Quello che so fare meglio

di Nina Ninetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** "Volgograd" ***
Capitolo 2: *** “La Madre Russia” ***
Capitolo 3: *** “Gloria in excelsis Deo” ***



Capitolo 1
*** "Volgograd" ***


Quello che so fare meglio

 

Capitolo 1 “Volgograd”

 
La dicitura in caratteri cubitali in lingua cirillica citava Memorial – Historical Museum di Volgograd. Si trattava di una piccola costruzione in mattoni rossi con il tetto verde, di forma triangolare. Di fronte a essa il fiume che attraversa la città - ispirandone il nome - era immobile, quasi ghiacciato, dello stesso colore plumbeo del cielo dicembrino. La neve aveva smesso di cadere, ma il meteo non preannunciava nessuna tregua: l’inverno russo aveva stretto nella sua morsa l’intero Paese e la gente aveva già iniziato a fare scorte di viveri. Le luci natalizie si riflettevano nei vetri delle abitazioni, spiccando fra i rami rinsecchiti e carichi di neve delle piante lungo il bordo della strada.
Nina Williams chiuse anche l’ultimo bottone del lungo cappotto scuro quando una folata di vento improvvisa la fece rabbrividire; si acconciò il colbacco di pelliccia sui capelli biondi e tirò i guanti di velluto nero per farli aderire meglio alle dita sottili e affusolate.
Una vecchietta si scaldava le mani tremanti sul fuoco dove cuoceva caldarroste grosse quanto una ghianda. Accorgendosi dell’affascinante donna bionda passarle accanto, diretta all’entrata del museo, le allungò una castagna fumante. Nina notò le dita rosse e screpolate dal gelo, coperte fino alla seconda falange da logori guanti marroni di lana, i capelli sporchi e grigi erano coperti da un vecchio cappello dello stesso materiale. Gli sguardi si incontrarono a metà strada, ma Nina andò oltre, salendo i pochi gradini che la separavano dall’ingresso del museo come se si muovesse su una passerella di moda, piano e sinuosa. Estremamente elegante.
All’interno l’atmosfera si fece accogliente e tiepida. La donna si liberò del cappello e dei guanti, slacciando gli alamari del cappotto lanciò un’occhiata furtiva al gruppo di uomini che la precedeva per recarsi nella stanza alla fine del corridoio. Fumavano sigari e ridevano. Nina li seguì silenziosa, muovendosi come un felino sulla moquette blu cobalto, i passi ovattati e leggeri. Non le fu difficile individuare la sua nuova vittima: Lukin Novikov, 55 anni, uno dei magnati russi più influenti dell’ultimo lustro, con la recidiva abitudine di collezionare armi da vendere poi ai nord coreani. La Mishima Zaibatsu non poteva di certo permettersi una concorrenza così spietata in tempi di magra come quelli, gli affari con i cugini asiatici erano calati drasticamente e le finanze cominciavano a boccheggiare. Per questo motivo una mattina Eddy Gordo era entrato nella stanza di Nina, quando il sole stava appena sorgendo. Lei l’aveva afferrato per le spalle e puntatogli un coltello affilato sotto la gola. Il brasiliano aveva alzato le mani sulla testa:
«Ehi, ehi, ehi!» aveva esclamato avvertendo la pelle di Nina contro la propria, era umida e profumava di bagnoschiuma alla vaniglia. «Vengo in pace» aveva scherzato.
«Ti ho detto di bussare quando entri nella mia stanza» la morsa al collo era aumentata. «Prima o poi ti sgozzerò» aveva ringhiato dandogli una spinta per allontanarlo da sé, quindi gli aveva dato le spalle e si era diretta verso il letto, nuda. Aveva afferrato un asciugamano e lo aveva legato intorno al proprio corpo. Eddy non aveva perso tempo a studiarlo in ogni sua perfezione, quella pelle bianca e dannatamente perfetta avrebbe fatto uscire di senno qualunque uomo.
«Perché sei qui?» La voce cristallina ma rigida di Nina Williams lo aveva riportato sulla terra ferma.
«Il capo ha un lavoro per te.»
«Che genere di lavoro?»
«Quello che sai fare meglio…»
Dopo qualche ora la donna era già in aereo, su un volo privato diretto a Volgograd. Dicembre non era il mese ideale per decidere di fare un viaggio in Russia, nella ex città di Stalingrado, ma il lavoro è lavoro e in quel periodo Jin Kazama sembrava particolarmente irritabile, perciò era stato meglio non controbattere alla sua richiesta. Più che la sua guardia del corpo, a volte si sentiva come una vera e propria balia…
 
