inevitabile follia di crissi (/viewuser.php?uid=98307)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** capitolo 17 ***
Capitolo 1 *** capitolo 1 ***
1 Inevitabile follia
INEVITABILE
FOLLIA*
Parigi,
16 luglio 1789
Mi
guardo le mani. Le mie belle, abili mani.
Sangue.
Vermiglio, viscido, nauseante.
Ne
sono ricoperte, quasi impregnate. Le immergo nel bacile e
l’acqua diviene immediatamente rossa.
Questo
fa parte della quotidianità del mio lavoro, ma oggi ne sono
inorridito più che mai e, nonostante il caldo torrido di
luglio, un brivido di gelo mi invade.
Fare
il medico non è un mestiere, ma una vocazione.
È
un cammino in salita, logorante, sia per il corpo che per
l’anima. Una sequenza infinita di dolori, orrori e pene. Una
consacrazione ad una missione, la dedizione ad uno scopo, che per
quanto ci si impegni, sfugge sempre al suo completamento. Una
necessità ad adempiere, che non si domanda quale
sarà il tornaconto, se ci sarà un tornaconto.
Sì,
una vocazione, la risposta ad una chiamata interiore. Almeno
così dovrebbe essere per tutti coloro che intraprendono
questa professione. Così è stato per me. Anche se
non da subito. Potrei dire da sempre, ma non sarebbe completamente
vero. Certo, ho sempre saputo cosa avrei voluto essere nella vita e,
grazie ad un’ anima buona che ha creduto in me e mi ha pagato
gli studi, lo sono diventato. Ho potuto seguire quella voce che mi
chiamava, rispondere alla esigenza di fare. Fare qualcosa, fare di
più, fare meglio. Ho potuto realizzare il mio sogno. Sia
chiaro: non sono un santo. Ho sempre avuto a cuore coloro che soffrono
ed il desiderio di arrecare sollievo alle pene umane, ma anche la
volontà egoista, seppur umana, di migliorare la mia
condizione, uscire dalla mediocrità sociale ed economica.
…
Il mio sogno...
L’eco
di questo mio pensiero si spande nella mente, come un grido che
rimbalza tra le pareti dei monti e ritorna più forte e
distorto, e pare l’urlo di un folle.
Sogno?
Mi chiedo incredulo.
Mi
sembra d’udire ancora le grida incessanti dei feriti, in
parte, ma solo in parte, coperte dai colpi dei fucili e dal rombo
spaventoso dei cannoni: un incubo, non un sogno!
Ora
gran parte di quelle grida sono cessate. Per sempre. Stroncate dalla
follia umana, in primis, ed anche dalla mia incapacità a
porvi rimedio.
So
che non è colpa mia, solo un limite della conoscenza umana,
della scienza che in questi anni sta muovendo i primi passi dopo secoli
di oscurantismo, ignoranza e paura; ma se qualcuno mi offrisse ora di
ricominciare tutto daccapo, se potessi scegliere di nuovo quale
carriera intraprendere, farei il fruttivendolo, così
getterei via solo frutta marcia anziché vite umane.
Sfrego
le mani col sapone, aiutandomi con una spazzola; strofino le setole
sulla pelle, con energia, quasi con rabbia, eppure mi sembra che questo
sangue non se ne voglia andare. Si infila sotto le unghie, nel reticolo
della pelle e lì continuo a vederlo, anche quando
più non c'è.
Dio
mio, quanti arti ho segato in questi due giorni? Quante ferite ho
ricucito e quante vite ho lasciato scivolare via perché la
mia medicina era impotente, perché nulla potevo fare per
riparare alla pazzia degli uomini?
Che
follia. Sì. La guerra è niente altro che follia
per chi, come me, le vite vorrebbe salvarle.
Per
altri, invece, imbracciar le armi è stata una scelta
obbligata. E mi perdo a riflettere su come sarebbe potuta andare
diversamente.
Una
follia inevitabile, penso. Il sollevarsi di moltitudini,
forse a ragione, forse a torto, forse entrambe le cose. Come un rivolo
dapprima silenzioso che, ignorato, diventa ruscello gorgogliante e si
ingrossa, alza la voce, scava tra rocce millenarie, apparentemente
salde, finché rompe gli argini e nulla più lo
trattiene. Non la ragione degli uomini, non la parola di Dio, non il
semplice buonsenso né la pietà.
E
allora, come una valanga, irrompe a valle e travolge tutto e tutti,
senza risparmiare chi, più a monte, si crede in salvo,
erodendogli la terra sotto i piedi e portandoselo via.
Perché
è così: siamo tutti provvisori su questa terra.
Nessuno è eterno, nessuno intoccabile, nessuno eletto da
dio: non un re e neppure un rappresentante all’Assemblea. Mi
domando se ne siano coscienti, tutti loro.
-
Dottore?
Mi
volgo a guardare la giovane donna bionda che si è affacciata
alla porta del mio studio. Ha l’aria distrutta, forse
più di me; d’altronde mi ha assistito senza sosta,
pur avendo appena patito la perdita di due carissimi amici.
-
Sì, Rosalie?
-
Il carro è pronto, dottore. Quando vuole possiamo partire.
Annuisco
e lei si allontana senza aggiungere altro, raddrizzando un poco la
schiena nell’avviarsi.
Forza
e coraggio, Rosalie, un passo avanti all'altro perché
diversamente non puoi fare, se non camminare la tua vita, per il poco o
tanto che ti verrà concesso.
Estraggo
le mani dall’acqua rossa e le sciacquo con quella limpida di
una brocca. So che sono pulite eppure io quel sangue me lo sento ancora
addosso.
Mi
rassegno a tamponarle con la salvietta, velocemente, non potendo far di
più per questo mio malessere.
Prendo
i miei ferri, lavati ed asciugati diligentemente; li metto nella borsa,
la mia inseparabile borsa, ed esco per apprestarmi a fare
ciò che normalmente non è mio compito, ma del
prete e del becchino.
E
stavolta sarò sincero, io abituato a mentire.
Rosalie
mi sta già aspettando a cassetta mentre suo marito Bernard
le rinnova raccomandazioni che qualunque buon consorte ripeterebbe fino
allo stremo.
-
Ti prego, ripensaci. – la supplica stringendo con la mano
quelle di lei strette sulle briglia.
-
No, Bernard, te l’ho detto: sono la mia famiglia ed hanno
diritto a riposare in pace e non in una fossa comune.
-
Almeno lascia che venga con te o mandi qualcuno: le strade sono
pericolose. – Insiste il giovane passando da un tono
imperativo, adatto al ruolo autoritario che si è trovato a
vestire in questi giorni, ad uno più confidente e
preoccupato di un marito innamorato.
-
Non devi stare in ansia. – Mormora Rosalie, deponendo i
finimenti e ricambiando la stretta.
-
E se lui non volesse …
-
Lui deve vederli. – Afferma perentoria.
Era
diventata forte Rosalie, forse lo era sempre stata. Forte, anche
cocciuta, irremovibile pure nei momenti in cui la sua lacrima facile
avrebbe suggerito il contrario. Lacrime che, avevo imparato negli anni,
indicavano rabbia, dolore, mai debolezza.
Si
sentiva forte, Rosalie, sì. Come mai prima.
E
con lui, con quell’uomo, sarebbe stata indicibilmente dura.
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Capitolo 2 *** capitolo 2 ***
2 Inevitabile follia
2 - INEVITABILE FOLLIA
16 luglio 1789, strada per Versailles
Il lento ciondolare della testa di questo imponente cavallo da tiro ha
un effetto quasi ipnotico su di me; tengo le redini mollemente, i
gomiti poggiati pesantemente sulle cosce. Sono stanchissimo, molto
più di quanto immaginavo di essere quando siamo partiti. Sembra
un viaggio che non debba finire mai questo nostro. Non ardo dal
desiderio di arrivare a destinazione, d’altronde.
Tutto attorno a noi, il silenzio della campagna è
pressoché totale nella calura pomeridiana di luglio e mi pare
irreale questo scenario di quiete dopo ciò che abbiamo vissuto a
Parigi.
Irreale e ingiusto che il mondo sia così iniquo, mi dico. Un
po’ di equilibrio non guasterebbe in questa commedia degli orrori
… Ma cosa pretendere da un mondo tondo? Per alcuni è
sopra, per altri è sotto; per uno è male, per l'altro
è bene. E per me ora, è nè uno nè
l’altro, e pure tutto insieme.
Mi sento lo stomaco in subbuglio.
Troppa ansia.
Forse mi sono assunto un compito che va al di là delle mie
forze. Forse Rosalie avrebbe avuto bisogno di qualcuno più forte
di me, qualcuno più distaccato che potesse accompagnarla e
spalleggiarla. E difenderla, all'occorrenza.
Che strana sensazione la mia: non vorrei arrivare, ma neppure tornare
indietro. Potessi, mi fermerei qui, ora, per dissolvermi in un istante
perpetuo, senza l'angoscia del futuro, senza il dolore del passato.
Mi par d’avere un macigno sul petto, ma preferisco ignorare
questo sintomo; no, non ci voglio pensare: rimuginare troppo complica
certe cose e toglie il sonno. Parola di medico.
- Tutto bene, dottore?
Mi scuoto dai tristi pensieri.
- Come?
- L’ho sentita sospirare, dottore, e domandavo se vi sentite
bene. Non avete una bella cera, signore … - mi dice Rosalie.
La guardo e riconosco nei suoi occhi arrossati una sincera preoccupazione.
- No, immagino di non avere l’aspetto più sano del mondo e
… effettivamente sono molto stanco, Rosalie. – confesso in
un sospiro - Mi fareste il favore di condurre voi per un poco il carro?
Solo … - esito - Solo pochi minuti per chiudere gli occhi e
riposarli. Solo per poco …
Rosalie allunga le mani sulle mie e sfila con delicatezza le briglia, che già stringevo con poca determinazione.
- Non preoccupatevi, dottore. Conosco bene la strada e non si vedono
anime sul cammino. Siamo soli. Riposate pure, mi occupo io di tutto,
signore.
Annuisco e stringo le braccia conserte sul mio petto; allungo una mano
sugli occhi, passandocela nell’inutile tentativo di levar via le
immagini di questi ultimi giorni. Il buio portato dalle palpebre
serrate, pare quietarmi un poco; mi illudo per un istante che
d’ora in avanti potrò ancora fare sonni tranquilli e,
cullato dall’andatura per ora abbastanza regolare del carro, mi
affloscio su questo spartano sedile e mi addormento, lasciando che
siano i ricordi ad occuparmi il sonno.
Parigi, marzo 1761
Sono un medico.
Devo
ripetermelo più di una volta perché solo ieri ero uno
studente di medicina, un topo da università, con più ore
passate tra i cadaveri che un becchino, ed ora sono qui, fuori della
stanza che ho occupato negli ultimi anni e per la prima volta la mia
pensionante, madame Furette, si è rivolta a me chiamandomi
dottore; senza ironia, senza quel velo di acidità col quale
pronunciava la parola, irridendomi quando mi ritrovavo in ritardo con
il pagamento della pigione. Ora sono davvero un dottore e lei lo sa,
ora appartengo ad un livello sociale superiore al suo, sebbene io
continui ad esser in ritardo col pagamento della stanza e lei continui
ad esser più benestante del presente, novello medico.
Mi passo una
mano sul bordo della giacca, tirandola appena e guardo distrattamente
gente di ogni genere passeggiare per la via, qui dall’uscio che
ho appena richiuso alle mie spalle. E’ il primo giorno di lavoro,
indosso il mio vestito più dignitoso, l'unico buono che ho, e
sto per recarmi allo studio del dottor Seville che oggi andrà in
pensione ed io rileverò i suoi pazienti. Per i primi tempi mi
assisterà, consigliandomi, informandomi, ma poi sarò solo
e nel bene o nel male le vite di tante persone dipenderanno solo da me.
Sono
incredibilmente fortunato, non potrò mai smettere di ripetermi
pure questo. Il mio mentore non solo mi ha pagato gli studi, ma ora ha
messo una buona parola per me assicurandomi la successione al dottor
Seville, un medico molto conosciuto, con gran parte della clientela non
solo a Parigi, ma pure tra le famiglie nobili di Versailles.
Praticamente parto in carrozza con la mia professione. Niente gavetta
tra croste o infestazioni da pidocchi, niente ubriachi di strada: solo
pazienti di prima classe con malattie da ricchi ed il denaro necessario
per permettersi le mie attenzioni.
E mentre
cammino sovrappensiero per la strada, gongolando tra me e dondolando la
borsa coi ferri del mestiere, mi immagino già fidanzato con la
bella figlia di qualche ricco mercante: sì, decisamente la mia
carriera parte bene.
- Oh,
eccovi! Finalmente siete arrivato, dottor Lasonne! – esclama
l’anziano dottor Seville aprendomi l’uscio un istante prima
che io possa picchiare il battente – usciamo subito per una
visita a domicilio a Versailles, ho già pronto il calesse,
conducete voi, sì? – blatera fulmineo il vitale
ottuagenario.
So che non si aspetta una risposta mentre mi passa accanto scendendo piano i quattro scalini, aiutandosi col bastone.
- Sì
certo, ma forse dovrei precedervi a cavallo, così tanto per far
prima se si tratta di una emergenza- mi offro, ansioso di far buona
impressione.
- Oh, non
c’è da preoccuparsi! Tanto quel diavolo di donna ci
sotterrerà tutti quanti! – esclama accompagnandosi con un
gesto, come se volesse scacciare una mosca fastidiosa o la stessa
diavolessa e lo fa con tanta foga che il suo ondeggiare pare promettere
una caduta rovinosa, che in barba alla famosa gravità, non
avviene.
Sorrido
sorpreso da una così precisa diagnosi a distanza e mi avvio al
calesse, precedendo il barcollante ed intemperante ometto con pochi,
lunghi passi.
- Sarà lunga fino a Versailles … - mormoro aiutando il mio esimio collega a salire poco agilmente a cassetta.
- Ci
fermeremo prima, parecchio prima, dottor Lasonne. – afferma
puntando saldamente il bastone fra le gambe ossute e visibilmente
arcuate, poggiandosi ad esso con entrambe le mani come se questa
fosse la posizione più comoda al mondo. - Siamo diretti ad un
palazzo nobiliare di una famiglia molto, molto, molto importante
– sottolinea fissandomi di sottecchi appena mi accomodo accanto a
lui.
“Bene, molto, molto, molto importanti …”, penso non riuscendo a non sorridere di soddisfazione.
- Quindi facciamo visita ad una nobildonna di alto rango … - commento schioccando le redini.
Il collega sorride beffardamente.
- Nobildonna? Beh, facciamo visita alla padrona di casa e questo è certo.
La strana precisazione mi suonò poco comprensibile allora, ma con gli anni avrebbe acquistato pieno significato.
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Capitolo 3 *** capitolo 3 ***
3 inevitabile follia
3 - INEVITABILE FOLLIA
Marzo 1761
Conduco il calesse lungo la strada principale fino ad un bivio al quale deviamo dalla retta via.
La
strada è in ordine, meno trafficata di quella per la reggia,
costeggiata da due filari di robusti platani che cominciano a mostrare
colore primaverile nelle chiome.
Devo
constatare che ci fermiamo realmente prima di arrivare alla cittadina
di Versailles, sebbene ho il sospetto che il parco di questa villa si
trovi adiacente a quello immenso del castello; ho già da tempo
constatato che la metrica di molti aristocratici è decisamente
diversa da quella dei comuni mortali: quello che per i più
è un giardino notevole, per certi eletti è poco
più di un cortile sul retro.
Ed
ho il sospetto che questo generale Jarjayes sia veramente un pezzo
grosso. Il fatto che il mio collega, dottor Seville, non abbia fatto
che ripeterlo con noiosa insistenza per tutto il tragitto lesinando
però sui dettagli, in effetti non è una garanzia.
Ma credo che in questo caso non abbia affatto esagerato. Il palazzo
è certamente notevole, gli arredi pregiati e alla moda; i
domestici scattano come soldati, efficienti e rapidi.
Solo una famiglia nelle grazie del re può ostentare tutto ciò.
E chi sarà la mia prima paziente ?
La moglie? La madre? Forse la suocera del generale?
Il maggiordomo ci accoglie con un inchino.
- Prego, signori, il generale vi attende.
Con
mia sorpresa, ci guida al pianterreno, attraverso i locali per la
servitù, più modesti rispetto alla parte patrizia
dell'edificio, ma anche assolutamente più che dignitosi.
A quanto pare siamo qui per una domestica, penso con un briciolo di piccata delusione.
Questo
generale deve avere molto a cuore la salute dei suoi sottoposti,
rifletto però cominciando a considerare i riflessi positivi sul
mio portafoglio di un uomo così magnanimo.
Dal fondo del corridoio si ode la voce di una donna, lamentarsi, piangere e brontolare. Soprattutto brontolare.
- Che dolore! Che dolore! Sto morendo!
-
Non dire assurdità, andiamo… E poi io non te lo permetto!
- replica un uomo dalla voce decisa, autoritaria, ma anche rassicurante.
- Il mio André? Dov'è il mio André? Perché non è qui con la sua cara nonna morente?!
-
Perché non sei morente e perché lo spaventi comportandoti
così! Un po’di autocontrollo, santo cielo!
In piedi, fuori della porta ci sono due bambini, credo della stessa età.
Quello
con i capelli scuri ha i lacrimoni agli occhi verdi e un visetto
ansioso con l'incarnato smunto sotto la primaverile abbronzatura di
colui che trascorre molto tempo all'aperto; presta attenzione alle voci
che giungono dalla camera, come se temesse parole o suoni che devono
averlo spaventato in un recente passato e si tormenta le piccole mani
intrecciando le dita strette strette.
Certamente
è il povero André, deduco mentre dalla stanza un lamento
della donna lo fa sussultare.
L'altro, incredibilmente biondo,
con una postura distinta, impeccabile, ma non rigida, lo sta consolando
bisbigliando piano parole di conforto. D’improvviso, si volge e
alza gli occhi celesti su di me e mi sento esaminato.
- Ecco,
è arrivato il dottore Seville - dice con tono adulto,
squadrandomi senza mostrare la sorpresa di vedere uno sconosciuto a
fianco del medico di famiglia. - Lui si prenderà cura di tua
nonna. Non temere André. - conclude senza levare gli occhi
taglienti da me.
Veniamo accompagnati oltre la porta aperta e continuo a sentire lo sguardo inquisitore del bambino biondo alle mie spalle.
- Bene
bene, cosa è accaduto stavolta? - domanda con un sottofondo
ironico il vecchio dottore, strizzando l'occhio al distinto gentiluomo
in piedi accanto al letto che, vedendolo, trae un sospiro di sollievo.
- Buongiorno
dottore Seville! - lo saluta - È accaduto che la nostra Marron,
appena ha visto il primo raggio di sole primaverile, ha messo in piedi
una rivoluzione in casa! - esclama come un rimprovero - … Se
solo avesse più riguardo di sé e lasciasse i lavori
pesanti a chi ha l'età e la forza per poterli fare…
- E
come posso, circondata come sono da sfaticati! - rimbrotta una donna
tonda e minuta, dall'età indefinibile, agitandosi sotto le
coperte.
- Sappiamo
che senza di te la casa è perduta: sei come l’ultimo
vecchio soldato rimasto a reggere il fortino. - tenta maldestramente di
imbonirla il generale.
- Vecchia???
E tutti noi, uomini grandi e grossi, ci sentiamo gelare il sangue dal tono di questa donnetta terrificante.
- Va bene, vediamo cosa è accaduto. - Propone coraggiosamente il mio collega - Dove sentite dolore?
- Dappertutto,
dottore, ma la schiena… la schiena… - si lamenta lei,
rotolando un poco sul fianco per indicargli un punto fra i lombi.
- Vediamo… Qui fa male? - chiede Seville premendo appena ove indicato.
- Oh
dannato! - è l'immediato strillo accompagnato da un fulmineo
manrovescio istintivo che, solo per fortuna, non colpisce il naso del
dottore.
- Lo
prendo come un sì. - mormora egli, allontanandosi di un passo,
ancora incredulo per lo scampato pericolo. - Marron, dovete smettere di
atteggiarvi a giovinetta indistruttibile! Un paio di giorni di riposo e
tranquillità, una dieta leggera, vi rimetteranno in sesto.
- Sto per morire e voi mi blandite con chiacchiere! - piagnucola ella, riaffondando nei cuscini.
- Non
state per morire! Dottor Lassonne, vi prego, date anche il vostro
parere a questa donna, affinché possa fugare ogni timore! - mi
coinvolge, alzando gli occhi al cielo.
Mi schiarisco la voce, preparando una frase che non possa sembrare di semplice accondiscendenza.
- Dalla
vostra reazione alla sollecitazione in zona lombo sacrale, pare chiaro
ci sia un sovraccarico della parte dovuto a qualche movimento brusco.
Riposo, rilassamento e dieta è tutto quanto mi sento di
consigliare.
Forse
è il mio tono sicuro, forse il fatto che mi vede per la prima
volta e causo una certa soggezione, ma la donna pare calmarsi. Mi
guarda dal di sotto della cuffia da notte, dietro gli occhiali tondi.
con due occhi insolitamente piccoli e, con un singhiozzo, porta il
fazzoletto a tamponare le narici gocciolanti.
- Visto,
anche il dottore Lassonne dice che non hai niente! - conclude dopo un
istante di quiete il generale, un po’ troppo frettolosamente.
Non l'avesse mai fatto! Come gettare un secchio d'acqua su un nido di vespe!
- Un
vero uomo col coraggio di dirmi la verità non c'è in
questa stanza! - esplode la governante. E la disperazione riprende.
- Oh, povera me! Oh, mondo crudele! Il mio bambino? Dov'è il mio André che devo dirgli addio!
Ci
guardiamo in volto, tutti e tre rassegnati, e ci accordiamo
silenziosamente per lasciare la stanza, mentre il piccolo André
corre ad abbracciare la nonna, piangendo come una fontana.
- Quella donna è sana come un pesce e testarda più d’un mulo lunatico con una spina piantata nel culo!
Esclama,
col medesimo sordo borbottio di un temporale all’orizzonte, il
dottore Seville, non vergognandosi minimamente della volgarità
appena espressa.
Fa un cenno imperioso alla coppia di domestici che attendono in corridoio.
-
Voi! Portatele un infuso di biancospino e annegatelo nel cognac. E
quando dico annegatelo, intendo molto più cognac che infuso.
Facciamo dormire questa dannata donna, che ci lasci tranquilli per
qualche ora. E portate fuori quel povero bimbo prima che lo faccia
ammattire col suo lagnarsi!- tuona.
I domestici scattano e nel corridoio restiamo solo noi col bimbo biondo.
- Bene… - mormora il generale dopo un istante di silenzio tombale - Vi fermate a pranzo, signori?
- Molto
volentieri, generale Jarjayes! - si affretta a confermare con
entusiasmo il mio collega. - La vostra governante aveva già
preparato qualcosa, per caso?
Il generale, colto alla sprovvista, volge uno sguardo interrogativo al maggiordomo che ci sta raggiungendo.
- Madame,
la governante, esige che siano sempre pronti degli antipasti misti,
almeno quattro portate di primi piatti freddi, due caldi, due arrosti
in forno, uno stufato, tre tipi di contorno e otto torte. È
sempre previdente, madame.
Il generale ride sollevato, invitandoci a seguirlo.
- Oscar,
pensi tu a levare André dagli impicci? - chiede notando che la
domestica incaricata di allontanare André, lo stava tirando
delicatamente ma, appena lasciata la presa, egli tornava ad
abbracciare convulsamente e tenacemente la malata.
- Certamente, padre. - assicura il figlio.
E,
mentre il mio collega col generale si avvia discorrendo in merito alla
cucina della governante, tanto buona almeno quanto acido è il
suo carattere, mi attardo: guardo il signorino entrare nella stanza
della tata e con passo elegante e deciso avvicinarsi al nipotino della
governante.
- André, tua nonna ha bisogno di riposare: lasciamola dormire. - lo invita con tono calmo.
Il piccolo, abbracciato alla nonna, tira su di naso.
- Nuu…
- lamenta in tono capriccioso. - lo sai cosa succede se esco…
E’ successo con papà… e anche con mamma. Succede
che arrivava il Signore e la porta in cielo. E io resto solo.
Sento il cuore gonfiarmisi di tristezza ed empatia per questo povero orfano, ma solo per un istante.
Il figlio del generale, contro ogni aspettativa, allunga una mano sulla sua spalla.
- Non sarai mai solo finché sarò in vita, André.
E
lo sguardo che si scambiano questi due bambini, la serietà della
promessa dell'uno, la fiducia dell'altro mi fanno pensare a quanto
debba essere liberale questo generale che permette al figlio un tale
legame.
Marron,
evidentemente resasi conto di quanto il nipote si sia spaventato per la
situazione, si riprende abbastanza per rimettere le cose nel giusto
ordine.
- André,
fai come dice il signorino. Farò un bel sonno e domani
sarò in forma, vedrai. Non far preoccupare i padroni, su. Sii
ometto, bambino mio.
E lo stacca delicatamente da sé, asciugandogli con un dito le due lacrime sospese negli angoli degli occhi arrossati.
Oscar lo prende in consegna, cingendogli le spalle.
- Andiamo,
André. Ci facciamo dare due bei bicchieri di latte e poi finiamo
di sfogliare il libro d'avventura che mi ha regalato mio padre, quello
con tante figure.
- Prendiamo anche dei biscotti?
- Alla cannella?
- Sì,
anche ai mirtilli. Mi piacciono i biscotti. - dichiara il piccolo, col
sorriso sulle labbra, mentre mi passano davanti.
Li
guardo allontanarsi nel corridoio, chiacchierando delle loro passioni
infantili e mi interrogo sul loro futuro, li immagino diventare
grandi: sopravviverà la loro amicizia alla età adulta?
Davvero Oscar non lo lascerà solo? Allora non sapevo e mai avrei
potuto immaginare.
***
NOTA
Il dottor
Lassonne non è quello realmente esistito, infatti egli
morì alla fine del 1788 e non può quindi trovarsi alla
guida del carro il 16 luglio 1789. Mi sono basata solo sulla sua
presenza nell’anime, il dottor “baffetto” che
interviene a rattoppare i protagonisti. E’ anche un po’
più giovane e con una vita completamente inventata.
Come anticipato, mi sono presa molte libertà e licenze: non aspettatevi nulla di storico.
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Capitolo 4 *** capitolo 4 ***
4 inevitabile follia
4 - INEVITABILE FOLLIA
16 luglio 1789
Dopo quasi cinque
interminabili, insopportabili ore, su questo carro rigido, che procede
a passo d'uomo, che é massacrante per ogni osso e muscolo e
nervo dei nostri già esausti corpi, arriviamo alla meta: un
bel palazzo, un luogo quieto, candido, ordinato, adagiato nel principio
del tramonto; e il sollievo dopo ore di sole e afa, pare un miracolo.
È un luogo
alieno a tutto ciò che ha stravolto Parigi in questi giorni.
Ed è esattamente come la prima volta che lo vidi, eppure
è passata una vita. Quanto via vai per questi sentieri,
lineari e perfetti; quanta acqua sgorgata da queste fontane artistiche
e immacolate; quante rose bianche e rosse appassite in quei filari.
Già al
principio del viale incrociamo alcune persone di servizio: giardinieri
che si levano i cappelli di paglia in saluti rispettosi, lenti, dovuti.
Poi, appena accortisi del nostro lugubre carico, essendo giunto al loro
olfatto l'inconfondibile odore di morte che ci lasciamo alle spalle, si
animano di sorpresa, di paura, anche di emozione sincera sospettando il
contenuto, avendo riconosciuto me, avendo riconosciuto Rosalie.
Parlottando tra loro,
posano rastrelli, falci, forbici; si accodano mestamente al carro, col
capo chino, facendo il segno della croce, iniziando a mormorare
preghiere, e quando giungiamo all'ingresso del palazzo, siamo ormai un
chiaro corteo funebre. Sui loro volti, tristezza,
incredulità, smarrimento.
Due domestiche intente
a spazzare i gradini dell'ingresso, interrompono il mestiere, sorprese
dalla inconsueta scena. Mano a coppa sulle labbra la prima, non appena
il debole vento serale conduce alle sue narici l’olezzo cui
io e la mia accompagnatrice quasi piú non badiamo, mentre la
compagna lascia cadere la scopa, tintinnante sulla pietra bianca come
ossa invecchiate al sole, e corre dentro, invocando il suo dio, tra
grida scomposte.
Fermo il veicolo e
guardo per terra, il ghiaietto così lontano da raggiungere
per le mie stanche e intorpidite membra, e mi perdo ad osservare
l'ombra mia, quella del carro, delle casse dietro me, lunghe e nitide
contro il sole del tramonto, e quella di Rosalie che
già si muove sulle scale verso coloro che stanno arrivando
chiamati dalle grida della domestica. Il maggiordomo si affaccia,
immediatamente capisce, ma è troppo tardi per proteggere il
padrone.
Il generale viene alla
porta e la servitù gli fa largo, come un banco di pesci
all'arrivo dello squalo.
Il suo sguardo azzurro
come il ghiaccio, corre dal mio viso mesto al carro e poi ancora nei
miei occhi. E non c’è bisogno di parole. Scende
piano i gradini, con passo sempre meno sicuro, incerto, instabile.
Si avvicina al retro
del carro. Resta immobile a fissare le due forme rettangolari, di legno
chiaro, non stagionato e di scarsa qualità; poi esitante
sposta i coperchi delle bare.
Il puzzo irrompe
nell'aria con violenza e d'istinto l'uomo porta una mano verso il
volto, ma si ferma prima: è qualcosa che non può
evitare, che non vuole evitare. È l'odore della sua colpa,
è il puzzo del suo peccato e dovrà fissarsi nei
suoi ricordi per ogni giorno a venire.
