Antologia delle psicosi umane di MarcoBacchella (/viewuser.php?uid=239738)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non finito come risoluzione ultima dell'artista ***
Capitolo 2: *** Il WC ***
Capitolo 3: *** L'importanza della pizza con l'ananas ***
Capitolo 4: *** Qual è il segreto del Soylent Green? ***
Capitolo 5: *** Perché ho ricominciato a drogarmi: ***
Capitolo 6: *** Ma è tradizione! ***
Capitolo 1 *** Non finito come risoluzione ultima dell'artista ***
Ant1
Questo
saggio è parzialmente autobiografico.
Descrive
i miei tentativi, nel corso degli ultimi anni, di trovare un modo soddisfacente
è incompleto, nel senso che non posso certo affermare di aver già trovato, o
che mai troverò, risposte definitive alle domande che mi assillano.
Infatti,
se una delle conclusioni principali di ciò che espongo è qui è che i fini o gli
obiettivi non sono che delle pietre miliari lungo un percorso, questo deve
valere anche per il mio stesso pensiero e per la mia scrittura, come per tutto
ciò che la gente fa. L’aspetto fondamentale della vita è che non comincia qui e
finisce lì, ma che continua sempre.
-Tim Ingold
Non finito come risoluzione ultima
dell’identità dell’artista
Solitamente
le introduzioni vanno scritte dopo aver definito il resto del testo.
Magari dopo aver definito il genere, la trama, la struttura del testo
stesso, ma non avendo un vero e proprio testo in quanto sto scrivendo questo
proemio ben prima di aver scritto una singola parola, posso già dire di esser
partito male.
Quando
Machiavelli scrive i discorsi sulla prima deca di Tito Livio, scrive quello che
poi sarebbe stato un "non finito". Non è del tutto chiaro se fosse
una cosa volontaria: sia per una questione logistica, dato che il testo si basa
su una serie di testi di natura frammentaria dato che ci pervengono solo alcune
parti del manoscritto originario, sia perché, si presume, il Nick avesse
bisogno di finire quel lavoro.
I
discorsi sono una serie di ragionamenti scritti senza un particolar Labor
Limae, senza una struttura basata su degli eventuali precedenti di genere
letterario, in quanto erano chiaramente un’avanguardia che Machiavelli
proponeva, e risultano pieni di contraddizioni, disuniti, senza un fine
chiaro.
Il Nick propone un nuovo genere letterario per una nuova teoria politica:
questo è indubbio e la teoria stessa rappresenta la validità dell'opera, ma
dopo anni di lavoro, a seconda del critico di riferimento ci saranno date di
scrittura diverse che variano anche di decine di anni, Machiavelli ha necessità
di terminare i suoi ragionamenti. Un bisogno fisiologico dell'autore che,
esaurite le idee e la voglia di lavorare su un testo che non permette più
espressione all'autore stesso, sia per una questione di genere letterario, sia
per una questione di predisposizione mentale. Per capire il tipo di avanguardia
che il Nick propone, per metterle sott’ottica più moderna, si può vedere come
le avanguardie musicali di oggi soffrano dello stesso problema: non fanno tempo
ad affinare il loro stile che lo stile stesso muta per diventare qualcos’altro:
è l’unica discriminante dell’indie italiano, del cosiddetto “ITpop”, la possibilità che ci sia
un’avanguardia artistica come fulcro stesso della validità del prodotto, quanto
non l’esperienza dell’artista o la qualità finale dell’opera.
La
critica si scanna su un altro artista contemporaneo al Nick repubblicano, il
Michelangelo.
Michelangelo, che sia per una
questione caratteriale, quindi perché perdeva continuamente interesse nelle
commissioni, o per una questione artistico-espressiva in cui il non finito
diventa veicolo e strumento di espressione artistica, o per una questione
logistica in cui il tempo materiale per completare l'opera non era sufficiente,
quindi si era inventato sta roba del non finito come supercazzola, come farà
poi Duchamp con i baffi alla Gioconda o come quando mise un cesso nel museo, è
diventato famoso grazie al non finito.
Io sono più propenso alla prima
ipotesi, ma per una ragione semplice: il Mike, prima di essere un artista, era
un umano.
In
quanto umano, è plausibile proporre che fosse annoiato dalla vita, che avesse
dei periodi più o meno bui, che sentisse, prima ancora dell'arte, la tristezza.
