Antologia delle psicosi umane

di MarcoBacchella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non finito come risoluzione ultima dell'artista ***
Capitolo 2: *** Il WC ***
Capitolo 3: *** L'importanza della pizza con l'ananas ***
Capitolo 4: *** Qual è il segreto del Soylent Green? ***
Capitolo 5: *** Perché ho ricominciato a drogarmi: ***
Capitolo 6: *** Ma è tradizione! ***



Capitolo 1
*** Non finito come risoluzione ultima dell'artista ***


Ant1

Questo saggio è parzialmente autobiografico.

Descrive i miei tentativi, nel corso degli ultimi anni, di trovare un modo soddisfacente è incompleto, nel senso che non posso certo affermare di aver già trovato, o che mai troverò, risposte definitive alle domande che mi assillano.

Infatti, se una delle conclusioni principali di ciò che espongo è qui è che i fini o gli obiettivi non sono che delle pietre miliari lungo un percorso, questo deve valere anche per il mio stesso pensiero e per la mia scrittura, come per tutto ciò che la gente fa. L’aspetto fondamentale della vita è che non comincia qui e finisce lì, ma che continua sempre.

 -Tim Ingold

Non finito come risoluzione ultima dell’identità dell’artista

 

Solitamente le introduzioni vanno scritte dopo aver definito il resto del testo. Magari dopo aver definito il genere, la trama, la struttura del testo stesso, ma non avendo un vero e proprio testo in quanto sto scrivendo questo proemio ben prima di aver scritto una singola parola, posso già dire di esser partito male.

 

Quando Machiavelli scrive i discorsi sulla prima deca di Tito Livio, scrive quello che poi sarebbe stato un "non finito". Non è del tutto chiaro se fosse una cosa volontaria: sia per una questione logistica, dato che il testo si basa su una serie di testi di natura frammentaria dato che ci pervengono solo alcune parti del manoscritto originario, sia perché, si presume, il Nick avesse bisogno di finire quel lavoro.

 

I discorsi sono una serie di ragionamenti scritti senza un particolar Labor Limae, senza una struttura basata su degli eventuali precedenti di genere letterario, in quanto erano chiaramente un’avanguardia che Machiavelli proponeva, e risultano pieni di contraddizioni, disuniti, senza un fine chiaro. 
Il Nick propone un nuovo genere letterario per una nuova teoria politica: questo è indubbio e la teoria stessa rappresenta la validità dell'opera, ma dopo anni di lavoro, a seconda del critico di riferimento ci saranno date di scrittura diverse che variano anche di decine di anni, Machiavelli ha necessità di terminare i suoi ragionamenti. Un bisogno fisiologico dell'autore che, esaurite le idee e la voglia di lavorare su un testo che non permette più espressione all'autore stesso, sia per una questione di genere letterario, sia per una questione di predisposizione mentale. Per capire il tipo di avanguardia che il Nick propone, per metterle sott’ottica più moderna, si può vedere come le avanguardie musicali di oggi soffrano dello stesso problema: non fanno tempo ad affinare il loro stile che lo stile stesso muta per diventare qualcos’altro: è l’unica discriminante dell’indie italiano, del cosiddetto “ITpop”, la possibilità che ci sia un’avanguardia artistica come fulcro stesso della validità del prodotto, quanto non l’esperienza dell’artista o la qualità finale dell’opera.
 

La critica si scanna su un altro artista contemporaneo al Nick repubblicano, il Michelangelo.

Michelangelo, che sia per una questione caratteriale, quindi perché perdeva continuamente interesse nelle commissioni, o per una questione artistico-espressiva in cui il non finito diventa veicolo e strumento di espressione artistica, o per una questione logistica in cui il tempo materiale per completare l'opera non era sufficiente, quindi si era inventato sta roba del non finito come supercazzola, come farà poi Duchamp con i baffi alla Gioconda o come quando mise un cesso nel museo, è diventato famoso grazie al non finito.

Io sono più propenso alla prima ipotesi, ma per una ragione semplice: il Mike, prima di essere un artista, era un umano.

