A Giacinto

di CHAOSevangeline
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giacinto ***
Capitolo 2: *** Apollo ***
Capitolo 3: *** Apollo e Giacinto ***
Capitolo 4: *** Apollo e Giacinto ***
Capitolo 5: *** Zefiro ***
Capitolo 6: *** Apollo e Giacinto ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Giacinto ***


Salve a tutti!
Prima di tutto vi ringrazio per aver aperto questa storia.
Di solito non mi dilungo mai nelle note iniziali, ma in questo particolare caso ci tenevo a fare delle precisazioni che non mi andava di rimandare alle note di fine capitolo. Questa storia è una rivisitazione in chiave moderna del mito di Giacinto. Ho cercato di rendere più attuali alcuni avvenimenti di quest’ultimo adattandoli ai nostri tempi e di toccare sia gli aspetti più leggeri che più tristi del mito.
I personaggi sono delle mie interpretazioni, basate sulle diverse versioni della storia e sui tratti caratteristici ricorrenti dei suoi protagonisti.
Mi è sempre piaciuta la mitologia greca, ma mentirei se dicessi che ne sono esperta: ho cercato comunque di informarmi e di fare un lavoro accurato, che spero apprezzerete.
Buona lettura!


 

A Giacinto



I.
Giacinto



La legge dell’attrazione, in fisica, è quella regola per cui la forza che due corpi esercitano l’uno sull’altro tende ad avvicinarli reciprocamente.
Entrambi sono immobili, al loro posto, ma la loro energia li spinge uno verso l’altro in un moto inevitabile, talvolta più lento, talvolta più accelerato. Non è nessuno a deciderlo: è solo la natura che compie il proprio corso.
Ti svegli una mattina e ti accorgi di essere accanto alla persona giusta; di essere stato catturato nell’orbita di quella persona giusta e che con un pizzico di fortuna, se la vostra forza è reciproca, che anche lei è diventata un satellite nella tua.
Sua sorella Polybea aveva ripetuto fisica appena il giorno prima, per un esame, altrimenti la mente di Giacinto non sarebbe nemmeno stata sfiorata da un concetto tanto scientifico.
Ciò che era matematico lo repelleva; ecco spiegata la necessità di romanticizzare qualsiasi assioma o regola.
Era fatto così: prima l’arte, poi la scienza. Prima il cuore, poi la testa. L’emozione precedeva ogni altra cosa e pur essendo spiegazioni e teoremi talvolta comodi, Giacinto non ne sentiva la necessità: ciò che di più bello c’era al mondo non aveva bisogno d’essere spiegato; se era bello, ciò che era sufficiente comprendere era la sua stessa bellezza. Nulla di più.
Non pensava a sé stesso mentre lo diceva, era troppo modesto, eppure le persone che nel corso della vita avevano incrociato il suo cammino, il fiato mozzato e il cuore che perdeva un battito, forse avevano ripetuto la sua stessa affermazione: che non poteva esistere spiegazione per una bellezza tanto sublime.
Giacinto era un ragazzo, aveva poco meno di vent’anni. Due enormi occhi verdi con cui scrutava il mondo e dei ricci d’ebano tanto definiti da sembrare statuari. Pareva un efebo, Giacinto, la pelle lattea come quella di un marmo. E in effetti non sarebbe stato tanto assurdo essere ingannati e credere appartenesse a un museo, quello della vita, per essere ammirato in qualità di uno dei più belli esseri viventi al mondo.
Ma lui di questo non si rendeva conto: era innocente, o forse sarebbe stato meglio dire inconsapevole; pensava a come rendere più romantici i concetti fisici studiati dalla sorella e al proprio album da disegno, non a sfruttare la propria bellezza per un qualche tornaconto.
Forse era proprio questo suo essere del tutto ignaro del proprio possibile ascendente a renderlo tanto ben voluto e bello di una bellezza incorrotta.
Ignorava i propri pregi più di quanto non volesse.
Scacciò le briciole della gomma dal foglio con il fianco di una mano, la matita che tornava sul luogo dello strumento usato prima di lei tracciando il proprio passaggio con un leggero segno di grafite.