C'è addirittura qualcuno che ha proposto che potesse avere la sindrome di
Asperger. La continua insoddisfazione, associata all'irascibilità per cui era
quasi famoso, sembrerebbero confermare.
Anche
il signor Da Vinci, a prescindere da tutte le teorie complottistiche che lo
vedono come un alieno, soffriva del non finito. Il Leo diede pochi risultati in
moltissimi campi, saltando come un poeta universale dalla medicina
all'aerodinamica, dalla gastronomia alla scienza dell'elastico delle mutande,
ma alcuni critici, soprattutto quelli a cui frega qualcosa dell'analisi del non
finito, notano come la causa sia, forse, da ricercare nella rincorsa
scientifica che in quel tempo c'era: il nostro amico alieno non riusciva a
definire una teoria sulla luce che arrivavano nuove osservazioni,
osservazioni e ipotesi dall'altra parte
del mondo.
Leonardo soffriva dell'incapacità tecnica di rappresentare quello che
formulava, e non faceva tempo a trovare il modo di formularla che già aveva
perso la voglia di pensare perché qualcun altro aveva scoperto qualche cosa.
Il
titolo di "insoddisfatto", nel 1517, poteva essere applicato ad uno
scrittore che non riuscì a completare una serie di ragionamenti senza
contraddizioni, ad un'artista che non riuscì a terminare le sue sculture, e ad
uno studioso che non riuscì a terminare i suoi studi. Io posso solo dire che, per demotivazione, mi
son ritrovato a non finire testi per cui ero partito con idee chiare, con trame
unitarie, in cui avevo già delineato anche il finale. Ecco, per evitare di
finire come insoddisfatto in quanto riconosco la pura caratteristica umana del non
finito come strumento espressivo o semplice scusa psicologia, mi propongo
di mai iniziare.
Dico, mai inizierò a scrivere un
testo unitario seguendo canoni letterari predisposti da altri che tanto sono
troppo pigro per portare a termine tutte ste cose.
Preferisco finire un non finito
disunito che un finito privo di limature che ho dovuto finire per essere felice
con me stesso.
Son tutti bravi a finire qualcosa
con una trama ben definita e degli obiettivi chiari, ma di per sé non
rappresentano affatto in modo chiaro i processi mentali di una persona, o gli
obiettivi a dir poco non finalistici di questo testo.
Uno
dei frammenti secondo me più importanti che valida la mia idea di non finito
come unica soluzione possibile per rappresentare al meglio la struttura
dell’evoluzione del pensiero di una persona è tratta direttamente da
Machiavelli, e l’ho scoperta grazie ad una parafrasi di un capitolo del
Principe dell’introduzione a Machiavelli di Emanuele Cutinelli-Rendina: la realtà umana è strutturalmente varia,
mutabile, insicura, perché vari, instabili e insicuri sono e si sentono gli
uomini: e il loro naturale tentativo di contenere e volgere a proprio vantaggio
l’immane potenziale negativo che è in questo dato fondamentale della condizioni
in cui si trovano non fa che confermarla e rimettere continuamente in moto il
flusso della storia.
Il mio grande tentativo è quindi quello di riconoscere perfettamente che ogni
tentativo di rendere immutabile il mio pensiero è vano e non perseguibile, ma
da qui parto per mettermi in discussione e sfruttare una crisi d’identità
oramai perenne per venire a capo di argomenti che io ritengo importanti per lo
sviluppo della mia psiche, e da qui possiamo continuare a dire che il mio è
nulla più che un esempio privo di validità fino a che non si dimostra valido.
Frequentando
un paio di lezioni di Antropologia tenute da un certo Allovio, un professore
che secondo me somiglia molto a Pietro Sermonti, si è evidenziato come in tutte
le identità culturali, tutte le etnie in termini puramente culturali e non
biologici, si fondano sull’autoascrizione alla stessa etnia di alcune
caratteristiche comuni al tuo essere, e che queste caratteristiche, identificate
nel pool delle stesse, dichiarate
essenziali all’etnia, mutano per processi storici.
Come queste caratteristiche mutano, muta l’identità dell’etnia per perdurare
nel tempo. Allo stesso modo, l’identità personale muta per il mutare delle
caratteristiche personali. Un libro che vuole essere l’espressione di un
pensiero diventa quindi un non finito per esigenza, un non finito per
l’impossibilità di esprimere finitezza, già datato e non finito nel momento
stesso in cui diventa parola, in cui diventa espressione.
