheria, e sta piegando i vestiti.
Strano ma vero mi basta guardarlo per provare una sensazione di pace che non trova riscontri nel mio passato. I suoi gesti calmi eppure rapidi, ripetitivi sono la forma gestuale di una ninna-nanna, tranquillizzante.
<< Ciao >>, dice appena mi vede.
<< Oh. Ciao. Non sapevo fossi a casa >>.
<< Non vedo ragione per cui dovessi saperlo >>, replica in tono quieto. Di una pacatezza che dà quasi ai nervi, nel sentirla.
Forse perché somiglia tanto alla mia. E io so cosa c’è sotto alla mia apparente serenità.
D’un tratto smette di piegare, e mi guarda. I suoi occhi nella luce fioca della lampada, dietro le lenti sono immensi. Senza inizio né fine, nessun grado di separazione tra iride e pupilla.
Per un attimo mi sento frastornato. Ogni volta in cui mi guarda mi sento spogliato, fino ai più profondi recessi dell’anima. E’ come se potesse rivoltarmi come un calzino.
Ma è chiaro che si tratta solo di un’impressione. Resa più acuta dai ricordi ancora freschi e brucianti nella mia mente. Ogni volta che mi metto a guardare l’album delle foto dei miei trascorsi, è come se sentissi di averli stampati in fronte.
<< Senti … sarebbe un problema, se venissero due miei amici, domani sera? >>, dice. E sono così preso da me, che a malapena mi rendo conto di quel che ha detto.
Amici? Lui ha … degli amici? Ma guarda un po’. Strano.
Improvvisamente ho una voglia matta di conoscerli, questi amici. << No, assolutamente. E’ casa tua, no? >>.
<< Ma ci abiti anche tu. Magari … potresti … sentirti a disagio, con degli estranei >>.
Un ragionamento inoppugnabile. Peccato che adesso riesco solo ad indispettirmi.
Come se debba necessariamente preoccuparsi di ciò che può dispiacere a me.
<< Se sono come te, non me ne accorgerò nemmeno >>, ridacchio, prima di rendermi conto del passo falso che ho fatto. << Cioè, volevo dire … che mi sto trovando davvero bene a vivere qui con te >>.
<< Ne sono lieto >>. Riprende a piegare gl’indumenti, tranquillo, con gesti sicuri e rapidi.
<< Ti do una mano >>.
<< Non serve. Grazie, comunque >>.
Annuisco. Che strano ragazzo. Sarà che non sono abituato a tanta discrezione, che non mi pare vera. Come fosse solo una facciata, da scrostare prima di poter finalmente intravedere il vero Alejandro, quello che c’è sotto la parvenza di giovane discreto ed educato. Perché non voglio credere che sia soltanto questo, anche se sarebbe già molto più di tanti e tanti suoi coetanei. << Hai già cenato? >>.
<< Sì, ho preso un panino al lavoro. E tu? >>.
<< Oh … io … ho mangiato una pizza con dei miei compagni di corso >>. Una piccola bugia. Indolore, però ne avverto il sapore acre sulla lingua, mentre la sputo fuori.
Non sono fatto per le menzogne, lo so. Prima o poi succederà, mi fregherò e allora addio alle armi, dovrò cedere all’evidenza e trovarmi probabilmente un’altra sistemazione.
Il pensiero di dover lasciare questa casa a cui sono già tanto affezionato mi  dà un dolore quasi fisico. E’ possibile, innamorarsi di qualcosa fino a questo punto? Di tre stanze e mezzo arredate con mobili dell’Ikea, e due piantine sofferenti posate sul davanzale a cui Ale dà l’acqua ogni mattina?
Non lo so. Mi sento solo stanco, e vorrei soltanto andarmene a dormire, sperando di farlo per davvero.
Eppure non riesco a sottrarmi al richiamo che sento potente nelle ossa, nei polmoni. Un desiderio di … vicinanza, di fratellanza, che per la prima volta in tanti anni da quando Andrèas non è più al mio fianco si manifesta con una veemenza inaudita.
Alejandro non somiglia a mio fratello, per niente. non c’è nulla in lui che richiami Andrèas, né fisicamente né spiritualmente.
Tuttavia, c’è qualcosa che glielo accomuna, ma che non riesco a definire più chiaramente. E mi piacerebbe tanto capire di che si tratta. Se solo me lo permettesse.  << Vuoi … che ti prepari qualcosa? Un tè, un caffè? >>, mi offro, sperando che accetti.
<< Sto bene, ti ringrazio >>. Piega l’ultimo paio di jeans, posandoli nella vasca. << Be’, io mi ritiro. Buonanotte, Leo >>.
<< Notte >>. Lo guardo portarsi via la vasca, ritirarsi dietro il battente chiudendolo a chiave. Ancora non so cosa c’è dietro quella porta.
Chissà come reagirebbe, se andassi a bussare e gli chiedessi se ha voglia di guardare un film, o fare quattro chiacchere.
Ma così gl’impedirei di studiare, o di riposare, solo per rifilargli un sacco di puttanate.
Allora meglio evitare.

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Capitolo 5
*** 5. ***


Angolino di Anya: so che vi avevo promesso una storia leggera, ma nel capitolo precedente ci sono ricascata coi drammi esistenziali e quindi, spero in questo di aver rimediato, e non lasciarmi prendere la mano con le menate psicologiche. Purtroppo mi viene difficile pensare a Leo senza dargli un po’ d’ombra … e meno male, che sotto il solleone, sennò, pure lui penso stramazzerebbe.
Okay, basta deliri. Passiamo alle cose serie. ( Ma non troppo XD).
                   
Nulla riesce a farmi sentire in forma, pimpante come una lunga doccia calda, un paio di giri di crema per il corpo al sandalo – regalo di mio fratello per il mio ultimo compleanno, spedito via corriere direttamente dall’Australia- , una rasatura minuziosa e sì, questo me ne vergogno un po’ a confessarlo, un impacco – parola sentita infinite volte a mia mamma, costretta a lottare con una selva di capelli ricci e folti- con del balsamo a quel cacchio di argan che ora va tanto di moda. Certo mi pare un po’ strano che un prodotto da discount mantenga i miracoli che promette sull’etichetta posteriore, però pare che funzioni. I miei ricci di solito indomabili hanno assunto l’aria ordinata di boccoli, ricadendo intorno alla mia faccia come capelli d’angelo.
Ho come il brutto presentimento che questa cura mi costerà cara. O meglio, che renda un filino più credibile la mia recita.
Forse, e dico forse. D’altronde, anche il kamasutra raccomanda un’attenzione estrema al proprio corpo, prima che a quello dell’amante. E’ un segno di rispetto, anche se qui non c’è nessuna amante, solo … gli amici di Alejandro.
Diamine, però. Sono nervoso come dovessi incontrare chissà chi. Il Presidente, forse. O il Patriarca. O che cazzo, tutt’e due.
E inoltre, la crema al sandalo è stata un ottimo lenitivo. Ho trascorso praticamente tutto il pomeriggio davanti ai fornelli, come non facevo da secoli. Erano anni che non cucinavo, da quando mio fratello si è trasferito non ce n’è più stata occasione eccetto un paio di Natali, gli ultimi in cui è venuto a Kalliniki, in cui abbiamo preparato il dolce al momento di portarlo in tavola.
Mi manca. Sarà l’odore di Grecia che invade la casa, sarà che ho tirato fuori il suo regalo, ma ora che sono qui, a più di tremila chilometri da casa mia, e chissà quanti da lui,  mi viene la voglia folle di chiamarlo e dirgli di raggiungermi.
Ma non lo faccio, chiaramente. Uno, perché se lo facessi, gli prenderebbe un colpo e penserebbe che sto morendo, che ho la mafia russa alle calcagna, che ho deciso che la laurea è uno spreco di tempo e ho programmato di farmi chiamare Veronica e trasferirmi in Brasile.
E due, perché se mi voltasse il cervello del tutto, e davvero prendessi quel telefono e digitassi quel messaggio, questo vorrebbe dire che si troverebbe davanti … lui.
Potrebbe anche piacergli. Anzi, per come conosco Andrèas gli piacerebbe senza dubbio. Gli basterebbe parlarci due minuti, e già sarebbero amici. Mio fratello è bravissimo a conquistare la gente, persino i più restii con una semplice occhiata, un sorriso.
Adesso come adesso, mi tornerebbe comodo possedere un po’ del suo fascino. Almeno sarei certo di fare buona impressione su …
<< Ehi, Leo, sono arrivati >>, mi avvisa Ale, con due piccoli colpi al battente. inspiro a fondo fissandomi i piedi ancora scalzi, avvolti solo dai calzini neri. Nero su nero, si fondono quasi con la piastrella.
Infilo le scarpe nere, lucide, il maglione panna. A momenti sembro un complemento di arredamento del bagno. Che carino.
Storco le labbra, ma è tardi per cambiarmi. Così prendo fiato ed esco.
Dicono che i primi sette secondi siano quelli fatidici, in cui si decide se una persona ci va a genio o meno. La prima impressione, quella che non si può più modificare.
Ora o mai più. << Ehi … >>. Un paio di occhioni celesti, circondati da ciglia chilometriche mi trafiggono lasciandomi raggelato. Di ricambio, uno sguardo blu notte mi squadra beffardo, ma non ostile.
<< Così, questo è il nuovo inquilino … ciao, io sono Magnus, ma chiamami pure Aphrodite >>. Mi porge la manina candida, dalle lunghe unghie dipinte di rosa porcellana. E’ bello come una ragazza, delicato, con la carnagione di una bambola, e i lunghi capelli biondi e ondulati anche, di una bambola.
<< Lui è Angelo >>, fa, accennando al tipo al suo fianco, tutto l’opposto, invece. Scuro e dai tratti inequivocabilmente mediterranei, la barba incolta sul mento e le guance. Anche la mano è ruvida, ma la stretta è amichevole.
<< Ehm … piacere. Io sono Alexandròs. Ma … potete chiamarmi Leo >>. 
Gli occhioni celesti continuano a squadrarmi minuziosamente. Mi rendo conto solo adesso che mi aspettavo dei tipi taciturni, discreti come Ale.
E mi rendo conto che ho sbagliato in pieno. << Però. Ora capisco come mai ci hai messo tanto a permetterci di venire a vederlo … volevi tenertelo tutto per te, monellaccio! >>.
Mi schiarisco appena la voce, quando sento quella pacata di Alejandro. << Non cominciare, Magnus. Se lo metti in imbarazzo, la serata finisce prima di iniziare >>.
<< E’ così permaloso? >>.
<< No. Ma ti conosco >>.
<< E io conosco te, perché se così non fosse, penserei che sei geloso >>.
<< Certo. Come no >>.
<< Be’, allora, che si mangia? Sto morendo di fame … e visto che ho portato il dolce, penso di meritarmi la cena, no? >>, interviene Angelo, fregandosi le mani nodose, abbronzate.
<< Ah, il dolce … il solito, dolce >>, fa Magnus, levando gli occhi al soffitto. Angelo gli scocca un’occhiataccia.
<< Cos’hai contro i cannoli? >>.
Le manine pallide del biondo si alzano in segno di resa. << Mi spiace, Ale mi ha messo la museruola. Se faccio il cattivo bambino, mi butta fuori sul pianerottolo >>.
<< Vedo che hai capito >>, fa Alejandro, agitando la caraffa del vino perché prenda aria. << Comunque stasera non ho preparato io. Il nostro ospite … ha deciso di portarci un assaggio della sua terra. Ora vediamo se è un abile cuoco … o un abile truffatore >>. I suoi occhi neri hanno un guizzo, nel posarsi su di me. << Spero che nessuno di voi abbia impegni, dopo >>.
<< Perché? >>.
<< Leo è greco. Tzatziki, hai presente? >>.
<< Nooo! Sai che detesto l’aglio! >>. Magnus mette su un broncio da diva del cinema, e Angelo ghigna.
<< Problemi, Dite? >>. Sembra tutt’altro che gay, questo qui. Perciò mi rassicura un attimo vedergli scoccare una sonora pacca al dérrière dell’amico, lasciando poi la mano. Se lo è lui che sembra un buzzurro, posso sembrarlo anch’io, specialmente stasera che sono tutto tirato come un fighetto.
<< Fanculo >>, lo demolisce Magnus. E siccome Angelo sta per replicare qualcosa che mi fa tanto venire in mente Milo, chissà perché, mi rivesto della scintillante armatura e dirotto la risposta che immagino non farebbe tanto piacere al mio coinquilino.
<< Ma voi due … state insieme? >>, sputo fuori prima di rendermene conto.
<< No >>, è la secca risposta di Magnus, che stacca il palmo dell’italiano dalla chiappa. << Ci abbiamo provato parecchie volte … ma è sempre finita a schifiu. In merda, per farla breve >>.
<< Ah >>.
<< Quindi ci limitiamo ad un lavoretto ogni tanto, senza troppe complicazioni, quando il convento non passa di meglio >>.
<< E questo spiega il fatto che finga di odiare i cannoli. Vedermeli mangiare gli fa tenere il portone di quel convento sprangato molto più spesso di quanto non vorrebbe >>.
<< Idiota >>. Magnus si avvicina, scruta sospettoso la ciotola colma d’insalata greca nella mia versione personalizzata. Pomodori, peperoni, mais, olive kalamata, riccia, radicchio e carote grattugiate. Ho girato tre negozi, per procurarmi tutto quello che serviva. Solo per scoprire, quando ormai ero carico come un facchino e cominciavo a chiedermi come diavolo sarei riuscito a far entrare tutta quella roba in metro, che appena duecento metri più avanti c’era un piccolo alimentari di specialità greche.
Vedi a non voler usare Google Maps. Maledetto orgoglio.
Quando oggi a pranzo ho chiesto ad Ale a che ora sarebbero venuti i suoi amici, mi ha guardato in un modo … indefinibile. Gli occhi dietro le lenti si sono fissati nei miei appena per un istante, eppure sono riuscito a cogliere qualcosa di differente, una sorta di baluginio sorpreso, come se non se l’aspettasse.
In quel momento ho realizzato che non sapevo neppure se voleva che fossi presente. E mi sono sentito il coglione di turno, che s’invita forzatamente.
E per dirla proprio tutta, non si era neppure parlato di cena. Forse venivano a studiare, e io ero il classico casinaro pronto a rompere le uova nel paniere a tre serissimi giovani tutti presi dai loro libri.
A quel punto ho provato a scusarmi, che forse ero stato troppo precipitoso.
Al che il luccichio si è fatto più visibile. << Scusa >>, ha detto a sua volta. << Mi spiace. Immagino … di aver dato per scontato … che … be’, fossi dei nostri. Ma se hai altri impegni … >>.
<< No, no. In realtà … avevo in mente di cucinare io, se per te e loro non è un problema. Ti piace il greco? >>.
Ha tirato indietro gli occhiali sul naso. << Ad essere sincero non saprei. Non ho avuto molte occasioni di provarlo, a parte qualche assaggio di volata >>. Mi è parso che ci fosse un lieve accento ironico nelle sue parole, che mi ha messo vagamente a disagio; e ho ringraziato che avesse smesso di guardarmi, in quel momento. << Se dobbiamo optare per una full immersion … >>.
<< Ti dico subito che la mia specialità è la carne. L’agnello, soprattutto >>.
<< Uhm uhm >>. Un piccolo sorriso è spuntato sulle sue labbra. Non ho idea del cosa l’abbia scatenato, ma mi sono sentito curiosamente fiero di averglielo strappato. << Okay. Mi fido di te >>.
Qui, lo confesso, quell’accenno di fierezza è diventato qualcosa di più profondo. Una semplice frase fatta è riuscita a scuotermi, dentro, neanche avesse deciso di affidarmi qualcosa di molto più prezioso che una cena.
Sono tornato a guardare nel piatto, rincorrendo un maccherone al formaggio di quelli pronti, da microonde e via. E mi sono sentito uno scemo: avrei dovuto pensarci prima ad offrirmi di cucinare qualcosa di diverso dai soliti cibi precotti, almeno quando mangiamo insieme. Capita molto di rado, è vero, ma stranamente non ci ho pensato.
Immagino deve aver dato per scontato anche il fatto che non sapessi tenere in mano una padella. Per questo ho provato quell’assurda sensazione, nel sentirgli dire che si fida di me.
E ho saputo subito che non avrei dovuto deluderlo, a costo di rifarmi l’abbronzatura davanti ai fornelli.
Cosa che infatti, così è stata. << Ma davvero c’è l’aglio, nello tzatziki? Perché sembra tutto delizioso. Mi spiacerebbe doverci rinunciare >>, fa Magnus, osservando l’armata di ciotole e piatti sul tavolo.
<< Ma lo sai che tanto a me non dà fastidio … >>, gli mormora Angelo, mettendo le mani dietro la testa.
L’amico lo fulmina con un’occhiataccia. << Zitto, tu >>.
<< Be’, in realtà no. Neanche a me piace >>, dico, cercando di mantenere una certa impassibilità.
Purtroppo però mi conosco, e so che non durerà a lungo.
Devo ammetterlo, mi piacciono. Sono più … spontanei, più simili a me che non ad Ale. E nonostante so di non dover dimenticare di star sostenere una parte, mi sento completamente a mio agio.
<< Ohhhh >>. Magnus stira un sorrisetto, le sue labbra luccicano di un rosa delicato, naturale. << Chissà come mai, tutto ad un tratto non vedo l’ora di arrivare al dolce … scusa, Ale, scusa! >>.
<< Continuo a non capire. Che hanno di tanto particolare, questi … cannoni? >>, domando, con fare innocente.
<< Cannoli! >>, mi corregge Angelo, quasi inviperito.
Magnus alza le spalle sottili, sotto la giacca dalle mostrine dorate. << Non farci caso. Lui crede che siano patrimonio dell’umanità, e chiunque li conosca anche fuori dalla Sicilia >>.
<< Ma SONO un patrimonio dell’umanità! >>, fa Angelo sconsolato, una faccia da maschera tragica. << Davvero non hai mai visto un cannolo? >>.
<< E no, mi sa >>.
<< Ale, posso o mi metti fuori? >>.
Lui fa un cenno di “via libera” con la mano, mentre termina di affettare il pane. E Angelo apre il frigo, mette fuori un vassoio incartato. Ne svolge un angolo, mostrandomi questi famigerati … cannoli. << Be’, effettivamente >>. Penso di essere diventato porpora. Alla faccia del gay credibile.
<< Aspetta di assaggiarli. Li prendo in una pasticceria siciliana, il proprietario è di Catania, come me. Certo, non reggono il paragone con quelli di nonna Agata, ma sono comunque una delizia >>. Li rimette in frigo, e devo confessare che mi sento molto sollevato. Nemmeno fossero un’arma di distruzione di massa.
Grazie al cielo è pronto, e ci mettiamo  a tavola. Cominciamo a mangiare, e mi sento ugualmente sollevato nel sentire che non ho perso il mio tocco magico per la cucina.
E’ tutto spaventosamente buono, anche se la carne andrebbe grigliata sul fuoco e non passata in forno, ma il sapore è comunque ottimo. E non lo dico per vanagloria.
<< Sei bravo, sai? Ma il tuo talento è limitato ai fornelli, o … sei bravo anche in altro? >>, domanda Magnus, servendosi un altro souvlakia. Malgrado l’aspetto da fotomodello mangia a quattro palmenti, e sono contento di aver preparato per un esercito.
<< Be’, questo non spetta a me, dirlo. Diciamo che me la cavo in parecchie cose >>, ammetto sinceramente, prima di mandar giù un sorso di vino. Non sono riuscito a trovare il mio preferito, il rosso delle Cicladi; così ho dovuto ripiegare su uno Zinfandel, che mi è costato un occhio della testa ma ne è valsa la pena. Ha un gusto speziato e setoso che non fa rimpiangere troppo l’aroma di fichi secchi e mandorle a cui sono abituato.
Dite fa un’espressione drammatica, congiungendo le manine. << Ale, posso chiedergli il numero di telefono? Per favore … >>.
<< Non sono il suo guardiano, puoi domandarlo a lui direttamente >>, fa Alejandro serio. << Ma se ci tieni alla salute mentale, Leo, ti suggerirei di rifiutare. Dite è un digitatore compulsivo. T’intasa le chat e i profili di foto, video e messaggi senza senso, col risultato che devi togliere la suoneria per non diventare pazzo con le notifiche >>.
<< Ma no! Sei un bruto >>.
<< Tranquillo, te lo do ugualmente. Ma ti avverto che sono piuttosto confusionario, quindi non la prendere a male se mi scordo di risponderti >>.
<< Fossi in te ci penserei bene. Rischi di ritrovarti foto artistiche di lui mezzo nudo a manetta >>, fa Angelo, con un ghigno ferino. << Aveva iniziato anche con me, prima che gli facessi passare la fantasia … inviandogliene delle mie >>.
<< Artistiche? >>.
<< Sì, immagino possano anche definirsi così … >>. L’espressione sulla sua faccia è tutto dire. Credo di essere arrossito di nuovo, e meno male che sulla mia carnagione si nota poco.
Ma non su quella di Magnus, che gli piazza prontamente un ceffone dietro la nuca. << Cafone >>.
<< Ma come? E’ un complimento >>.
<< No. E tu sei un cafone >>.
Ridacchio anch’io, ma subito smetto nel vedere l’espressione di Ale. Non li riprende, dacché non si rivolgono esplicitamente al sottoscritto; ma sembra alquanto infastidito dalle libertà che si stanno concedendo.
E questo conferma la mia impressione. Riservato fino all’irritazione, anche se non riesco a capire se sia per me, o lo è sempre, con loro.
In tal caso sarebbe ben strano che siano ancora amici. A meno che non li tenga al guinzaglio costantemente.
Forse non era l’immagine più consona che potessi evocare, e mi sforzo di non strangolarmi con il nuovo sorso di vino. Accidenti, non mi è mai pesato tanto bere in vita mia. Ho il terrore di passare il segno e combinare qualche casino.
E non me lo perdonerei mai. << Certo, se anche Leo volesse farmi … qualche complimento simile … non mi arrabbierei così tanto >>, fa Magnus, tornando a sorridere malizioso.
<< Dite? >>.
<< Oh, ma dai! Non si può neanche scherzare? Come sei diventato bigotto, Ale! >>.
<< Spiacente deluderti, Magnus, ma … diciamo che non sono quel genere di uomo. Se c’è qualcosa da mostrare, preferisco farlo … a quattr’occhi >>. Ecco, lo sapevo che qualche cazzata alla fine dovevo dirla per forza.
Magnus mi scocca un’occhiata a metà tra languido e sconcertato, mentre Angelo mi fissa stralunato e per qualche istante sento di aver esagerato. Anche se non stanno insieme, non è detto che non nutra qualche interesse per l’amico … e non sia possessivo nei suoi confronti. Poi scoppia a ridere, di gusto, e io mi tranquillizzo. << Ehi, non me lo fare morire, sai? >>, mi redarguisce scherzosamente. << Anche perché non sono sicuro che poi non voglia sfogare tutto questo fuoco … ma si rifiuti di farlo con me >>.
<< Imbecille >>, è la lapidaria risposta di Magnus.
Finalmente arriviamo al dolce, e nonostante i cannoli abbiano un aspetto squisito non penso che riuscirei a mangiarne neanche un misero pezzettino senza strozzarmi. << Leo, prendine uno >>.
<< Guarda, davvero, non offenderti Angelo, ma sto per scoppiare. Se me ne lasci un paio per domani, li mangio volentieri >>.
Invece di arrabbiarsi, ghigna. << Ehi, Shu, il tuo amico qui sta facendo il timido >>.
Eh? Ma ho sentito bene? Com’è che l’ha chiamato? Shu?
<< Piantala, Angelo. Guarda che vale anche per te >>.
<< Nemmeno tu gli fai onore? >>.
<< No, grazie. Ho esagerato anche io >>.
<< Paura che schizzi, eh? >>.
Se lo sguardo di Ale fosse stato una lama, gli avrebbe fatto barba e capelli in mezzo secondo. << Mi sa che qualcuno non ha capito bene, qui >>.
<< Oh, ma dai! Stavo scherzando! E che cazzo, Ale! >>.
<< Avanti. Lo sai cosa ti tocca. Forza >>. Si alza e inizia a sparecchiare la tavola. Io lo seguo, pronto ad aiutarlo; ma mi ferma con un’occhiata perentoria. E alquanto penetrante, è il caso di dire. << Tu no. Hai già fatto abbastanza, per oggi >>.
Il suo tono serio, quasi cupo, unito al suo sguardo mi fa scorrere un brivido dietro la nuca. Deve accorgersi del mio stupore, perché subito rimedia con un leggero sorriso. << Non sarebbe giusto che lavassi anche i piatti. Li faranno questi due, così imparano >>.
<< Dai, Ale! Proprio oggi che ho rifatto la manicure! >>, protesta Magnus, alzando le mani inaellate dalle unghie perfette.
<< Meglio, così puoi grattare quello che si è incrostato >>.
<< Terribile, terribile! Angelo, ricordami com’è che sono ancora amico di questo … essere senza cuore >>.
<< Ah, me lo sto chiedendo anch’io chi me l’ha fatto fare, in realtà >>.
<< Vedi che vi faccio anche lavare il pavimento >>.
<< Che uomo impossibile. Ci credo che non riesci a tenerti stretto nessuno, se fai così! >>.
Per un attimo cala il gelo, nella stanza. Perfino Angelo si è azzittito, e fissa il biondo con sguardo allarmato.
Dite si mordicchia il labbro, compunto. Io non oso guardare Ale in faccia, è chiaro che non dovrà certo avere un’espressione felice, a quest’uscita.
Però la sua voce suona neutra, quando replica: << Hai ragione. Per questo le pulizie le faccio io. Non so quante collaboratrici domestiche ho cambiato, da quando abito qui >>. Lo spio di sottecchi, mentre raccoglie due bicchieri posandoli nella ciotola ormai vuota, con una delicatezza assurda, per la circostanza. << Ma dico io, chiedo forse troppo, quando dico che almeno una volta alla settimana il materasso va battuto? >>.
E’ troppo quieta, come risposta. E forte è l’impressione che abbia premuto su un punto dolente, il bel Magnus; e che Ale si sia trincerato bene dietro la sua consueta compostezza, ma dentro quella frase gli abbia aperto uno squarcio sanguinante. 
Vorrei poter dare la colpa al vino, ma so che non è così. E’ il desiderio improvviso e convulso di spazzarla via, questa barriera, e di lenire quella ferita che mi fa aprir bocca prima ancora di capire cosa diavolo stia sputando fuori.
<< Ma forse, hanno dato per scontato … che lo facessi tu >>, pigolo, in un filo di voce.
Ora l’attenzione si calamita su di me. Ed è una reazione a catena. Prima parte Angelo, che deve appoggiarsi al mobile del televisore per non finire a terra, piegato in due dalle risate; poi Dite, che nasconde il viso tra le mani e scuote la testa, quasi volesse contenersi per non rovinare il trucco.
A questo punto trovo il coraggio di guardare Ale. Lui non ride, ma le sue labbra hanno una piega sardonica, e gli occhi dietro le lenti sono lucidi.
<< E sia. Scatto al re, Leo >>. Prende l’ultimo bicchiere rimasto sul tavolo, il suo, con ancora dentro un sorso di vino e lo solleva in un brindisi ironico.
Mi rilasso anch’io, ridacchiando come uno scemo. Vorrei non sentirmi tanto … orgoglioso di aver stemperato la tensione, quando invece di solito sono proprio io quello che la fomenta.
E di aver riportato la pace. Almeno per il momento.
<< Be’, allora? Questi piatti? >>, sbotta Ale, vedendo che i due ancora ghignano.
<< Sì, sì, va bene, va bene. Ma sia chiaro: lo faccio solo per Leo >>, trilla Dite, passando le dita sotto gli occhi e rialzandosi leggero. Mi scocca uno sguardo pieno di gratitudine, che mi scalda il cuore.
<< Ma guarda … per me non l’hai mai fatto! E sì che io … vabbé lasciamo perdere va’! >>, sentenzia Angelo, tornando in soggiorno per un altro carico di stoviglie.
Mi sento un cretino a starmene seduto a rigirarmi i pollici; ed è insolito, perché a casa non ho mai spostato un bicchiere. Se riuscivo a infilare le mutande usate nel cesto della biancheria era per puro caso, perché magari riuscivo a centrarlo con un canestro da tre punti.
Eventualità che si verificava una volta su mille. E la donna delle pulizie di turno non dev’essere stata contenta di entrare nella mia stanza, dove sembrava si fosse raccolto l’occhio del ciclone.
Se non altro non ha mai trovato articoli scottanti. Niente ragazze in casa, a parte Shaina quando i miei erano fuori. E siccome so bene come la pensino i miei riguardo i rapporti prematrimoniali, e anche i genitori di lei in realtà sono sempre stato molto attento a non lasciare tracce in giro.
Così mi alzo, e comincio a mettere da parte gli avanzi. Ale ritorna, e mi fissa serio.
<< Allora proprio nessuno mi dà retta >>, osserva. Sembra tranquillo, anche se non so quanto di questa serenità sia reale, e quanta ben esposta.
<< Ehi, io mi sono comportato bene. Lo faccio solo per solidarietà >>.
Lo sento schioccare la lingua, ed emettere un sospiro. << Senti, mi spiace per prima. Ma se gli lascio ruota libera ti devastano il cervello. Persino un ragazzo a pagamento arrossirebbe dalla vergogna, a sentirli >>.
<< Sì, okay, ma io … non sono un ragazzo a pagamento >>.
Mi lancia un’occhiata divertita. E sta per dire qualcosa, quando dalla cucina spunta Dite, le ciocche scompigliate appiccicate al volto. << Io la mia parte l’ho fatta. Ora voglio il mio premio >>.
<< E che, si è mai sentito di un premio dopo una punizione? >>.
<< Ti lascio il mio numero >>, prosegue come Ale non avesse detto niente. Rivolto a me, ovvio. << Così sarai tu a decidere se contattarmi, e quando >>. Sorride, strizzandomi uno di quei magnifici occhi celesti.
<< Ecco, come ti dicevo, Dite sarebbe un perfetto esempio di ragazzo a pagamento. Anzi, sono quasi sicuro che il suo lavoro nel centro massaggi sia solo un bell’eufemismo … sbaglio? >>.
<< Guarda che l’ho capito, che stavi cercando di farti bello davanti al tuo coinquilino >>, sbotta Magnus, le manine umide sui fianchi. << Non gli dare retta, Leo. Sembra così a posto e per benino, ma se sentissi che razza di oscenità riesce a tirar fuori da quella boccuccia che pare tanto santa, ti cascherebbero le orecchie >>.
<< Certo, certo, continua pure a dire bugie, Dite >>. Ale sfila la tovaglia, per nulla irritato. Al contrario. << Tanto Leo lo sa che non è vero. Giusto? >>.
Vorrei tenergli bordone e assentire, ma tutto quello che mi riesce di fare è muovere la testa. Da destra a sinistra. << Ah! Visto che l’ha capito pure lui, che invece è la pura verità! >>.
<< No, cioè, scusa, sì. In Grecia … si fa al contrario che nel resto d’Europa >>.
Ale lancia un’occhiata trionfante a Magnus. Che mi si avvicina con fare suadente. << Ah ah. Interessante. Ed è l’unica cosa, che si fa al contrario, in Grecia? >>.
<< Be’ … >>. A questo punto viene fuori Angelo, sbuffante.
<< Sei un figlio di una cagna svedese, Dite. Hai sciacquato tutti i bicchieri e a me hai lasciato le rogne. Questa me la paghi >>.
Magnus fa un gesto con il capo, sventagliando i lunghi capelli. << Si chiama karma, Angelo. La prossima volta che prenderai il gabinetto per un tiro al bersaglio, ci penserai due volte >>.
<< Come se tu la facessi seduto … okay, penso sia ora di andare. La prossima volta, Leo, ti porto una caponata da far girare la testa >>.
<< Prossima volta? E chi ha detto che ci sarà una prossima volta? Vi siete salvati in calcio d’angolo, già stasera >>.
<< E chi ha detto che devi esserci pure tu? >>, lo rimbecca Angelo, grattandosi il collo. << Andiamo, Di? Che ho giusto bisogno di un digestivo, sai >>. Fa per cingerlo col braccio, ma l’altro si scansa.
<< C’è del bicarbonato in frigo, a casa >>, è la replica raggelante di Magnus.
<< Sì, sì. Poi ne riparliamo >>. Prende la giacca, e quella di Magnus. << Be’, ragazzi, buonanotte. E grazie >>.
<< A voi >>, mormoro, accodandomi ai tre per accompagnare gli ospiti alla porta.
Prima di uscire, Dite si gira. << Ti sei trovato un ottimo coinquilino, Ale. Cerca di non farlo smammare in fretta … con le tue manie per la pulizia >>, sentenzia, con uno sguardo che non riesco a decifrare.
<< Ah, non potrebbe neppure se mi costringesse a lavare i piatti tutti i giorni, o a battere il materasso. Mi ha salvato la vita >>, intervengo io, spero non a sproposito.
Magnus lo guarda a lungo, poi fa un cenno con la testa. Il buio delle scale lo ingoia e ci ritroviamo soli, io e lui.
<< Ora sai che la prossima volta non mi chiederai a che ora arrivano >>, è il commento di Ale, appena chiude la porta. <<  Ma a che ora se ne vanno >>.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** 6. ***


