Dejimon Reberu

di Karugaru
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ichi ***
Capitolo 2: *** Ni ***



Capitolo 1
*** Ichi ***


ICHI

 

Ieri o visto una grande ombra. Era piu’ piccola de l’ombra gigante che o visto laltro ieri ma era grande anche questa di ieri. Ma laltro laltro laltro laltro ieri però ho visto una piccola ombra e anche oggi. La piccola ombra scappa via sotto il leto, ma io lo vista.
Quindi oggi o deciso che vado a cercare le grandi ombre che magari mi dicono dove scappano le picole ombre. Le grandi non scappano mai, le piccole scapano. Questa scappa sempre che la vedo.

Si grattò la testa, continuando a fissare la donna davanti a lei.
Poi stanutì.
“Allora?”, chiese la donna.
Lei fece spallucce e si passò la mano sotto il naso colante.
“Paola!”
“Cosa!”
“Non permetterti di rispondere così!”
“Non sto rispondendo!”
La donna scosse la testa, appoggiando, disperata, la fronte sul palmo della mano.
“Facepalm!” proruppe Paola, ridendo
“Vado a chiamare i tuoi genitori. Non capisco – davvero, non ho idea di come tu abbia fatto ad allontanarti dalla scuola per tre ore senza che nessuno se ne accorgesse, ma almeno potresti avere il buon senso di dirmi dove diavolo eri andata”
“Maestra" fece la bambina, annoiata "ma te l’ho già detto mille volte che cerco le grandi ombre, io.”
Sì, le ombre.
Chi diamine se lo aspettava che dietro a uno stupido temino estivo si nascondessero quelli che erano dei chiari problemi comportamentali e – ahilei – probabilmente psicologici?
La maestra si alzò, e Paola con lei: si fissarono per un momento, mentre ognuna elaborava la propria strategia.
La maestra, quel giorno, aveva i tacchi: poteva essere un vantaggio, per la bambina.
Paola, dal canto suo, con i suoi sette anni e un metro e venti di altezza, avrebbe avuto una falcata molto piccola: la maestra non si preoccupava. Anche perché la bambina era intabarrata in una felpa gialla di almeno otto taglie in più di lei, e portava un cappello che le schiacciava la frangia sugli occhi – quindi ci vedeva anche poco.
Non sarebbe stato un problema, si ripetè la maestra.
Andò alla porta, e la bambina non si mosse.
Fece per aprire la maniglia, e la bambina  non si mosse.
Aprì uno spiraglio, e la bambina non si mosse.
Fece per uscire, e qualcosa di dannatamente veloce schizzò via dalla porta. Sgranò gli occhi, spalancando l’uscio in cerca della figura di Paola nel corridoio: “No! Merda! Come cazzo ha fatto a scappare!?”
Si voltò, intenzionata a correre al telefono per avvisare i bidelli o chiunque potesse essere avvisato in una situazione del genere: ma si bloccò.
Paola era ancora là, dove l’aveva lasciata poc’anzi. In piedi, a fissare l’uscio, e il corridoio verso cui portava, esterrefatta.
Le due si fissarono un attimo inebetite.
Poi Paola scattò, approfittando (con ritardo, ok, ma approfittando) del varco rimasto aperto.
La maestra non ebbe la lucidità per imprecare una seconda volta.
“L’Ombra!” urlò la bambina, in mezzo al corridoio “Ombra! Ombra! Aspetta! Ombra!”

Vabé, dai.

Almeno non era un problema psicologico.

… O forse sì, ma suo.




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Capitolo 2
*** Ni ***


NI

 