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Capitolo 2 *** Il WC ***
Ant2
Il WC
Il
water è uno degli elementi che pone più in dificoltà il nostro organismo. La
posizione seduta in generale è una posizione a cui il nostro corpo deve
abituarsi. Ma il water e le sedie sono cose che abbiamo ritenuto più comodi
piuttosto che fare la pupù al lato della strada accovacciati o stare in piedi,
anche se fare la pupuù accovacciati sarebbe la cosa più anatomicamente
corretta. Non la più igienica, ma la più corretta.
Nei
pochi secoli trascorsi da cui abbiamo inventato la toilette ad adesso il nostro
corpo non ha subito dei cambiamenti tali per cui ci è consono fare la cacca da
seduti, e tutt’oggi la posizione ideale sarebbe quella che si assume nella
turca della stazione con la porta senza chiave: accovacciati, con una mano ci
si tiene i pantaloni, con l’altra si tiene la porta, con la mente si prega di
non cagarsi per sbaglio sui piedi. Deo gratia, i water sono più diffusi, li
abbiamo considerati la scelta più civile nel pool totale di scelte che potevamo
prendere.
La
monogamia è essenzialmente la stessa roba.
In questa parte del globo si cresce sapendo che ci si deve trovare un partner e con quel partner vivere la
propria vita.
La società è costruita su un modello di famiglia composto da due persone e dal
loro prodotto, ci insegnano che è il modello perfetto di vita, che è il modello
ideale e naturale per poter procreare. Ma non è che una menzogna.
È
un modello semplice, indubbiamente: se c’è solo un padre e una madre non si
dovrà litigare troppo per nomi e cognomi, ma è solo semplice a livello
burocratico, e se si continua a offrire
il modello monogamico come unico modello di vita possibile si perpetra una
menzogna.
Ora,
abbassate torcie e forconi. La monogamia in sè non è una menzogna, ma una
scelta: la scelta personale di essere monogami non è una menzogna, bensì un
atto di fede e fiducia nei confronti del partner e come tale va rispettata come
ogni singola scelta che una persona può prendere nel corso della propria vita. Ma
noi non siamo arrivati alla
monogamia, non l’abbiamo scelta, per
la maggior parte dei casi che incontriamo ogni giorno: siamo condizionati e
siamo “addestrati”, se mi perdonate il termine quasi distopico, alla monogamia,
perché ogni altra forma di relazione è “complicata”.
La
monogamia occidentale e il suo risultato, il matrimonio, sono operazioni di
marketing finite particolarmente bene.
Il matrimonio, fino a duecento anni fa, era una catena con cui ci si legava
alla famiglia del coniuge per aumentare il proprio valore: fortunatamente
questa visione utilitaristica del rito è caduta in disuso, ma abbiamo dovuto inserire
l’amore nell’equazione per poter vender meglio la roba, e ora ci si sposa solo
per amore... e per dimostrare che ci si ama ci si indebita per tirare una festa
in cui i testimoni e le damigelle si scopano a vicenda, le quattro nonne
ottantenni sono ubriache già da prima mattina e il tuo fratellino è dietro la
chiesa a fumare di nascosto, sempre che non sia il tuo testimone e non si stia
sbattendo la damigella.
Solo
dopo due ore di predica vi amate ufficialmente: solo dopo il quarto primo e il
quinto secondo tutti i tuoi conoscenti sanno che ami il tuo partner, solo dopo
aver dilapidato i risparmi di due famiglie con le tovaglie in pizzo
irremediabilmente macchiate di vino rosso la società sa che vuoi passare la tua
vita con il coniuge.
Ma
è il primo passo, necessario affinchè non si crei confusione all’anagrafe
quando si chiede chi siano i genitori perché nessuno ha mai fatto un figlio al
di fuori del matrimonio, o perché è fisicamente impossibile senza
l’autorizzazione del prete, del sindaco o di Elvis.
Sorvolando
l’invettiva sul matrimonio e tirando le fila;
Noi, biologicamente, non siamo monogami. Biologicamente abbiamo un pene e una
vagina, a seconda di in che sesso biologico capitiamo: instillato nella nostra
psiche c’è solo l’idea di ficcare il più possibile dall’età di sedici anni in
su.