Mentre Ale è di là a fare la doccia, io esco sul terrazzino e mi accendo una sigaretta. Fa un freddo cane, si gela, così mi tiro addosso il plaid che ho dimenticato fuori stamattina presto.
L’ho evitata per tutto il pomeriggio, ogni qualvolta che il cellulare fermava la riproduzione casuale su quella canzone premevo “fast forward” e la scansavo come fosse una buca per strada.
Ma adesso che ho un attimo tutto per me non riesco a farne a meno.
Tiro fuori il cellulare dalla tasca, la cerco e aziono il tasto “play”.
Anche se è un brano hip-hop il ritmo è allegro, suadente, ha un tocco della musica popolare greca e uno di arabeggiante, qualcosa che invita a gettarsi nella mischia senza pensarci due volte.
Ma il testo è tutto un altro discorso. E’ amaro, a tratti duro, e parla di una speranza forse solo immaginata, lontana. Irraggiungibile.
“ … Chilometri, migliaia, migliaia e le stesse miglia, quando ti vedo ti darò migliaia di baci sulle tue labbra.
Oppure metti 1000 come apice, contali se puoi e inseriscili nel grembiule del cielo
non sei solo in un mondo che provoca dolore, che ha imparato a sciogliere i sentimenti, a imparare a uccidere.
e se la menzogna serpeggia come la polvere nelle case, quando ci incontriamo giaceremo sullo stesso lenzuolo.
non sei l'unico a cercare qualcosa di reale, siamo di più e abbiamo tutti qualcosa in comune. che cosa?
ferite da amori, delusioni, amare mattinate da amori sbagliati e verrà il giorno in cui ci incontreremo con il sole e diremo buongiorno.
la mattinata poi sembrerà una celebrazione perché tutti noi cerchiamo l'amore in questa vita.
Quando verrà il giorno, entrambi diremo buongiorno
che respireremo la stessa aria
questo è quando la nostra notte sembrerà una notte
è in fiamme…”.
Giuro che non ho idea di come sia finita sul mio cellulare. Mi piacerebbe poter pensare che sia opera di Shaina, ma lei ascolta solo … quello che di solito ascolto anch’io.
Anche per questo mi è piaciuta tanto, quando ci siamo conosciuti.
<< Carina >>, sento dire la voce alle mie spalle. E per un secondo sussulto dalla sdraio: solo dopo realizzo che si sta riferendo alla canzone, e non … a colei a cui stavo pensando.
A meno che non possegga capacità medianiche. In tal caso sarei abbondantemente fottuto da un pezzo.
Prendo un’aria disinvolta. << Ma dai? Non so neppure perché ce l’ho. La stavo ascoltando per curiosità, non so nemmeno di che si tratta >>.
<< E…? >>.
<< Troppo smielata >>.
Mi giro e lo vedo fare quell’espressione che ormai conosco bene. China leggermente il capo, stirando l’angolo della bocca e socchiude gli occhi inarcando un sopracciglio.
Poi alza la mano. << Ce lo finiamo? >>, chiede, agitando la bottiglia.
<< Ma come, ce n’è ancora? Credevo fosse già finito >>.
<< Se hai notato io ne ho bevuto neanche mezzo bicchiere. Per me questo non è un vino da pasto. Bisogna … assaporarlo con grazia, un sorso alla volta. Ascoltare ogni sua nota, quale più dolce, quale più aspra, sentirle fondersi sulla lingua come in una danza. Percepirne l’aroma vellutato stemperarsi lentamente, rivestire la bocca col suo retrogusto e lasciarti quella patina inimitabile, differente per ogni qualità, per ogni annata. Ed è chiaro che non puoi farlo, se sei impegnato a strafogarti come hanno fatto quei due >>.
Meno male che alla fine mi è scivolato, che sennò rischiavo di ritrovarmi a bocca spalancata come uno stoccafisso.
E’ evidente che non è soltanto un semplice barista, che c’è una parte del suo lavoro che conosce bene e che ama profondamente. Senza contare ch’è un mago, con le parole; mi ha stregato, puro e semplice.
E io … non posso che ammirarlo. << Ma forse è anche vero che sono di parte. E’ uno dei miei preferiti >>, aggiunge.
Non dovrei sentirmi tanto fiero, proprio no. Tanto più che si è trattato di un ripiego.
Però lo sono lo stesso.
Sto ancora cercando di metabolizzare la sorpresa e la soddisfazione, che abbassa la voce con fare cospiratore. Quando lo fa, l’accento si sente più marcato che di solito. << Non lo dire in giro, però. Ho una reputazione di spagnolo da difendere, se sanno che mi do di straforo al vino estero, non mi fanno più mettere piede a Toledo >>.
Sorrido. << No, promesso >>. Spengo il cellulare e lo poso sul tavolino, prendendo l’accendino e il pacchetto.
<< Posso? >>, gli chiedo.
Lui annuisce, così me ne accendo una. Sto facendo proprio l’esatto contrario di quello che ha detto, devastandomi il senso del gusto con il fumo.
Ma non so perché mi è proprio venuta voglia di una sigaretta.
<< E comunque ho messo in riga anche quei due, prima che tu uscissi dal bagno. Non che bere peggiori molto le cose, nel loro caso >>.
<< La stai facendo troppo lunga, Alejandro. Sono simpatici, invece >>. D’altronde io sono abituato a Milo, ch’è sulla stessa falsariga, solo dell’altra sponda.
<< Già. Come no. Come un manico di scopa >>.
<< Se dici così, devo pensare che siano mooooolto più che simpatici >>. Lui alza le sopracciglia, stupito, poi mi tira lo strofinaccio con cui stava passando i bicchieri; e rido.
Ma in realtà ho avvertito una pulsazione più forte, al petto.
E’ la prima volta che compie un gesto simile. E’ stato quasi … intimo, come il superamento di una linea di confine.
Inizia a darmi confidenza. Quanto meno un po’.
E questo non può far altro che rendermi felice. << Da quando li conosco, ho iniziato a capire cosa volesse dire Kundera con il suo “ A condannare un uomo alla solitudine sono i suoi amici, non i suoi nemici” >>, ammette alzando le spalle.  
Lo guardo e sorrido. Io ricordo frasi più belle, di Kundera.
Ad esempio? “L’amore non si manifesta col desiderio di fare l’amore, ma di dormire insieme”. Che guarda caso, è quello che dice anche la canzone, più o meno.
Ma non lo dico a lui. Specialmente dopo quelle parole di Magnus.
Chissà a cosa si stava riferendo. Cioè, non sono del tutto rimbambito, è chiaro che ci dev’essere qualche storia finita male, di mezzo.
Non posso fare a meno di chiedermi come, quando e perché. Se è stato lui a lasciarlo, o l’altro ad abbandonarlo. E in tal caso, il motivo. E il modo, soprattutto.
Mi piacerebbe immaginare che sia stata una chiusura civile, senza strascichi. Ma dalla reazione fin troppo controllata che ha avuto con Dite, ho come la brutta sensazione che non sia andata così. E che … chiunque fosse, gli abbia fatto male, davvero.
Lo guardo mentre versa il vino nei calici, riempiendoli per metà; e mi riesce difficile pensare che qualcuno abbia voluto infliggergliene volontariamente.
Certo è semplice per me giudicare stando da questo lato della questione. Forse non è facile stare con lui da partner, in effetti è un po’ rigido, e devo purtroppo ammettere che se si comporta anche … con l’uomo con cui sta allo stesso modo in cui fa con gli altri, come Magnus e Angelo, o anche con me, be’, non tutti possono gradire. Io stesso mi sento frustrato dal suo atteggiamento, e sono soltanto il suo coinquilino.
Mi passa il calice, mentre rigira il proprio tra le dita. Io non riuscirei a farlo senza versarmi addosso metà del contenuto, quindi mi accontento di stringerlo nel palmo, per scaldarlo.
Il rosso si beve a temperatura ambiente. E’ quasi l’unica cosa che so. << Vi conoscete da molto? >>.
Si siede anche lui. << In realtà da quando sono qui a Londra. Ho incontrato Magnus che distribuiva volantini per un evento in un locale, vicino alla stazione della metropolitana. Poi lui mi ha presentato Angelo >>.
Ho una curiosità indecente, che mi punge la lingua. Sarebbe meglio tacere, ma la tentazione è troppo forte, e io non sono mai stato bravo a resistere. << E … avete mai… ? >>.
<< No, no >>. Manda giù un sorso, continuando poi a far roteare il bicchiere con un gesto fluido, elegante e sicuro. Dev’essere davvero bravo nel suo lavoro … e mi sento una merda nel non essere andato ancora una volta a trovarlo al bar. 
Vero è anche che non mi ha mai chiesto di andarci. E che magari se mi fossi presentato lì, l’avrebbe presa come un’indebita intrusione, stando a com’è fatto. In fondo ci conosciamo da poco.
Però stasera, anzi adesso, vedendolo così, mi viene più facile pensare che invece abbia dato per scontato che se avessi voluto, l’avrei fatto motu propriu.
Improvvisamente l’irritazione cambia soggetto, e si rivolge verso di lui. Mi pare che sia abituato a dare troppe cose per scontate, questo benedetto ragazzo.
Poi mi do del cretino. Sono pensieri miei, magari a lui non è neppure passato per la testa. E sono io quello che si sta facendo un sacco di seghe mentali per niente.
Passa un attimo in cui autocensuro il mio cervello. Non è il termine più sano che potessi pescare in questo momento.
Meno male che Ale viene in mio soccorso, riprendendo a parlare. << Veramente, c’è stata una volta in cui ho baciato Magnus. Ma era per una scommessa, quindi non vale >>, ammette, giocherellando col calice.
Quanto sia stata davvero di aiuto la sua frase non lo so: resto sbigottito, il dispetto mutato in incredulità. Questa davvero non me l’aspettavo.
E subito mi viene un sospetto. Non è che Dite … gli ha posato gli occhi addosso, ma scoraggiato dal fatto che Ale lo veda solo come un amico gli ha mosso quel rimprovero per giusta causa?
Perché in effetti, nonostante la sua “rigidità”, Alejandro è … sicuramente affascinante. Cioè, lo dico da semplice conoscente, è una persona con un certo carisma. Già solo la sicurezza che emana deve risultare parecchio attraente.
Senza contare il suo aspetto. Ora che ha addosso solo una maglia nera leggera, e i calzoni della tuta i rilievi del suo corpo emergono chiaramente da sotto la stoffa morbida, non eccessivi, come quegli zoticoni pompati dei concorsi; ha delle linee affusolate e al contempo solide, del tutto naturali. Il suo volto qualcuno potrebbe trovarlo un po’ spigoloso; non ha la bellezza androgina, sfacciata del suo amico Magnus, però ha una struttura invidiabile, il naso fiero e dritto, gli zigomi alti, il mento deciso, appena segnato da una fossetta. E gli occhi, soprattutto … dietro quelle lenti che rendono lo sguardo severo, hanno un taglio particolarissimo, come il colore. Persino le ciglia, lunghe e folte, nerissime come i capelli accentuano l’impressione di smarrircisi dentro a queste iridi immense, profonde. 
Sì, indubbiamente è affascinante. E se lo dico io che sono etero … << Vinta o persa? >>.
<< Persa >>.
<< Quindi era la penitenza? Ma povero … >>.
<< In realtà non bacia male. Ma non è il mio genere >>.
<< Scommetto che avresti preferito Angelo >>, sputo fuori, anche se sono certo di dire una solenne cazzata.
A meno che uno di loro due nasconda molto bene … il lato più dolce e femminile di sé.
Per la prima volta mi ritrovo a domandarmi quale possa essere il suo tipo d’uomo. Sicuramente non uno come i suoi amici, altrimenti sarebbe un’eterna lotta, seppur da un estremo all’altro.
E realizzo che è davvero difficile decifrarlo. Non ce lo vedo proprio accanto ad un tipo tutto svenevolezze e mossettine. Come neppure assieme ad un … “cafone”, per citare Magnus, come il siciliano.
Forse uno come lui. Serio e inappuntabile.
Ale fa una faccia inorridita, a dir poco. << Meno male che non hai puntato nulla, altrimenti avresti perso tu, stavolta >>.
<< Cioè, però a vederlo così, non sembra … >>. Mi aspetto che mi dia del prevenuto, solo perché ho bollato una persona per la sua apparenza.
Principalmente perché anche lui non sembra omosessuale. Né tanto meno io, immagino.
Mando giù un sorso di vino, aspettandomi la sua reazione contrariata.
Invece Ale sorride più visibilmente. << In realtà è bisessuale, o almeno così credo. Ha avuto una lunga storia con una ragazza, prima di partire per una vacanza studio in Spagna. Lì ha incontrato Magnus ch’era in vacanza anche lui … e addio >>. Manda giù un altro sorso, anche lui. << La mia terra è pericolosa, a quanto pare >>.
<< Ehi, io sono greco. Siamo stati noi ad insegnarvi tutto quello che sapete su questo genere di pericoli. O quanto meno, siamo quelli che ne hanno fatto una tradizione millenaria. Non per niente, si dice ancora oggi “amore greco” >>, sbotto in un suglio di ostentazione davvero vergognoso.  
Cazzo, cazzo, cazzo! Stupida boccaccia del cavolo, e stupido vino che ci sta dentro.
Ale mi scocca un’occhiata obliqua. Il sorriso è ancora sulle sue labbra. << Giusto. Ora capisco da dove i siciliani hanno preso la tradizione dei cannoli … la Sicilia è stata una colonia greca, se non ricordo male >>.
<< Sì, infatti  >>.
<< Ma è stato anche dominio spagnolo >>.
<< Vero, ma i greci sono venuti prima >>. Okay, ora ho davvero toccato il fondo.
Perché me ne rendo conto sempre dopo che il danno è fatto?
Quasi mi aspetto che mi rimbrotti come ha fatto coi suoi amici.
Invece fa un ghigno divertito. << Vero anche questo. Probabilmente avevano fatto parecchia pratica, con i cannoli >>.
Di colpo sento la faccia in fiamme. << Oddio. Aveva ragione Magnus. Ora dovresti pagare pegno tu, dopo tutto quello che gli hai rimproverato >>. Inizio sul serio a capire cosa volesse dire il ragazzo, dicendo che non è tanto perbenino come sembra.
Lui arriccia il naso in una smorfia, espirando con forza. << Touché. E’ già la seconda volta che mi prendi in scacco, stasera >>. Vuota il suo bicchiere, stiracchiandosi poi nella sdraio. Piega la testa da un lato, muovendola avanti e indietro come se gli dolesse qualcosa.
Dovrei lasciarlo andare a dormire. E’ stata una lunga giornata per entrambi, e la mia soglia di lucidità si abbassa pericolosamente ad ogni minuto che trascorro con lui, oltre che ad ogni grammo d’alcol che immetto in corpo. Me ne rendo conto con esattezza quando lo sento farsi sfuggire un lieve verso di sofferenza, e portare la mano libera nell’incavo della spalla, premendo su un punto che immagino sia un nervo.
E mi lampeggia qualcosa, dentro. Come una spia luminosa sul cruscotto di un’auto, quella del radiatore. O mi fermo, o rischio di distruggere qualcosa, mandandola in fumo e cenere.
Ma appena apro bocca per proporglielo, lui mi precede. I suoi occhi brillano leggermente dietro gli occhiali, o è colpa del vino, ma non credo, oppure gli va parecchio a genio la prospettiva di pagare pegno.
Sarebbe insolito. Credo sia più abituato a infliggere penitenze, che a sottostarvi. << Avanti. Cosa devo fare? >>.
Non riesco a resistere al suo invito. << Rispondermi. A … qualche domanda, se ti va >>.
<< Tipo obbligo o verità? >>.
<< Be’, più o meno. Facciamo verità e basta >>. Sollevo il calice vuoto. << Abbiamo finito il vino >>.
Mi guarda per qualche secondo. E avverto una certa esitazione nella sua voce, quando riprende a parlare: << Ho una bottiglia ch’è rimasta chiusa nel mobile per un bel po’. Credi sia il caso di battezzarla? >>.
<< Dipende. Cos’è? >>.
<< Vodka. Liscia. Starka, la migliore sulla piazza. Quarantotto gradi di pura acquavite russa distillata a mano >>.
Non mi pare un buon partito da prendere, soprattutto dopo il vino. Però è così … irresistibile, ecco. Il suo entusiasmo è un catalizzatore, molto più delle lodi sulla vodka.
<< Non dovresti tentarmi così, Ale >>, lo ammonisco, in tono poco convinto.
Spero tanto non suoni troppo … malizioso, ecco.
<< Io non tento, al massimo propongo >>, replica alzandosi in piedi, lanciandomi un’occhiata da lassù. << E … giocare così, a secco, può essere fastidioso >>.
Okay. Se credevo di non poter avvampare oltre una certa soglia, ora ne sono sicuro.
Cosa c’è dopo il bordeaux acceso? Di sicuro, è di quel colore che ho la faccia. << Dovrei registrarti per farglielo sentire. Anzi, visto che mi ha lasciato il suo numero dopo glielo scrivo >>.
Invece di irritarsi, o ridacchiare, lui torna improvvisamente serio. << Questo è per dimostrare che non ci vuole niente a scadere nella volgarità, se ci si mette. Non è che non sono capace di scherzare in questo modo, è solo che mi infastidisce dare l’impressione di essere fatto così quando invece non lo sono >>.
Se per sbaglio gli capitasse di sentire Milo al top della sua forma, probabilmente lo obbligherebbe a farci i gargarismi, con quella vodka. E magari anche con un po’ di candeggina, giusto per andare sul sicuro.
Meno male che non s’incontreranno mai. Perché se avvenisse dovrei essere io a bere candeggina.
<< Allora? >>, insiste. << La metto fuori?  >>.
Dovrei rifiutare, se non altro per istinto di sopravvivenza. E’ da quando sto con Shaina che ho allentato il ritmo, e non reggo più tanto bene come un tempo.
Un tempo che non voglio ricordare. E’ ancora fin troppo viva l’impressione di un tubo cacciato a forza in gola, fino allo stomaco.
Non che questo mi abbia fermato, allora, però.
Nemmeno vedere che anche a mamma hanno riservato lo stesso trattamento, lo ha fatto.
Ma non riesco a rinunciare a quest’opportunità inattesa e insperata. Vuole trascorrere un altro po’ di tempo con me, e sembra più disponibile che mai.
Direi quasi … impaziente.
E penso di poter ancora reggere un bicchierino. << Va bene, dai. Ma non ti lamentare se ti ritroverai sbronzo fradicio perché non hai voluto rispondere alle mie domande >>.
Il sorrisetto furbo che gli sboccia sul volto mi lascia esterrefatto, quasi quanto le sue battute. << Chi ti ha detto che non risponderò? >>.
<< Be’ … >>.
<< Tu provaci, a porle. Sennò non puoi saperlo, se lo farò o meno. L’importante è che siano quelle giuste >>.
Rientra in casa portando via la bottiglia vuota e i bicchieri, e quando torna mi porge la nuova bottiglia, nell’altra mano stringe una pentola che per l’occasione è stata riciclata a secchiello per il ghiaccio.
<< A te l’onore >>, scherza.
Okay, a quanto pare bere fa male anche a lui. O bene, dipende dai punti di vista.
E’ sempre tutta una fottuta questione di punti di vista. Chi vede il bicchiere mezzo vuoto, chi mezzo pieno.
E’ affascinante osservare la sequenza di gesti metodici, quasi chirurgici di Ale. Passa i bicchieri bagnati con lo strofinaccio pulito, li posa sul tavolino e ci mette il ghiaccio.
Apro la bottiglia, e gliela passo. Li colma per metà, e me ne passa uno, tornando a sedersi.
Mezzo vuoto e mezzo pieno. Esattamente come mi sento anch’io, adesso. << Conosci le regole? >>.
<< All’incirca. Non è un gioco che faccia spesso >>, ammette, tirandosi indietro più comodamente nella sdraio, una mano dietro la nuca, l’altra che regge in equilibrio il bicchiere sulla coscia.
Sembra molto più che rilassato.
E monta, improvvisa, la voglia di punzecchiarlo. Per vedere se è solo una finta, la sua, o se davvero è deciso a lasciarsi spogliare, almeno un po’. << Allora, se faccio una domanda e ti rifiuti di rispondere, devi bere. Se invece rispondi, devo bere io >>, spiego.
<< Bene. Sono pronto >>.
<< Il primo bacio >>, dico, aspettandomi quanto meno un’incertezza. << Accetti, o rifiuti? >>.
<< Ah, accetto >>. Porto il bicchiere alle labbra, lambendo appena la superficie.
Accidenti. Per forte è forte, meno male che c’è il ghiaccio, sennò sarei andato giù solo con l’odore. << Solo … vuoi sapere se l’ho dato ad un ragazzo o a una ragazza? >>.
Forse avrei dovuto aspettare a bere.
Tossisco, risputando metà della vodka. << Che c’è? Ho avuto anch’io qualche esperienza con le donne, prima di capire che non facevano per me >>, fa Ale in tono innocente.
E certo. Chiaro che ha avuto esperienze con le donne.
Improvvisamente mi sento su un terreno molto meno solido. E già era abbastanza scivoloso,  ora è proprio un pendio ghiacciato. << O … okay. Facciamo in generale >>.
<< A tredici anni. Si chiama Martina,  frequentava la mia stessa classe. E’ stato in gita a Oviedo, sotto un albero di pesco in fiore, mentre il professore di matematica cercava disperatamente di tenere a bada il resto della classe >>.
<< A stampo, oppure … ? >>.
<< Ma che domande … ovviamente a stampo. Aveva l’apparecchio >>.
<< Ahhh! Ecco svelato l’arcano. Metti caso che con una figa ti veniva qualche ripensamento … >>.
<< Ehi, guarda ch’era la più carina della scuola. Aveva l’apparecchio, vero, ma una quarta abbondante e ed era più alta di me. Bionda, con le lentiggini. C’era una fila lunga come quella in posta, dietro. Aspetta, te la faccio vedere. Siamo ancora amici, ogni tanto ci contattiamo >>. Sfila il cellulare dalla tasca dei calzoni, giocherella con lo schermo e poi lo volta. << Fa la fashion blogger, e vive a Barcellona, adesso >>.
Porca miseria. Altro che figa. Un pezzo di ragazza alta e sexy da morire, con tutte le curve nei punti giusti.
Se mi sentisse Shaina mi scuoierebbe e con la mia pelle ci farebbe un bel tappeto. Magari da consigliare a Martina. << Accidenti. Se non le hai infilato la lingua in bocca, apparecchio o meno, davvero non credo non ci siano dubbi >>, commento, sconcertato. << Anche se forse all’epoca non era così >>.
<< In effetti, era un po’ più bassa >>, è la sua replica divertita.
Sembra ci stia prendendo gusto a scioccarmi. 
Ma non posso cedergli. E’ una sfida, anche se puerile, e non ce la faccio a dichiararmi sconfitto. Qualsiasi cosa debba sentire.
In fondo con Milo sono abituato a molto peggio.
In fondo, io stesso sono stato molto peggio. E non mi sono limitato a dirle, ma a farle, determinate cose. << E … com’è stato? Cioè, cosa … hai provato, per farti capire che non  … andava? >>.
<< In realtà nulla. E’ stato un bacio innocente, e penso di non averlo preso neanche troppo sul serio, per considerarlo il mio vero e proprio primo bacio. E non è stato neppure un esperimento. Eravamo vicini, lei si è fatta avanti e … tutto qui >>.
<< Tutto qui. E … qual è quello che consideri il tuo primo bacio vero? >>.
<< A sedici. Ad un ragazzo, naturalmente >>. Si ferma perché io possa bere di nuovo. Un miserrimo sorsetto, perché ho il bruttissimo presentimento che la sua sia una pausa ad effetto, e appena aggiungerà qualcosa io rischi di strozzarmi sul serio, a questo giro. << Veramente è iniziato come un bacio, ma poi … lui era più grande di un anno, di me. E … bravo, soprattutto con la bocca >>.
<< E non portava l’apparecchio >>.
<< No >>. Ridacchia. << Non portava l’apparecchio >>.
Mi sento un po’ stordito. Immagino c’entri tutto quello che ho in circolo, ma anche queste rivelazioni hanno il loro peso specifico non trascurabile.
Chissà perché ero convintissimo non fosse tipo da andare con chicchessia. Tanto meno … per una cosa così importante. Pensavo fosse uno che pianifica nei minimi dettagli ogni cosa, persino quando lasciarsi andare agli impulsi.
Per cui è davvero uno shock, scoprire che non è così. << Quindi, è stata anche la tua prima volta? >>.
<< No, quella a diciannove. Allora ci siamo fermati alla bocca >>.
<< Solo lui o … ? >>.
L’espressione fin qui tranquilla si acciglia leggermente. << Ma è un gioco, o un interrogatorio? Non dovrebbe essere una domanda a turno? >>, mi bacchetta.  
Io chino il capo, alzando il bicchiere in gesto di resa. La solita ingordigia che pretende di abbuffarsi tutto in una volta, senza lasciar nulla agli altri.
E pensavo di averlo messo in riga, questo vizio. Ora rispunta con forza, solo in una nuova forma.
Ma è sempre lo stesso. << Scusa. E’ solo che … sono curioso >>.
Inclina il volto, come a dire che non mi serba rancore. << Sì, l’ho notato. Ora tocca a te, rispondere >>.
<< Spara. Sono pronto>>.
Lui ci pensa un po’ su. Poi torna a guardarmi, un’occhiata obliqua che filtra da sotto le ciglia. << Cosa speri di ricavare, da questa esperienza? >>, butta lì.
Apparentemente sarebbe una domanda molto meno scabrosa di quello che mi aspettavo.  Eppure mi prende alla sprovvista, e quasi avrei preferito qualcosa a luci rosse. << Ehi, ma non erano domande piccanti? >>, protesto infatti.
Lui alza impercettibilmente l’angolo delle labbra. sembra quasi che abbia scommesso con se stesso e abbia vinto.
E’ abituato a giocare, e realizzo che non è stata davvero una domanda casuale. Mi sorge il dubbio che la pensi da un po’, e mi chiedo come mai abbia atteso questo momento per pormela.
Ma poi penso che sto sicuramente esagerando. E’ solo una domanda come un’altra, e me la sta ponendo adesso perché finora non abbiamo avuto occasioni di chiacchierare. Ecco tutto. << Non abbiamo deciso il tema delle domande. Quindi è libero. Avanti, rispondi oppure rifiuta >>.
Rifiutare, io? Giammai. << Sinceramente? Di riuscire a portare a termine la ricerca che sto svolgendo. Anche se … >>. D’un tratto sento che per quanto fondamentale, questo è davvero l’ultimo dei miei obbiettivi.
Come se avessi trovato solo ora il coraggio di porre lo sguardo sulla pozza torbida delle intenzioni, e sia riuscito ad intravederne il fondo.
E la gola mi si serra in un pugno. Davvero, ha fatto l’unica domanda che forse non avrei trovato la forza di pormi io stesso, se non l’avesse fatto lui. E il fatto che non sappia cosa rispondere la dice lunga sul mio attuale stato mentale ed emotivo.
O quest’uomo è un genio, oppure se lo fa inconsciamente, è molto bravo a leggere le persone. << Se? >>, insiste, vedendo che taccio.
Mi sento improvvisamente esposto, e mi viene difficile spiegargli cosa davvero stia provando adesso.
La sua domanda è arrivata come il sasso in quella pozza, che per un istante ha scoperto i sassolini altrimenti annegati nella mota. << Nulla >>.
<< Leo, devi bere se ti rifiuti di rispondere >>.
Il suo tono leggero mi fa intuire che non ha cattive intenzioni, non vuole estorcermi la verità; sta semplicemente sottostando alle regole che io stesso ho imposto. Come da aspettativa, trattandosi di lui. << Ma non mi sto rifiutando. Solo … mi sento un po’ confuso >>.
<< Okay. Lascia perdere la ricerca. Pensa a te come persona, non come studente. Cosa speri di riportare in Grecia, alla fine? In cosa credi che tornerai arricchito, oltre le nozioni di economia, e un innalzamento di grado sul tuo certificato di conoscenza dell’inglese? Pensaci >>.
<< Be’ … >>. Fisso il liquido nel bicchiere, il ghiaccio che si diluisce lentamente.
Mentire adesso sarebbe davvero impossibile, rischierei di incasinarmi del tutto, peggio che se avessi dovuto rispondere a qualche domanda su un immaginario curriculum vitae da gay.
Così rispondo sinceramente. << In realtà non è tanto cosa porterò con me, ma quello che troverò una volta tornato a casa >>, ammetto. << Mi piacerebbe … che si sistemasse, almeno qualcosa di quello che mi sono lasciato dietro >>.
<< Quindi la tua è stata una pausa, più che una partenza calcolata >>. Dice “pausa” per non dire “fuga”, lo sento chiaramente nella testa anche se non l’ha pronunciato.
<< Non proprio. Sono venuto qui … per una specie di sfida, di patto con me stesso. Volevo dimostrare di essere in grado di badare a me stesso, da solo. Di non dover sempre farmi ungere da mio padre, di riuscire a realizzare qualcosa con le mie sole forze. Per questo ho fatto domanda di borsa di studio. Per non dover … ricorrere sempre a casa, alla mia famiglia. E poi ci sono … altre cose >>. Troppo sincero. Forse adesso mi domanderà quali siano, queste altre cose.
Invece non lo fa. Risistema gli occhiali sul volto, annuendo. << Visto? Non era difficile >>. Vuota il bicchiere, dove restano solo due piccole scaglie di ghiaccio. << Be’, credo che sia ora di andare a nanna >>.
<< Tutto qui? Non t’interessa sapere altro, di me? Nessuna prima volta? >>.
Sto giocando col fuoco, e me ne rendo conto.
Ma non voglio che finisca. Ora che lo vedo così … rilassato, aperto, ho il timore che sia l’unica occasione buona per avvicinarmi di più a lui.
E poi sono egocentrico. Che qualcuno non sia interessato a sentir parlare di me è come un’offesa al mio onore, anche se fino ad un minuto fa ero in alto mare.
Ale mi studia con una lunga occhiata imperscrutabile, che mi scorre addosso come un panno umido e caldo. Rabbrividisco, ma sono certo che sia colpa della cappa caliginosa che copre il cielo, oscurandolo.
Oltre che del tasso alcolico decisamente impennato, nel mio sangue.
Sì, sono ad un passo dalla sbronza convinta. E solo il fatto che non sia troppo in me m’impedisce di pensare ch’è a mio beneficio, il fatto che abbia deciso di chiuderla qui.
Lui sembra molto più lucido. Ma chiaro, a cena quasi non ha toccato il bicchiere, e adesso ha appena terminato il suo mentre io stavo già tracannando da un pezzo, ed è tutto in giro nel mio organismo.
O forse è solo più allenato a reggere. D’altronde ho appena scoperto che non è proprio come sembra, Alejandro. Esattamente come Dite aveva suggerito.
Stira un sorrisetto storto. << Se ci diciamo tutto adesso, poi cosa facciamo, la prossima volta? Perderemmo la scusa per finire anche questa bottiglia >>.
Sorrido, improvvisamente felice. Non è che un’ipotesi, che magari non si verificherà, ma già soltanto sentirglielo proporre mi fa dimenticare che stavo per farmi riprendere dalla malinconia.
Perché mi basta così poco, per smaltire dubbi e cattivi pensieri? << Vieni anche tu? >>.
<< Appena riesco a tirami su >>.
<< Ho capito. Dammi la mano >>. Gliela porgo, e lui la raccoglie sollevandomi come se pesassi quanto la bottiglia sul tavolo. Non ero preparato a tanta energia e quasi gli sbatto addosso.
Così riesco a sentire più da vicino il suo odore. E’ intrigante, potente, e in sottofondo si coglie una nota differente ma non fastidiosa, anzi, un misto di vodka ed erbe amarognole, reso più intenso dalla foschia, che fanno pensare ad un campo sotto un temporale improvviso.
D’un tratto mi pizzicano le mani. Dev’essere per colpa dei nostri discorsi, che mi sento tanto a disagio.
Lo è anche lui, evidentemente, perché si morde il labbro, e non posso fare a meno di quanto sia ben fatto. A differenza dei tratti sobri, quasi austeri del resto la bocca è piena, dai contorni netti, anche se un po’ pallida, e se devo credere a tutto quello che vanno dicendo le riviste di Shaina che ogni tanto dimentica in auto, e che sfoglio perché sono proprio curioso di sapere come sperano di intortare noi poveri maschi, le donne d’oggi, rivela un lato possessivo e passionale.
Mi piacerebbe proprio tanto sapere com’è che la pure pagano, certa gente. Mah. Come pure quelli che si danno agli oroscopi, o che pretendono di capire una persona dal modo in cui scrive.
Non so di che segno sia Ale, e il tempo delle domande per oggi è finito; e poi anche ammesso, a queste cose ci credo poco. Per contro ho notato che è mancino, che chissà cosa vuol dire, ma appurerò presto, e la sua calligrafia è minuta ma armoniosa e ordinata. Però c’è un curioso contrasto tra la strettezza degli spazi tra i caratteri e la dimensione degli occhielli di alcune lettere, come la “g”, ad esempio.
Come nei tratti del suo volto. << Scusa >>, mi dice, continuando a reggermi con un braccio intorno alla schiena.
<< Scusa tu. Cavolo. Mi sa che sono più brillo di quanto pensassi >>.
<< Se è la scusa per farti portare a letto, vedi che non attacca >>, mormora tornando scherzoso. I tendini cervicali si gonfiano, sottopelle; la piccola vena azzurrina preme con forza, come se avesse irrigidito i muscoli per attenuare il dolore.
Così mi stacco dalla sua presa. << Hai male … al collo? >>.
<< In realtà un po’ sì. Stare con quei due mi fa accumulare un sacco di tensione. Di solito mi trema anche il sopracciglio >>.
<< Dai, lo so che ci tieni a loro >>, biascico, seguendolo in casa. Devo stare attento a dove metto i piedi, perché ho l’impressione di poter inciampare anche nelle righe del pavimento, tanto mi sento instabile.
E ho la nuca imperlata di sudore. Freddo. << E loro tengono a te. Amano punzecchiarti, ma forse lo fanno per aiutarti a … lasciarti andare un po’ >>.
Non mi serve guardarlo in faccia per sapere che vi ha un’espressione sardonica stampata sopra. << Se davvero dovessi lasciarmi andare con loro, dopo gli servirebbe un ortopedico. E no, non per quello che stai immaginando tu >>.
<< Mi pare che sia tu, quello che sta immaginando, sai? Io a malapena riesco a tenermi in piedi >>.
<< Però se non ti avessi suggerito io di ritirarci, saremmo ancora fuori >>.
<< Forse perché … questa è la prima volta che ci troviamo insieme per davvero, da quando sono qui >>.
D’un tratto si ferma in mezzo al corridoio, si volta. Nel buio non riesco a vedere il suo viso, ma la voce mi giunge compunta, bassa. << Hai ragione. Sono stato un po’ troppo assente. Mi spiace >>.
Subito cerco di rimediare. << Guarda che scherzo, lo so che sei impegnatissimo. Però … mi piace, stare con te. Sei una persona molto interessante >>. Un attimo dopo mi maledico: di nuovo quell’”interessante” così ambiguo.
Però forse lui non ci fa caso. Si schiarisce la voce, come se fosse in imbarazzo. << Credo sia un po’ presto per dirlo, dopo una volta sola >>.
<< Lo so. Sono impulsivo. Ma in compenso posso dire che non sbaglio mai, o perlomeno quasi mai, a fidarmi dell’istinto >>.
<< Mhmm. Bene. Non so quanto questo possa incrementare le chance di durare assieme altri due mesi e mezzo >>.
<< Se dici così sembra che tu non veda l’ora di liberarti di me >>. Magari sarebbe il caso di farmi un caffè, perché sto parlando davvero a ruota libera.
Ma dubito di riuscire a riuscirci senza invadere la cucina di polvere. E darle fuoco, anche, per soprammercato.
Ci fermiamo entrambi nel disimpegno, pronti ad entrare ognuno nella sua camera. Quella di cui ancora non ho visto nemmeno un millimetro.
E sulle motivazioni di questa stranezza, ho stilato una lista vergognosa, nei primi giorni; in greco, naturalmente, perché a differenza di lui io non chiudo mai. Distratto come sono rischierei di perdermi la chiave e dover sfondare la porta a spallate.
Lo sento sospirare, nel buio. << Scusami. Forse sono un po’ brillo anch’io. Quello che volevo dire è che … Dite ha ragione. Sei probabilmente il miglior coinquilino con cui abbia avuto fin qui >>.
Il mio ego si gonfia a dismisura, anche se probabilmente è solo una carineria di circostanza. Una di quelle cose che si dicono per rimediare ad un’uscita poco felice, o per lusingare un’altra persona.
Purtroppo sono molto sensibile alle lusinghe; ci casco sempre, come una pera cotta. E gli altri se ne approfittano, soprattutto se cercano di ottenere qualcosa da me.
Eppure non lo avverto come un tentativo di adulazione. Anzi, sembra quasi che sia a disagio lui, nell’avermelo confidato. Molto di più nell’avermi attirato con tanta energia da far cozzare le nostre costole le une contro le altre.
Dopo tanta bonomia ora lo sento stranamente timido, a dispetto di tutte le battutine scambiate fin qui.
E mi pare d’intravedere un altro Alejandro, quello che sta nascosto ancora più a fondo, come nel gioco delle bambole russe, le matrioske. Sotto la scorza dell’ineccepibile uomo di testa c’è quello che sa osare, bere con gli amici e scoccare battute salaci, audaci, e che credo venga fuori solo in alcune occasioni.
Quello che vedo adesso sono certo lo faccia ancora meno. E’ uno strato estremamente delicato, in cui sento compresse tante e tante cose, forse anche quello di cui parlava Magnus. Ed è simbolico che venga fuori qui e adesso, nel buio. Come se l’ombra gli restituisse un po’ di quella sicurezza che lui ha deciso di metter giù, per un attimo.
Vorrei dirgli qualcosa di carino anch’io, che poi sarebbe la pura verità, e cioè che probabilmente lui è una delle persone migliori con cui io abbia avuto a che fare fin qui, anche se poco. Ma ho come l’impressione che così lo farei ritrarre di nuovo su se stesso, soprattutto dopo quest’ammissione così spontanea. Come ha fatto prima quando gli ho detto che mi piace trascorrere del tempo con lui.
Non so perché ma alticcio come sono mi viene da pensare ad un ramo di sensitiva. Se ti avvicini quanto basta per ammirarla si lascia guardare, con le sue fronde verde smeraldo e i suoi piccoli piumosi fiori dorati, ma se allunghi troppo una mano si richiude. O ad un piccolo riccio, o a tutte quelle piccole creature coperte da dure scaglie, da aculei o spine per proteggere l’interno tenero e vulnerabile.
Se mi spingo oltre troppo il confine senza che lui me ne dia il permesso, indietreggerà, lo sento. E’ un equilibrio fragile da mantenere, specialmente per me che non ci sono abituato.
Mi manca il contatto fisico, il calore delle persone. L’ho percepito con chiarezza estrema quando mi ha porto la mano aiutandomi a tirarmi su. Non tocco qualcuno da quando sono qui, a parte che delle fugaci strette di mano; e la vampata che mi ha avvolto nel ritrovarmelo vicino è stata abbastanza rivelatrice.
Ma non posso farlo pesare ad Ale.
Mi appoggio schiena al battente, più che altro per non scivolare pericolosamente di lato.
Non ho dubbi che mi prenderebbe al volo, come in quelle prove di fiducia in cui devi chiudere gli occhi e lasciarti andare.
Ma non sarebbe salutare, per il suo mal di collo. E nemmeno per il nostro equilibrio appena raggiunto.
Devo spezzare la tensione, ancora una volta. Non voglio che domani debba svegliarsi con il ricordo di questa sua improvvisa fragilità, e debba provarne dispiacere, o vergogna. Tanto da obbligarlo a rifiutarsi le future occasioni di parlare ancora con me liberamente, come stasera. << Guarda che ho capito cosa stai cercando di fare >>, mormoro.
<< Sì? >>.
<< Ah ah. Sì >>. Faccio una pausa anch’io, tanto per il gusto di coglierlo in contropiede come lui ha fatto con me. << Ma non se ne parla. Non  ti cedo anche la mia parte di cannoli >>.
Lui alza le spalle. Cioè, non lo vedo ma immagino l’abbia fatto. << Be’, io ci ho provato >>, sentenzia in tono filosofico. << Buonanotte, Leo >>.
<< ‘Notte >>. Aspetto che chiuda la mia porta, per entrare nella sua camera.
Ma che mai custodirà in quella camera? Mica un dungeon sadomaso, o un tavolo in acciaio inossidabile da obitorio … animali da fattoria? Nahh, sentirei i belati e anche l’odore, in casa come sui suoi abiti.
E su di lui c’è solo l’odore del suo dopobarba, come ho potuto appurare stasera.
Mah. Mistero. E il fatto che chiuda sempre a chiave, anche quando dentro c’è lui, e che se la porti via quando esce non lascia ben sperare.
Non credo tema che possa derubarlo. Non mi avrebbe accolto in casa, altrimenti.
Dovrei svestirmi, prima di buttarmi sul letto. Almeno levarmi le scarpe.
Questo ci riesco, a farlo. le sfilo puntando i talloni l’uno dopo l’altro.
Sono davvero più cotto di quanto sembrasse. Appena metto la faccia nel cuscino, iniziano a scorrermi in testa storie inquietanti, frammenti di film che ho visto, di libri che ho letto, con gente tenuta imprigionata in una camera mentre chi entrava e usciva dalla casa non ne sapeva una benemerita mazza.
E la fiaba di Barbablu su tutte.
Mi addormento quasi subito su questa allegra falsariga, e sto facendo sogni complicati di cannoli e pentole usate come secchielli per il ghiaccio quando due piccoli, discreti colpi alla porta mi tirano di nuovo da questo lato della realtà.
<< Mhmm? >>.
<< Ehi, Leo. Scusami. Dormivi? Ti ho svegliato? >>.
Faccio per rispondere ma viene fuori solo un verso strano, come un raschietto sul ghiaccio.
Mi schiarisco la gola. Probabilmente ero già ad un punto profondo della mia fase R.E.M, e non quelli di Michael Stipe. << No. Dimmi, Ale >>, borbotto appena comprensibilmente.
<< Non è che avresti … un caricabatterie da prestarmi, no? Il mio ha deciso di morire >>.
<< Come la Veronika di Coelho >>, aggiungo così, a gratis.
<< Esatto >>.
Mi passo una mano sulla faccia, cercando di assicurarmi che non stessi sbavando. Le mie reazioni adesso sono meno controllate di quelle di un povero lobotomizzato, mi sa.
Non berrò più, promesso. Nemmeno se per questo dovrò rinunciare a scoprire i suoi segreti.
Al massimo farò in modo di escogitare domande atte a far bere lui, tanto saranno sconvenienti. << Entra >>.
<< No, grazie, aspetto qui >>.
D’impulso inarco il sopracciglio. E’ assurdo che la sua discrezione debba darmi così tanto fastidio. In genere è una dote.
Infatti la trovo anche … come dire, carina, per usare un suo termine.
Ho il serio dubbio che stia davvero manifestando segnali di bipolarità. O forse è lui che mi fa quest’effetto. << Devo cercarlo, e potrebbe volerci un po’. Mi viene l’ansia, se so che mi stai aspettando dietro la porta >>.
<< Tranquillo. Fai con comodo >>.
Snervato e mezzo rincoglionito, accendo la lampada sul comodino e apro il cassetto. Non è qui.
Così mi rassegno, mi alzo, apro il borsone e ci frugo dentro, nella miriade di cianfrusaglie.
Eccolo qui, il caricatore di emergenza. O almeno spero che lo sia, anche se non credo che un adattatore e un filo elettrico possa servire ad altro che a caricare un computer.
Faccio per spalancare il battente, ma lui infila dentro il braccio. Non sapevo avesse anche doti da contorsionista, visto che ha aperto di appena mezzo centimetro.
Forse pensa che sia in déshabillé, anche se dal mio personale punto di vista non credo ci sarebbe nulla di sconveniente a vedere un altro uomo in mutande, ammesso che fosse. Fin troppe volte durante l’adolescenza ho dovuto “ammirare” le grazie di Milo, che mi passava e spassava davanti in boxer elastici talmente aderenti da sembrare quasi un calco, pregandolo di infilare almeno degli shorts, che sennò mi passava la fame, di primo mattino.
Chiaro che lui non ci pensava proprio a farlo, e sogghignava domandandosi se non fossi per caso invidioso. Certo, come no. In un’altra vita, magari.
E di colpo mi sovviene il pensiero che da quando abito qui, non ho visto una sola volta Ale neanche a torso nudo. Magari per loro … è così, sarebbe come se una ragazza se ne uscisse tette al vento davanti ad un uomo, decisamente imbarazzante.
O forse è solo frutto della sua ormai proverbiale discrezione, e non ama mettersi in mostra davanti a chiunque.
O magari nasconde qualche segreto. Tipo che so, una cicatrice, una bruciatura, o …
E basta, ma che cavolo. Da quando sono qui mi sono fatto più film io di quanti ne abbiano girati a Hollywood da quando hanno inventato il cinematografo, cazzo.
E tutti per colpa sua. Se dovessi usare una parola con cui stigmatizzare Ale, sarebbe “forse”. Con lui è tutto un forse, una persona ci potrebbe perdere la testa, a star dietro a tutto il ventaglio di ipotesi e dubbi che riesce a seminare negli altri.
Non mi passa neppure per un istante il pensiero che possa essere io quello troppo curioso. Prova schiacciante del fatto che il mio cervello è annebbiato dai fumi dell’alcol.
<< Grazie. Domani te lo restituisco >>, mormora attraverso il legno.
<< Puoi tenerlo >>.
<< E se serve a te? >>.
<< Allora te lo chiederò. Dai, non farla tanto lunga, è un caricabatterie, non una Porsche! >>.
<< Okay. Grazie. Scusa se ti ho disturbato >>.
<< Ma figurati. Buonanotte >>. Giro sui tacchi, anzi sulle piante dei piedi, e giacché ci sono mi spoglio. Ora che ho mezzo recuperato un attimo di lucidità, tanto vale farlo.
Non per niente, ma questa roba l’ho pagata un botto di soldi. E sarebbe un peccato se si riempisse di pallini.
Non mi sono ripromesso di dar valore al denaro? << Ah, Leo? >>, mi chiama ancora, giusto un attimo dopo aver sfilato i pantaloni.
Per un secondo l’idea agghiacciante che mi stesse spiando si fa largo nel mio lobo frontale. Quindi mi giro verso la porta. E’ chiusa come due secondi fa.
O nella serie dei poteri paranormali ha inclusa la vista a raggi X, oppure è bene che smetta di preoccuparmi e me ne torni a letto.
Tuttavia non posso fare a meno di domandarmi che cavolo ci faccia ancora in mezzo al disimpegno.
Tanto vale tentare di scoprirlo. << Sì? >>.
<< La prossima volta ti chiederò davvero tutto, delle tue prime volte. Ed esigerò risposte molto più che esaurienti >>, dice, prima che oda di nuovo il “clic” della serratura della sua camera.
Resto impalato per qualche manciata di istanti, poi mi ritrovo a ridacchiare scuotendo la testa come uno scemo.
L’ultima parola, la stoccata perfetta.
Comincia a farsi largo adesso la cognizione di quello ch’è accaduto stasera. E’ stato un duello, dall’inizio alla fine, tra noi due. Un combattimento leale, in cui ad ogni mio affondo corrispondeva la sua parata, e quindi un suo colpo ben mirato. Qualcuno è stato a tradimento, ma nessuno basso.
Dev’essere stato per via la mia battuta sul materasso, l’ha presa come un guanto di sfida, e come nella migliore tradizione cavalleresca ha atteso il momento giusto per sfidarmi a singolar tenzone. Da quella ha  iniziato a meditare su come restituirmi pan per focaccia, giostrando con le parole, concedendo terreno per trarmi meglio allo scoperto, mostrando il fianco per indurmi a fare altrettanto, in un pareggio perfetto di dare e avere fino a quest’ultimo exploit con cui ha segnato il punto finale.  
Sì, ora si spiega tutto. Ha optato per un metodo differente dalle strigliate che ha dato ai suoi compari, che magari non sarebbero in grado di comprendere certe sottigliezze; ma si è vendicato comunque, per vie trasversali.
Da questo capisco che dev’essere uno abituato a non lasciar passare nulla, neppure una battutina. E a vincere, sempre.
E’ diabolico, a dir poco. La sua acutezza incute rispetto, ma stranamente invece che mettermi sull’avviso mi dà una sensazione di euforia.
Adesso ho le prove che non è il ragazzo tutto casa e lavoro che sembra di primo acchito. Mi somiglia, ama le sfide e non teme di raccoglierle, solo le orchestra modo furbo, mentre io invece parto in quinta finendo spesso in retromarcia, dopo aver sbattuto.
Merda, mi sa che mi sono provocato davvero qualche danno permanente al cervello con quella vodka. Perché se fossi sobrio un ragionamento simile mica mi sarebbe venuto in mente.
E novanta su cento esiste solo nella mia testa.
Però ancora sto ghignando quando mi butto di nuovo sul letto.
Un attimo dopo sto già ronfando saporitamente.
Devo ammetterlo. Sono felice di aver trovato … un coinquilino come lui.
 