Lukin Novikov non si accorse della bellissima donna che lo seguiva fin quando lei non lasciò cadere uno dei due guanti. L’uomo, evidentemente in sovrappeso, si chinò a raccoglierlo con uno sforzo sovrumano, ma accidenti se ne valeva la pena! I capelli biondi, lunghi oltre le spalle, sembravano seta pura; la carnagione candida ricordava la neve di Volgograd posata sulla statua della Madre Russia; gli occhi le rive ghiacciate dei laghi siberiani.
Nina Williams finse di essere interessata alle diapositive appese alla parete, in una carrellata ripercorse la storia tormentata di quella città, eretta nel XVI secolo con il nome di Carycin. Lukin Novikov le si accostò, fra i denti ingialliti teneva il sigaro fumato per tre quarti.
«Si interessa di storia?» Domandò con voce gutturale.
«Studentessa e ricercatrice di storiografia russa alla Volgograd State University» rispose Nina sorridendogli, l’uomo spalancò gli occhi trovandola ancora più meravigliosa di quanto avesse immaginato. Le porse il guanto e lei ringraziò.
«Vediamo quanto è preparata allora, signorina…?»
«Veronika» si presentò mentendo.
«Bene, signorina Veronika, vediamo quanto sa sulla storia di questa città» parve sfidarla Lukin, inconsapevole che quando a Nina Williams veniva affidato un compito lo portava a termine in modo impeccabile.
«Carycin, teatro di una delle battaglie più sanguinose della guerra civile, venne liberata dai bolscevichi grazie all’azione delle cosiddette brigate d’acciaio guidate dal giovane Iosif Stalin, al quale venne poi intitolata la città: Stalingrado.» Nina si spostò di fronte alla foto di un vecchio mulino distrutto, di cui restava solo lo scheletro di mattoni. «Tuttavia, durante la Seconda Guerra Mondiale, venne rasa al suolo dai continui bombardamenti dell’aeronautica militare tedesca; dopo sei mesi e oltre di combattimenti l’Armata Rossa riuscì a sconfiggere i nazisti.» La donna fece una pausa e si accostò nuovamente all’uomo che non le aveva tolto gli occhi di dosso neanche per un momento. «E nel 1961 Stalingrado è diventata Volgograd, nome nato dalle acque dell’omonimo fiume che bagna le sue sponde.»
Lukin Novikov accennò un applauso, Nina finse di essere imbarazzata e ringraziò. Qualcuno chiamò a gran voce il magnate russo, era ora di pranzo gli fecero notare, quindi avrebbe fatto meglio a smetterla di importunare le ragazzine, prima o poi sarebbe finito nei guai per quella fissa. Risero incamminandosi verso l’uscita.
«Mi piacerebbe rivederla, signorina Veronika» disse l’uomo, estraendo dal portafogli un biglietto da visita. «L’aspetto questa sera alle venti nella hall, ceneremo insieme e parleremo ancora di Stalingrado e di sangue. Se vuole…» rise. Rise a crepapelle scatenando una fastidiosa tosse gracchiante.
Chissà se avesse riso ancora dopo aver scoperto che a scorrere sarebbe stato il suo di sangue…
Nina studiò il foglietto che l’uomo le aveva lasciato, era il biglietto di uno dei più importanti e lussuosi hotel della città, il Tsaritsinskaya Sloboda.
La ragazza si coprì come meglio poteva per affrontare nuovamente il gelido inverno russo. La vecchietta delle caldarroste era ancora lì, a chiunque passasse nei suoi paraggi porgeva una castagna che teneva al centro dei palmi uniti, ma nessuno si soffermava neanche a guardarla. Nina si arrestò al centro delle scale, le mani inguantate infilate nelle tasche del cappotto, il colbacco di pelliccia calato sul capo e gli occhi fissi su quella figura che pareva incartocciata su sé stessa.
Una volta suo padre le aveva raccontato che durante l’ultimo viaggio in Russia aveva incontrato una signorina bella come lei. No, non come lei, l’aveva rassicurata carezzandole la testa, nessuna al mondo poteva essere bella come la sua Nina. In ogni caso, questa piccola donnina russa viveva nella periferia di Stalingrado, vendeva caldarroste porgendole ai passanti con mani tremanti e le nocche spaccate a causa del freddo. Lui allora si era avvicinato e le aveva donato il paio di guanti di cashmere che aveva comprato in onore della sua bella bambina, che sapeva al caldo e al riparo nella propria casa in Irlanda. Nina aveva a stento trattenuto le lacrime, niente regalo dalla Russia da mostrare con orgoglio alle sue amiche e soprattutto per far ingelosire sua sorella Anna (perché entrambe sapevano chi fosse la preferita di papà).
Il signor Richard Williams l’aveva abbracciata forte, stampandole un bacio sulla fronte, aveva avuto le labbra calde e rassicuranti.
«Quei guanti non ti avrebbero cambiato la vita» le aveva detto in un sussurro. «Ma probabilmente hanno salvato una ragazzina meno fortunata di te.»
«Si» aveva risposto lei, stringendosi ancora un po’ al suo adorato padre e ricacciando indietro il pianto. Lui non sarebbe stato contento di vederla così debole e inerme.
Che quell’anziana signora fosse la stessa ragazza alla quale suo padre aveva regalato dei guanti di lana – i suoi guanti di lana – anni addietro era una possibilità alquanto remota, ma nel profondo tale eventualità le era più che gradita.
Un pensiero romantico, pensò. Sua sorella Anna ne avrebbe riso per settimane intere se lo avesse saputo.
Si avvicinò alla donna delle castagne e di nuovo si guardarono negli occhi, erano della stessa sfumatura di azzurro. Nina si tolse i guanti di velluto e glieli porse, accettando volentieri la caldarrosta che le veniva offerta, il suo tepore le pervase ogni angolo del corpo. Chiuse gli occhi e provò a immaginare l’abbraccio protettivo di suo padre intorno alle proprie spalle minute, improvvisamente era tornata la bambina felice e spensierata degli anni in Irlanda, prima che tutto cambiasse. Prima che il suo mondo perfetto le crollasse addosso. Prima che suo padre morisse nella steppa desolata e innevata in una zona imprecisata della Siberia. Prima che Anna, la sua sorellina più forte e coraggiosa di lei, le porgesse una mano per aiutarla a mettersi in piedi e a dire addio al corpo esamine di Richard Williams.
 