Ma è anche vero che non siamo neanche poligami.
Ogni
giorno, se è il caso e ci sentiamo sicuri, ci svegliamo vicino alla stessa
persona e scegliamo di non cambiare vita. Noi scegliamo di seguire un esempio
mostrato da molti, ma non abbandoniamo mai la possibilità di metterci la turca
in bagno, che sia per un esperimento o per che si hanno delle valide
motivazioni per fare la pupù da accovacciati.
Fortunatamente
abbiamo deciso che è più civile una tazza di ceramica bianca collegata a tutte
le altre tazze di ceramica bianche attraverso tubature, e non siamo costretti,
tanto spesso almeno, a dover squattare per dover fare la cacca, ma conosco
molte persone che trovano comoda quella posizione.
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Capitolo 3 *** L'importanza della pizza con l'ananas ***
Ant3
L’importanza della pizza con l’ananas
Mentre
frequentavo un corso sull’importanza delle ricette in ottica puramente
filosofica e antropologica, quindi esulando dal lato gastronomico del cibo in
quanto poco rilevante, il ruolo e l’evoluzione del sushi nella cucina degli
immigrati giapponesi divenne parte fondamentale del discorso in quanto
emblematico del consumo della cultura e della cucina giapponese nel mondo
occidentale.
Dopo
la seconda guerra mondiale, il cibo giapponese più povero, portato, in termini
di conoscenza acquisita e tramandata, dagli immigrati giapponesi in Sudamerica
e nelle Hawaii, cambiò, in termini pratici, dovutamente alla presenza, all’assenza
o alla sostituzione di ingredienti endemici al luogo di residenza. In questo modo l’identità del cibo aveva già
subito una prima modifica essenziale: si era adattata alla disponibilità degli
ingredienti.
La
seconda, e con più successo, la terza generazione di emigrati giapponesi aprì i
primi ristoranti a San Francisco agli inizi degli anni 50 del 900, trovandosi a
gestire un palato di una clientela abituata ad una struttura di pasto
drasticamente differente.
La struttura iniziale endemica al territorio giapponese era una struttura che
comprendeva una zuppa e tre piatti secondari, ma niente dessert: un qualcosa di
essenziale per il palato americano, a fine pasto.
Cambiarono le ricette e la struttura della cultura tradizionale giapponese, una
cultura che noi nazionalizziamo per semplificazionismo e ignoranza, dato che
non esiste in quanto il Giappone si presenta come insularizzato e
regionalizzato, in cui ogni regione geografica ha una particolare peculiarità,
sia nella preparazione sia nella metodologia del pasto, ma noi occidentali
tendiamo a vedere la nazione. Stessa cosa fecero gli Americani. Negli anni 50
vedevano la cucina “giapponese” come tutto quello che usciva fuori dal
Giappone, senza particolare interesse sulla vera natura delle cose.
Il
problema con questa non autenticità progressiva della tradizione culinaria
giapponese non è tanto un problema quanto uno spunto di riflessione per il
nostro trattamento e il nostro atteggiamento, nostro in quanto italiani, della
nostra stessa cucina. Forse dovutamente alla nostra spocchia, al nostro essere
elitisti con il cibo, ci arroghiamo il diritto, solo ed esclusivamente per
continuità territoriale o vicinanza geografica con Napoli, di definire cosa sia
pizza e cosa non lo sia: come se anche l’esser di Napoli possa affermare in
qualche modo un’autorità inesistente; Il consenso generale è che la pizza con
l’ananas sia un abominio senza ragione d’esistere, e questo atteggiamento è
sbagliato.
È
un atteggiamento elitario e sbagliato, ma necessario. Il cervello umano ha
bisogno di ordine, e uno dei modi per creare ordine è dissimulare l’ordine
stesso. Quando si costruisce una cosmogonia tribale si tende a dare una
giustificazione e un senso a qualsiasi cosa: se si fa finta che un qualcosa sia
sempre stato così, allora quella cosa ha perfettamente senso. Le domandone che
da piccoli ci facciamo interrogandoci sulla natura del cristianesimo (perché
esiste il male se Dio è tanto buono?) sono tentativi di discussione della
cosmologia in cui si cresce, domande che non trovano una risposta razionale
quanto una giustificazione.