 
 
Angolino di Anya: okay, qui le cose iniziano a farsi un tantino interessanti, a mio avviso. Per lo studio della grafia mi sono affidata a
http://www.sangiovannirotondonews.com/2010/12/grafologia-fai-da-te-interpreta-la-scrittura-in-10-passi/, per chi volesse consultarlo e capirci di più, sulla calligrafia di Alejandro.
Per il resto, sempre a disposizione!
Anya
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** 7. ***


I giorni riprendono a trascorrere, tra una corsa in Università, i libri, e le pulizie. Dato che Ale lavora, mi sono offerto di farle al posto suo anche negli spazi comuni. Effettivamente mi pareva doveroso, non era giusto che dovesse sobbarcarsi tutto da solo, anche perché io oltre gl’impegni della facoltà non ho altro a cui pensare.
O meglio: è preferibile non pensarci. Meglio concentrarsi sulla promessa che Ale ancora non ha mantenuto, anche se sono certo che non lo fa di sua volontà.
E’ davvero brutto da dire, ma mi sono proposto con la segreta speranza che finalmente mi lasci la chiave della sua camera. Ovviamente, neppure a parlarne. Così, ora sono qui che sfrego la porta chiusa, sperando in una qualche magia che faccia scattare la serratura da sé.
Apriti, sesamo, mi viene da pronunciare. Ma neanche a pagarla, ‘sta stronza … che poi non capisco il motivo di tutta questa curiosità. E’ a dir poco morbosa.
E ancora più morbosa è la lista di possibili motivazioni che ho stilato sull’ultimo foglio del mio blocnotes, che da tempo non aggiorno ma che spesso riprendo in mano, per rileggerla. Non so perché ma parecchi punti hanno un tema a sfondo sessuale … oddio, detto così sembra che parli di un crimine.
Eppure mi pare plausibile, adesso più che mai. E dopo la nostra conversazione della settimana scorsa, quando ha bacchettato a dovere Magnus e Angelo per le battutine un po’ piccanti e poi ha tirato fuori come per magia un tale campionario di sorprese, neanche fosse David Copperfield – il mago, non quello del libro di Charles Dickens- deve per forza nascondere qualche segreto, su questo lato della sua vita.
E questo, a costo di farmi sembrare un depravato, stuzzica la mia curiosità oltre il limite del lecito. Quella sua apparenza così severa in contrasto con la sua mente affilata e calcolatrice mi mette in testa strani tarli, pensieri che mai, nella mia vita, avrei creduto potessero passarmi per il cervello.
Come adesso.
E se avesse qualche parafilia? Io non me ne intendo granché, sono per il sesso ordinario, alla “vaniglia”, come lo chiamano ora. Posizione classica, il missionario, io sopra lei sotto, la variante più ovvia, cioè al contrario, e apprezzo parecchio anche le pratiche orali, sia date che ricevute. A parte questo, di anomalo posso solo segnalare la mia propensione al farlo durare più a lungo possibile, e se proprio non è possibile, a riprendere il discorso almeno due o tre volte; e l’amore per le coccole, sia prima che dopo l’atto. Mi piace farne, e chiaramente anche averne. E devo ammettere con tristezza che spesso e volentieri questo desiderio rimane frustrato, perché la mia partner o si addormenta immediatamente, oppure si riveste perché deve tornare a casa. In genere è quasi sempre la seconda, solo da quando sono fidanzato con Shaina è capitato alcune volte, contate sulle dita di una mano che si fermasse a dormire da me, quando avevo casa libera. Chiaramente il fatto che vivessi coi miei ha anche influito sulla rarità delle occasioni. A nessuna brava ragazza fa piacere incrociare i presunti suoceri scapigliata e con i vestiti che sanno di indossato dal giorno prima. Fa sorgere diverse questioni che diversamente nessuno vorrebbe affrontare fino al matrimonio o peggio, quando bisogna spiegare come mai aspettate un figlio.
Be’, almeno su questo punto siamo al sicuro. Lei prende la pillola, ma datosi che a questo mondo di certo c’è solo la morte, io continuo lo stesso ad usare il profilattico. Così, se lei scorda di assumerla, o il condom si buca, siamo comunque coperti.
Non che non voglia bambini, al contrario. Il mio futuro è pieno di pargoli, almeno tre o quattro.
Ma per come stanno le cose, quel futuro sembra parecchio lontano.
Da un lato è meglio così. non so se sarei capace di fare il padre. E’ ovvio che amerei i miei figli, so già a prescindere che darei la vita, per loro.
Ma educarli … cazzo, ho cominciato solo da poco a tenere in riga me stesso. E sono sempre terrorizzato da un’eventuale brusca ricaduta.
Dopo questa malinconica parentesi, decido ch’è il momento di prendermi una meritata pausa caffè e rivedere un attimo la famigerata lista, aggiornandola con quest’ultimo punto. Vado in camera, apro la tracolla e prendo il blocnotes, portandomelo in cucina; preparo la caffettiera e mi siedo, aggiungo la nuova perfida illuminazione e intanto che il caffè è pronto, rileggo quelle precedenti.
Punto uno: è uno spacciatore, il lavoro al bar è una copertura e in camera ci tiene la roba.  
Punto due: è un voyeur e nella camera ci sono i monitor attraverso cui controlla tutti i movimenti di quelli che spia.
Punto tre: ha una doppia vita e nell’armadio tiene nascosti i costumi di scena per quando si veste da donna. ( alquanto improbabile, come donna sarebbe davvero molto poco credibile)
Punto quattro: è una drag queen ( e questo lo renderebbe già un filo più credibile) 
Punto cinque: è un serial killer e colleziona souvenir delle sue vittime.
Punto sei: è il complice di una candid camera orchestrata da Milo e nella stanza ha l’attrezzatura che lo smaschererebbe.
Punto sette: è un agente dell’FBI, della Cia o qualche altra agenzia e nella stanza tiene chiuse le informazioni che raccoglie.
Punto otto: ha un’intera collezione di giornalini porno nascosti sotto il letto.
Questa è piuttosto scema, come motivazione, in realtà – come se le altre fossero sensate, ma lasciamo correre- . Con tutto il materiale assolutamente gratuito e … concreto che popola adesso la rete, nessuno compra più quella roba. Ricordo che io e Milo ogni tanto andavamo a spiare in camera di mio fratello – dalla porta sempre spalancata, tanto più che da lì a poco era rimasta vuota a parte quando veniva in visita, anche se tutto era rimasto intonso come quando abitava ancora con noi- casomai trovassimo qualcosina di compromettente. Chiaro che non abbiamo mai trovato nulla, malgrado eseguissimo perquisizioni che sembravano essere uscite da “C.S.I: scena del crimine”. Neanche la Scientifica avrebbe potuto fare un lavoro più efficiente del nostro. 
Il punto sette, però, ha l’utilità di farmi ricordare d’un tratto che non è che sia proprio espertissimo, di sesso omosessuale. E arriccio il naso, prendendo il tappo tra i denti.
Cioè, okay, non è che sia proprio un cretino, ci arrivo persino io a capire che se non è lì è là, da qualche parte devi pur infilarlo, e nonostante i crampi si facciano più forti al solo pensiero, dovrei cominciare a farmi un po’ di cul … tura, è il caso di dire. Perché vero che Ale è integerrimo e discretissimo, ma sono ancora preso dalla sua promessa e non ho dubbi che alla prima occasione, tenterà di sviscerarmi ogni minimo particolare, magari fornendomene qualcuno dei suoi, per impanarmi ben bene.  
Non è sano, mi sussurra la voce della coscienza, mentre svuoto il contenuto della moka, fumante e profumato, nella tazza. Ma sono solo in casa … e mai occasione può essere più ghiotta. Anzi strano che non mi sia venuto in mente prima.
Siccome dar retta all’istinto è la cosa che mi riesce meglio, porto la tazza in camera mia e accendo il laptop. Ma la sensazione di fare qualcosa di sbagliato non accenna ad andarsene, così metto gli auricolari. Mi collego alla rete, digitando le parole chiave con un senso di vuoto nella pancia.
Sto per farlo davvero. Vedere due maschi che scopano … ossantinumi. Lo sapesse mio fratello, gli prenderebbe un colpo.
Sintonizzo l’audio a metà scala, le mani che mi tremano. Sono ancora in tempo per fermarmi, il punto è che non so se voglio davvero … sapere. Come quei poveretti che vanno dal dottore con un gonfiore sospetto o un doloretto ricorrente, tremando nell’attesa di una brutta notizia.
La freccetta è immobile sul fermo immagine. C’è la testa di un ragazzo bruno, di spalle, nulla di particolarmente inquietante. Ormai sono qui, tanto vale andare avanti. Riceviamo pure … il risultato, dottore.
I due sono su un letto, vestiti dalla vita in giù, e ci danno dentro di lingua. Riesco a vederle che s’intrecciano, madide di saliva, mentre con le mani toccano l’uno la protuberanza sui jeans dell’altro. Uno ha un piercing all’ombelico.
Si slacciano i calzoni a vicenda, tirandoli giù assieme ai boxer. Quello bruno ha un tatuaggio sul fianco, in basso. Entrambi sono in erezione, e cominciano a segarsi vicendevolmente, lasciandosi andare a gemiti bassi e rochi.
Perbacco, direbbe mia nonna. Sarà l’astinenza, sarà la novità, ma comincio a sentire qualcosa di strano anch’io, una sorta di formicolio sottopelle. Forse perché per la prima volta sono davvero aperto, non ho il solito preconcetto del “cazzo, che schifo!” che i maschi etero sbandierano alla sola idea di vedere due uomini a letto.
Però … sono … teneri, in un certo qual senso. Okay, so ch’è una recita, hanno un copione, ma non riesco a non … ecco, rimanere colpito dai loro gesti. Si cercano, con la bocca e con le mani, non soltanto nei punti
nevralgici ma anche sulle guance, sulle braccia, dietro la schiena.
Poi quello bruno spalanca le cosce all’amico e plana con la testa, risucchiandoglielo tra le labbra. e la tenerezza va a farsi fottere e benedire, in favore di un’energica ripassata di bocca. Il beneficiato si contorce gridando e gemendo come fosse una lumaca spruzzata col sale.
Be’ … a questo ero un tantino meno preparato. Forse dovrei interrompere qui, sarebbe di certo più salutare, ecco. Perché all’improvviso mi agguanta alle spalle l’assurdo timore che possa, come dire, farmi coinvolgere un po’.
Il primo piano dei testicoli che sbattono contro il mento del bruno mi convince ch’è meglio finirla sul serio. Chiudo il video, il monitor e presa una matita, comincio a mordicchiarne il fondo, finché non realizzo che non è mia abitudine e la sbatto con forza sulla scrivania.
<< Leo, sei a casa? >>. Cazzo. Meno male che ho staccato. Non che temessi un’eventuale incursione a sorpresa: ormai so bene quanto Ale sia discreto.
<< Sì! >>, grido attraverso la porta chiusa. Mi alzo, uscendo in soggiorno.
<< Ciao >>.
<< Ciao. Tutto bene? >>.
<< Ah ah >>. Posa la tracolla sul tavolo, sfila la giacca. Ha l’aria stanca, e un po’ mi sento in colpa, perché non ho neppure finito di pulire.
<< E tu? Stai sudando. Guarda che non serve che tiri casa a lucido tutta in una volta >>.
Riesco appena a trasformare il risolino isterico che mi scappa in un discreto schiarimento di gola. << Ma no, tranquillo >>.
<< A proposito … ho parlato con Diego, oggi. Per il lavoro. Ha detto che se volessi … non so, venire a dare una mano, magari nei fine settimana, a lui starebbe bene. Magari passa, se hai due minuti, così vi conoscete di persona >>.
<< Sì. Sì, okay. Grazie >>. Ha trovato l’occasione di dirmi di sfuggita, nei giorni precedenti, che al bar le cose non vanno bene. O meglio: vanno benissimo, anche troppo e quindi sono a corto di personale, perciò servirebbe una mano. Una proposta velata, a cui ho aderito con fin troppo entusiasmo.  
In realtà l’idea di fare il barista mi mette su un filo di ansia. A casa mamma non ha mai voluto saperne di macchinette, lei ha la fissa del briki, all’antica, o al massimo della normale caffettiera.
Deve accorgersi della mia esitazione, perché riprende: << Ehi, è chiaro che … l’offerta è valida se sei interessato. In caso contrario … >>.
<< Oh, no, scusa. E’ solo che …non ho mai usato … una macchina per l’espresso >>.
Lui fa un cenno con la testa. << Tranquillo, questo non è un esame. Puoi iniziare prendendo gli ordini ai tavoli, sparecchiando, preparando un po’ di cose … fare da tappabuchi, insomma >>.
Ora tossisco sul serio. Non è certo l’espressione più felice che potessi sentire, ora come ora.
<< Sicuro che stai bene? Dovresti prendere qualcosa per quella tosse. Vuoi che faccia un salto in farmacia? >>.
<< No … ti ringrazio >>.
<< Be’, vado a fare la doccia, così poi studio un po’, prima di cena. Qualche preferenza? >>.
<< Sì. Che ti rilassi. Preparo io >>.
<< No, dai … >>.
<< Ehi. Sul serio. Ormai mi conosci, dovresti sapere … che puoi fidarti di me ai fornelli. E anche per qualcosa di più che una cena >>.
Questa frase resta sospesa per qualche istante tra noi, e mi rendo conto troppo tardi che forse potrebbe leggerci qualcosa tra le righe.
Vedi: il fatto che chiudi a chiave la tua stanza. Facendo venire in mente a questo gatto di tutto e di più.
Mi fissa in silenzio. Poi storce le labbra. << Non è per quello >>.
<< E allora? >>.
Occorre qualche secondo, prima che mi risponda.<< Non vorrei che pensassi … che mi sto approfittando di te >>. Ha una strana espressione, mentre lo dice, usando di nuovo quella voce timida e incerta dell’altra sera.
Ora ch’è in piena luce scopro ch’è proprio come me lo immaginavo. Le palpebre abbassate, lo sguardo fisso sulle dita che giocherellano nervosamente con la base dell’anulare. Non porta anelli, sfregano la pelle soltanto, quindi forse è solo una compulsione.
Ho come l’impressione che piuttosto che chiedere aiuto, sarebbe più disposto a farsi tagliare una mano. O la gola, addirittura. E che tema sempre … che gli venga rinfacciato qualcosa. << Ma come ti vengono in mente certe cose? Tu fai già così tanto, il minimo che possa fare è alleviare un po’ del tuo fardello. Poi, se proprio ti senti in debito, puoi sempre farmi un bel regalo per Pasqua >>, ghigno. << Vedi però che quella ortodossa cade una settimana dopo quella cattolica, per cui … >>.
<< Sei … credente? >>, mi domanda incuriosito, smettendo di tormentarsi le dita.
<< Sì, penso. Molto poco praticante, però >>.
<< Mhmm. Okay. Vada … per la cena, allora >>.
<< Cosa ti va di mangiare? >>.
<< Quello che vuoi >>, dice visibilmente più tranquillo. << Ma qualcosa di leggero, se non ti spiace. Già l’altra sera stavo per scoppiare >>.
<< Ma dai? Non dirmi che ho rischiato di farti saltare il bottone dei calzoni! >>, ridacchio tutto trionfante.
Il suo sguardo si fa tagliente, e riesco a malapena a trattenere il sorrisetto trionfante che sento montare alle labbra.
Non ho dimenticato quello che mi ha promesso. E la vodka ormai è stata battezzata, se resta troppo tempo aperta, rischia di far evaporare la parte migliore di sé.
Quindi non è un male, se “involontariamente”  ho dato inizio alle danze.
In realtà non vedo l’ora che mi sottoponga a quel famoso interrogatorio. Non che muoia dalla voglia di inventarmi complicati precedenti degni di una trama da film a luci rosse, come quello rimasto in sospeso.
Ma voglio trascorrere altro tempo con lui. davvero. Anche a costo di dover rischiare il coma etilico, o di dover far fare gli straordinari con la fantasia.  
Però non devo spingermi troppo oltre, ormai lo so. Così, sfodero l’espressione più innocente che mi riesce. Ammesso che ce la faccia, conla faccia di bronzo che mi ritrovo. << Un’ insalata, magari? >>.
<< Sì, un’insalata andrà benissimo >>, replica lui, sistemando gli occhiali sul naso. Sembra sia una compulsione.
Mi tiro su, iniziando a mettere fuori pentole e mestoli. << Se ti serve una dritta, ho visto un televisore proprio carino, nel negozio qui davanti ... sai, sarebbe anche ora di metterne uno in camera, non pensi? >>, gli urlo dietro mentre apre la porta della sua stanza.
Lo sento ridacchiare, e mi pare di vederlo che scuote la testa, con quel mezzo sorriso sulle labbra. Poi sento il battente richiudersi, e il cigolio del soffietto.
Ma niente scricchiolii di serrature, nel mezzo. Ha lasciato aperto.
Se non lo conoscessi, direi che se n’è dimenticato. E se non sapessi, direi che me l’ha fatto apposta.
Appena sento il rumore del getto nella doccia, le mani iniziano a prudermi come avessi maneggiato della candeggina. Ho un quarto d’ora di margine, il tempo di una sbirciatina velocissima, giusto per accertarsi che non ci siano strani impianti di videosorveglianza o ceppi su una parete.
Ma siccome la saggezza popolare ha coniato diversi modi di dire, sui felini, oltre a quello celebre della curiosità ce n’è un altro che mi torna in mente adesso: tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. Potrebbe davvero essere una prova, per vedere quanto sono affidabile. Magari … ha messo qualcosa tipo della polvere davanti alla soglia, o comunque un qualche segnale da cui possa accorgersi se ho spiato o meno.
E se non la superassi, potrebbe cominciare a pensare che ha sbagliato a darmi fiducia.
No. Qualsiasi cosa ci sia dietro quella porta, resterà dietro quella porta. Se e quando deciderà di lasciarla aperta, dovrà esserci lui presente, davanti a me, e il battente spalancato. Anche se la curiosità è grande, la mia volontà è più forte.
Ma giusto per essere sicuri … è meglio che vada a prendere le sigarette.
Anche se il pacchetto è ancora lungi dall’essere terminato.