Giacinto amava disegnare, lo faceva da che aveva memoria. Disegnava e disegnava qualsiasi cosa gli passasse per la testa: paesaggi? Aveva già provato; fiori? Ne aveva studiati a centinaia; volti? Aveva ritratto almeno una volta tutti i propri conoscenti. Per esercizio, diceva, ma non di tecnica: dal viso di ognuno riusciva a estrapolare qualcosa, fosse anche solo un dettaglio in grado di aiutarlo a migliorare uno studio che portava avanti da anni. Lo studio.
C’era un ritratto che Giacinto continuava a fare, ne erano pieni i suoi album da disegno; gli angoli dei quaderni erano tappezzati di occhi, labbra sempre simili. Sempre della stessa persona. Le caratteristiche principali di quell’individuo si vedevano anche nei disegni di quando Giacinto era più piccolo, tempo in cui il biondo grano corrispondeva al giallo sole e i tratti del pennarello sconfinavano dagli incerti bordi tracciati col nero.
Suo fratello si riferiva al ragazzo che disegnava sempre chiamandolo «il suo amico» e Giacinto era convinto trovasse inquietante la sua ossessione nel perfezionare sempre più la sua immagine.
«Stai ancora disegnando il tuo amico?» gli chiedeva. Giacinto rispondeva ogni volta con un piccolo cenno del capo e un sorriso appena imbarazzato.
Perché non c’era nulla di male nell’avere una piccola fissazione, ma un poco si sentiva inquietante anche lui.
Sua sorella era più di supporto. Alle volte si sedeva al suo fianco, a prescindere da cosa stesse disegnando, perché trovava rilassante osservare la sua mano che si muoveva sul foglio, il rumore della pelle contro la carta. Le piaceva osservare la genesi di disegni tanto vivi, il loro nascere dalla sua mano e vedere la passione che metteva in ognuno, il frammento di cuore con cui rendeva reale, concreto, vivente ogni volto, creatura o paesaggio.
Perché poco ci vuole a creare, ma tanto a dar vita.
Gli aveva suggerito di trovare un nome a quel giovane dai lineamenti scolpiti, le labbra cesellate e i capelli biondi che Giacinto si ostinava a disegnare.
Non ne trovava uno che fosse degno, però.
Ritratto dopo ritratto aveva la sensazione di catturare qualcosa in più. Una volta era un lineamento, una fossetta. Quella volta si trattava dell’espressione: la sentiva familiare, come se già l’avesse vista in un istante interminabile della propria vita. Perfetta per il suo amico: un sorriso fiero e sicuro, quasi provocante, ma che a lui appariva in qualche modo dolce e di conforto.
Se la legge dell’attrazione era vera e se il volto che continuava a mettere su carta apparteneva a qualcuno, Giacinto sperava che il suo continuo disegnarlo generasse una forza sufficiente da attirarlo a sé anche solo per chiedergli spiegazioni. In quel caso, ecco, solo in quello, le avrebbe apprezzate. O forse si sarebbe accontentato di qualsiasi parola giungesse dalla bocca di quel ragazzo nel caso in cui fosse esistito davvero al mondo e lui lo continuasse a disegnare per un qualche sortilegio.
Giacinto teneva stretto il labbro inferiore fra i denti, ombreggiando e segnando la carta su quella panchina nel cortile della sua accademia. Quando l’ispirazione lo coglieva tirava fuori il suo sketchbook in qualsiasi momento. Aveva addirittura monopolizzato il tavolino di un bar della stazione dopo essere sceso dal treno che lo avrebbe riportato a casa, una volta, non avendo potuto rimediare prima a causa del viaggio passato tutto in piedi, accalcato fra persone che nemmeno conosceva. Era arrivato a casa tardi per cena, ma ormai non doveva più giustificare il proprio estro artistico né ai fratelli, né ai genitori. Se anche qualcuno lo avesse chiamato per chiedergli dove fosse, in un simile momento avrebbe risposto a «mh-mh» e «ah-ha» tenendo la cornetta stretta fra orecchio e spalla, senza interrompere il proprio lavoro né ascoltare davvero.
Perché Giacinto non sentiva nulla quando disegnava, solo emozioni, soprattutto quando disegnava lui.
Solo emozioni.
«È davvero molto bello.»
Giacinto non sentiva nulla quando disegnava. Tranne allora.
Alzò in fretta il capo, quasi quella voce fosse un richiamo ideato su misura per il suo orecchio, per smuovere delle corde che mai nella sua vita aveva sentito vibrare.
