Il Giorno in cui imparai a crescere

di Lady_Night
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Affrontare la morte ***
Capitolo 2: *** Autostima? Cos'è? ***
Capitolo 3: *** La paura di essere se stessi ***
Capitolo 4: *** La fine di un inizio, o l'inizio della fine? ***
Capitolo 5: *** Chi trova un amico, non sempre trova un tesoro ***



Capitolo 1
*** Affrontare la morte ***


Avevo 8 anni quando mia madre morì. Era una sera del novembre 2009, faceva freddo e l'atmosfera in casa era la solita di sempre: cupa e silenziosa. Ma quella volta percepivo che c'era qualcosa di diverso. Il solito via vai di persone che venivano a dispiacersi con noi della malattia di mia mamma erano notevolmente aumentate e nessuno mi rispondeva quando provavo a fare qualche domanda. Passo così un’ora, io ero seduta sul divano, giocavo con il Nintendo. Era così divertente! E a quel gioco ero bravissima, vincevo sempre. Non prestavo attenzione a ciò che mi succedeva intorno, nessuno badava a me e io non badavo più nessuno, almeno potevo starmene in pace. Pochi minuti dopo arrivò mio padre, mi chiese se volevo andare con loro a visitare la mamma. Feci una faccia stranita, c’era veramente qualcosa di strano. Non eravamo mai andati alla Casa Dei Gelsi (una casa in cui curano i malati di tumore) di sera, in più c’ero già stata il giorno prima, e meno ci stavo meglio era. Non perché non volessi bene a mia madre o perché non volessi vederla, ma quel luogo mi metteva angoscia; puzzava di tristezza, farmaci e qualcosa che più avanti capii essere l’essenza stessa della morte. In risposta a mio padre scossi la testa in segno di diniego, ignorando tutti i brutti presagi che si erano affollati nella mia mente. Insomma, papà aveva detto che mamma sarebbe stata bene. Quindi doveva per forza essere così, no? Se ne andarono tutti, compresi i miei fratelli. Con me rimasero due care amiche della mamma, con loro mi divertii un mondo quella sera, giocammo a Cluedo, a Monopoli e guardammo i cartoni. Era stata una serata perfetta per una bambina di 8 anni. Non mi resi subito conto che era come la quiete prima della tempesta. Alle 10:30 mio padre rincaso, e con lui i miei 2 fratelloni. Avevano il viso chino, le spalle ingobbite, come se stessero sopportando un peso enorme. Mi portarono in camera, Gian ed Edo (i miei fratelli) erano seduti sui loro letti, papà era accovacciato davanti a me, e quando alzò lo sguardo il mio cervello si rifiutò di credere a ciò che il mio cuore aveva già capito. “La mamma non c’è più”, mi disse semplicemente questo. Ed io scoppia a piangere, perché nonostante tutte le false promesse che mi avevano fatto, nonostante tutte le cose non dette, nonostante le bugie, avevo già capito fin dall’inizio che un giorno non avrei più avuto una mamma. Ci abbracciamo, e piangemmo. E mentre ci disperavamo ebbi la forza di guardare la mia famiglia spezzata. I miei fratelli sempre così allegri e briosi erano devastati e cupi, nei loro volti non c’era più l’ombra del sorriso che tanto amavo. Il mio papà, così grande e grosso e che mi voleva tanto bene ora piangeva come un bambino, e lo vedevo fragile ed indifeso. Il mio cuore si disintegrò ulteriormente quando appresi che non saremmo mai più stati la famiglia che eravamo una volta. Quella notte piansi finché non mi addormentai e non mi stupirei se venissi a sapere che piansi anche durante la notte. Non andai a scuola per giorni, e in tutto quel periodo di tempo non parlai. Ero rotta, non avevo più lacrime da versare e nessuno che mi potesse capire. Ero sola. Fui costretta a crescere troppo in fretta. Dovetti sostenere la mia famiglia a pezzi. Mi presi cura dei sentimenti di mio padre, e diventai una piccola donna di casa. Dopo quei giorni successivi alla scomparsa di mia madre promisi a me stessa che non avrei mai più pianto, e da quel momento non lo feci più, nemmeno al suo funerale. Ero apatica, non ridevo e non piangevo. Non mi sentivo più una bambina. Soffrii per anni ed anni. Non parlai mai con nessuno di ciò che sentivo, e più andavo avanti più diventava peggio. La vita mi aveva insegnato ad essere forte e a contare solo su me stessa,e purtroppo questa lezione la pagai con il prezzo più alto. Non avevo più una madre, mio padre era assente, i miei fratelli non erano più gli stessi. Divenni padrona di me stessa. Ancora oggi, delle volte, mi chiedo se ne sia valsa la pena superare quell’inferno per essere qui oggi.