Basti
pensare a tutto ciò per cui non sappiamo trovare una ragione o una motivazione
se non la frase “è sempre stato così”.
Questo non rende l’oggetto della discussione in un qualche modo valido solo
perché delle persone sostengono che lo sia: per quanto il valore soggettivo di
un concetto naturalizzato sia alto, esso non è valido in ambito prospettivista.
Persone appartenenti ad una cultura tenderanno
a fingere caratteristiche che si considerano esclusive alla cultura al fine di
meglio identificarsi, perché è bello potersi identificare, perché identificarci
ci fa stare bene, perché porta ordine e costruisce, di giorno in giorno, un
ordine, un finto ordine, nelle cose.
Ci si identifica come italiani perché si riconoscono degli elementi necessari
all’italianità che diventano individuali. E La pizza è uno di questi elementi. E
se si tocca la pizza, si tocca l’ordine naturale delle cose, un’ordine,
sembrerò anche ripetitivo, che è naturale solo perché noi l’abbiamo chiamato
così, ma che verrà chiamato “tradizionale” o in qualsiasi altro termine che non
vorrà dire nulla.
Esattamente
come la pizza è molto probabilmente stata un’evoluzione di un piatto più
antico, forse importato da altre culture, fino al perfezionamento basato su un
“palato italiano” teorico, la pizza con l’ananas è un’evoluzione naturale di un
piatto che ha tutto il diritto di esser chiamata pizza per il semplice fatto
che è l’evoluzione di un piatto per un palato differente, ma in quanto
adattamento ad un palato differente rappresenta la differenza, l’abominio,
nel rispetto ad un’idea iperuranica di Pizza come baluardo della società
italiana. Ma è proprio l’idea
iperuranica di Pizza che non ha un briciolo di senso compiuto: si vorrebbe
immortalare un’idea di un qualcosa di puramente finito e in balia dei processi
storici e culinari che la portano, in piccolo o in grande, a subire dei
cambiamenti.
Il
paradosso è che le persone sono la pizza. Le persone, le identità che noi
riteniamo fisse e statiche, sono persone che attraversano processi
fisiologico-storico-culturali che li portano, più o meno ogni sette anni, a non
essere più le stesse persone.
La
questione del palato è molto interessante, perché soprattutto negli ultimi
dieci anni si è assistito ad un’evoluzione del palato grazie alla
massificazione delle culture estere nel nostro paese, e tutte queste culture
hanno modificato il loro essere per vendere il meglio possibile un prodotto che
non può mai essere definito in modo statico perché esso si adatterà alla logica
del mercato e non a quello che noi definiamo come “tradizionale”, perché come
la pizza con il kebab è diventata molto presto uno standard, anche la pizza con
l’ananas lo diventerà.
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Capitolo 4 *** Qual è il segreto del Soylent Green? ***
Ant4
Qual è il segreto del Soylent Green?
Nel
1973 usciva una sorta di B-movie post apocalittico che dipingeva una New York
sovrappopolata e affamata di un certo Soylent
Green, un qualcosa simile a un biscottone super proteico fatto di plankton.
Era, nell’ottica del film, un sostituivo alimentare completo, e durante il film
si scopre che in realtà era fatto di cadaveri. Buonissimi e altamente proteici,
a quanto pare.
Nel
2013, 40 anni dopo, sul mercato uscì il Soylent...e
basta. Un altro sostitutivo alimentare che dovrebbe combattere due problemi: il
costo elevato, nel mondo occidentale, di pasti completi e pronti da mangiare, e
la mancanza di tempo utile per mangiare. Ovvio, non era il primo sostituivo
alimentare, ma fu il primo a marketizzarsi bene.
Vista
da un’ottica puramente utilitaristica, il Soylent reale è una gran figata. Si
propone di eliminare il bisogno di refrigerazione, il bisogno di diversificare
una dieta, il bisogno del tempo utile per mangiare perché è una brodaglia ocra
che puoi bere in pochi minuti per saziarti. Una dieta composta da solo Soylent
è una dieta studiata a tavolino per essere perfetta, è una dieta studiata per
essere il più economica possibile (costerebbe solo 1500€ l’anno per tre pasti
al giorno) ed è una dieta studiata per avere il minor impatto ambientale
possibile, ma tutte le persone che hanno condotto degli esperimenti vivendo per
diversi mesi solo di Soylent si sono accorti di un dettaglio fondamentale
dell’esperienza del mangiare. La socialità.