Muove la mano incerta
sopra i volti coperti, drappeggiati di telini bianchi e
improvvisamente,- con decisione, forse attirato da lineamenti che
neppure il velo ed il gonfiore possono confondere tanto da rendergliela
irriconoscibile, scopre il volto del suo stesso sangue.
Sbianca, lui, uomo
forte, tutto d’un pezzo, ma non pronuncia verbo.
L’immobilità
viene invece interrotta dalla governante, il silenzio dal suo urlo
lacerante.
“I miei
bambini!”, grida lei.
Rosalie intercetta la
cara balia che con una forza inaudita la sospinge via, così
come fa con il generale il quale riesce tuttavia a trovare la forza di
trattenerla prima che si getti sui cadaveri. I nomi di chi erano in
vita urlati a squarciagola da colei che li aveva allevati e mai avrebbe
dovuto vederne la morte.
Ed è solo
in quel momento che permetto alle lacrime mie, di oltrepassare le
ciglia.
Estate
1767, palazzo Jarjayes
-
I miei bambini… - sta ripetendo la governante alle mie
spalle, tormentando un fazzoletto fra i denti stretti, come fa sempre
quando sente prudere le mani - I miei bambini non fanno a pugni! -
ribadisce come se il ripeterlo possa cancellare un fatto incontestabile.
-
Eppure questo è un bel gancio dritto sul naso, madame. -
mormoro ridacchiando tra me, immaginandomi la scena.
-
E’ rotto? - domanda Marron ansiosa.
Tasto
l’osso il più delicatamente possibile, in mezzo a
questi occhi verdi come il mare che risaltano ancor di più
sottolineati dagli ematomi rossastri.
-
No, perfortuna, solo una brutta botta. Tieni su la testa, guarda il
soffitto, giovanotto! - ordino ad André, seduto davanti a
me, sollevandogli il mento mentre cambio la pezza insanguinata con una
pulita. - Fa male?
-
Sì, dottore - mi risponde con voce nasale.
-
Bene, ti servirà di lezione così la prossima
volta ti ricorderai di scansarti. - lo ammonisco con tono paterno.
-
Veramente, è Oscar che si è scansato ed io ho
preso il pugno destinato a lui. - bofonchia il ragazzino.
-
Non scaricarti la coscienza dando la colpa a mad… al
signorino Oscar! - irrompe sua nonna - Voi non dovete fare a botte! -
ordina.
-
Ma nonna… e se gli altri fanno a botte con noi ?!
-
E cosa avresti fatto di grazia per istigare una lite? - lo sfida
piantando le mani sui fianchi, dando per scontata la sua colpevolezza.
-
André ha fatto proprio nulla, i figli di monsieur Martin se
le cercano - giunge la voce di Oscar alle nostre spalle.
Ci
volgiamo e non ho nemmeno il tempo di visualizzare, che la governante
sta già lanciando uno strillo.
-
Buon dio! Ma come vi siete ridotta mad…. signorino Oscar!
Sorrido
per le sue continue correzioni nell’esprimersi. So che il
generale l’ha ripresa severamente per la sua testardaggine
nel rivolgersi al femminile ad Oscar, ma posso comprenderla. I ragazzi
stanno cambiando: André ha una voce più profonda,
Oscar lineamenti più dolci. Tutti sanno la
verità, ma testardamente la evitano. Compresa la stessa
Oscar. E questo non è un bene, visto che ormai ha quasi
dodici anni.
Ho
tentato più di una volta d’affrontare
l’argomento col conte, ma non intende ragioni. Insiste a
negare l’evidenza, a rivolgersi alla figlia al maschile,
vantandosi con chiunque di quanto sia felice del suo erede, di quanto
luminoso sia il futuro che attende i Jarjayes.
E
incidenti come quello di oggi, sono diventati ormai quotidiane
dimostrazioni di virilità cui Oscar ricorre per consolidare
questa menzogna. A farne le spese per lo più
è proprio André, stretto tra l’incudine
ed il martello, tra gli ordini del generale e le richieste di sua
nonna; vincolato a seguire Oscar nelle sue bravate, e cavallerescamente
obbligato a difenderla.
-
Dovresti vedere come sono ridotti gli altri, Nanny! - esclama la
ragazzina sporca ed arruffata entrando in cucina. - Quei vigliacchi se
la ricorderanno questa giornata, André! Uno l’ho
quasi annegato nell’abbeveratoio… Non se la
prenderanno più con il povero Arione *.
-
E voi vi siete ridotta così… per il vostro
cavallo? Santo cielo, che direbbe il generale se fosse qui!
-Mio
padre direbbe che mi sono comportato come ci si aspetta da un
gentiluomo, come farebbe un vero Jarjayes. I figli di Martin hanno
maltrattato il mio pony, che è vecchio ed indifeso: solo dei
vigliacchi se la prendono con gli indifesi. - esclama spavaldamente
afferrando una mela dal tavolo e dando un morso energico.
-
Ahi!… - esclama con sorpresa, portando una mano alla bocca.
-
Permettete? - domando lasciando André ancora seduto a
guardare il soffitto ed avvicinandomi a lei - Avete un bel taglio
all’interno del labbro, Oscar… - dico tenendole il
mento con due dita e sollevandole le labbra per osservare la dentatura,
fortunatamente ancora perfetta, mentre penso che probabilmente il
generale non sarebbe così entusiasta di sapere che il figlio
prediletto si azzuffa con degli stallieri - Niente mele per un paio di
giorni, - sentenzio - anzi, direi dieta liquida per tutta la
settimana…. Ad entrambi.
Come
immaginavo, un coro di protesta si leva dai ragazzi e rido apertamente.
Un po’ mi piace infierire con queste raccomandazioni che
sanno tanto di punizione, specie se servono a tenerli fuori dai guai.
In fondo, entrambi questi fanciulli, non hanno veramente qualcuno che
si occupi di loro, a parte Marron.
Madame
Marguerite è ormai stabilmente trasferita a corte insieme
alle figlie ancora da maritare ed il generale è
più un maestro, un istruttore militare, che un padre per
Oscar, ed è spesso assente.
Per
fortuna ora abito a Versailles e, nonostante i miei mille
impegni, posso accorrere qui in poco tempo perchè
gli incidenti dai Jarjayes sono diventati un’abitudine. A
volte dubito che questi ragazzi potranno sopravvivere
all’adolescenza, di questo passo.
La
governante mi guarda soddisfatta per la ramanzina che ho rifilato. Ci
sorridiamo. Lei è l'unico punto stabile per questi
fanciulli, la sola persona che possono accumunare alla parola
“casa”.
-
A proposito di dieta, dottore, le va di fermarsi a cena? - domanda - Ho
preparato tante deliziose pietanze che andrebbero sprecate visto che
certi scriteriati - e lancia sguardi di fuoco ad entrambi - non
potranno rendere giustizia alle mie fatiche…
-
Sarà una gioia, madame. - accetto con entusiasmo.
I
miei clienti a Versailles sono aumentati anche grazie alla buona
intercessione in mio favore del generale e di sua moglie: devo molto a
questa famiglia, provo un sincero affetto per questi ragazzi ed ho
paura per loro. Temo che quando i cancelli di questa folle gabbia di
bugie si spalancheranno sul mondo reale, la verità
crollerà su di loro tagliente come un luccicante specchio
che va in frantumi.
Intanto,
anche se il mio tempo libero diminuisce per via di mille impegni,
l’occasione per frequentare questo palazzo la trovo sempre.
Per questi ragazzi e, lo ammetto, anche per i manicaretti di Madame
Grandier.
Il
caro dottor Seville sarebbe felice e concorde con me. Che il buon Dio
lo abbia in gloria.
***
*(cavallo mitologico)
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Capitolo 5 *** capitolo 5 ***
5 - INEVITABILE FOLLIA
16 luglio 1789
La servitù
inizia i quotidiani riti serali e pare un giorno come
un’altro a palazzo Jarjayes.
In silenzio si
accendono le candele dei candelabri, si calano lampadari per sostituire
quelle consumate e con lunghe aste si illuminano quelle poste in alto.
Ma, senza bisogno di parole, viene svolta anche una nuova mansione.
Valletti con drappi
neri si arrampicano su scale, si allungano malfermi fin sulla cima
delle grandi specchiere e le coprono, così la luce che
normalmente verrebbe riflessa, amplificandosi fino quasi a replicare il
giorno in questi saloni di ori, stucchi e marmi, viene invece
assorbita, divorata dalla notte creata dal tessuto, così
come la morte si sostituisce alla vita, istante dopo istante,
durante l'agonia.
Ed anche il palazzo
muore.
Rari bisbigli e rari
singhiozzi spezzano il silenzio assoluto.
Solo ora mi rendo
realmente conto di quanta vita portassero loro due in questo palazzo,
nonostante non vi ci tenessero feste, balli e sontuose cene. Bastava
una melodia al piano, qualche risata, il suono metallico
dell'incrociarsi di due lame. Erano l'anima di questo posto.
E’ stata
approntata una tavola per noi, ospiti inattesi e poco graditi, ed io
svogliatamente mangio, da solo, in questo spettrale salone.
La sedia di Rosalie,
di fronte a me , è vuota.
Lei si trova ancora al
capezzale della governante che, nonostante il tonico da me
somministratole per i nervi, abbiamo dovuto mettere a letto a forza.
É vuota
pure quella a capotavola, dall'altro lato del lungo tavolo. Il padrone
di casa, ostentando energia, è ancora impegnato nelle
necessarie direttive. Non una parola scambiata tra noi, tantomeno con
Rosalie.
Non ha posto domande
di nessun genere e noi non ci siamo ancora espressi riguardo le nostre
intenzioni. Per ora, a parlare sono lo sgomento ed il dolore.
Il generale rientra,
dritto, marziale come sempre, ma all’improvviso sbianca, ha
un mancamento, un cedimento delle ginocchia e si regge appena allo
schienale della sedia prima di lasciarsi cadere pesantemente su di
questa: è umano, alfine ha mostrato una crepa nel freddo
marmo che gli riveste il cuore. Peccato che loro non possano vederlo in
questo suo crollo.
Siede a capotavola,
distante da me fisicamente e simbolicamente; porta le mani a reggersi
le tempie: non oso immaginare quale caos si stia scatenando nella sua
testa ora che Oscar, il suo erede, non c’è
più,; e soprattutto, ora che il suo erede è un
traditore. Sono certo che sappia: un uomo nella sua posizione, non
può non essere stato informato nei dettagli su quanto
accaduto; non può avere dubbi su chi fosse il soldato della
guardia che ha guidato gli altri contro la Bastiglia.
Su André,
sulla loro storia, avrebbe potuto sorvolare, ne sono certo, ma sul
tradimento alla Corona da parte del suo sangue, mai. Per un Jarjayes il
dovere verso i Reali è tutto.
Il suo cameriere
personale si avvicina e gli consiglia, bisbigliando, di mangiare un
poco, ma il generale scuote il capo. Il domestico insiste su qualcosa
di rinvigorente, magari solo due dita di cognac per lenire la tensione
dei nervi.
- Oscar è
morta. Niente può lenire questo fatto. - lo
allontana seccato - Ed inoltre in un modo cosí disonorevole
per i Jarjayes. - mormora egoisticamente.
- Non
c’è alcunché di disonorevole nella
morte di madamigella Oscar, nè tantomeno nella sua vita! -
esclama una furente Rosalie giunta proprio in quel momento. Lo fissa
severa, le mani chiuse a pugno lungo i fianchi.
Il generale china il
capo, stranamente in imbarazzo.
- Sapete cosa intendo.
- No, - afferma
facendosi avanti fino a poggiare le mani sulla spalliera della sedia a
capotavola, direttamente di fronte a lui, ogni muscolo teso -
signor generale, non so proprio come interpretare diversamente le
vostre parole, queste sì, indecorose per i Jarjayes
- La Corona non la
vedrà allo stesso modo … - ringhia come un
animale ferito e sofferente, che vorrebbe giacere in pace senza essere
infastidito da quel noioso, piccolo insetto.
- Oh, la
Corona… - ripete Rosalie in tono sprezzante, priva di freni,
imbarazzo o timore - Già una volta commetteste questo
sbaglio, quando cercaste di assassinare vostra figlia… - il
generale la guarda sorpreso - Sì, lo so, so di questo
orrore. Ero amica di vostra figlia e di André e ancora lo
sono. Per quanto io abbia una scarsa considerazione dei Reali, ammetto
che la Regina si mostrò più acuta di voi in quel
caso.
- Ora è
diverso! Non verrà tollerato alcunché dopo la
vostra rivolta! Sua Maestà, il Re si aspetta la totale
nostra devozione. Per i Jarjayes è già un rischio
ospitare le loro spoglie ed io ho un'intera famiglia da tutelare oltre
ad un secolare retaggio!
- Lei era vostra
figlia! - sillaba Rosalie, scattando in avanti e pestando i
palmi sul tavolo, indignata da ciò che, ai suoi occhi, pare
più vigliaccheria che pragmatismo.
Sobbalzo immaginando
il peggio in arrivo e capisco invece quanto il generale sia distrutto
proprio dalla sua mancata reazione all’affronto.
- Non serve che me lo
ricordiate. - Mormora, la calda voce che si fa tremante.
- È anche
colpa vostra se sono morti. - Sentenzia Rosalie, riprendendo la sua
statura, che stasera non pare modesta com'è in
realtà.
Lo sguardo del
generale scatta su di lei come la punta di una lama ed il mio cuore
salta un battito notando, quanto non mai, la somiglianza tra padre e
figlia.
- Oh no, questo non lo
accetto!- mormora a denti stretti, con un tono che vibra dal profondo -
È stata una sua scelta, sempre stata una sua scelta fin da
quando è entrata nella Guardia Reale. Davvero credete che
avrei potuto in qualche modo trattenere Oscar dal fare ciò
che si era prefissata? Se è così, non la
conoscevate come credete.
- L'avete
messa davanti ad una vita che come donna poteva solo immaginare, come
poteva rifiutare? L'avete costretta a scegliere tra due gabbie!
L'intransigenza e la rigidità di uomini come voi, hanno
costretto tutti noi a scegliere! - esclama Rosalie, negli occhi lucidi
ha la Bastiglia e l'orrore esagerato al quale possono arrivare anche i
giusti, se fuori di sé.
- Tutti facciamo
scelte! Voi che avete lasciato questa casa prima e quella dei Polignac
poi, per prima lo sapete! Scelte più o meno convinte,
più o meno libere. Lei ha scelto di essere un soldato quindi
avrebbe dovuto obbedire, come soldato, come nobile e come figlia, in
ossequio alla decisione presa.
- Voi come tutti
loro… - accusa Rosalie - Tutti a stupirsi, a scandalizzarsi
di come si sia potuti arrivare a questo punto, senza chiedersi
perché si è arrivati a questo punto! Ciechi e
sordi e ottusi! Se non fosse per l'arroganza, l'ignoranza della
aristocrazia e di tutti coloro cui questo stato di cose faceva comodo,
non ci sarebbe stata rivolta! E se non fosse per il vostro
folle desiderio di un erede maschio, lei non starebbe marcendo in una
cassa!
- Le ho offerto un
matrimonio per riparare - mormora in un balbettio, negli occhi umidi
l'immagine intollerabile ed ancora incredibile di disfacimento
suggerita da Rosalie.
- Una toppa su un
disastro annunciato… Un matrimonio combinato?Un matrimonio
decoroso? ...Cosa le restava? Vivere da uomo alle vostre condizioni o
soccombere nel nulla di una unione benedetta dal re? Non avrebbe
potuto, non lei… Non più, dopo aver aperto gli
occhi sul marciume, la vacuità, l’ingiustizia e
sull'amore.
- Badate Rosalie,
siete un ospite appena tollerato. - ringhia, le mani che si stringono a
pugno sulla candida tovaglia.
- Sono qui per loro,
non per voi - replica stancamente Rosalie, senza ombra di timore. - Non
ho alcun interesse per cosa possiate o no tollerare.
Il tono, il distacco
di ribelle, gli portano alla memoria qualcosa di doloroso su sua figlia.
- Lei mi ha
abbandonato, ha abbandonato tutto ciò in cui credo
- mormora.
- Lei amava
André! Lo amava di un sentimento pulito, che non
può nascondersi dalla luce del sole come avrebbe preteso la
vostra società! - ribatte Rosalie, gli occhi ormai lucidi -
Non aveva altra scelta! Chi ama davvero non ha scelta! - sentenzia in
un singhiozzo.
- È andata
via chiudendo una porta alle sue spalle...
- E non
tornerà! - lo tronca brutalmente.
Piangono entrambi ora.
La realtà della morte tramuta ogni recriminazione
in parole vane.
Sento il bisogno
urgente di uscire.
- Vogliate scusarmi -
mormoro. E devo avere un aspetto poco sano a giudicare dal loro sguardo
allarmato.
Cerco aria, cerco
pace, ma non è possibile averne: fuori c'è
movimento.
Si attendono
visitatori: sono stati inviati corrieri alle sorelle Jarjayes ed ai
parenti più stretti.
Respiro profondamente
ed il malessere pare calare di intensità.
Vengo richiamato da
una luce lontana, oltre il bosco selvatico. So da dove proviene e non
sono certo di farcela, ma devo. Devo andare laggiù.
Cammino per questo
giardino, rigoglioso come sempre.
Pare che nulla possa
turbare la perfetta serenità, la regolare, monotona, falsa
perfezione di questo luogo.
Percorro un sentiero
eccezionalmente illuminato da torce, ornato da due filari di ortensie,
inframmezzati da cespugli di lavanda. Ma la loro fioritura non riesce
a coprire l'odore proveniente dalla cappella, così
come non ci riesce il profumo di limone delle magnolie poste ai due
lati dell'isolato, candido e spettrale edificio: profumi che non
riuscirò più a scindere da questo momento.
La cripta dei Jarjayes
è aperta, le porte pesanti spalancate per accogliere i
visitatori. Dentro la temperatura scende di parecchio, per via degli
spessi muri che ospitano salme, ma l'aria, che si scontra con la calura
esterna, è ancora pregna di umidità, di muffa e
marciume; e sento i polmoni comprimersi, dolendo, come se rifiutassero
di inspirare un simile asfissiante ed insalubre clima. Da anni non ci
viene sepolto nessuno: i Jarjayes sono stati fortunati, pochi decessi
hanno colpito la famiglia, una famiglia di persone sane e longeve. Per
lo più.
Lei è sola.
È seduta su
una delle poche panche di questa cappella, ove tutto è stato
pulito e lucidato con una velocità impressionante da
domestici scattanti, ben addestrati dalla governante.
Veste di nero, i
capelli coperti dal velo dal quale sfuggono due lunghe ciocche
ingrigite, e tiene gli occhi al crocifisso, messo in evidenza dai
bagliori delle torce all'esterno. La mano destra dalla quale scivola un
rosario che non sta usando è posata sulla bara di sua
figlia. Di tanto in tanto carezza il velluto nero deposto sui feretri
affiancati, per coprirli fino a terra. E sopra ai feretri, le loro
spade.
- Non ha voluto che la
vedessi. - mormora senza guardarmi quando arrivo alle sue spalle.
Non so da cosa abbia
capito chi fossi.
Deve avermi visto con
la coda dell'occhio.
- È meglio
così, madame - mormoro, rammentando con quanta
velocità un cadavere diventi orribile ed irriconoscibile.
Polvere sei e polvere ritornerai, ci insegnano… Peccato che
le carni debbano attraversare fasi niente affatto dignitose prima di
dissolversi.
- Non ha mai voluto
che la vedessi. - ripete lei, sottintendendo ben altro, una flessione
di rabbia nella voce a sottolinare quel mai e le dita si
arricciano sul velluto, graffiandone la morbidezza, che si sfuma in
chiaro scuri.
E piange Marguerite,
per la figlia perduta, per la bambina che non le è mai stato
permesso conoscere, per la donna con la quale era vietata ogni
confidenza.
- Il figlio
maschio… il suo figlio maschio... - astio nella voce. -
Eppure, lei lo amava così tanto…
- Amava tanto anche
voi, Marguerite.
Sorride amaramente.
- Sì,
più di quanto meritassi.
- Madame,
no…
- È
così, dottore: avrei dovuto difenderla da quella follia.
- Dovete essere
orgogliosa di Oscar… - sottolineo.
- Oh lo sono! -
esclama guardandomi scandalizzata al pensiero che possa credere il
contrario. - Sono orgogliosa di chi è diventata nonostante
suo padre! Donna nel cuore, prima che nell'aspetto. Torna a guardare il
feretro, gli occhi rossi che riprendono ad essere lucidi
- Sono orgogliosa del
suo coraggio, della sua intelligenza, del suo cuore e sono disperata
per ciò che non potrà più essere.
A queste ultime
parole, il mio sguardo cade appena oltre la bara di André,
sulla parete rivestita da lapidi di marmo bianco e su quel nome:
Alexandra Rose Des Jarjayes Grimaldi Lassonne.
Marguerite intuisce i
miei pensieri e mi sfiora la mano con la sua, ancora bella e delicata
come un tempo.
- Sono sempre i
migliori ad andarsene per primi, mio caro Francois.
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Capitolo 6 *** capitolo 6 ***
6 inevitabile follia
6
Inevitabile Follia
Versailles, estate 1775
La luce della candela trema al mio spostamento, mentre siedo accanto a
lei sul materasso.
- Madame Jarjayes? Madame, mi sentite?
Le sfioro la mano, ancora giovanile e delicata, morbida, quella di una
persona che non ha mai dovuto lavorare duramente nella vita; gliela
volto e tasto il polso. Sento il battito aumentare, si sta riprendendo.
Lei sbatte appena le palpebre, porta la mano libera alla fronte ed
annuisce, ancora confusa.
È notte fonda, ma la Regina Maria Antonietta è
tuttora in compagnia delle sue dame più vicine, specie della
nuova arrivata, la Contessa di Polignac; in vivace compagnia, di tutte
tranne di questa bella signora non più avvezza alle ore
piccole, al divertimento sfrenato.
- Appena ve la sentite, vi metto seduta.
Lei fa ancora cenno col capo, quindi aiutato da una cameriera, la
sollevo dal materasso dell’alcova e la sistemo seduta contro
dei cuscini. Il vestito da sera frusciante, il corpetto allentato per
aiutarla a respirare.
- Mi sento debolissima, gira tutto… - mormora.
- Avete avuto un mancamento - dico tastandole ancora il polso.
In quel mentre entra la figlia, pallida in viso quasi più di
madame.
- Madre! - esclama inginocchiandolesi ai piedi allarmata.
Marguerite, come sempre, secondo la sua indole, si attiva per placarla.
- Non ti preoccupare, Oscar, è solo stanchezza. Vero, dottor
Lassonne?
E lo chiede con un tono ed uno sguardo apparentemente gentili, quasi
timidi, ma che in fondo suonano come un ordine. Un vizio dei Jarjayes
questo di impartire ordini a destra e a manca con il semplice
sguardo. Ma è un ruolo che non mi si addice, quello di colui
che obbedisce ad una nobildonna per il semplice fatto che è
una nobildonna, ad un generale perché ha un grado e un
titolo e ad una governante perché ha un mestolo.
- Non affannatevi! - ordino io di rimando a questa donna fragile solo
all'apparenza.
Oscar prende la mano della madre levandola alla mia. Nessuno obietta.
Così continuo la mia visita, alzandole il mento e
scrutandola in volto: capogiri, visione offuscata, pallore,
disidratazione… Sì, può essere
stanchezza, in fondo madame passa ore immobile in piedi accanto a sua
maestà. Ma potrebbero esserci altre cause, non ultima, un
avvelenamento che è cosa niente affatto improbabile qui a
Versailles.
- Quando avete mangiato l'ultima volta, madame?
- Mah, non ricordo… Ieri sera.. Credo…
delle tartine.
- Certa che non fosse a pranzo?
- Oh… sì, può essere….
L'agenda di Sua Maestà è così fitta
che…
- Madre!
- Suvvia, Oscar! Sei l'ultima che può farmi rimbrotti, tu
che non trovi mai un attimo per te stessa. - E carezza il volto ansioso
della figlia.
- Tale madre, tale figlia. - osservo, invitando la mia paziente con un
cucchiaio a mostrarmi la lingua. - Madame, voi dovete riposare! -
intimo approfittando della sua impossibilità a replicare.
- Ma… Sua Maestà… - dice non
appena glielo permetto sfilando il cucchiaio.
- Sua Maestà ha decine di dame di compagnia: sono certo vi
farà la grazia di rendervi libera.
Scruto il volto dolce e silenzioso di madame Marguerite e noto un
cedimento nel suo sguardo.
- Oscar, cara… ti dispiacerebbe procurarmi un piatto caldo?
Qualcosa di leggero… - chiede rivolgendo un sorriso alla
figlia ancora inginocchiata ai suoi piedi, chiudendo amorevolmente la
mano di lei tra le sue.
- Certamente, madre. Mi occupo di tutto, ma voi riposate e seguite i
consigli del dottor Lassonne.
Si alza ed esce sorridendo ad entrambi, evidentemente tranquillizzata.
Non so se abbia intuito che la madre sta cercando di restare sola con
me. Per quanto riguarda i suoi affetti, Oscar non è molto
perspicace.
- Ed ora ditemi, madame, che disturbi avete avuto? - domando non appena
la porta si chiude alle spalle del colonnello.
Abbassa lo sguardo Marguerite. Deve essersi fatta un'idea su cosa
potrebbe essere la causa del suo malore, ascoltando tra i pettegolezzi,
le esperienze altrui.
- Non siate in imbarazzo - la invito.
- Non è facile…Io... ho creduto… ho
temuto di essere in attesa… Di nuovo … E mi sono
preoccupata… Non sono più giovane …
Tutt'altro… - mormora - E l'ultima volta… oh,
è passato così tanto tempo da Oscar...Ma
poi… - si porta la mano al ventre - Ho avuto perdite di
sangue, tanto… non al solito e….. dolore.
- Da quando Marguerite…?
- Settimane… Non lo sa nessuno tranne la mia domestica
personale. Niente ho detto a Marron.
- Il generale?
- Non sto molto accanto a mio marito ultimamente…
Lui… Non posso... non posso essere moglie con lui…
La vedo sbiancare e la invito a stendersi di nuovo.
- Devo visitarvi, madame.
- Non ora, dottore… Non voglio che Oscar …
- Fatevi accompagnare a casa e domani passerò a trovarvi.
State tranquilla però, riposate, saziatevi con un pasto
decente ed applicate panni freddi per il dolore.
Marguerite annuisce, nel suo sguardo due lacrime incagliate negli
angoli, e proprio in quel mente rientra Oscar. Noto solo ora che non
indossa la sua uniforme; in effetti neppure dovrebbe essere qui: ho
sentito pettegolezzi circa una sua sospensione per un duello col duca
di Germaine.
- Ho inviato una cameriera alle cucine…
- Oscar cara, forse… forse è meglio se mi porti a
palazzo. Avere un piatto caldo in questo reggia immensa è
quasi impossibile e poi… la nostra Nanny cucina meglio dei
cuochi di Sua Maestà.
Oscar resta perplessa, lo sguardo indulge sul volto di sua
madre, per poi passare al mio ed io con noncuranza mi sottraggo,
andando a posare il cucchiaio sul tavolo. Ma il tutto dura poco,
poiché i problemi del castello sono inconfutabili,
così come la bravura di Nanny.
- Se il dottore Lassonne dà il suo permesso allo
spostamento...
- Sì, assolutamente, a casa starà sicuramente
meglio e meglio accudita. Raccomandate al cocchiere di andare piano ed
evitare buche e sobbalzi.
- Non mancherò: André metterà
certamente il massimo della attenzione nella guida.
- Domattina tardi passerò a trovarvi. Abbiate cura di voi
nel frattempo.
Le lascio con un inchino e mi incammino verso casa.
Ho la quasi certezza di cosa angustia madame de Jarjayes, posso solo
sperare che non sia una forma aggressiva, ma benigna.
Domattina spero di riuscire a parlare francamente con lei.
Esco al buio, nel piazzale ove diverse carrozze sono in attesa, e mi
sento chiamare. Riconosco André che attende accanto alla
carrozza dei Jarjayes. Mi avvicino e prevengo la sua domanda.
- State tranquillo, madame si è ripresa. Tra poco
arriveranno per tornare a palazzo Jarjayes. Mi raccomando, senza
fretta, André. È importante evitare scossoni
lungo la strada e permettere a madame il massimo riposo.
Sorride André. I Jarjayes sono la sua famiglia, i loro
dolori sono i suoi. Specie quelli di Oscar, cosa palese ormai da tempo,
almeno per me.
- Domattina verrò in visita. Avrò bisogno di voi
per le commissioni dallo speziale.
- Contate su di me, dottore.
- A domani, allora. Passate una buona notte.
- Grazie di tutto, dottore, buona notte a voi.
Lo saluto con un cenno del capo, lui ricambia con un inchino.
Una buona notte, penso all'ironia… Finalmente avevo ottenuto
un incontro galante con la marchesa di Cocodans ed è finito
tutto in fumo.
Mi fermo e guardo l'ala del palazzo che era la mia destinazione prima
di essere intercettato per soccorrere madame Jarjayes, saltando
così l'ora fissata per l'appuntamento.
Potrei ancora tentare una grattatina alla porta del suo appartamento,
rifletto: in fondo, come diceva spesso il mio insegnante di anatomia
prima di ogni lezione pratica, tentare non nuoce, e la mia vita sociale
ha già la stessa vitalità di un cadavere sul
marmo dell'obitorio.
***
È mattino inoltrato ed il sole pare incattivito con me, come
se stesse prendendo la mira ed il bersaglio fossero i miei occhi
assonnati.
Tiro la tendina del finestrino per ripararmi da questa dannata luce.
Avrei fatto meglio se fossi tornato a casa mia, a dormire nel mio
letto, invece di grattare a quella porta.
Sopravvalutata, decisamente sopravvalutata la Cocodans. Un bel guscio
vuoto. Immensamente vuoto. Comincio a credere che un futuro
sentimentale per me a Versailles non sia nel programma del destino.