*****

 
Lukin Novikov l’attendeva nella hall del Tsaritsinskaya Sloboda proprio come le aveva detto. Quando la vide attraversare le porte girevoli provò un certo desiderio spingere nella patta dei calzoni dal taglio classico. Le puttanelle che quel russo gli reperiva erano lontane anni luce dall’eleganza di quella sconosciuta incontrata al Memorial – Historical Museum, perciò pensò di fargli capire una volta per tutte il tipo di femmina che avrebbe dovuto ingaggiare da quel momento in poi. Novikov fece scoccare le dita e l’uomo dietro di sé si avvicinò, sporgendosi in avanti.
«Vedi quella?» Gli chiese senza aspettare la risposta. «Da oggi le voglio tutte così o puoi anche tenertele per te.» Lukin si alzò dalla poltrona e si acconciò la giacca, dando un paio di buffetti sul viso della sua guardia del corpo. «Capito Sergei?» Il magnate rabbrividì dinnanzi all’espressione di ghiaccio dell’uomo. Sembrava un automa senza sentimenti, senza emozione alcuna. Sergei Dragunov era uno dei tanti militari caduti in rovina che guadagnava da vivere facendo da cane da guardia ai milionari dell’ex Unione Sovietica, e a volte (anzi molto spesso) dava l’impressione di essere uscito da dentro un laboratorio sperimentale.
Mentre Lukin salutava la bella bionda all’ingresso dell’hotel, chinandosi per accennare al baciamano, Dragunov riconobbe all’istante la pericolosa assassina alle dipendenze della Mishima Zaibatsu. Alle dipendenze di Jin Kazama. Aveva sentito dire che i due fossero amanti, ma Sergei aveva troppa esperienza per sapere che le donne come Nina Williams non passano il loro tempo a fare da babysitter o a tenere la mano ai mocciosi…
Per tutta la cena Veronika sorseggiò appena il bicchiere di vino francese che il sommelier aveva versato nel calice, intanto che Lukin Novikov, uno degli uomini più influenti nel panorama mondiale di traffico illecito di armi da fuoco, si era sgolato già due bottiglie alla fine della seconda portata. Quando fece per mettersi in piedi le gambe a malapena lo ressero, nel tentativo di non ruzzolare sul pavimento immacolato si aggrappò alla tovaglia, trascinando su di sé tutto ciò che riempiva la superficie del tavolo: piattini da dessert, calici per il vino, per l’acqua e lo champagne, un paio di bottiglie ormai vuote, tovaglioli e posate. Nina si alzò, con estrema calma, chinandosi al suo fianco per aiutarlo a rimettersi in piedi. Se Lukin Novikov si fosse reso conto di quanta forza avesse nelle braccia quella donna all’apparenza così esile, forse si sarebbe posto qualche domanda, ma l’alcool che la stessa gli aveva incitato a bere aveva offuscato completamente la sua mente. Ciò che desiderava in quel momento era solo perdersi in lei e ammirare il fisico perfetto di quella giovane studentessa universitaria, alla quale aveva pensato per tutto il giorno e durante la cena.
Nina Williams lo accompagnò sotto braccio fino nella suite presidenziale del Tsaritsinskaya Sloboda. Per l’intero tragitto, dalla sala da pranzo alla camera, l’uomo non aveva fatto altro che complimentarsi di quanto fosse bella e di come la desiderasse, provando a ogni passo a toccarle i seni messi in risalto dalla profonda scollatura dell’abito da sera, lungo fino alle caviglie, di un viola talmente intenso da sembrare nero.
L’assassina lo lasciò cadere pesantemente sul letto, puzzava di alcool e sudore stantio. Si accomodò sul materasso per riprendere fiato, raccomandandosi di non far mangiare più così tanto la sua prossima vittima o trascinarla sarebbe stato sempre un grosso problema, senza contare il fatto che si sprecava tanto tempo inutile.
Lukin tentò di puntellarsi sul gomito sinistro, mentre allungava la mano libera nella speranza di afferrare il codino biondo di Veronika. Ci riuscì – solo perché gli concesse un ultimo barlume di umanità – e la trascinò giù su di sé: le bocche si sfioravano, dalla sua uscivano rantoli cavernosi, di fumo e vino rancido. In un attimo l’assassina gli fu addosso cavalcioni, sembrava di guardare il mondo in groppa a un maiale, pensò. Novikov non perse tempo e subito fece scivolare le mani grassocce e sudaticce lungo il morbido velluto dell’abito, infilandole al di sotto dell’orlo, fino a risalire per le cosce sode e lisce della bella studentessa. Qualcosa però arrestò la sua corsa quando era quasi giunto all’inguine, eppure avrebbe riconosciuto quella forma anche a occhi chiusi e senza luce.
Possibile che…?
Alzò gli occhietti sbalorditi per la sorpresa e la sbronza in quelli di Veronika, trovandoli improvvisamente spaventosi. Minacciosi. Accesi.
«Ops…» la sentì dire, mentre gli teneva le braccia sopra la testa trattenendole per i polsi in una morsa che non lasciava scampo. Con la mano mancina estrasse il pugnale da sotto l’abito, quasi come si fosse trattato di un gioco di prestigio. Lukin Novikov cominciò a pregare per la sua vita, a supplicarla di non ucciderlo, le avrebbe dato tutto, tutto quello che desiderava: fama, soldi, una villa, una macchina di lusso, un’intera isola. Peccato che Nina Williams avesse sempre trovato alquanto futili i beni materiali, ciò a cui lei ambiva era qualcosa che andava oltre l’apparenza, in un certo senso più spirituale.
Non come quella scellerata di sua sorella, si disse.
L’uomo sotto di sé continuava a lagnarsi di lasciarlo vivere, l’aveva stancata sul serio, era meglio farla finita e tornare al quartier generale della Mishima Zaibatsu il prima possibile. Impugnò al meglio l’arma e la portò alla gola del milionario russo, appena sotto la giugulare; distese le labbra dipinte di rosso in un sorriso e premette fino a far sgorgare un rivolo di sangue. I gemiti dell’uomo raggiunsero acuti disumani, simili a quelli di un lattante affamato, di un maiale che sta per essere sgozzato, poi Lukin avvertì la pressione diminuire d’un tratto, mentre la bella studentessa – che evidentemente gli aveva mentito per tutto il tempo – lasciò cadere il pugnale portandosi il polso contro il petto.
Il suo sguardo freddo si fece improvvisamente inquieto e vigile, passò in rassegna l’intera suite celata dalla penombra dell’abat-jour che tingeva le pareti di una profonda sfocatura rossa. Dall’angolo in alto a destra avanzò una figura curva su sé stessa, nonostante la sua altezza sfiorasse il metro e novanta Sergei Dragunov pareva sempre più basso di quel che era a causa della caratteristica postura, con l’aria di uno pronto ad attaccare in qualsiasi momento. Lukin Novikov non era mai stato completamente a proprio agio in sua presenza, ma in quel momento dovette ammettere di essere più che felice di vederlo.
Nina Williams fece appena in tempo a scendere dal letto con una capriola all’indietro che un coltello si conficcò nel materasso, inchiodandone l’orlo del vestito che si strappò mostrando lunghe gambe snelle ma muscolose, forti.
«Sergei, prendila! Ammazzala! Falla a pezzettini! Voleva uccidermi quella puttana, voleva…» un coltello gli si conficco dritto nel cuore. Lukin Novikov abbassò lo sguardo e con mani tremanti tentò di strapparsi via dal petto l’arma che lo aveva trafitto, poi guardò la sua assassina negli occhi, non aveva mai visto in vita sua uno sguardo più soddisfatto e insieme terrificante. Non aveva mai incontrato una donna bellissima e pericolosa come Veronika.