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Capitolo 8
*** 8. ***


La lezione di oggi sembra turkmeno, per me; non perché non comprenda l’inglese, e neppure perché la materia mi sia sconosciuta. Keynes è praticamente un amico, le sue teorie sull’andare in spiaggia e scavare buche o gettare sassi in acqua per risollevare l’economia le so a memoria, quindi forse è anche questo il problema.
Mi sento confuso. Ale ha continuato ad essere educato, tranquillo: eppure lo sento stranamente distante. Distaccato. Come se avessi davvero oltrepassato l’immaginaria linea di confine, inducendolo ad arretrare.
Continuo a domandarmi se non sia stato per quella battuta. Per tutta la sera è stato di umore solito, normale, ha cenato insieme a me e subito dopo si è andato a chiudere in camera. Avrei voluto bussare e chiedergli se gli andava di tirar fuori la vodka, e le sue domande: ma non volevo dargli fastidio, casomai stesse studiando, e inoltre ho temuto di complicare la situazione.
Dannata boccaccia. Dannata impulsività, che malgrado tutto non riesco mai a tenere a freno per davvero.
<< Signor Diamantis? Tutto bene? >>. Lo sguardo del professor Stephan Price, docente di economia aziendale e finanziaria si è posato su di me, e ho di colpo realizzato che stavo parlando – litigando, in realtà- col blocnotes.
Cosa anche peggiore, invece che con gli appunti sulla spiegazione del professore l’ho riempito di puntini, come se avesse avuto uno sfogo in blu China.
<< Ehm … sì, sì, certo, professore, grazie >>.
<< Non trova la mia lezione di suo gradimento? >>. Potrebbe sembrare una domanda retorica, ma in realtà è piuttosto simpatico. E’ giovane, parecchio giovane: e molte ragazze del suo corso non perdono occasione di fargli gli occhi dolci, o di portargli il caffè, anche se non so quanto sia etico, questo.
Sarà perché più che un professore sembra un modello. O un atleta olimpico. E ha una voce profonda e suadente che di certo rende le sue studentesse ben felici di assistere alle sue lezioni, sempre interessanti.
Vaffanculo. Sto diventando allergico a questa parola. Cioè, non al vaffanculo, anche se ormai lo tiro fuori solo quando parlo con Milo, da quando sono qui.
Ad “interessante”. Perché è una parola che in fin dei conti significa tutto e nulla.
<< No, professore >>. Diamine. << Cioè, non è questo, la trovo molto … interessante >>.
<< Bene. In tal caso, non avrà difficoltà ad esporci il suo punto di vista riguardo la teoria keynesiana degli spiriti animali >>. Posa la bacchetta, incrociando le braccia sul petto largo, che la giacca di ottimo taglio non riesce a nascondere. Mi pare di sentire più di qualche sospiro malcelato, nella fila dietro di me.
<< Gli … spiriti … animali? >>. Merda.
Keynes sosteneva che questo “spirito animale” indica il complesso di emozioni istintive che guidano il comportamento umano in vari ambiti, quello umano in generale, e quello imprenditoriale in particolare.
Anche le più calcolate manovre finanziarie hanno sempre un sottofondo umorale- a proposito di umore, quando si dice la coincidenza- . Ai tempi della Grande Depressione, ad esempio, dominava la disperazione. Di solito però indica una connotazione positiva, la voglia di fare, di ricominciare. Così sorge nell’imprenditore l’ottimismo ingenuo, che lo spinge a tentare la sorte, senza arrendersi, sempre riprovando finché alla fine riesce nella sua impresa.
<< Sì. Esattamente >>.
<< Be’ … ecco … sì, sono d’accordo >>, sputo fuori, facendo ridere tutta la classe.
<< Mi fa piacere che uno dei più grandi economi e statisti del Novecento abbia avuto la sua benedizione, signor Diamantis. Ora, però, vorrebbe dirmi in base a quali elucubrazioni è giunto a questa conclusione? >>.  
Non so neppure io da dove mi venga quest’idea. E’ malsana, è proprio idiota, anzi, ma pur di non gettare la spugna e dichiarare la sconfitta, la tento anch’io. << Io … penso che in ognuno di noi, esattamente come sostenevano gli Indios delle Americhe, o le culture antiche, ci sia una sorta di animale totemico, un’anima appartenente alla natura come la intendiamo prima che le civiltà progredissero fino a raggiungere i livelli che conosciamo al giorno d’oggi; e quest’animale selvatico era perfettamente in grado di elaborare strategie per cacciare, mirando a nutrire se stesso, e i suoi cuccioli, se ne aveva; di arretrare o difendersi davanti al pericolo. Allo stesso modo, l’animale dentro è perfettamente in grado di capire se l’affare intrapreso avrà un esito positivo o meno >>.
Mi sento molto fiero della mia esposizione. Peccato che il prof non la pensi come me, e mi scocchi un’occhiata furba subito dopo che io ho terminato. << Ma se così fosse, perché mai in molti si riducono sul lastrico? >>.
<< Forse perché … non danno abbastanza ascolto all’animale dentro. Razionalizzano troppo, col risultato di spegnere quella fiammata, e perdono occasioni d’oro. Oppure si fanno trascinare, mi perdoni il termine, in fregature colossali >>.
Gli occhi azzurri, penetranti si riducono in due fessure. << Così, lei ipotizza che un affare, in cui sono in gioco miliardi, che si tratti di dollari, o di sterline, o di euro, o qualsivoglia valuta, andrebbe condotto fidandosi puramente dell’istinto, e non con un’attenta analisi dei pro e dei contro? >>.
<< No, cioè, è ovvio che bisogna sempre valutare la situazione di partenza. Ma una volta fatte le debite proporzioni … nella maggior parte dei casi, sì. Occorrerebbe osare di più, alcune volte >>. Per un attimo mi chiedo se non stia diventando realmente bipolare. Un attimo fa ero impegnato a darmi del cretino perché forse ho fatto un passo falso con Alejandro, e adesso sono qui che vedo e rilancio, nemmeno stessimo giocando a poker, con l’istintività. Non che io ne capisca granché: malgrado la buona volontà e la cocciutaggine a non cedere, finisco sempre battuto anche al tavli, quindi immaginarsi se dovessi giocare a qualcosa che prevede una puntata a soldi. << Ci sono casi … nella vita … che sfuggono ai calcoli, alle certezze precalcolate. E allora … bisogna domandarsi se si ha il coraggio di lasciarsi andare tanto da fidarsi solo delle proprie sensazioni, e avere il coraggio di rischiare. Di puntare tutto su un azzardo, magari anche raddoppiando la posta, per far comprendere a chi abbiamo di fronte che non temiamo le sue contromosse >>. Sento salire un sorrisetto alle labbra, è irrefrenabile, e mi auguro solo che il prof non pensi che stia ridendo di lui. << Anzi. Non aspettiamo altro che di ascoltarle, di vederle, per poter ribattere nel modo più giusto. E magari … coglierlo alla sprovvista, con una stoccata magistrale >>.
Di colpo mi sono reso conto di essermi alzato in piedi, come il coglione di turno. E non so da quanto tempo sto piantato qui come il Big Ben, la Tour Eiffel, la Statua della Libertà o qualsiasi altro monumento in posizione verticale.
In questo momento mi sento tanto un monumento eretto all’umana contraddizione. Oltre che alla completa , assoluta impulsività.
Lo sto facendo troppo spesso da quando sono qui. Lasciarmi prendere la mano. Tutto quello contro cui ho lottato da quando ho conosciuto Shaina sta iniziando lentamente a riproporsi, anche se in forma meno nociva.
Per ora. Ma mi conosco. I miei vizi subiscono una crescita esponenziale. Oggi due, domani quattro, poi sedici. E così via, come nella famosa leggenda dei chicchi di riso sui quadranti della scacchiera.
Quest’accenno, non so perché, mi fa venire in mente Ale, di nuovo. Forse perché per ben due volte ha ammesso che gli ho dato scacco, l’altra sera.
E’ inutile. Più cerco di non domandarmi la ragione della sua elusività, più mi ci incaponisco e meno ne vengo a capo. Forse sarebbe bene chiederglielo e basta, se non gli abbia dato fastidio qualcosa.
Ma so già a priori che in cambio non riceverei una risposta. Non mi considererebbe degno di averla, se non sono giunto a comprendere da me cos’abbia la sua ritirata. Ormai penso di aver capito come funziona.
E mi addolora. Che sia stato stupido da giocarmi quello sprazzo di fiducia che stava cominciando a concedermi, solo perché ho avuto fretta di scoprire i suoi segreti.
Rialzo lo sguardo. Il professor Price mi guarda in silenzio, forse attende che mi sieda e la pianti di fare la bella statuina. Poi sorride.  << E lei, signor Diamantis, è in grado di farlo? Di dar retta allo spirito animale in lei >>.
Sorrido, davvero d’impulso. Ci sono cose di me che non riesco proprio a tenere a bada, nonostante tutto. << Il mio soprannome è Leo. Quindi credo proprio di sì >>.
Mormorii salgono dalle file davanti, risatine da quelle dietro.
Persino il professore mi rivolge uno sguardo sorpreso. << Bene. Ora passiamo alle domande. Sì, lei, con la maglia arancione >>.
Terminata la lezione, mentre tutti escono dall'aula, il professor Price mi fa un cenno. << Signor Diamantis >>.
<< Sì? >>.
<< Devo farle i miei complimenti. E’ stato davvero un intervento … interessante, il suo >>. Mi studia, inclinando il volto. E’ davvero un bell’uomo, e lo dico con cognizione di causa. Ha i tratti di un divo del cinema, un vaghissimo qualcosa di Brad Pitt, ma più maturo, più deciso, e con una lunga coda di capelli biondi e ondulati da far concorrenza a Milo, che non so se sia proprio accettabile, per un professore, ma che comunque fa la sua porca figura. Non c’è da stupirsi se il suo corso è frequentatissimo dalle ragazze. << Sta bene? Mi perdoni se prima le sono parso un po’ pungente >>.
<< No, si figuri. Anzi, in realtà ero davvero … un po’ distratto. Ma non per via della sua lezione. Mi scusi >>.
Prende la penna in mano, giocherellandoci. << Lei … si trova qui con l’Erasmus, giusto? Viene dalla Grecia, se non ricordo male >>.
<< Sì >>.
<< Anche mia nonna era greca, sa? Abbiamo un cosa in comune, a quanto pare >>. Sorride, mentre passa la stilografica da una mano all’altra.
<< Non lo sapevo. Mi fa piacere >>.
<< Lei è forse imparentato con Georghios Diamantis, l’imprenditore? >>.
<< Sì. E’ mio padre >>.
<< Ahh >>. Fa un sorriso saputo. << Non ho avuto l’onore di conoscerlo personalmente, ma ho spesso letto di lui, sui giornali finanziari. La vostra azienda di famiglia e' una delle colonne portanti dell’economia greca, uno dei pochi che ha saputo fronteggiare la crisi del 2009 >>.
<< Già >>.
<< E così, si ritrova a seguire le orme paterne. Bene. Spero che il suo entusiasmo … costituisca un ulteriore mattone, per un’impresa già così florida >>.
Macché florida ... Se’, al massimo California.
Se non temessi di giocarmi la reputazione, oltre che la stima appena dichiarata del prof, gli direi che questo è il primo intervento fatto da quando sono iscritto a Economia, che finora mi sono accontentato di studiare, e che mai fin qui mi sono alzato in piedi per esporre un punto di vista personale, anche se spinto dall’invito di un insegnante.
<< Non so se le ho già chiesto cosa tratta la sua ricerca >>.
<< E’ … sulle disparità dei trattamenti economici in merito alla scala di valori. Perché in alcuni Paesi Europei sussiste ancora questa differenza nei confronti di alcune categorie, come ad esempio le donne o gli stranieri, e come mai in alcune nazioni è più marcata rispetto ad altre >>.
<< Interessante. Be’, in bocca al lupo. E se le servisse qualcosa, conti pure su di me >>. Riabbassa lo sguardo sul blocnotes davanti a lui.
<< Grazie >>.
Esco dall’aula, sprofondando nei miei complicati processi mentali.
So ch’è un alibi furbo, mi sto attaccando ad un piccolo osso per non azzannare il grosso pezzo di carne indigesto che vi sta dietro. Mi sto imperniando su un problema altrimenti inesistente per non guardare in faccia la realtà, e cioè che Shaina mi abbia ancora contattato, e che mia madre continui ad inviarmi messaggi solo per sapere se ho mangiato, se sto bene, se esco di casa la sera oltre un certo orario, se sto attento a tenere la borsa davanti e non dietro la schiena, se non cammino troppo vicino ai binari della metropolitana, ma non mi domanda cosa mi fa provare Londra, o che profumo abbia l’appartamento che abito, o cosa penso dell’uomo con cui lo divido.
Da mio padre, il nulla.
Quindi Alejandro è il mio deterrente. Mi sto concentrando su di lui, per evitare di camminare davvero troppo vicino, a quei binari.
<< Ehi, kalimera! >>. La voce squillante alle mie spalle mi fa voltare di scatto.
E’ Alyké. Sono contento di vederla, mi restituisce un attimo di tregua nelle mie cogitazioni, per quanto la conosca poco o nulla. << Ciao, Alyké >>.
Si avvicina, sorridendo. I capelli rossi ora sono legati a coda, sul cappotto blu scuro. << Allora? Ti è stato utile, il mio consiglio? >>.
<< Sì. Molto. Ho trovato … un’ottima sistemazione >>. Sorrido anch’io. E mi viene in mente che affrontare la prova del fuoco sarebbe molto meno complicato, insieme a lei.
In fondo me l’ha chiesto lui, di passare in settimana.
Quale occasione migliore, per ripagare il debito con Alyké? << Per cui ti devo una colazione. Hai tempo? >>.
<< Veramente sì. Ho un appuntamento alle 16, per uno stage formativo, ma fino ad allora sono libera >>.
<< Bene, allora posso mantenere la parola data. Conosco un posticino niente male, qui vicino >>. Veramente non è proprio così, so soltanto come si chiama e l’indirizzo, ma ci può stare, penso.
Lei annuisce, le ciocche libere dalla coda le rimbalzano sul viso luminoso. << Okay. Va benissimo >>. Così usciamo, camminando fianco a fianco nel freddo, brumoso primo pomeriggio di Londra.
Sono più o meno quindici minuti a piedi. Quando arriviamo sulla porta, di vetro istoriato e pannelli di pegno dipinto di verde bottiglia, Alykè fa un verso ammirato. << Caspita. Già l’esterno mi piace >>, osserva, alzando lo sguardo sull’insegna lavorata col pirografo.
<< Sì. Anche a me >>, replico, ed è vero.
Poso la mano sul pomello di ottone, aprendole la porta. << Grazie >>. Quindi la seguo all’interno.
Dentro mantiene tutte le aspettative date fuori. L’atmosfera è conviviale, i pannelli di legno chiaro intervallati ad alcuni dipinti danno un’aria di casa, di famiglia. Come se tutti gli avventori facessero parte di un unico grande folto gruppo.
Mi guardo intorno con un certo imbarazzo. Ma Alykè, presa dalla contemplazione entusiastica dei pannelli dipinti appesi al muro, non ci fa caso.
Per fortuna.
<< Salve. Benvenuti >>, ci accoglie un pezzo d’uomo alto almeno due metri, bruno di capelli e di carnagione. Ha un leggero accento, sicuramente sudamericano, ma è diverso da quello di Alejandro, più liquido, meno avvolgente.
Per cui dev’essere di qualche nazione di lingua portoghese. << Salve. C’è … Ale? >>.
L’uomo mi fissa con uno sguardo stupito. << Sì, è nel retro, arriva subito. Io sono Eduardo >>, si presenta, porgendo la mano a me e Alyké.
Ha una stretta calda, decisa eppure delicata. Dev’esserlo per forza, con le manone che si ritrova. << Alexandròs. Non gli dica che sono qui, voglio fargli una sorpresa >>.
<< D’accordo >>. Se ne va e ci lascia soli, Alyké tutta immersa nella visione di una marina astratta. In fondo è comprensibile: il suo nome vuol dire “colei che viene dal mare”, la versione greca di Marina.
<< E’ bellissimo. Sto seriamente pensando di domandare se è in vendita >>.
<< Non penso. Potrai chiederlo al proprietario >>.
Quando mi volto, ad avere la sorpresa sono io.
Non … cioè, insomma, ormai lo conosco, ha gli stessi lineamenti, lo stesso corpo di ogni giorno, eppure sembra una persona … non so. Non diversa, questo no; ma c’è … qualcosa di differente, ecco. Come vedere un amico che conosci da sempre tutti i santi giorni, renderti conto che qualcosa non quadra e accorgerti solo dopo che ha fatto la barba, oppure ha accorciato i capelli. Ecco. Così.
Più o meno. Perché da quanto ho potuto accertare con mano – per modo di dire, insomma- la barba la fa ogni giorno, non gli ho mai visto in faccia l’ombra della ricrescita. E con la pelle chiara che ha, il nero corvino spiccherebbe immediatamente.
Come quello dei capelli, che no, non ha accorciato. Ma li tiene legati in un piccolo nodo, appena accennato, un pò più in alto della nuca.
Mi ero aspettato che fosse un posto informale, e che lavorasse con gli stessi indumenti che gli vedevo addosso quando entrava o usciva da casa.
Mi sbagliavo. E’ in gilet e cravatta neri, come per ogni barista che si rispetti. La camicia però non è bianca, ma di un bordeaux scuro, borgogna, direi. E non pare sia cotone, piuttosto seta, a giudicare dai riflessi lievemente iridescenti ch’emette sotto le luci delicatamente dorate dei lampadari decò appesi al soffitto.
E gli sta … bene. Il bianco gli morirebbe addosso, con quella carnagione così chiara.
Questo colore invece gli dona. E’ lo stesso del vino che ho portato a casa l’altra sera. Un rubino intenso, cupo, eppure vivido. Gli riverbera negl’incavi degli zigomi e sulle lenti, mescolandosi all’oro impalpabile che piove dall’alto.
C’è qualcosa che questo ragazzo dimostri e sia così? O è tutto un gioco d’azzardo, con lui?
Un altro po’ e inizierò a chiedermi se sia sul serio omosessuale, oltre a tutto il resto.
Mi scocca uno sguardo incuriosito, che poi passa ad Alyké ancora persa davanti al pannello. Io invece non  posso smettere di fissare lui, come un povero imbecille.
E’ … non so esattamente come definirlo. Strano. Sì, strano. << Buongiorno, signorina >>, dice, con la sua voce inconfondibile. Se non gliela conoscessi, direi che lo sta facendo apposta, per ammaliarla ancora di più.
Alyké si volta, restando un tantino sconcertata anche lei. << Eh, buongiorno >>, borbotta, in tono normale. poi, a denti stretti: << Accidenti >>, si fa sfuggire.
Già. Precisamente. Accidenti. << Buongiorno anche a te, Leo >>, riprende, prendendo uno strofinaccio dal bancone e mettendosi ad asciugare i bicchieri capovolti. << Che ci fai qui a quest’ora? Non dovevi essere in facoltà, oggi? >>.
Faccio per replicare, ma mi scopro improvvisamente ammutolito. Alla faccia della sorpresa.
Il suo tono, tranquillo tuttavia distaccato, mi mette un attimo di ansia. Anche se continua ad asciugare i bicchieri come niente fosse, e mantiene gli occhi su di noi.
<< Buongiorno, Ale. Sì, in effetti sono appena uscito >>. Mi avvicino, e la ragazza con me. Ho l’impressione che stiamo facendo la figura dei cretini, tutt’e due.
Infatti, tutt’e due. Devo ricordarmi le buone maniere, maledizione.  << Posso … presentarti Alyké Kouranaki? E’ una mia … conterranea >>.
<< Onorato, Alyké >>. Le porge la mano, e Alykè esita per qualche istante prima di restituire la stretta. Sembra che abbia ancora a riaversi dallo shock. << Lui è il mio coinquilino. Sai, Ale, è stata lei a consigliarmi di guardare in bacheca. Così ti ho trovato >>.
Alejandro le punta addosso uno sguardo indecifrabile, nero come la notte senza stelle. Sento chiaramente il disagio di Alyké, un disagio buono, però. Come se l’avesse esaminata, fosse stata promossa e lei ne fosse estremamente lusingata. << Ma guarda. Curioso >>, dice, passando lo straccio nel bicchiere tozzo, senza gambo.
<< Già. Io … stessa ho trovato una buona sistemazione, in questo modo >>. Finalmente si è ripresa, e torna a sorridere. << Certo, sono anche stata fortunata. Ma anche Leo non ha di che lamentarsi, a quanto vedo >>.
<< Mah. Chissà. Potrebbe trovare di meglio >>, osserva lui, passando ad un altro bicchiere. << Comunque sono spiacente, Leo. Diego non c’è, è dovuto scappare per un imprevisto con un fornitore >>.
<< Non importa. In realtà siamo venuti a fare colazione >>.
<< Colazione? A quest’ora? >>, osserva lui, lanciando un’occhiata obliqua all’orologio a muro, un pezzo sicuramente antico, pregiato e anche molto bello, almeno per quello che ne capisco io.
<< E’ un Boule? >>, chiede Alyké, seguendo la linea tracciata dal suo sguardo.
Alejandro annuisce. << Sì, esatto. Vedo che se ne intende >>.
<< Veramente ho appena avuto un colpo di fulmine con quel pannello. E’ stupendo >>.
<< Lo ha realizzato un mio amico. Angelo, lo hai conosciuto >>, fa Ale, rivolto a me.
E rimango di sale. << Angelo dell’altra sera?! >>.
<< Lui, già. Sono tutti opera sua >>.
Mi giro uno sguardo intorno per osservarli con più attenzione. Sono … davvero belli, delicati, dai colori accostati con gusto raffinato. E le linee pulite.
E’ difficile rapportare i suoi modi da … buzzurro, e il suo aspetto vagamente rozzo a queste opere così aggraziate. Avrei puntato più su Magnus come loro autore, in realtà.
Dovrei davvero smetterla di farmi preconcetti sulle persone. Davvero. << E sono in vendita? >>.
<< Di solito no, ma per un amico potrebbe fare delle eccezioni >>. Alza le spalle. Come al solito. << E io sono abbastanza amico perché mi conceda di questi favori >>.
Il tono con cui ha calcato su “questi” non colpisce Alyké, che non lo conosce. Al contrario non sfugge a me, strappandomi un mezzo sorriso.
Non ha dimenticato la conversazione dell’altra sera, no. E riprendo un attimo fiato: non ce l’ha con me. Solo, ci sono mancate le occasioni di ripetere l’esperienza.
Ah, ma la troverò. Accidenti, se la troverò. << Allora, cosa posso servirvi? >>, domanda, in tono gentile, guardando Alyké.
<< Un caffè lungo, macchiato >>.
<< Perfetto. Per te, Leo? >>.
<< Un caffè normale >>.
<< Subito >>. La danza dei suoi gesti perfettamente cadenzati lascia di stucco anche la mia amica, che lo osserva come fosse un cobra ipnotizzato da un flautista indiano. In particolare il movimento che fa nel liberare il filtro dalla polvere usata, apparentemente lieve eppure pieno di forza. << Diego non ama le cialde confezionate, e sinceramente nemmeno io. Ma tranquilli, non tocchiamo mai la polvere con le mani >>, spiega, accennando al dosatore accanto alla macchina.
Non che me ne fossi accorto. E credo che Alykè non si sarebbe accorta neppure se fosse entrato un autobus a due piani dalla vetrata, Dio scampi e liberi.
Ma sicuro, quello che lascia più spiazzato me è quel sali-scendi morbido e fluido che compie per montare la schiuma nel bricco. E’ … troppo facile, immaginare.
Troppo. Tanto che penso di essere avvampato come un deficiente.
Meno male che io lo prendo “normale”. Non penso che altrimenti sarei riuscito a berlo senza strozzarmi un paio di volte. << Di solito, altri miei colleghi preferiscono un movimento più rapido e deciso, per far salire più velocemente la schiuma in superficie. Ma crea troppe bolle d’aria, che si sfaldano in fretta a contatto col caffé. Così, invece, è più cremosa, e tiene di più >>, aggiunge.
Capisco solo dopo qualche secondo che sta tenendo una lezione a mio beneficio, in caso dovessi davvero venire a lavorare qui.
D’un tratto non sono più tanto sicuro. Non potrei neppure in un milione di anni acquisire una tale sapienza, anche se si tratta solo di caffè. E di latte.
E non diventare bordeaux, in perfetto pendant con la sua camicia, ogni volta che glielo vedo montare.
Riempie due bicchieri di minerale, e li posa davanti a noi spingendoli delicatamente con le nocche della mano. Noto solamente adesso che fa in modo di toccare il meno possibile ogni cosa, una precauzione apprezzabile.
No, non penso proprio che sarei il suo collega ideale. Con la manualità che ho io, finirebbe tutto in frantumi in due secondi netti.
<< Scusatemi >>. Si scosta un attimo, dandoci le spalle per aprire la vetrina dall’altro lato del banco. Un profumo delizioso di cioccolato e zucchero a velo mi invade le narici.
Inutile dirlo, il mio stomaco si risveglia con una potenza inaudita. Tanto più che stamattina, distratto com’ero già da quando mi sono alzato, ho mandato giù solo un bicchiere d’acqua e un biscotto Digestive, che sarà pure tanto salutare, ma non dà alcun genere di soddisfazione.
La caffettiera, già preparata, è rimasta sul fornello a induzione, intatta. Lo fa sempre, quando esce per primo. La svuota e la riempie nuovamente, così la trovo pronta.
E’ solo una piccola cortesia, ma che rafforza l’impressione che sia proprio una bella persona, Ale. E mi sento in colpa per aver pensato ingiustamente di lui che stesse evitando di proposito l’occasione di parlare.
Oltre che tutte le oscenità che ho segnato sulla lista. << Questi gli ha fatti Eduardo. E’ un maestro, quando si tratta di dolci. Sono una rivisitazione della classica Guinness Chocolate cake, la crema all’interno è composta da formaggio cremoso, burro e zucchero a velo >>, dice, traendo dal piccolo microonde un piattino con due muffin scuri. Facendo attenzione a posare le dita sulla parte protetta dal pirottino, li divide su due ulteriori piattini e con perfetto galateo ne avvicina uno alla mia accompagnatrice. << Non scottano, questi rendono meglio se consumati a temperatura ambiente. Ma siccome fuori ci sono appena sei gradi >>, scherza, alzando le spalle. Quando lo fa, la camicia e il gilet gli si tendono sul torace. << Prego, Alyké >>.  
Lei arrossisce leggermente. << Grazie >>. Ne prende uno, assestandogli un piccolo morso. << Cavolo, buonissimo! Verrò sempre a fare colazione qui, d’ora in poi >>.
Ale stira il suo mezzo sorriso. Poi guarda me. << Tu non ne vuoi, Leo? >>.
<< Veramente … >>. L’aspetto è più che invitante, e i succhi gastrici rumoreggiano selvaggiamente nel mio stomaco.
A proposito di spiriti animali. Il mio ha fame, una fame boia.
E ho il terrore che se comincio, non finirò più. Sarebbe consigliabile andarmene a casa e metter su l’acqua per la pasta.
Un chilo, almeno. << Ma … davvero c’è della birra, qui dentro? >>, chiedo, giusto per avere un pretesto. Conosco la ricetta, anche se non l’ho mai assaggiata. L’idea di mescolare la birra con il cioccolato non mi ha mai ispirato granchè.
Ci sono cose che stanno meglio ognuna per i fatti propri. Sicuramente. << Nell’impasto. Guinness irlandese scura. E il cacao se lo fa mandare da casa. Lui è brasiliano, quindi si serve solo all’origine. Pure fave di cacao brasiliano da coltivazioni ecosostenibili >>. Alejandro riprende a maneggiare i bicchieri, con aria tranquilla, per nulla indaffarata. In effetti, eccetto che per noi, il locale è vuoto.
Strano. Eppure gli affari vanno bene, così ha detto lui. Ma non sembra ci sia poi tanto da fare.
A meno che non sia colpa dell’orario. Londra non è Atene, e probabilmente tra poco qui si scatenerà il finimondo, appena scatterà l’ora di pausa da uffici e posti di lavoro. Come anche al mattino, d’altronde.
Non posso fare a meno di guardarlo con compatimento. Di certo sarà stata un’altra giornata intensa, come tutte le altre. E mi sento davvero una merda, nel riflettere che quando arriva a casa di certo ha a malapena voglia di farsi una doccia e buttarsi sul letto, figurarsi se gli va di parlare e bere, specialmente sapendo che il giorno dopo sarà la stessa tiritera, e deve anche studiare.
Mi risuonano in mente le sue parole. “Mi dispiace. Sono stato un po’ troppo assente”.
No, Ale, no. Anzi, improvvisamente mi rendo conto che sei fin troppo presente, e nonostante non mi debba nulla, dacché siamo solo semplici coinquilini, ti sei sforzato anche di trovare del tempo per me, e vorresti trovarne ancora, per compiacermi.
Questo pensiero mi colpisce con forza. C’è mai stato qualcuno, che abbia trovato del tempo per me, fin qui? Davvero soltanto per me?
A guardarmi indietro, non lo so con certezza. Soltanto Andrèas, prima che andasse via da casa. Milo è sempre stato con me ogni volta che poteva, ma lo faceva per lui, non per me. Gli faceva piacere la mia compagnia, ma se arrivasse a casa dopo una giornata stressante non si sognerebbe mai di chiedermi scusa perché è troppo assente. Come minimo mi avrebbe detto di non rompergli, ch’era stanco morto e non gli andava neanche di farsi una scopata, figurarsi parlare con me.
Non voglio dire che Milo sia cattivo, mai. Solo, lui tiene a me a modo suo.
A ben pensarci tutti tengono a me a loro modo.
Nessuno mi ha mai chiesto scusa perché è stato “ un po’ troppo assente”.
Né mio padre, sempre impegnato col lavoro. Né mia madre, persa dietro le sue medicine.
Né mio fratello, che è andato via senza guardarsi indietro.
Neppure Shaina, che non ha mai rimandato un appuntamento dall’estetista o con le sue amiche, se avevo casa libera un’ora e la pregavo di raggiungermi. E se sbuffavo al cellulare mi rimbrottava di brutto: << Possibile che pensi solo a quello?! Sei troppo egocentrico, Alex. Pretendi che annulli un appuntamento che ho fissato da due settimane, e di cui ho bisogno con la massima urgenza, perché ai tuoi è saltato il ticchio di uscire? Ma cos’hai, quindici anni?! >>. E l’urgenza erano le unghie da rifare, o le sopracciglia da sfoltire.
E mi davo del cazzo di egocentrico anch’io, perché pretendevo che accorresse alla mia chiamata, così, solo ad uno schioccare di dita. Che mandassi all’aria i suoi piani, solo perché avevo voglia di fare l’amore con lei in un posto che non fosse il sedile della mia auto parcheggiata in un posto buio, in mezzo al nulla, o una camera presa last-minute da qualche parte che fosse accettabile. E dove nessuno potesse vederla o riconoscerla. Cosa che spesso faceva saltare anche il sesso, perché non sempre era possibile trovarne una che corrispondesse alle sue aspettative.  
D’un tratto sento un sapore amaro in bocca. Ma non è il retrogusto del caffè.
Mi accorgo di essermi preso una pausa col cervello, ma nessuno di loro due ci ha fatto caso. A quanto pare, Ale ha tenuto una lezione anche a beneficio di Alyké, che sembra pendere dalle sue labbra morbide, rese più scure dal riflesso della camicia. << Non sempre mescolare cose che a prima vista non c’azzeccano niente, è controproducente. Basta saperle amalgamare con cura >>, sento che dice.
A quanto pare sono tornato giusto in tempo per sentir confutare una delle mie teorie. E per risentire quel tono ammaliatore dell’altra sera.
<< L’ho sempre pensata anch’io così! >>, fa Alyké, portando una mano davanti alla bocca piena. << E’ squisito, Leo. Dai, prendilo >>.
<< Veramente … >>.
<< E dai! Uno solo, che male può fare! Ci pensi domani, alla dieta! >>, fa lei, ridendo. << Non si può dire sempre di no! >>.
<< Ha ragione, Leo >>, rincara Ale, in tono pacato. Poi posa i gomiti sul bordo di legno, e rialza lo sguardo fissandomi da sopra le lenti.  << Facciamo così. Te ne do un assaggio. Poi decidi se ti va di prendere … anche il resto >>.
<< Va bene >>. Non ho la convinzione necessaria per continuare a rifiutare.
Va al lavello, si sciacqua le mani con cura e le asciuga in un altro strofinaccio, tenuto a lato della macchina del caffè. Poi prende da un secchiello un coltello, e stringe tra le dita l’altro muffin.
Affonda il coltello con grazia nella pasta soffice, e la crema all’interno si spande sulla lama.
Non so perché, ma ho un nodo in gola mentre me lo porge. Lo raccolgo dalla punta delle sue dita, e lo porto alle labbra. Ingoio tutto d’un colpo, e meno male ch’è davvero morbido come sembra, che altrimenti mi sarei strozzato, e uno dei due avrebbe dovuto praticarmi la manovra di Heimlich.
Solo ora realizzo che l’ha toccato con le mani. E la cosa, piuttosto che infastidirmi, mi ha fatto sentire più propenso ad accettarlo.
Ale inarca un sopracciglio, e Alyké scoppia a ridere. << Dai, ma così non senti neanche che sapore ha! >>.
Bevo un sorso di caffè, non osando alzare lo sguardo su di lui.
Forse non è stata una gran furbata, venire assieme ad Alyké. << Non devi preoccuparti se non ti va >>, riprende Alejandro, aprendo l’acqua e lavando il coltello con un gesto apparentemente noncurante, ma che rivela una gran pratica, oltre che una meticolosa attenzione.
Sembra affilatissimo. Il genere di roba che rischia di farti ritrovare nel ragù un dito, se non lo maneggi con la dovuta cautela. Persino io che cucino non mi azzarderei a mettere mano ad un oggetto tanto pericoloso, soprattutto conoscendo quanti danni sono già capace di procurarmi con quelli più piccoli, da cucina o da tavola che siano.
D’un tratto mi balena sullo schermo mentale un nuovo punto da aggiungere alla famosa lista:
10. Ha una passione malsana per le armi da taglio.
E mi viene spontaneo figurarmi le pareti tappezzate di spade, fioretti, katane giapponesi. In effetti … a vederlo così ce l’ha l’aria di un samurai.
Ora che ci penso, non ha detto di essere di Toledo? E questa città ha una reputazione a livello mondiale, nella produzione di lame.
Non mi ricordo dove ho letto, sempre su qualche rivista di Shaina, che la bella Angelina Jolie, giusto per ritornare sul discorso di Brad Pitt, adorava giocare con i coltelli mentre faceva sesso con il suo ex-fidanzato.
Ossantocielo. Forse è per questo che da quando abito con lui non ha mai … ricevuto visite a parte quella dei suoi compari. Non soltanto perché è così riservato.
Per non farmi sentire le grida. << Eh? >>. Riemergo a stento dalle mie elucubrazioni, imprecando contro me stesso perché nonostante abbia appena promesso di non pensare male di lui, l’ho appena fatto di nuovo.
Sono sempre stato creativo, ma devo ammettere che mi sto stupendo da solo. Non mi era mai capitato di lanciarmi in fantasie così sfrenate, riguardo le predilezioni sessuali di qualcun altro.
Un uomo, soprattutto. << Non devi preoccuparti di venir meno ai tuoi principi di economia. Se non ti va, lo metto da parte, se lo divideranno i ragazzi più tardi >>.
<< No. Lo prendo ora >>. Forse ho usato un tono un po’ troppo deciso. Duro, sarebbe il termine corretto, in realtà.
Mi pare di vederlo irrigidirsi leggermente. << Okay. Come preferisci >>. Mi avvicina il piattino con il dorso della mano. << Serviti pure >>.
Ha un aspetto più che magnifico, soprattutto ora che il ripieno è colato fuori in una piccola pozza chiara, che spicca sul marrone profondo. mi assale l’immagine di me che gli assesto un morso finendo per impiastricciarmi tutta la faccia.
Ma mi faccio coraggio. Se ne sono uscito indenne con i cannoli, anche se mi sono assicurato di provarli mentre ero da solo in casa, non sia mai, posso farcela con un muffin.
Non ho l’abitudine di mangiare con calma. Persino da piccolo, con le caramelle non riuscivo a tenerle in bocca e succhiarle. Dovevo polverizzarle sotto i denti, sentendole scrocchiare tra i molari. E così con i ghiaccioli, finendo poi con un mal di testa atroce, perché non esiste che mastichi ghiaccio e non ti parte la congestione alla fronte.
Così mi decido a prenderlo tutto. E’ davvero buono. Si scioglie in bocca, e la birra quasi non si sente, se non per un certo vago sentore di malto, che si fonde alla perfezione con il resto.
<< Wow >>, mormoro, prendendone un altro morso. << E’ proprio buono, sul serio >>.
<< E pensa che la maggior parte degli ingredienti è a chilometro zero, oppure viene dal commercio equosolidale. Non ti andrà di traverso adesso, vero? >>. C’è un pizzico di malizia nelle sue parole, ma sono troppo impegnato a rischiare un coinvolgimento emotivo con questo muffin.
Potrei andarci a letto, sul serio. Non mi chiederebbe di girare mezza Atene per trovargli una stanza, o di fare trenta chilometri perché siamo lontani da qualsiasi anima viva.
E mi darebbe un sacco di soddisfazione comunque.
Oddio, ma sto davvero parlando di mangiare come del sesso?
Mi sa che mi sto giocando il cervello.
Eduardo ritorna, con uno scatolone tra le mani. << Li hai fatti tu? Sono meravigliosi! >>, trilla Alyké, e l’omone arrossisce.
<< Oh, be’, grazie >>. Posa lo scatolo e passa una mano dietro la nuca, come se fosse refrattario ai complimenti. << E’ stato Ale a convincermi a metterli in vetrina >>.
<< Ha fatto bene >>. Alyké gli scocca un sorrisone, poveretta. Mi sa che non ha capito.
D’altronde a vederlo adesso, non capirebbe nessuno.
Poi mi do dello scemo. Non è che uno smette di essere attraente per il sesso femminile solo perché è gay. Anzi a quanto pare, le donne ci vanno pazze. Più sono … omosessuali, più le tirano, va’ a sapere. Secondo quel geniaccio di Milo, che studia psicologia, è perché sono “attratte dall’impossibilità di averli. E’ il solito gioco della statua sul piedistallo. Quando la tocchi ti resta la doratura sulle mani, per citare Flaubert, e addio. Con quelli invece non corrono di questi rischi. L’idea che non si complimentino con loro per portarle a letto li innalza automaticamente nella loro considerazione. E il sogno segreto di ogni donna è che possa riuscire a .. redimerne almeno uno. T’immagini, che colpaccio sarebbe, per la loro autostima? ”. Un discorso che all’epoca abbiamo fatto dopo aver visto un film, di cui non ricordo neppure il titolo adesso, ma che riguardava appunto una ragazza che alla fine, dopo un sacco di storie finite male, s’innamorava del suo migliore amico omosessuale.
Ammutolisco di colpo. Sono quasi le stesse parole che ha usato Ale, quando abbiamo parlato la prima volta.
Devo ammettere che in quest’ottica inizio a credere un po’ di più, alla teoria di Milo.
Cazzo, Milo. Ora che finalmente il cervello si è ricollegato, causa flebo di caffeina e zuccheri, mi ricordo che non l’ho più chiamato.
Devo rimediare, quando torno a casa.
Meno male che non gli ho dato l’indirizzo. Altrimenti sarebbe stato capace di catapultarsi.
<< Scusatemi, ragazzi. C’è un sacco di roba da mettere a posto, e stiamo provando un ragazzo, che però non possiamo lasciare da solo >>. Ale stira un mezzo sorriso. << Tranquillo, non penso che durerà. Diego è molto elastico, anche sul lavoro, soprattutto con chi ha appena iniziato. Ma pretende almeno una certa affidabilità, ed è chiaro che non puoi garantirla se sei impegnato a inventarti scuse per non presentarti >>.
Io abbasso lo sguardo sulle mani, pulendole con estrema lentezza con il tovagliolino di carta.
E’ evidente che siamo ai poli contrapposti di quest’affermazione su di me. Lui intende forse sottolineare il fatto che io sia affidabile, almeno secondo lui.
A me invece vengono in mente tutte le mie mancanze.
La porta si apre, e due giovani donne entrano, con delle tracolle da computer. Sta per iniziare l’attacco di poveretti esauriti, affamati e molto frettolosi. << Be’, noi … togliamo il disturbo >>, mormoro, gettando il tovagliolo nel cestino, e bevendo un sorso d’acqua. << Quanto ti devo? >>.
Ale alza le spalle. E sono tre. Anche questa credo sia una compulsione.
Di certo è più gradevole che strizzare l’occhio, o digrignare i denti. << Offre la casa >>.
Approfittando del fatto che la ragazza si è rimessa a contemplare il pannello come se volesse convincerlo a staccarsi dal muro e seguirla a casa, replico: << Ma non pensarci proprio. Dovevo una colazione ad Alyké, se la offri tu, vengo meno alla mia promessa >>. Lo fisso in volto, sfidandolo ad un ideale braccio di ferro di sguardi.
Il suo è denso, nero, insondabile. La luce lo colora di un’illusione di limpidezza, ma in realtà è solo il raggio di luce che si posa sull’acqua. Illumina appena la superficie, il fondo resta imperscrutabile. << Allora sono davvero costretto ad insistere. In fondo è stata lei a fare un favore a me, non pensi? >>.
Lo fa di nuovo. Mi fa battere qualcosa più forte, dentro, che sola rinsalda tutti i pezzi che sentivo tremare pericolosamente.
Stabilità. Ecco, come si chiama. La sensazione di … stabilità, malgrado tutti i dubbi che mi suscita e i forse con cui mi martella in testa.
<< Non la conosci >>, ribatto d’impulso, determinato a non mollare. E riduce gli occhi a due fessure, dietro le lenti. << Quindi, non sei abbastanza amico suo, perché possa concederti questo genere di favore. O perché tu lo possa accettare. Ergo, pago io >>.
Lui mi guarda appena un altro istante, tende l’angolo delle labbra. << Hai sbagliato facoltà, Leo. Dovresti fare l’avvocato. Come cavilli tu, non lo fa nessuno >>.
Erompo in un sorrisone a trentadue denti, e solo dopo mi sovviene che potrei avere dei pezzi di muffin attaccati allo smalto. Così, la pianto. << So essere molto determinato. Quanto ti devo? >>.
<< Quindici sterline e trentasei pound >>.
Resto a bocca aperta, e stavolta non me ne frega niente, se ho i denti incrostati di muffin. << Alla faccia del commercio equosolidale >>, commento, tirando fuori il portafoglio.
Prendo le banconote, le monete, e le poso sul banco. Lui le prende, va alla cassa, batte lo scontrino e lo posa sul piccolo svuotatasche verde scuro anch’esso, dai bordi dorati, un oggettino che sa di mercatino delle pulci. Sto per raccoglierle quando mi accorgo che mi osserva sornione. << Vuoi un sacchetto di plastica, o preferisci la carta riciclata? >>, mi chiede a bruciapelo.
<< Eh? >>.
<< Per quello che hai comprato. Non credo sia il caso di portartelo in giro così, no? >>.
Lo fisso, sempre più confuso. << Sono il prezzo di una bottiglia di Zinfandel di buona qualità. A meno che tu non preferissi qualcos’altro, questa volta >>.
Deglutisco a stento. Sento che sto per mettermi a ridere di nuovo, ma non posso dargli questa soddisfazione, così mi mordo il labbro.
Mi ha fregato. E io imbecille che non mi sono reso conto del suo giochetto. Ma nel negozio l’ho pagata diciotto e qualcosa, quindi non potevo saperlo.
Ho pure risparmiato, guarda un po’. Il mio lato economico sta facendo i salti di gioia.  
E non solo lui.
Se me l’ha fatta prendere è perché evidentemente ha in mente di pormi tutte quelle domande.
E non dovrei sentirmi tanto felice. Sul serio. Anche perché dovrò rispondere con un mucchio di balle.
Ma adesso non ho il tempo di pensarci. Sono troppo concentrato a guardarlo mentre tira giù la bottiglia dalla mensola di legno. << Allora? >>.
<< Qual è la differenza? >>, domando. In teoria gli starei facendo perdere tempo, ma siccome le due damigelle sono impegnate a scorrere i menu con un occhio sui loro cellulari, sicuramente intente a controllare quante calorie contenga questo o quell’altro peccato di gola, non mi sento troppo in colpa.
Li stiamo rubando per noi due, questi minuti.
E conta tanto, per me.
<< Il sacchetto di plastica ti costa dieci pound. Quello di carta è gratis >>.
<< E che me lo chiedi a fare, allora? >>, borbotto, mettendo su un’aria accigliata. << Mi hai già fatto spendere un patrimonio, sanguisuga >>.
Per un secondo temo di aver esagerato. In fondo non è Milo.
Poi lo sento ridacchiare. E mi rassereno. << Cosa preferisci, per cena? >>.
<< Ma tu non hai mai da studiare? >>.
<< Proprio oggi ho fatto un  intervento brillante, in aula. Sono al sicuro per un bel po’ >>.
<< Davvero? >>.
<< Così ha detto il mio prof. E pensare ch’era il primo di tutta una carriera scolastica >>.
<< Ma guarda. Dovremmo festeggiare, allora. A proposito di prime volte >>.
Ridacchio anch’io, ma mi sa ch’è più una reazione isterica. Ora viene il peggio, e cioè che ho proprio la brutta impressione di dover fare un altro giro su quel famigerato sito. << E la colazione? >>, gli chiedo, sforzandomi di suonare “normale”.
Stavolta, invece che alzare le spalle, fa un cenno con la mano. Come a spingere l’aria. << La prossima volta >>.
<< Ehi, Leo? >>. Oh, cavolo, Alyké. Mi ero quasi scordato di lei.
Senza quasi. Me l’ero proprio scordata, cavolo. << Sì, andiamo subito. Ehi, Ale ci ha offerto la colazione >>.
<< Nooo … ma sei troppo gentile. Vedi che conto anche sulla tua … amicizia con l’autore del pannello, sai? >>, sorride, porgendogli di nuovo la mano.
<< Farò il possibile. Piacere di averti conosciuta, Alykè >>.
<< Piacere mio. Buon lavoro! >>.
<< Ci vediamo dopo >>. Esco, e accompagno Alyké alla stazione della metropolitana.
Per tutto il tempo non ha fatto che parlare del pannello, del locale, di quanto fosse buono quel muffin e di quanto sia carino Ale. Carino in senso di educato, gentile e bla bla bla, ma sotto sotto s’intuisce che lo trova “carino” anche in tutt’altro senso.
Peccato che io non riesca a darle troppa corda. Avverto solo il peso che reggo nella destra, e una qual certa ansia, piacevole.
Quindi figurarsi la mia delusione, quando dopo essere tornato a casa, aver messo il vino in frigo, essere uscito di nuovo, aver fatto la spesa, aver preparato la cena per non perdere tempo a farlo dopo, basta un giro di microonde e via, aver fatto la doccia, aver imprecato perché ho dimenticato di prendere le sigarette, essermi vestito, essere uscito di nuovo, e aver guardato l’orologio scoprendo che era già ora che Ale arrivasse a casa, quindi si era fatto troppo tardi per riprendere quel famoso discorso lasciato in sospeso col mio computer, ho ricevuto il segnale di notifica.
Solo due frasi, scarne. “ Sono bloccato al lavoro, ne avrò ancora per un po’. Il ragazzo in prova ha addotto un imprevisto, così mi tocca protendere il turno. Mi spiace, credo che dovremo rimandare”.
Un secchio di acqua gelata non avrebbe potuto raffreddarmi più di così.
Poi mi sovviene il fatto che io posso pure andarmene a dormire, svaccarmi sul divano a guardare la tivù, leggere un libro, starmene fuori a impregnarmi le ossa di umidità. E invece lui è obbligato a darsi da fare, dietro quel bancone tirato a lucido.
D’un tratto non so che fare. Mi sento curiosamente elettrico, e siccome casa è uno specchio, non ci sono panni da piegare o stirare, e di ripassare proprio non mi va, neanche come estremo sacrificio, mi ritrovo con un surplus di energia da senso di colpa.
Io. Quello che la domenica e durante le vacanze non si alzava dal letto se non suonavano le due. Che spesso si riduceva a mangiare in cucina solo come un cane, perché i miei pranzano alle dodici e mezza anche Natale Pasqua e feste comandate, ed io ero troppo rincoglionito per tirarmi su dal materasso in uno stato appena appena umano. E che la donna di servizio guardava storto, senza farsi beccare ovviamente, perché le lasciavo il piatto sporco sul lavandino che lei aveva sfregato fino a farlo luccicare.
E ora mi sento male solo perché sono deluso dal fatto che non abbiamo potuto passare un po’ di tempo insieme, e in colpa perché lui è a farsi il mazzo mentre io sto cazzeggiando allegramente – si fa per dire, che di allegro c’è poco o nulla.
Se solo avessi la chiave della sua camera, potrei mettere in ordine. Ma sto mentendo a me stesso, perché ci metto la mano sul fuoco ch’è lindo e pinto, la dentro, e neppure il materasso ha bisogno di essere sbattuto.
Quest’accenno mi fa salire una vampata di rossore in faccia.
Potrei riprendere quel discorso. Giacché ora ne ho il tempo. Chissà, magari non farà troppo tardi, e potrei farmi trovare pronto, quando arriva.
Sto giusto per andare ad accendere il pc, quando mi blocco in mezzo al soggiorno, raggelato.
Un trillo inatteso al campanello.
Mi sale un’ansia assurda. Che Milo sia riuscito a scovarmi, nonostante tutto? O che … l’abbia fatto qualcun altro?
No, è davvero assurdo. Più facile che sia Ale, e che magari voglia restituirmi la sorpresa.
Ma quando rispondo al citofono, è davvero qualcosa d’inaspettato. << Apri? Dai, che sennò si fredda … e lo sai, no, che fredda e molliccia non è buona >>. Un ghigno inconfondibile, seguito da uno sbuffo plateale, da diva.
D’un tratto il mio umore migliora sensibilmente.
Questa è davvero una sorpresa.
E anche se non è quella che mi aspettavo, è comunque gradita.