Poco male, tanto non avrei tempo per una vita sentimentale seria, tanto
meno per una famiglia, alla mia età, poi.
Appena la carrozza si ferma nel cortile dei Jarjayes, da fuori mi viene
aperto lo sportello.
Calo i miei occhiali dalle lenti annerite e mi affaccio.
- Buongiorno, dottore! - esclama André accogliendomi col suo
volto sorridente.
- A voi - grugnisco, un poco disturbato da tanta energia.
- Lasciate che vi porti la borsa, signore - si offre sorridendo
comprensivo e, ancora prima che possa solo pensare, me l'ha
già tolta dalle mani.
Saliamo le scale ed entriamo finalmente nell’ androne che,
grazie al cielo, é in ombra.
- Suppongo abbiate dormito profondamente. - commento invidiando un
po’ le sue giovanili capacità di recupero che io
non ho più.
- A dir il vero, non ho chiuso occhio. È stata una nottata
movimentata - mormora lanciando appena lo sguardo ad una giovinetta
bionda dagli abiti malmessi, che segue la governante a sguardo basso e
mani goffamente intrecciate.
- Buongiorno, dottore.
- Buongiorno a voi, Marron, come va la schiena?
Sì, lo so… Mi sono appena fatto del male con
questa domanda, ma è giunta alle mie labbra senza che
ponderassi le conseguenze.
- Potrebbe andare meglio, dottore, ma sa com'è, quando si
invecchia ogni giorno è un dono! Non si può fare
altro che accettarlo come arriva. - borbotta come fa ormai da quasi
quindici anni ogni volta che mi vede - Madame vi attende nel suo
appartamento. André, caro, accompagni tu il dottore?
- Sì, certamente. Prego… - mi invita a seguirlo.
- Tu Rosalie invece vieni con me, ti mostro la tua camera. - dice la
governante alla ragazzina.
Non faccio domande, anche se ho il sospetto che la giovinetta c'entri
qualcosa con la loro notte movimentata. Sono certo che qualcuno non
mancherà di informarmi. Probabilmente, più di
qualcuno.
Madame Jarjayes è a letto, nella sua stanza. Le tende sono
aperte. Ancora questa luce esagerata, penso. Non è
sola. Su una poltrona accanto al letto c'è una donna,
apparentemente di una decina di anni più giovane di lei, che
a giudicare dal libro fra le sue mani, la stava intrattenendo con una
lettura.
- Signore… - saluto entrambe con un inchino.
Ricambiano con un gesto del capo appena accennato.
André posa la borsa su un tavolino e, arretrando
garbatamente, si accomiata in silenzio, richiudendosi la porta alle
spalle.
La dama di compagnia accenna ad alzarsi, ma Marguerite la trattiene con
un gesto ed un sorriso.
- No, cara, resta pure!
L’amica mi lancia uno sguardo ed annuisco, dando anche il mio
benestare al volere della Contessa.
- Dite, madame, come avete passato la notte?
- Tranquilla, dottore.
- Emorragie? Dolori
Scuote il capo.
- Bene, come vi ho raccomandato, il riposo è la cosa
migliore.
Mi avvicino per visitarla. Scioglie i lacci della vestaglia, timida,
scostando le coperte.
Come la sera prima, comincio esaminando il volto, ascoltando il battito.
- Siete fresca, colorita ed il battito è regolare. Avete
fatto colazione?
- Sì, dottore, abbondante e con appetito.
- Bene. Posso?
Sto chiedendo il permesso per continuare la visita, ciò che
non ho fatto stanotte. Annuisce madame, scivolando verso il basso sul
materasso ad un mio gesto.
L'amica si alza per ripiegare le coperte verso i piedi del letto e noto
che lo fa sorreggendosi ad un bastone.
- Stai tranquilla, Alexandra. - la invita ancora madame, in tono
protettivo. Intercorre un sorriso e l'altra si riaccomoda obbediente,
sempre accompagnandosi col bastone.
Infilo una mano sotto la camicia per tastarle il ventre.
- Ditemi quando sentite dolore.
Non finisco la frase che una smorfia è la risposta. Finisco
di tastare più in basso, quindi ritiro la mano.
Mi guarda adesso e vedo la paura di chi crede d'aver avuto conferma ai
propri timori.
- Non è necessariamente maligno, madame. La maggior parte
causano dolore, sanguinamento, ma la convivenza è possibile.
Dovrete stare a riposo, nutrirvi adeguatamente e potrebbe anche
regredire. Se permettete la domanda...Con vostro
marito…?
- No, no non posso…. Fa troppo male.
- Gliene parlerò io. Capirà.
- Ma io lo amo...
- E poiché anche lui vi ama, capirà. - insisto
severo.
Le sto imponendo di non adempiere ai suoi doveri coniugali. Non
è cosa da poco per una coppia che, come nel caso dei
Jarjayes, si è scelta.
- Il generale è in casa?
- Stava lavorando nel suo studio - mi informa Alexandra.
- Bene, vado immediatamente a parlargli.
Appena apro la porta invece lo trovo ad attendere. È
sinceramente preoccupato, sebbene preferirebbe non darlo a vedere. Non
avevo dubbi sui sentimenti che prova verso i suoi familiari, sebbene in
più di una occasione abbia mostrato carenza di
lucidità e di buonsenso; cosa che negli anni lo ha condotto
ad errori disastrosi ed a tentativi di ripianare altrettanto disastrosi.
Mi fissa muto, con lo sguardo tra lo smarrito e lo spaventato di chi
teme di dover affrontare un momento che mai si vorrebbe fronteggiare.
Spiego che una massa è cresciuta nell'utero di sua moglie,
che le toglie energia, causa dolore e nel peggiore dei casi, potrebbe
portarsela via.
- La cureremo, dovrà osservare il riposo assoluto e
astenersi dai doveri coniugali - concludo.
Jarjayes annuisce, confuso, ansioso.
- Andrà meglio, sono fiducioso - mento per tentare un
addolcimento della notizia.
- Sì, sicuramente, dottore, grazie.
Entra nella stanza. Si rivolge alla dama.
- Sandrine, cara, puoi lasciarci soli?
- Certamente, Augustine. - si solleva con la gruccia e si avvia
claudicante verso il corridoio, nella mia direzione.
Il generale siede sul letto, prende la mano di Marguerite e gliela
bacia teneramente. Parlano piano, poi, ad una frase di lei, lo vedo
scuotere il capo, lei insistere, posargli due dita sulle labbra per
zittirlo e alla fine lui china la testa, rassegnato, obbediente.
La porta si chiude accompagnata da Alexandra che, pian piano,
è giunta fino al corridoio.
Credo fu allora che Madame Jarjayes chiese al generale di poter
condurre vite separate.
Sì, penso, delicata solo all'apparenza è
Marguerite.
L'amica mi sta fissando. Mi sorride gentile, lo sguardo birichino di
chi vorrebbe dire chissà che, ma per educazione si
trattiene. Il dolore dei Jarjayes pare non turbarla più di
tanto, forse perché dà l'impressione di una
persona che ha già patito la sua buona fetta di
avversità e non dispone più di sufficienti
lacrime per mostrarsi pubblicamente dispiaciuta.
- Nessuno ci ha presentati. - esordisce - Sono Alexandra, cugina del
generale. Alexandra Rose Des Jarjayes Grimaldi.
Ricambio il sorriso e, improvvisamente, Versailles non è
più così deludente.
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Capitolo 7 *** capitolo 7 ***
7 inevitabile follia
7
Inevitabile Follia
Palazzo Jarjayes, 16
luglio 1789
È
incredibile Versailles.
Sì,
incredibile come possa passare dall’entusiasmarti al
deluderti, disgustarti, mortificarti anche nel giro di pochi istanti.
Giochi di potere,
giochi di opportunismo, giochi e basta.
Famigliari che sono
niente altro che pedine su scacchiere di freddo e lucido marmo, da
spostare secondo quanto più opportuno al momento.
Pedine da dare in
pasto all'avversario, in cambio di una posizione privilegiata sul campo
da gioco.
Pedine sacrificabili,
scartabili, insignificanti.
Carne da macello in
una guerra senza sangue vivo, solo lacrime, sete e profumi.
Tornando dalla
cappella, vedo la luce delle lanterne laterali delle vetture
già dal fondo del viale e, poco dopo, odo il rumore di
cavalli, finché eccole che varcano i cancelli, una, due,tre,
quattro carrozze, una dopo l'altra: le sorelle Jarjayes sono arrivate.
Ed una dopo l'altra,
le vetture si fermano nel cortile principale: i domestici aprono gli
sportelli e per primi scendono i fortunati consorti.
Di nero abbigliati,
come l'occasione richiede, con espressione severa in volto, come da
signorile abitudine.
Nessuno di loro porge
aiuto alla propria dama, poiché quello è compito
del valletto e questi gentiluomini non si sognerebbero mai di
infrangere l'etichetta, specie quando a loro risulta veramente comoda.
Ed essere sposato ad una Jarjayes è stato comodo senz'ombra
di dubbio per tutti loro: dote cospicua, nome importante, bellezza
indiscussa. Impalmare una Jarjayes ha fruttato negli anni molto
più di quanto investito: nuove rendite, incarichi ben
retribuiti, potere.
Abbasso lo sguardo,
colpevole: come se non fossi uno di loro? Come se io non avessi tratto
vantaggi in quanto consorte di una Jarjayes?… Mi par
d'udirla , Alexandra, la mia “Rose”, ridere della
mia fortuna, qui, mentre rigiro la fede che mai ha lasciato il mio dito
da quel primo giorno e che mai lo lascerà.
“ Che vuoi
farci Lassonne, sei nato sfortunato e anche abbastanza intelligente da
capirlo”.
...Abbastanza…
La sua solita ironia,
anche in punto di morte, la sua autodifesa contro i mali del mondo.
Ma solitamente aveva
ragione.
Già, mia
rosa, i migliori se ne vanno per primi da questo purgatorio ed i
peccatori restano.
La più
anziana delle sorelle, Marie Anne, mi viene incontro, mano
guantata sul cuore .
- Dottore, anche voi
qui?
Chino il capo,
confermando l'evidenza e la Invito ad entrare. Le altre ci
seguono, affiancate dai rispettivi mariti.
- Avete visto mia
madre? - mi domanda mentre camminiamo.
- È alla
cappella con loro
- Loro? …
quindi anche André? - intuisce immediatamente: per lei non
ci sono dubbi su chi potesse essere il compagno in quella occasione,
come in ogni altra della vita di Oscar
- E Nanny? - chiede
preoccupata.
- Nella sua stanza,
sedata.
- Povera
Nanny… Il generale? - chiede infine.
- Nel salone da pranzo.
Ella è la
più legata ai genitori, a Nanny. Ed anche a me, tramite
Alexandra, sua amica d'infanzia; ed alla povera Oscar, sebbene
lasciò questo palazzo che la più giovane
delle Jarjayes era ancora un traballante marmocchietto dal
sesso indefinibile per volere paterno. Lei è la sola figlia
nata senza peccato d'esser femmina, poiché la prima: un
“errore” accettabile. Coccolata e viziata dal
padre, adorata dalla madre: il loro primo miracolo, la loro prima
creatura; la sorpresa e la bellezza di essere due genitori, innamorati,
giovani, felici.
- Ma che è
accaduto? - domanda uno dei mariti.
- Dove? - fa eco un
altro.
- Alla Bastiglia
… - rispondo brevemente mentre saliamo i gradini
dell'ingresso.
- Come “
alla Bastiglia”? - ripete esterrefatto
- Oh
signore… - mormora la secondogenita, Clautilde.
- Meglio entrare,
signore, signori… - li sollecito.
E tutti mi seguono in
branco, nei loro abiti neri che li fanno sembrare un gruppo di lustri,
zampettanti scarafaggi.
- Padre! - esclama
Marie Anne, raggiungendo il generale ancora seduto là dove
l'ho lasciato. Gli posa le mani sulle spalle ed egli ricambia il
contatto con una breve carezza sul guanto di pizzo nero.
- Quindi, è
stata assassinata da quelle belve? - conclude Hortense con le lacrime
agli occhi.
- Aveva l'incaricato
di disperdere la folla, immagino - esordisce un genero.
- Povera Oscar,
vittima di quegli esaltati...
- Si, ma…
no. - mormora Jarjayes. - Era lei … “la
belva”...
E mentre ripete
l'orrendo termine col quale la figlia prediletta è stata
identificata, sbianca, perché non riesce ad abbinarlo a lei.
Non riesce ad immaginare quel frugoletto splendido che solo ieri lo
abbracciava, infante inconsapevole; lo studente diligente, il
cavallerizzo nato, lo schermitore provetto, il figlio che chiunque
avrebbe desiderato… “belva”...
“traditore”... Non Oscar.
Silenzio esterefatto.
- State dicendo che
era tra i rivoltosi? - domanda incredula Catherine.
- Sta dicendo che li
guidava! - si inserisce Rosalie, seduta in un angolo buio della sala.
Si alza uscendo dal cono d'ombra - Fiera, consapevole ed orgogliosa al
comando dei suoi soldati. - sottolinea.
- Buon Dio! - mormora
uno dei consorti dopo un istante di sorpresa silenziosa.
- Inaudito! - gli fa
eco un altro con tono disgustato.
- E adesso? -
Il generale non parla
fissa il vuoto nel tappeto.
La figlia maggiore si
inginocchia ai suoi piedi.
- Padre ...
- Dov'è
vostra sorella Josephine? - la interrompe lui accorgendosi della
mancanza della più giovane.
- Nostra sorella
è partita stasera coi Polignac. In tanti sono partiti oggi.
Anche il fratello del re, Il conte di Artois..
- Anche noi saremmo
dovuti partire! Cosa accadrà ora!? - è
l'esclamazione di paura di un gentiluomo.
- Domani il Re
andrà a Parigi ad onorare il nuovo sindaco. Si
risolverá.
- Chinare la testa ai
rivoltosi sarà solo l'inizio del peggio!
- Non potete saperlo.
- E André?
Era con lei?
Il generale,
spettatore muto, annuisce.
- E Nanny? - chiede
ancora un'altra sorella.
- È sedata
- risponde la maggiore.
- Povera Nanny...
- Povera un accidente!
Sono i Jarjayes quelli che rischiano tutto! Quando si saprà,
cadremo in disgrazia!
- Per favore! Mia
sorella è morta! - chiede rispetto Marie Anne.
- È sempre
stata una stata una spina nel fianco! - sentenzia il marito di Hortense.
- Non parlare
così di lei! - replica la moglie.
- Ma cosa facciamo
adesso?
- Una cerimonia
pubblica è da escludere: nessuno deve sapere che la sua
salma è qui.
- Tanto non
verrà nessuno...
- Hanno già
avuto un funerale, non è per questo che siamo qui. Solo
perché le loro salme vengano ospitate al sicuro nella
cappella. - è la richiesta composta di Rosalie .
- Tu, bastarda dei
Polignac, non osare ordinare a noi cosa fare! - esplode uno dei generi
- Non puoi chiederci di onorare un traditore ed il suo sollazzo plebeo
dando loro un posto ove riposare come nulla fosse accaduto!
- Non parlare
così di loro! - interviene Hortense .
- Erano uno scandalo!
- Erano brave persone
e André era…
- … Colui
che sollazzava vostra sorella.
- Siete un essere
disgustoso. - conclude Marie Anne rivolta al cognato.
- Ah io..?
- Oscar e
André resteranno insieme. Qui o in una fossa comune a
Parigi. - ribadisce calma Rosalie.
- E allora a Parigi! -
le ringhia - Oppure in un campo a marcire, in un fiume a nutrire i
pesci, dovunque ma non qui e di sicuro non insieme!
Vedo Rosalie fremere,
ma la trattengo. Siamo qui con uno scopo e questi miseri personaggi non
hanno qualifica per essere nostri interlocutori.
- Occorre anche
decidere in merito al destino del titolo… - ricorda il
marito di Clotilde.
- C'è poco
da decidere: ovviamente passerà al mio figlio maggiore. -
replica il consorte della primogenita.
- Il caso non
è così semplice…Eredi maschi non ci
sono, solo il re può decidere.
- Il re
accondiscerá al volere di famiglia
- Il re
avrà altro cui pensare piuttosto che la discendenza di un
traditore!
- Smettetela di
parlare di tradimento!
- È quello
di cui si è macchiata Oscar!
- Basta! Basta! Solo
io posso decidere e potrei decidere per nessuno di voi! -
ringhia fuori di sé il generale, gelando tutti quanti con
uno sguardo - È stata il figlio migliore che avrei mai
potuto desiderare. Nessuno sarà mai alla sua altezza!
Nessuno! Mai!
Si alza ed esce
lasciando il silenzio padrone della stanza.
- Vecchio
pazzo… - sentenzia il marito di Hortense .
Marie Anne lo guarda
con disgusto.
- Vado da maman. -
dichiara senza distogliere da lui lo sguardo sprezzante.
E ad un suo gesto alle
sorelle, tutte escono.
-Dottore, lasciamo gli
sciacalli a sbranarsi fra loro - consiglia Rosalie in un bisbiglio.
Sì, penso,
meglio che sfoghino tra di loro i veleni.
Mi guardo intorno
pensando a dove potrà mai essere andato il generale. La
decisione può essere e sarà solo sua, anche se
capisco i loro timori in vista della reazione della Corona.
Vedo la mano di
Rosalie passarmi un piatto.
- Qualcosa di dolce
per addolcire la giornata? - propone - Una delle otto torte quotidiane
di Nanny?
Sorrido amaramente al
ricordo: “Antipasti misti,almeno quattro portate di primi
piatti freddi, due caldi, due arrosti in forno, uno stufato, tre tipi
di contorno e otto torte. È sempre previdente,
madame.”
Dal salone si odono
voci alterate: i generi hanno iniziato la lotta per la successione.
- Meglio uscire a
prendere un po’d'aria. - mi invita Rosalie.
Ci sediamo sul bordo
della fontana, in silenzio, coi nostri piattini in mano e nessun
desiderio di addolcire il palato né altro in questa giornata.
- Una volta finii
dentro questa fontana, sapete? - confida all'improvviso Rosalie -
Madamigella Oscar mi stava impartendo lezioni di scherma, ma io ero
troppo goffa, sgraziata e lei mi innervosiva… Mi confondeva.
Per la prima volta avevo qualcuno che si occupava di me, qualcuno che
non fosse mia madre. Avevo cibo, bei vestiti, una bella casa. Vivevo
senza l'assillo di dover sopravvivere alla giornata. Io le devo tutto,
la mia vita, la mia anima perché senza di lei mi sarei persa
nel desiderio di vendetta. È stata il mio primo
amore romantico, il mio cavaliere scintillante, il mio eroe. Come
poteva non esserlo? . E poi c'era André.
Con lui ho capito che la signorilità non si eredita, ma
è qualcosa di innato. Come la sua pacatezza, la sua ironia,
il suo ottimismo. - la sento sorridere - Sì, nonostante
tutto, credo fosse un grande ottimista. Era anche un bravo ballerino e
un insegnante severo … E l'amava e non ci sarebbe
stata speranza per nessun altro, tantomeno per una sciocca ragazzina
confusa.
La vedo martoriare la
torta con la forchetta, odo la voce incrinarsi.
- Non riesco a credere
che non ci siano più.
- È il
vostro cuore che non ascolta ragione, Rosalie.
13
luglio 1789
Le
dita percorrono il legno chiaro, nervose, incoerenti nei loro
movimenti. Scattano improvvisamente avanti, si protendono nel vuoto,
verso di quello che resta di lui, ed altrettanto improvvisamente
tornano a stringere il bordo della cassa.
Borbotta
parole incomprensibili, tra i singhiozzi, e ripete
“no”, come un tuono che parte da lontano, ed
esplode “nonononooo!!!”.
E
allora grida e picchia il legno, e crolla sulle ginocchia, sul
pavimento di questa chiesa.
Poi
tace. Di colpo. Ed è lì che più temo
per la sua salute. È qualcosa che ho già vissuto
in prima persona. So cosa sta passando: lo vedo nel suo sguardo fisso e
vacuo, nelle sue pupille dilatate; i capelli appiccicosi sulla fronte
sudata per questa giornata torrida, neri per la fuliggine della polvere
da sparo e adesi alle guance salate di lacrime.
Ti
manca l'aria, Oscar, vero? Ti manca il cuore, ti manca lui?
Perché lui era il tuo stesso respiro, il tuo stesso battito,
ed ora è solo carne in cui una volta scorreva sangue.
Ed
è solo l'inizio.
Quel
dolore che ti stringe lo stomaco, quel masso sul petto, quella morsa
alla gola, si attueneranno solo per tornare più violenti a
tormentati quando meno te lo aspetti.
So
cosa provi, Oscar, e non posso fare nulla per te. Stai per scoprire se
la follia prenderà possesso della tua mente, o se sarai
forte abbastanza da sopravvivere.
Sopravvivere,
Oscar, perché la vita, quella vera, è
già perduta, lasciata in quella piazza dove lui ha esalato
l'ultimo respiro portandosi via il tuo.
Ed
ogni giorno, ogni istante, sarà solo sopravvivenza. Niente
altro, niente di più.
Io
mi sentivo in colpa perché appena sveglio, per pochi
istanti, non pensavo a lei che non c'era più. Per quei pochi
istanti mi sentivo ancora sereno, come se la cosa più
devastante per me non fosse mai accaduta. Ma il resto del giorno dovevo
farci i conti e lì era la follia.
Ti
siedi, Oscar, di spalle alla bara, contro di questa; quasi come cera di
una candela ti sciogli.
Improvvisamente
ti sei quietata. So perché. Hai appena realizzato che il tuo
sopravvivere durerà poco: la tisi che morde i tuoi polmoni
è ad uno stadio avanzato e sarà una terribile,
dolorosa, ma breve agonia. E questa è la tua sola
consolazione.
Esco
dalla chiesa dove sono stati radunati i corpi dei parigini morti in
questi giorni negli scontri: la lascio a pregare, a piangere, a
dolersi; la lascio sola con lui, perché gli dica finalmente
tutto ciò che mai gli ha detto, anche se è tardi,
anche se lui non potrà rispondere, sebbene, ora ne sono
intimamente certo, può ascoltare e ne sarà felice.
Cammino
fino al lungosenna. Esausto mi appoggio al muretto e mi perdo a
osservare l'acqua scorrere imperturbata.
Arrivano
deboli i bagliori dei falò accesi lungo le barricate, il
chiacchierare sommesso limitato al necessario di uomini e donne
esausti, tesi al pensiero di cosa accadrà domani.
Ho
creduto che non avrebbe più smesso di gridare il suo nome.
Nella
mia vita, ho assistito a tanti decessi ed al dolore che ne conseguiva.
Io stesso sono stato sull'orlo della disperazione senza ritorno.
Ma
lei …Dio, lei mi ha straziato.
Quando
hanno cercato di spostare il corpo dalla piazza, ce lo ha dapprima
impedito. Poi ci ha seguito, persa. Solo l'ombra della guerriera infrangibile
che ha sempre cercato di ostentare, solo un'anima a metà,
fragile e sperduta come una bimba.
Non
ha voluto allontanarsi durante la composizione del cadavere, durante le
pietose e stomachevoli operazioni.
“È
ancora caldo… non è possibile… si
sveglierà… sta solo dormendo… .
“, bisbigliava a sé stessa mentre il corpo di
André veniva lavato con alcool canforato e cosparso di oli
odorosi prima di essere rivestito e deposto in una cassa.
Negare
… Negare è il solo modo di resistere alla follia.
Ma la verità è come l'acqua: trova sempre il modo
di arrivare in superficie e travolgerti.
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Capitolo 8 *** capitolo 8 ***
8 inwvitabile follia
Palazzo
Jarjayes, estate 1775
-
Date l'impressione di aver bisogno di un buon caffè,
signore. - esterna finalmente madame Alexandra alludendo certamente
alla mia aria assonnata; lo fa vincendo la buona educazione che avrebbe
consigliato discrezione. D’altronde, la sto ancora
fissando in silenzio, in modo altrettanto, sebbene non volutamente,
impertinente. Siamo soli nel corridoio di palazzo Jarjayes, qui fuori
dalla porta di madame Marguerite.
Inspiegabilmente,
trovo la sua sfacciataggine innocente e adorabile.
-
Sì, mostrate di aver necessità di un
caffè forte, dottore. - ride del mio imbarazzo, ma non di
me. Si drizza un poco sulla gruccia, nasconde a malapena un espressione
di stanco e irritato dolore. - André potete occuparvi voi
del nostro ospite? - chiede al giovane uomo che ci sta raggiungendo
- Vi farei volentieri compagnia io, dottore, ma ho bisogno di
stendermi un po’. - e già si volge zoppicante
verso la sua stanza
-
Certamente, madame Alexandra. - assicura André con la sua
voce cristallina e sicura - Prego dottore.
Vorrei
offrire aiuto alla dama, ma i miei tempi di reazione sono molto lenti
stamane e lei si è già dileguata.
-
È una donna coraggiosa - afferma André mentre
scendiamo le scale. Perspicace come sempre deve aver notato
il mio sguardo colpito.
-
Come tutte le Jarjayes suppongo - rilancio in perspicacia, proprio
mentre vediamo Oscar attraversare l’atrio sotto di noi
seguita dalla stessa ragazzina bionda che ho scorto al mio arrivo, che
nel frattempo si è cambiata i vecchi abiti ed esibisce un
aspetto più decoroso e consono a questo luogo.
-
Già - mormora André, riuscendo a chiudere in una
sola sillaba l'universo di emozioni che cela la sua anima.
-
Un incidente, immagino. - aggiungo deviando la sua attenzione e
tornando alla misteriosa cugina.
-
Più o meno - esita André. Intuisco una storia
complicata dietro quelle parole e rispetto il suo riserbo.
-
Ordunque, se madame avesse bisogno di me, col consenso del
marito, ovviamente … - mi offro ostentando compostezza.
-
Ah, per quello, non c'è più il problema! -
risponde istintivamente e colgo una espressione sollevata e soddisfatta
del tutto inappropriata. - Oh, intendo che ora si occupa il signor
generale del benessere della cugina e che apprezzerà
certamente il vostro aiuto. - si appresta a riparare.
Restiamo
in silenzio imbarazzato per qualche istante.
-
Vi redigo una lista dei medicamenti per madame.
-
Andrò subito a prenderli, dottore.
-
Stai per caso spettegolando, André? - domanda la governante
giunta di soppiatto alle nostre spalle.
Il
nipote mi fa accomodare al tavolo del luminoso salone e comincio a
scrivere la mia prescrizione.
-
No, nonna, non mi permetterei mai - le replica nascondendo con ironia i
propri pensieri.
Non
l'ho mai dato a vedere, ma adoro il modo comprensivo e adulto in cui
André, sin da fanciullo, ha sempre replicato a sua nonna,
calmierando gli eccessi d'ansia a volte un poco teatrali della brava
donna.
-
Chiedevate di madame Alexandra? - si intromette Nanny - Povera donna
che destino il suo. - commenta perdendosi con lo sguardo in un punto
indefinito sul pavimento, le mani intrecciate sul ventre, il capo
dondolante, sconsolata.
-
È vedova, credo d'aver capito, da molto? - chiedo cercando
d'utilizzare un tono serio e apparentemente disinteressato mentre con
la piuma redigo la prescrizione per André.
-
Mai troppo presto! … Che Dio mi perdoni… - si
corregge giungendo le mani ed alzando gli occhi al cielo.
-
Mi è stato accennato ad un incidente… - la
incalzo celando la mia curiosità, concentrato sul lieve
scricchiolio della piuma sulla carta intestata.
-
Se così vogliamo chiamare quell’atto…
Due anni fa, il marito, un poco di buono voluto da suo
padre… bè, era sempre stato manesco, ma le fece
davvero male. - bisbiglia come se fosse in un confessionale - La spinse
giù dalle scale e le ruppe una gamba che continua a darle
problemi ed ha quasi perso un occhio per uno schiaffone. Vede poco di
lato, povera madame.
Sto
cominciando a farmi un'idea dei suoi problemi di salute ed anche a
ribollire di rabbia per ciò che ha subito. Fin troppi di
questi esseri immondi ho conosciuto, dal più povero
stalliere al più ricco commerciante, al più
importante statista. Uomini violenti e sadici ne ho incontrati anche
dove mai mi sarei aspettato e odio tutti loro indistintamente, che in
pochi istanti distruggono vite, recano danni fisici e mentali, spesso
per puro divertimento e poi chiamano me, il dottore, come se io fossi
un riparatore di marionette e bambole. Come se donne e bambine da loro
abusate fossero pupazzi con i quali giocare, da poter spezzare e poi
riparare, bene o male, o gettare via.
-
Per fortuna è intervenuto il signore generale, dopo che suo
zio è morto. - racconta Nanny - Il buono a nulla di suo
cugino non ha mai avuto a cuore la sorella ed il padre,
finchè era in vita … meglio non parlarne. Il
generale, tramite la sua influenza, ha ottenuto che il disgraziato
venisse internato in manicomio, giù al sud dove abitavano.
Quando dopo poche settimane è stato trovato impiccato ha
fatto venire qui madame Alexandra. Purtoppo il fratello gestisce ancora
i suoi averi, ma almeno lei è qui, al sicuro con tutti noi.
Il generale non vuole nemmeno che porti il lutto, dice che quella
bestia che l'ha ridotta così non lo merita. Se poteste fare
qualcosa per lei, dottore...
Annuisco,
sebbene già sappia di non potere abbastanza.
Ciò
che mi meraviglia è l’atteggiamento del generale.
Per come lo conosco, non è certo violento di natura, ma
neppure estraneo alla violenza.
Violento
è l’esercito, violento è il potere,
violento è l’essere umano. E Francois Augustine
Reynier de Jarjayes non è certamente avulso da tutte queste
condizioni. In pubblico si mostra integerrimo, in famiglia severo e
rigoroso, coerentemente con ciò che ci si aspetta
dal suo ruolo di alto ufficiale e di importante capofamiglia, ma mai
leva la mano sulle donne, tantomeno le sue.