Dragunov si lanciò contro Nina che riuscì a parare il colpo un attimo prima che la scaraventasse contro la parete.
«Il mio lavoro è finito» disse lei, escogitando velocemente un modo per togliere il disturbo. Non le andava di mettersi a giocare a chi picchia più forte con il militare, ciò che desiderava era solo farsi una doccia e dormire fino al mattino seguente, quando Jin le avrebbe inviato un jet privato per tornare in Giappone.
«Il mio è appena iniziato, irlandese» rispose Sergei. Se avesse offerto su un piatto d’argento la testa del killer di Lukin Novikov, di sicuro quell’esaltato di un nord coreano lo avrebbe ricompensato fino a permettergli di vivere di rendita per il resto dei suoi giorni. Provò a stordire Nina con una serie ripetuta di pugni, ma lei fu lesta ad alzare le braccia per pararsi al meglio, ciò nonostante l’intento di Dragunov non era quello di colpirla, bensì di metterla con le spalle al muro. La ragazza lo capì all’istante - lei avrebbe fatto la medesima cosa - perciò fece per colpirlo con un calcio, ma di nuovo Sergei prese il sopravvento immobilizzandola contro il muro, un gomito premuto sotto il mento e una pistola nell’altra mano. Nina Williams si aggrappò al suo braccio, cercando di tirarlo via, cominciava a mancarle l’aria. Lui si passò la lingua su labbra esangui. Labbra di un cadavere. Piano, come in un sogno, vide la canna della pistola avvicinarsi alla propria fronte.
«Ti concedo un ultimo desiderio, irlandese» il soldato russo accostò la bocca all’orecchio di lei. «Che so, potrei farti divertire un po’ prima di ammazzarti» sussurrò, mordendole il lobo fino a farlo sanguinare.

Nina Williams socchiuse gli occhi.
Di fronte al corpo ormai senza vita di suo padre si era fatta una promessa: qualunque fosse stato il suo destino, non sarebbe morta in Russia. Il volto dell’unico uomo che avesse mai amato riaffiorò come un relitto dal mare. Lo rivide mentre le diceva che adesso si sarebbe dovuta occupare di Anna, era rammaricato, ma lui non poteva più farlo. Il sangue sotto di lui cominciava a espandersi a macchia d’olio, tingendo di un bel rosso carminio la neve candida della Siberia. Ricordò le mani un tantino grassocce di sua sorella che la invitavano a mettersi in piedi, a reagire, mentre intorno a loro imperversava una tempesta di neve. Il sorriso dolce di Richard Williams si fuse con quello che Anna – la piccola Anna – le aveva rivolto.
Avevano lo stesso sorriso, papà e Anna, pensò. Lo stesso sorriso.
Con un calciò all’altezza del pube riuscì a scrollarsi di dosso Sergei Dragunov che colto alla sprovvista cadde all’indietro, qualche metro più in là. La vide arrampicarsi sul bordo della finestra e spalancarne le ante, un vento gelido entrò nella stanza portando con sé una folata di nevischio.
«Sai a che piano siamo, irlandese?» Le chiese Sergei, ma lei si piegò sulle ginocchia e spiccò un balzo in avanti. Dragunov corse alla finestra e si affacciò, notando la figura esile di Nina discendere lungo il tronco di un albero. Sparò un paio di colpi alla cieca, tuttavia i proiettili finirono solo per scheggiare la corteccia spessa e millenaria della pianta. Il militare maledisse la donna nella sua lingua e si fiondò all’inseguimento.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** “La Madre Russia” ***


Capitolo 2 “La Madre Russia”