Molte
persone danno per scontata la parte socializzante e unente del cibo quando si
pensa al mangiare, però è innegabile che l’esperienza complessiva del nutrirsi
sia da considerarsi l’insieme di tutte le componenti. Se il riso fosse liquido,
non sarebbe considerato riso, sarebbe considerato in un altro modo, ma non
rientrerebbe nell’esperienza gustativa del riso.
Ogni
volta che mangiamo, difficilmente mangiamo da soli, ad eccezione, ovvio, di
casi limite in cui non si può fare a meno di mangiare da soli. L’uomo è
fisiologicamente un animale socievole e ha bisogno di parlare degli uomini
coccodrillo della metropolitana mentre mangia.
Andiamo
per ipotetici un paio di paragrafi, come se non lo facessimo mai.
Se a Milano, una località geograficamente localizzata, ci fosse una start-up
che fabbricasse non solo diversi beveroni che sostituiscono il pasto completo
(quindi una scelta chimicamente perfetta in risposta alla pizza che si può
mangiare a pranzo dopo l’università), e questi fossero pure buoni, e oltre al
beverone proponesse anche a livello infrastrutturale dei locali in cui ti puoi
preparare questi beveroni, come se fossi a casa tua, e nel contempo socializzare
con chiunque sia un compagno di beverone in quel momento, e con il tempo questo
andrebbe ad essere di uso comune tra tutti coloro che hanno esigenza di tempo o
voglia di passare a una dieta semiliquida anche solo per il pranzo, si
avrebbero tutti gli elementi fondamentali per poter dichiarare il frullatone di
carboidrati, proteine e vitamine tradizionale tanto quanto la pizza o tanto
quanto la polenta. Sarebbe geograficamente localizzato, andrebbe ad essere un
pasto completo e corrisponderebbe il più possibile ad un esperienza gustativa
che esula dalla funzione utilitaristica della nutrizione. L’unico passo che gli
mancherebbe sarebbe la continuità temporale, ma questo andrebbe a complicare il
discorso in quanto non c’è modo di definire a priori quanto tempo sia
necessario perché un qualcosa diventi “naturale” nel luogo d’origine. Se tutti
i se portati fino ad adesso venissero rispettati avremmo comunque
un’innovazione tecnologica che ci andrebbe a semplificare la vita, ma sarebbe
un qualcosa di costruito a tavolino, un qualcosa di autoascritto e dichiarato
tradizionale a priori.
Questo è solo un esperimento retorico però.
Quello
che successe negli anni 60 in Israele non lo è.
Qua non parleremo di Palestina e Israele perché si è fatta una certa ora e
rischierei anche di confondermi su cosa è cosa, ma prenderemo soltanto
l’esempio del processo storico di sussistenza che il ritorno della Diaspora e
della sistematicità con cui hanno annunciato una tradizione culturale. Le mense
di alcuni relativi delle nostre cooperative rosse, delle sorte di cooperative
agriculturali nazionalizzate, decisero a tavolino cosa fosse tradizionalmente ebreo, se mi perdonate l’uso largo del
termine, ovvero, piatti provenienti da altre culture preparati col metodo
kosher. Di per sè ha molto senso: non dovrebbe sorprenderci che persone nate e
cresciute nell’impero austroungarico non sapessero fare l’hummus.
Stessa
cosa successe in Russia durante lo stalinismo, dove, attraverso lo strumento
delle mense popolari, si decise a tavolino cosa fosse di origine popolare e
cosa si dovesse tradizionalmente mangiare, sia dal punto di vista culturale che
dal punto di vista nutrizionale. Ovviamente, sto semplificando in ambo le
situazioni.
In
entrambi i casi si è provveduto a istituzionalizzare delle ricette che, se nel
caso di Israele non avevano nulla a che vedere dal punto di vista geografico ma
erano dei ricordi della vita europea dei coinvolti nella Diaspora, nel caso
della Russia stalinista è stato un livellamento di centosettantunomilioni
venticinquemila duecento kilometri quadrati di culture e popolazioni
differenti, da San Pietroburgo a Petropavlovsk-Kamčatskij, qualsiasi sia la sua
pronuncia, ma furono entrambe delle forzature e delle violenze culturali. Il
risultato della Russia però è interessante perché ha esportato piatti come il
Goulash anche nei posti dove non era mai stato presente, ma che ora
identifichiamo come “tradizionali”, come “endemici” delle nazioni post muro di
Berlino.