Tranne
una. Tranne lei.
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Capitolo 9 *** capitolo 9 ***
9 inevitabile follia
Arras,
estate 1775
Ho
accolto il loro invito.
Su
due piedi, nessun altro indugio. Ho scelto di allontanarmi da
Versailles per un periodo di vacanza, via dai miei impegni, dai miei
pazienti, dalla appiccicosa Cocodans .
Madame
Marguerite sta diligentemente osservando le mie raccomandazioni
riguardo il riposo dopo il suo malore e, con l'avvicinarsi del caldo
estivo ha deciso di spostarsi nella proprietà di Arras.
-
Perché non venite anche voi dottore? - ha inaspettatamente
proposto la cugina Alexandra cogliendomi di sorpresa, fissando il suo
impertinente sguardo nel mio come la prima volta alcune settimane fa.
-
Buona idea. - ha prontamente appoggiato Oscar - Io vi
accompagnerò, ma non potrò restare... Non ora che
Sua Maestà, la Regina, mi ha riammesso in servizio. -
ammette - Sarei molto più tranquilla se sapessi
mia madre in vostra compagnia, dottore.
-
Non so… - ho tentennato, con poca convinzione - Ho i miei
pazienti, l’impegno con la Famiglia Reale…
-
Le Loro Maestà godono di buona salute e di decine di medici
a disposizione: nonostante voi siate indubbiamente il migliore, sono
certa vi potranno scusare per qualche settimana. Dottor Lassonne,
perdonate questo mio egoismo, ma davvero mi sentirei più
tranquilla sapendovi là con maman. - ha aggiunto
infine, con tono inquieto.
Da
quando Maria Antonietta a lei affidata è diventata regina,
è tutto molto più gravoso per Oscar; i suoi
compiti sono aumentati e tutte le attenzioni che convergono su Maria
Antonietta, ora, di riflesso, sono anche su di lei.
Ma,
sebbene abbia a cuore il benessere di Madame Marguerite ed i desideri
di sua figlia, è molto più egoista il motivo che
mi ha spinto ad accettare; un motivo che insiste a fissarmi, con le
labbra piegate in un sorriso appena accennato, sfacciato e provocante.
E
così, ieri mi sono ritrovato a viaggiare con le
due gentildonne nella lussuosa berlina per i lunghi spostamenti della
famiglia Jarjayes. Con noi anche la piccola Rosalie, la fanciulla che
Oscar ha deciso di prendere sotto la propria protezione e che, come
confidatomi in riservatezza, verrà presentata come una
lontana cugina. Oscar e André ci hanno preceduti a cavallo,
scalpitanti ed inquieti quanto i loro destrieri, quanto la loro
gioventù.
È
stato un viaggio interminabile, con frequenti soste per sgranchirci e
nonostante ciò, per madame Alexandra è stato un
calvario. Cerca di non darlo a vedere, stringe i denti, respira
profondamente, artigliandosi la gamba offesa, ma la frattura che
suppongo essersi malamente saldata, immagino debba causarle davvero
molto dolore.
Quando
siamo arrivati, era già buio da ore. Ero sceso per primo ed
avevo quindi offerto la mano a Marguerite prima ed a sua cugina poi.
Madame Alexandra ebbe un cedimento nello scendere che la spinse ad
aggrapparsi alle mie spalle per ritrarsi dopo pochi istanti, irritata
forse più con sè stessa, per la propria debolezza.
-
Ho solo bisogno di stendermi - aveva chiarito seccata, con lo spirito
di colei che non accetta la situazione.
Un
valletto si era quindi avvicinato e lei gli aveva permesso di
sollevarla, prendendola in braccio per essere portata nella sua stanza.
In
fondo, se fatto da un servo, non ha nulla di personale.
Alexandra
… E’ così minuta. Penso a cosa deve
aver patito, a quale incubo possa essere stato il suo matrimonio. Mi
trovo a chiedermi se un giorno troverà sufficiente
entusiasmo per cominciare a vivere pienamente. Mi sorprendo a
desiderare che accada. Sì, vorrei che accadesse e vorrei
essere accanto a lei quel giorno.
Si
è fatta mattina e la grande casa è ancora
silenziosa, a parte il via vai della servitù. Fuori, la
quiete totale della campagna trasforma i minuti d'attesa in ore.
Odo
finalmente il rumore di una porta aprirsi al piano superiore.
Alzo
speranzoso lo sguardo alla cima delle scale, ma non è lei.
-
Dottore, già in piedi? - mi domanda retoricamente Oscar,
scendendo con passo allegro la scalinata.
Incrocio
le mani dietro la schiena.
-
Troppo silenzio. Non sono abituato a tanta quiete.
-
Oh, vi ci abituerete e magari vi mancherà quando tornerete a
Versailles. - conclude sorridendo.
Annuisco,
distratto.
-
Gli altri non si alzeranno tanto presto - mormora la mia ospite dopo
avermi scrutato. Ed il mio spirito colpevole, si convince che per altri
intenda la cugina.
-
Oh ecco… Avrei desiderato conoscere le condizioni di madame
Alexandra. Era molto pallida ieri sera…
-
È stato un viaggio faticoso e mia cugina é
più cagionevole da quando… dall'incidente. -
aggiunge vaga.
-
Sono a conoscenza della disgrazia, non c'è
necessità che….
-
Sono fatti che non amiamo ricordare.
-
Capisco.
-
Ma sono certa starà bene dopo aver riposato e vi
chiederà consiglio. Con voi qui, starà ancora
meglio. Entrambe staranno meglio. - afferma riacquistando un composto
sorriso - Ah ecco André!
-
Buongiorno Oscar! Dottore… - ci saluta con un leggero
inchino - È tutto pronto, quando vuoi andare… -
la informa.
-
Perché non si accompagna a noi, dottore? - mi invita Oscar -
Una bella passeggiata fino alla cima della collina di Arras. - aggiunge
col tono di una lusinga e l’espressione di un bimbo goloso
mentre descrive la vetrina di una pasticceria - Con André ci
vado ogni volta che veniamo qui. Se le sembra tranquillo questo luogo,
si stupirà una volta lassù. Arriveremo a cavallo
fino ad una certa altezza e poi continueremo a piedi. Le
piacerà. La colazione ha molto più sapore
all'aria aperta.
-
Non vorrei disturbare…
-
Oh, dottore, dopo due bicchieri André diventa di una noia
mortale! Si unisca a noi, la prego…
Sorridenti
aspettano la mia replica.
Ed
accetto: la campagna non ha mai avuto molte attrattive per me e non
riuscendo a dormire fino a tardi, qui solo… Che noia.
Provvidenzialmente sono già in tenuta sportiva, indosso
anche stivali da caccia sebbene non abbia mai premuto un grilletto in
vita mia. D’altronde non pretendo che l’abito
faccia il monaco: mi basta confondermi un po’ in questo clima
così rurale.
Non
riesco a comprendere l'entusiasmo di Oscar per tutto questo…
verde.
Lungo il tragitto, non ha fatto che indicarmi le varie coltivazioni
della loro tenuta: le vigne, i meleti, il bosco di noccioli e quello di
castagni. Sì, bello, tutto molto bello, madamigella Oscar.
Lasciamo
i cavalli sotto un gruppo di ciliegi ancora privi di frutti e a piedi
ci avventuriamo sul pendio che, ad ogni passo, diventa sempre
più ripido e roccioso. Non è una vera scalata, ma
in alcuni punti devo aiutarmi con le mani per non scivolare.
Loro
sono di casa: credo abbiano percorso questo cammino molte e molte
volte. Ha tutta l'aria di una tradizione, un rito. E finalmente
arriviamo sulla cima della collina. Ai nostri piedi, da un lato la
cittadina, dall'altro la sterminata piana della Normandia. Ammetto che
è un panorama notevole: mi fa sentire piccolo e, allo stesso
tempo, parte dell’immenso.
-
Guardi! Si vede tutta la campagna francese da qui e, in giornate terse,
all'orizzonte si scorge l’alone blu della costa. Se chiude
gli occhi e si rilassa, può anche sentire il profumo di sale
nella brezza. È un luogo che sa di pace, di infinito. Ci
riposerei in eterno quassù.
La
guardo socchiudere gli occhi. Com'è diversa dal rigido
ufficiale che si muove silenzioso per la reggia. I due volti di Oscar.
Ma non c'è nulla di dispregiativo in questo mio pensiero,
niente che riferisca a doppiezza d'animo.
A
volte mi domando “e se invece…”.
Se
il generale non avesse fatto quella scelta vent'anni fa, se lei non
avesse fatto la sua.
Penso
che forse ora non avrebbe quest'aria serena, libera. Penso che non
sarebbe così forte, volitiva. Penso ad Alexandra, penso che
Oscar avrebbe potuto incorrere nello stesso destino. Penso che potrebbe
essere lei fragile e minuta come un uccellino dalla zampa spezzata,
logorata da anni di maltrattamenti.
Ma
c'è un ma. Alexandra era sola, lontana, senza alcuno su cui
contare. Senza un angelo custode. Per fortuna Oscar ha
André.
Ed
io penso troppo.
-
Io non lo sento…
-
Cosa?
-
Il profumo di sale.
Ride.
Noto
la stessa impertinenza nello sguardo, uno spirito vivo, guizzante come
fiamme. Lo spirito indomito dei Jarjayes, che mi ha così
colpito, attratto e temo già incatenato. In Oscar
è più brillante e forte, più contenuto
in sua cugina, ma sempre lì.
Sento
André arrancare sul pendio.
-
Siete certo di non volere aiuto?
-
Non preoccupatevi, dottore, ho tutto sotto controllo! - esclama
riprendendo l'equilibrio che per un istante lo aveva abbandonato.
Lo
guardo posare la sacca voluminosa ai piedi di una grande e solitaria
quercia, quassù chissà da quanto, e cominciare a
disporre per la colazione al sacco. Riconosco molti piatti preparati
dalla governante e non so come riusciremo a finire tutto questo ben di
dio.
Eppure
ce la facciamo. È proprio vero che l'appetito aumenta con
l'aria buona. Ed è piacevole la loro compagnia. Oscar
è scherzosa, racconta avventure della loro infanzia, della
loro adolescenza, stuzzica André che si difende, e spiega, e
ride e qualche volta ammette, ma…
Sorrido.
Il mio pensiero torna a quel primo giorno, al primo incontro con loro
bambini. Alla domanda che mi posi sulla loro amicizia. Se sarebbe
sopravvissuta. Pare proprio di sì. Nonostante ciò
che so, l'amicizia è salda. Forse perché
André è bravo a nascondersi.
Siamo
ormai sazi, anche di più. André si è
appisolato sull'erba; il sole, già alto, gioca tra le fronde
sul suo viso giovane e sereno.
-
Che le dicevo? Non lo regge proprio il terzo bicchiere! A sua difesa
devo ammettere che i cesti di Nanny non sono mai
“leggeri”, in nessun senso. - scherza Oscar.
Si
stende a sua volta, mani incrociate sotto la nuca e socchiude gli occhi.
-
Già, è proprio un gran bel posto per
riposare… - Il volto si fa serio - Dottore, secondo lei,
com'è l'aldilà?
Il
malore di sua madre deve avere innescato una serie di interrogativi.
Succede sempre così. Traggo un profondo respiro: domanda
breve per una risposta complessa.
-
Vi confesso di non credere, Madamigella Oscar. Ho aperto
così tanti cadaveri che erano solo corpi in cui una volta
scorrevano sangue, aria, calore. Sono testimone di troppo dolore per
credere in un'entità superiore e benevola.
-
Capisco … Ma … Se ci fosse, come sarebbe il
vostro?
Esito
un poco. Da tanto evito di pormi simili interrogativi.
-
Con le persone care, coi corpi sani, le menti serene. Ed il vostro?
Per
qualche istante intorno a noi solo il silenzio totale,
finché un russare improvviso proveniente da
André, spezza la serietà, strappando un sorriso
ad entrambi.
-
Con André suppongo. Già, temo mi seguirebbe anche
lì. - dice con una nota affettuosa in quel temo. - Ed
immagino potrebbe assomigliare a questo posto, ad una giornata come
questa. Ecco, questo potrebbe essere il paradiso: una bella giornata,
un buon bicchiere di vino, una bella compagnia.
La
guardo lì nell'erba, distesa a pochi passi da
André. Lo stesso sole li carezza sulle palpebre
chiuse, la stessa erba li circonda delicatamente, lo stesso
vento caldo li sfiora, ma …” la
differenza”… Il muro invisibile è
lì.
Un
brivido di paura, inaspettato e fuori luogo vista la
serenità del momento, mi coglie, come un triste presagio.
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Capitolo 10 *** capitolo 10 ***
10 inevitabile follia
Palazzo
Jarjayes, Primavera 1774
Alla
luce delle tante candele accese, scrivo velocemente i medicamenti
occorrenti sulla mia fine carta intestata, firmo il tutto,
tampono accuratamente l'inchiostro quindi porgo la
prescrizione al generale.
-
Alcuni rimedi per i nervi della vostra governante, signor
generale.
Prende
il foglio dalla mia mano e distrattamente lo scorre.
-
Manderò subito qualcuno dallo speziale...
Grazie, dottore. La mia governante ha un gran
temperamento, ma a volte si lascia troppo trasportare dalle
emozioni. - si giustifica.
-
Generale, - esordisco vedendolo estraniarsi dal problema principale,
ben più grave di una crisi emotiva non controllata - vostra
figlia non é fuori pericolo: tutt'altro.
-
Dottore, non serve che me lo ricordiate. Oscar é sempre
stato molto irruento, impulsivo e negli anni è
incorso in diversi piccoli incidenti. ... Ma non l'avevo mai
visto in questo stato di debolezza. - Passa la mano sulla fronte come a
voler scacciare qualcosa di fastidioso che comprendo essere un
pensiero. - É stato un atto molto coraggioso, sono fiero di
Oscar, ma … improvvisamente, temo che l'incarico
di proteggere sua altezza, la principessa Maria Antonietta,
possa essere troppo pericoloso per ... lei.
Non
posso evitarmi di spalancare gli occhi stupito. Davanti a me,
per la prima volta, il generale si è rivolto ad Oscar
parlandone al femminile e lo ha fatto per... sottolinearne la
presunta inadeguatezza.
Prendo
disgustato il mio ricettario per rimetterlo nella borsa deposta sulla
sedia, ma è solo un modo per distrarre lo sguardo da
quest’uomo ipocrita, che dietro la preoccupazione
per la salute della figlia nasconde un'ansia tutta personale.
Sì, mentre riordino i miei ferri che alcun bisogno
hanno di essere riordinati, non posso evitare di notare
l'egoismo del generale che, non so quanto consciamente, mette le mani
in avanti: se Oscar fosse morta salvando la principessa da uno stupido
incidente a cavallo, sarebbe stato solo perché
inadatta al ruolo assegnatole, solo perchè donna; questo
è ciò che estraggo dal pensiero che ha appena
espresso.
L'idea
di lui che già immagina come alleggerirsi la coscienza in
società mi fa ribollire il sangue. In tutti questi
anni durante i quali ho visto Oscar crescere, cambiare, evolvere, ho
imparato ad apprezzarla per la persona che è, non
per l'uomo che il generale voleva fosse e che, dal mio punto di
vista, per fortuna non è riuscito ad ottenere.
-
Col vostro permesso, torno ad occuparmi della mia assistita -
mormoro trattenendomi dall'esprimere pareri .
Lui
neppure mi risponde, neppure dà aria di aver compreso le mie
parole; ha lo sguardo perso, perso nel suo mondo nel quale non desidero
addentrarmi. La mia sola preoccupazione è Oscar: ha perso
molto sangue da quella ferita al braccio e non posso fare altro che
attendere mattina sperando che il suo organismo ce la faccia da solo a
superare questa notte che prevedo lunghissima.
Sulla
porta della camera mi fermo.
André
é lì, seduto accanto al letto della sua padrona;
non si è staccato dal capezzale da quando Marie è
stata accompagnata via riluttante, in lacrime, disperata e
confusa. Rimango nell'ombra del corridoio senza riuscire ad
evitarmi di osservarlo: i gomiti sulle ginocchia, le mani
congiunte, le labbra serrate contro le dita. Non
sta pregando, ma il momento ha un non so che di mistico che mi
impedisce di profanarlo con la mia presenza. E per fortuna
non mi faccio avanti perché in quell'istante
André si protende verso l'inferma mormorandone il nome.
-
Oscar... - attende un istante quindi si protende ancor di
più ed allunga le mani su quella inerme di lei abbandonata
lungo il fianco. - Oscar, apri gli
occhi... - chiede in un sussurro . Infila la mano destra
sotto quella di lei, palmo contro palmo.
-
Apri gli occhi... Ti prego. Tu non sei mai
cambiata, sei la stessa di quando giocavamo insieme da
piccoli. - mormora con voce spezzata.
Traggo
un profondo respiro, quindi chino il capo e, con due dita infilate
sotto gli occhiali, fermo le maledette lacrime che nessuno deve vedere.
È
vero, André, sei tu ad essere cambiato e riesci a vederti
come ti vedo io: un giovane uomo che si sta innamorando
Mi
schiarisco la gola per annunciare la mia presenza e mi avvicino per
controllare Oscar.
André
leva il contatto inopportuno e si raddrizza contro lo schienale. Sul
suo volto leggo il dubbio, si domanda cosa posso avere udito.
Mentre
esamino la paziente posso percepire il suo sguardo ansioso su di me.
-
Il respiro è regolare ed anche la temperatura. - dico.
Lo
vedo rilassarsi un poco, ma qualunque possibile scambio di parole viene
interrotto dall’entrata del generale che prende posto accanto
al letto.
Nessuno
parla, ciascuno preso dai propri tormenti, dai personali
incubi. Tra noi solo il rumore della legna che arde nel camino.
In
quel mentre mi accorgo di una macchia scura allargarsi sull'avambraccio
di André.
-
André, ma voi sanguinate! - esclamo.
Distrattamente
il giovane guarda il gomito.
-
Solo una sbucciatura, qualche graffio… per aver cercato di
trattenere il cavallo - mormora.
Nella
concitazione di quanto accaduto, nessuno ha pensato che anch'egli
potesse avere riportato serie ferite.
-
Lasciate che sia io a constatarne la superficialità. Venite
con me.
Lo
conduco fuori, nel salone del primo piano, dopo aver ordinato al mio
assistente cosa procurarmi.
Si
leva la giacca, che noto sdrucita in alcuni punti, così come
il gilet, i pantaloni, la camicia… Gli stivali alti gli
hanno provvidenzialmente protetto le ginocchia.
Una
volta denudato il torso, posso rilevare i danni che ha nascosto a tutti.
Tampono
i tagli sanguinanti, obbligandolo a strizzare gli occhi per il dolore,
lo tasto in diversi punti del costato e delle braccia per verificare
che non ci siano fratture, magari anche piccole.
-
Alzate lo sguardo - ordino facendogli seguire con gli occhi il percorso
a mezz'aria di una candela - Avete picchiato anche la testa,
André?
-
Un ruzzolone, dottore, nulla di più. - mormora minimizzando
il fatto d'esser stato trascinato da un cavallo imbizzarrito.
La
luce si riflette nelle sue lacrime, a stento trattenute dalle ciglia. I
nostri sguardi si incrociano per un lungo istante, prima che egli lo
distolga.
-
È colpa mia…
-
André...
-
Non faccio altro che pensare di non essere all'altezza di Oscar. Lei
è adulta, responsabile, ha impegni importanti ed
è in quel letto per colpa mia, della mia leggerezza - ripete
con voce spezzata.
-
André…
-
È così, dottore. Se fossi stato più
attento al cavallo della principessa …
Qui
tutti pensano al fardello sulle spalle di Oscar, ma non alle
responsabilità che gravano su di lui.
-
È stato un incidente, André. Gli incidenti
capitano. Forse è altro che vi turba. - insinuo.
Mi
guarda un poco irritato.
-
Oscar è un uomo, dottore, un nobiluomo. - afferma a denti
stretti. - e la nostra vita procede su due sponde diverse dello stesso
fiume.
Già,
penso. Gli stringo la spalla in una stretta di conforto.
-
Tenete pulite le abrasioni e spalmate l'unguento che vi farò
avere su tutti i lividi che fingete di non avere. Su quelli visibili,
perlomeno… - insisto.
Mi
alzo dalla sedia davanti a lui, ma mi trattiene afferrandomi il braccio.
-
Sopravviverà, dottore?
-
Solo la notte può dircelo, André. - rispondo
cauto.
Mestamente
torniamo da Oscar che ignara dei tormenti per lei, giace immobile, come
se dormisse un sonno profondo e privo di sogni.
Accanto
a lei il generale, poi la madre, che alternano momenti di orgoglio e
parole dolci di sostegno, ad altri di ansia, pessimismo e paura; infine
restano solo André e Nanny che è voluta tornare
dalla sua bambina dopo aver giurato a Jarjayes che si sarebbe
comportata in modo regolato e dignitoso.
Passa
il tempo ed anch'io fatico a tenere gli occhi aperti, ormai
è quasi l'alba, ma non voglio andarmene. Non
finché non ci sarà un cambiamento, in un modo o
nell'altro.
Nanny
è crollata già da ore e anche André ha
posato la testa sulle braccia incrociate sul materasso.
Ed
è in concomitanza del nuovo giorno che Oscar si sveglia.
Si
muove appena, si guarda attorno, guarda André ed allunga una
mano a sfiorarlo, destandolo.
Accorro
e le prendo il polso proprio mentre Nanny si sveglia e di conseguenza
tutta la casa tra le sue esclamazioni di lode a Dio ed ammissioni di
felicità.
Ma,
mentre procedo con le prime verifiche, non posso non udire le parole
che Oscar, in un fil di voce, mormora ad André, nonostante
il marasma creato dal giubilo della nonna.
-
Ho sognato di noi bambini e tu mi chiamavi con voce tanto triste...
L'espressione
di André, di gioia, lo sguardo di Oscar, di affetto
infinito, mi fanno comprendere una cosa: che le rive di quel fiume
potrebbero essere più vicine di quanto entrambi pensano.
***
Grazie a tutti ed auguri di un anno sereno!
|
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Capitolo 11 *** capitolo 11 ***
11 inevitabile follia
Gennaio
1788
Una
finta neve scende oggi, pochi granelli ghiacciati che cadono veloci e,
spinti da un vento nordico, come spilli pungono il volto, si incastrano
nei baffi, intorpidiscono le labbra. Nulla a che vedere con i fiocchi
soffici, grandi, leggiadri, che nelle sere d'inverno rischiarano il
cielo nero e rasserenano lo spirito. Solo ghiaccio, gelido e tagliente.
Sono
già trascorsi quasi due anni da quando se n'è
andata e più di uno da quando sono stato elegantemente
dispensato dai miei doveri a corte ed invitato a prendermi un periodo
di riposo. Questo da Sua Maestà in persona, evidentemente
allarmato dal mio stato di depressione, con tono che non ammetteva
neppure un fiato in replica.
Lasciare
Versailles definitivamente non mi è pesato. Vedevo Alexandra
ovunque, nella nostra casa, nell'ambulatorio, per i corridoi della
reggia. Il periodo di aspettativa impostomi dalla
Corona sta sortendo i suoi benefici, forzati effetti. Un poco come un
galeotto mi sono rassegnato a portare i miei ceppi e quasi non ne
avverto la costrizione.
Ho
ripreso a tempo pieno l'università: le mie ricerche, i miei
allievi, mi tengono la mente occupata, cosicché gli oscuri
pensieri non tornino ad impadronirsi di me.
Fingo.
Fingo che la vita abbia un senso, fingo che possa interessare se il
sole sorgerà domani.
Non
vaneggio più pubblicamente pensieri inquietanti, non vago
più per casa come un folle in camicia e barba incolta come
accadeva sotto Natale, quando le famiglie si riuniscono ed i vuoti
lasciati sono lì a rinnovare il dolore. E tutto diventa
più freddo attorno.
Curo
la mia persona, abbellisco questo guscio vuoto, questa pelle svuotata
della mia parte più viva, sostituita da misera,
arida paglia.
Un
animale impagliato, ecco cosa sono.
La
vita riprende un corso regolare, agli occhi degli altri se non altro.
Regolare e monotona: casa università e di nuovo casa.
Mi
stringo nel cappotto di pelliccia, il solo abbraccio caldo che mi
concedo, ed esco dalla nostra casa di Parigi. … dalla sua
casa, quella che ormai è solo mia. Vuota, triste, inutile.
Come me.
-
All'Università, dottore? - domanda come fa ogni giorno il
mio cocchiere, forse sperando che lo sorprenda con un'altra
destinazione.
-
Sì, Louis, e sono in ritardo.
Salgo
sulla piccola carrozza nera per gli spostamenti veloci in
città. Fa veramente molto freddo, pochissime persone per la
strada questa mattina. Le nevicate abbondanti hanno creato cumuli un
po’ dovunque che restringono le vie e diventano delle infide
piccole montagne di ghiaccio. E celano pericoli.
Un
sobbalzo improvviso seguito da un colpo secco ci costringe a fermarci.
Louis
scende a constatare i danni. Scuote il capo amareggiato.
-
Devo chiamarle una vettura pubblica, dottore. Noi purtroppo non
possiamo continuare: ha ceduto il mozzo; devo trovare un fabbro che lo
ripari prima che si spezzi del tutto.
-
Lasciate perdere, Louis, vado a piedi.
-
No, dottore non è saggio. Non è una zona sicura!
- esclama ansioso.
Lo
ignoro, che è ciò che mi riesce meglio con
chiunque e per qualunque cosa, e mi incammino.
Passo
dopo passo, i miei piedi scricchiolano nella neve polverosa. E lo
sento.
Di
nuovo.
Lo
scampanellio.
Come
quando lei, immobile nel letto, mi chiamava : “dindon,
tesoro, è tardi!”, “Dindon, amore,
qualcosa non va…”, “dindon
dindon… ho tanta paura”...
Anch'io
ne avevo, Alexandra… Te ne stavi andando e nulla potevo.
Scrollo
le spalle, irritato con me stesso, cercando di riacquistare la ragione.
Ecco
un altro scampanellio.
Infastidito
svolto in un vicolo, come a voler sfuggire questi richiami.
Din
don, din don…
Basta!
Mi fermo di colpo, serro gli occhi. È nella mia testa, mi
dico, solo nella mia testa.
Lei
è morta! è fredda! è polvere!
Faccio
per procedere dritto ed eccolo nuovamente, din don. Mi blocco, svolto
in un altro vicolo, dindon… maledizione! Mi fermo, non
riconosco la zona da tanto ho svoltato, mi sono perso. E ricomincia a
nevicare fitto.
Din
don din don… Mi blocco in questo vicolo deserto, lo sguardo
nel vuoto, le lacrime che si mescolano ai fiocchi bianchi... Sei tu
Sandrine? Sto impazzendo? O forse è il mio bisogno di
sentirti vicino a me?
Mi
scuoto, scrollo il capo, furente: rifiuto di ricaderci, di sperarci, e
nemmeno dovrei definire speranza ciò che la ragione conosce
perfettamente: è follia e nient'altro.
Din
don din don… Mi fermo ancora, di colpo: mi gira la testa, il
sangue pulsa, il cuore impazza. Forse è il freddo, mormora
la ragione che tenta di procurarmi un'alternativa.
Di
fronte a me l'insegna di una taverna ondeggia nel vento, sospesa a due
catene cigolanti: “La bonne table”.
Chissà, ma ha l'aria di non avere nulla di buono questo
posto di infimo ordine.
Ma
un bicchiere di vino speziato mi farà bene, mi
riscalderà e forse mi riporterà ad oggi, alla
vita che nonostante tutto deve continuare.
Entro
oltrepassando la pesante e malmessa porta; lo scampanellio che odo, lo
riconosco come reale.
Dentro
tutto ha un aspetto unto, sporco, triste; perfino l'aria sa di vecchio
e malsano. Eppure c'è di peggio, specie in questi tempi di
miseria. Non sono il solo cliente, stranamente per quest'ora. L'oste mi
riconosce come persona di riguardo e mi viene incontro profondendosi in
salamelecchi. Mi fa accomodare ad un tavolo vicino al camino dopo aver
dato una veloce e formale spolverata alla sedia.
Faccio
la mia ordinazione che mi viene servita in pochi minuti. Non mi
aspettavo tanta solerzia. Ed è anche profumato questo vino,
probabilmente la riserva buona. Odore di garofano, cannella e frutta,
pizzica la lingua ed è dolce. Il calore mi invade e mi sento
bene.
Dall'altro
capo della stanza, ad un tavolo in ombra, sta seduto un uomo che affoga
i dispiaceri in solitudine. Alza appena la mano dal tavolo per chiedere
che gli venga riempito nuovamente il boccale; una cameriera impegnata a
riordinare, accorre. L'uomo mette mano alla sacchetta dei soldi che
rovescia in quantità superiore al necessario. La ragazza,
attirata dalla disponibilità economica dell’
avventore, gli si accomoda accanto, abbandonando la brocca del vino, e
si propende a baciarlo sul collo, provocandolo. La reazione
inaspettata, rumorosa e violenta di lui che la respinge, facendola
quasi cadere dalla panca, la spaventa ed attira la mia attenzione.
-
Ho detto che voglio solo bere! - biascica a voce alta - Bere, niente
altro che bere… Non importa quanto starò male
dopo...- ripete abbassando il tono. - Ci ho provato … -
borbotta tra sé prendendo la mano della ragazza in una
stretta che sa di scuse - Ci ho provato, ma non serve se il cuore
è lontano… Nemmeno bere serve... - ammette
lasciandola e tornando a concentrarsi sul boccale - Ma almeno dimentico
per qualche ora...minuto… istante…
Tracanna
un lungo sorso e poi, involontariamente, sbatte il boccale sul tavolo,
quasi rovesciandolo, ormai i sensi intorpiditi.