 
Le luminarie di Natale avvolgevano l’intera città di Volgograd, rendendola fiabesca. Il fiume Volga rifletteva le tante lucine colorate sulla propria superficie liscia, increspata solo di rado dal vento che soffiava da nord, gelido e tagliente.
Nina Williams si strinse nel suo stesso abbraccio, aveva dimenticato il cappotto nella sala da pranzo del Tsaritsinskaya Sloboda e come se non bastasse l’abito da sera, indossato per l’occasione, era strappato in più punti. Somigliava vagamente a una suicida impazzita tornata dall’Oltremondo per fare un dispetto al fidanzato che l’aveva tradita e portata al folle gesto.
Le strade erano deserte, neanche un veicolo in circolazione, fatta eccezione per i pochissimi taxi fermi sul ciglio della strada. Vuoti. Pensò di scassinarne uno, ma lei non era una ladra, era un’assassina, e seppur fosse riuscita ad aprire lo sportello, come avrebbe fatto a metterla in moto? Eddy Gordo, ecco chi sarebbe stato in grado di aiutarla, ma Eddy era in un altro continente. Anna? Si, forse sua sorella avrebbe saputo come fare per mettere in moto una macchina anche senza chiavi.
Al di là di una vetrina di un negozio di giocattoli un Babbo Natale a misura naturale la salutò con fare robotico, muovendo il grosso bacino a un ritmo che non poteva sentire. Camminò per diversi metri, forse un paio di chilometri, ormai non aveva più tatto alle mani e le gambe si muovevano per inerzia. Senza neanche rendersene conto si ritrovò ai piedi della Statua della Madre Russia, sulla collina di Mamaev Kurgan.
Nina sollevò lo sguardo, incantata dalla bellezza di quell’opera d’arte come le era già successo la prima volta che l’aveva vista, mentre suo padre la teneva per mano. Anna era rimasta in Irlanda a causa dell’influenza e Nina era stata così felice di fare finalmente un viaggio tutta sola con il papà che aveva provato un piacere malsano nel sapere la sua sorellina a letto malata.
Richard le aveva raccontato che quella donna dall’aspetto imponente e la fierezza di una dea, bella, forte e temibile, rappresentava la Russia, la Madre di tutti i russi che esortava a combattere per proteggere la patria. Quindi suo padre l’aveva presa in braccio per farla sentire un po’ meno lontana da una scultura così meravigliosa da sembrare reale. Una giovanissima Nina aveva osservato con occhi meravigliati e adoranti le curve sinuose e abbondanti della statua, le pieghe della veste e del mantello parevano scossi dal vento, mentre nella mano impugnava una spada, pronta a guidare i suoi figli alla difesa della Russia. Il titolo citava “La Madre Patria Chiama”.
In volo verso casa Nina aveva confidato al papà che anche lei voleva diventare bella e vigorosa come la Madre Russia. Richard le aveva lasciato un bacio sui lunghi capelli biondi.
 
La killer allungò una mano per sfiorare il piede della Madre, le dita erano ormai gonfie e quasi paralizzate dal freddo. Improvvisamente si arrestò, guardandosi intorno con circospezione: le era sembrato di udire le note di una delle canzoni preferite di suo padre, ma forse era solo la sua immaginazione a giocarle brutti scherzi. O forse no, in fondo era il 22 dicembre…
Si lasciò scivolare alla base della statua, socchiudendo gli occhi.

 
“Gli angeli delle campagne
cantano "Gloria" al Signor del ciel
e risponde dalle montagne
con questo canto l'eco fedel
Gloria in excelsis Deo”
 
Richard Williams amava il Natale.
Lasciava sempre che fosse Nina a inserire il punteruolo all’abete, spiegando ad Anna – rossa di pianto – che quel compito spettava alla primogenita, semplicemente perché era più alta e arrivava alla punta senza problemi. In realtà era solo grazie al papà che la issava oltre la propria testa, prendendola da sotto le ascelle, se riusciva a piazzare il punteruolo dorato lì sopra.
 
“Gloria in excelsis Deo
Perché mai sì gran fervore
accende il coro celestial
chi è mai il gran vincitore
per questo canto trionfal?
Gloria in excelsis Deo”
 
Richard Williams amava così tanto il Natale che insieme alle sue figlie trascorreva la notte del 24 dicembre per le strade di Dublino, a donare un pasto caldo e una coperta ai tanti senzatetto sparsi per le vie della capitale irlandese. Alla fine regalava alle sue bambine una doppia cioccolata calda nel loro bar preferito.
Richard Williams amava il Natale quasi quanto amasse Nina e Anna, considerandola una festa magica capace di portare buone nuove ai meno fortunati e donare coraggio ai più deboli. Ogni mattina del 25 sedeva intono all’albero addobbato con le proprie figlie e insieme scartavano i doni che Babbo Natale aveva lasciato loro. E ogni anno si rallegravano di sapere che erano state delle brave bambine, ancora una volta.
Adesso Babbo Natale cosa ne penserebbe?
Dovette appisolarsi per qualche minuto, perché un istante prima era accasciata ai piedi della Madre Russia, intirizzita dal freddo, l’attimo dopo al calduccio nella sua bella casa d’infanzia, appena fuori Dublino. Gli addobbi natalizi riempivano tutta la sala da pranzo, le lucine sull’abete brillavano a intermittenza, mentre lei e sua sorella sedevano ai piedi di Richard Williams, intento a suonare al pianoforte le note di un famoso canto di Natale, le parole intonate da egli stesso.
 
“È l'annuncio del Natale:
Scende nel mondo il Salvator!
Grato a chi ci trae dal male
Levi un gioioso canto il cuor
Gloria in excelsis Deo
“Gloria in excelsis Deo
Gloria in excelsis Deo.”
 