 

In quanto umano, è plausibile proporre che fosse annoiato dalla vita, che avesse dei periodi più o meno bui, che sentisse, prima ancora dell'arte, la tristezza. C'è addirittura qualcuno che ha proposto che potesse avere la sindrome di Asperger. La continua insoddisfazione, associata all'irascibilità per cui era quasi famoso, sembrerebbero confermare.

 

Anche il signor Da Vinci, a prescindere da tutte le teorie complottistiche che lo vedono come un alieno, soffriva del non finito. Il Leo diede pochi risultati in moltissimi campi, saltando come un poeta universale dalla medicina all'aerodinamica, dalla gastronomia alla scienza dell'elastico delle mutande, ma alcuni critici, soprattutto quelli a cui frega qualcosa dell'analisi del non finito, notano come la causa sia, forse, da ricercare nella rincorsa scientifica che in quel tempo c'era: il nostro amico alieno non riusciva a definire una teoria sulla luce che arrivavano nuove osservazioni, osservazioni  e ipotesi dall'altra parte del mondo.
Leonardo soffriva dell'incapacità tecnica di rappresentare quello che formulava, e non faceva tempo a trovare il modo di formularla che già aveva perso la voglia di pensare perché qualcun altro aveva scoperto qualche cosa.

 

Il titolo di "insoddisfatto", nel 1517, poteva essere applicato ad uno scrittore che non riuscì a completare una serie di ragionamenti senza contraddizioni, ad un'artista che non riuscì a terminare le sue sculture, e ad uno studioso che non riuscì a terminare i suoi studi.  Io posso solo dire che, per demotivazione, mi son ritrovato a non finire testi per cui ero partito con idee chiare, con trame unitarie, in cui avevo già delineato anche il finale. Ecco, per evitare di finire come insoddisfatto in quanto riconosco la pura caratteristica umana del non finito come strumento espressivo o semplice scusa psicologia, mi propongo di mai iniziare.

Dico, mai inizierò a scrivere un testo unitario seguendo canoni letterari predisposti da altri che tanto sono troppo pigro per portare a termine tutte ste cose.

Preferisco finire un non finito disunito che un finito privo di limature che ho dovuto finire per essere felice con me stesso.

Son tutti bravi a finire qualcosa con una trama ben definita e degli obiettivi chiari, ma di per sé non rappresentano affatto in modo chiaro i processi mentali di una persona, o gli obiettivi a dir poco non finalistici di questo testo.

 

                

Uno dei frammenti secondo me più importanti che valida la mia idea di non finito come unica soluzione possibile per rappresentare al meglio la struttura dell’evoluzione del pensiero di una persona è tratta direttamente da Machiavelli, e l’ho scoperta grazie ad una parafrasi di un capitolo del Principe dell’introduzione a Machiavelli di Emanuele Cutinelli-Rendina: la realtà umana è strutturalmente varia, mutabile, insicura, perché vari, instabili e insicuri sono e si sentono gli uomini: e il loro naturale tentativo di contenere e volgere a proprio vantaggio l’immane potenziale negativo che è in questo dato fondamentale della condizioni in cui si trovano non fa che confermarla e rimettere continuamente in moto il flusso della storia.
Il mio grande tentativo è quindi quello di riconoscere perfettamente che ogni tentativo di rendere immutabile il mio pensiero è vano e non perseguibile, ma da qui parto per mettermi in discussione e sfruttare una crisi d’identità oramai perenne per venire a capo di argomenti che io ritengo importanti per lo sviluppo della mia psiche, e da qui possiamo continuare a dire che il mio è nulla più che un esempio privo di validità fino a che non si dimostra valido.

 

Frequentando un paio di lezioni di Antropologia tenute da un certo Allovio, un professore che secondo me somiglia molto a Pietro Sermonti, si è evidenziato come in tutte le identità culturali, tutte le etnie in termini puramente culturali e non biologici, si fondano sull’autoascrizione alla stessa etnia di alcune caratteristiche comuni al tuo essere, e che queste caratteristiche, identificate nel pool delle stesse, dichiarate essenziali all’etnia, mutano per processi storici.
Come queste caratteristiche mutano, muta l’identità dell’etnia per perdurare nel tempo. Allo stesso modo, l’identità personale muta per il mutare delle caratteristiche personali. Un libro che vuole essere l’espressione di un pensiero diventa quindi un non finito per esigenza, un non finito per l’impossibilità di esprimere finitezza, già datato e non finito nel momento stesso in cui diventa parola, in cui diventa espressione.  