Lo
guardo meglio. Tiene la testa china, i capelli scuri calati a
nascondere il volto, ma la voce mi è familiare.
Mi
convinco ad avvicinarmi. Lui ormai è con la fronte alla
tavola.
Lo
osservo e con un certo orrore lo riconosco.
-
André!? Siete voi? Di grazia, che vi è accaduto?
Lo
scuoto. Egli solleva il capo, volgendo su di me lo sguardo, vago,
perso, di quell'unico verde occhio privo di speranza.
-
Dottore? … - mormora dopo qualche istante, avendo trovato la
lucidità necessaria a riconoscere la mia persona - Che
è accaduto? - ripete sorridendo amaramente, uno di quei
sorrisi che confinano con la disperazione - Ho rovinato
tutto… tutto…
-
Da quanto siete qui, André?
Egli
tenta di portare il boccale alle labbra, schiavo, ma glielo levo,
allontanandoglielo. Si lamenta, ma non reagisce, troppo confuso per
farlo.
-
Un'ora, un giorno… che importa… Ho rovinato
tutto… - ripete.
-
È arrivato ieri sera… - mormora la cameriera che
nel frattempo è tornata alle sue faccende. - Era talmente
sbronzo che ha dormito qui, in un angolo sulla panca laggiù.
-
Buon Dio… Ma Oscar sa che siete qui a ridurvi in
questo stato? - sbotto.
-
Oscar?… Non devo più occuparmi di lei. - biascica.
-
Che significa? - chiedo ancora, certo d'aver male inteso.
André,
senza rispondere, torna a posare la fronte sul tavolo, come se fosse
sul punto di perdere i sensi.
Allora
decido. Chiedo all'oste di cercarmi una carrozza e quando questa arriva
mi faccio aiutare a caricarlo.
-
Non potete tornare a Versailles ridotto in questo modo. Non ce la
fareste a reggervi a cavallo. E nel caso, vostra nonna ve la farebbe
pagare - dico replicando alle sue deboli obiezioni.
In
vettura si accascia contro il vetro freddo, nuvole di vapore dal suo
alito opacizzano il finestrino; il folto ciuffo di capelli scuri che
diventano ancora più scuri inumidendosi con la condensa,
aderiscono al vetro; l'unico occhio, lucido, arrossato, perso a
guardare il fioccare della neve, o forse il nulla.
Arriviamo
al mio palazzo che fu del primo marito di Alexandra e che ne porta
ancora il nome: palazzo Grimaldi.
La
servitù incaricata della accoglienza,
accorre
solerte e su mia richiesta lo conducono dentro, su, nelle camere
riservate agli ospiti. Ordino al mio segretario di avvisare
l'università che non avrei tenuto lezione e di recarsi alla
locanda per recuperare il cavallo del nostro ospite. Quindi di inviare
un messaggio a palazzo Jarjayes per informare che André si
trovava presso di noi.
Mi
volgo a guardare questo vecchio giovane amico. Cerco in lui tracce del
bambino che fu e vi ritrovo solo l’infinita tristezza
dell'orfano che conobbi allora.
André
siede sul letto aiutato da un valletto, mentre cameriere gli levano
stivali e giacca.
Si
oppone, malamente, scoordinato come tutti gli ubriachi, ma lo riprendo
immediatamente.
-
Non potevate tornare dai Jarjayes in queste condizioni. - replico al
suo bofonchiare.
-
Non ho un posto ove tornare...
-
Vostra nonna non sarebbe d'accordo.
-
Non mi sento bene… - dice sbiancando improvvisamente.
Ad
un mio gesto arriva il domestico col secchio.
Appena
in tempo e ore ed ore di alcool cercano di ritornare sul loro cammino
d'andata.
-
Bevete! - ordino indicandogli una tazza fumante portata da una
domestica.
-
Cos'è!
-
Solo latte caldo e miele.
-
No, vi prego.. già solo l'odore mi fa rivoltare lo
stomaco - dice portandosi una mano alla bocca
-
L'intenzione è quella, mandare tutto giù o tutto
su. - spiego indicandogli il catino - Avete bevuto troppo,
non potete tenerlo in corpo.
Come
egli temeva, già solo ad avvicinare il bicchiere alle
labbra, il vomito si scatena.
Distolgo
lo sguardo. Vorrei poter dire di essere abituato a queste situazioni,
ma non è vero.
Allontana
il secchio da sé, porta la pezza che gli è stata
offerta alle labbra.
-
Scusate…
Scuoto
il capo.
-
Non dovete scusarvi per aver dato di stomaco, ma per esservi ridotto in
questo stato. Che vi sta accadendo?
-
È tutto perduto..
Penso
alla sua visita dell'altra settimana.
“Dottore,
sto diventando cieco”, aveva chiesto.
“No”
avevo mentito consapevole di farlo.
-
Non è sicuro che perderete la vista ed in ogni
caso…
-
Oscar ha detto che non dovrò più occuparmi di
lei. - mi interrompe.
-
Oh… bè, non potrete essere sempre con lei, ma
continuerete ad essere amici, confidenti…
-
Non vuole più vedermi - nuovamente mi ostacola.
-
Non credo…
-
Sono un mostro! - dichiara con un tono di voce esageratamente alto.
Respiro
profondamente cercando di mantenermi calmo.
-
Avete perduto l'occhio e forse, dico forse, diventerete cieco; ma
ciò…
-
Non è per quello. - sussurra.
Mi
zittisco, non capisco.
-
Un tempo vi dissi che lei ed io camminavano su due sponde dello stesso
fiume… e mi bastava. Per molto tempo mi è bastato.
-
Ohssignore André, che avete fatto?
Scoppia
in lacrime.
-
Ho rovinato tutto… tutto...
Alza
il capo verso di me, senza dire altro.
Solo
il suo occhio disperato parla e mi torna alla mente quella prima volta
ad Arras, quando l'accompagnai, lei Alexandra, al villaggio,
perché l'avrei accompagna ovunque, già preso
nella rete. Andammo a far visita a quella povera famiglia dei loro
fattori, i Sugane.
La
moglie stava poco bene e da poco avevano rischiato di perdere il figlio
più piccolo. Ovviamente ero rimasto colpito dalla
povertà e, nonostante Oscar avesse provveduto a soccorrere
il piccolo Gerard e rifornito la loro fattoria in modo che nulla
potesse più obbligarli a scelte terribili, potevo vedere
tutto attorno a loro la disperazione, oltre alle malattie dovute alla
malnutrizione ed ai lavori usuranti.
“Ricordi
di guardare negli occhi i suoi pazienti, dottore: vedrà
molto più del dolore che raccontano o di quanto
spiegherà la sua scienza” , mi disse Alexandra.
Fu
così che capii che non sarebbe bastato l'aiuto economico di
Oscar a guarire quelle persone, perché il male era
già radicato nell'anima e sarebbe cresciuto concimato da
stenti e delusioni.
Ed
ora il male era nell'anima di André, non nella sua
cecità incombente.
-
Quella locanda non era posto per voi, André. Che sta
succedendo? - mormoro.
-
Non esiste posto per me al mondo. E di certo non a palazzo Jarjayes.
Non ho più un lavoro e neppure speranza. … Un
mostro… e lei...
Mi
siedo accanto a lui sul letto.
-
Dov'è Oscar ora?
-
È andata in Normandia. Non vuole più che mi
occupi di lei.
-
Ditemi che non avete fatto ciò che temo…
Si
guarda la mano sinistra come se vedesse qualcosa stretto nel pugno.
-
Io ero accanto a lei per proteggerla ed invece… Mi sono
fermato, ma… Non riesco a smettere di vedermi coi suoi
occhi, col suo sguardo di quella sera. Ho visto il mostro che stavo
diventando, come in uno specchio … Lo specchio degli occhi
di lei.
Distende
la mano lentamente, arreso, e la porta al cuore.
-
Sì…Credevo di essere un uomo migliore, invece le
ho dimostrato di essere una bestia come tante - conclude amaramente
senza concedersi appello.
Lo
guardo consumarsi nel rimorso per un gesto vile, indegno, e non lo
riconosco.
Situazioni
come questa sono un fallimento professionale, per me, che non ho dato
peso ai sintomi del suo malessere ed un fallimento personale in quanto
amico, che negli anni non è stato in grado di supportarlo; e
benché mai detto sarebbe più appropriato ora di
“medico, guarisci te stesso”, non posso ignorare il
suo stato.
So
che un medico non guarisce le ferite del cuore, non è suo
compito mi dico, ma so anche che esse possono diventare una cancrena e
come tale divorare dall'interno finché nulla resta della
persona che eri.
-
André, siete l'uomo che si è fermato. - riesco a
dirgli, tentando di rincuorarlo - Magra consolazione lo so, ma
già questo vi rende migliore. Siete voi che non riuscite a
perdonarvi; sono certo che lei lo ha già fatto.
Non
emette fiato, forse lo sa anche lui, ed è solo la vergogna a
fargli pensare il contrario. Forse lo spera soltanto e teme di
illudersi.
-
Riposate ora, domani a mente fresca penserete a come rimediare.
Si
stende, muto, docile. Non si contrastano gli ordini del dottore.
Al
contatto con le coltri pulite e calde, lo sento sospirare di
involontario sollievo.
E
mi rilasso anch'io.
La
neve ha smesso ancora di cadere, indecisa come noi, trasformandosi in
pioggia.
La
verità è come l'acqua, trova sempre il modo di
risalire alla luce e lavare via il sozzume: aver confessato la sua
colpa è un primo passo verso la redenzione, verso la pace
interiore.
Ma
la verità è anche che i sentimenti di
André per Oscar sono irrealizzabili.
Solo
un sogno, solo un bel sogno. Ed è doloroso scoprire che i
propri sogni non si potranno avverare.
André
deve smettere di coltivare questi folli pensieri, per il suo bene ed
anche per quello di Oscar. È un amore che non
potrà mai essere in questo mondo, mi urla la ragione,
sebbene una parte di me, lo auspicherebbe.
Mi
dico che è una fase . Presto capirà che questi
sentimenti sono irrealizzabili e tornerà ad essere l'amico
fedele sul quale Oscar ha sempre contato.
Me
ne convinco mentre nel mio studio continuo il mio lavoro, concentrato
sul nuovo testo di medicina che vorrei mandare alla stampa entro fine
mese.
Da
tanto concentrato non mi rendo realmente conto del passare del tempo ed
è solo quando il maggiordomo viene a chiamarmi per la cena
che alzo il capo. E c'è una novità.
-
Come sarebbe a dire “andato”?
-
La governante si è recata nella sua stanza per controllare
che stesse bene e domandare se volesse cenare, ma non c'era
più. Lo abbiamo cercato ma lo stalliere ha detto che ha
preso il suo cavallo e se ne è andato. Ha lasciato detto di
porgervi i suoi saluti e ringraziarvi.
Poso
la piuma nel calamaio.
-
Grazie, scenderò a cena tra un attimo. - dico congedandolo.
Mi
alzo, guardo fuori il buio.
Spero
che André sia tornato a palazzo Jarjayes e non in una
bettola o a qualche altro genere di follia che gli permetta di starle
vicino ad ogni costo.
Per
anni sono rimasto a guardare questi due amici percorrere le rive del
fiume, insieme e separati ad un tempo.
Ho
atteso che i sentieri paralleli calpestati prima da due
bambini, poi da ragazzi, quindi da adulti, si avvicinassero,
che un ponte potesse congiungere ciò che le leggi umane
mantenevano distante.
Sono
diventato romantico con il tempo. E sognatore.
Vorrei
qualcosa di “giusto”, vorrei un lieto fine diffuso
attorno a me. Ma così non è.
La
vita diventa sempre più feroce. Il senso di ingiustizia, il
desiderio di resa, la voglia di farla finita mi impregnano.
E
nella testa, i fantasmi sussurrano.
***
Perdonate la lentezza:
il dottore ha tempi tutti suoi.
Avrà
più senso una volta finita, leggendola in una volta sola.
Spero.
Grazie ancora a chi
segue.
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Capitolo 12 *** capitolo 12 ***
12 inevitabile follia
17 luglio 1789,
palazzo Jarjayes
La pendola batte la
mezzanotte e mi desto di soprassalto, il cuore martellante, la bocca
secca.
La paura provata
durante il cannoneggiamento mi assale, nel ricordo, e solo quando mi
rendo conto di non essere più alla Bastiglia, tra la folla
urlante ed il tuonare delle armi, mi calmo.
Nel buio appena
spezzato dalla luce delle candele, carezzo il damasco di questa
poltrona, la seta del ricamo, gli intarsi nel legno: la
pazienza, l'arte, l'amore trasmesso agli oggetti quotidiani che troppe
volte non degnamo d'attenzione; e come le cose, così le
persone.
Mi sono addormentato
qui, nel salottino dell'atrio: un'anticamera, un passaggio; una sorta
di purgatorio, lontano dal paradiso e dall'inferno e, come tale, luogo
d'angoscia per il destino incerto che ci attende. I ricordi mi hanno
accompagnato nel sonno: fantasmi immutabili, incancellabili, vaghi e
reali ad un sol tempo.
Il silenzio si
impossessa del palazzo alla fine dei dodici rintocchi.
Dalla sala da pranzo
non si ode più alcuna discussione. A quanto pare, i generi
si sono finalmente ritirati a riposare o, più probabilmente,
a tramare in privato cose che, in base ai miei timori su ciò
che credo stia per piombarci addosso, risulteranno piccolezze
insignificanti e temporanee.
È notte
fonda e la cappella, laggiù, nel buio del giardino,
è stata chiusa, così come le porte e le finestre
della dimora, ma la casa, in questa notte di lutto, non riposa.
Mi alzo, rigido, gli
arti intorpiditi per la scomoda posizione in cui mi sono appisolato e
vado in cerca di Rosalie.
Mi affaccio alle
cucine dove, nonostante l'ora, si lavora alacremente per soddisfare
adeguatamente le esigenze dei tanti parenti ospitati in casa e degli
altri attesi per il giorno seguente. Lì è dove mi
aspettavo di trovarla, perché la Rosalie che ho imparato a
conoscere non ama stare con le mani in mano.
La cuoca mi si rivolge
con un inchino: in camera di Nanny, mi dice.
Cameriere, sguattere,
garzoni, a testa bassa, pregano mentre affettano, rimestano, impastano,
riordinano. Li lascio ai loro doveri ed alla loro pietà e mi
dirigo al pianterreno, nei quartieri riservati alla servitù
dei signori, a quei domestici che davvero dirigono la magione
più dello stesso generale, i più alti tra gli
inferiori.
Entro, silenzioso,
nella stanza della povera Marron, la quale, dopo una vita di lavoro e
sacrifici, mettendo i Jarjayes sempre al primo posto, prima di
sé stessa, prima del sangue del suo sangue, si ritrova senza
più parenti in vita.
E lì trovo
Rosalie: è crollata su un divanetto, esausta.
La mano abbandonata
nel vuoto non è quella di una gentildonna. Lavora al
mercato, fa le faccende. Ha rinunciato ad una vita agiata per non
recare danno ad Oscar e solo chi non conosce il pesante costo della
fatica quotidiana potrebbe considerare questo un piccolo sacrificio
anziché un atto d'amore.
Improvvisamente, il
pesante drappo che copre lo specchio accanto a me scivola a terra, come
un'ombra tetra, putrida, repellente ed il mio stesso irriconoscibile
riflesso mi spaventa.
Mi rendo conto di
avere un aspetto orribile: la barba lunga, i miei baffi
sempre sottili e perfetti sono un pallido ricordo, gli occhi infossati;
la parrucca c’è, ma è spettinata e
gonfia di polvere. Non sono mai stato un Adone, ma ho sempre avuto cura
della mia persona.
Sospiro evidentemente
in modo più sonoro di quanto mi aspettassi, palesando la mia
presenza.
- Dottore? - bisbiglia
lei, che una vita fa conobbi come la vera padrona di palazzo Jarjayes,
la mia prima paziente.
Mi avvicino
all’inferma, scostando la tenda del baldacchino.
- Venite qui, dottore.
Non sto dormendo e non sono morta … Purtroppo,
anche se credo non manchi molto: non sento più la vita -
mormora lamentosa.
- Non dite
così … - la rimprovero bonariamente - Come va la
schiena? - Aggiungo per distrarla e perché voglio farmi male
ancora una volta, forse l'ultima.
Ma Nanny non ribatte,
cosa mai accaduta prima e capisco che si sta davvero spegnendo,
rapidamente e senza possibilità di recupero. Tutti noi
abituati a vederla sempre uguale, non ci siamo resi conto di quanto sia
smagrita e pallida e curva e vecchia. È come se questa
tragedia fosse l'ultima sferzata sulle spalle di una donna ormai vinta.
Un lungo e pesante
silenzio tra noi, quindi la domanda che prima o poi, in queste
situazioni, tutti si fanno.
- Secondo lei, hanno
sofferto, dottore?
Vorrei mentire senza
vergogna, come spesso mi sono costretto a fare; dire che se ne sono
andati serenamente, senza dolore, senza paure, senza rimpianti, ma non
ci riesco e così mento attraverso una verità di
cui sono certo.
- Solo per il tempo
che non hanno trascorso insieme. - affermo.
Annuisce, condividendo
il mio pensiero, trattenendo le lacrime.
- Crede che ci stiano
guardando? Che sono qui con noi? Io penso di sì. E sono
insieme, di questo sono certa.
È una
certezza che vorrei sentire anch'io, almeno per provare sollievo dalla
fatica di sopravvivere.
Dall'ombra, il sonno
di Rosalie si fa improvvisamente agitato; ancora addormentata, mormora
parole incomprensibili, spaventata, in pianto, per tornare poi in un
riposo profondo, immobile, dopo poco.
Sono le ferite del
cuore che rendono inquieti: bruciano, nell'inconscio, nello spirito,
nel profondo; è quella parte che non mostri in pubblico
affinché gli altri non vedano il tuo lato debole e possano
infierire. Il dolore di queste ferite è ciò che
resta, ma anche l'inizio della guarigione.
- Dottore, mi faccia
una cortesia… Mi
passi quel gilet appoggiato sul tavolino… Glielo dovevo
riparare - spiega e non c'è bisogno di specificare di chi
fosse.
L'accontento
porgendoglielo con rispetto e lei con delicatezza lo prende, carezzando
il tessuto come fosse la guancia del suo nipotino perduto. Un
singhiozzo, poi si riprende: perché deve, perché
lo ha sempre fatto per tutta la vita; perché se si dovesse
arrendere, sarebbe perduta; e perché la sua forza
è tutto ciò che le rimane.
- Dottore…
per favore, apra quel baule laggiù, ma senza svegliare
Rosalie, povera piccola. - mi ordina.
Vado a sollevare il
pesante coperchio indicatomi; nemmeno mi ha sfiorato la mente la
possibilità di rifiutare: Nanny fa questo effetto.
Nonostante la poca
luce, una nube bianca, accecante come neve sotto il sole mi appare.
Pizzi e seta, nastri di velluto turchese e ricami dorati.
- Me lo porti, sia
gentile…
Obbedisco, lottando
contro il volume che inaspettatamente si moltiplica tra le mie braccia
una volta levato dal contenitore.
- L'ho cucito io
stessa molti anni fa, quando per poco ho avuto speranza che il mio
signore si attenesse all'evidenza, che la vita potesse riprendere il
percorso naturale, per lei… e anche per lui… -
mormora riferita ai suoi ragazzi.
Le depongo in grembo
l'abito da sera e Nanny socchiude gli occhi piccoli, privi dei suoi
abituali occhialini tondi, respirando come se sentisse ancora il loro
profumo, di André, di Oscar, sebbene io sappia che ella
indossò quell'abito un'unica volta, ormai adulta, sebbene
per certi versi ancora fanciulla.
Era stato preparato da
Nanny per una ragazzina che, in barba ai desideri del generale, la
biologia aveva reso inequivocabilmente femmina.
Anche allora mi ero
trovato coinvolto in quel bizzarro dramma familiare, per un fatto che
in qualunque altra famiglia sarebbe stato visto con benevolenza, se non
addirittura con gioia: una giovane che diventava donna. Ma non a
palazzo Jarjayes.
“Ohsssí!
Finalmente! Madamigella madamigella madamigella! “ , aveva
esclamato Nanny come un vulcano che finalmente erutta, le mani tozze
strette a pugno come i bimbi capricciosi. “Non
è con le bugie che si plasma la verità, signor
generale!” Aveva seguitato.
“
Finalmente posso chiamarla Madamigella senza dover essere
ripresa!”
“Hai
finito?”, si era limitato a dire il padrone, per nulla
sorpreso dall’isteria della sua governante.
“Madamigella
madamigella madamigella!”, aveva replicato lei piccata, pur
di ottenere l'ultima parola.
Jarjayes non aveva
trattenuto una piccola smorfia divertita. Da un lato l'atteggiamento
della sua governante lo irritava, innervosiva, oltraggiava; dall'altro
si sentiva soddisfatto da quel lato battagliero che,
impavidamente, gli teneva testa. E quel che stava accadendo a
suo figlio, scelto come tale, come maschio, come erede,
pareva, ma solo pareva, non preoccuparlo. Non tentennava davanti agli
attacchi della governante, si mostrava sicuro che l'educazione
impartita avrebbe compensato il ... difetto di nascita.
E poi c'era
André, immobile, silenzioso, turbato.
“Ci saranno
giorni in cui sarà più
irritabile.”, lo avvisai mentre gli altri impegnati
a sfidarsi non badavano a noi.
“Oscar
è sempre irritabile.”, aveva minimizzato il
ragazzino, lo sguardo fisso sulla porta chiusa di Oscar.
“Di
più.”
Non
replicò, anche se avrebbe potuto. Aveva paura di perdere il
suo unico amico. Temeva che quella promessa fattagli anni prima venisse
infranta e lui sarebbe tornato a sentirsi solo.
Lo vidi stringere il
frustino che teneva tra le mani. Oscar era il suo mondo e si rendeva
improvvisamente conto che finora era stato tutto provvisorio, incerto,
fasullo.
Nanny gli
ripeté che avrebbe dovuto chiamarti madamigella Oscar e
trattarti con riguardo e stavolta egli non riuscí a
ribattere.
Il mio ricordo sfuma
sul suo viso ansioso, mentre rammento chiaramente gli occhi verdi,
grandi, lucidi.
Non ero rimasto
sorpreso da tanto scalpore. Da sempre attendevo quel momento con una
certa curiosità: come avrebbero gestito i Jarjayes la
questione? Ed io ero stato la risposta.
“Dottore, mi
aspetto che spieghiate ogni cosa ad Oscar... e lo facciate
ragionare.”, mi richiamò Jarjayes.
Avevo annuito poco
convinto. D'altronde era inutile affrontare l'argomento, sempre il
solito, col generale.
Aveva sempre rifiutato
l'evidenza. Da tempo lo avevo avvisato, affermando che Oscar avrebbe
incontrato problemi crescendo, che non era troppo tardi per rimettere
le cose nell'ordine naturale, che negare sé stessa le
avrebbe creato solo confusione e che, anche se forte e determinata,
ciò l'avrebbe logorata. Aveva replicato dicendosi certo che
Oscar sarebbe stata in grado di affrontare tutto, che un giorno gliene
sarebbe stata pure riconoscente. Naturalmente, declinò la
frase al maschile.
Non credo si rendesse
conto di quanto invece sarebbe stato alto il prezzo.
Ma Oscar era il suo
erede, con nome maschile, con destino maschile. Tutto il resto, erano
sciocchezze per Jaryaies.
Avevo così
aperto quella porta, dietro la quale Oscar si era rifugiata in
solitudine.
E lo avevo fatto
più per mia curiosità, piuttosto che per
accontentare il generale.
Ero entrato nella sua
camera, trovandola rannicchiata sul letto, seduta sui cuscini, poggiata
alla testiera. Lo sguardo fisso.
“Se avete
delle domande…”, avevo esordito dopo istanti
interminabili di silenzio, conscio che Nanny aveva sicuramente confuso
a sufficienza la mente di Oscar con consigli più o meno
campati per aria, un po’di folklore, alcuni sentito dire ed
un briciolo di terrore.
“Se avete
dubbi, perplessità sul … ”
“Quindi sono
una ragazza? Sono davvero una ragazza?” Aveva mormorato.
Sapevo che non si
trattava di una vera interrogazione: Nanny si era sempre testardamente
rivolta a lei chiamandola madamigella, irritando il generale.
Oscar non era stupida,
né ignorante, e neppure ingenua: i libri di biologia e
medicina abbondavano in biblioteca e, per quanto la sua esistenza fosse
piuttosto isolata, per certi versi protetta, la vita scorreva anche a
palazzo Jarjayes.
Ma ora era il punto di
non ritorno. Il suo corpo sanciva chiaramente che la riteneva pronta a
dare la vita e non la morte come da sempre era stata preparata a fare.
Non basta sperare che
qualcosa non accada affinché non avvenga, eppure pareva che
qualcuno ci contasse.
Il silenzio fu la
risposta che si attendeva da me.
“Lasciatemi
sola, dottore”
L’accontentai.
Il generale
sbuffò perplesso vedendo che pure io ero stato velocemente
allontanato e se ne andò, scuotendo il capo.
Ma mentre noi stavamo
lì preoccupati, la porta si era aperta e Oscar, vestita di
tutto punto, si era affacciata.
“ Preparati
André, usciamo a cavallo.”, gli aveva ordinato
sottraendogli il frustino dalle mani.
Nanny si
lamentò, invitandola a riguardarsi ed ella semplicemente la
ignorò, volgendo invece il suo sguardo a me.
“Il mio
corpo deve rassegnarsi, dottore: vincerò io.”
Questa era madamigella
Oscar. La vita per lei o era bianco o era nero. Una continua
sfida, da vincere o perdere. Nessuna mezza misura.
Oh, madamigella Oscar,
vivere è un compromesso! Una tregua, una mediazione tra
ciò che vorresti essere, ciò che puoi essere,
quel che vorresti fare quel che ti è permesso fare. Se fai
un passo avanti, qualcosa ti tira di lato e devi essere grato se non
finisci a terra.
La vita è
una tavolozza di colori, ora vivaci e caldi, ora lugubri e freddi, e
tocca a te ritoccare col pennello quelli più neri.
- Stanno parlando male
del mio André vero? - domanda improvvisamente Nanny - Alcune
sorelle di Oscar mi guardano con affetto, altre solo come una noiosa
vecchia pazza, dimenticando con quanta dedizione le ho
allevate…
Torno alla
realtà. Quella più nera, ormai impossibile da
colorare.
- Non dovete fare caso
a loro, Marron. - dico rimboccandole le coperte.
- Come posso, dottore?
Sono indignata e delusa da tanta cattiveria! Disgustata da loro che
trattano André come fosse stato un delinquente! Il mio
André … - tormenta i bottoni del gilet che ha tra
le mani - Sono stata spesso dura con lui. Una nonna …
cattiva. Ma lo facevo per il suo bene: temevo sarebbe accaduto qualcosa
di simile… Maledetta uniforme! È per
quella che li ho persi entrambi!
Esito. Vorrei
obiettare che probabilmente è proprio il contrario: che
è stata la parte femminile di Oscar a volersi trovare alla
Bastiglia, a ribellarsi, per un mondo migliore ove vivere con
André alla luce del sole, ove non fossero abiti o titoli a
definire l'essere umano.
Per assurdo,
è la decisione del generale che li ha fatti incontrare, che
ha permesso il loro amore, altrimenti Oscar non sarebbe esistita,
sarebbe stata una qualunque Madamigella stretta tra corsetti e
consuetudini.
- Calmatevi,
Nanny…
- Ma lei non era come
loro… No… E sono certa che ora sta ballando con
addosso un bel vestito, tra le braccia del mio André.
.. Madamigella Oscar ed il mio André…
Avrei tanto voluto vederli ballare insieme …- mormora
trattenendo la mia mano destra, guardandomi senza vedermi,
gli occhi velati persi nella sua visione.
Le carezzo il capo e
glielo privo della cuffietta senza la quale mai si è
presentata in pubblico in tanti anni, ligia alla sua uniforme
quanto al suo dovere, per liberare finalmente la chioma bianca,
sciogliere le lunghe e fragili ciocche che accompagno con due dita per
poi tornare a sfiorarle la guancia umida.
- Sì,
Nanny, ora riposa.
E mi accontenta
chiudendo le palpebre, il sorriso accennato, nelle orecchie un
minuetto, le luci, la festa.
Libera,
perché, in fondo, ognuno sogna ciò che vuole.
È a questo che servono i sogni.
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Capitolo 13 *** capitolo 13 ***
13 inevitabile follia
Dimagriva e non ci feci caso. Impallidiva e non vi diedi peso.
I peccatori restano ed io, che la davo per certa nella mia vita e la
lasciavo sola per seguire le mie passioni, le mie ricerche, lo scopo
superiore, io, peccatore, sono restato.
E con la mia solitudine pago.
1786, reggia di Versailles
La carrozza sussulta leggermente nel fermarsi ed io batto le mani,
entusiasta e rumorosamente gaio.
- Voilà voilà! - esclamo - Giunti a
destinazione!
Alexandra mi guarda un poco di sbieco, sebbene con una piega di sorriso
che non riesce a non sfuggirle.
Non mi ama particolarmente quando mi ridicolizzo a giullare, almeno
così sostiene; in realtà credo che il mio lato
pazzerello, monello, raro ed imprevedibile, sia proprio
ciò che l'ha fatta innamorare, ciò che l'ha
spinta inizialmente a forzare la mia corazza di aspetto professionale,
serio, composto, rigoroso sotto al quale celavo il mio io libero e
permettergli di uscire. Già, proprio così, stare
con lei porta alla luce quel bimbo spensierato che non mi sono mai
permesso di essere. Stare con lei mi rende felice.
- Posso auspicare che ti controllerai un poco una volta scesi? - chiede
minacciosa.