Poi un fruscio appena percettibile la destò bruscamente, catapultandola nella realtà ghiacciata di Volgograd. La Madre troneggiava ancora in tutto il suo splendore; nessuna anima vivente nel raggio di metri e metri, eppure lei aveva sentito qualcosa, come il rumore di passi ovattati sulla neve candida. E Nina Williams si fidava dei suoi sensi acuti.
Puntellandosi contro il marmo della statua alle sue spalle si mise in piedi, le gambe dolevano a causa delle bassissime temperature e per tutti i chilometri percorsi, le braccia così rigide che faceva fatica perfino a piegare il gomito. Un’ombra scura si allungò fino a raggiungerla e vide Sergei Dragunov risalire lungo la collina, senza accusare né il gelo né tantomeno lo sforzo di arrampicarsi fin lassù. Si arrestò a qualche passo dall’assassina, studiandola da capo a piedi: il viso cinereo, gli occhi azzurri cerchiati di nero, le labbra spaventosamente violacee, l’abito di velluto strappato in diversi punti lasciava scoperte le gambe da circa metà coscia. Dragunov abbozzò un sorrisetto vittorioso, sfiorandosi la bocca con il pollice destro. Un gesto che lo contraddistingueva, pensò Nina, ricordò di averglielo visto fare spesso durante l’ultimo torneo indetto dalla Mishima Zaibatsu, appena prima di sferrare il colpo finale al suo avversario.
Era questo il suo destino allora? Morire nello stesso Paese di suo padre? Accasciarsi su un manto candido e soffice dove lasciar defluire tutte le sue forze? Morire… come Richard… smettere di soffrire… di provare freddo… di cercare di battere Anna, in tutto. Morire, certo, ma non prima di essersi guadagnata il dovuto riposo.
Nina Williams inspirò a fondo, l’aria ghiacciata sembrò congelarle anche il sangue nelle vene, divaricò le gambe piantandole come meglio poteva nella neve e si portò le braccia in avanti, pronta ad affrontare l’ultimo combattimento. Dalle labbra fuoriuscivano sbuffi di fumo, mentre in lontananza una campana batteva dodici rintocchi. Riprese a nevicare.
Suo padre sarebbe stato fiero di lei.
«Irlandese» sospirò Sergei prendendo anch’egli posizione, «speravo di poter giocare un po’ con te prima di ammazzarti.» Allargò il suo sorriso terrificante. «Non deludi mai» concluse, sferrando il primo pugno.
Nina lo parò non senza sforzo, le braccia erano troppo intorpidite per poterle muovere velocemente, così come gli arti inferiori. Anche ragionare in maniera lucida era diventato difficile, a dirla tutta. Di fatto non fu in grado di prevedere il secondo colpo e con un calcio nello stomaco si ritrovò ai piedi della Madre Russia, di nuovo. Dragunov si inginocchiò al suo canto, mentre lei provava a rimettersi in piedi tossendo. Il freddo e il colpo violento le avevano mozzato il fiato. Sergei le acconciò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, sfuggita al codino.
«Proprio una fine impietosa per uno dei più abili e temuti mercenari in giro per il mondo.»
«Non-non sono più un mercenario. Lavoro alle dipendenze di Jin Kazama.» Nina tossì, cercando di inspirare a fondo.
«Si, l’ho sentito dire» Sergei l’afferrò per il mento costringendola a guardarlo negli occhi: due pozzi neri senza fondo che si riflessero in quelli color del cielo limpido di lei. «Da domani dovrà fare a meno della sua bambinaia. Chissà, magari potrei prendere il tuo posto.»
L’ex soldato russo tornò sull’attenti, indietreggiando di qualche passo, mentre estraeva la pistola dalla tasca interna della divisa.
«Un ultimo desiderio, irlandese?» gliela puntò contro, tenendola con una mano sola, l’altra distesa lunga il corpo.
«Muori!» sputò fra i denti l’assassina, senza mai abbassare lo sguardo dal suo boia e da quel sorriso acre, raggelante.
Il rimbombo dello sparo echeggiò tutt’intorno, coprendo l’ultimo rintocco della cattedrale di Aleksandr Nevskij. Nina Williams provò un dolore acuto, sempre più pungente, partire dalla spalla sinistra fino a espandersi per tutto il corpo. Urlò forte, portandosi la mano destra sulla ferita; oltre le dita il sangue gocciolò nella neve, il rosso vivo contro il bianco puro.
Sergei Dragunov ruzzolò a pochi metri da lei, lo vide annaspare sul terreno nevoso tentando di rimettersi in piedi velocemente, poi un’ombra lo raggiunse e lo issò a diversi centimetri da terra tenendolo per il collo. La killer assottigliò le palpebre per sforzarsi di vedere chi fosse quel combattente tanto abile da tenere a bada il militare russo. Attraverso la nebbia del dolore e dei sensi che stavano venendo meno, le parve di intravedere una figura che somigliava vagamente a quella di Jin.
Ma cosa ci faceva lui a Volgograd?
Chiuse gli occhi, anche l’ultimo barlume di lucidità la stava abbandonando. No, non era Jin Kazama quello, ma suo padre.
Kazuya Mishima.
Quindi il buio.

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Capitolo 3
*** “Gloria in excelsis Deo” ***


Capitolo 3Gloria in excelsis Deo”
 

Richard Williams aveva un desiderio: che le sue figlie studiassero per diventare medici e trovare così una cura alle malattie incurabili. Quando Anna gli fece notare che sono incurabili perché appunto nulla avrebbe potuto guarirle, Richard rispose che questo era il motivo per cui loro sarebbero dovute diventate così brave da farlo, da trovare la giusta medicina. Nina intanto lo guardava con occhi sognanti. Si figurava già a salvare migliaia di vite umane, mentre suo padre le sorrideva con orgoglio. Anna invece aveva mandato in frantumi il sogno di suo padre annunciando che lei voleva diventare una star, come quelle del cinema e sposare un uomo miliardario. Poi Richard era morto ammazzato e la giovane Nina aveva capito che qualunque farmaco avesse brevettato, alla fine le persone sarebbero morte comunque, investite da un’auto in corsa o qualcuno avrebbe sparato loro un colpo di pistola alla testa, davanti alle proprie figlie. Le neve si sarebbe macchiata di sangue – il sangue di Richard – e il cuore avrebbe smesso di battere e gli occhi castani, profondi – gli occhi di Anna – si sarebbero spenti, divenendo vacui come l’abisso più tetro.
 