 

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Capitolo 2
*** Il WC ***


Ant2

Il WC

Il water è uno degli elementi che pone più in dificoltà il nostro organismo. La posizione seduta in generale è una posizione a cui il nostro corpo deve abituarsi. Ma il water e le sedie sono cose che abbiamo ritenuto più comodi piuttosto che fare la pupù al lato della strada accovacciati o stare in piedi, anche se fare la pupuù accovacciati sarebbe la cosa più anatomicamente corretta. Non la più igienica, ma la più corretta.

Nei pochi secoli trascorsi da cui abbiamo inventato la toilette ad adesso il nostro corpo non ha subito dei cambiamenti tali per cui ci è consono fare la cacca da seduti, e tutt’oggi la posizione ideale sarebbe quella che si assume nella turca della stazione con la porta senza chiave: accovacciati, con una mano ci si tiene i pantaloni, con l’altra si tiene la porta, con la mente si prega di non cagarsi per sbaglio sui piedi. Deo gratia, i water sono più diffusi, li abbiamo considerati la scelta più civile nel pool totale di scelte che potevamo prendere.

La monogamia è essenzialmente la stessa roba.
In questa parte del globo si cresce sapendo che ci si deve trovare un partner e con quel partner vivere la propria vita.
La società è costruita su un modello di famiglia composto da due persone e dal loro prodotto, ci insegnano che è il modello perfetto di vita, che è il modello ideale e naturale per poter procreare. Ma non è che una menzogna.

È un modello semplice, indubbiamente: se c’è solo un padre e una madre non si dovrà litigare troppo per nomi e cognomi, ma è solo semplice a livello burocratico,  e se si continua a offrire il modello monogamico come unico modello di vita possibile si perpetra una menzogna.

Ora, abbassate torcie e forconi. La monogamia in sè non è una menzogna, ma una scelta: la scelta personale di essere monogami non è una menzogna, bensì un atto di fede e fiducia nei confronti del partner e come tale va rispettata come ogni singola scelta che una persona può prendere nel corso della propria vita. Ma noi non siamo arrivati alla monogamia, non l’abbiamo scelta, per la maggior parte dei casi che incontriamo ogni giorno: siamo condizionati e siamo “addestrati”, se mi perdonate il termine quasi distopico, alla monogamia, perché ogni altra forma di relazione è “complicata”.

La monogamia occidentale e il suo risultato, il matrimonio, sono operazioni di marketing finite particolarmente bene.
Il matrimonio, fino a duecento anni fa, era una catena con cui ci si legava alla famiglia del coniuge per aumentare il proprio valore: fortunatamente questa visione utilitaristica del rito è caduta in disuso, ma abbiamo dovuto inserire l’amore nell’equazione per poter vender meglio la roba, e ora ci si sposa solo per amore... e per dimostrare che ci si ama ci si indebita per tirare una festa in cui i testimoni e le damigelle si scopano a vicenda, le quattro nonne ottantenni sono ubriache già da prima mattina e il tuo fratellino è dietro la chiesa a fumare di nascosto, sempre che non sia il tuo testimone e non si stia sbattendo la damigella.

Solo dopo due ore di predica vi amate ufficialmente: solo dopo il quarto primo e il quinto secondo tutti i tuoi conoscenti sanno che ami il tuo partner, solo dopo aver dilapidato i risparmi di due famiglie con le tovaglie in pizzo irremediabilmente macchiate di vino rosso la società sa che vuoi passare la tua vita con il coniuge.

Ma è il primo passo, necessario affinchè non si crei confusione all’anagrafe quando si chiede chi siano i genitori perché nessuno ha mai fatto un figlio al di fuori del matrimonio, o perché è fisicamente impossibile senza l’autorizzazione del prete, del sindaco o di Elvis.

Sorvolando l’invettiva sul matrimonio e tirando le fila;
Noi, biologicamente, non siamo monogami. Biologicamente abbiamo un pene e una vagina, a seconda di in che sesso biologico capitiamo: instillato nella nostra psiche c’è solo l’idea di ficcare il più possibile dall’età di sedici anni in su.
Ma è anche vero che non siamo neanche poligami.