Fingo di non darle ascolto.
- Promettimi che cercherai di moderare il tuo entusiasmo una volta
dentro… - ribadisce col sorriso sulle labbra rosse e un poco
d’ansia nella voce, afferrando il mio braccio, costringendomi
a guardarla, costringendomi a darle accesso alla mia anima al di
là degli occhi.
- Siiiì … - prometto con poca onestà e
con troppa veemenza.
Sono veramente senza freni stasera; stasera è la mia serata:
sono euforico.
Finalmente Sua Maestà ha accolto le mie richieste per un
ospedale sul modello austriaco, non solo un luogo ove celare e tentare
di rimediare alla malattia, ma dove prevenirla per il bene pubblico
oltre che dell'individuo. Perché le due cose sono
reciprocamente dipendenti e inscindibili.
Alexandra mi picchia il ventaglio sulla testa a mo' di scappellotto
come farebbe col moccioso insolente che so non avremo mai,
perché per lei, per la sua gamba, per il suo bacino
malmesso, un parto sarebbe troppo rischioso.
Da fuori ci aprono lo sportello ed io le passo davanti per precederla e
poterla aiutare. Mi allunga l'inseparabile bastone che a mia volta
affido al valletto, quindi le porgo le braccia e la sostengo nello
scendere.
Ancora aggrappata a me si concede un attimo per riacquistare equilibrio
poi, con un cenno, mi fa capire di essere pronta ad avviarsi. Il
valletto ci rende il bastone e sorretta da
entrambi, passo dopo passo, sulle nostre cinque gambe, attraversiamo la
corte, già gremita e chiassosa.
Si regge a me mentre le stringo la vita, inanellati in questo
abbraccio, una nostra sorta di danza.
Come sempre cerco di farle pesare il meno possibile la sua
invalidità . Le sorrido, blatero schiocchezze, bisbiglio
pettegolezzi e lei si distrae dalla fatica. Così bella,
leggera e fragile come una farfalla dalle ali spezzate.
L'abito turchese confezionato per lei da Rose Bertin, pesante il meno
possibile per non gravare ulteriormente sulla sua gamba malata, i
capelli acconciati ed incipriati in volute argentee non possono non
esaltare il cielo dei suoi occhi, particolarmente lucenti stasera. I
suoi occhi: la prima cosa che cerco al risveglio e l'ultima che voglio
guardare prima di addormentarmi.
Già dai primi passi la folla che ci si stringe attorno mi
riconosce; cominciano i complimenti, i buoni auguri, gli incitamenti ;
pochi a dir la verità gli sguardi di cattiveria e d'invidia
perché, in fondo, tutti amano il dottore.
Cerco di salutare il maggior numero di persone possibili ora, prima che
ci si trovi ad affrontare le scalinate, la parte più
difficile per lei, per entrambi perché la sua sofferenza mi
dilania. La vedo tremare al ricordo di quel giorno di violenza, in cui
oltre alle ossa spezzate da lui, dai gradini sui quali l'aveva spinta
deliberatamente, quasi perse la vita; la sento tremare addosso a me, la
vedo concentrarsi sui passi da compiere, vincere il dolore ad ogni
movimento, eppure ce la fa, ce la facciamo senza chiedere aiuto, noi
una cosa sola quando c'è il bisogno, e arriviamo su nella
galleria degli specchi illuminata come un giorno di sole.
Dalle decine di lampadari, migliaia di candele danzano nelle geometrie
dei cristalli. Pare un moltiplicarsi di arcobaleni in altrettanti soli.
Mille e mille arcobaleni di mille e mille soli. Ma nulla è
più bello di lei ai miei occhi.
- Buonasera dottore! - esclama la voce vellutata e tentatrice della
marchesa di Cocodans, gentildonna per la quale il tempo sembra non
trascorrere, a differenza dei tre mariti che ha già
seppellito; arrivando alle nostre spalle, ci oltrepassa e mi urta,
leggermente ammiccando.
Alexandra mi guarda ancora di sbieco e sorridendo insinua una domanda
velata d’ironia.
- Devi forse confessarmi qualcosa Francois?
- Nulla di cui ti debba preoccupare, Sandrine. Non dovrai mai
preoccuparti delle altre donne - bisbiglio al suo orecchio,
stringendola per la vita- Specie di donne come la Cocodans: sono una
persona che impara dagli sbagli e non li ripete. Sbagliare nel mio
campo, lo sai, non permette seconde oppurtunità . E sono
certo che neppure tu me ne concederesti una, mia adorata.
Rido e le bacio la mano, guidandola verso un divanetto dove potersi
finalmente rilassare un poco.
Camerieri in livrea ci offrono stuzzichini e calici di vino; ne porgo
uno ad Alexandra, che lo sorseggia appena, e rifiuta il cibo con una
leggera smorfia, lasciandomi intendere di non sentirsi troppo a posto
con lo stomaco. D’altronde, la moda vuole che cibo e corsetti
si trovino in disaccordo e so già da tempo di non potermi
intromettere tra una dama e la sua vanità senza uscirne
sconfitto. Nel brindisi si uniscono a noi amici e conoscenti;
complimenti, congratulazioni ed auguri, molti sinceri, altri meno,
giungono da tutto intorno a noi.
Sorseggiando, esploro la sala con lo sguardo. Noto la presenza di molti
ospiti stranieri, alcuni sconosciuti, altri più noti di
quanto vorrei. Tra questi, il conte di Fersen. Dopo anni, dopo
l'America, è tornato a Versailles e tutto fa intendere che
voglia restarci a lungo.
- Sembra che la marchesa di Cocodans abbia tra le mani un nuovo amante
facoltoso - sento dire alle mie spalle.
- Sarà mai un certo straniero? - ridono alludendo allo
svedese.
No, penso, di certo Fersen ha ben altri pensieri in questo momento, ed
io lo so bene trovandomi alla stregua di un confessore.
- Vogliate scusarmi… - dico e mi dirigo verso il
chiacchieratissimo conte, che in disparte attira ancor più
l'attenzione.
- Dottore..
- Conte di Fersen…
- Mi è giunta all'orecchio la bella notizia, le mie
congratulazioni.
- Grazie, sarà un notevole impegno…
- Un lavoro arduo…
- Quasi quanto voi che cercate di passare inosservato. - lo rimprovero.
Abbassa lo sguardo, in difetto. Difficile confondersi con la massa,
quando sei l'uomo più chiacchierato di Francia.
- Non ho più intenzione di fare ciò che ci si
aspetta. Il mio posto è qui e voi sapete perché.
Riesco appena a mostrare un pizzico di contrarietà che la
nostra attenzione viene catturata da qualcuno appena entrato nel
salone. Una sensazione mi spinge a voltarmi come tutti verso l'ingresso
e scorgo la dama bianca entrare.
Incredibile quanto un non colore possa attirare tanta attenzione, ma
ancora più sorprendente quanto lei riesca a mantenerla.
Rimane pochi istanti ferma all'inizio della galleria, il ventaglio con
le piume di pavone bianco aperte ed immobili davanti al volto, lo
sguardo intento a scrutare tutt'attorno, come in cerca di un obiettivo,
una meta e per una frazione di momento, si sofferma anche su di me,
catturando i miei pensieri e levandomi il respiro. Inizia quindi a
muoversi attraverso i gruppi di persone, la gonna dai ricami turchese
ed oro, ondeggiante sotto la luce delle mille e mille candele, ruba il
colore agli arcobaleni e gli sguardi sono tutti per lei.
- Oh, guardate quella donna… - mormora incantata una dama
accanto a noi .
E in un istante i commenti delle signore sono veramente
tanti, si moltiplicano, rimbalzano di bocca in bocca,
distorti, sovente maligni: bella come una dea, sì, ma... il
vestito è proprio fuori moda! … Una nobile
straniera che viaggia in incognito? Non vuole si sappia il suo
nome… Che bei capelli… Certo,
l'acconciatura…
Eppure attrae. Le donne la scrutano con invidia; gli uomini la guardano
con desiderio. È indiscutibilmente bella, specie quelle rare
volte che solleva lo sguardo dal ventaglio di piume e scruta
tutt'attorno con gli iridi chiari come acqua. Odo la Cocodans
ammettere, un po’ a malincuore, che la sconosciuta si
può pregiare di una bellezza naturale, raffinata, un poco
severa; e sebbene l'incarnato sia coperto dal trucco, è
evidente che sia sana, ben formata; non goffa, ma cauta nei
movimenti; decisa a tratti nel passo, ma intimidita nello sguardo;
eppure non abituata ad essere intimidita e per questo fuori posto.
- Mi pare di averla già vista… - mormora Fersen e
lo dice come se ciò dovesse sorprendermi; lui, l'uomo dal
nome più sospirato nei salotti femminili e quello
più sibilato a denti stretti in quelli maschili, dubita
riguardo il conoscere una donna? A Versailles? Dove non c'è
donna che non vorrebbe attirare la sua attenzione?
Quest’uomo è il mio opposto. Egli punta alla
seduzione in qualunque caso, è più forte di lui:
deve affascinare. E non è questione di sesso. Non solo.
Non penso male di lui: è nella sua natura; non
può farne a meno di corteggiare, incantare, sedurre. Come lo
scorpione non poteva evitare di pungere la rana.
Ecco! Dovrei pensare male di me, invece, dell'invidia che provo,
perché non ho mai avuto il vantaggio delle sue armi: so che
un bell'aspetto può aprire molte porte, in molti ormai
dicono anche quelle della regina ed avrebbero ragione.
Non ho il tempo neppure di pensare ad una frase che possa essere
diplomatica, ma al tempo stesso tagliente, solo quel tanto per
soddisfare il mio orgoglio, che egli mi lascia il calice tra
le mani alla stregua di un qualunque servitore e, senza degnarmi di un
fiato, s'incammina verso la sconosciuta. Un poco indispettito, resto ad
osservare la scena del seduttore all'opera, dell’ ammaliatore
in procinto di catturare l'ennesima preda.
E la dama accetta, cede, gli concede un ballo. Perché non
dovrebbe? Sono il primo ad ammetterlo.
Li guardo conquistare la sala, l'attenzione tutta su di loro. Lui sta
parlando, ma lei non alza lo sguardo, pare imbarazzata, incerta, tesa
ora che non ha più un ventaglio dietro il quale celarsi.
All’improvviso, un passo falso e solo la prontezza del
cavaliere la salva dal rovinare a terra.
Tutto avviene in un istante e non riesco neppure a capire come, ma mi
ritrovo la sconosciuta, in fuga, finirmi addosso. Per un istante i
nostri sguardi si incrociano e non riesco a credere a ciò
che riconosco dietro il trucco e le lacrime.
Il mio bicchiere finisce sul pavimento in frantumi, e la donna mi
sospinge via, scomparendo. Mi volto, vorrei seguirla, tranquillizzarla
e soprattutto capire. Capire a cosa imputare questa sorpresa: un colpo
di testa? O non è la prima volta? E poi… Fersen?
Lui non è adatto a voi, proprio come la Cocodans non era
adatta a me! Appunto, come posso criticare io… Ma non
è questione di buono, di migliore: semplicemente non adatto.
Improvvisamente, il turbinare di questi pensieri e qualsiasi tentativo
di azione si interrompono quando vengo fermato da una mano sulla spalla
che mi trattiene saldamente, ancor prima di muovere un passo.
- Dottore, vostra moglie! - esclama allarmato uno degli ospiti.
E le parole diventano confuse, mentre la musica si ferma, cedendo
spazio al brusio.
Mi volgo a guardare verso il divanetto dove avevo lasciato Alexandra.
Alexandra che cade a terra.
Alexandra che si accascia scomparendo nella nuvola celeste del suo
abito.
E tutto il mio mondo, le mie certezze, le mie ambizioni, crollano
insieme a lei. Il futuro si azzera, nulla più importa.
Neppure ricordo perché volevo arrivare, dove arrivare. Solo
ed impotente dinnanzi al fato che non mi vuole felice.
Parigi, Aprile 1789
Sto particolarmente male stasera. Non so bene perché.
Ricordi, nervosismo, immagini sfuocate, ma terribili. Immagini della
vita che avrei voluto vivere con lei, portata via.
Ogni tanto mi succede, non più spesso come una volta, ma
succede. Ed il dolore è sempre intenso, sempre lo stesso.
Ripenso al tempo sprecato, a ciò che sembrava importante e
non lo era; mi affliggo per colpe che in realtà non ho, ma
non riesco ad evitarmelo.
“Se solo… se invece...se…” si
ripetono nella mia testa, inutilmente, dolorosamente, ineluttabilmente.
Perché è inevitabile tormentarsi, impossibile
continuare a vivere quando la tua vita stessa è stata spenta.
Bussano alla porta. Ignoro.
Bussano ancora, con più forza.
Chiamo a gran voce la domestica che però non risponde.
I colpi diventano insistenti, irritanti. Disperati, ma di questo mi
renderò conto solo poi.
Mi alzo di scatto dalla poltrona, molto più che seccato, per
andare di persona alla porta d’ingresso. Apro ormai furente
... e li vedo.
Lo sguardo chiaro e angosciato di Oscar che si leva su di me,
mi colpisce, richiamando brutalmente alla memoria un altro sguardo, con
altra simile disperazione.
Lei lo sorregge a fatica e quasi mi crolla fra le braccia, esausta, nel
momento in cui recepisce di avercela fatta, di essere a destinazione,
di essere in salvo.
- Eravate il luogo più sicuro e André
è ferito - mormora in una supplica.
- Buondio, Oscar, che vi è accaduto?
I miei domestici appena giunti si occupano di risollevarli, mentre
impartisco veloci indicazioni su cosa fare.
- Siamo stati aggrediti, giù a Saint Antoine. Una folla
… Oddio, il nostro cocchiere! … Spero sia
riuscito a mettersi in salvo. - si angustia.
- Sedete e permettete che vi dia uno sguardo…
- Prima André, dottore, prima André! - raccomanda
con tono ansioso, ignorando il rivolo di sangue che le scivola da una
tempia.
Poiché non è il momento di far questioni, lancio
uno sguardo alla mia governante, la quale prende uno straccio imbevuto
e, con una presa gentile ma salda, costringe Oscar ad accomodarsi,
cominciando a ripulirle la ferita.
Mi concentro su André che nel frattempo è stato
portato su un lettino dell'ambulatorio. Non sembra in sé, lo
sguardo perso… Non capisco con che forza sia riuscito ad
inanellare un passo dopo l'altro fin qui.
Gli apro la giubba e mi chino ad auscultargli il torace tumefatto.
Palpo le costole, una dopo l'altra, e non mi paiono lesionate. Ma in
verità, il pover'uomo é talmente dolorante da non
riuscire a capire quale parte del corpo potrei definire sana.
- André… André, parlatemi! Dove
sentite dolore? - cerca di rispondere in modo confuso. -
André vi hanno picchiato alla testa? Avete perso i sensi?
- No, no, mi volevano ben sveglio per impiccarmi meglio - mormora
sarcastico dopo un istante.
- Cosa ricordate? Vedete bene? Udite bene ciò che dico?
Riuscite a respirare senza provare dolore?
- Ho solo gran mal di testa… e preferirei dimenticare..
Palpo il cuoio capelluto insanguinato.
- Grazie al cielo è arrivato Fersen! - mormora Oscar alle
mie spalle, sorprendendomi - Se non fosse arrivato per
disperdere la folla, temo non ne saremmo usciti vivi.
Vedo André stringere i denti e gli occhi in un gesto di
disturbo, per quelle parole. Esausto, forse rassegnato.
- Ormai pensavo che fosse finita. Ero a terra, non riuscivo neppure
più a tentare di ripararmi da calci e bastonate, ma ...
è arrivato!…
Si interrompe, china lo sguardo, porta la mano alle labbra tremanti per
l'agitazione, mentre due lacrime oltrepassano le ciglia. Prende un
lungo respiro, deglutisce e quando risolleva il viso, vi scopro una
luce nuova negli occhi lucidi ed un sorriso che dovrebbe stonare in
questo momento.
- Grazie al cielo, Fersen è arrivato! È
arrivato…
E ripete quel nome, e rende grazie, e sorride di un sorriso sciocco,
inopportuno davvero, penso. Perché ripetere quel nome a quel
modo? Che si sia trasformata in una inebetita damigella in adorazione
del proprio cavaliere salvatore?
Vado a controllarle il capo che sanguina ancora sebbene meno
copiosamente, preoccupato da quell'atteggiamento che non riconosco come
suo; lei mi prende la mano, la stringe tra le sue e guardandomi negli
occhi come in preda all'estasi, ripete ancora “grazie al
cielo, è arrivato Fersen”.
- Tenete la pezza premuta qui e sdraiatevi… ecco,
così… tranquilla … - mormoro
preoccupato accompagnandola nei movimenti.
- Appena in tempo… credevo fosse finita, invece mi ha
salvata dal linciaggio… gli devo la vita… gli
devo… Tutto….
La guardo volgere lo sguardo alle mie spalle.
E capisco. Capisco cos'era quella luce nei suoi occhi, la stessa che
vedo nei pazienti quando dico loro che si salveranno. La scoperta, la
consapevolezza, la certezza. Ed è chiaro chi sia il tutto
cui si riferisce.
Siedo accanto a lei, inizio a medicarla: la testa, il polso, la
spalla… Anche Oscar, come André, è
pesta e sanguinante, ma in fondo, sono miracolosamente illesi entrambi.
Forse c'era uno scopo superiore in tanta ferocia? Forse doveva servire
a qualcosa?
Forse il male non sempre vien per nuocere, a volte apre i cuori. Sembra
che per Oscar sia stato così.
Ma all'illuminazione di Oscar, non vedo corrispondere André,
il quale giace con lo sguardo fisso al soffitto e l'espressione
rassegnata sul volto di colui che ne ha avuto abbastanza.
Temo che egli interpreti diversamente quei ringraziamenti allo svedese
vaneggiati da Oscar, come se si aspettasse di vederla infiammarsi
nuovamente in quel sentimento da nulla.
Sospiro preparando il necessario per mettere qualche punto qua e
là, e penso che per ricucire i sentimenti, dovrà
Oscar fare il primo passo, chiarire, levare ogni dubbio.
E spero che poi, nulla di nefasto li allontani nuovamente.
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Capitolo 14 *** capitolo 14 ***
14 inevitabile follia
14
inevitabile follia
Palazzo Jarjayes, 17 Luglio 1789
Oscar e André sono morti, ma sono ben altri i fantasmi che
si aggirano in questa notte di veglia per Palazzo Jarjayes.
Sono i fantasmi delle colpe, dei rimorsi, degli sbagli.
Sono spettri di giorni passati, spesso troppo uguali, con silenzi
egoisti, bugiardi, vigliacchi.
Sono i sentimenti troppo taciuti o malamente espressi e le presenze
date per scontate, ignorando la parca pronta a tagliare il filo.
Sono tutti quei giorni trascorsi ad autoingannarsi in attesa di un
domani ugualmente freddo e senza coraggio.
Giorni come celle con pietre di gelide bugie ed alla sera restavano
solo i rimpianti.
Non c'erano veri motivi di malessere tra queste mura sontuose ed
eleganti: una buona salute, le tavole imbandite, un futuro
potenzialmente roseo.
Ma… Se solo… Questo mancava: se solo... Se solo
avessi agito, parlato, osato.
Se solo…
Perché apriamo gli occhi sul mondo quando già li
stiamo chiudendo?
Vago al buio per questi corridoi e d'un tratto mi par di sentirlo:
l'inconfondibile aroma del suo tabacco da pipa, pizzicare le narici,
obnubilare la mente, trasportare i pensieri altrove, in paesi lontani,
in luoghi piacevoli. Semplicemente altrove, perché qualunque
luogo sarebbe meglio di qui ed ora per lui.
Seguo le tracce del fumo, dapprima solo per mezzo dell'olfatto, poi
scorgo anche una piccola nube vagare per il corridoio, come una
nebbiolina di fine estate, che mi guida a ritroso alla sorgente, fino
al grande salone dove egli si è ritirato allontanandosi da
tutti, deluso dalla progenie superstite, dal mero accapigliarsi dei
generi per vili questioni economiche, da uomini quest'ultimi che di
uomo hanno solo la parvenza, non certo la statura da lui pretesa. Per
lui, per il generale, “l'uomo”, inteso nelle
virtù
di coraggio, determinazione, valore, si fa, non si genera. Ormai lo ha
capito, sua figlia glielo ha dimostrato. Triste che se ne renda conto
troppo tardi.
E capisco perché proprio lì sia andato.
Eccola: mi accoglie appena entro, illuminata dalla luna e dalla mia
candela; superba ed angelica al contempo e resto tanto incantato e
sorpreso e ammirato che allungo una mano perché
d’istinto
vorrei toccare, sapere se è reale o solo un altro fantasma
della
mia mente.
- No! ... È ancora fresco… - esclama una voce
autoritaria alle mie spalle, dal buio.
Immaginavo fosse lì. Un ombra nell'ombra, invisibile.
- Sembra così … viva. - mormoro senza riuscire a
distogliere lo sguardo dalla tela.
- Già, il pittore è stato bravo, dannatamente
bravo.
Odo tintinnare cristallo con cristallo; si riempie il bicchiere di
cognac, il generale, per l'ennesima volta credo a giudicare dai
movimenti scoordinati. La voce strascicata mi fa capire che
si
è abbonamente rifugiato un qualcosa di consolatorio, sebbene
dannoso e temporaneo. Male consolatorio abbastanza comune in questa
casa; male che ho affrontato anch'io e, lo ammetto, mai realmente
sconfitto.
Scomposto, disordinato nell'aspetto, egli siede sulla
poltrona
che so di un vivace, sanguigno, color porpora, ma che nelle tenebre
pare nient'altro che nera; porta il bicchiere alle labbra, ma non beve.
- Non sono riuscito a dirle addio, - mormora - ero convinto che sarebbe
tornata.
Stringe un pugno lo porta alla fronte, picchiettandosela nervosamente,
incapace di capire, di credere, di accettare ciò che non
può più essere rimediato.
- Non doveva andare così…- sibila, malcelando un
dolore
rabbioso - Le cose potevano cambiare, io potevo cambiare… Si
parla, si ragiona, le cose si aggiustano… Il
tempo…
Lo ascolto seguitando a contemplare i tratti perfetti di quel volto che
fu altrettanto perfetto; scuoto appena il capo perché so che
il
generale non parla, ordina; egli non ne discute, esige; e soprattutto,
non cambia; non su valori per lui intoccabili quali la
lealtà
alla Corona. E so che è quello il peccato mortale che non le
avrebbe mai perdonato.
- Aveva la tisi …- lo interrompo.
Ormai non c'è motivo di tacere, non c'è ragione
perché egli non debba stare peggio di come sta. Ed il colpo
è grave.
- Terminale. Al meglio, solo pochi mesi di vita. - aggiungo mestamente.
Restiamo in silenzio per attimi senza tempo, ciascuno immaginando a
modo suo, un futuro che mai arriverà.
- Volete farmi compagnia, Lassonne? Le va di bere qualcosa con me,
dottore? Per scaldare lo spirito e confondere la mente.
Annuisco ancora rivolto al ritratto e poi capisco che non
può vedermi mentre lo faccio.
Jarjayes mi allunga un bicchiere nella penombra, senza alzarsi dalla
poltrona e, quando giungo a stringerlo, me lo riempie.
- Beva, mio caro Lassonne, abbiamo dei buoni motivi per festeggiare, in
fondo.
Resto basito ed un poco inorridito.
- Sì, dottore, piangiamo la morte di mia figlia e del buon
André, ma al contempo festeggiamo la fine dei Jarjayes, una
fine
che ho tentato di ingannare con un imbroglio, tanti anni fa. I
Jarjayes: una nave che ho incautamente guidato per i mari della
carriera ed ho affondato con la follia. Mi pensate un ipocrita vero? -
chiede guardandomi sbieco. - Mia figlia imputridisce in una bara ed io
mi preoccupo del futuro.
- Penso solamente che abbiate bevuto troppo questa sera, generale -
rispondo diplomaticamente.
Sorride, amaro. Si sporge in avanti di scatto, inclinando
paurosamente il bicchiere.
- Male! Male, caro Lassonne, perché avreste ragione: sono un
ipocrita! Sono un egoista! Sono un essere che ha giocato col destino
della sua stessa figlia solo per orgoglio personale! - poggia
rumorosamente il bicchiere sul tavolinetto ed affonda nello schienale.
- Come vorrei essermi fermato prima.. Come vorrei averle detto che
… - sospira - Non avrei potuto avere figli migliori. Mi
riferisco ad Oscar, ma anche ad André. Egli era nato servo,
ma
il suo cuore mi rispettava come un figlio rispetta e forse ama il
padre. Se solo fosse stato nobile…se solo… Come
sarebbe
stato tutto diverso... Ma fatemi compagnia, dottore. Solo un
po’... - mi tenta riprendendo il bicchiere, inalzandolo
appena in
segno di invito.
Se solo fosse stato nobile? Non lo avrebbe mai conosciuto, non allo
stesso modo. Erano due germogli cresciuti insieme, rinforzati dalle
medesime avversità, dalla medesima solitudine e solo alla
fine,
intrecciatisi l'uno all'altra.
Sollevo il bicchiere alle labbra ed assaggio il pregiato cognac dei
Jarjayes, caldo e avvolgente come un abbraccio. Un conforto che non
meritiamo.
- Perché lei? - domando all'improvviso.
- Come?
- Ricordo tanti anni fa, in questa stessa stanza: avevo una domanda da
porvi e temevo la vostra risposta. Un uomo dalle origini nobili, ma
fumose, che osava chiedere la mano di vostra cugina. Avrei dovuto
rivolgere quel quesito al fratello che ne gestiva le
proprietà e
non sarebbe stato felice di rinunciarvi. Così mi feci
coraggio e
vi pregai di trovare una transazione adeguata che non rovinasse
Alexandra di quanto le spettava, ma che nemmeno invelenisse suo
fratello nei miei confronti.
- Ricordo, dottore...
- Mi raccontaste, francamente, che vostro cugino nulla aveva fatto per
proteggere la sorella da quel mostro che l'aveva sposata e che avreste
sempre pensato voi a lei, che l'avreste protetta ed agito per il suo
bene...
- E vi diedi la mia benedizione, oltre al mio permesso, dottore.
- Voi avete salvato Alexandra da un marito violento e da un fratello
dispotico...
- E? …
- Voi non avete mai alzato le mani su una donna. Vi conosco bene.
- E?
- Perché su di lei sì?
Lo sguardo arrossato ed umido corre al ritratto.
- Non ho scusanti. In parte, applicavo la disciplina che ho ricevuto.
Disciplina e severità, così cresce un soldato,
così cresce un Jarjayes. Poi, giorno dopo giorno ho
cominciato
col vederla più figlia e meno figlio. Confesso: ho
dubitato che non sarebbe stata all'altezza, ho messo in discussione
quella decisione folle e ne ho temuto le conseguenze. Ho
avuto…
paura.
Più per i Jarjayes che per Oscar, penso malignamente
conoscendo le sue convinzioni, però evito di sottolinearlo.
- Allo stesso tempo non potevo sopportare che non fosse un fallimento,
perché era il figlio perfetto che avevo sempre desiderato,
ma
non era un maschio. Ma non potevo nemmeno tornare sui miei passi, non
riuscivo a fermare ciò che avevo cominciato. Inconsciamente,
desideravo che fosse lei a ribellarsi. Solo lei poteva porre fine alla
follia cui avevo dato inizio… Ed infine lo ha
fatto: ha
scelto il cuore. … Infine… - ripete, sentendo il
peso
tombale di quella parola: fine. Distoglie lo sguardo dal ritratto e
rabbocca il proprio bicchiere, sversandone buona parte.
- E la capisco. Davvero. Voi potete non credermi, ma se solo
André fosse stato nobile, avrei benedetto la loro
unione…
- si sbilancia - In ogni caso, non li avrei ostacolati. -
aggiunge aggiustando la mira del precedente pensiero troppo audace - Ma
era anche destinata a grandi cose. Un vero peccato...
- No, generale, il peccato sono quelli come noi. Vanitosi, ambiziosi,
persi nel nostro mondo, sempre in cerca di qualcosa di grande. Noi che
guardiamo lontano, e calpestiamo chi ci sta accanto. È
così, generale: i peccatori restano. Lei, io… i
peggiori,
mentre i migliori vanno.
- Lassonne, di quale colpa vi caricate ora? - domanda guardandomi con
ansia.
“Se solo… se invece…”, penso
lasciando cadere la sua domanda nel vuoto.
Porto la mano alla fronte per l'insopportabile dolore e vacillo un
istante.
La stanchezza si fa sentire.
- Mancano poche ore all'alba, dovreste riposare. - osserva il
generale - Abbiamo tante stanze, occupate quella che
più
vi aggrada, dottore.
Annuisco, conosco i miei limiti e la giornata in arrivo non
sarà leggera, né tanto meno piacevole.
- Se posso, riposerei un poco nella stanza delle rose, era
quella di Alexandra quando visse a palazzo Jarjayes.
- Era sua, è vostra.
- Anche voi dovreste riposare, signore.
- Ora devo solo bere, Lassonne. - mormora riportando il bicchiere alle
labbra e lo sguardo al dipinto. - Bere e pregare pietà.
Lo lascio ai suoi rimorsi, alle sue confessioni, al peso del domani che
arriverà, e mi trascino al primo piano, alle camere.
Varco la soglia della stanza che ho scelto: le rose, a centinaia, sono
ancora lì, stupendamente dipinte sulla tappezzeria da mani
abili
e pazienti. Le aveva scelte Alexandra, una consolazione per non poter
vedere quelle vere del giardino durante gli interminabili mesi
trascorsi immobile in quel letto, pregando la grazia di poter un giorno
camminare ancora. Ed il generale mai volle levarle in seguito, anche
dopo la di lei sommaria guarigione. Troppo belle.