Nina Williams schiuse le palpebre, inizialmente vide solo immagini sfocate, poi riuscì a mettere a fuoco l’austero ambiente in cui si trovava. L’armadio a due ante vecchio di cent’anni, la scrivania ancor più malandata sopra alla quale stava un’antica televisione a tubo catodico di un arancione spento, con lo schermo quadrato di pochi pollici. Un pigro fuoco ardeva nel camino di marmo, una figura in ginocchio cercava di ravvivarlo aggiungendo altra legna e solo quando le fiamme divennero alte e vivaci, questa si alzò e si voltò indietro, sorridendo quando si accorse che la famigerata killer era finalmente sveglia.
Nina con uno scatto si mise a sedere contro la spalliera del letto scarno sopra il quale era distesa, provando un dolore lancinante e pungente alla spalla sinistra. Strinse i denti e solo allora si accorse che non indossava più l’abito da sera: l’addome era stato fasciato partendo proprio dalla zona ferita. Kazuya Mishima le si avvicinò, tenendo un sorriso beffardo sulle labbra le porse una tazza con del liquido olivastro e fumante. Si sedette sul logoro materasso alla destra della donna.
«Camomilla, biancospino e menta» disse porgendole l’infuso. «Ti aiuterà a tenere a bada il dolore.»
«Per quanto tempo ho dormito?» Chiese lei, notando che fuori era ancora buio, come quando Sergei Dragunov l’aveva raggiunta ai piedi della Madre Patria, così suppose che dovessero essere passate solo poche ore.
«Un giorno circa» a quella risposta Nina spalancò gli occhi. Avrebbe dovuto avvertire Jin o Eddy di aver portato a termine la missione, di sicuro stavano provando a mettersi in contatto con lei. «Bevi» il tono perentorio di Kazuya la ridestò da quei pensieri.
«Perché dovrei fidarmi?»
Kazuya Mishima, padre di Jin Kazama e figlio di Heihachi Mishima. Ovviamente Nina aveva sentito diverse storie sul suo conto, alcune sapevano di leggenda vera e propria, qualcuno addirittura diceva che fosse tornato dal mondo dei morti. Neanche lì lo avevano voluto…
«Perché se ti uccidessi, tua sorella non me lo perdonerebbe» a quel pensiero Kazuja rise, rovesciando un po’ della tisana sul pavimento di parquet. «Ha detto che dovrà essere lei ad ammazzarti, un giorno. Adoro le famiglie unite, come la mia e la tua.»
Dal momento che quella risposta aveva una certa logica, Nina prese dalle sue mani la tazza e subito il suo tepore le sciolse ogni muscolo del corpo. Kazuya la osservò mentre se la portava alle labbra, i capelli lisci e biondi ricaddero in avanti. In un certo senso la trovò anche più bella di Anna, la quale sembrava vivere sempre e comunque all’ombra della sorella, senza mai riuscire a raggiungerla o equipararla in ciò che faceva o in ciò che era. Un’assassina più esperta e temuta, una combattente più abile, una donna più affascinante nonostante non facesse nulla per apparirlo. Sapeva che Nina era solita sfruttare il suo charme solo per lavoro, per sedurre le sue vittime e avvicinarle. Suo padre Heihachi l’aveva ingaggiata svariate volte nel corso degli anni per liberarsi di nemici scomodi o amici insistenti, la ricordava perfettamente nei corridoi della Mishima Zaibatsu Corporation, immune ai complimenti delle guardie e anche ai suoi sguardi dissoluti…
«Ho fatto sapere a Jin che Lukin Novikov è morto» Nina lo osservò, era la fotocopia del suo capo invecchiata di una ventina d’anni. Come l’avrebbe presa Jin se gli avesse detto che era uguale a suo padre? Male, sicuramente.
«Perché?» Gli domandò, mentre sentiva il sonno annebbiarle la mente, il dolore era diventato solo un placido pulsare.
«Perché Lukin era in affari con me e quando ho saputo che lo avevi ammazzato come un cane ho pensato di seguirti e fartela pagare, ma due uomini contro una donna ferita mi sembrava eccessivo anche per me.»
«Anna non te lo avrebbe perdonato.»
«È vero» Kazuya si mise in piedi, aiutando la donna a stendersi sul materasso, il decotto aveva già fatto effetto. «Anna non me lo perdonerebbe.»
 