Ogni giorno, se è il caso e ci sentiamo sicuri, ci svegliamo vicino alla stessa persona e scegliamo di non cambiare vita. Noi scegliamo di seguire un esempio mostrato da molti, ma non abbandoniamo mai la possibilità di metterci la turca in bagno, che sia per un esperimento o per che si hanno delle valide motivazioni per fare la pupù da accovacciati.  

Fortunatamente abbiamo deciso che è più civile una tazza di ceramica bianca collegata a tutte le altre tazze di ceramica bianche attraverso tubature, e non siamo costretti, tanto spesso almeno, a dover squattare per dover fare la cacca, ma conosco molte persone che trovano comoda quella posizione.

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Capitolo 3
*** L'importanza della pizza con l'ananas ***


Ant3

L’importanza della pizza con l’ananas

                 Mentre frequentavo un corso sull’importanza delle ricette in ottica puramente filosofica e antropologica, quindi esulando dal lato gastronomico del cibo in quanto poco rilevante, il ruolo e l’evoluzione del sushi nella cucina degli immigrati giapponesi divenne parte fondamentale del discorso in quanto emblematico del consumo della cultura e della cucina giapponese nel mondo occidentale.

Dopo la seconda guerra mondiale, il cibo giapponese più povero, portato, in termini di conoscenza acquisita e tramandata, dagli immigrati giapponesi in Sudamerica e nelle Hawaii, cambiò, in termini pratici, dovutamente alla presenza, all’assenza o alla sostituzione di ingredienti endemici al luogo di residenza.  In questo modo l’identità del cibo aveva già subito una prima modifica essenziale: si era adattata alla disponibilità degli ingredienti.

La seconda, e con più successo, la terza generazione di emigrati giapponesi aprì i primi ristoranti a San Francisco agli inizi degli anni 50 del 900, trovandosi a gestire un palato di una clientela abituata ad una struttura di pasto drasticamente differente.
La struttura iniziale endemica al territorio giapponese era una struttura che comprendeva una zuppa e tre piatti secondari, ma niente dessert: un qualcosa di essenziale per il palato americano, a fine pasto.
Cambiarono le ricette e la struttura della cultura tradizionale giapponese, una cultura che noi nazionalizziamo per semplificazionismo e ignoranza, dato che non esiste in quanto il Giappone si presenta come insularizzato e regionalizzato, in cui ogni regione geografica ha una particolare peculiarità, sia nella preparazione sia nella metodologia del pasto, ma noi occidentali tendiamo a vedere la nazione. Stessa cosa fecero gli Americani. Negli anni 50 vedevano la cucina “giapponese” come tutto quello che usciva fuori dal Giappone, senza particolare interesse sulla vera natura delle cose.

Il problema con questa non autenticità progressiva della tradizione culinaria giapponese non è tanto un problema quanto uno spunto di riflessione per il nostro trattamento e il nostro atteggiamento, nostro in quanto italiani, della nostra stessa cucina. Forse dovutamente alla nostra spocchia, al nostro essere elitisti con il cibo, ci arroghiamo il diritto, solo ed esclusivamente per continuità territoriale o vicinanza geografica con Napoli, di definire cosa sia pizza e cosa non lo sia: come se anche l’esser di Napoli possa affermare in qualche modo un’autorità inesistente; Il consenso generale è che la pizza con l’ananas sia un abominio senza ragione d’esistere, e questo atteggiamento è sbagliato.

È un atteggiamento elitario e sbagliato, ma necessario. Il cervello umano ha bisogno di ordine, e uno dei modi per creare ordine è dissimulare l’ordine stesso. Quando si costruisce una cosmogonia tribale si tende a dare una giustificazione e un senso a qualsiasi cosa: se si fa finta che un qualcosa sia sempre stato così, allora quella cosa ha perfettamente senso. Le domandone che da piccoli ci facciamo interrogandoci sulla natura del cristianesimo (perché esiste il male se Dio è tanto buono?) sono tentativi di discussione della cosmologia in cui si cresce, domande che non trovano una risposta razionale quanto una giustificazione.