Mi lascio cadere sul letto; gli arti pesanti come mai mi è
capitato.
Spesso mi è accaduto di raccogliere gli ultimi rimpianti dei
morenti, cose semplici, come il non aver passeggiato ormai vecchio in
riva al mare con la moglie stupidamente abbandonata anni prima o non
aver carezzato di più la tua bambina da piccola, a volte ora
troppo pragmatica e fredda e sola. Mi domando quale sarà il
mio
rimpianto dell'ultimo momento.
Il suo invece lo conosco, ha un nome: Oscar. Ed una parte di lui
è morta con lei.
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Capitolo 15 *** capitolo 15 ***
15 inevitabile follia
15
inevitabile follia
Ogni
volta che chiudo gli occhi, la vita, i ricordi, gioie e dolori,
riprendono anima, luce, ombre.
Si
muovono autonomamente, pongono domande, replicano risposte.
E dicono la verità.
Deauville,
Bassa Normandia, estate 1780
Uno
spicchio di luce, dal mezzo dei tendaggi non perfettamente serrati,
attira la mia attenzione. Da fuori giunge lo stridio dei gabbiani che
affamati si tuffano tra le onde; le onde del mare che si ingrossano
fino a non poterne più e quindi ricadono su sé
stesse, fragorosamente, in sincrono col mio respiro. Dentro questa
stanza, nell'ombra e nella frescura dell'alba, mi giro e rigiro nel
letto: è sempre così quando dormo in un giaciglio
estraneo, per quanto comodo ed invogliante esso sia.
-
Ahi…
Si
lamenta Alexandra di fianco a me quando per sbaglio la urto.
-
Scusa…
Allunga
una mano al mio capo scompigliandomi i capelli, gli occhi ancora
chiusi, troppo assonnata per arrendersi e tornare nel mondo con un
semplice sbattere di palpebre.
-
Mai che tu riesca a goderti una sana vacanza, vero? - mormora
sorridendo.
-
Sono un tipo di città, lo sai.
-
Il mio uomo di mondo… - ridacchia affettuosamente dei miei
limiti.
Sbadiglia,
sospira, si stiracchia a pugni serrati come una bimba, quindi
riposiziona con l'aiuto di entrambe le mani la gamba disobbediente,
pesante, legnosa.
Poso
la mano sulla sua coscia velata dalla leggera veste e la massaggio
piano.
-
Io ti avrei curata meglio. - mi rammarico, conscio che con i se non si
cambiano i fatti.
-
Tu mi stai già curando meglio. Ogni volta che mi sorridi,
che mi carezzi, un tuo sguardo, un pensiero. Ci sono cose che non
possono essere guarite, ma tutto può essere curato. E non
servono medicine né miracoli. Solo il cuore. A volte basta
ascoltare, a volte basta il silenzio opportuno. Tu mi stai
già curando, Francois, ed io curo te da quando sono entrata
nella tua vita. Sì, - ribadisce coprendo uno sbadiglio con
la mano, - mi curi ogni giorno, col tuo affetto, le tue
premure e … l'attenzione al mio riposo.
Sorrido
per la frecciatina.
-
Bene, comprendo quando la mia presenza non è gradita! -
esclamo fingendomi offeso - Credo che andrò a fare quattro
passi sulla spiaggia, così potrai continuare a dormire in
pace
Mi
volto a baciarla su una guancia.
-
Ti adoro… - scherza lei in un borbottio a malapena
comprensibile, sprofondando il volto nel cuscino.
Ti
adoro anch'io, penso, ma non lo dico perché il suo respiro
è tornato pesante, già rapita dai suoi sogni.
Come
ogni estate siamo ospiti di madame Marguerite nella villa che i
Jarjayes hanno sul mare, qui a Deauville.
Da inizio giugno fino a settembre questa magnifica magione prende vita.
I parenti, gli amici, si alternano e fanno compagnia a madame.
Ora c'è la figlia maggiore con il marito e,
inaspettatamente, anche la minore. Con lei anche la fanciulla che
accolse in casa anni fa, presa dalla strada.
Sono
trascorsi cinque anni da allora, cinque anni da quando quando conobbi
la mia Rose, da quando i Jarjayes si separarono di fatto, in modo
informale e discreto, pur restando una coppia in società.
Cinque
anni per me e Rosalie in questa famiglia, anni che hanno fatto di me un
uomo felicemente sposato quando quasi non ci contavo più e
che hanno resa lei raffinata ed all'altezza di quanto Oscar si aspetta.
Ormai
posso affermare che Rosalie è pienamente accolta in
famiglia, non semplicemente ospitata, poiché di certo Oscar
non tratta la sua protetta come una domestica e tutti si guardano bene
dal contraddire i voleri di madamigella, l'erede dei Jarjayes.
Voleri che, mormorano alcuni invidiosi, sono capricci; voleri che, per
i malpensanti, sono perversioni.
Di
certo, l'unico volere che realmente conti è quello del
generale ed ho l'impressione che per quell'uomo le maldicenze di
Versailles siano tutte niente altro che sciocchezze, indegne di
considerazione, come d'altronde è giusto che siano.
Madamigella
Oscar, André e Rosalie: strana simbiosi queste tre persone
aggregate dal caso.
Sembrano
quasi una famiglia, dove Rosalie a volte sembra figlia, o sorella, o
amica.
A
volte altro per entrambi.
Inevitabili
i pettegolezzi a Versailles.
Su Oscar; su Oscar ed il suo attendente; su Oscar e la sua protetta; su
l'attendente e la protetta; su Oscar, l'attendente e la protetta.
La fantasia non manca alla Reggia, sebbene la realtà spesso
la superi. Ma non in questo caso. E mi viene un poco malinconicamente
da pensare un assurdo "purtroppo". Perché queste tre persone
conducono una vita talmente in gabbia, totalmente aliena non solo a
scandali, vizi, semplici debolezze o qualunque azione che potrebbe
rendere veritieri i pettegolezzi, ma anche a ciò che rende
l'esistenza qualcosa di più di un giorno a seguito di un
altro giorno: affetto, ambizione, passioni, desideri in cerca di
libertà. Vivono insieme e divisi in una vita sospesa che
nonostante tutto scorre.
Sono
sorprendenti i cambiamenti che questa giovane donna, Rosalie,
ha fatto sotto la guida di madamigella, sempre supportata da
André.
È diventata più raffinata, elegante nell'aspetto
e nei modi, più sicura di sé e più
serena. Non il genere di serenità di una persona che non ha
mai avuto problemi nella vita, ma di chi ha incontrato i
propri demoni da vicino, li ha affrontati e pur non potendo
sconfiggerli, è andata oltre.
Dove
stia però andando, questo non si sa. Il ragionevole passo
successivo, sarebbe quello di accasarla con un buon matrimonio, ma non
sembra imminente.
Dopo
essermi lavato, sbarbato e vestito, aiutato dal mio domestico, mi
incammino fuori, saluto il maggiordomo e lo informo che farò
una passeggiata sul litorale.
C'è
un gradevole vento fresco sotto il sole altrettanto gradevole, ma che
promette già di diventare molto più caldo. La
sabbia fine è ancora compatta per l'umidità della
notte e gli stivali affondano appena.
Mi
trovo a seguire incuriosito altre impronte di piedi scalzi.
Noto
in lontananza gli scogli sui quali si infrangono le onde alte e spumose
dell'oceano, che levano nell'aria un profumo di salsedine e
portano leggerezza nel respiro. Scorgo una figura camminare accorta tra
le pietre immerse, i polpacci nudi, la camicia rimboccata, il gilet
aperto. Riconosco André in quella figura, chino a guardare
nell'acqua bassa il fondale e ogni tanto lo vedo tormentarlo con una
asticella che affonda nelle pozze quiete tra roccia e roccia.
Incuriosito ancora di più, mi avvio nella sua direzione.
-
Buongiorno André! - grido tenendomi abbastanza lontano da
evitare le onde.
-
Buongiorno a voi, dottore! - esclama alzando il capo nella mia
direzione, i lunghi capelli imprigionati dal fiocco blu paiono ansiosi
di libertà, così scossi dal vento e qualche
ciocca è già sfuggita al legaccio, agitandosi
ribelle ed indipendente - Ancora problemi di sonno?
-
La tranquillità mi uccide, - replico ridendo- ma il letto
è perfetto ed il materasso pure. Ho solo i soliti problemi
di ambientazione.
-
Qualunque cosa, non dovete fare altro che chiedere. Alla famiglia
Jarjayes preme il benessere dei propri ospiti.
-
Grazie, siete sempre molto gentile André.
-
È un piacere, signore. - replica con un sorriso genuino
prima di tornare a chinarsi sulle rocce.
-
Posso domandare che state facendo?
André
sorride nuovamente, senza alzare lo sguardo; probabilmente immaginava
gli avrei posto questa mia domanda.
-
Sto cacciando granchi. La costa della Normandia è famosa per
i crostacei.
In
effetti mi viene l'acquolina in bocca al solo pensiero delle
scorpacciate cui indulgo e, stando al parere di Alexandra, esagero ogni
volta che veniamo qui.
-
È difficile?
-
No, Signore, sono animaletti piuttosto curiosi: si fanno acchiappare
con semplici inganni.
E
così dicendo alza l'asticella e mi mostra una testa di pesce
rosicchiata con un piccolo granchio intento a far colazione. Fa cadere
il granchietto in una cesta posata sugli scogli, dove già
sta una buona compagnia di suoi simili e torna ad immergere l'asticella
fra i sassi.
-
Volete provare anche voi dottore? - domanda dopo qualche istante
durante i quali non gli ho levato occhi di dosso. - Occorre solo fare
attenzione a non farsi pizzicare. - spiega con un sorriso.
-
Perché no! - esclamo alzando le spalle - In fin
dei conti adoro i crostacei e così potrò vantarmi
di essere un uomo in grado di procurarsi la cena!
Ridiamo
entrambi e mi denudo piedi e polpacci, esibendomi in una poco atletica
azione da equilibrista.
Raggiungo
il giovane con andatura allegra, ma appena poso il piede nell'acqua
trattengo il respiro per la sorpresa.
-
Accidenti se è fredda!
-
Acqua fredda, crostacei saporiti. Almeno così ripete mia
nonna
-
E se madame Marron lo afferma, chi siamo noi per smentire?
André
approva con una eloquente espressione la mia conclusione.
-
Guardi, non ci vuole molto, - inizia a spiegare - smuova qui,
quando ne vede uno gli metta questa esca vicino, appena si arrampica
é fatta.
Obbedisco
e concentrato mi metto all'opera. Tra un piede mal messo, un'onda
più alta delle altre e qualche pizzicata alle dita dei
piedi, faccio pratica; l'esperienza cresce, la soddisfazione pure; la
mente si sgombra, tutta presa dalla caccia e quasi non mi rendo conto
di essere ormai più zuppo che asciutto, grazie anche al sole
che si è alzato e compensa col suo calore il freddo
dell'acqua.
Metto
male un piede, rischio di cadere in acqua, ridiamo entrambi.
Poi la risacca ci cattura, scava sotto i nostri piedi e noi, come
pessimi saltimbanchi, barcolliamo e saltelliamo tentando di
mantenere l'equilibrio. Invano.
Trascorrono
le ore, tra lunghi momenti di silenzio, esclamazioni di soddisfazione e
meraviglia per le prede e risate per la mia inesperienza; e
solo quando André mi chiama affermando che il bottino
può dirsi soddisfacente mi rendo conto di quanto
tempo sia passato.
-
Alla villa sarà già servita colazione - mi fa
notare André.
-
Allora è meglio che mi muova prima che mandino qualcuno a
cercarmi. Però, una bella cesta, vero?
-
Una caccia proficua, dottore.- conferma André ricacciando
sotto il coperchio di paglia alcuni vispi granchi che tentavano la
fuga. - Madame Picard preparerà una bella insalata per cena.
Madame
Picard, la giovane governante della villa, succeduta alla madre nella
gestione della proprietà.
-
Ho saputo che è recentemente diventata vedova.
-
Sì, purtroppo la nave sulla quale era imbarcato il marito
è incappata in una brutta tempesta. Non ci sono stati
superstiti.
-
Erano diretti in America?
-
Sì, come molti nostri soldati.
-
Dura la vita degli uomini in marina e per i soldati in generale,
specialmente in questi tempi.
-
E dura per le loro mogli.
-
Voi non desiderate prendere moglie? - domando sfacciatamente.
Sorride.
-
Non sarà che mia nonna vi ha chiesto di intercedere su
questo argomento? Ultimamente sembra un cruccio per lei.
-
In effetti è una lamentela che si è aggiunta alle
sue abituali, ma lo domando solo per mia curiosità. Avete
l'età giusta, siete in salute e non credo vi manchino
candidate.
Si
mormorava appunto di un certo interesse di madame Picard, aveva
spettegolato Alexandra proprio la sera prima, chiacchierando del
più e del meno nel nostro letto, in attesa che Morfeo
giungesse a separarci. Interesse alquanto prematuro visto che il
periodo di lutto non era neppure terminato.
-
Semplicemente non sono in grado di offrire ciò che ogni
moglie merita. Non voglio sposare qualcuna sapendo che sarà
solo un ripiego.
L'assoluta
franchezza mi disarma e non oso chiedere altro.
Quando
entro nel salone della colazione, tutti alzano immediatamente lo
sguardo su di me, tranne Alexandra perché mi trovo dal lato
che il suo occhio non vede
-
Buon dio, Francois ...- esclama Marie Anne, ma come vi siete ridotto?
-
Semplicemente un passo falso.
-
Ti sei fatto male?! - si volge Alexandra.
-
No, assolutamente. Magari un poco la mascella indolenzita per la grassa
risata causata dalla mia imperizia. - Rido rivivendo mentalmente la
scena mentre le loro espressioni restano perplesse - Stanno
già preparando il necessario affinchè possa
lavarmi e cambiarmi. - spiego- Mi allontano, non voglio
gocciolare acqua salata sui tappeti.
Ma
in quel mentre, arriva il maggiordomo annunciando una lettera del
generale e, ossequioso, la porge a madame.
Marguerite
la legge intristendosi già alle prime righe.
-
Problemi di guerra. - Riassume per soddisfare la palese
curiosità. - Scrive che è stato trattenuto, non
potrà raggiungerci.
-
Ma… per tutta l'estate? - domanda la primogenita.
-
A quanto pare, sì….
Scattano
una serie di sguardi, tra Marie Anne ed il marito, tra Alex e me.
Sguardi misti di dubbio, preoccupazione, dispiacere, nervosismo.
Marguerite,
a causa dei suoi problemi di salute, aveva dispensato il consorte da
alcuni doveri coniugali e finora il generale, che non dubito abbia
fruito di questa libertà, ha comunque sempre mostrato
rispetto ed affetto per la moglie.
Ma
il generale non è un santo, non è pietra. Ed
è un soldato, spesso lontano. Finché occhio non
vede, cuore non duole, ma si è cominciato a chiacchierare
insistentemente di una donna speciale, non di passaggio, e questo fa
male ad una moglie ancora innamorata e che si sente inadeguata, quasi
colpevole.
Quando
non si è più pienamente una coppia, quanto
può reggere un matrimonio che di facciata non era?
-
Questa dannata guerra… Sinceramente, non capisco
perché intervenire direttamente in favore delle colonie. -
Borbotta il marito di Marie Anne, credendo o forse fingendo di credere
alla motivazione del generale. - La faccenda poteva essere gestita in
maniera più cauta, diplomaticamente da un lato e con arguzia
dall'altro. Per non dire poi quanto costi alle casse dello stato!...
-
Passeggiata?! - esclama improvvisamente Marie Anne col chiaro intento
di smorzare la vena polemica del consorte, alzandosi e prendendo la
mano della madre.
E
mentre tutti tacciono imbarazzati e preoccupati per la mite Marguerite,
noto invece Oscar volgere lo sguardo verso il mare.
Triste, distratta, a malapena ha alzato lo sguardo su di me al mio
ingresso e non ha mostrato sorpresa per il contenuto della lettera.
È seduta in disparte, su una comoda poltrona del salottino.
Ha un libro aperto in grembo, sulle lunghe gambe elegantemente
accavallate, ma non legge.
Siede sulla poltrona davanti alla grande finestra spalancata verso il
mare ed il suo sguardo si perde all'orizzonte, lontano.
Silenziosa, non partecipa alle discussioni, neppure finge un minimo
interesse. Solo a cena, ieri sera, quando il cognato nominò
casualmente alcuni aristocratici partiti per la guerra in America, l'ho
vista interessata, coinvolta, quasi preoccupata.
Nei
pochi giorni dal nostro arrivo, ho potuto notare una costante tra i
miei ospiti, ovvero l'assoluta tristezza di madamigella Oscar
contrapposta all'entusiasmo vacanziero di tutti gli altri. Se ne sta da
sola ed anche quando ci raggiunge, mantiene un mutismo al limite della
scortesia.
André
cerca di scuoterla, spronarla, coinvolgerla; Rosalie la copre di
attenzioni.
Ma nonostante ciò, ella pare non avvedersi dei loro sforzi,
non una minima parte della cura verso di lei viene ricambiata.
Pare vivere nel suo mondo e nulla può cambiare.
Con gli anni ho visto Oscar in molte situazioni: mi sono abituato a
conoscere la giovane spavalda ed incosciente, l'ufficiale severa,
determinata; l'ho vista superba, arrogante, a volte corrucciata, ma mai
così apatica.
Diversi
indizi collegano questo malessere alla guerra in America.
Forse madamigella Oscar, come ogni ufficiale in carriera, pensa le sia
stata sottratta un'opportunità non potendo parteciparvi.
Se anche presentasse domanda, Sua Maestà gliela negherebbe.
Ora che ci penso, ho scorto un umore simile proprio nella regina,
sebbene dubito per uguali motivi.
Marguerite
ed i suoi ospiti lasciano la stanza per la prima passeggiata della
giornata.
-
Io andrò in terrazza. - Dichiara Alexandra che trova
abbastanza difficoltoso camminare sulla sabbia. - Mi raggiungi?
-
Certamente, appena cambiato.
La
osservo uscire ed il mio sguardo torna su Oscar, tuttora persa a
scrutare l'orizzonte.
-
Ho saputo del recente lutto della vostra governante…
Mi
guarda come se neppure sapesse che mi trovavo lì.
-
Sì, il capitano Picard è dato come disperso
insieme alla sua nave al largo delle Antille. Non ci sono
possibilità che possa essersi salvato. È stato lo
scorso gennaio, ma la notizia è giunta solo ad aprile.
-
Nello stesso periodo sono partiti altri convogli, vero?…
-
Sì. - Esita - Da Brest. - Ed è come se la voce le
muoia in gola.
-
Molti volontari, se non erro.
-
Sì.
-
Oscar, il vostro compito non è di minore
importanza…
Esordisco
immaginando di aver colto ciò che l'angustia.
Alza
gli occhi su di me sorpresa, un poco infastidita.
-
Ne sono consapevole, dottore. - Replica inarcando minacciosamente un
sopracciglio.
-
Perdonate, non intendevo… E’ che… vi
sentite bene? Avete un atteggiamento alquanto insolito e…
Si
alza di scatto, nervosa.
-
Nulla di cui curarsi, dottore. Dovreste andare a cambiarvi, vostra
moglie vi attende.
Incasso
la sfuriata composta e la guardo uscire scansando André
appena giunto, già resosi presentabile, solo qualche qualche
ciocca dei lunghi capelli umida a testimoniare la nostra piccola
avventura.
Ci
scambiamo uno sguardo stanco, incapaci di confortare chi non vuol
essere confortato.
Quindi
ci allontaniamo in direzioni opposte.
Uomini.
Uomini che abbandonano e fingi non ti interessi.
Qualcuno
è assente, oggi più di ieri; qualcuno che
rispetti, che ami.
E
qualcun altro, chi non so, ma pare ti importi molto di costui,
è oltremare e potrebbe non tornare, mai più.
E
chi è presente, invece, pare non interessarti.
Nulla
di cui curarsi vicino a te.
Affetti
che giudichi non importanti.
Insoddisfazione
del cuore in una vita cui non dovrebbe mancare nulla.
Nulla
importa.
Perché
una cosa manca.
Autunno
1788, caserma guardia francese, Parigi
Nulla
importa.
Sono
soltanto uomini.
Uomini
che non tornano a casa. Molti non hanno nemmeno una casa, né
una vita.
Non
possono permettersi né una, né l'altra.
Sono
soldati, ma non per scelta.
Si
sono arruolati per non morire di fame.
Pure
lui. Perché sei ciò che lo sostenta.
La
linfa che lo nutre.
Sei
aria che respira.
***
Grazie a chi riesce ancora a seguire questa mia "lenta e triste
agonia". Più lenta di quanto vorrei. :D
|
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Capitolo 16 *** capitolo 16 ***
16 inevitabile follia
16
inevitabile follia
1788,
autunno, caserma della guardia francese, Parigi
Non
sono riuscito a dirle no.
Quel
semplice monosillabo così difficile da pronunciare, che
può causare rimpianti, a volte rimorsi, ma sovente anche
risparmiarci dolori, amarezze e infinite complicazioni.
E
non ci sono riuscito non perché siamo stati parenti, non
perché è una persona importante, non per timore.
Quando
ho ricevuto il suo invito ad incontrarci in caserma per dei consigli
professionali da parte mia, il primo impulso è stato di
rispondere negativamente, perfino malamente a quelle poche essenziali
parole con le quali mi convocava. È abituata ella ad essere
obbedita senza esitazione, proprio come suo padre; bada poco alla
perentorietà delle sue richieste, pur laddove la giusta
creanza richiederebbe toni più morbidi, concilianti e
persuasivi.
E
non capisco neppure perché insista a rivolgersi a me,
così refrattario agli ordini, ormai antipatico e quasi
autolesionista nelle mie scelte politicamente scorrette; me, che vorrei
soltanto serrare le imposte e celarmi a tutti.
Ci
sono ben altri medici a Versailles, giovani anche ben disposti, che
ambirebbero fare carriera sebbene, a ben pensare, credo anche non siano
poi molti i disponibili a fare ciò che lei chiede,
a … sporcarsi le mani col volgo.
La
sua lettera, concisa ma chiara, mi ha sorpreso con tutto ciò
che lasciava trasparire: la sua voglia di impegnarsi, di lottare per il
suo incarico, di fare magari non la storia, ma la differenza per questo
corpo notoriamente indisciplinato.
Ammetto,
mi ha scosso dalla mia apatia.
Per
questo ho accettato il suo invito e sono qui col mio assistente per
valutare il fattibile.
Poche
parole scritte, l'accenno di un'idea, che voglio udire spiegatami da
lei.
Siamo
accumunati dalla solitudine, io e madamigella Oscar.
Nessuno
di noi due frequenta più la reggia, nessuno di noi due ha
qualcuno con cui condividere la vita.
Sebbene
per lei ciò sia il risultato non non del destino avverso, ma
di una scelta, per quanto difficile e quasi obbligata. E sostengo quasi
perché nulla le impedirebbe una vita sentimentale,
più o meno pubblica, ma qualcosa la trattiene ed io credo di
sapere chi sia questo qualcosa.
Ora
ho come l'impressione che si senta davvero sola.
Quel
tipo di solitudine che senti nelle ossa, quella sensazione di deserto
attorno, dell'inutilità di qualunque gesto, pensiero,
emozione.
Quel
timore di trovarsi in mezzo ad una strada senza fine, ma che a nulla
porta.
In
fin dei conti, neppure lei sta passando dei buoni momenti. Mi
è giunta voce di quella che può essere
considerata una caduta nella sua carriera e che il generale ha
infierito consigliandola a maritarsi; questo, naturalmente, nel modo in
cui lui intende i consigli, ovvero appena un grado al di sotto degli
ordini.
Anche
io, in quanto vedovo, ho ricevuto l'invito a quell'assurdo ricevimento
organizzato dal generale Bouillé; invito che ho ovviamente
declinato, forzandomi ad essere cortese con l'organizzatore.
Un
affronto per lei, questo metterla in piazza come un animale alla sagra
del bestiame.
"Guardate,
signori, non troverete mucca più bella! Mantello perfetto,
occhi lucenti, muscolatura forte, priva di grasso, ancora in grado di
darvi dei bei vitelli! Lavora duramente senza lamentarsi e viene via a
poco, ultima della figliata! "
Un
segno inconscio di disprezzo questo tentare di manipolare ulteriormente
la sua vita privata. E neppure se ne rendono conto. Il generale si
autoconvince di voler rimediare alla sua follia di tanti anni fa.
Altri, sperano di cancellare l'anomalia, il precedente pericoloso di
una donna incapace di stare al posto destinatole, sia questo una
cucina, un salotto o un velo.
-
Dottor Lassonne, buongiorno e benvenuto.
Mi
riceve nel suo ufficio mentre il suo nuovo vice si eclissa alle mie
spalle
-
Inanzitutto, la ringrazio per aver accolto la mia richiesta, immagino
un poco inaspettata, insolita… curiosa.
Si
alza dalla scrivania mentre parla, ricollocando la piuma, i carteggi. I
suoi occhi celesti, limpidi, scivolano su di me con elegante
superiorità, con aristocratica indifferenza, con anche
quella compostezza, quell'auto controllo che negli anni le ha fatto
riconoscere, perfino dai più scettici, il polso del comando,
solitamente considerato attributo mascolino, e da quelli più
onesti, il merito.
-
Se mi concede un istante l' accompagnerò personalmente e le
illustrerò quale sarebbe il mio intento. Come ben
immaginerà qui non siamo certo alla reggia, non siamo a
Versailles. E questa non è la Guardia Reale. - esordisce col
tono di colei che non può che rilevare l'ovvio, senza colpe,
senza drammi, affiancandomi ed indicando la porta.
-
Dopo di voi, colonnello. - replicò cedendole galantemente e
rispettosamente, il passo.
In
gruppo, preceduti dal colonnello D'Agout che ci aveva attesi in
corridoio, insieme al mio assistente, camminiamo verso le camerate e
più ci avviciniamo, più l'edificio peggiora
architettonicamente; quello che poteva essere descritto come un
complesso di edifici militari, dalle linee pulite, decori lineari ed
austeri ma piacevoli, peggiora in uno squallore al limite della
fatiscenza.
-
Ammetto che non è facile trattare con questi soldati. -
spiega Oscar, mentre entrambi lasciamo che il colonnello D'Agout ci
preceda e che un soldato ci apra ogni porta evitandoci
così il disgusto di dovervi personalmente
provvedere - Appartengono tutti agli strati meno abbienti di Parigi, ma
sarei generosa in questo caso; sarò franca, invece,
indelicata ed oserò affermare che, quando non sono
delinquenti, sono straccioni, pezzenti sotto ogni aspetto: sono
ignoranti, rozzi, volgari; non hanno la minima idea di cosa
significhino decoro, dedizione, decenza.
Scandisce
ogni parola seccamente, ad ogni passo accompagnato dall'eco degli
stivali sul marmo, rigida nella postura, fissa nello sguardo; scandisce
ogni termine come fosse una frustata, un colpo impietoso sul corpo
della Guardia Francese, a conferma che la pessima reputazione del
reparto non è una esagerazione.
-
Ciò nonostante… - si ferma all'improvviso; le
mani, allacciate dietro la schiena, si sciolgono, liberando la destra
che allunga davanti a sé, alla cintura, per sistemare
ciò che non ha bisogno d'esser sistemato, in un gesto
inconscio, persa nella mente, come a voler ricomporre qualcosa di
potenzialmente bello, ma diviso, scomposto, confuso; come quei giochi
d'infanzia che, solo disposti con pazienza ed attenzione nel giusto
modo, rivelano nell'unione, il dipinto celato .
-
Ciò nonostante, - prosegue con tono più sereno -
questi soldati, svolgono il loro dovere in una città che,
giorno dopo giorno, peggiora. Lo fanno per una paga miserabile, ma che
per molti è l'unica possibilità di impiego. Fino
ad ora hanno avuto comandanti che hanno svolto il loro lavoro al minimo
indispensabile, pronti a voltare le spalle a questo corpo d'armata alla
prima occasione. Io non sono questo genere di comandante. - dichiara
con fermezza dopo un istante di silenzio - Gli uomini a me affidati,
nel bene e nel male, sono sotto la mia responsabilità. E la
mia responsabilità di buon comandante è di averne
cura. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che loro non mostrano la
minima intenzione di contraccambiare ed aver altrettanta cura del loro
comandante, ma a me non importa. So che otterrò il loro
rispetto, sono sicura di ciò.
Ci
fermiamo dinnanzi ad una ultima porta.
-
Un avviso ora, brutale e sincero - afferma guardandomi fisso negli
occhi, come a volermi preparare a ciò che ci attende oltre
quell'uscio - Le camerate sono oltre l'indecenza, da anni si
trovano in stato di abbandono, non vengono effettuate manutenzioni se
non lo stretto indispensabile, il rancio è di poco migliore
di quello riservato ai porci e la paga… bè, che
è miserabile l'ho già detto.
Annuisco,
posso immaginare. L'intera Francia, a guardare oltre il luccichio,
è in stato d'abbandono e più non basta l'animo
buono di un sovrano volonteroso o quello fondamentalmente gentile della
sua consorte. La corda è lisa.
Penso
di essere preparato, eppure, ciò che mi accoglie una volta
varcata la soglia, mi appare chiaramente come qualcosa che va al di
là di ciò che potrebbe essere incuria:
é disprezzo.
-
Va bene, colonnello. Avete la mia attenzione.
Passiamo
tra due file di brande fatiscenti, camminiamo a malapena affiancati
poiché lo spazio non è molto. Alcuni soldati sono
nelle loro cuccette, a riposare tra coperte talmente lise da sembrare
veli, su pagliericci rammendati più e più volte;
altri evidentemente non sono in forze e mostrano un aspetto tutt'altro
che sano, scossi da tosse e temo febbricitanti.