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Capitolo 2
*** Autostima? Cos'è? ***


Ebbene si, anche io ho avuto, ed ho tuttora, problemi ad accettare me stessa. Voi vi direte “Quale adolescente non li ha?”, ma se io vi dicessi che i miei sono cominciati alla tenera età di soli 6 anni cosa pensereste? Sapevo bene di non essere come le altre bambine della mia scuola, non guardavo “Il mondo di Patty”, o “Violetta”, o una di quelle serie Tv spagnole in cui ci sono intrighi amorosi e la trama è noiosa e ripetitiva. Anzi, diciamo che io li detestavo. Io ero più un maschiaccio, se le mie compagne volevano la bambola gigante delle Winx, io desideravo disperatamente un Beyblade. Non mi interessavano i discorsi sugli smalti, né mi interessava sapere chi fosse il ragazzo più carino. Preferivo giocare a prendi e scappa o tirare i capelli alle persone che mi avevano fatto un torto. C’erano delle differenze tra me e le altre che mi facevano sentire esclusa, non perché le altre non mi volessero bene o non cercassero di farmi integrare, ma perché sentivo di non appartenere al loro mondo. Da quel momento è cominciata la caduta. Cominciai a comportarmi come le altre, guardavi i loro stessi programmi, leggevo le stesse riviste, provai anche a mettermi lo smalto. Ma più andavo avanti e più non ero io, ed io non lo capivo al tempo. Mi stavo perdendo e questo mi rendeva infelice. Poi, un giorno, arrivò una nuova bambina, era diversa dalle altre… Non guardava i soliti cartoni da bambine. Lei guardava Inazuma Eleven, giocava ai videogiochi e aveva un modo di vestire che mi affascinava. Inutile dire che facemmo amicizia. Io la idolatravo, ogni cosa che diceva, che faceva o che pensava era come nettare degli Dei per me. Ma anche in questo venni vista come diversa, le mie migliori amiche la odiavano e cominciarono a sgridarmi perché stavo sempre insieme a lei. Ed io non capivo, cosa aveva di sbagliato quell'amicizia se io stavo bene insieme a lei? Eravamo buone amiche, e solo ora mi rendo conto che in realtà non provavo solo un sentimento di amicizia per lei. Penso sia stata una delle mie prime cotte; e pensare che all’epoca non ne ero nemmeno consapevole… All’ultimo anno di elementari i dissapori tra il gruppo delle mie migliori amiche e quello della Ragazza-Non-Più-Tanto-Nuova erano arrivati a livelli insostenibili. Così presi una decisione, e poco a poco mi allontanai da entrambi, e divenni neutrale… Avevo deluso delle persone per non far star male delle altre, e nonostante questo mi sentii ancora peggio di quanto già non facessi. All’età di 11 anni ero una bambina senza amor proprio e depressa. Stavo vivendo un periodo orribile della mia vita. La mia famiglia era ancora instabile dopo la morte di mia mamma e quell’anno avrei dovuto cambiare scuola per iniziare le medie. Avrei perso tutte le sicurezze che mi ero costruita in 5 anni, le maestre, i compagni, i giochi… quando cominciai a frequentare la nuova scuola fu un trauma, venni subito classificata come la tipica sfigata. Ci misi moltissimo a fare amicizia con i miei compagni, se amicizia si può chiamare. Non avendo un minimo accenno di autostima lasciavo andare il mio corpo alla deriva, mi nutrivo male, non facevo allenamento e poco alla volta divenni abbastanza robusta. Quelli di terza cominciarono a prendermi in giro perché ero sempre sola e triste. I rari momenti in cui avevo degli sprazzi di energia vitali erano quelli in cui facevo a pugni con uno dei miei compagni. Insomma, ero un caso perso. In quei 2 anni pensai a cose orribili. Non pensavo di riuscire ad andare avanti. E, purtroppo, mi balenò in mente più di una volta di porre fine alla mia vita (di questo, però, parlerò più avanti). Arrivai alla terza che ero ormai un derelitto. Ma delle persone ebbero il coraggio di allungare la mano e salvarmi. Erano 3, in un primo momento mi si avvicinò “Sara”, ma non legammo più di tanto, avevamo dei tratti del carattere “da maschio”, quindi entravamo in conflitto facilmente. La seconda a gettarmi un ancora di salvezza fu “Stefania”, con lei legai di più. Era gentile, simpatica, disponibile. Mi invitò spesso a casa sua, conobbi la sua famiglia e mi trattò come una persona normale, cosa per me non scontata. La terza, infine, fu “Carlotta”, con lei instaurai un rapporto molto bello. Parlavamo di noi stesse, dei nostri problemi familiari e dei nostri sogni, facevamo chiamate che duravano ore ed ore, ed io ero felice. Avevo perso i contatti con le mie vecchie compagne, con le mie amiche non ci vedavamo quasi mai e mi sentivo sola. Ma poi erano arrivate loro e tutto sembrava andare alla grande. Peccato, però, che delle volte, il destino ci riservi avvenimenti inaspettati e talvolta sgradevoli. Ma io ero ancora una ragazza ingenua, come potevo anche solo immaginare ciò che mi attendeva?