Quando Nina sollevò nuovamente le palpebre fuori era ancora buio, ma questa volta non poteva aver dormito per 24 ore filate, al massimo per due, eppure si sentiva più riposata di pocanzi. Kazuya Mishima era davanti al camino, le gambe incrociate e le mani giunte davanti al viso, poi lo vide chiudere la destra in un pugno e sferrarlo in direzione del fuoco, la cui fiamma ebbe un sussulto, sembrò volersi spegnere, invece tornò ad ardere allegramente. Lei si alzò, avvolgendosi nel lenzuolo e sedendo al suo fianco. Kazuya era tornato con le mani giunte e gli occhi chiusi, scagliò un nuovo colpo verso il camino, ma di nuovo il fuoco non resse l’impatto, riprendendosi da quel repentino sbuffo d’aria.
«Dove siamo?» Gli chiese la donna.
«Dovresti mangiare. C’è qualcosa in cucina» rispose lui, indicando con il pollice oltre le sue spalle una porta di legno mangiucchiato dalle tarme.
«Dove siamo?» Tornò a domandare ancora una volta Nina.
«A cinque chilometri fuori da Volgograd.»
«Come…?»
«C’è una furgonetta nel giardino. Non ti tratterrò.»
Nina Williams lo osservò di sbieco, era riuscito a intuire ciò che stava per chiedergli prima che lo facesse. Ridacchiò e scosse il capo, allungando un palmo verso il fuoco per bearsi di quel calore. Kazuya la guardò con un cipiglio in mezzo alla fronte, questa volta non riusciva a capire cosa le passasse per la testa.
«Siamo simili, io e te» disse la donna a mo’ di spiegazione per il suo riso improvviso. «Studiamo ogni particolare nei minimi dettagli; ci piace stare da soli e isolati dal resto del mondo e…» Nina si trattenne, soppesando quello che stava per affermare.
«E…?» Le fece eco lui, mettendo nel camino un altro ceppo di legna.
«E siamo dei pessimi genitori.» Ecco, lo aveva detto. Kazuya abbozzò un sorrisetto, annuendo.
«Ho sentito del pugile. È davvero tuo figlio?»
«Sembrerebbe di sì. Ammesso che possa essere definito figlio un macabro esperimento.»
«Lo senti come tale?»
«Come figlio intendi?» Nina si strinse le ginocchia al petto, una ciocca di capelli le coprì la parte del viso rivolta a Kazuya. «Certo che no! D’altra parte credo che non avrei mai avuto un figlio. Non mi sono mai piaciuti i bambini.»
«Jun sarebbe potuta essere la donna perfetta per me, se Heihachi non si fosse intromesso nella mia vita, cercando di sbarazzarsi del sottoscritto.»
«Riesci a gestire il tuo demone?» Gli chiese Nina, pensando inevitabilmente a Jin Kazama e alle urla disumane che talvolta sentiva provenire dalla sua stanza, durante la notte.
Kazuya Mishima si girò per guardarla negli occhi, ma la trovò con lo sguardo perso oltre le fiamme.
«Tutti dobbiamo imparare a gestire il proprio demone» fu la risposta dell’uomo che attirò l’attenzione di lei su di sé.
Aveva ragione, pensò Nina. Aveva tremendamente ragione.
Lo studiò come non aveva ancora fatto. I lineamenti forti e la pelle olivastra, gli occhi neri come la pece, dal taglio leggermente allungato; una profonda cicatrice attraversava lo zigomo sinistro, altre invece erano ben visibili su braccia e schiena, messe in risalto dalla canotta bianca che indossava. La parte inferiore era invece coperta da un pantalone di tuta felpato, una cintura dello stesso tessuto lo teneva fermo dalla vita in giù. Senza neanche sapere bene cosa stesse facendo, Nina sfiorò con la punta delle dita alcune cicatrici che correvano sul braccio terminando oltre la spalla.
«Alcune non sembrano dovute ai combattimenti» osservò. Kazuya tirò via la maglietta, mostrando una schiena muscolosa ma percorsa da così tante cicatrici che sembrava una cartina geografica.
«Neanche io ho avuto un buon padre.»
«Io sì» sospirò Nina, tornando a guardare davanti a sé. «Io ho avuto un ottimo padre.»
«Lo so» continuò Kazuya Mishima. «Anna me ne ha parlato e mi ha anche detto che tra le due tu eri la sua preferita.» Aspettò che Nina lo guardasse e quando non lo fece aggiunse «credo sia questo il motivo per cui lei è sempre in competizione con te.»
Nina Williams abbozzò un sorrisetto dai mille significati, scuotendo appena il capo, i capelli biondi e setosi ondeggiarono, quindi si sporse verso lui e lo baciò, sfiorandogli le labbra con le sue.
«E se il suo amante scoprisse che sono più brava di lei anche a fare l’amore?»
Kazuya rispose al suo tocco leggero con uno decisamente più veemente, passandole una mano dietro la nuca e l’altra alla base della schiena, spingendola sempre più giù, fino a farle toccare pavimento, fino a distenderla completamente sul lenzuolo che prima la copriva e adesso era steso sotto di lei. La sentì gemere appena per via della spalla dolorante, per questo si puntellò con entrambi gli avambracci sul parquet, mentre le baciava il collo fino a scendere sul ventre e poi di nuovo su, a morderle le labbra. Avrebbe voluto sciogliere la fasciatura che egli stesso aveva applicato alla spalla, facendola passare per il seno, ma sapeva che il dolore sarebbe tornato immediatamente, costringendoli a fermarsi, per questo preferì farne a meno.
Nina dal canto suo gli carezzò l’addome scolpito, i muscoli delle braccia tesi nell’atto di reggerne il peso del possente fisico, quelli della schiena che si muovevano seguendo il resto del corpo. Quando le entrò dentro lo fece con una calma e un tatto che di sicuro la donna non si aspettava, come se entrambi attendessero quel momento da tanto e ora volessero godersi ogni istante, prolungando il piacere il più possibile. Nessuno dei due l’avrebbe mai ammesso, ma la loro attrazione nasceva anni fa, quando lei si recava da Heihachi Mishima e lo vedeva intendo ad allenarsi nel giardino, appena fuori il dojo della sede centrale del suo impero e lui la osservava da lontano, con la sua tuta così attillata da fargli immaginare tutto e accrescere il desiderio di lei e di fare suo quel corpo perfetto.
Un desiderio durato una vita e che, sapevano, non si sarebbe più consumato.
In quella baita sperduta e circondata dalla neve, dimenticata da tutti, erano diventati un uomo e una donna e nulla più.
 
Kazuya Mishima tirò un altro tiro dalla sigaretta e lasciò che le nuvolette di fumo salissero fino al soffitto. Il braccio sinistro piegato ad angolo sotto il collo, il torace nudo sopra al quale se ne stava sdraiata Nina, anch’essa rivolta verso le travi di legno del soffitto. Oltre la finestra sprangata il sole stava iniziando a sorgere sopra un’immensa distesa di neve bianca e candida. Aveva ormai smesso di nevicare da qualche ora.
«Che cosa farai da domani?» Chiese lui, guardandole la sommità della testa, dove una cascata di capelli biondi cadeva fino a ricoprirgli l’addome.
«Quello che so fare meglio.»
 


fine

 

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