A dire il vero, lei non si giudicava una Donna. No, no, era una parola troppo grossa per una ventiseienne. Funanya si sedette sul ciglio della scrivania, ancora stravolta dalla rocambolesca fuga di Paola, ma evidentemente non abbastanza per mettersi a fare stupidi ragionamenti sulla sua età.
Va bene, si disse la maestra. Adesso…
Adesso avrebbe dovuto chiamare i genitori. E Non voleva assolutamente farlo. I genitori di Paola non erano esattamente il tipo di persone con cui Funanya smaniava per interagire.
“Se Don Rosi non ci avesse garantito che questa era la scuola migliore dell’intera provincia –” aveva abbaiato il padre di Paola a soli sette minuti dall’inizio del loro primo incontro genitori-insegnanti “Se solo non mi fidassi ciecamente di Don Rosi, garantisco, è inaudito – io la ritirerò da questa scuola, e fanculo Don Rosi! Mia figlia non andrà certo a scuola dai ne*ri!”
Non l’aveva ritirata. Se l’avesse ritirata, tutto questo non sarebbe successo. Alla ragazza non interessava affatto la motivazione: bastava che la ritirassero. Paola era una bambina esagitata e incomprensibile con dei genitori pronti a insultare i docenti non appena un voto scendeva sotto l’8 – Funanya, in particolare, veniva insultata anche quando non era lei ad aver fatto la valutazione. Non avere quella bambina in classe le avrebbe semplificato l’esistenza per i cinque anni successivi.
Che pensiero orrendo, da fare. Ti sembrano pensieri da fare, Funanya? E tutti i corsi che hai fatto sull’inclusione sociale e la trattazione dei bambini problematici? Eh? E tutte le volte in cui erano le tue maestra e preferire che si lavorasse in classe senza di te, che non sapendo la lingua appena arrivata in Italia rallentavi le lezioni e nel disperato tentativo di non essere emarginata urlavi e travi i capelli ai tuoi compagni? Eh?
Scosse la testa, ripetendo il gesto che Paola aveva correttamente definito FACEPALM. Adesso, si disse, stai calma – e cerchi di riprenderti la tua dignità.
“Gnità?”
Funanya saltò via dalla cattedra, cercando di capire da dove arrivasse la vocina che aveva pigolato.
“Paola?”
Silenzio.
“Paola, esci fuori.”
“Gnuori.”
Quello che comparve non era Paola.
Non era decisamente Paola.
Era un coso.
Era un coso tondo, bianco, con due giganteschi occhi neri e due escrescenze che ricordavano, vagamente, delle orecchie.
“Gnao.”
“CRISTO!”
Il coso saltò emettendo un acutissimo fischio e fuggì sotto il tavolo, tremante.
“COSA DIAVOLO –”
Quello fischiò di nuovo, costringendola a tapparsi le orecchie.
“Smettila, ti prego!”
Il coso smise.
La ragazza si tolse le mani dalle orecchie, sorpresa. Silenzio.
Passata la paura e il panico iniziali, la curiosità iniziò a farsi largo fra i suoi sentimenti. Si flesse sulle ginocchia, cercando il ‘coso’.
“Gnamon.” pigolò quello.
“Eh?”
“Gnon Coso. GNAMON.”
“Eh?”
“Io Gnon mi gniamo coso, mi chmiamo Gnaa–moooo–n!”
Funanya cadde a terra, assalita: Gnamon, a voler tanto ribadire il suo nome, aveva finito con il saltarle addosso. La ragazza fece per urlare, ma si trattenne, trattenendo anche il fiato.
Che cavolo era?
“Sono un DiGnimon. DiGnnimon. Di.. Gni… Gni.. GII – DIGIMON”.
Con un evidente difetto di pronuncia. Al quinto tentativo era riuscito a dire GI invece di GNI.
“Un Digimon.” ripetè perplessa Funanya.
“Un Dignimon!”
“Un Digimon?”
“Un Dignimon! Sono Gnamon!”
“Gnamon o Giamon?” si lascò scappare la ragazza
“Gnaaaaaamoooon!”
Al digimon, furibondo, si arruffò tutto il pelo.
Funanya ancora cercava di elaborare, sospesa fra il mondo dell’assurdo e quello della realtà.
Una parte di lei voleva scappare via urlando e far finta che tutto ciò non fosse mai successo.
Un’altra, però, era esaltata. Entusiasta. Affascinata.
Cosa diavolo era quel ‘digimon’? E soprattutto – allungò sovra pensiero la mano – quanto era foffoso il suo pelo?
Non appena lo sfiorò, il digimon - o coso - o Gnamon si irrigidì.
Poi prese a lucciare.
Sì, a luccicare.
A quanto pare i digimon luccicavano.
“AHHHHH!!!!”
E questa era la voce di Paola che si spandeva per il corridoio di fronte alla sala insegnanti.
Pensare che per un magico e folle minuto era riuscita a dimenticarsi di Paola. E dei genitori di Paola.
“AHHHHHHH!!!!!”
Ecco, si avvicinava
“LE OOOOOMBRE! MAESTRA! MAESTRA! MAESTRA! LE OMBRE!”
La bambina fece irruzione nella stanza, per arrestarsi non appena varcata la soglia, paonazza e ansimante, gli occhi sbarrati puntati su Gnamon.
Che intanto continuava a luccicare.
L’idillio durò ben due secondi e mezzo: dopodiché qualcosa da dietro alle spalle della bambina emise un poderoso ruggito, a cui seguì la luce di un’esplosione.

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