Angolino di Anya: eccoci qui. A costo di ripetermi, io di economia so poco o niente, quindi chiedo perdono se ho fatto rivoltare Keynes nella tomba. spero che le guest star del capitolo me lo facciano perdonare: avete riconosciuto chi è in realtà il professor Price ?( scusate il cognome assurdo, ma stavo ascoltando una replica di Holly e Benji che guardava mio figlio, e non mi è venuto in mente nulla di meglio! E poi dai, per un professore di economia, ci potrebbe stare).
come sempre, per critiche e correzioni, a disposizione!
Bacioni, 
Anya

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Capitolo 9
*** 9. ***


Angolino di Anya: scusatemi, per una scorsa ( gli orari indecenti, come sempre) ho confuso i pound con i pence, cioè le sterline con i centesimi. cioè, è vero che è vero, che i Leoni non badano a spese, ma così lo abbiamo proprio dissanguato, povero Leo! 
Buona lettura! :) 


<< Leo? Leo, ehi >>. Un tocco lieve mi pungola la spalla.
Schiudo appena gli occhi, cercando di capire dove sono, come sto e soprattutto il perché di entrambe le domande. << Mhmmm … >>. Niente da fare.
Sento appena il contraccolpo del cuscino che protesta, mentre ci spiaccico la faccia.
La voce di Ale mi giunge lontana, sfocata. << Stai bene? >>.
<< Eh? Perché me lo chiedi? >>.
<< Be’, sono le due, e stai ancora dormendo, dimmi tu >>.
<< Dovevo … fare qualcosa? >>, mugugno, ancora addormentato.
<< Non chiederlo a me >>. Il suo tono è serio. Molto serio. Lo percepisco anche se mi sembra di avere le orecchie piene di cotone idrofilo. << Volevo solo accertarmi che fosse tutto okay. Ti ho sentito lamentarti, ma probabilmente stavi sognando >>.
Sono del tutto fuori, e mi ci vuole qualche secondo per realizzare.
Vaghi flash mi assalgono, come i crampi allo stomaco. E al cervello.
Magnus e Angelo che salivano con le pizze e le birre. Io che spiegavo che Ale non c’era, che avrebbe tardato, ma comunque potevamo aspettarlo.
Le pizze alla fine si sono freddate, ma non abbiamo lasciato il tempo di far scaldare le birre. Una tira l’altra, e alla fine, aspetta aspetta, siamo finiti sul terrazzino, a fumare e bere.
E per fumare, non intendo sigarette. << Merda, merda, merda … >>, dico, per fortuna in greco.
Ma non credo che a questo punto cambi qualcosa.
<< Che ti prende? >>.
<< Nulla >>. Mi tiro su, sentendo la testa scoppiare, e un sapore tremendo in bocca.
Ora come ora mi farebbe comodo uno di quei muffin, per mandarlo via. Davvero.
O una cisterna di colluttorio. << Porca miseria >>.
Sono tutto indolenzito, come se mi avessero picchiato, o abbia fatto un allenamento particolarmente intenso in palestra.
E invece mi sono sbronzato come Cristo comanda. O meglio comanda di non fare, nella fattispecie. << Tieni. Immaginavo ti servisse >>. Alejandro mi porge un bicchiere, dentro c’è un liquido biancastro. << Alka-Setzer. Per fortuna ne ho sempre una scorta, in casa >>.
<< Casomai qualcuno dei tuoi coinquilini idioti si riducesse uno straccio, vero? >>. La sua superiorità non esibita, ma effettiva mi irrita da morire.
Lui non è certo tipo da svegliarsi alle due del pomeriggio, con in corpo un tasso etilico da mandare in coma un elefante. E non solo quello.
Posa il bicchiere sulla mensola sopra il mio letto. << Mi piace essere pronto per ogni eventualità >>.
<< Già. Ma che è successo? Perché … non è che ricordi un granché >>. Mi sforzo di aprire le palpebre incollate, e posso farlo senza che le tempie protestino perché con un atto di misericordia Ale ha tirato le tende. << Ricordo solo … Angelo e Magnus. Dove sono? >>.
<< Tornati a casa, spero. Ti salutano. Si augurano tanto di poter trascorrere … un’altra serata così divertente insieme a te >>. Raddrizza gli occhiali sul naso. << A quanto pare vi siete dati parecchio da fare >>.
Sono troppo stonato per realizzare cosa possa celarsi nelle righe di quel “darsi parecchio da fare”. Fossi più lucido tremerei per le implicazioni di una tale affermazione.
<< Ti … stavamo aspettando >>, provo a giustificarmi, abbassando lo sguardo sulle mani. Non è una scusa eccelsa, e provo la stessa angosciante sensazione di quand’ero obbligato a fornirne dopo qualche mio casino.
Una morsa di vergogna e umiliazione mi serra il petto. Lui era a lavorare, e io mi sono sballato ben benino, anche se assieme ai suoi amici.
<< Già. Mi avete aspettato davvero bene >>. Ale sospira. << Fammi un favore. La prossima volta, non far salire nessuno in casa, neppure se sono loro. Anzi, soprattutto se sono loro. Ti avevo avvisato, ti devastano il cervello, se gli dai corda >>. Incrocia le braccia. Ha addosso una maglia grigio scuro, che spegne ogni luce dal suo viso, dal suo sguardo, a differenza della camicia che portava ieri. << Non sono cattivi, questo no. Ma a volte passano il limite, soprattutto se non ci sono io, a frenarli >>.
Scuoto la testa. Insieme allo schifo in bocca risale un rigurgito di bile, aspra, amarissima. << Ne parli come se avessero approfittato della mia beata ingenuità. Non sono un santo, né un bambino, sai? Anch’io so divertirmi, se mi va >>.
Alejandro mi fissa con uno sguardo affilato, nero come olio minerale. Davvero una lama, come quelle di cui giusto stavo fantasticando ieri.
Non può sapere cosa mi abbia spinto a farlo. Quel … desiderio profondo di autodistruzione, di annichilimento, che già in passato mi ha portato a trovarmi in questo stesso stato miserando.
Sta tornando, me lo sento. << Scusa, ma sai, non hai l’aria di uno che si stia divertendo, in questo momento >>. Esce dalla stanza, a passi larghi, marziali.
Non ero preparato a questa reazione. Essendo sempre stato additato come quello che pensa solo a divertirsi, non mi aspettavo una reprimenda simile, tanto vicina al punto dolente dentro al mio petto.
E in più ho la certezza di averlo deluso. Davvero, nel profondo. E unito alle sue affermazioni di ieri, ch’era lui a dovere un favore ad Alyké per avermi fatto piombare qui, la sconfitta ha un sapore persino più disgustoso dell’alcol e del fumo sedimentati sulla mia lingua.
Gli ho mostrato un lato del vero Leo, quello che viene fuori se appena scrosti la facciata da ragazzo di buona famiglia.
E a differenza di lui, io non ho nulla di buono, sotto di questa.
Mi tiro su, lottando col lenzuolo che mi si avvinghia addosso. Ho ancora i vestiti di ieri, quindi suppongo di essermi trascinato a letto cosi com’ero.
Mentre cerco di recuperare la posizione eretta, una vertigine sfolgorante mi attraversa il cervello, aprendomelo a metà. Devo appoggiarmi alla mensola per non cascare di nuovo sul materasso, battendolo alla perfezione.
La nausea che mi monta nelle viscere è tremenda. Stendo il braccio e afferro il bicchiere, portandolo alle labbra come fosse l’ultima speranza.
Per un attimo ho il terrore di vomitare. E’ già una situazione abbastanza squallida, e non vorrei toccare il fondo, non con lui in casa.
Appena sono certo di aver guadagnato un po’ di stabilità, mi rimetto in piedi. E alcuni sprazzi mi sovvengono, flash della conversazione avuta con Magnus e Angelo ieri sera.
Ma ora non ho tempo per rimuginarci su. Entro nel bagno, mi spoglio e apro l’acqua nella doccia, gelata, che mi fa diventare un blocco di ghiaccio. Appena due minuti, ed esco, mettendo su l’accappatoio, e mi lavo i denti usando una vagonata di dentifricio.
E’ patetico, lo so. Soprattutto quando rialzando lo sguardo nello specchio scopro di avere un colorito malsano e gli occhi iniettati di sangue.
Poi sento la porta chiudersi, e corro fuori. << Ale! >>, chiamo, ponendo già mente al fatto che dovrò lavare il pavimento, subito dopo … avergli chiesto scusa.
Sono una persona orribile, lo so. E non lo dico con quel vago senso di autocompiacimento che mi veniva sempre dopo essermi fatto strigliare da mio padre, in circostanze molto simili a queste, come se volessi … fargli toccare con mano il peso del suo successo come imprenditore, ma fallimento assoluto come genitore. << Ale, dove sei? >>. Vado alla porta, aprendola, fregandomene se devo uscire in accappatoio in strada per raggiungerlo.
Poi si apre la porta della sua camera. E mi fissa, stranito. << Che c’è?  >>.
<< Mi dispiace >>. Torno indietro sui miei passi, i piedi che sciaguattano sul pavimento. << Perdonami >>, mormoro, a capo chino.
Per un attimo mi prende l’impulso, assurdo, d’inginocchiarmi davanti a lui. Ma non sarebbe il caso, e non certo perché tema che possa fraintendere il mio gesto.
O meglio sì, ma non in senso sessuale. Quasi che voglia … obbligarlo, a farlo. A perdonarmi.
Lui rimane in silenzio, ma sento nitidamente il suo sguardo posarsi su di me. Non mi azzardo a ricambiarlo, ho paura, sì, paura, di quello che potrei vedere sul suo volto, nei suoi occhi adesso.
Compatimento. Disinganno. << Leo, non è successo niente >>.
<< Sì, invece. Ti ho risposto male, e non volevo. Non te lo meriti, soprattutto. Scusa >>.
Lui esce, si richiude la porta alle spalle. E il fatto che non ne abbia approfittato per sbirciare nello spiraglio aperto dietro di lui, è indicativo di quanto mi senta di merda adesso.
<< Ehi. Va tutto bene >>, sussurra con dolcezza.
Se sapessi di non rischiare di combinare ancora più casino, lo abbraccerei. Sul serio. Forte, come ho abbracciato mio fratello prima che si chiudesse dietro la porta di casa, una volta per tutte.
Subito realizzo, malgrado non sia ancora del tutto lucido, che sto scaricando su di lui il peso del mio merdoso passato. Quello che credevo di potermi lasciare alle spalle con Shaina, e che pensavo di non dover affrontare più qui a Londra.
Chiaro ch’erano tutte bugie pietose. Già da qualche tempo sentivo il suo fiato umido e acre sulla nuca. Ho riconosciuto i segnali, ma ho finto che potessi affrontarlo, se ci avesse provato, anche se dentro di me sapevo che prima o poi ci sarei ricascato.
I ragazzi non ne hanno colpa. Non potevano certo immaginare, e mi spiace che adesso debbano anche subire la riprovazione di Ale.
Non se lo meritano. Non avevano idea della persona con cui avevano a che fare in realtà, credevano solo di trascorrere un paio d’ore di attesa con il coinquilino di un loro caro amico.
<< Vieni. Ti preparo un caffè >>, dice, e ritorna in soggiorno. Lo seguo e mi accorgo del plaid steso sul divano.
E’ quello di Alejandro, che ogni tanto la sera tira fuori, e lascia ordinatamente ripiegato sul bracciolo, prima di riportarlo in camera.
Un sospetto tremendo mi sale in mente. Resto a fissarlo come fosse un cadavere sfigurato, e non il solito plaid soffice e grigio bordato di pelliccia bianca. << Perché c’è il plaid, qui? >>.  
<< Fa freddo >>, è la sua spiegazione ineccepibile. I rumori felpati dei suoi movimenti sembrano assordanti, nel silenzio che segue.
<< Hai dormito qui?! >>, sbotto, ma è più un’affermazione che una domanda.
<< Non potevo permettere a quei due di tornare a casa in quello stato. Spero gli sia servito di lezione, per la prossima volta >>, dichiara dalla cucina.
Le gambe mi fregano di nuovo, devo sedermi. Mi appoggio sul bracciolo, mentre un nuovo suglio di vergogna mi serra la gola.
Dopo una lunga giornata di lavoro, resa ancora più lunga dall’inaffidabilità del ragazzo in prova, ha dormito sul divano. Mentre io, ubriaco fradicio e fumato, mi rivoltavo beatamente nel mio letto.
E Angelo e Magnus … dividevano il suo. E’ abbastanza ovvio.
<< Perché non hai dormito con me? >>.
E’ una domanda che viene fuori diretta, istintiva.  
Solo dopo intuisco che potrebbe avere dei risvolti non troppo ortodossi, nel suo caso. Ma vaffanculo. Che pensi pure quello che gli pare.
Non mi va giù che debba essersi ammaccato le ossa qui al freddo.  
Si affaccia, fissandomi di sbieco. << Che domande. E se ti fossi svegliato … nel cuore della notte, mezzo sbronzo, trovandomi lì? Cosa avresti pensato? >>, mi getta contro, di rimando.
Mi alzo, raggiungendolo in cucina. Sta mettendo fuori le tazze, tranquillo, come nulla fosse accaduto, come se non avessi detto nulla di strano, meno di un attimo fa. << Avrei pensato che sono un cretino. Che mi sono fatto prendere la mano, e per favore, non prendertela con loro due, non c’entrano niente. Ero così già prima di ieri sera, lo sono stato per parecchio tempo, tutte le sere >>, ammetto, senza però cedere di un millimetro. Sicuro, deciso, per quanto conceda un accappatoio nero umido. Se deve cambiare l’opinione che si era fatto di me, tanto vale lo faccia fino in fondo, senza ripensamenti.
Merda. Ho detto nero?
A stento reprimo la voglia di mettermi le mani in faccia. Nell’agitazione non mi sono accorto di aver preso il suo.
Solo ora mi rendo conto dell’anelito dolce, asprigno, intenso ch’emana la spugna. Ha il suo odore, ma non ci ho fatto caso fin qui. Porca puttana.
E lui non ha badato a farmelo notare. << Non sta a me dirti cosa fare, Leo >>. Versa il caffè nella tazza, e la porta sul tavolo, posandola con attenzione. << Sei adulto, e credo non ti occorrano consigli, tanto meno da me, che sono un estraneo e non ho alcun diritto d’ingerirmi nella tua vita privata. Non intendevo rimproverarti per quel ch’è successo ieri sera, ci mancherebbe altro. Hai tutto il diritto di … decidere per te >>. Posa la zuccheriera, con fare tranquillo. << Se scegliessi di farlo, anche tutte le sere, non sarebbero affari miei. Solamente, mi dispiacerebbe se tu lo facessi per distrarti da qualcosa che ti rode, dentro, e non perché hai voglia di divertirti >>.  
La sua frase cade con il giusto peso. Non so di che tratti precisamente la sua filosofia medievale, ma se somiglia alla psicologia moderna, be’, allora ha scelto bene il suo percorso di studi.
E’ la prima volta che qualcuno mi parla in questo modo. E mi sento stranamente toccato, dal fatto che uno sconosciuto con cui divido casa da poco abbia saputo cogliere cosa davvero mi abbia tenuto per così tanti anni sul filo del baratro, quando le persone con cui sono cresciuto non hanno visto in me nient’altro che la voglia di far casino.
<< A me dispiace … che tu abbia dovuto dormire sul divano >>, mormoro. << E che abbia dovuto farti carico delle responsabilità che qualcun altro non abbia voluto assumersi >>.
<< Succede. Non è una cosa così grave, Leo. Cioè, non lo è per me. Ma penso a coloro che quelle responsabilità hanno fatto fuggire. Se qualcosa di così poco … impegnativo li ha spaventati tanto, figurati quando si ritroveranno un giorno di fronte alle vere responsabilità, cosa potrebbe accadere. Povere quelle persone che si affideranno a loro  >>.
Rialzo finalmente lo sguardo. Ha le braccia ancora incrociate, l’osso sacro inchiodato al pensile della cucina.
Ha davvero l’aria di un samurai, così. un saggio guerriero dei tempi andati, fedeli all’onore fino al punto di sacrificare ogni cosa, anche la vita, qualora occorresse.
Prendo la tazza tra le mani. Il calore e l’aroma hanno un effetto ristoratore immediato.
Forse troppo. << Però … potevi anche venire a letto con me >>, sputo fuori, e subito dopo – dopo, sempre dopo, maledizione- mi rendo conto della stranezza della mia uscita.
Lui scuote piano la testa, rimettendo dentro il barattolo del caffè. << La prossima volta ne terrò conto. Anche se … mi auguro che tu non debba più combinarti così >>.
Mi pare d’intravedere un leggero sorriso sarcastico, sulle sue labbra.
E’ una mia impressione, o c’è un vago doppio senso nelle sue parole?
Nah. Forse sono ancora in fase di smaltimento. << Be’, io vado. In frigo ci sono gli avanzi di ieri sera, se ti va di mangiare >>. Infila la giacca, la tracolla. << Ci vediamo più tardi >>, mi saluta, in tono neutro. Distante, però, come quello che aveva prima di incontrarci ieri da Diego.
Annuisco appena, finendo di bere il caffè. E mi do dell’imbecille, perché sembrava non vedessi l’ora di farmi vedere da lui così, giusto per il gusto di farmi del male da solo.
A meno che … un lato molto, molto oscuro di me non l’abbia fatto volontariamente.
Ma non sono tanto contorto. Più facile che abbia colto l’occasione al volo, per ripiombare nel mio personalissimo limbo di auto-compatimento.
Forse Milo saprebbe spiegarmelo meglio di me.
Accidenti, Milo. Ho dimenticato anche di chiamarlo, col casino ch’è successo.
Ma non sarebbe il caso di farlo adesso.
Forse dovrei cercare di mettermi in contatto con Magnus, per vedere se almeno uno di loro due ha delle vaghe reminiscenze di ieri sera. Perché io, dopo la quarta birra, ho cominciato a non sapere neppure come mi chiamo.
E spero ardentemente di non aver scordato anche della mia recita. Ne’ su un fronte ne’ sull’altro.
Ma non mi sento tanto coraggioso da affrontare anche questa storia. Non con l’accappatoio di Ale addosso.
Non me l’ha detto. Se n’è accorto di sicuro, ma non ha detto nulla.
Mi tiro su, portando la tazzina nel lavandino, e sciacquandola con cura.
A quanto pare mi tocca un altro giro di pulizie di casa. Me l’accollo volentieri, come espiazione.
Giacché ci sono lavo anche il bicchiere posato sullo scolapiatti. Ma la mia proverbiale manualità distruttiva si fa sentire, e piuttosto che farlo splendere lo frantuma, senza misericordia.
Mai immagine fu più adatta, per descrivere la mia.  
Quando apro il bidone dell’immondizia per gettare i cocci, mi sfugge un verso di assoluta disperazione.
Nel sacco biodegradabile ci sono non solo le bottiglie di birra – una catasta che quasi lo riempie fino all’orlo- che abbiamo vuotato ieri, ma anche quella dello Zinfandel. E … con mio sommo orrore, della vodka.
Cazzo. Ma quanto abbiamo bevuto? Mi è andata bene se mi sono svegliato, stamani.
Per Ale. Che sennò dormivo fino alla settimana prossima, ammesso che non mi toccasse ripassare sotto la sonda per la lavanda gastrica.
Un miscuglio di irritazione e rimpianto mi sale allo stomaco che si stava appena riprendendo dalla nausea post-sbronza.
Me la sono fottuta, poco ma sicuro. La mia occasione con Alejandro. Conoscendolo, col cavolo che si azzarderà più ad invitarmi a giocare con lui.
E il fatto che di sicuro sia stato lui a mettere via queste bottiglie vuote, di certo, dà un senso di vuoto anche a me.
 