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Capitolo 3
*** La paura di essere se stessi ***


Era finita la terza media, e se devo essere sincera, mi stupisco ancora oggi di essere riuscita a sopravvivere a quello schifo. Ancora una volta mi ritrovavo a dover ricominciare tutto da capo, nuova scuola, nuova classe, nuove cose da imparare. Eppure mi sentivo sicura, ero fermamente convinta che lei mie nuove amiche mi sarebbero state accanto nonostante avessimo scelto scuole diverse… ma non fu così. La prima ad andarsene fu “Carlotta”. Mi scrisse un messaggio in cui diceva semplicemente che per un anno aveva solo finto di essermi amica perché gli facevo pena e che per lei non valevo niente. Quando lo lessi il mio cuore si spezzò in mille pezzi, ero sicura fosse mia amica, che mi apprezzasse per quello che ero, ma non era così. La seconda fu “Stefania”, lei non disse niente. Semplicemente smettemmo di scriverci, e fino ad un anno fa non sapevo nemmeno se fosse viva o morta, la ritrovai per caso su Instagram. È triste pensare a come due persone che una volta erano amiche si siano ridotte ad avere un contatto superficiale solo attraverso delle foto che appaiono su uno schermo. La terza ed ultima persona fu “Sara”, ma con lei il distacco fu meno visibile, quando capitava ci scambiavamo qualche frase di circostanza e poco più. Mi avevano abbandonato tutti, di nuovo. Fu una delle estati peggiori della mia vita, il mio cuore si era chiuso definitivamente, non mi fidavo delle persone e la fiducia in me stessa era ufficialmente morta e sepolta. Avevo una rabbia folle dentro di me, non volevo che le persone si prendessero gioco di me ancora, così cambia me stessa e divenni un qualcosa di sbagliato, non ero veramente io, ero una maschera, un riflesso sfocato della vera me stessa. Ad un mese dall’inizio della scuola mi ambientai, mi feci degli amici e mi costruii un gruppo con cui stare. Mi misi con un ragazzo, è dolce, gentile e simpatico. Ma mi dispiace dire che non mi misi con lui perché mi piaceva, era solo un buon amico ed io l’avevo confuso per altro, o forse mi ero forzata a pensare che fosse amore. Non so. Forse mi misi con lui solo per dimostrate a me stessa che ero uguale agli altri, mi sentivo strana rispetto alle altre ragazze, non mi piaceva parlare di ragazzi, non mi piaceva guardare i ragazzi, e soprattutto non mi piaceva immaginare il mio ragazzo. Ma lo feci, feci ognuna di queste cose per essere come le altre ed ogni volta mi sentii sempre più uno schifo. Passai 2 anni con questa classe e devo dire che successe di tutto, ho fatto cose di cui tutt’ora mi pento e ho provato esperienze che sono grata di aver vissuto. Ma tornando all’argomento principale: cominciai ad avere i primi dubbi sulla mia sessualità a 14 anni, e cercai di cacciare questi dubbi mettendomi con il ragazzo di cui ho parlato prima. Purtroppo la mia idea non funzionò, ogni volta che lo baciavo provavo un senso di repulsione enorme, per non vederlo strizzavo gli occhi fino a farmi male, cercavo di non pensare a nulla e continuavo. Mi resi conto troppo tardi che non mi piaceva baciarlo per il semplice motivo che era un ragazzo. Lo lasciai. Da lì cominciò il periodo di totale menefreghismo. Cercavo di pensarci il meno possibile e per 2 anni funzionò. Me lo ricordo come se fosse ieri. Eravamo a metà della seconda ed ero con alcuni miei amici, all’improvviso fece la sua comparsa una ragazza. Salutò una delle ragazze che era con me e se ne andò. Fu un colpo di fulmine, lei era… bellissima. Era bassina e con un corpo proporzionato, aveva uno stile nel vestire molto da maschiaccio e il suo modo disinvolto e quasi menefreghista di affrontare le cose mi attirò. Così mi arresi e finalmente cominciai a cercare delle risposte, mi sentivo sbagliata e contro natura, il mio rendimento scolastico cominciò a calare e verso fine anno mio padre mi sgridó per questo, mi chiese spiegazioni, ed io scoppia. Piansi, e glielo urlai. Ero pronta ad un rifiuto secco e doloroso, ma lui mi abbracciò e mi domandò semplicemente se ne fossi veramente sicura. Da quel momento cambiai totalmente, fu il primo passo che mi portò a diventare la persona che sono ora.