L’importante
è che nel Soylent non ci siano unghie, che mi fanno schifo le unghie degli
altri. Le mie sono a posto, sempre fresche, mai pulite.
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Capitolo 5 *** Perché ho ricominciato a drogarmi: ***
Ant5
Perché ho ricominciato a drogarmi:
Ci
sono due cose che odio: i viaggi, e i viaggiatori. Ed ecco il resoconto del
viaggetto che ho fatto nel parco dietro casa.
Ricordo
perfettamente quando sentii la necessità: era uno di quei periodi
particolarmente brutti. Sia meteorologicamente che emotivamente. Il mio
mettermi in discussione e tentare di risolvere i problemi continuando a
rimuginarci su fino a che la soluzione non appariva di fronte ai miei occhi mi
aveva portato a passare dei giorni in stato catatonico per la mia inabilità di
portare a termine qualsiasi cambiamento effettivo e perdurante.
La
sera prima guardai il meteo. Ci sarebbe stata la prima giornata di sole dopo un
lungo inverno.
La mattina quindi mi alzai alle sette, di domenica. Feci il caffè, guardai la
dispensa vuota, presi le chiavi di casa e scesi le scale. Girai a sinistra,
feci 700 metri in direzione nord. Arrivato davanti al parco presi un respiro,
mi allacciai la felpa e cominciai a correre.
Feci
due km, un intero giro del laghetto del parco, ma nel farli capii due cose
molto importanti:
·
Io odio correre
·
Io adoro correre
Intendiamoci: correre mi fa proprio
schifo. Sì, tento di mangiare sano e non fare una vita completamente sedentaria,
faccio almeno sei mila passi al giorno, non mangio dolci e raramente mi
abbuffo, ma le gambe le uso solo per fare gli scalini delle scale mobili a due
a due, mica le avevo mai usate per correre. E tutt’ora, che è un po’ che corro,
arriva un momento mentre corro che mi fa chiedere chi me l’abbia fatto fare.
Che mi fanno male le gambe, mi fa male la milza, mi fa male lo stomaca, mi
fanno male gli addominali, che fa freddo, che fa caldo, che le cuffie mi
cadono, che fa tutto schifo. Ma in quell’esatto momento son riuscito a trovare
una lucidità mentale comune solo ad alcune droghe sperimentali. Agonismo,
adrenalina e disidratazione ti portano a pensare, ma non a rimuginare in modo
catatonico.
Dopo
un mesetto, quando ho notato che correre non mi bastava più, ho cominciato ad
andare in università in bicicletta. Era una bici senza freno posteriore che
incarnava quel one liner di Mark Twain: Get
a bycicle. You won’t regret it, if you survive.
Allungava il tempo di percorrenza da casa all’università, era faticoso, era
poco pratico e rischiavo di farmi male: erano perfetti motivi per non provare
neanche ad andare in università in bici. Ma tenere il telefono in tasca invece
che davanti al naso, dover fare i conti con centinaia di imprevisti in una sola
giornata e perdersi per Milano mentre si è in ritardo ti insegnano a farti
andar bene i pensieri che hai in testa, ti insegnano a conviverci. D’altronde,
se sei troppo impegnato a non farti investire non puoi avere una crisi
d’identità.
Ad
un ceerto punto della primavera del 2018, un mio collega di università mi
propose di partecipare a una “critical
mass”, in modo molto bonario. Non mi spiegò esattamente cosa fosse una
critical mass, in realtà, mi disse solo di presentarmi in piazza Mercanti con
la mia bici.
Quando
arrivai capii perché non mi disse nulla. Definirlo un ritrovo di persone in
bicicletta significherebbe sminuire e svalutare il significato dietro a
quell’insieme disunito di 500 bicilette e relativi proprietari. Era una sorta
di messa a cui ognuno partecipava per motivi differenti, con mezzi di trasporto
differenti (non c’erano solo biciclette, ma pattini, longboard, tricicli,
risciò) in una sorta di corteo acefalo in cui il sogno anarchico della forza e della
responsabilità collettiva si affermavano per quattro ore la settimana. Era a
tutti gli effetti quella scena di Fast&Furious Tokyo Drift dove c’è il
protagonista nel parcheggio e si vedono tutte le macchine modificate, una più
stravagante dell’altra.