Basti pensare a tutto ciò per cui non sappiamo trovare una ragione o una motivazione se non la frase “è sempre stato così”. Questo non rende l’oggetto della discussione in un qualche modo valido solo perché delle persone sostengono che lo sia: per quanto il valore soggettivo di un concetto naturalizzato sia alto, esso non è valido in ambito prospettivista.

 Persone appartenenti ad una cultura tenderanno a fingere caratteristiche che si considerano esclusive alla cultura al fine di meglio identificarsi, perché è bello potersi identificare, perché identificarci ci fa stare bene, perché porta ordine e costruisce, di giorno in giorno, un ordine, un finto ordine, nelle cose.
Ci si identifica come italiani perché si riconoscono degli elementi necessari all’italianità che diventano individuali. E La pizza è uno di questi elementi. E se si tocca la pizza, si tocca l’ordine naturale delle cose, un’ordine, sembrerò anche ripetitivo, che è naturale solo perché noi l’abbiamo chiamato così, ma che verrà chiamato “tradizionale” o in qualsiasi altro termine che non vorrà dire nulla.

Esattamente come la pizza è molto probabilmente stata un’evoluzione di un piatto più antico, forse importato da altre culture, fino al perfezionamento basato su un “palato italiano” teorico, la pizza con l’ananas è un’evoluzione naturale di un piatto che ha tutto il diritto di esser chiamata pizza per il semplice fatto che è l’evoluzione di un piatto per un palato differente, ma in quanto adattamento ad un palato differente rappresenta la differenza, l’abominio, nel rispetto ad un’idea iperuranica di Pizza come baluardo della società italiana.  Ma è proprio l’idea iperuranica di Pizza che non ha un briciolo di senso compiuto: si vorrebbe immortalare un’idea di un qualcosa di puramente finito e in balia dei processi storici e culinari che la portano, in piccolo o in grande, a subire dei cambiamenti.

Il paradosso è che le persone sono la pizza. Le persone, le identità che noi riteniamo fisse e statiche, sono persone che attraversano processi fisiologico-storico-culturali che li portano, più o meno ogni sette anni, a non essere più le stesse persone.

La questione del palato è molto interessante, perché soprattutto negli ultimi dieci anni si è assistito ad un’evoluzione del palato grazie alla massificazione delle culture estere nel nostro paese, e tutte queste culture hanno modificato il loro essere per vendere il meglio possibile un prodotto che non può mai essere definito in modo statico perché esso si adatterà alla logica del mercato e non a quello che noi definiamo come “tradizionale”, perché come la pizza con il kebab è diventata molto presto uno standard, anche la pizza con l’ananas lo diventerà.

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Capitolo 4
*** Qual è il segreto del Soylent Green? ***


Ant4

Qual è il segreto del Soylent Green?

                 Nel 1973 usciva una sorta di B-movie post apocalittico che dipingeva una New York sovrappopolata e affamata di un certo Soylent Green, un qualcosa simile a un biscottone super proteico fatto di plankton. Era, nell’ottica del film, un sostituivo alimentare completo, e durante il film si scopre che in realtà era fatto di cadaveri. Buonissimi e altamente proteici, a quanto pare.

                 Nel 2013, 40 anni dopo, sul mercato uscì il Soylent...e basta. Un altro sostitutivo alimentare che dovrebbe combattere due problemi: il costo elevato, nel mondo occidentale, di pasti completi e pronti da mangiare, e la mancanza di tempo utile per mangiare. Ovvio, non era il primo sostituivo alimentare, ma fu il primo a marketizzarsi bene.

                 Vista da un’ottica puramente utilitaristica, il Soylent reale è una gran figata. Si propone di eliminare il bisogno di refrigerazione, il bisogno di diversificare una dieta, il bisogno del tempo utile per mangiare perché è una brodaglia ocra che puoi bere in pochi minuti per saziarti. Una dieta composta da solo Soylent è una dieta studiata a tavolino per essere perfetta, è una dieta studiata per essere il più economica possibile (costerebbe solo 1500€ l’anno per tre pasti al giorno) ed è una dieta studiata per avere il minor impatto ambientale possibile, ma tutte le persone che hanno condotto degli esperimenti vivendo per diversi mesi solo di Soylent si sono accorti di un dettaglio fondamentale dell’esperienza del mangiare. La socialità.