 
                              
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 10
*** 10. ***


Il senso di colpa perdura ancora, malgrado Ale mi abbia assicurato che va tutto bene.
Dopo essere uscito l’altro giorno, alle due, credevo fosse andato a lavoro. E invece no: con molta noncuranza, si è lasciato sfuggire che Diego, vista la sfacchinata che si era fatto il giorno prima, glielo aveva dato libero.
Ed è tornato alle dieci. Davvero. E’ stato fuori casa dalle due alle dieci di sera, senza peraltro che abbia avuto il coraggio di domandargli come mai, invece di mettersi a letto per riposare come Dio comanda. Di certo non era in Università, seppure ci è andato non è pensabile si sia trattenuto fino a quell’ora, anche perché chiude molto, molto prima. Difficile immaginare anche sia andato da Dite e Angelo.  
E un sacco di quesiti hanno cominciato ad affacciarsi alla mia mente.
Adesso. Soltanto adesso, ho iniziato a chiedermi se non abbia una relazione. Il che renderebbe quanto mai fuori luogo tutti gli infiniti viaggi mentali che ho fatto da quando l’ho conosciuto.
Certo, Magnus l’ha accusato di non sapersi tenere nessuno, però non è detto che siano a conoscenza di ogni dettaglio della sua vita. Tanto più vedendo come sono andate le cose con me.
Magari è una cosa che è iniziata da poco, forse solo una frequentazione, ancora.
Mi sono sfondato il cervello, nel tentare di ricordare qualcosa, qualsiasi cosa, della conversazione con i suoi amici. Ma nulla, dopo              quei vaghi sprazzi nella mia testa si è fatto il vuoto, il nulla esistenziale. Per giunta mi sono perso il numero di Magnus.
E chiederlo ad Alejandro non mi pare proprio opportuno.
Quindi in definitiva è una gran bella situazione del cavolo. E mi ci sono messo io, di mio.
Devo ancora chiamare Milo, ma non sono in quella che si dice una forma smagliante. I postumi della sbronza si sono convertiti in due brutti cerchi viola brunito sotto gli occhi, e in un leggero ma persistente mal di stomaco, che s’intensifica quando fumo o bevo caffè.
Ergo, sto evitando anche questo.
In realtà sto evitando un sacco di cose.
E forse è anche questo parte del problema. Il fatto che sono le due – di nuovo, questo numero comincia a perseguitarmi – e ancora mi volto e mi rivolto tra le lenzuola, senza trovare pace.
Caldo. Fa un caldo bestiale, stanotte.
Mi tiro su dal letto per trascinarmi in cucina, a bere. Apro il frigo, prendo una bottiglia, volto uno dei bicchieri sul lavello e lo riempio.
Sembra di essere in agosto, altro che febbraio. Non riesco bene a capire se sono io che rischio l’autocombustione oppure è il riscaldamento globale che ci sta fottendo giorno dopo giorno.
Forse è solo che sono nervoso. Domani – anzi oggi, visto che sono le due e cinque, appunto- dovrei … “iniziare” da Diego. Chiaro che non è la mia prima esperienza lavorativa: ma un conto è occuparsi della contabilità dell’azienda di famiglia, così, come cade, giusto per sport che tanto c’è chi ripassa dietro, e un altro è mettersi in gioco in un ambiente estraneo, interagire con perfetti sconosciuti e dover dar prova di essere bravi … soprattutto perché a raccomandarmi è stato Ale, e il solo pensiero di fargli fare brutta figura col suo boss basterebbe da solo a mandarmi in malora più di una notte di sonno.
Specialmente dopo quello che è successo l’altra sera. Come al solito, ho continuato a comportarsi con me come se nulla fosse, tuttavia sentivo dal suo sguardo che quel brillio si era un po’ opacato.
Così ora devo rimediare, a qualunque costo.
L’ansia da prestazione è davvero una brutta rogna. Oltre all’insonnia mi fa venire fame, sete, voglia di fumare … e sì, paradossalmente, anche di fare sesso.
Peccato che per quest’ultimo punto non ci sia niente da fare.
Mi passo le mani sulla faccia. Forse dovrei allentare un attimo la tensione come ai bei vecchi tempi da adolescente. Mi assalgono ricordi – vergognosi- di me che mi rinchiudevo nel bagno e aprivo l’acqua nella doccia per non destare sospetti. Ma quando uscivo dal bagno incrociavo puntualmente o mio fratello, che ridacchiava grattandosi la guancia, o mamma che mi scagliava un’occhiata torva e borbottava tra sé di bollette da salasso e di prenotarmi una visita dall’oculista.
Già. Bei vecchi tempi.
Ma qualcosa mi frena, e no, non si tratta certo del timore di ritrovarmi miope da un giorno all’altro. E’ una sensazione strana, inspiegabile, che mi mette angoscia anche se non so esattamente perché. Mi parrebbe di attraversare una qualche linea di confine che invece è meglio se resta invalicata.
Così, decido di optare per un rimedio assai più innocuo. Accendo la lucina sottocappa e apro il pensile, frugando negli infusi di Ale. Mi ha già detto di servirmi pure, in caso di necessità, quindi non mi creo problemi a prendere una bustina di tisana al biancospino. Conciliasonno, dice la confezione.
Sarebbe divertente dire che per come sono ridotto servirebbero di più una bella sbronza, o almeno una canna; ma siccome ci ho già provato, e piuttosto che aiutarmi hanno gettato un’altra palata di letame sul casino che ho in testa, penso che ormai non mi resti più che darmi a questo genere di cose.
Male non può farmi. Quanto meno, non più di quanto me ne sia già fatto da solo fin qui.
Prendo il bollitore dal ripiano, accendo la fiammella e dopo averlo riempito d’acqua, lo poso con cautela.
Ma forse non sono stato abbastanza attento, perché la porta della camera di Ale si apre e appare lui sulla soglia, mezzo addormentato. << Oh. Che succede? >>, mugugna, la voce roca, impastata di sonno.
<< Ehi >>. Metto la zuccheriera sul tavolo, mentre viene avanti. << Nulla. Non … riuscivo a dormire. Mi spiace di averti svegliato >>.
<< Ma no, figurati. Neanch’io … dormivo granchè bene >>. Si ferma in mezzo alla cucina, stropicciandosi gli occhi sotto le lenti.
Cazzo, ma ci dorme anche, con quegli occhiali?  A vederlo portarli sempre verrebbe facile fare una battuta, e domandarsi quante diottrie si sia lasciato dietro durante la sua, di adolescenza.
Ma non è proprio consigliabile. Tanto più che mi sto ancora ripromettendo di non fare più ipotesi malevole, su di lui. << Mi stavo facendo una tisana. Ne vuoi? >>.
<< Ma sì, grazie. Anche se non credo sia proprio la scelta più indicata >>. Passa una mano dietro la nuca, soffiando fuori il fiato. << Fa caldo, stanotte >>.
<< Già. Un caldo boia >>. Controllo l’acqua nel bollitore, e alzo la temperatura. Meno male che almeno con le cucine ad induzione ci capisco qualcosa.
Pazienza se poi tutto il resto va a donne di malaffare. << E’ colpa del vento >>.
<< Vento? >>, fa lui, sardonico. Ha ragione: non si muove una foglia. Tutto sembra imbalsamato, oltre i vetri.
Scuoto la testa. << Il vento del sud. C’è più acqua che aria, e tutto si attacca alla pelle >>, osservo, notando l’ alone più scuro intorno allo scollo della sua maglia. Come se non facesse fede il fatto che oltre a quella ha addosso solo i boxer.
Realizzo immediatamente ch’è la prima volta da quando abitiamo assieme che lo vedo senza pantaloni. E inevitabilmente – da bravo maschietto orgoglioso dei gioielli di famiglia- non riesco a distogliere abbastanza in fretta lo sguardo dal rigonfiamento sotto il cotone grigio chiaro.
Sarà il sonno, sarà il caldo, ma la lievissima fitta di lecita invidia che dovrebbe cogliermi a questo punto si trasforma in una domanda insidiosa. Rammentando il video che non ho più trovato il coraggio di terminare di guardare, non posso fare a meno di domandarmi se lui … sia attivo o passivo.
E nel secondo caso … be’, sarebbe davvero un peccato. Per lui, chiaro, intendo.
In un attimo mi sovviene il ricordo, tremendo a mente fredda, della domanda che gli ho fatto quel pomeriggio. E subito il mio stomaco si rimescola, facendomi provare qualcosa di strano, una sensazione inspiegabile, confusa, di … vorrei poter capire a cosa somigli, ma in realtà non so nemmeno io cosa sia in realtà. << Sta bollendo >>, sento che dice la voce di Ale.
Per un attimo resto basito. << Eh? >>.
<< L’acqua. Sta bollendo >>.
<< Ah, sì >>. Mi volto, un po’ troppo bruscamente. Il bollitore sul fornello cade, e come da copione, il liquido rovente si versa finendo sul retro della gamba, ustionandomi. << Porca … puttana! >>.
<< Leo! >>.  
Per un attimo mi aspetto che mi sgridi, o che si metta a ridere. Poi mi do del coglione: non è mica uno dei miei amici idioti. Tipo Milo, ad esempio. << Stai bene? >>.
<< Eh … insomma >>.
<< Aspetta. Vieni, ti accompagno sul divano >>.
Sembra che mi abbiano scorticato vivo. Cerco di reprimere eroicamente i miei patetici lamenti, ma quando torna con un sacchetto pieno di cubetti di ghiaccio, e me lo posa sul punto dolorante, a momenti salto dal divano lanciando un urlo che probabilmente sveglierebbe anche i miei, in Grecia. << Sta’ calmo. Ora vediamo quant’è grave … >>. Molla il malloppo sulla coscia e va ad accendere la luce. Io affondo la faccia nel cuscino, mordendolo e imprecando a mezza voce. << Non sembra ... ci sia nulla di davvero preoccupante >>, mormora, tamponando la pelle ipersensibile con l’impacco. << Però è comunque una brutta scottatura. Dovrei portarti in ospedale >>.
Appena sento la parola “ospedale” mi prende il panico. << No, no >>, mugugno attraverso l’imbottitura.
<< Alexandròs, non fare il bambino. E’ meglio che ti diano un’occhiata, per stare tranquilli. Tra un po’ lì sarai tutta una vescica, e io non ho nulla in casa per queste evenienze >>. Mi viene vicino, abbassandosi fino ad avermi a portata di sguardo. E sento le sue iridi addosso, ferme ma carezzevoli. << Vado a vestirmi. Tu non ti muovere, va bene? >>.
<< E dove diamine vuoi che vada? >>, strillo, davvero come un bambino.
<< Non saprei. Ma vista la tua reazione alla parola “ospedale”, magari potresti decidere di scappare dalla scala antincendio, zoppicando via nella notte >>.
<< Spiritoso >>. Malgrado il dolore simile a quello di migliaia di aghi incandescenti conficcati nella carne, sorrido. E’ un nuovo sprazzo di leggerezza, quello che gli sento nella voce. E non posso lasciarlo passare sotto silenzio, anche se sto letteralmente crepando.
<< Ci metto un secondo >>. Mentre va in camera, realizzo anche che mi ha chiamato col mio nome intero. E curioso ma vero, mi rendo conto che … è più intimo di quando usa il diminutivo, o il mio soprannome.
Ma non ho il tempo di crogiolarmi in questi pensieri. Fulmineo, torna in cucina vestito di tutto punto, con un paio di pantaloni della tuta asciutti e una felpa sul braccio. << Ti aiuto. Riesci a sederti? >>.
<< Certo, è solo un … >>. Il concerto di fitte che s’irradiano dalla coscia mi spezza le parole in bocca. Mastico una bestemmia tra i denti, e subito vengo tirato su come la mia valigia, tanto per cambiare. Con un solo braccio passato sotto le ascelle.
Ho la sensazione dei tendini tesi come funi d’acciaio, contro il petto. << Reggiti a me >>.
E’ una situazione strana. L’altra volta è stato un caso, finirgli addosso; adesso lo cerco volontariamente, mi aggrappo a lui con fiducia dacché si è offerto di aiutarmi, e quindi so che posso farlo senza temere una ritirata.
Mentre mi tiene su, aiutandomi a vestirmi, riesco a sentire un’altra matrioska ancora, che sta nel mezzo tra l’audace e il fragile. E’ un Alejandro che non esita a prendersi cura degli altri, che si lascia da parte per occuparsi di chi ha bisogno di lui.
E siamo a quattro. Nella mia stupida testa, ovviamente. Forse è soltanto ch’è un ragazzo gentile che fa quello che farebbe chiunque altro al posto suo, come scherzare se c’è da scherzare, comportarsi bene se c’è da mostrarsi ineccepibili, e che tira fuori raramente la sua vulnerabilità per ovvie ragioni. Non ci si comporta in chiesa come in una discoteca, a meno che non si sia fuori di testa. Ci si adatta alle situazioni, e amen.
Come me. E un buon 97 per cento della popolazione mondiale, suppongo.
Però non riesco a liberarmi di quest’impressione.
E pensare che le matrioske non mi sono mai piaciute.
Il pronto soccorso è gremito, sembra che mezza città abbia deciso di dedicarsi ad attività di autolesionismo, stanotte.
La sedia mi brucia sotto le chiappe, e non è solo perché ho una gamba rosolata dal sedere al polpaccio. Sono preoccupato per lui, impassibile accanto a me, comodo nella sedia di plastica come su un letto di chiodi da fachiro.
Dovrebbe essere a casa, nel suo letto, a dormire beatamente dopo una giornata faticosa in attesa del trillo della sveglia, non a fare da palo ad uno scemo che non è in grado di farsi una tisana senza far danni.
Alzo gli occhi verso l’orologio appeso alla parete. Le tre e quarto. E trenta. E cinquanta. E ancora niente. << Ale, vai a casa >>, lo sprono per la quinta volta in mezz’ora.
Mi scocca un’occhiata torva, da dietro le lenti. << Se lo dici ancora, ti prendo a calci dove ti brucia >>, minaccia.
<< Dai, almeno dormi qualche ora. Magari puoi fare un salto quando esci da casa … sicuro mi trovi ancora qua >>, provo a scherzare.
Ma lui non abbocca. Come se non avessi detto nulla.
Poi, però, si alza in piedi. << Vado a prenderti una bottiglia d’acqua. Ti va un caffè? >>, mi domanda.
So che sto evitando, ma dato che ormai penso di non poter star peggio di così in quanto a bruciore, annuisco. << Sì, grazie >>.
<< Vuoi che ci soffio dentro mentre te lo porto, così si fredda? >>.
Lì per lì resto di sasso. Ha … era una battuta?
Sì. Mi sa proprio di sì, non me lo sono sognato. Era proprio una battuta.
Anche se mi viene da sorridere arriccio il naso in una smorfia. Siamo in mezzo alla gente, altrimenti gli mostrerei il medio.
Finalmente lo sento di nuovo vicino. Fa niente se ho dovuto mezzo cuocermi la coscia.
Sta per avviarsi quando arriva il mio turno. << Diamantis? >>.
La dottoressa, manco a dirlo, è giovane e bella. E quando mi vede zoppicare, sorretto da Ale, i suoi occhi scuri hanno un lieve guizzo, dietro le lenti da vista.
Penso di non aver incontrato in vita mia tante gente con gli occhiali messa assieme. Forse con la poca luce che tira qui, la vista gli si abbassa per forza.
<< Salve >>, dice, scostandosi dalla soglia per lasciarci entrare nella saletta dell’ambulatorio. << Allora, che è successo? >>.
<< Incidente di percorso >>, spiega Ale, posandomi giù sul lettino, dalla parte della gamba superstite. << Si è tirato sulla gamba un bollitore pieno d’acqua rovente >>.
<< Ahio. Okay. Vediamo un po’ >>. Mi viene accanto, ma prima di dar inizio alla visita si volge verso Ale.  << Lei … è un parente? >>.
<< No, solo il suo coinquilino >>, risponde. Ha un tono neutro, quasi ci tenga a chiarirlo che siamo soltanto, per l’appunto, coinquilini.
Mi sento stranamente infastidito. Ma non capisco perché.  
<< Be’, quindi, forse dovrebbe attendere di là >>, riprende la dottoressa.
<< Naturalmente >>. Torna oltre il paravento, lasciandoci soli, io, lei, e il fastidio.  
Sensazione prontamente spazzata via dall’imbarazzo. << Ce la fa ad abbassarsi i calzoni? O … preferisce che le dia una mano io? >>, domanda, e mi pare di cogliere un certo tono spiritoso, nel suo tono.
Ma certo me lo sto immaginando.
Stringendo i denti riesco a sfilarli quanto basta, fino alle ginocchia. Grazie al cielo sono abbastanza domato dal dolore, che sennò qui scoppiava un putiferio, tra le mie cosce.
Che situazione del cavolo. << Ahi. Brutta faccenda. Ma è stato fortunato, è più doloroso, che dannoso >>, osserva lei. << Ora la medico, e le do un antidolorifico. Non ha problemi con gli aghi, vero? >>.
Veramente sì, le iniezioni non mi sono mai piaciute granché.
Sento lo schiocco dei guanti di lattice, e si avvicina al carrello d’acciaio, preparando l’occorrente. << Posso chiederle com’è successo? >>.
<< Mi stavo preparando una tisana, e ho urtato accidentalmente il bricco. Sono piuttosto maldestro, in realtà >>, dico. Non è del tutto vero, cioè, non che non sia maldestro, ma che l’abbia fatto per questo motivo.
Ma non posso certo spiegarle che stavo riflettendo su quanto il mio coinquilino … mi susciti pensieri strani, confusi, e riesca a seminarmi tanti di quei dubbi in testa, che mi sa converrebbe farmi tenere qui, nel reparto psichiatrico.
Perché, ad esempio, mi disturba tanto il fatto che giochi con me a rimpiattino, ad esempio? I momenti in cui riesco a sentirlo più vicino vengono sempre spezzati da attimi in cui si allontana di scatto, come poco fa.
E’ un gioco malsano, lo sento.
Ma non riesco a farne a meno.
E non me ne riesco a spiegare la ragione.
Ma il motivo per cui mi stia concentrando tanto su questo fatto mi diventa chiarissimo appena avverto le dita inguantate della ragazza sulla mia coscia. Giusto per tornare al tema di prima, avrei fatto meglio a cercare un po’ di sollievo, perché mi rendo spaventosamente conto di quanto sia davvero giovane, e carina, e tutt’altro che maldestra, lei.
Anzi. E neppure il fatto che sia pura pratica professionale, o che la mia gamba sembri una costoletta d’agnello funzionerebbe da deterrente, se perdessi per qualche secondo il controllo sulle mie reazioni.
Tipo, adesso che mi tira giù leggermente l’elastico dei boxer per disinfettare la pelle.
Pensa. Pensa, Leo, pensa.
Il pizzicore dell’ago mi fa irrigidire per un secondo, ma è proprio un bene.
Finalmente, se Dio vuole, la tortura finisce. Getta tutto nel raccoglitore dei rifiuti a rischio biologico, guanti compresi, e sciacqua le mani nel piccolo lavello. << Okay, ecco fatto. Adesso se non le spiace, le do da compilare il verbale, mentre le prescrivo una pomata. Deve applicarla due volte al giorno, finché la zona non risana. Non penso ci vorrà più d’una settimana, se si comporta bene >>.
<< D’accordo >>. Mi rimetto in piedi, e tiro su i pantaloni zoppicando fino alla scrivania. Mi mette davanti un modulo simile a quello che ho compilato all’accettazione, e una penna.
Ora che ci penso, mentre lo facevo prima Ale si è allontanato. Come se non avesse voluto … impicciarsi degli affari miei, anche se si trattava soltanto di dati anagrafici e nulla più.
Kali ouranos. Dovrei smetterla, sul serio. << Tenga. Devo avvisarla, domani sarà peggio di oggi >>. Mi allunga il foglio con la prescrizione, mentre riprende quello del verbale. << Stia attento con i bollitori, d’ora in poi >>, dice, sorridendo. << Buonanotte >>.
<< Grazie. E buonanotte a lei >>.
Una volta fuori, ritrovo Ale, che mi porge il caffè promesso. << Grazie >>.
<< Nulla. Allora, come va? >>.
<< Mhmm. Come se mi avessero passato a fuoco vivo, messo su l’intingolo, e punzecchiato per vede a che punto è la cottura >>, borbotto. << E domani sarà peggio di oggi, così ha detto >>.
Lui alza un angolo delle labbra. << Ho chiamato un altro taxi. Penso ci stia già aspettando fuori >>.
<< Okay. Quanto ti devo? >>.
Fa un cenno con la mano, come a spostare l’aria. << Ci pensiamo dopo. Andiamo, dai >>.
Arriviamo a casa che è ormai l’alba. Tra l’antidolorifico e la nottata in bianco mi sento mezzo rincoglionito, così mi lascio accompagnare a letto senza fare troppe storie.
<< Questo … dovrebbe risolvere definitivamente la questione >>, mugugno. E’ una cazzata, ne sono consapevole nonostante non sia del tutto lucido.
Ma come si dice “in vino veritas”, credo valga anche “in inietionem veritas”. Solo che stavolta non ho alcuna intenzione di scordarmi quello che sto dicendo.
<< Cioè? >>.
<< Del fatto … che ti sembra di approfittarti di me. Dopo stanotte, potrai chiedermi tutto quello che vorrai. Sarò il tuo maggiordomo- barra- scendiletto-barra- servitore personale. O meglio ancora, il tuo schiavo >>.
<< Certo, come no >>. Mi adagia con cautela sul materasso, coprendomi con il lenzuolo. Mi pare di cogliere di nuovo un brillio, nei suoi occhi. Forse è solo un riflesso delle lenti, eppure qualcosa dentro, anche se un po’ stonata, mi suggerisce che sì, è proprio così.
Resta per qualche istante accanto al letto, poi scuote la testa. << Dormi, rompiscatole >>, mormora. Si volta ed esce, e mi pare d’immaginarlo mentre stira quel suo mezzo sorriso sarcastico.  
Esausto, stordito, e soddisfatto anche se da qualche parte, malgrado l’unguento, brucia e pizzica leggermente.
Ma se è servito a farmi perdonare davvero il casino dell’altra sera, be’, allora, cavolo, ben venga.
 
Chiaramente il mio “debutto” da Diego è stato rinviato.
Costretto a rimanermene a letto, mi verrebbe quasi da ruggire e rompere qualcosa, se non fosse che non porterei vantaggi a nessuno, al contrario, farei solo danni.
Non mi sta bene, proprio no.
Da quando mi sono svegliato, circa un paio di ore fa, non ho fatto altro che leggere e tendere l’orecchio, pronto a captare il minimo scricchiolio. Non vedo l’ora che Ale torni, anche perché ho notato che manca la prescrizione della pomata che mi ha dato la dottoressa. C’è solo da scommettere che passerà anche in farmacia, oltre che a fare la spesa, ed occuparsi del pranzo, e del resto, finché sarò immobilizzato qui.
E’ uno strano miscuglio di irritazione e gratitudine. Se da un lato mi scalda il cuore, dall’altro mi indispettisce, perché se a lui pare di approfittarsi di me, senza chiedere, semplicemente lasciandomi fare le cose che viceversa finora ha fatto da solo, figurarsi come mi sento io, a dovergli anche essere di peso.
La cosa più brutta è che sono matematicamente certo che per lui non lo sia.
Ed è questo a mandarmi fuori di carreggiata. Che un estraneo, con cui peraltro devo muovermi con estrema cautela, come fossi in un negozio di cristallerie tipo quello su Regent Street, debba essere sempre così … disposto a beneficarmi, così, a gratis, senza aspettarsi alcun tornaconto, anzi quasi temendo che gli debba pure presentare la fattura se per sbaglio lo sollevo da qualcosa, anche se minima.
E’ un rapporto impari di dare e avere, e in economia questo può tradursi solo in un fallimento.
In amicizia suppongo anche. Uso il verbo “supporre” perché non mi dà modo di definirmi suo amico, stanotte è stato un conto, ma ho come il sospetto che tra poco, al suo ritorno, sarà un altro paio di maniche.
Mi piacerebbe parlare con qualcuno che lo conosce bene, farmi spiegare se si comporta con tutti così, se lo fa solo con le persone di cui non si fida granché, oppure che ha incontrato da poco tempo.
Senza accennare al mistero della stanza chiusa a chiave. Dorothy Sayers non avrebbe potuto scrivere un romanzo più avvincente di questo, mi sa.
Cerco di riportare il cervello sul libro posato in grembo, ma non mi riesce. Neanche un premio Nobel come Murakami a mio parere potrebbe trovare una soluzione a questo mistero. E sì che di roba ispirata ne ha scritta, lui.
Il tintinnio della chiave nella porta mette in pausa i pensieri, per concentrarli sull’istante presente. Ormai è diventata quasi una scommessa: “come si comporterà adesso, con me?”.
<< Leo? >>. Impossibile dirlo dal tono. E’ tranquillo.
<< Sì, sono qui >>.
Sento il rumore del battente che si chiude, un fruscio di qualcosa che potrebbe essere un sacchetto e il lievissimo tonfo di questo, posato sul tavolo.
Stamattina non ci siamo visti affatto, dormivo ancora quand’è andato via. Non so nemmeno se lui lo abbia fatto, o se dopo una doccia sia andato direttamente a lavoro.
E’ orribile da dire, ma gli sta bene. Così impara a star fuori di casa dieci ore senza avvisare, e senza accennare minimamente a dove sia stato, a cosa abbia fatto.
Poi per un attimo ho voglia di dar con la testa contro la spalliera del letto. ma a parte il fatto che non pare granchè solida, quindi è facile che la romperei, appunto, non ci tengo a tornare di nuovo al pronto soccorso nel giro di dodici ore.
E “non-dar-fastidio” ad Ale, per giunta. Dio, neanche il codice Morse, cò sto ragazzo.
E io non sono mai stato nemmeno capace d’imparare l’alfabeto farfallino per intercettare i messaggi che le ragazze della classe mia e di Milo si scambiavano alle nostre spalle. E che spesso parlavano di noi, manco a dirlo.
Si affaccia, e anche se la porta è aperta – aperta, a-per-ta, sempre- batte comunque un lieve colpo con le nocche nell’architrave. Forse per richiamare la mia attenzione, abilmente mascherata con il libro che “non-leggendo”. << Ehi. Buongiorno. Come ti senti? >>, chiede, appoggiandosi con una spalla dove ha messo la mano. Nell’altra stringe un sacchetto di plastica, piccolo.
Ha un’aria strana, oggi. Non so se dipende dalla nottata, o dalla mattinata, ma per la prima volta colgo sul suo viso i segni di una certa trasandatezza. L’ombra ricrescente sulla mascella spicca sul pallore persino più pronunciato della pelle, sotto la montatura si notano due leggeri solchi lividi, non scuri come accade a me, e gli occhi paiono gonfi, dietro le lenti. E i capelli sempre impeccabili paiono un tantino spettinati, come se li avesse strigliati alla buona con un telo prima che asciugassero.
O come se delle dita li avessero tirati, maltrattati durante un focoso amplesso.
No, proprio non ce la faccio. Più provo ad impegnarmi e meno ci riesco. Una costante della mia vita, d’altronde, no? << Bene. Sto per alzarmi e mettermi a correre >>.
<< Non ci provare >>, fa, torvo. Poi rimette su la piega tranquilla. << Ti ho preso la pomata >>, dice.
<< Grazie. Quanto ti devo? Assieme ai soldi di ieri, intendo >>.
<< Cinquantasette sterline >>.
<< Ti spiacerebbe prendermi il portafogli? E’ nella tasca dei jeans, quelli piegati sulla sedia >>.
Scosta l’aria con la mano. E siamo a tre, di compulsioni. << Me li darai quando starai meglio >>.
Inarco un sopracciglio. Non so se è semplice carineria, e già mi indisporrebbe un tantino, o se è per evitare di mettere le mani nei miei vestiti usati, manco avessi la lebbra, e in tal mi indisporrei ancora di più.
Ma subito mi si sgonfia l’irritazione, perché di sicuro non sta minimamente pensando quello che mi sto raffigurando io. E’ qualcosa di educato, e gentile, che al confronto io sembrerei una bestia, se ci arrivassi a saperlo.
Trattengo un ringhio di esasperazione rassegnata.
E’ lui che mi sta facendo diventare bipolare. L’unica cosa su cui non nutro dubbi al suo riguardo. << Ma posso chiederti quanto ti paga, il tuo capo? No perché se puoi permetterti di anticipare cinquantasette sterline senza batter ciglio, non vedo l’ora di cominciare anch’io >>, sbotto, voltando pagina con malagrazia. Murakami non sarebbe contento di questo. Non so perché ma dalla faccia mi pare un tantino come Ale, chissà perché.
Non che gli somigli. Anzi, forse un pochino sì. Anche lui ha i capelli corvini, e gli occhi di un taglio insolito, allungato; ma certo, questo è giapponese, è chiaro che ha le iridi nere e gli occhi a mandorla. Però c’ha pure settant’anni, e un’aria un po’ da saputello, e il colorito vagamente itterico … cioè, non che lo sia, come ho detto è giapponese, per cui è ovvio che abbia quella carnagione. Non che io abbia nulla contro nessuno, anzi, le orientali mi hanno sempre ispirato, non è mai capitata occasione sennò magari avrei fatto conoscenza più intima con i popoli del Sol Levante.
Okay, sto delirando, e me ne rendo pure conto.
Vorrei dare la colpa al vino, alla birra, alla vodka, all’erba, all’antidolorifico, alla nottata insonne e al fastidio alla gamba, ma nemmeno questo mi riesce.
Mi assale l’immagine di mamma che versa le gocce nel bicchiere.
Mi sa che io finirò anche peggio. << A proposito, com’è andata oggi? Visto che ho dato forfait … >>, mugugno, sperando di non aver lasciato trapelare nulla del mio attimo di sconcerto mentale.
Ale alza le spalle. << In realtà è stato un bene che tu non sia venuto. C’è stato un vero delirio, non esattamente la giornata adatta per uno alle prime armi >>. Lo dice per rincuorarmi, è evidente, eppure mi sento doppiamente, anzi, triplamente in colpa. Non solo sarei stato un principiante, e quindi la mia presenza non sarebbe stata un aiuto ma un intralcio, probabilmente; ma gli ho anche dato il bidone e per giunta, ha dovuto sobbarcarsi tutto quel lavoro dopo una nottata trascorsa accanto all’idiota capace di bollirsi vivo perché gli viene di fare pensieri assurdi mentre è a due millimetri da un bricco di acqua rovente.
Sì, ora ne ho la conferma. Sono diventato bipolare. Evviva.
<< Scusa se ti ho portato il pranzo dal bar >>, aggiunge. Giusto per darmi il colpo di grazia.
Ah ma questa non me la tengo. << Parli sul serio? No, perché se è così sappi che sto per restituirti il favore >>.
<< Che intendi? >>.
<< Che ti accompagnerò io al pronto soccorso, dopo averti rotto in testa almeno un paio di cose. Cose mooolto pesanti >>.
Lui abbozza un sorriso, ma è un sorriso stanco. << Dai, voltati. Così la mettiamo adesso, prima che mi addormenti in mezzo alla stanza >>.
E di sicuro è colpa della stanchezza, ma ha messo un piede in fallo.
Ora come ora non me ne frega nulla. Se si arrabbia, cavoli suoi. Mi ha offerto il destro, e non posso proprio, tirarmi indietro. << Eh, ma così? Senza neppure un invito a cena? Credevo fossi un gentiluomo >>, sentenzio, chiudendo il libro.
Lui mi fissa attonito per qualche secondo. Si mette a ridacchiare, prima di estrarre il tubetto dalla busta, avvicinarsi al letto e scostare la trapunta. << Non ti ci mando solo perché non stai bene. Avanti >>.
Poso il libro, girandomi sulla pancia e tirando un po’ su il bacino per permettergli di sfilarmi i pantaloni.
D’un tratto sono un po’ teso. So per esperienza quanto sia fastidioso farsi tirar via un cerotto dopo che si è appiccicato ben bene alla pelle e soprattutto alla peluria.
Ma la delicatezza con cui ne stacca i lembi mi fa tirare un sospiro di sollievo. Per contro, gli sento risucchiare l’aria tra i denti. Un verso che mi mette un’insolita agitazione. << Siamo messi male. La dottoressa aveva ragione. Oggi sta peggio >>.
<< E’ proprio così orrendo? >>.
<< Oh, sì. Sembra che abbia un blob appiccicato alla gamba >>.
<< Un blob? Che diavolo è un blob? >>.
<< Non sai cos’è un blob? >>.
<< Ma sì che lo so. Solo ho difficoltà ad immaginarne uno abbarbicato alla mia coscia >>. Sbuffo. << Non sei obbligato, Ale. Posso fare da solo >>.
E’ chiaro. Se gli ha già fatto impressione frugare nei miei jeans di un giorno, posso soltanto figurarmi come debba sorridergli poco l’idea di toccare qualcosa che sembra, per l’appunto, un blob.
Tant’è che esita. E non poco, in realtà. << Guarda che ti metti i guanti mica mi offendo >>.
<< Ma sta’ zitto >>. Un attimo dopo avverto un fresco intenso, che immediatamente diventa bruciore, di nuovo. << Fa male? >>, chiede, forse accorgendosi che mi sono irrigidito senza volerlo.
<< N .. no. Continua pure, tranquillo >>. Perché in realtà non mi sta facendo male, è soltanto a causa della vescica immonda che di certo dev’essersi formata che avverto questo fastidio.
Mi sento a disagio. Perché dovrei sentirmi almeno un po’ sulle spine, ad avere addosso le sue mani che scivolano con cautela sulla mia pelle, specialmente in una zona tanto sensibile.
Fosse stata Shaina, probabilmente scottatura o non scottatura l’avrei già messa sotto, stringendo i denti e soffrendo in silenzio, da vero eroe.
O per come stanno le cose, ed è brutto dirlo, anche un’altra credo mi avrebbe fatto lo stesso effetto; anche se è chiaro che avrei resistito, per lealtà nei confronti della mia ragazza. Basti guardare cosa ho dovuto fare stanotte, con la dottoressa al pronto soccorso.
E invece non provo nulla, a parte un leggero fastidio causato dalla scottatura, che pizzica al minimo sfregamento.
Nulla di disdicevole. E Ale ha un tocco lieve che mi fa quasi fare le fusa. << Sicuro che non ti faccio male? >>.
<< Ma no, davvero. Non smettere >>.
Passato il primo impatto del medicinale, diventa quasi un sollievo. Tant’è che mi rilasso molto più del lecito, col volto affondato tra le braccia incrociate; così è un bene che d’un tratto prema con più energia facendomi sussultare. << Ah! >>. Sull’orlo del pianto di pura frustrazione ridacchio: << Guarda che se volevi una risposta diversa, bastava suggerirmelo >>.
<< Scusa. Ho perso l’equilibrio >>, si giustifica, posando il ginocchio sul letto. << Praticamente mi sto reggendo in piedi per forza d’inerzia >>.
<< Se non ti conoscessi, direi piuttosto che ti sei stufato di star lì a sfregarmi come fossi uno dei tuoi bicchieri e volevi farla finire in fretta >>, dico, sforzandomi di non farlo sentire in colpa quanto mi sento io, a tenerlo ancora alzato.
<< Ma guarda. Che cattivi pensieri che abbiamo >>, mormora, riprendendo a massaggiarmi con estrema cautela.
Chissà se ha preso lezioni da Magnus. << Ho detto se non ti conoscessi. E siccome ti conosco molto poco, credo sia la verità >>, sputo fuori, sapendo di segnare un punto a mio vantaggio.
Il materasso si alleggerisce dal suo peso, e giro d’impulso la testa, per guardare la sua reazione alla mia stoccata. << Ora non voltarti, aspetta che si assorba per qualche minuto. Vado a lavarmi le mani, così poi ti porto il pranzo e ti rifaccio il bendaggio >>.
<< Ma non serve … >>, borbotto facendo per tirarmi su.
Con la mano asciutta mi preme in mezzo alle scapole. Con forza.
<< Non. Muoverti >>, m’intima, il tono fattosi di colpo secco. Poi si ammorbidisce di nuovo. << O sarò costretto a romperti io in testa qualcosa >>.
<< Okay >>. Sento i suoi passi muoversi fino alla porta. << Ah, Ale? >>.
<< Sì? >>. E’ un sospiro sfinito. Pare non veda davvero l’ora di andare a letto, e io gli sto facendo pure perdere tempo, con le mie scemenze.
<< Per caso … hai parenti giapponesi? >>, domando, a cavolo, improvvisandomi gufo e girando la testa a quasi centottanta gradi, per guardarlo.
Scopro che mi fissa come se stessi dando i numeri. E ha ragione, poveretto. << Non che mi risulti. Come mai questa domanda? >>, chiede a sua volta, tirando su gli occhiali con la mano pulita.
<< Mah. Così >>.
Scuote la testa.
Quando torna a portarmi il pranzo si è cambiato, e i suoi capelli sono molto più ordinati, ancora umidi e ancora più lucenti.
Anche il suo viso sembra più rilassato. Eppure non è stato via più di dieci minuti, forse un quarto d’ora.  << Scusami, giacché c’ero ho fatto la doccia. Non stai morendo di fame, vero, Leo? >>.
<< Ma no. Se così fosse, ti avrei azzannato prima >>, ghigno.
Alza gli occhi al soffitto. << Dubito ti sarei stato utile come pranzo >>.
<< Quando è fame va bene tutto >>, replico, aprendo il sacchetto. L’odore dentro è celestiale, e si risveglia in me l’appetito di qualche giorno fa.
Ma subito mi sorge anche un dubbio. << Ma tu hai mangiato? >>.
<< Sì, la ragazza di Diego ha portato una teglia di lasagne vegetariane, al bar. Ce n’è una porzione anche per te, l’ho messa a scaldare dentro il microonde. Ora te la porto >>.
<< La ragazza di Diego? >>.
<< Sì. Veramente lo fa sempre, quando qualcuno nuovo inizia da loro >>, dice. << Ho detto a Diego di avvertirla, ma lui ha replicato che tanto ormai stava cucinando, quindi tanto valeva approfittarne >>. Alza le spalle, e io sento il groppo in gola.
<< E … qui dentro cosa c’è? >>.
<< Il benvenuto di Eduardo. Che è diventato un augurio di pronta guarigione >>.
Infilo dentro una mano. Incartato nella stagnola, trovo un piccolo, delizioso fagottino avvolto in foglie verde scuro dall’odore intenso e dolce.
Ntolmàdes. Involtini di riso e uva passa. Come li faceva mia nonna. << Immagino mi sia sfuggito che sei greco >>, lascia cadere lui, in tono lieve come il suo tocco.
<< Ci tenevate davvero tanto, eh? >>, biascico, sperando di non mettermi a piangere come un idiota.
<< Ehi, mica è morto nessuno. Qualche giorno, e avrai tutto il tempo di maledire il momento in cui ti è venuto in mente di accettare >>. Lo vedo stirare mezzo sorriso. << Vado a vedere se è pronta la lasagna >>.
Mi lascia di nuovo solo, giusto il tempo per asciugarmi furtivamente la lacrima sfuggita nel battere della palpebra.
Comincio a capire perché mi senta così … maldisposto. Non sono abituato a tante attenzioni gratuite, benché le abbia sempre desiderate follemente, al punto da ficcarmi in casini assurdi.
E riceverle adesso, da queste persone che quasi non conosco, mi fa paura. Perché temo di abituarmici, o di deluderle, come ho già fatto con Ale sbronzandomi e fumando.
E’ strano come ottenere ciò a cui si anela può riempirci di confusione.
Ale torna, posa il piatto sulla mensola. Avvicina la sedia dello scrittoio al bordo del letto, ci stende su uno strofinaccio pulito. << Giuro che prima o poi mi vendicherò. Mi stai facendo sentire un invalido >>, scherzo, guardandolo in volto.
<< Leo, ma tu sei un invalido. Dopo averti visto finire al tappeto per colpa di un semplice bollitore, non so se conviene farti venire a lavorare insieme a me. Magari è meglio che tu faccia domanda di pensione in previdenza sociale … >>.
<< Ma vaffanculo … >>. Ridacchiamo entrambi. << E comunque magari non sarò bravo come te a maneggiare un bollitore, ma posso assicurarti che nessuno ha mai avuto nulla da ridire >>.
Mi scocca un’occhiata obliqua, sono certo che ha capito il doppio senso non troppo sottile tra le righe.  
<< Buon per te >>, replica. Mi avvicina la bottiglia che è sulla mensola, posandola accanto al piatto.
Deve avermela lasciata stanotte. Sicuro. << Io vado di là, se non ti spiace vorrei metter su una lavatrice e piegare un po’ di cose, prima di andare a dormire >>. Abbassa la felpa sui pantaloni, passando le mani sulla tasca al centro. << Non è un problema per te pranzare da solo, vero? >>.
<< Dì la verità. Ti aspetti che ti supplichi d’imboccarmi, no? >>.
Stira l’angolo delle labbra. << Ma nemmeno per sogno. Le mani ti funzionano ancora bene, se non sbaglio >>.
<< Infatti. Ecco perché se non ti sbrighi ad andare a riposarti, smetterò di rivolgerti la parola >>.
Il sorriso sardonico si addolcisce. << Okay. Vuoi … che metta dentro anche quei jeans? >>.
<< Solo se togli il portafoglio >>, ribatto, affondando la forchetta nella sfoglia della lasagna.
Cavolo. Non sono mai stato un fan del vegetarianismo, ma questa è una favola. Con tanto di zucca. << E prendi i soldi >>, aggiungo, a bocca piena.
<< Va bene. Se proprio ci tieni >>.
<< Mi pare ovvio che ci tengo. Non ho alcuna intenzione di essere il tuo mantenuto >>. Ora come ora non so cosa sto farfugliando, tant’è squisita questa lasagna.
<< Aspetta un attimo >>, fa, avvicinandosi alla mensola. Prende la scatola della pomata, ne tira fuori il bugiardino.
<< Che è? >>.
<< Controllo se non ci siano antidolorifici anche qui. Stai decisamente sragionando >>.
<< Ringrazia che ho la gamba brasata, o ti prenderei a calci, altrimenti >>.
Il suo sguardo si fa affettuoso, dietro le lenti. E io per un attimo lascio anche di masticare come un ruminante, alla faccia del soprannome.
Poi si riscuote, prende i jeans e sfila il portafogli dalla tasca, senza però aprirlo. << Vado a caricare la lavatrice >>, dice, uscendo di nuovo.
Io finisco la lasagna, passando impunemente ai ntolmàdes. Nel sacchetto, inoltre, c’è un altro involto di stagnola, con dentro un loukoumadès, una specie di frittella ripiena di sciroppo.
Se avessi acceso una candela davanti a qualche altare, non penso avrei potuto ricevere grazia più grande. Un’accoglienza così, in una delle città più impersonali del mondo, dove non esiste nemmeno l’obbligo di soccorrere qualcuno che magari, è stato investito per strada. << Dici che reggi, fino a stasera? O vuoi che ti porti qualcos’altro? >>, commenta Ale, tornando.
Per fortuna ho spazzato via commozione e cibo. << Naaahhh. Penso che dormirò un po’, appena finisco. Tu invece ci vai adesso >>.
<< Dopo averti medicato >>.
Obbediente, mi giro di nuovo a pancia in giù, anche se adesso è un po’ più complicato visto che sono pieno come un uovo.
Non voglio farlo attendere un minuto di più.
E tanto ci vuole, perché sistemi i quadrati di garza sulle bolle, e ci applichi delle altre strisce di cerotto.
<< Vuoi … che ti rimetta i calzoni? >>, chiede.
<< No. Voglio che tu vada difilato a letto, immediatamente >>.
<< Cerca di stare sdraiato sul fianco >>, mi suggerisce, rimettendo tutto sulla mensola, e prendendo il piatto vuoto assieme al sacchetto. << Se ti serve qualcosa, chiamami. Sul cellulare. Fallo suonare a lungo >>.
<< Certo. Contaci >>. Neanche se mi stessi dissanguando.
<< Vuoi qualcos’altro, prima che vada? >>.
<< No, grazie, è tutto okay. Anzi, sì. Hai … presente quello che ti ho detto prima? >>.
<< Quale delle tante scemenze che hai sparato oggi, Leo? >>.
<< Che ... puoi chiedermi qualunque cosa. Dicevo sul serio. Davvero >>.
Mi punta addosso uno sguardo intelligibile. << Va bene. Me ne ricorderò. Ora … vado >>. Mette una mano davanti alla bocca, trattenendo uno sbadiglio. << Ci vediamo più tardi >>.
Se ne va, chiudendosi la porta alle spalle. E io mi risistemo sul guanciale, con un sospiro pago.
Non voglio pensare, sto troppo bene per farlo.
Meglio se dormo un po’.