In
quel momento, ma soprattutto quando mi resi conto della potenza creatrice che
un atto del genere può causare, mi sentii non solo vivo, ma parte di un
insieme, parte di un collettivo che, per motivi diversi, voleva pedalare per 4
ore in pace senza macchine che disturbavano: ma anche così si rischia di non
capire il valore di un qualcosa che è destinato a morire dopo quattro ore, ma che
rinasce con intensità sempre crescente la settimana dopo senza alcun tipo di
obbligo se non la propria voglia di appagamento di tante motivazioni diverse
quante persone compongono una critical mass.
Credo
che la funzione delle droghe sia proprio questo: evitare di rimuginare per
avere una chiarezza utile alla vita, o rimuginare in modo non letale per
tentare di avere un corretto funzionamento, o trovare il modo di non rimuginare
per poter vivere senza costanti voci.
Ma questo causa non poche ripercussioni. Se io eseguo azioni come correre,
pulire casa o andare in bicicletta per evitare di rimuginare, non è
un’anestesia alla quale mi sottopongo per evitare di rimanere da solo con me
stesso? Se è così, non vado a plasmare delle meta strutture che vanno a rifarsi
ad altre meta strutture in cui io penso per evitare di pensare?
Fino
a che non trovo la risposta a quest’utima domanda, penso continuerò a drogarmi.
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Capitolo 6 *** Ma è tradizione! ***
Ma è tradizione!
Ma è tradizione!
Noi
“occidentali” siamo quelli evoluti. D’altronde, abbiamo inventato la macchina a
vapore, i microchip, l’aria condizionata e il pegging! Dobbiamo essere superiori rispetto agli altri! Gli altri, quelli
del terzo mondo, sono ancora bloccati in un altro stage evolutivo, uno stage
che si basa su cerimonie ritualistiche, passaggi all’età adulta brutali e
violenti, e poi forzano i riti d’iniziazione sui loro figli che non sono in
grado di poter dire nulla a riguardo!
Guarda
i banande, ad esempio. Quando circoncidono i loro figli, lo fanno in mucchio e
li lavano nella stessa vasca così “risparmiano” sulla festa. Certo certo, i
ragazzi Nande sono grandi e capiscono perfettamente il peso e il significato di
quel rito, ma le circoncisioni sono così brutali. Sono selvagge e anti igieniche.
Che poi cosa ottieni? Un uccello più appetibile? Più appetibile per chi? Per i
loro standard? Certo che noi occidentali potevamo importare qualcosa di meno
sanguinoso insieme alle lingue europee e ai campi di lavoro.
Poi,
pensa ai Kwakiutl. Ogni inverno dimostrano chi è il più abbiente distruggendo
oggetti di valore per far vedere a tutti che si può sostenere uno stile di vita
di delapidazione continua. Sì, poi si sa che è tutta una farsa e serve per
decidere chi è il capo ed è un modo come un altro, ma almeno un po’ di buon
senso, bruciare le coperte d’inverno è così stupido!
Noi
occidentali, che abbiamo dei set di valori veri derivanti dalle sacre
scritture, siamo riusciti a creare una società in cui le cerimonie sono
sorpassate, a meno che tu non abbia un figlio. In quel caso dovresti farlo
battezzare, perché sai, poi mia madre ci rimane male se non lo fai, e il
padrino fallo fare a tuo zio che almeno lo risenti che sono un po’ di mesi che
non gli chiedi neanche come sta. Però prima che il bimbo nasca dovreste sposarvi,
sai, in Chiesa, non in comune, perché almeno facciamo la festa. E dovresti
invitare anche quei parenti che non vedi da vent’anni. Anzi, prima dovresti
informarti quanti ne sono rimasti, anzi no, facciamo che sono tutti vivi così
almeno chiediamo già il preventivo del catering con tre primi e tre secondi e
apriamo un prestito, mica vogliamo fare brutta figura, poi se ce non viene
qualcuno non è un problema, tanto ci penserà il ristorante. Come non credi? Ma perché?
Ma è tradizione!
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