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Capitolo 4
*** La fine di un inizio, o l'inizio della fine? ***


La morte molto spesso viene citata come “una vecchia amica”, per alcuni può non significare nulla, ma per persone come me, questa frase rappresenta tutta una vita. Ho scoperto cosa voleva dire morire all’età di 5 anni, in un vocabolario troverete la dicitura “cessazione definitiva di tutte le funzioni vitali”, ma io la interpretai in modo diverso. La pace, pura e semplice. Niente dolore, niente rabbia, niente tristezza. Ora, non pensiate io abbia qualche malfunzionamento cerebrale, ma la prima volta che pensai al suicidio fu a 6 anni. E non ci pensavo come fosse un gioco, o uno scherzo. Ci pensavo seriamente. Non so da dove mi fosse venuta quell’idea folle e assolutamente strana per una bambina di quell’età. Sta di fatto che da quel momento in poi la morte divenne come la mia ombra. Il mio primo vero tentativo di porre fine alla mia vita lo misi in atto ad 11 anni. Ero così triste, così apatica che mi sentii inutile. Mi chiesi perché vivessi se l’unica cosa che facevo era soffrire. Ci provai con una lametta, avete presente? Insomma, il solito cliché da film dramma. Ci ero andata molto vicina, ma i miei fratelli mi interruppero prima che compissi quel gesto così stupido. Non scoprirono niente ed io feci finta di nulla. Divenne una specie di rito. Ogni giorno tornavo a casa da scuola e poggiavo la lametta sul polso e mi ripetevo come un mantra “presto potrai farlo, abbi pazienza”. Mi faceva sentire più vicina all’unica cosa che credevo potesse arrecarmi sollievo. Provai in tutti i modi ad uccidermi, cercai di farmi investire, cercavo con lo sguardo i palazzi più alti da cui avrei potuto buttarmi. Ogni cosa mi riportava a quell’unico obbiettivo, ero ossessionata. Poi, un giorno, scoppiai. Era l'anniversario della morte di mia mamma, ero triste e mi ero messa in disparte a pensare. Poco dopo arrivarono dei ragazzi di terza, cominciarono a prendermi in giro imitandomi e facendomi i versi. Quando tornai a casa ero distrutta. Si erano presi gioco del mio dolore, erano degli stronzi, eppure per qualche insano ragionamento pensai che avessi fatto qualcosa per meritarmelo. Quel pomeriggio quando mio padre andò al lavoro presi la lametta, e mi incisi la pelle, era la prima volta che osavo così tanto. Fu un dolore bruciante che si propagó per tutto il braccio, non era una ferita profonda, ma il sangue si vedeva già. Mi fermai un attimo, ed in quei pochi secondi mi guardai allo specchio. Odiai con tutto il mio corpo e la mia anima ciò che vidi riflesso in quella superficie. Mi fermai. Mi resi conto in quel momento di cosa stessi effettivamente facendo. Corsi fuori dal bagno gettando via la lametta, e mi fiondai in camera. Non piansi, rispettai la promessa che avevo fatto da bambina. Non so cosa successe, so solo che ero raggomitolata su me stessa. Le ginocchia erano schiacciate sul petto e la mia testa era affondata tra le gambe. Il mio corpo era percosso dai brividi ed il mio respiro era così affannoso e affaticato che per un attimo smisi di assimilare ossigeno. Avevo la nausea ed tutta me stessa era invasa da una folle paura. Non so se si possa definire propriamente un attacco di panico, ma fu orribile. Da quel momento decisi che sarei cambiata, ad ogni costo. Non importa quanto ci sarebbe voluto, o quanto avrebbero sofferto gli altri. Ero stanca di essere l’unica ad essere trattata male, quando tutto ciò che facevo era essere il più gentile possibile nonostante covassi troppa rabbia per il mio piccolo corpo. Un giorno avrei dimostrato che ero capace anche io di infliggere dolore. E lo dimostrai, eccome se lo dimostrai. Divenni una persona orribile senza nemmeno rendermene conto. Mi spiace solo che la persona che mi ha incontrata in quel momento, ora mi odi troppo per poter ascoltare la mia storia e potergli spiegare perché. Non mi sentirò mai abbastanza in colpa, e tutto ciò che sto passando adesso non sarà mai abbastanza. Ma parlerò di tutto ciò nel prossimo capitolo.