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Capitolo 11
*** 11. ***


La convalescenza non è poi così male.
Ma chi voglio prendere in giro. Sono solo al terzo giorno, e già mi pare di essere sul punto di dare i numeri.
Vedere Ale occuparsi di tutto, e io zoppicare pietosamente da una camera all’altra come un cavolo di zombie mi fa sentire peggio che infortunato, un essere inutile.
E pensare che al liceo avrei pagato, per trovarmi in una situazione del genere. C’è solo da immaginare la fila che avrei avuto fuori da casa, le ragazze intente a confortarmi e tenermi compagnia finché non sarei sanato dalle mie ferite, neanche fossi un eroe di guerra.
Adesso invece sono così frustrato che vorrei prendere a calci qualcosa. Ed evito solo perché ho il terrore di invalidarmi anche l’altra gamba.
La suoneria del mio cellulare.
Milo.
Il vago senso di colpa nei suoi confronti mi spinge a rispondere. << Sì, Mi? >>.
<< Oh, sei morto? Ma che fine hai fatto? >>.
<< Scusa, sono sotto con lo studio >>.
<< Va bene, ma non è una scusa per dimenticarti gli amici >>, mi rimbrotta. Poi prende un tono cospiratore. << Sai, pare che Marit stia riallacciando i rapporti col suo ex >>, dice.
Non riesco a trattenere una smorfia disgustata. Non per la ragazza, che anzi un tempo lontano non mi sarei fatto scrupolo di appoggiare, tanto più dopo un bidone simile; eppure adesso mi urta il pensiero che stia tornando al suo ragazzo dopo avergli messo le corna con Milo. << E certo, ora che si è vendicata … bella roba >>.
<< Da quando sei diventato tanto bacchettone? >>.
<< Macché bacchettone … dico solo che io al suo posto non vorrei vederlo nemmeno dipinto, dopo il bidone che le ha tirato. Vendetta o non vendetta >>.
<< L’amore sa perdonare >>.
<< Milo, non farmi essere sgradevole. Comunque no, non mi sono dimenticato di te, ma ho avuto … un piccolo contrattempo >>.
<< Fammi indovinare. Alta, mora e con due gambe da gazzella? >>.
Sbuffo, irritato. Senza far caso alla descrizione del mio amico, e che guarda caso, corrisponde pari pari al mio tipo di ragazza ideale.
Non per niente, Shaina è così. << E ma che palle! Possibile che pensi sempre e solo ad una cosa? >>.
<< Non è solo una, sono almeno tre o quattro, eh! >>.
<< Ma quando ti decidi a piantarla, una buona volta? >>.
<< Quando tu ti deciderai a rinsavire. Non riesco a credere che ti sia messo la catena al collo alla tua età. Ma il peggio è abbia deciso di tenertela anche ora!  >>.
<< Senti, Milo, credo di aver capito com’è che non ti chiamo poi così spesso. Hai il magico potere di farmi venire il mal di testa ogni volta che parlo con te >>.
<< Potere che sembra abbia effetto solo da quando stai con … lei >>.
<< Si chiama Shaina, te l’ho già detto. E non ti rispondo male solo perché ti conosco, e so che quel “lei” non implica nulla di disdiscevole, a parte il fatto che non collaboro più ai tuoi loschi piani >>.
<< I miei. Strano caso, ricordavo fossi tu quello che li orchestrava … e io il tuo fidato complice. Ma niente, è colpa mia, non dovevo lasciarti da solo così a lungo … comunque, che ti è capitato? >>.
<< Mi sono tirato addosso un bollitore. Ho una gamba che sembra un agnello allo spiedo >>.
<< Davvero? >>.
<< No, non è così grave. Ma è meglio se evito di uscire, per qualche giorno, anche perché ho un casino da studiare >>.
<< E ho capito, ma un whatsapp puoi mandarlo, mica ti cascano le mani. Almeno con la sinistra, se la destra è occupata >>.
<< Milo, Santo Dio, fammi chiudere >>.
Niente da fare. Ogni volta che parlo con lui finisco ad un passo dal litigarci.
Ma come mai non mi sono mai accorto di che razza di sessuomane esaltato sia? Mah. Mistero.
Il cellulare trilla di nuovo. Sbuffo, e apro senza guardare il numero. So già ch’è di nuovo lui, la prende male quando gli sbatto il telefono in faccia. << Sì, che c’è? >>, sbotto.  
<< Ciao. Bel modo d’intavolare una conversazione, eh! E’ una moda inglese? >>.
La voce morbida, sensuale. Inconfondibile.
Shaina.
A momenti mi prende un colpo. Se non sapessi che è solo un’assurda coincidenza, penserei che ho qualche cimice nel cellulare, e mi abbia telefonato perché si è sentita tirata in ballo. << Ehi, che bella sorpresa! >>, esclamo, più scioccato che contento, in realtà.
Non me l’aspettavo. Posso dire quel che mi pare, ma ormai avevo perso le speranze di sentirla.
E si vede, anzi si sente, come nella migliore tradizione di Leo Diamantis. << Ma come mai mi chiami … a quest’ora? >>.
Accidenti. Salvato in calcio d’angolo.
Stavo giusto per domandarglielo. E fare l’ennesima inevitabile figura del cavolo.
Lei tuttavia non sembra farci caso. << Mah, ero un attimo … in pausa e siccome mi mancavi … ho pensato che potevo provare a chiamarti. Come stai? >>, domanda, e il suo tono si fa quasi accorato.
<< Sto bene. Cioè, insomma, è tutto okay. Per il momento >>. A nessun costo le rivelerò del mio piccolo incidente. Perché delle due l’una: o penserà che lo dico per impietosirla, o mi darà del solito bamboccio che si lamenta per niente.
Anzi, possono anche verificarsi tranquillamente tutt’e due.
Per la prima volta in tutta la nostra relazione mi rendo effettivamente conto che forse non sono io quello che ha tutto sbagliato.
Ma è un istante. Che subito va via, << Ma, Alex, va tutto bene? Mi sembri un po’ strano >>.
<< Ah ah. Sì, certo. A parte il fatto … che mi manchi davvero tanto >>.
<< Tesoro … anche tu mi manchi, sai? E’ solo un mese, ma sembra sia passato un anno >>.
<< Già >>. A questo punto, non so più cosa dire. Mi vengono in mente gli ultimi due mesi della nostra relazione. I messaggi sempre più rari, le chiamate sempre più brevi, i silenzi sempre più lunghi, lei sempre più distratta, lontana, anche mentre facevamo l’amore, ancora più di rado del solito. E quel “ dovremo prenderci una pausa”, che ancora mi brucia, più della scottatura.
<< Quando torni? >>.
<< Non lo so. Appena finisco. Forse tra un paio di mesi >>.
Lei tace, all’altro lato del segnale elettromagnetico. << Mi dispiace. Mi … dispiace di … averti spinto a questo >>.
<< Non devi sentirti in colpa. In fondo era mia intenzione farlo comunque, lo sai, no? >>, dico, sistemandomi meglio sul divano.
<< E certo. Come se a tuo padre fregasse qualcosa, di quel che fai o no >>.
Di colpo torna quella sensazione di sbagliato. Non di me, di lei.
Eppure non ha torto. Anzi.
Però per una volta, vorrei che la vedesse da un altro punto di vista. Almeno una, una sola, maledetta volta. << Dai, Sha. Non … ricominciamo, va bene? >>.
<< Hai ragione. Sono sempre la solita stupida egoista >>, fa lei in  tono piatto. Come per farmi notare meglio che l’errore è sempre e soltanto mio.
E non riesco a non cederle anche stavolta. << Non è vero >>.
Restiamo in silenzio per qualche secondo. Poi riprende a parlare, il tono fattosi di nuovo caldo. << Non è che … no? >>.
<< Cosa? >>.
<< Ti va di … giocare un po’? >>.
<< Giocare? >>.
<< Alex, non ti sarai rimbambito, vero? Dicevo … sesso telefonico >>.
Al solo sentirle pronunciare la parola “sesso” mi viene duro come un blocco di marmo. Niente male, considerato che sono mezzo bendato come una mummia egizia, e intontito dalle medicine.
<< Ma … puoi? >>.
<< Certo che sì >>. Un leggero sospiro. << Non sai quanto mi manca, averti dentro di me, Alex >>.
A momenti mi strozzo con l’aria.
Se fossi un altro le farei bellamente notare quante volte ha rifiutato di stare con me, e il gelo che ci piombava addosso come una cappa dopo aver consumato in fretta e furia, senza quasi darci il tempo di spogliarci.
Ma ora come ora, fanculo. Non riesco a concentrarmi su nulla oltre il suo tono, vaporoso e … bagnato. << Anche le tue dita. Mi piaceva un sacco, sentirle sondarmi a fondo, prima di … >>.
Okay, altra mezza parola e mi ritroverò in guai seri. Serissimi.
Ma non fa in tempo a proferire un’altra virgola, che ci sono comunque.
Il tintinnio della serratura. La chiave che fa scattare la molla.
Oh. Merda. Merda, merda, merda. << Scusa, devo scappare … ti amo, ciao Sha >>, mormoro in un filo di voce, senza attendere risposta.
E chiudo. Col fiatone e un’erezione che farebbe sfigurare tutte le colonne doriche da un capo all’altro della Grecia.
Ci metto su il plaid, e anche il tomo, giusto per stare più tranquillo, che non si sa mai. << Ehi, buongiorno, Darkman >>.
<< Ah ah. Divertente >>.
<< Come va? >>.
<< Be … bene >>. Ho una cosetta tra le gambe che sarebbe pronto a testimoniare sotto giuramento che no, non va bene … un cazzo, è il caso di dire.
Ma non posso certo spiegarlo a lui. << Che dici, lo sbrighiamo adesso, l’affare? >>.
<< N…No! >>.
<< O… okay >>, fa Ale, alzando le mani. << Possiamo farlo dopo, prima che vada a lavoro >>. Imperturbabile, sfila la spesa dai sacchetti e inizia a mettere a posto. E mi sento in colpa.
Se potessi, mi defilerei elegantemente sotto la doccia e rinverdirei i vecchi tempi. Ma non posso bagnarmi e non posso muovermi, anche perché ho il libro in equilibrio come un funambolo sul sesso fremente … e dolente.
<< Ahi >>.
<< Che, fa male? >>.
<< Eh … un po’, sì >>.
<< Forse sarebbe il caso di tornare in pronto soccorso >>.
<< No, non è niente >>.
<< Vuoi che ti aiuti ad alzarti? >>.
<< No, sto bene così, grazie >>.
Lui sbuffa, levando gli occhi al soffitto. << Ti offendi se ti dico che sei un pessimo paziente? >>.
<< No, è solo che non sono abituato a star fermo >>.
<< Ti capisco. Quando avevo dodici anni mi ruppi le ossa della mano. Indice, mignolo e metatarso. Quaranta giorni di gesso >>.
<< Immagino >>.
<< Dopo venti l’ho levato da solo >>.
<< Io ne ho messi sei. Ma raramente sono riusciti a levarmeli … quasi sempre li mandavo in pezzi prima. Li consumavo da sotto >>. Mi sfugge un lieve sorriso, nel rammentare quei tempi. << Mio fratello diceva che distruggo tutto quello che tocco >>.
<< Eh, ha ragione. Ma … dov’è che sta adesso, tuo fratello? >>.
<< A Melbourne. Fa l’avvocato … delle cause perse. No, davvero. Segue pro-bono i casi di quelli che non possono permettersi di pagare >>.
<< Tu lo ammiri molto, vero? >>.
<< E’ il mio eroe. Lui … non ha mai sbagliato niente, nella vita. Mai un ripensamento, mai una caduta >>.
<< Non dev’essere … facile, misurarsi con lui >>. Lo vedo mordersi un labbro. << Scusa, non è stata un’uscita felice >>.
<< No, hai ragione. Io sono sempre stato la testa calda, quello che si beccava le sospensioni a scuola, che rompeva i vetri ai vicini col pallone. Quello che … >>. Stavo per dire “ne cambiava una al giorno”, ma per fortuna mi fermo in tempo. << La pecora nera, insomma >>.
<< E … per questo … non hai ancora … >>.
<< Già. Proprio così >>.
Ha una strana espressione, nello sguardo. Si passa la mano sul volto, quasi per nascondere quello che gli passando in testa in questo momento.
Chissà di che si tratta. Sembra custodire tanti segreti … e io sono proprio la persona meno adatta a sopportarne.
Anche se … anch’io ne ho alcuni, di cui uno proprio con lui. E no, non è quello che nascondo sotto il libro, anche se è meglio che resti tale anche questo. << Ed è impegnato, lui? >>.
<< Chi, Andrèas? No. Per lui esiste solo il lavoro. Ed è  troppo rispettoso, per darsi alle avventure >>.
<< Sei proprio sicuro che sia etero, vero? >>.
<< Sì, dai! >>.
Stira un labbro, poi si alza. << Be’, preparo il pranzo >>.
<< Che disdetta. Sembra che sia successo perché così non potrò più darti una mano, per qualche giorno >>.
<< Vedi, perché a volte è consigliabile lasciare le cose come stanno? Ogni mutamento nel corso dell’Universo può provocare conseguenze spiacevoli … scusa. Il mio sensei >>.
Qui credo di aver lasciato cadere la mascella accanto al cuscino. << Fai arti marziali? >>.
<< Quando ero piccolo. Poi durante l’adolescenza ho smesso >>. Alza le spalle. Tra un po’ comincerò a contare quante volte riesce a farlo durante una conversazione. << Da quando sono qui seguo un corso di meditazione. Quanto ti sentirai meglio potresti venire, se ti va >>.
<< Non credo che mi vada a genio starmene seduto a gambe incrociate >>.
<< Invece ti farebbe bene. Molte cose cambiano prospettiva, quando le guardi a testa in giù, sai? >>.
<< Eh. Chissà come mai, non ne dubito >>.
Mi scocca un’occhiata di traverso. Poi scuote la testa. << Pensi di rimetterti, per sabato prossimo? Dite mi ha invitato ad un evento, e ha tanto insistito che portassi anche te >>.
<< Evento? >>.
<< Una festa. Lui va pazzo per queste cose, spesso si offre volontario per aiutare ad organizzarli o fare volantinaggio per reclutare gente. Io se potessi mi darei malato, o pregherei in ginocchio Diego di farmi cambiare turno, ma Magnus mi toglierebbe il saluto, così sono costretto ad andarci >>. Fa un’espressione seccata, è chiaro che davvero, se ci va, è per non dispiacere a Dite.
E questo mi tira un tantino su di morale. E’ evidente che non ce l’ha con loro per la storia dell’altra volta, quindi è un buon segno.
Inoltre così posso cogliere l’occasione di fare qualche domanda a Magnus e Angelo alla chetichella riguardo i fatti di quella famosa sera, per l’appunto.  
Spero solo di non dover scendere troppo a patti con me stesso, per questo. Il principio del  do ut des va bene, ma solo fino ad un certo punto. << Ed è … a tema? >>, chiedo in tono incerto.
Ale mi lancia uno sguardo incuriosito. Veramente quello che intendevo era se si trattasse di una festa … per soli uomini, cioè, insomma, ci siamo capiti.
Poi sospira. << Sì, in realtà. Anni ottanta, lui ne va pazzo. Ma ti dico subito che io a queste cose non mi presto, è già fin troppo che ci vada >>.  Scuote la testa, con rassegnazione. << Non fraintendermi. Per me è un caro amico, forse l’unico con cui davvero … ho potuto essere me stesso per la prima volta in vita mia senza sentirmi il bisogno di nascondermi o giustificarmi. Ma lui della sua … diversità ne ha fatto una battaglia, e io invece … desidero semplicemente viverla. Essere quello che sono senza dovermi nascondere, vergognare e neanche dimostrare niente a nessuno >>.
Taccio, pieno di sensazioni difficilmente spiegabili. E’ tutto un miscuglio di approvazione, commozione, e … anche tenerezza. Sembrava così fragile, mentre lo diceva, con lo sguardo basso sulle mani intrecciate in grembo. << Penso tu abbia ragione. E’ … la cosa migliore >>.
<< Peccato che le cose migliori siano sempre quelle più difficili da ottenere, a questo mondo >>.
<< Già >>. Mi guarda, e per un istante dimentico anche il libro poggiato sulle gambe, soprattutto la ragione per cui si trova qui.
Una volta di più mi accorgo che ha … degli occhi così … intensi, profondi. Di un nero che si confonde con la pupilla. Senza limiti, senza confini netti. Si mescolano e si lasciano illuminare entrambe dalla pozza splendente sulla sommità della seconda.
Quando li distoglie ho una fitta, quasi come di dispiacere. E’ … raro che lo veda senza lenti; è insolito anche che mi guardi con così tanta intenzione. Ora che ci faccio caso, è accaduto poche volte che mi fissasse per più di qualche istante.
<< Allora, cosa vuoi mangiare? >>.
<< Veramente … avrei voglia di indiano. Non possiamo ordinare per telefono? >>.
<< Se non ti crea problemi fare colazione con lo spezzatino al curry, certo che sì >>, scherza. E stavolta il medio glielo mostro senza problemi.
In realtà non mi va che debba mettersi ai fornelli, anche se si tratta soltanto di riscaldare qualche porzione di cibo precotto; e malgrado guardarlo muoversi ha qualcosa di trascendentale, di tranquillizzante. Ma vederlo faticare anche fuori dall’orario di lavoro, da solo, proprio non mi va giù.
<< Chiamo io. Vai a farti una doccia, intanto >>.
<< Hai davvero deciso? >>.
<< Sì. Dai, Ale … ehi, ora che mi ricordo … Angelo ti ha chiamato con un nome strano, l’altra volta >>, butto lì con aria innocente. Ma devo aver detto qualcosa di sbagliato, perché corruga la fronte e storce le labbra. << Ma se è un problema fa’ finta che non ti abbia chiesto nulla. Era solo curiosità >>.
<< La curiosità uccise il gatto >>, dice, con un mezzo sorriso. Ma l’espressione cupa è ancora lì, e mi maledico per averlo messo di cattivo umore. Magari è una cosa dolorosa, e ho messo inutilmente il coltello nella piaga. << Anche se questo gatto rischia di più con le fiamme >>.
<< Davvero, lascia stare >>. Nel vedergli riaprir bocca, porto le dita alle tempie. << Guarda, mi chiudo anche le orecchie con le mani, non voglio saperlo >>.
<< Ma … >>. Appena fa per parlare scuoto la testa facendo “lalallala” come i bambini dell’asilo.
Lui si ferma. E mi sento enormemente fiero, dacché gli strappo un sorriso. << Sei un buffone, Leo >>. Si rialza, infilando di nuovo gli occhiali. << E va bene, ordina pure. Il numero è sul frigorifero >>.
Mannaggia. E io che speravo di farmi dare il suo cellulare … non certo per una chiamata a scrocco. Una cosa davvero molto poco onorevole, che non ho mai fatto neppure con un mio amico, o con la mia ragazza.
Potrei fingere di non avere credito, ma … come per il video, davvero voglio sapere?
La curiosità uccise il gatto. E questo gatto, seppur malconcio, ci tiene a rimanere vivo. << Okay >>.
Lo guardo allontanarsi, con quel suo passo fluido ingannevolmente tranquillo, e invece rapido e spedito. La strana sensazione che mi ha preso prima torna, mi prende nel petto, al cuore, facendomi provare un improvviso, intenso calore.
Chi sei davvero, Alejandro? Mi sembra di conoscerti da sempre, eppure di te non so niente.