Il
grosso della guarnigione è fuori a svolgere le mansioni
quotidiane, cercando di mostrarsi al meglio possibile. Perfetta
rappresentazione di questa nazione: fuori gli stucchi dorati, dentro
tarli e marciume.
-
Più di una volta, in passato, mi avevate espresso i vostri
sogni riguardo la prevenzione. Ebbene dottore, le offro occasione per
cominciare a sperare in questo sogno che sua maestà, il re,
aveva avallato... Un sogno bruscamente infranto per… - la
voce trema, condividendo il mio dolore al ricordo di Alexandra - Vorrei
che il vostro sogno ripartisse da qui, in piccolo. Penso che potrebbe
essere d’aiuto, a me, ai miei soldati ed anche a voi.
Vorrei
rifiutare, perché è facile la resa, ritirarmi e
compiangermi. Ma alla fine accondiscendo. Non perché lei
è il colonnello Oscar Francois des Jarjayes, ma
perché quando la guardo negli occhi, vedo quel sottofondo di
solitudine e tristezza che ben comprendo. Entrambi abbiamo bisogno di
una mano tesa.
-
Il mio assistente vi renderà noto tutto ciò che
è necessario e come dovrà svolgersi la visita.
Possiamo accordarci per un giorno della prossima settimana. Alla fine
potrebbe essere una esperienza utile anche ai miei studenti.
Lo
sguardo di lei si distende non appena capisce che la aiuterò
nel suo intento e spero davvero che ciò aiuti anche noi due.
Il
giorno convenuto per le visite, porta nell'aria il ricordo dell'estate,
il sole caldo ha mitigato la frescura notturna e ciò rende
più piacevole la nostra operazione. È stato
approntato quanto richiesto nel porticato sud, ove i soldati possono
attendere il loro turno in coda, senza patire né sotto il
sole né sotto una eventuale, improvvisa pioggia. I miei
studenti ed il mio assistente sono pronti, mentre il colonnello D'Agout
ha fatto sì che i soldati si incolonnassero ordinatamente, a
torso nudo, davanti al tavolo per lo smistamento.
Alcuni
hanno lo sguardo preoccupato, altri rassegnato, altri ancora
trattengono a stento sorrisini nervosi.
-
Il vostro nome, soldato? - chiede il mio assistente seduto ad uno
scrittoio, mentre io alle sue spalle osservo ed attendo. Gli studenti
accompagnano un soldato alla volta nella stanza per le visite, dove li
raggiungo per supervisionare.
-
Luc Paillard, signori.
-
Disturbi, malattie precedenti…
E
mentre le domande di rito si succedono, passeggio su e giù,
pochi passi, un orecchio teso alle risposte dei soldati, un occhio a
madamigella Oscar che ci ha raggiunti e sta ascoltando il rapporto del
suo vice.
La
fila scala di uno ed il soldato che arriva di fronte al panchetto puzza
terribilmente. Sia io che il mio segretario non possiamo evitare di
portare fazzoletto e mano alla bocca.
-
Da quanto non vi lavate?
-
Lavarmi? - balbetta, lo sguardo perso come se parlassimo una lingua a
lui sconosciuta. E già la replica non promette bene.
-
Sì, lavarsi… tu, acqua, sapone...
-
Vediamo…. mio padre era ancora in questo mondo e mia sorella
non era maritata…. Mio nipote...
-
Almeno un bagno all'anno come prescrive la legge lo hai fatto o no? -
scatta il mio assistente assai meno paziente di me.
-
La… ehm… la legge…?
Sospiro
rassegnato: dovremo partire da educazione di base, come temevo.
-
Prenda nota: lavaggio energico prima di esame visivo. - sottolineo al
mio segretario.
-
Energico? Visivo? - ripete il soldato col panico sul volto.
-
Avanti un altro!
E
mentre la fila scala ancora, sento rumoreggiare.
-
Devono solo provarci! - tuona qualcuno.
-
E di che ti lamenti? Non è normale per te?
-
Bada bene…. Non scambiarmi per LaSalle!
-
E che c'entro io?! - esclama il chiamato in causa - Ma
davvero…?
-
Ma no, hanno talmente paura per la loro virilità inesistente
da cominciare a minaccciare a destra e a manca, come loro solito.
-
Avanti un altro! - intima D'Agout in persona per arginare il panico.
-
Il tuo nome, soldato!
-
LaSalle Gerard, signore.
-
Denti sani, orecchie pulite… - comunica uno degli studenti
incaricato della visita preliminare.
-
Eh, già! Gerardine fa il bagno come la regina… -
strilla qualcuno dal fondo della fila.
-
Uhhh… - si leva un coro in una imitazione poco credibile di
fanciullette svenevoli, tra risate sguaiate.
il
soldato arrossisce.
-
Mia madre mi ha insegnato così… - balbetta come a
volersi scusare.
-
Tua madre ti ha insegnato bene, ragazzo - gli assicuro con tono paterno.
-
Avanti un altro! - tuona D'Agout.
Quest'altro
fatico a guardarlo in volto da quanto è alto.
-
E tu soldato…?
-
Soisson Alain, signore…
-
Hai qualche disturbo da segnalare?
-
A parte lo squassanento di interiora dovuto al rancio? O all'invasione
di pidocchi?
-
Mhm… - mugugno. - Colonnello D'Agout? - l'ufficiale scatta
al mio fianco. - Potrebbe accompagnare il mio studente alle cucine? Ci
serve la lista degli acquisti e fare un inventario. E parlare col cuoco
e chi lo aiuta. Controllate insieme lo stato di conservazione degli
alimenti, per cortesia.
Torno
a guardare il gigante. Sul suo volto la sorpresa di colui che non si
aspetta più di essere ascoltato.
-
L'ultima volta che avete mangiato carne?
Sorride
beffardo, come se avessi detto qualcosa di molto buffo.
Intuisco.
-
Scrivete: verificare il consumo di carne nella dieta. Sei sposato,
soldato? - chiedo.
-
Nossignore, non mi faccio incastrare io! - esclama quasi indignato con
voce tonante, ricevendo mormorii d'approvazione alle sue spalle.
-
Bene, allora giù le branche, soldato. - lo invita quindi il
mio assistente con poco entusiasmo.
I
mormorii di prima diventano un pesante preoccupato brusio fino a
scemare in un glaciale silenzio.
L'espressione
beffarda si trasforma in sorpresa imbarazzata, ma solo per un istante.
-
Oh, bè...Siamo avvezzi ormai a calarci le brache per Sua
Maestà, non è forse vero ragazzi!
E
lo vedo ostentare lo sguardo spavaldo verso Oscar, silenziosa ed in
disparte, quasi invisibile nell'ombra del porticato, prima di
mettere mano alla cinta e slacciare i calzoni che, senza bisogno di
altro, scivolano sui fianchi fino a denudare le parti intime e,
già ad un primo sguardo, sane.
-
Tutto a posto, dottore. - sentenzia il mio studente invitando il
soldato a rivestirsi, non prima che costui si volti sfrontato al resto
della colonna di commilitoni, alzando le braccia come un attore in un
mezzo giro d'onore e raccogliendo applausi ed ovazioni di ammirazione
per la prorompente mascolinità appena valutata ed approvata.
-
La tua ultima visita ad un bordello? - domando appena il clamore scema.
È risaputo che la guardia francese gestisce il malaffare
attorno al palais royale, senza rifiutare di valutare la mercanzia in
prima persona.
-
So riconoscere un'appestata, signori… - replica finendo di
allacciarsi le braghe.
-
Sì… vi rinfrescheremo comunque la memoria sui
rischi… - ribatte il mio assistente - Avanti un
altro!
Alzo
gli occhi e mi sorprendo. Sapevo del suo arruolamento, ma trovarmelo
qui davanti è così…. Fuori posto.
-
André…
-
Buongiorno dottore
Noto
aloni grigi sul volto e sul torace, un labbro spaccato e rimarginato,
segni di un pestaggio recente. Mi avvicino a lui, aggirando il tavolo
che funge da scrivania.
-
Come state?
-
Non mi lamento dottore. - replica con una vena di ironia - E voi?
Sorrido
tristemente e non rispondo. Che sia lui a chiedermelo non mi disturba;
ogni parola che esce da quest'uomo non è mai una
formalità.
-
Il vostro occhio? - mormoro evitando una replica che egli
già intuisce, avvicinandomi ulteriormente, in modo che
Oscar, uscita dall'ombra ed arrivata alle mie spalle non oda.
-
Come l'ultima volta, direi.
-
Dovete dirglielo.
-
Lo farò dottore - assicura guardandomi dritto negli occhi.
Ed ancora una volta penso a quanto sia bravo a mentire.
Mi
avvicino al volto e lo tasto, per verificare che i pugni abbiano
lasciato solo antiestetici ematomi in via di guarigione e non danni
più profondi.
-
Che vi è successo? L'ultima volta che vi ho visto
così pesto eravate solo un ragazzo poco abile nell'evitare
pugni.
-
A quanto pare, i soldati della guardia sono tutti ragazzoni, solo un po
cresciuti. Ed io… bè, sono migliorato nello
schivare, ma a quanto pare non abbastanza.
-
Perché non mi avete chiamato per un controllo?
-
Oscar avrebbe voluto, ma non mi pareva il caso.
-
Pugni al vostro occhio non vi sembra il caso? Raccontatele della vostra
situazione o lo farò io
-
Dottore…
Lo
zittisco con uno sguardo che non ammette repliche.
Annuisce
mesto.
-
Dolori? Disturbi? - domando con tono più alto, chinandomi di
persona ad auscultare.
-
Sto bene, dottore. - afferma smentendo le parole con una smorfia al mio
tocco sul costato.
Lo
guardo malamente. Sì, lo so, i disturbi gravi di cui soffre
da sempre, non sono rilevabili da una mia visita; il cuore batte sano
nonostante tutto; i polmoni hanno un respiro pulito, nonostante l'uomo
stia soffocando.
-
Non è stata una grande idea arruolarvi, se posso permettermi.
-
Ogni tanto, una follia dottore…
Sospiro
sconfortato.
-
Vedrò che vi vengano dati giorni di riposo…
-
Che non godrò. - Mi interrompe - Non posso assentarmi dal
servizio, i miei compagni potrebbero aversene a male. Inoltre, non
voglio. - bisbiglia.
-
Evitate sforzi, bendate il torace e almeno imparate a scansare se non
ad evitare, già ve lo dissi…
Sorride
al ricordo dei tempi in cui la vita pareva un gioco.
-
Non posso, dottore, lo sapete. - mormora. - Non posso…
evitare.
-
Siete un'incosciente, André e l'incoscienza alla
fine…
-
Se l'incoscienza fosse saggia non sarebbe incoscienza.
-
Mi arrendo la vostra follia ragazzo.
-
Beati i folli, dottore, hanno ancora speranza.
Vorrei
replicare che la speranza porta solo alla tomba, ma non ne ho la forza.
-
Vi farò avere degli uguenti per quei lividi. Non lesinateli.
-
Avanti un altro! - strilla il mio assistente, mentre mi volto ed
incrocio lo sguardo ansioso di madamigella.
Quindi,
tutto questo per lui? Perché alla fine è lui che
conta? Per proteggere il vostro amico che non vuole ascoltare ragioni?
Perché sia io a ordinargli di fare un passo indietro? No,
Oscar, tocca a voi salvare la vostra amicizia, o qualunque cosa sia
questo legame tra voi.
Per
ora vedo solo due persone ben determinate a compiere scelte sbagliate.
Ostinati
testardi.
Sì,
col senno di poi, vorrei che Oscar avesse impiegato la stessa fermezza
nei propri confronti e che forse venuta da me subito, appena apparse le
prime febbriciattole.
E
per tutto il resto...
"…
se solo, se invece…"
***
Auguri
di Buon Anno a tutti!
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Capitolo 17 *** capitolo 17 ***
17 inevitabile follia
17 inevitabile follia
Giugno
1789, Parigi
La
guardo rivestirsi, dandomi le spalle, lenta. Ostenta sicurezza come
sempre, ma da sempre la sua nudità ed ancor di
più il dover essere sincera con me , la imbarazzano.
Esile.
Troppo esile.
Pallida.
Troppo pallida.
Guardo
la sua pelle diafana e vedo la morte che la sta divorando.
Guardo
il suo corpo ossuto e vedo la fine vicina.
Tisi.
Silenzio.
Solo
lo strusciare del tessuto sulla pelle e poi della giacca sulla camicia;
lo schiocco del cuoio della cinta che viene serrata; il lieve rumore
del metallo della lama che si aggiusta nella guaina
-
Bene, dottore… Sono pronta ad ascoltare la
verità. So che la diagnosi che state per emettere
è terribile, ma io già la conosco.
Diretta
e tagliente come sempre e vorrei crederle.
Vorrei davvero che fosse pronta per ciò che l'aspetta, per
la dolorosa agonia, per il consumarsi oltre l'immaginabile, tutto il
contrario di ciò per cui viene forgiato un soldato.
Ma nessuno è mai pronto. La morte ti sorprende sempre con la
sua bruttura ed arriva troppo presto. Sempre troppo presto.
-
Le vostre condizioni generali non sono affatto buone - mormoro a capo
chino, incapace di conciliare la verità con il suo
sguardo - … e quella tosse mi fa pensare
…
-
… alla tisi. Lo so, lo so bene. - mi interrompe col tono
inizialmente tonante e più debole, incerto, ansioso in
quella nota finale. - È già da alcuni mesi che
alcuni sintomi mi hanno fatto pensare a questo terribile male. Vorrei
soltanto sapere quanto mi resta da vivere . - mormora infilando i
guanti candidi sulle lunghe dita, con lenta ed irritante
precisione.
"Morirà?
Sì."
-
La tubercolosi non è incurabile, - mento, ma solo in parte.
Infatti ho utilizzato il termine curare, non guarire. Tutto
può essere curato, anche solo portando attenzioni e
gentilezza, guarito invece…
-
A volte si è giunti a completa guarigione con riposo e dieta
appropriata
“…
e lo chiamiamo miracolo”, commenta acidamente la mia
coscienza.
-
Dottore non voglio certo morire. Ho ancora molte cose da fare. -
replica sgarbata.
-
Non voglio dire che sia tardi. Dovete abbandonare la
carriera… altrimenti non vivrete più di sei mesi,
Oscar. - rispondo quasi altrettanto sgarbatamente.
Un
attimo di silenzio tra noi a quietarci.
-
Vi ringrazio per essere stato sincero con me, dottore.
Annuisco.
Comincio a scriverle le prescrizioni.
-
Raccomando una dieta variata ed equilibrata, uno stile di vita sano.
Dovete riposare ed aver cura di voi. - Esordisco, chino sul mio
scrittoio - E poi… Valeriana, biancospino, melissa per ben
riposare… Angelica, agnocasto… per l'amenorrea
…- mi blocco di colpo, non ho valutato quella
possibilità.
-
Perdonate la domanda, colonnello, ma…
-
Se state per chiedermi se conosco un uomo intimamente, no dottore. Mai.
Non ho tempo per queste cose.
Annuisco,
ma tra me penso che non sia il tempo a mancarle.
Ricordo bene la donna vestita di bianco, che mi urtava fuggendo dal
ballo.
Lei aveva trovato il tempo di invaghirsi per Fersen, un uomo
innegabilmente affascinante, ma non adatto a lei.
E
non lo era perché ella era pronta a dare tutto, ma lui non
aveva nulla da dare, avendo a sua volta già dato tutto.
"
I peccatori restano…"
Scuoto
il capo: non posso pensare alla mia rosa in questo momento.
Al
suo respiro lento, al suo pallore, ai giorni interminabili della sua
agonia; quando la osservavo respirare piano, a fatica, piangere e
respingere l'aiuto delle domestiche ed anche il mio. E poi io che
allontanavo malamente la cameriera chiedendo di lasciarci soli
… Il suo rimpianto sussurrato al mio orecchio con la forza
dell'ultimo respiro… E niente più respiri. Il suo
volto che scivolava di lato, come per dormire, in quel sonno dal quale
mai più si sarebbe risvegliata.
Porto
la mano alla fronte per celare le lacrime prepotenti ed inopportune.
Ma
rammento anche l'avvertimento di Alexandra nei primi tempi della nostra
frequentazione, quando mi disse "ricordi di guardare negli occhi i suoi
pazienti, dottore".
Non
sono bravo quanto lei, né a leggere l'iride, cosa cui credo
solo a momenti alterni, né tantomeno l'animo delle persone,
eppure nel momento in cui per poco incrocio lo sguardo con Oscar, nella
profondità di quel turchese intravedo il dolore, il peso
delle cose non fatte, delle cose che vorrebbe fare e l'incombente
realtà di ciò che non farà mai. E
capisco che più della tisi, è il suo cuore in
gabbia a condurla alla tomba.
Preso
dalla commozione, non so perché, ma mi illudo che la sua
situazione migliorerà, un leggero ottimismo mi invade.
Ed alla mente si affaccia lui.
-
Come sta il vostro André? È da un po' che non
viene a farsi visitare…
-
Perché André dovrebbe venire a trovarla? -
domanda volgendosi di scatto verso di me, mentre il suo volto si tinge
di vero terrore.
Ed
io sprofondo nella sua paura, mi sento cadere, come se con quella
domanda abbia aperto un pozzo sotto i nostri piedi.
-
È mai possibile che...
Sciocco
testardo!… La verità rende liberi, penso, e
sarebbe davvero il momento di spezzare le catene e parlarle chiaramente.
Vada
come vada.
Costi quel che costi.
Palazzo Jarjayes, 17
luglio 1789
- Sandrine? - mormoro
schiudendo gli occhi, chiamato al risveglio da quella sensazione di
sentirmi osservato.
Nessuno risponde
eppure un'ombra è qui, di fianco al mio letto nella stanza
delle rose, e mi guarda silenzios; le lacrime scendono sulle sue guance
vive seppur pallide.
Sbatto le palpebre, cerco di mettere a fuoco: non è un
ricordo, non è un fantasma.
- Rosalie…
ma… - balbetto, ancora intontito, riconoscendola.
Mi sollevo sul
copriletto e lascio scivolare le gambe fino a posare i piedi nudi sul
pavimento fresco, piacevolmente reale.
- Che succede?
- La vecchia balia
è spirata. - riesce a sussurrare in un singhiozzo prima di
celarsi il volto con le mani ed abbandonarsi al pianto.
Mi alzo ed accolgo tra
le braccia l'orfana che conobbi, mai tanto orfana come oggi. In
silenzio, perché non c'è più forza per
la disperazione.
Quanto dolore
potrà ancora colpire questa casa?
E così,
rassegnato a ciò che il fato ha deciso, mi sono ricomposto,
rinfrescato, perfino sbarbato.
A lei, a Marron, avrebbe fatto piacere vedermi così. La
guardo nella penombra dell'alba che filtra appena, composta nel suo
letto di morte dai domestici: il suo abito migliore, la sua immancabile
cuffietta di pizzo… Pare pronta a prendere servizio,
un'altra giornata di lavoro, lavoro che era la sua vita.
Immagini di lei, così uguale negli anni, scorrono nei miei
ricordi, e non resta che tenerezza per questa donna, così
piccola, così grande. Lei destinata a stare a guardare,
senza mai intervenire, sempre combattuta, sempre in bilico tra l'amore
per il suo André, quello per la sua Oscar, quello per la
famiglia che serviva, che amava.
Spero sia ora finalmente libera dai suoi acciacchi e dalle sue
responsabilità.
Spero sia serena e in un posto migliore.
Mi chino a sfiorarle
con un bacio la fronte ancora calda.
- Buon viaggio,
Madame… - auguro in un sussurro.
Esco quindi
nel corridoio già luminoso del primo mattino, richiudendomi
la porta alle spalle con la stessa sensazione di quando si chiude un
romanzo appena concluso, che ci ha accompagnato nei giorni con tante
pagine, ci ha rincuorato ed esaltato, fatto piangere e sorridere; ed
ora ci lascia la sua assenza, le domande sul domani, i dubbi, le
riflessioni.
Da fuori giunge il
rumore di carrozze sulla ghiaia del viale: altri parenti in arrivo.
É il giorno
dell'addio.
Il salone dei
ricevimenti non è poi così gremito come ci
sarebbe potuti aspettare dalla prematura dipartita di Oscar Francois
des Jarjayes.
Personaggio di rilievo, più discusso che
discutibile, certamente non inosservato e difficilmente dimenticabile.
Nobile, ufficiale; volto noto, animo schivo; leale alla Corona, ma
fedele alla propria coscienza … Uomo? Donna? Certamente
c'è ancora chi se lo domanda.
Era una persona ombrosa, a volte prepotente, ma onesta e scevra di
opportunismo.
E per tutto ciò, personaggio impegnativo e fastidioso.
Ci sono parenti,
alcuni amici del generale, nessuna autorità di rilievo.
Le sorelle di Oscar con i rispettivi consorti sono presenti.
Scorgo il generale da un lato della stanza, madame dall'altro e,
frapposti tra loro, un certo numero di anziani consanguinei, le colonne
di famiglia; quelli che intervengono ad ogni funerale borbottando "io
sarò il prossimo", come fosse una scommessa che mai si
vorrebbe vincere.
Tutte persone che
Oscar avrà visto poche volte nella vita, che non la
conoscevano e che ora probabilmente vorrebbero disconoscerla.
Tanti preti e suore, il ramo clericale, tipico di ogni famiglia
aristocratica di buon livello; presenti più per dovere
richiesto dalla loro posizione che per reale sentimento verso la
defunta.
Riconosco anche il
vecchio conte Girodelle, intervenuto da solo perché il
figlio è stato imprigionato dopo aver disobbedito agli
ordini di Sua Maestà.
Il generale si
avvicina per ringraziarlo della sua partecipazione.
- Sono qui solo
perché l'ho promesso a Victor. Solo per questo, Jarjayes. -
sottolinea sprezzante.
- Io…
comunque Vi sono grato. A voi ed a vostro figlio. Ad Oscar avrebbe
fatto piacere …
- Lasciate perdere,
Jarjayes! Non tiriamo in causa i piaceri di vostra figlia!
Si allontana
poggiandosi al bastone, probabilmente, l’unico sostegno che
avrà nella sua vecchiaia se Victor non verrà
graziato; evidentemente ritiene responsabile Oscar per la rovina del
figlio e, sebbene non si possa certamente parlare di colpe,
poiché ciò che il cuore decide, anche quando fa
del male, non è considerabile alla stregua di un delitto,
deve costargli davvero molto trovarsi qui.
Il generale resta
immobile, senza parole.
Distrutto, umiliato. Infinitamente triste.
Dal gruppo dei generi
si leva un brusio.
- Adesso basta! -
esclama al consorte una delle figlie attirando l'attenzione del
generale.
- Che succede ora? -
domanda egli spazientito, avvicinandosi.
La secondogenita cerca
ancora di zittire il marito, inutilmente.
- Non possiamo! Non
possiamo seppellirli nella cappella come nulla fosse accaduto! Non
possiamo seppellirli insieme! Avete sentito il conte Girodelle? Nel
migliore dei casi, saremo lo zimbello di Versailles!
- Abbassa la
voce… - ringhia la moglie.
- No! Passi come sono
morti, possiamo negarlo e mettere tutto a tacere, ma loro …
insieme!… Magari riportando il suo nome su una lapide
accanto ai nostri? Ad ammorbare il lignaggio, a rubarci ...
- Non vogliamo rubare
niente a nessuno, - si intromette mestamente Rosalie, da un angolo -
sarà temporaneo…
- Non c'è
nulla di temporaneo nel disonore! Quanta vergogna devono ancora
causarci, quanto…
- Ad Arras! - grido
improvvisamente. E tutti tacciono. - Ad Arras, vogliamo solo portarli
ad Arras… - aggiungo guardando il generale negli occhi con
tono di supplica. - Non possiamo affrontare il viaggio con questo caldo
e con i tumulti in corso. Tra qualche mese… tra qualche
mese, quando tutto si sarà calmato, col freddo,
verrò a prenderli e li accompagnerò personalmente
ad Arras. Là dove avrebbero voluto stare. Stiamo solo
chiedendo asilo per i loro corpi, nulla di definitivo.
Nella sala cala il
silenzio, tutti a guardare me, a guardare il generale.
Un movimento dal
gruppo dei generi viene stroncato preventivamente da un dito alzato del
generale.
Solo un dito ad avvertire che la misura è colma e che non un
fiato verrà tollerato.
- Resteranno qui per
tutto il tempo necessario. Per tutto il tempo che io vorrò.
- rincara, autoritario - E nessuno, chiunque esso sia, dovrà
osare un fiato in opposizione. E resteranno insieme. Indipendentemente
dalle loro ultime scelte che non posso condividere, le loro spoglie
meritano rispetto che in queste ore potrebbe venire a mancare. Quindi
resteranno qui. Insieme, sì. L'ultima volta che parlai ad
André, gli dissi che se fosse stato nobile, avrei
caldeggiato la loro unione perché sapevo che l'avrebbe resa
felice. Alla fine così è stato, nonostante me,
nonostante tutti, nonostante il mondo. Quello che non avevo ancora
capito, a differenza di Oscar, è quanto lui fosse
già nobile. Nell'animo. La nobiltà
più vera. L'origine di ogni nobiltà. Non avrei
potuto avere figli migliori - confessa ancora una volta, ma
pubblicamente, posando lo sguardo minaccioso su ogni presente - Ed
è quindi giusto che egli riposi accanto alla donna che amava
e che lo ricambiava.
Nel silenzio totale,
madame Marguerite si scioglie dall'abbraccio delle figlie e cammina
piano, ma decisa verso il marito, a testa alta .
Esita un istante di fronte a lui, guardandolo in volto, guardandolo
negli occhi, scivolando sui lineamenti ben conosciuti come se li stesse
improvvisamente riscoprendo.
Poi, inaspettatamente, la mano si leva ed uno schiaffo, un
unico colpo violento come mai mi sarei aspettato dalla signorile e
delicata Marguerite che conosco, lo colpisce sulla guancia.
Tra la sorpresa generale, Jarjayes non risponde e fissa la consorte
senza fiatare.
- Per averlo ammesso
solo ora. - Sentenzia Marguerite tra le lacrime, posando una carezza
laddove aveva appena colpito, prima di rifugiarsi nell' abbraccio del
marito che non aveva mai smesso di amare e che mai, nel profondo, aveva
smesso di amare lei.
- Ed ora, portami a
dar l'addio a mia figlia - mormora stringendolo forte.
Preceduti dall'anziano
cugino incaricato della benedizione alle salme ed al sepolcro,
intontiti dalle litanie e dalla stanchezza di una notte per lo
più insonne, i coniugi Jarjayes stretti tra loro, si avviano
attraverso il cortile e tutti noi li seguiamo.
Rosalie accanto a me
è esageratamente pallida e temo possa svenire da un momento
all'altro.
L’iniziale rabbia con la quale ha cominciato questo viaggio,
ha lasciato il posto al sentimento vero che l’aveva ispirata,
ovvero il dolore, forte, devastante, irrimediabile per la perdita
subita.
La cappella
già ci attende a porte spalancate, come dantesco ingresso al
purgatorio.
Dentro hanno
cominciato i lavori di preparazione dei sepolcri per cui le panche e le
bare sono state spostate per consentire a quattro uomini di muoversi e,
nel pavimento a ridosso dell'altare, già si apre una
voragine laddove le lastre di marmo sono state sollevate.
I corpi verranno deposti sotto il piano di calpestio, nei
posti originariamente destinati a madame ed al generale.
Un posto d'onore. Così ha deciso Jarjayes.
Marguerite stretta al
marito fissa il buio a pochi passi oltre i suoi piedi.
- Ho saputo che Oscar
si è messa in prima fila… - mormora mentre
tremori incontrollabili la agitano - Perché? - domanda ad
Auguste che si limita a scuotere il capo - Perché? - ripete
ansiosa volgendosi a me, come se da questa risposta dipendessero la sua
vita e la sua sanità mentale - Voleva morire?
- No… -
sussurro prendendole il braccio per aiutare il generale a sostenerla,
perché so cosa aspettarmi.
"Negare… "
Negare per sopravvivere, o trovare una ragione dove la ragione non ha
senso.
- Non voleva morire,
ma solo smettere di soffrire. - mormoro a Marguerite - Non credo lei
cercasse la morte davanti alla Bastiglia, ma solo sollievo. Nessuno
vuole realmente morire, ma solo smettere di soffrire. E lei soffriva
enormemente. Semplicemente, è morta come è
vissuta. Senza tirarsi indietro.
- Non sono riuscito a
dirle addio, ero convinto che sarebbe tornata. - aggiunge
Jarjayes con voce spezzata.
Con la coda
dell'occhio, scorgo Rosalie sedersi pesantemente su una panca, ma non
posso soccorrerla.
Dolore di madre, di
padre, dolore di figlia.
I
domestici levano le spade ed i drappi che coprono le casse, liberando
il puzzo accumulatosi al di sotto durante la notte che va a mescolarsi
con quello delle candele e dell'incenso; gli uomini di fatica spostano
le bare sul pavimento, sopra delle funi con le quali verranno
calate sottoterra.
Marguerite ha uno
slancio in avanti, piange, rifiuta l'addio e dobbiamo trattenerla in
due.
-... Oscar…
bambina… la mia Oscar… sottoterra…
no…- singhiozza.
Cominciano a calare la
cassa di André, poi Oscar.
Negli spostamenti, le due bare si urtano, come in un'ultima stretta di
mani, un ultimo contatto, un ultimo sfiorarsi prima del riposo eterno.
Durante tutto questo,
il prete non ha interrotto un istante le preghiere; parole in latino,
vecchie di secoli quanto il dolore degli uomini in terra, parole che
ascolto solo a tratti perché il mio cuore fa troppo rumore.
"Il
Signore è il mio pastore…"
"Ad
acque tranquille mi conduce…"
"Non
temerei alcun male…"
"Lavali
da ogni colpa…"
"Là
dove ogni lacrima verrà asciugata…"
"Concedi
loro il riposo eterno…"
"Amen"
E così sia.
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