                 Molte persone danno per scontata la parte socializzante e unente del cibo quando si pensa al mangiare, però è innegabile che l’esperienza complessiva del nutrirsi sia da considerarsi l’insieme di tutte le componenti. Se il riso fosse liquido, non sarebbe considerato riso, sarebbe considerato in un altro modo, ma non rientrerebbe nell’esperienza gustativa del riso.

                 Ogni volta che mangiamo, difficilmente mangiamo da soli, ad eccezione, ovvio, di casi limite in cui non si può fare a meno di mangiare da soli. L’uomo è fisiologicamente un animale socievole e ha bisogno di parlare degli uomini coccodrillo della metropolitana mentre mangia.

                 Andiamo per ipotetici un paio di paragrafi, come se non lo facessimo mai.
Se a Milano, una località geograficamente localizzata, ci fosse una start-up che fabbricasse non solo diversi beveroni che sostituiscono il pasto completo (quindi una scelta chimicamente perfetta in risposta alla pizza che si può mangiare a pranzo dopo l’università), e questi fossero pure buoni, e oltre al beverone proponesse anche a livello infrastrutturale dei locali in cui ti puoi preparare questi beveroni, come se fossi a casa tua, e nel contempo socializzare con chiunque sia un compagno di beverone in quel momento, e con il tempo questo andrebbe ad essere di uso comune tra tutti coloro che hanno esigenza di tempo o voglia di passare a una dieta semiliquida anche solo per il pranzo, si avrebbero tutti gli elementi fondamentali per poter dichiarare il frullatone di carboidrati, proteine e vitamine tradizionale tanto quanto la pizza o tanto quanto la polenta. Sarebbe geograficamente localizzato, andrebbe ad essere un pasto completo e corrisponderebbe il più possibile ad un esperienza gustativa che esula dalla funzione utilitaristica della nutrizione. L’unico passo che gli mancherebbe sarebbe la continuità temporale, ma questo andrebbe a complicare il discorso in quanto non c’è modo di definire a priori quanto tempo sia necessario perché un qualcosa diventi “naturale” nel luogo d’origine. Se tutti i se portati fino ad adesso venissero rispettati avremmo comunque un’innovazione tecnologica che ci andrebbe a semplificare la vita, ma sarebbe un qualcosa di costruito a tavolino, un qualcosa di autoascritto e dichiarato tradizionale a priori.
Questo è solo un esperimento retorico però.

                 Quello che successe negli anni 60 in Israele non lo è.
Qua non parleremo di Palestina e Israele perché si è fatta una certa ora e rischierei anche di confondermi su cosa è cosa, ma prenderemo soltanto l’esempio del processo storico di sussistenza che il ritorno della Diaspora e della sistematicità con cui hanno annunciato una tradizione culturale. Le mense di alcuni relativi delle nostre cooperative rosse, delle sorte di cooperative agriculturali nazionalizzate, decisero a tavolino cosa fosse tradizionalmente ebreo, se mi perdonate l’uso largo del termine, ovvero, piatti provenienti da altre culture preparati col metodo kosher. Di per sè ha molto senso: non dovrebbe sorprenderci che persone nate e cresciute nell’impero austroungarico non sapessero fare l’hummus.

Stessa cosa successe in Russia durante lo stalinismo, dove, attraverso lo strumento delle mense popolari, si decise a tavolino cosa fosse di origine popolare e cosa si dovesse tradizionalmente mangiare, sia dal punto di vista culturale che dal punto di vista nutrizionale. Ovviamente, sto semplificando in ambo le situazioni.

                 In entrambi i casi si è provveduto a istituzionalizzare delle ricette che, se nel caso di Israele non avevano nulla a che vedere dal punto di vista geografico ma erano dei ricordi della vita europea dei coinvolti nella Diaspora, nel caso della Russia stalinista è stato un livellamento di centosettantunomilioni venticinquemila duecento kilometri quadrati di culture e popolazioni differenti, da San Pietroburgo a Petropavlovsk-Kamčatskij, qualsiasi sia la sua pronuncia, ma furono entrambe delle forzature e delle violenze culturali. Il risultato della Russia però è interessante perché ha esportato piatti come il Goulash anche nei posti dove non era mai stato presente, ma che ora identifichiamo come “tradizionali”, come “endemici” delle nazioni post muro di Berlino.