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Capitolo 5
*** Chi trova un amico, non sempre trova un tesoro ***


Ci siamo conosciuti al secondo anno di superiori. Stavo attraversando un brutto periodo, ero divorata dalle insicurezze e dall’odio verso gli altri. Lui mi allungó una mano quando ne avevo più bisogno, mi fidai. Mi confidavo con lui e lui si confidava con me. Poi avvenne il disastro. Suo padre morì, anche lui di tumore. Io penso di averlo supportato. Sinceramente non ricordo. Potrei anche aver fatto finta di nulla, pensando ai miei problemi e non ai suoi. So solo che ho cancellato totalmente quell’intero anno della mia vita. Non è la prima volta che mi succede una cosa del genere, ho eliminato circa 3 anni della mia infanzia senza alcun problema. Ma con questo vuoto di memoria tutti possono inculcarmi in mente tutto ciò che vogliono e farmi credere in cose che non sono mai avvenute semplicemente perché vengo afflitta da questo tipo di “amnesia”. In ogni caso, sta di fatto che di quell’anno ricordo vagamente i suoi comportamenti. Era diverso. Divenne possessivo, rabbioso, geloso. Gli volevo bene, così continuai a stargli affianco. Ma io soffrivo perché non potevo fare nulla, non potevo uscire con le mie amiche perché altrimenti lui protestava sul fatto che io non uscissi mai con lui. Non potevo passare la ricreazione con gli altri altrimenti insisteva nel dire che lo lasciavo da solo. Non potevo fare nulla, o lui si arrabbiava. Così mi allontanai. Ci ferivamo a vicenda e non riuscivamo a smettere, finché un giorno non decisi di troncare i ponti. Avevo ormai capito che non era un rapporto sano, né tantomeno equilibrato, avevo da poco appreso che da parte sua non c’era più un sentimento d’amicizia, ma qualcosa di più. Lui voleva di più, io volevo tornare indietro di qualche passo. Poco a poco la nostra amicizia finí col farmi cadere in depressione. Così, quell’anno, decisi di andare da una psicologa. Ne parlai con lei e concordammo insieme che era il momento di smetterla. Quando lo feci ero entusiasta. Passai un estate stupenda. Ma quando tornai a scuola cominciò l’inferno. Non potevo passargli davanti che subito mi lanciava occhiate piene d’odio. Cominciò a parlare male di me con gli altri. Mi sentii ancora di più uno schifo, ancora una volta cominciai a pensare di meritare tutto ciò che mi accadeva, credevo di essere stata troppo precipitosa nell’averlo lasciato andare. Erano passati 6 mesi quando ripresi i contatti con lui. Qualche giorno prima aveva detto ad una nostra amica in comune che mi augurava la morte. Così mi pentii di quello che avevo fatto e gli chiesi di perdonarmi. Ritornammo amici, ma non serví a nulla. Dopo solo 6 mesi decisi di troncare di nuovo. Stava ritornando tutto come prima, lui che mi gridava contro per qualsiasi cosa ed io che mi allontanavo; di nuovo passò l’estate, questa volta però arrivarono i sensi di colpa a tormentare le mie notti. Quando a giugno gli dissi che non volevo più essere sua amica per varie ragioni mi auguró di morire sola, e che non avrei mai avuto un amico, perché l’unico amico che potrei mai avere è lui. Cominciai a fare incubi, ad avere attacchi d’insonnia, rimasi sveglia notti intere. Ricominciò per l’ennesima volta la scuola. Ero già pronta ad affrontare l’anno con la paura di incrociarlo nei corridoi. Mi aveva minacciata dicendo che se avessi provato ad avvicinarmi sarei finita male. Poi il primo giorno mi scrisse che doveva parlarmi, lo incontrai. Mi disse che era cambiato, che se volevo potevo tornare da lui. Gli ho chiesto dei giorni per riflettere. Ho paura, tanta paura. I giorni stanno per scadere ed io non so che fare. Ho paura di ricadere nelle stesse abitudine e nelle stesse trappole. Non voglio che lui soffra, e non voglio soffrire nemmeno io. Prego solo di trovare la forza di fare la cosa giusta, anche se ancora non so quale sia.

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