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Capitolo 12
*** 12. ***


 
La gamba è ormai di nuovo in sesto, così ho potuto finalmente cominciare da Diego.
Lui è un tipino curioso: ha quasi trent’anni, ma ne dimostra dieci di meno. E’ basso, ha una zazzera di capelli mogano lunga fino alle spalle e due occhi verdi da gatto; sorride sempre, e non perde occasione di lanciare battute spiritose ai clienti abituali, oltre che ai suoi dipendenti.
Appena sono entrato, mi ha teso una delle sue mani forti e abbronzate e ha fatto un’espressione maliziosa. << Benvenuto, Aléxandros. Mi raccomando, lontano dai bollitori, okay? >>.
Inutile dire che sono avvampato come uno scolaretto. Ale, al mio fianco, si è limitato a spingere indietro gli occhiali sul naso. Ma era la scusa per nascondere il sorrisetto sarcastico che gli era salito alle labbra.
Per tutto il tempo Eduardo, l’armadio che ho conosciuto l’altra volta, mi è stato alle costole per controllare che non combinassi casini, ma con una delicatezza tale che mi ha fatto sentire più coccolato che osservato. Come fossi un bambino vegliato dai genitori.
Per qualche strano motivo mi ha riportato alla mente mio fratello. E in un attimo di pausa ho dovuto andare nel bagno dei dipendenti, a tirare su col naso.
Spero che nessuno se ne sia accorto, o chissà che diamine avranno pensato.
A parte questo, è andato tutto abbastanza bene, se non vogliamo considerare le piccole confusioni con le ordinazioni. Ero talmente preso dalla smania di risultare perfetto, che ho finito per farmi carico di troppi tavoli tutti insieme, e ad un certo punto non ricordavo più chi aveva preso cosa, anche se i posti erano tutti numerati.
A quel punto Ale mi ha chiamato, chiedendomi di andargli a prendere le bustine di zucchero nel deposito. Lì per lì mi sono incazzato: come, sono già nel pallone, e mi dai anche altro da fare? Ma non volevo demordere: ho posato il vassoio e sono andato nel retro.
Il rumore della porta che si chiudeva dietro di me mi ha fatto trasalire. 
<< Leo >>, ha detto semplicemente. Avrei voluto mandarlo affanculo, se aveva il tempo di venire avrebbe potuto prendersele da solo, le sue dannate bustine.
Con lo scatolone tra le mani, mi sono voltato di scatto. E appena ho incrociato i suoi occhi senza lenti, tutta la rabbia è sbollita, evaporata.
<< Siediti >>.
<< Ma … >>.
<< Siediti, ho detto >>. Come fossi stato privo di volontà, ho obbedito. Senza lasciare lo scatolo, mi sono piegato sulle casse di acqua minerale.
<< Respira. Riprendi fiato >>.
<< Ho un sacco di … >>.
<< Shh. Respira >>.
Mi è venuto spontaneo reclinare la testa contro il legno, chiudere gli occhi.
Ho sentito le sue mani sulle spalle, le dita che affondavano piano nelle scapole, premendo per massaggiarle.
<< Sta’ tranquillo. Non devi dimostrare niente a nessuno. A Diego piaci, ha già parlato con me per farti un piccolo contratto a termine, ed Eduardo non vede l’ora di adottarti >>. Mi ha pizzicottato una guancia, una cosa che da anni non faceva più nessuno, con me. << Stai andando benissimo. Anche troppo. Se li abitui a questi ritmi sarà impossibile provare ad assumere altra gente >>.
Non lo vedevo, ma percepivo il sorriso sulle sue labbra. avrei voluto aprire gli occhi, ma quella … specie di sortilegio era troppo potente per cedere a una simile debolezza e rovinare quell’attimo.
<< Non preoccuparti. Quando vai ai tavoli, basta che domandi chi ha preso cosa. Non devi fare il prestigiatore, basta questo bel faccino ad incantarli, va bene? >>. Mi ha levato lo scatolo dalle mani, e solo allora mi sono deciso ad alzare le palpebre.
Il taglio di luce che pioveva obliquo dal finestrino sembrava circondarlo di un’aura dorata, bellissima. Anche con quello scatolone tra le mani, col grembiule da lavoro non perdeva nulla del fascino ch’emanava. << Ora vai, e sbranali tutti, belva >>.
E’ uscito, lasciandomi qualche secondo per fare il vuoto nella mia mente. Le sue parole mi hanno rassicurato, sapevo che ormai la prima impressione, quella fondamentale, era più che buona.
Ho sorriso a me stesso e sono tornato fuori. Improvvisamente, quando mi avvicinavo ad un tavolo non avevo più alcuna difficoltà ad associare ogni ordine al cliente: tutto andava a posto quasi per magia.
Serviti tutti i miei tavoli, sono andato persino dietro il bancone ad aiutare Ale con i suoi avventori: mi sono tenuto alla larga dalla macchinetta, ma gli ordini spiccioli, del tipo apri e versa, li ho sbrigati quasi tutti io. E ho anche trovato il tempo di stupire cinque ragazzetti che stavano ciondolando indecisi - facendo innervosire l’imperturbabile Alejandro, incredibilmente-  con un cocktail di mia personale invenzione … un esperimento che ha visto Milo come cavia, ai suoi tempi.
Forse ho un tantino esagerato nel dire il nome con cui l’aveva battezzato il mio compare. Ma quelli ci hanno riso su come dei matti, e ne hanno ordinato subito un altro giro. Dopo dieci minuti chiunque entrasse voleva provarlo, e Ale si è limitato a scuotere la testa.
Finito il turno, Diego mi è venuto accanto, battendomi una pacca sulla schiena che a momenti mi spalmava sul banco. << E bravo Leo >>.
<< Senti, come funziona qui con le mance? Si dividono? >>.
<< Mah, di solito ognuno si tiene le sue. Perché? >>.
<< Be’ … visto che mi è andata bene … come prima serata … mi piacerebbe invitarvi fuori. Che so, prendiamo una birra >>.
Lui ha sorriso, alzando le spalle larghe. << Stasera purtroppo io non posso, ho già un impegno. Ma grazie dell’invito >>.
<< Okay, allora magari sarà per la prossima volta >>.
<< Vedi che ci conto, sai? >>.
<< Certo >>.
Una volta fuori, mi sono accostato ad Ale, che sembrava leggermente alterato. << Ehi, tutto okay? >>.
<< Sì, certo >>.
<< Senti … grazie davvero, per prima. Non so come avrei fatto senza di te. Davvero >>.
<< Di niente >>.
<< Ale. Va tutto bene? >>.
<< Sì, te l’ho detto. Va tutto bene >>.
Però la sgradevole sensazione che ce l’avesse con me persisteva. E si è fatta anche più forte, quando siamo arrivati a casa.
<< Ehi. Che c’è che non va? >>.
<< Non capisco perché ti ostini a insistere. Ho detto che va bene, va bene. Sono solo un po’ stanco >>.
<< No. Ce l’hai con me. Non sono cretino, sai? E’ stato per quei ragazzini? >>.
<< Ma figurati >>.
<< Ehi. Ale. Se non mi dici che c’è, prendo e me ne vado stasera stessa >>. Ho provato un assurdo piacere ad inchiodarlo così, vederlo in difficoltà mi ha messo addosso una sorta di brivido.
Lui ha sospirato. << Nulla. Davvero, Alexandros … è solo che … >>.
<< Che? >>.
Ora è toccato a lui sedersi, prendere fiato. << Non lo so. Vederti … scherzare con quei ragazzi … mi ha dato fastidio >>.
Ho avvertito una morsa allo stomaco. Prima che potessi rendermene conto lucidamente ho buttato fuori: << Ma dai, erano degli sbarbatelli! Non li guardo nemmeno, quelli >>.
Solo un attimo dopo ho realizzato ciò che avevo detto, il modo e il tono, soprattutto, in cui l’ho detto.
Il sangue mi è montato furioso agli zigomi. Mi stavo … giustificando? E perché mai, poi?
<< Non hai capito. Non in quel senso … ci mancherebbe altro. E’ che … perdonami. Non sono affari miei >>.
<< E dai, Ale. Detesto dover tirare le parole con le pinze alle persone. Se ti ha infastidito qualcosa, sono eccome affari tuoi. Avanti. Dì quello che hai sullo stomaco >>. D’impulso, gli ho posato la mano sul ginocchio. La tela ruvida dei jeans era calda per il contatto con la pelle.
<< Io … mi sento sempre a disagio, quando … uno di noi si comporta come se fosse … diverso da ciò che è, ecco >>.
Ho sgranato gli occhi. Non me n’ero minimamente reso conto … ho rischiato di tradirmi in un soffio.
<< Ma come ho detto, non sei tenuto a … >>.
<< Ale. Falla finita >>.
<< Hai ragione, mi dispiace >>.
Ho scosso la testa. << No, falla finita con queste scuse. Se ho avuto degli atteggiamenti poco consoni, ecco, sono io a dovermi scusare con te. Sia che riguardasse … questo … o che semplicemente sia esagerando in qualunque senso. So quanto tu sia riservato, e capisco benissimo che ti avrebbe urtato in qualsiasi caso. Perciò, scusa. Solo, ho notato che ti stavano innervosendo e così … ho pensato … di toglierteli davanti. Ma scusa se sono stato … un po’ … troppo esplicito, ecco. Non l’ho fatto apposta, spesso non mi rendo conto di quando passo determinati limiti. Per cui, conto che sia tu a mettermi in riga >>. Gli ho sorriso, sfregando sulla rotondità della rotula che sporgeva. << Avrei dovuto essere più professionale. Ma mi sono lasciato prendere la mano >>.
Mi ha guardato per un lungo istante. << Sai che mi sto odiando, in questo momento? Mi sento uno stupido >>.
<< E perché mai? Anzi. A me … fa piacere, quando mi … fai partecipe di ciò che senti. Vuol dire che stai iniziando … a fidarti di me, per davvero. Perché vedi, a me … farebbe davvero … un immenso piacere … che non fossimo solo coinquilini. Tu mi piaci molto, Ale. Come persona. E vorrei fossimo amici, sul serio >>.
<< Penso … che lo siamo già. No? >>.
Sentirglielo dire con quella naturalezza mi ha fatto salire il groppo in gola. << Sì. Lo siamo già >>. Mi sono alzato, senza smettere di sorridere. << Allora, penso sia ora di cominciare a prepararci … devo vestirmi come Michael Jackson, o come Madonna? >>.
<< Non lo incoraggiare. Altrimenti ti darà il tormento >>, mi ha ammonito lui, prima di alzarsi anche lui ed entrare in camera sua.
Così, adesso, eccoci qui.
In realtà non è che mi senta proprio a mio agio. A parte che dopo il gelo fuori qui sotto fa un caldo bestiale, essere circondato da uomini che sembrano usciti direttamente dai videoclip di quegli anni, truccati o vestiti con abiti sgargianti, o in tenuta di pelle mi mette addosso un po’ d’angoscia.
In effetti, ho un tantino di mal di stomaco.
Un conto è … be’, immaginare. Supporre. Vedere un video in cui due uomini … si toccano e si baciano.
Un altro è assistere in diretta. In ogni angolo ci sono coppiette tutte intente a infilarsi la lingua in bocca con la complicità della penombra rotta appena dalle luci stroboscopiche. E la pista è gremita di altrettanti baldi giovani, che si strusciano e si muovono a ritmo di musica.
Mi sa che avrei fatto meglio a darmi malato io.
Ma noto con non troppo stupore che anche Ale non è che sia proprio a suo agio. Ogni due secondi si porta una mano alla nuca, si gratta la tempia, tossicchia.
E’ evidente che se potesse, preferirebbe essere mille miglia lontano da qui.
Poi mi sfiora il pensiero che magari possa essere … infastidito dalla mia presenza. Che si senta quasi in dovere di … farmi da guardiano, e quindi abbia poca libertà d’azione.
Quest’immagine non contribuisce a farmi sentire più rilassato. D’un tratto mi sento come avessi mangiato filo spinato, se provo a deglutire ho la gola serrata.
Un velo di sudore mi si forma dietro la schiena, mi appiccica la maglia alla pelle sotto la giacca dando il prurito anche a me.
Per la verità sto sudando parecchio.
Quindi tiro un sospiro di sollievo appena scorgo Angelo farci segno da lontano, da un canapè incastrato in una nicchia del muro.
Non stacco un attimo gli occhi dalla nuca di Ale, mentre raggiungiamo il siciliano. << Ehi, bellezze! >>, ci saluta, battendomi una mano sulla spalla. << Come va la gamba? >>.
<< Ehm … bene >>. Mi sale il dubbio che lo abbia informato Ale. Anche perché io non l’ho fatto certo.
<< Magnus si è disperato un casino, ha piantato una scenata perché voleva venire ad accudirti lui … meno male che aveva questo bordello da organizzare >>, sbotta Angelo, facendoci cenno di sederci.
Ale si schiarisce la gola. << Dov’è, a proposito? Così almeno ci vede >>.
Sembra parecchio teso. Ogni due secondi si tira indietro gli occhiali.
<< Ora arriva … ah, eccolo qui >>.
Credo che non riprenderò mai più l’uso normale della mandibola. Ho sentito chiaramente il “tac” dell’osso che si staccava.
Ha un completo bianco a righe identico a quello che indossava Michael Jackson in “Smooth Criminal”, con tanto di Borsalino. E con quei capelli ondulati biondi …
Oh porco diavolo. Meno male che sono etero. Meno male. << Ehi! >>. Mi strizza in un abbraccio insospettabile per la sua figura minuta. << Come stai? Volevo venire a trovarti ma purtroppo sono stato impegnatissimo … allora, che ne dici? >>.
<< Ehm … >>. Faccio finta di guardarmi intorno. Ma proprio finta. << E’ molto … accogliente >>.
<< Sì vero? E io? Come sto? >>. Fa una giravolta, tenendosi il capello mentre imita una mossa del compianto artista di cui ha preso in prestito i panni, stasera.
<< Una favola >>, commenta Ale, in tono alquanto seccato.
<< Ecco, sempre il solito scontroso. Vestito a lutto, per giunta. Ma non potevi metterti qualcosa di più allegro, per una sera? >>, commenta Dite storcendo le belle labbra.
<< All’ultimo mi ha richiamato Boy George dicendo che rivoleva indietro i suoi vestiti. Quindi ho dovuto mettere la prima cosa che ho trovato >>, sbotta Ale.
Angelo ridacchia, ma si vede che è una cosa forzata. Sembra ci sia una certa aria di maretta, e non voglio pensare sia dovuta all’incidente dell’altra volta.
Mi sentirei troppo in colpa. << Be’, nemmeno io ho dato sfogo alla mia … originalità, stasera >>, dico, sperando di stemperare la tensione.
In effetti ho indossato solo un paio di jeans, stracciati sulle ginocchia, un maglione nero e la giacca di pelle, con gli anfibi. Non molto anni Ottanta, in realtà.
<< Tu stai sempre benissimo, Leo >>, fa Dite strizzandomi un occhio. << Avessi i capelli un po’ più lunghi, saresti un perfetto Jon Bon Jovi prima maniera … >>.
<< Ehi! Perché a lui Jon Bon Jovi e a me Alice Cooper? >>, fa Angelo. Che in effetti è vestito quasi come me, eccetto i calzoni di pelle nera.
<< Perché è vero. Tu non sei bello come lui >>.
<< Mhmm. E vabbe’. Poi me lo ricordo più tardi >>.
<< Scordatelo. Non esiste che stasera torno a casa con te, mio caro >>.  Poi si sventaglia i capelli. << Cosa vi offro da bere, ragazzi? >>, domanda.
Ho come l’impressione che Ale non gradirà questa domanda. Infatti gli lancia un’occhiata obliqua. << Ho capito, per te acqua minerale. Senza limone, che sei già abbastanza acido, stasera >>. Poi Magnus si rivolge a me, tutto trillante come un cardellino. << E tu, Leo? Vodka? >>.
Al solo sentire la parola “ vodka” rabbrividisco come avessi la febbre. << Ehm … penso che prenderò una birra. Leggera, mi raccomando >>.
Angelo e Dite guardano Ale. Che sbuffa, alzando le spalle nel cappotto doppiopetto.
Non pare intenzionato a levarlo. Segno che sì, ci starà davvero molto poco, qui.
Io ho fatto la cazzata epica invece. Adesso ho di nuovo un freddo boia, i morsi del gelo mi stanno ancora devastando gambe e braccia anche se ormai sono dentro.
Oddio. Forse non è l’espressione più felice da usare, in questo posto. Come pure “accogliente” … ma che cazzo ho per la testa?
Evito cautamente di voltarmi in giro a guardare. Non provo ripugnanza, questo no.
Solo una strano, insistente formicolio. Che aumenta, ogni volta che lancio un’occhiata ad Ale, in piedi al mio fianco.
<< Va bene, vado a prendervi da bere. Angelo, vieni con me >>.
<< Perché? Io sto bene qui >>.
<< Angelo! >>.
<< Okay, va bene, vengo … speriamo di farlo anche più tardi … >>.
<< Ma sta’ zitto >>. I due si allontanano battibeccando, e io resto solo con Ale, che ancora non si decide a sedersi.
In effetti un po’ lo capisco. Chissà che accidenti ci è passato da sopra questo divano, prima di noi.
Non è che sia schifiltoso, lo penserei anche di una comune discoteca. E veramente l’ho pensato anche di tutti i posti in cui sono dovuto andare a rintanarmi con Shaina, pur di poter fare sesso in maniera decente.
Ops. Shaina. Non l’ho più richiamata.
Avrei dovuto. Ma il pensiero di farmi coinvolgere in un’altra sessione di … be’, roba telefonica devo ammettere che mi ha fatto passare la voglia.
E non solo quella di richiamarla.
Adesso si ricorda di farsi venire le smanie. Ora che sono qui, a tremila e passa chilometri.
Non sono un tipo crudele, no. ma vendicativo sì. Quindi da un lato sono contento.
Anche se questo vuol dire … che devo soffrire anche io.
Pazienza. Ormai ci sono abituato.
Come anche a non ricevere grandi segnali di vita dai miei. Anzi. Magari ora che sono lontano è anche meglio, perché così puoi sempre fingere che non abbiano avuto tempo, e non che … be’, non gl’importi di te, o che i loro problemi siano più grandi di un figlio.
<< Gesù, che mal di testa >>. Meno male che il mio coinquilino riesce ancora una volta a trarmi alla realtà, salvandomi dal gorgo depressivo. Anche se inconsapevolmente.
Si lascia cadere di colpo sul canapè, sfilando gli occhiali e tenendoli sollevati come per controllare se non siano macchiati.
Non riesco a trattenermi. Dovrei essergli grato, ma non so fare di meglio che pizzicarlo.
Sono proprio stronzo. Sì, a volte mi sa che me lo merito, il modo in cui mi trattano a casa. Non soltanto i miei. << Non capisco >>.
Punta su di me i suoi occhi nudi. E uno strano nodo m’impiglia la gola, per la seconda volta oggi. << Cosa? >>.
<< Perché … perché sei venuto se poi devi tenergli il muso tutto il tempo. Non sarà per quello che è successo, no? >>.
<< Ma che c’entra. Sono sempre così, quando ci sono di questi eventi. E’ più forte di me, mi spiace. Mi mettono l’angoscia, addosso >>.
<< Quindi … non è per me? >>, insisto, però in tono timido.  
Ale mi guarda fisso per qualche istante. Le luci stroboscopiche, fastidiosissime, danno tuttavia ai suoi occhi l’aspetto di un’aurora boreale.
Non che ne abbia mai viste, eccetto che in foto. O in tivù. << Ma no. Certo che no. Tranquillo >>. Stira un brevissimo sorriso storto, infilando di nuovo le lenti. << E poi sei maggiorenne e vaccinato, no? L’hai detto tu >>.
Chino il capo, vergognandomi un po’ di quella risposta categorica. Anche se gli ho chiesto scusa … be’, a me ancora non è passata.
Specialmente visto il modo in cui si prodiga per me. Facendomi sentire … al sicuro. << Già >>.
Angelo torna, posando due birre sul tavolo. << Scusate, ragazzi, ma non posso tenervi compagnia. La belva Dite si è risvegliata in tutto il suo splendore e pretenda che gli dia una mano >>, mugugna tristemente.
<< Come se lo facessi disinteressatamente >>, obietta Ale, prendendo la bottiglia e mandando giù un sorso.
<< Certo che lo faccio disinteressatamente. Cosa credi, che io sono un santo! >>, replica il siciliano con un ghigno ferino. << Anzi, un angelo proprio! Perché credi che mi abbiano chiamato così, altrimenti? >>.
<< Certo. Come no >>. Ale scuote la testa, e l’altro si allontana.
Mi sa che non ho nessuna speranza di indagare su quella sera.
Afferro la mia bottiglia e mando giù, almeno per metà, tanto sto morendo di sete. Poi realizzo che magari Ale mi sta osservando, e facendo collegamenti molto poco opportuni, così smetto subito e la poso sul tavolino, come se non avessi intenzione di svuotarla in un solo sorso per passare alla prossima.
Ma posso stare tranquillo. Leggermente placato, forse complice il fatto che i suoi compari non possono essere dei nostri – malgrado mi abbia assicurato che non è per il sottoscritto, ch’era tanto inquieto- si tira in avanti, allarga le gambe nei calzoni neri e posa i gomiti sulle ginocchia, con un’aria apparentemente distaccata.
Qualcosa di insano mi suggerisce che questa è la sua posizione … di caccia.
Scrutare la preda fingendo indifferenza. Sì, sembra essere una tattica adatta a lui.
Forse ha deciso di divertirsi, giacché c’è. Di cercare qualcuno che gli faccia passare il mal di testa, visto che a quanto pare la scusa più vecchia del mondo è anche la peggiore, dacché uno studio ha dimostrato che le endorfine rilasciate durante il sesso lo facciano passare più in fretta e più a lungo.
Già. Ma a Shaina questo non gliel’ho mai detto, però. Altrimenti sicuro che mi accusava di essere il solito maschio rozzo, sciovinista e ignorante. << Guarda che ti do il permesso, se vuoi farlo >>, sento ad un tratto che sussurra la voce di Ale.
E’ appena un soffio. Eppure mi rimbomba nel cranio peggio di un colpo di cannone. << Che? >>.
<< Se vuoi portare a casa qualcuno. Dico, lo sai che non serve, visto che è anche casa tua. Ma tu sei così scioccamente … bah, insomma >>. Fa un cenno col mento, in direzione di una coppia che sta ballando piuttosto lascivamente, con tanto di mani appiccicate ai rispettivi sederi e passate di lingua così evidenti che persino il buio non riesce a nasconderle.
Così come non riesce a nascondere il fatto che uno dei due stia puntando me. La sarabanda di brividi ricomincia, ma questi non sono granché piacevoli.
<< Credo che qualcuno stia cercando compagnia >>, osserva Ale, ridacchiando.
<< Veramente mi sembra che sia già impegnato. Non è che scatta la rissa, no? >>, faccio io, ridacchiando a mia volta. Ma è una risatina stridula, me ne accorgo io per primo.
E Ale lo stesso. << Forse non lo è abbastanza >>.
<< Ma… >>. Ora anche l’altro mi guarda, e mi pare che sghignazzi allungandosi a parlottare nell’orecchio del primo.
Okay. Mi sa che devo proprio. << Senti, ti spiace se esco a fumarmi una sigaretta? Qui dentro non si respira >>.
Ale torna a farsi indietro nello schienale. << Ma sì. Fa’ pure. Tanto sicuro mi ritrovi qui >>.
Abbozzo un sorriso, e mi rialzo cercando di defilarmi più alla svelta e incrociando meno gente possibile.
Santo cielo, persino sulle scale è pieno di uomini che si strusciano e slinguazzano.
Comincio a non poterne più. Perché ormai sono così … fuori rotta, che tra un po’ mi succederà esattamente quello che stava per accadere con il filmato, solo che qui non posso semplicemente chiudere e andare avanti facendo finta di niente.
M’infilo dietro l’angolo, tirando fuori il pacchetto dalla tasca del giubbotto.
Cazzo, che freddo cane. Ci saranno sei o sette gradi, come minimo.
Effettivamente, anch’io non vedo l’ora di andare via.
I jeans sono diventati improvvisamente scomodi. Tutto quell’odore di sesso che impregnava l’aria … altro che viziata.
Ad un certo punto immagino che non faccia più alcuna differenza. In guerra … per dirla molto finemente, ogni buco è trincea. E gli ormoni si agitano anche se non si ha quella tendenza.
Se vuoi hai il mio permesso. Una frase del tutto giustificabile che però mi ha infastidito lo stesso. Anche se non so perché.
Forse perché ha visto che ero un tantino elettrico, prima.
E ne ha attribuito la ragione alla causa più ovvia. O almeno, a quella che parrebbe la più plausibile.
Dannata, fottuta astinenza.
Mi auguro che domattina sia soltanto un brutto sogno.
Se ci fosse Milo … non voglio neppure pensarci.
Il mal di testa di Ale mi si è attaccato per proprietà transitiva. Mi porto le mani alle tempie, massaggiandole piano.
Per un attimo si materializza davanti alle palpebre abbassate l’immagine di Alyké. Ma la conosco appena, e inoltre sembra una brava ragazza.
E poi non ho neppure il suo numero di telefono. Ci siamo sempre incrociati per caso, finora.
La tensione alla base della schiena quasi non mi fa stare in piedi.
Ora come ora ci vorrebbe proprio. Un bel cinque contro uno, a casa, nel mio letto, tranquillo.
Ed è proprio quello che ho intenzione di fare il prima possibile. Fanculo alle linee di non ritorno.  
Do un’ultima boccata e rientro. Sento le gambe molli, come gelatina, le tempie adesso sono serrate da un dolore pulsante, che mi annebbia la vista.
Ma non riesco ad arrivare al tavolo. Una mano mi agguanta il gomito, e devo far ricorso a tutta la mia civiltà oltre che ad una calma zen che non sapevo nemmeno di possedere per non partire immediatamente all’attacco, suonando una bella sventola all’incauto.
<< Scusi, credo che … tu? >>. Gli occhi mi sgranano, a momenti mi rotolano fuori dalle orbite.
Non ci credo. Non ci voglio credere proprio, davvero. << Cazzo, avevo visto bene allora >>, borbotta la voce familiare, accompagnata da uno sguardo anche più esterrefatto del mio.
Oh, santa fede … Otto milioni e passa di abitanti e guarda tu chi doveva andare a passare proprio in questo momento. << Milo? Ma … che ci fai qui? >>.
<< No, che ci fai tu, qui >>. Mi fissa come se fossi il coniglietto pasquale uscito dall’uovo di cioccolato.
Vorrei poter dire ch’è un coglione e alle cose non c’arriva, ma purtroppo … per certe cose ci arriva, e parecchio pure.
Purtroppo. << Non dire niente. Leviamoci da qui >>. Con una mossa davvero malsana, lo prendo per il braccio e lo tiro via da qui, prima che mi faccia fare qualche figura di merda.
Ho il terrore che mi veda qualcuno di loro. Allora sarei proprio in un mare di guai.
Così ci infiliamo nei bagni. Mi auguro solo che non ci sia gente anche qui.
Per fortuna hanno le porte. Ne spalanco una a caso, tirando Milo dentro con me.
Ora ci sarà da ridere. O da piangere. Penso più la seconda, in realtà. << Mi spieghi che diavolo ti ha portato qui? >>, sbotto.
<< A me? A te! Io stavo passando, ho appuntamento con dei compagni di corso su all’Old , e sono sceso alla stazione della metro qua dietro. Mentre camminavo ho sentito tutto il pandemonio … mi sono voltato e ti ho visto, che stavi gettando una sigaretta. Pensavo di farti una sorpresa per rimproverarti che non si trattano così gli amici, ma a quanto pare l’hai fatta tu a me, Leo >>. Riprende fiato. A volte riesce a parlare persino più a macchinetta del sottoscritto. Soprattutto quando le altre persone, per ritegno o quanto meno per carità cristiana, starebbero zitte e si farebbero gli affari propri. << Ora sono io che domando a te, cosa diavolo ti ha portato qui? >>.
E .. ed ecco che Mister Logorrea si perde il suo minuto di celebrità. Apro la bocca ma in realtà non ho la benché minima idea sul cosa dirgli.
Dovrei giustificarmi. Dirgli che c’è stato un errore, che è stato un malinteso, che…
E non ho il tempo di dire nulla. << Anzi, no. Non me lo dire. Non lo voglio sapere >>, sbotta immediatamente in tono accusatorio, con un  cambio d’intenzione sconvolgente. Neanche soffrisse di doppia personalità. << Per questo … non  mi hai permesso di venire a vedere dove stai? Abiti con un frocio?! >>.
<< Shhh! E non gridare, porca miseria. Vuoi che ci menino? >>. Mi passo una mano sulla faccia. Sembra l’abbia calata in un secchio, tanto sono fradicio. Parliamo in greco, certo, ma con la fortuna che ho quanto ci vuole a beccarne qualcuno anche qui?
Che sfiga, davvero. Una coincidenza assurda. << E comunque si dice gay, o omosessuale. Frocio è discriminatorio >>, mormoro piano tuttavia con determinazione.
Non permetterò mai a nessuno di parlar male di Ale. Mai, dovranno passare sul mio cadavere, si tratti pure del mio migliore amico, di mio fratello, dei miei o di Shaina.
Milo sgrana gli occhi azzurri. << Kali ouranos … e lo sa che … >>.
Stavolta la questione è un po’ diversa. Difendere Ale è okay, ma per quel che riguarda me … ahio.
Tanto vale essere onesti, a questo punto. << No. Non lo sa. Gli ho fatto credere che … lo sono pure io >>, confesso in un filo di voce.
Ora Milo rischia di perdersi le sclere per strada, sul pavimento molto poco salutare di questo gabinetto. << Cheee???!!! Cioè vuoi dirmi che ti sei fatto passare per … tu, il castigavergini? >>.
<< E zitto! Che mi metti nella merda, sennò. E poi quel soprannome me l’hai dato tu, e te l’ho sempre detto che mi sta sulle palle. Anche perché con le vergini non ci sono mai andato >>. Sospiro, e mi affaccio fuori dalla porta del nostro cubicolo.
Nessuno in vista. Per ora. << C’era un annuncio, nella bacheca dell’Università. Zona ottima, prezzo basso, unico requisito richiesto … >>.
<< Frocio. Ehm, gay >>.
<< Bravo. E comunque è colpa tua, tu mi hai tirato il bidone, mi sono arrangiato come ho potuto. E poi … è simpatico. Mi ha anche trovato un lavoro >>.
<< Immagina >>.
<< Ehi. Non ti permettere. Ale è un bravo ragazzo, che tu ci creda o no. Mi trovo bene con lui, e con i suoi amici >>.
<< Attento, che lo sai come finisce, no? La curiosità uccise il gatto, caro il mio Leo >>.
<< Ma smettila >>.
<< Posso fidarmi a darti le spalle, d’ora in poi? >>.
<< E piantala, coglione >>.
Un trillo si leva dalla mia tasca. Maledizione. Milo non può essere visto che è qui davanti a me.
Basta che non sia Shaina. Sarebbe davvero l’ultima delle rogne assolute. << Oddio, che è? >>.
<< Il mio cellulare. Cosa vuoi che sia? >>. Tiro fuori il telefono dalla tasca, controllo il numero. Ormai lo faccio sempre, dopo aver ricevuto la chiamata di lei.
E’ Ale. Porca troia … << Ehi, Ale >>.
<< Ehi. Stai bene? Marco ha detto che ti ha visto entrare nel bagno, e siccome tardavi … ero in pensiero. Tutto apposto? >>.
<< Eh, sì, sì, certo >>.
Esita. Sembra voglia dirmi qualcosa, ma che il suo naturale riserbo stia facendo a pugni con la necessità impellente di tirarla fuori. << Senti, non che voglia farmi i cavoli tuoi, ma … evita di accettare roba offerta da chicchessia. Purtroppo capitano spesso cose spiacevoli. Poi, ehi, chiaro che sei maggiorenne e vaccinato. Però … è un consiglio, va bene? >>.
<< Sì, certo. Grazie, Ale >>. Forse ho un po’ troppa fretta di chiudere, e la voce mi esce più acuta del solito.
<< Sicuro che è tutto okay, vero Leo? >>.
<< Ma sì, grazie. Va’ pure a divertirti >>.
<< Divertirmi? E’ una battuta, vero? >>. Lo sento ridacchiare con quel suo tono morbido. Un nuovo brivido mi scuote ed evito di guardare Milo, appollaiato alle mie spalle. Con le orecchie aguzzate, c’è poco da scommetterci. << Okay, sono al tavolo. Quando vuoi ce ne andiamo, tanto Magnus a questo punto non si accorge più di chi c’è e chi non c’è >>.
<< O … kay >>. Chiudo, e infilo il cellulare in tasca.
<< E’ lui? >>, chiede Milo.
<< Già >>.
<< E’ carino >>.
<< E come cazzo hai fatto a vederlo? Hai gl’infrarossi? Vedi anche attraverso i cellulari, adesso? >>.
<< Che, geloso? >>.
<< Stronzo >>.
<< Volevo dire ch’è stato carino, a preoccuparsi per te >>.
<< Te l’ho detto. E’ un bravo ragazzo >>.
<< E io invece no, questo vuoi dire, vero? >>, ride lui. << Vabbè, usciamo da sto cesso? >>.
<< E sì, eh >>. Apriamo la porta, e usciamo confondendoci nella calca, anche se sono attentissimo affinché Ale non possa intercettarci, da qui.
<< Be’, comunque, se cambi idea … il numero ce l’hai >>, fa Milo, a voce altissima ma appena decifrabile, nel bordello.
<< Per adesso mi sta bene così. Poi … vedremo. Domani è un altro giorno >>.
<< Hai sbagliato epoca, “Via col vento” è degli anni Trenta. Guardati le spalle >>, è il suo saluto.
Faccio una smorfia. << Certo. Contaci. Ci vediamo >>.
<< Okay >>.
Se il cielo vuole se ne va, e io torno al tavolo, dov’è seduto Ale. Da solo. << Ehi. Dov’è Angelo? >>.
<< Sicuro di volerlo sapere? >>, mi chiede lui di rimando.
Non sono tanto sconvolto da non capire ch’è una domanda retorica.
<< Ce ne andiamo? >>, aggiunge.
Finalmente. Sia lodato il Cielo, almeno adesso.
Anche se dieci minuti fa ha fatto finta di non vedere la mina vagante che passava per strada.
Proprio qui davanti, nel momento giusto in cui uscivo dal buio del vicoletto e rivelavo la mia faccia nella luce al neon multicolore dell’insegna. << Sì >>.
In metro, quasi mi addormento. Mi raggomitolo col braccio sotto la testa, ho ancora nelle orecchie il pulsare frenetico della musica a tutto volume.
Un bip mi fa sussultare, ma sono troppo stanco per aprire gli occhi. << Leo, siamo a casa. Svegliati, dai >>.
<< No … lasciami qui. Poi torno a piedi >>.
<< Ma che dici, muoviti, dai. Ho capito >>. Mi solleva di peso, trascinandomi giù dalla carrozza. << Vuoi un caffè? >>.
<< Voglio un letto. E dormire fino a lunedì … >>.
<< Accidenti. Un vero festaiolo, eh? >>. Un altro bip.
<< Ma chi è che ti scrive a quest’ora? >>.
<< Nessuno. Notifiche di pagine a cui sono iscritto >>, risponde, un po’ troppo prontamente. Ma sono così rincoglionito che la prendo per buona.
Se mi avesse detto che riceve messaggi da una base aliena su Marte, l’avrei presa per valida comunque.
Praticamente mi porta in spalla fino alla porta di casa. Apre, e una volta dentro resisto a malapena all’impulso di buttarmi sul pavimento.
<< Forza … ma sicuro che non hai preso nulla, vero Leo? Mi stai facendo preoccupare. Dobbiamo tornare in pronto soccorso? >>.
<< Ma che pronto soccorso … etciù! >>.
<< Salute >>. Mi tira fin sopra il divano, posandomici sopra. << Ehi, ma tu sei caldo >>.
Ora come ora verrebbe facile fare una battuta, ma sono troppo fuori. << Noooo … >>.
<< Fa’ sentire? >>. Posa le nocche sulla mia fronte, poi due dita al lato della gola, sotto l’orecchio.
Sentire il palpitare del mio cuore contro i suoi polpastrelli … fa un effetto strano. Ma forse sono talmente frastornato che tutto mi appare insolito. << Sì, sei caldo sul serio. E il polso è spostato >>.
<< Ah sì? Strano. Mi pare sia ancora qui, attaccato al braccio … >>.
<< Scusa, modo di dire. Volevo dire che il battito è accelerato. Mal di gola? Di stomaco? >>.
<< No, ho solo sonno … >>.
<< Aspetta. Vediamo se riesco a trovare … >>. Se ne va, e d’un tratto i brividi di freddo mi crollano addosso tutti assieme, facendomi battere i denti e tremare le gambe. << Eccolo. Avanti, apri la bocca >>.
<< Sempre meno gentiluomo … >>, ridacchio, obbedendogli.
<< Com’è che riesci a fare lo spiritoso anche così, per me rimane un mistero >>. Sospira. << Non penso sia una qualche conseguenza della scottatura, ormai è passata. Dev’essere l’influenza. C’è il picco, in giro >>.
<< Ehhhh … che gioia >>.
<< Zitto, che altrimenti non prende >>. Il tintinnio non promette bene. << Cazzo >>, si lascia sfuggire, guardando l’aggeggio.
<< Che? Sto morendo? >>.
<< Non penso, ma hai quasi trentanove. Come hai fatto a reggerti in piedi fin qui con questa febbre? >>.
<< Magia … >>.
<< Sì, Harry Potter, ora però ti porto a letto. E non un’altra battuta, o febbre o non febbre, le prendi >>.
<< Io non ho detto niente >>.
<< Certo. Come no. Ormai ti conosco >>. Lo sento sospirare. << Okay, vado a recuperarti del paracetamolo >>. Mi lascia, diretto al bagno.
Sembra che soltanto adesso mi sia reso conto di quanto sia messo male, accidenti. Batto i denti, e le gambe mi si sono fatte di cemento, non riesco a muoverle.
E il commento che sento provenire dal bagno è il giusto sottofondo per la mia situazione attuale. << Merda >>.
<< Che c’è? >>, domando.
Ale torna in soggiorno, con la scatola in mano e un’espressione di disappunto. << E’ scaduto. Il mese scorso >>.
<< Embé? Le date di scadenza sono una truffa. Anche col cibo è così, lo sanno tutti >>.
Fa quel verso con la lingua, schioccandola contro il palato. E sbuffa. << Mi auguro tu non abbia intenzione di seguitare quest’abitudine anche al lavoro >>.
<< No, certo che no. Se trovo qualcosa di scaduto, lo metto da parte >>.
<< Bravo >>.
<< Così, se vengono altri ragazzini come quelli di oggi, glielo servo >>.
<< Ma smettila … >>. Si china su di me tirandomi di nuovo su, e rabbrividisco più forte. << Accidenti. Stai tremando come una foglia >>.
<< Già >>. Però non di freddo.
Di disagio, puro e semplice. Perché ripensare a quello ch’è successo nel locale mi fa sentire persino più di schifo di come sto messo.
Ogni volta che si occupa di me, è peggio. La sua premura è una coltellata alla schiena, e colpo dopo colpo mi sembra che la mia mascherata stia perdendo sempre più stabilità. Presto non rimarrà che un sipario stracciato, da cui verrà inevitabilmente fuori la verità.
Trascinandomi come un sacco di patate, mi sdraia sul letto coprendomi con cura. << Ecco. Metodo tradizionale. Con una bella sudata ti sentirai meglio >>.
<< Mhmm. Ma non avresti dovuto togliermi prima i vestiti, allora? >>.
Mi scocca un’occhiata assassina. << Ora dovrei metterti il cuscino in faccia >>.
<< Oh, ma dai, addirittura. Basta spegnere la luce >>.
Mi guarda allibito, forse si sta domandando se questa febbre non sia sintomo di qualche malanno che mi sta fondendo il cervello. In realtà, non capisco neppure io perché sto tirando tanto la corda sapendo che potrebbe urtarlo, e parecchio anche.
O forse lo so. Mi piace terribilmente vederlo allentare il freno, mostrare qualcosa che non sia sempre e solo quella sua serietà, o la sua gentilezza.
Okay, è la febbre. Sicuro. << Farò finta di non aver sentito >>.
<< No, peccato. E io che speravo tenessi fede al tuo proposito di dirmi sempre quando sto esagerando >>.
<< Non stai bene. Magari è la febbre che ti sta facendo delirare >>. Sorride appena, tirando indietro le lenti. << Quindi, se vuoi testarmi come si deve, dovrai aspettare di essere in piedi. Perché tendo a diventare piuttosto flessibile, in certe situazioni >>.
Non è difficile crederlo, osservando il suo fisico agile e scattante. E non è difficile nemmeno leggerci un certo doppio senso, in questi termini scelti con cura e anche nel loro ordine, apparentemente logico e corretto e che invece sembra suggerire tutt’altra cosa. Tant’è che avvampo senza volerlo, anche se non si vede.
Cazzo. Alla fine sono io, quello ch’è stato colpito e affondato.
E sono pronto a giocarmi la testa che lui lo sa, e che sta gongolando dietro la mano che risistema gli occhiali. Le sue sottili frecciate sono lontane anni luce dai miei colpi di zappa, che alla fine mi do sempre sui piedi.
Quindi è comunque una piccola vittoria quella mi prendo alla fine, quando scende al mio livello. << Domani vado a comprarti del paracetamolo che non sia scaduto. Se la febbre è ancora così alta, però, temo non basteranno le pastiglie … >>, mormora in tono filosofico.
Malgrado sia molto poco in grado di connettere intuisco bene il senso celato tra le righe. complice anche il suo mezzo sorriso obliquo, il brillio furbo degli occhi neri.
Così sto al suo gioco. << E dovrebbe essere un male? >>, sputo fuori.
<< Mah, dipende da come la vedi. C’è chi pensa che … avere solo un assaggio di quel che si vuole sia peggio che non averne affatto >>, sentenzia, e io inarco le sopracciglia anche se ho la faccia rigida come una stecca.
Non ho la lucidità necessaria a replicare prendendomi il match point.
Così me ne sto zitto, rimandando a quando sarò in piedi.
E niente battute a doppio senso, stavolta.
Ovviamente è rimandata anche quella certa questioncina che avevo in mente di risolvere una volta a letto. sono troppo stanco, mi fanno male le ossa anche nei polpastrelli, sarebbe proprio uno spreco.
Mi rigiro nel letto, tremando e imprecando a mezza voce. sto quasi per addormentarmi, quando un lampo mi balena davanti alle palpebre chiuse.
Marco ti ha visto entrare nel bagno.
Ma io nel bagno … ci sono entrato … trascinando Milo.
Quindi, se la matematica non è un’opinione … uno più uno, fa due.
Merda.

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