L’importante è che nel Soylent non ci siano unghie, che mi fanno schifo le unghie degli altri. Le mie sono a posto, sempre fresche, mai pulite.

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Capitolo 5
*** Perché ho ricominciato a drogarmi: ***


Ant5

Perché ho ricominciato a drogarmi:

Ci sono due cose che odio: i viaggi, e i viaggiatori. Ed ecco il resoconto del viaggetto che ho fatto nel parco dietro casa.

                 Ricordo perfettamente quando sentii la necessità: era uno di quei periodi particolarmente brutti. Sia meteorologicamente che emotivamente. Il mio mettermi in discussione e tentare di risolvere i problemi continuando a rimuginarci su fino a che la soluzione non appariva di fronte ai miei occhi mi aveva portato a passare dei giorni in stato catatonico per la mia inabilità di portare a termine qualsiasi cambiamento effettivo e perdurante.

                 La sera prima guardai il meteo. Ci sarebbe stata la prima giornata di sole dopo un lungo inverno.
La mattina quindi mi alzai alle sette, di domenica. Feci il caffè, guardai la dispensa vuota, presi le chiavi di casa e scesi le scale. Girai a sinistra, feci 700 metri in direzione nord. Arrivato davanti al parco presi un respiro, mi allacciai la felpa e cominciai a correre.

                 Feci due km, un intero giro del laghetto del parco, ma nel farli capii due cose molto importanti:

·         Io odio correre

·         Io adoro correre

Intendiamoci: correre mi fa proprio schifo. Sì, tento di mangiare sano e non fare una vita completamente sedentaria, faccio almeno sei mila passi al giorno, non mangio dolci e raramente mi abbuffo, ma le gambe le uso solo per fare gli scalini delle scale mobili a due a due, mica le avevo mai usate per correre. E tutt’ora, che è un po’ che corro, arriva un momento mentre corro che mi fa chiedere chi me l’abbia fatto fare. Che mi fanno male le gambe, mi fa male la milza, mi fa male lo stomaca, mi fanno male gli addominali, che fa freddo, che fa caldo, che le cuffie mi cadono, che fa tutto schifo. Ma in quell’esatto momento son riuscito a trovare una lucidità mentale comune solo ad alcune droghe sperimentali. Agonismo, adrenalina e disidratazione ti portano a pensare, ma non a rimuginare in modo catatonico.

                 Dopo un mesetto, quando ho notato che correre non mi bastava più, ho cominciato ad andare in università in bicicletta. Era una bici senza freno posteriore che incarnava quel one liner di Mark Twain: Get a bycicle. You won’t regret it, if you survive.
Allungava il tempo di percorrenza da casa all’università, era faticoso, era poco pratico e rischiavo di farmi male: erano perfetti motivi per non provare neanche ad andare in università in bici. Ma tenere il telefono in tasca invece che davanti al naso, dover fare i conti con centinaia di imprevisti in una sola giornata e perdersi per Milano mentre si è in ritardo ti insegnano a farti andar bene i pensieri che hai in testa, ti insegnano a conviverci. D’altronde, se sei troppo impegnato a non farti investire non puoi avere una crisi d’identità.

Ad un ceerto punto della primavera del 2018, un mio collega di università mi propose di partecipare a una “critical mass”, in modo molto bonario. Non mi spiegò esattamente cosa fosse una critical mass, in realtà, mi disse solo di presentarmi in piazza Mercanti con la mia bici.

                 Quando arrivai capii perché non mi disse nulla. Definirlo un ritrovo di persone in bicicletta significherebbe sminuire e svalutare il significato dietro a quell’insieme disunito di 500 bicilette e relativi proprietari. Era una sorta di messa a cui ognuno partecipava per motivi differenti, con mezzi di trasporto differenti (non c’erano solo biciclette, ma pattini, longboard, tricicli, risciò) in una sorta di corteo acefalo in cui il sogno anarchico della forza e della responsabilità collettiva si affermavano per quattro ore la settimana. Era a tutti gli effetti quella scena di Fast&Furious Tokyo Drift dove c’è il protagonista nel parcheggio e si vedono tutte le macchine modificate, una più stravagante dell’altra.

In quel momento, ma soprattutto quando mi resi conto della potenza creatrice che un atto del genere può causare, mi sentii non solo vivo, ma parte di un insieme, parte di un collettivo che, per motivi diversi, voleva pedalare per 4 ore in pace senza macchine che disturbavano: ma anche così si rischia di non capire il valore di un qualcosa che è destinato a morire dopo quattro ore, ma che rinasce con intensità sempre crescente la settimana dopo senza alcun tipo di obbligo se non la propria voglia di appagamento di tante motivazioni diverse quante persone compongono una critical mass.

                 Credo che la funzione delle droghe sia proprio questo: evitare di rimuginare per avere una chiarezza utile alla vita, o rimuginare in modo non letale per tentare di avere un corretto funzionamento, o trovare il modo di non rimuginare per poter vivere senza costanti voci.
Ma questo causa non poche ripercussioni. Se io eseguo azioni come correre, pulire casa o andare in bicicletta per evitare di rimuginare, non è un’anestesia alla quale mi sottopongo per evitare di rimanere da solo con me stesso? Se è così, non vado a plasmare delle meta strutture che vanno a rifarsi ad altre meta strutture in cui io penso per evitare di pensare?

                 Fino a che non trovo la risposta a quest’utima domanda, penso continuerò a drogarmi.

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Capitolo 6
*** Ma è tradizione! ***


Ma è tradizione!

Ma è tradizione!

                 Noi “occidentali” siamo quelli evoluti. D’altronde, abbiamo inventato la macchina a vapore, i microchip, l’aria condizionata e il pegging! Dobbiamo essere superiori rispetto agli altri! Gli altri, quelli del terzo mondo, sono ancora bloccati in un altro stage evolutivo, uno stage che si basa su cerimonie ritualistiche, passaggi all’età adulta brutali e violenti, e poi forzano i riti d’iniziazione sui loro figli che non sono in grado di poter dire nulla a riguardo!

                 Guarda i banande, ad esempio. Quando circoncidono i loro figli, lo fanno in mucchio e li lavano nella stessa vasca così “risparmiano” sulla festa. Certo certo, i ragazzi Nande sono grandi e capiscono perfettamente il peso e il significato di quel rito, ma le circoncisioni sono così brutali. Sono selvagge e anti igieniche. Che poi cosa ottieni? Un uccello più appetibile? Più appetibile per chi? Per i loro standard? Certo che noi occidentali potevamo importare qualcosa di meno sanguinoso insieme alle lingue europee e ai campi di lavoro.

                 Poi, pensa ai Kwakiutl. Ogni inverno dimostrano chi è il più abbiente distruggendo oggetti di valore per far vedere a tutti che si può sostenere uno stile di vita di delapidazione continua. Sì, poi si sa che è tutta una farsa e serve per decidere chi è il capo ed è un modo come un altro, ma almeno un po’ di buon senso, bruciare le coperte d’inverno è così stupido!

                 Noi occidentali, che abbiamo dei set di valori veri derivanti dalle sacre scritture, siamo riusciti a creare una società in cui le cerimonie sono sorpassate, a meno che tu non abbia un figlio. In quel caso dovresti farlo battezzare, perché sai, poi mia madre ci rimane male se non lo fai, e il padrino fallo fare a tuo zio che almeno lo risenti che sono un po’ di mesi che non gli chiedi neanche come sta. Però prima che il bimbo nasca dovreste sposarvi, sai, in Chiesa, non in comune, perché almeno facciamo la festa. E dovresti invitare anche quei parenti che non vedi da vent’anni. Anzi, prima dovresti informarti quanti ne sono rimasti, anzi no, facciamo che sono tutti vivi così almeno chiediamo già il preventivo del catering con tre primi e tre secondi e apriamo un prestito, mica vogliamo fare brutta figura, poi se ce non viene qualcuno non è un problema, tanto ci penserà il ristorante. Come non credi? Ma perché? Ma è tradizione!

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