La frequenza Giacinto era appena stata scoperta.
Dovette abbassare il capo una volta e alzarlo un’altra ancora prima di riuscire a dare senso al confuso pensiero nato nel suo cervello, tanto assurdo gli era parso. Quando gli occhi si puntarono sul ragazzo – perché era un ragazzo quello che aveva parlato – dinnanzi a lui, Giacinto riuscì a capire: i suoi occhi si erano convinti, senza sbagliare, di aver visto sfumare il ritratto che lui stesso stava realizzando nel viso di una persona.
Da vivido ritratto a realtà fatta di carne e respiri.
Era sorpreso, curioso, sconvolto.
Gli occhi azzurri del giovane sconosciuto erano fissi nei suoi e nemmeno quando Giacinto li aveva distolti questi erano caduti sul blocco. Gli incisivi di Giacinto lasciarono il suo labbro, arrossato e lucido. Su quello però, gli occhi del ragazzo dai capelli dorati, caddero.
Non riusciva a crederci: persino i colori che aveva sempre usato per dipingerlo corrispondevano.
Nella sorpresa scordò di chiedersi se il ragazzo si fosse reso conto di essersi appena complimentato con sé stesso, quasi avesse pronunciato un «sei davvero molto bello» al proprio riflesso nello specchio.
«Ti… ti ringrazio», rispose Giacinto.
Giacinto non era una persona timida. Attraeva anche perché brillava di luce propria, una luce sicura nell’insicurezza che celava. Eppure era una luce che in nessun’altro aveva trovato. La donava, ma non poteva prenderla da nessuno.
Eccola, la sua condanna: era un fiore che non poteva crescere.
Di fronte a quel giovane, il volto illuminato da un sorriso fiero sulle labbra cesellate, Giacinto si era sciolto e aveva perso tutte le parole, ogni facoltà di pensiero. Cosa poteva dire? Cos’era giusto dire? Cos’era il caso di dire proprio a lui per far sì che restasse ancora un minuto, dieci, anche per sempre se lo desiderava?
I suoi occhi celesti, quei capelli di grano ondulato raccolti forse in una coda, forse in uno chignon che non vedeva. La pelle ambrata coperta da una camicia chiara e dei jeans che fasciavano i muscoli delle gambe. Pareva una statua.
E Dio, era bellissimo.
Giacinto era in panico e stava perdendo la propria occasione. Nemmeno riusciva a pensare che se quello sconosciuto gli aveva rivolto la parola forse voleva sentire la sua voce, ascoltarlo.
«Scusami, non ti volevo disturbare.»
Stava per parlare ancora, ma Giacinto nemmeno se ne accorse.
«Non ti preoccupare!» Si schiarì la voce. «Cioè, non è un problema. Mi ha fatto piacere.»
Sorrideva il ragazzo di fronte a tutta la sua agitazione. Ma sebbene si trattasse di quel sorriso fiero a lui ben noto, Giacinto non poteva fare a meno di trovarlo dolce.
Oh, maledizione. Quei sentimenti lo confondevano.
«Se non è un problema allora potrei anche presentarmi? Ti farebbe piacere?»
Il giovane lo chiedeva come se la sua decisione fosse già stata presa, ma volesse dare a Giacinto la parvenza di poter intervenire in quella situazione, di partecipare più di quanto la sua perduta lucidità gli avesse permesso fino a quel momento di fare.
Un piccolo cenno, poi la mano del giovane si tese verso di lui. Giacinto si alzò in piedi, abbandonando sulla panca di marmo il proprio blocco da disegno: doveva costruirsi la propria occasione, riprendersi e non sembrare del tutto un maleducato che nemmeno si era alzato in piedi.
«Io sono Apollo.»
Apollo.
Tre sillabe di pura poesia.
Subito Giacinto ebbe la sensazione fosse quello il nome che aveva cercato per anni sotto suggerimento di sua sorella. Che al volto perfetto sulle pagine del suo album il nome Apollo calzasse a pennello come nessun’altro avrebbe mai fatto.
O forse voleva dire che era quello sconosciuto, con il suo nome, a calzare a pennello al ritratto che aveva realizzato per anni, con il suo nome e la sua voce, il suo sorriso e il suo sguardo orgoglioso?
Forse aveva messo fin da piccolo su carta i propri desideri e questi si erano appena realizzati grazie ad una misteriosa divinità. Forse era lui a vederlo identico, quando così non era.
Giacinto non lo sapeva e seppur nel bel mezzo di una situazione che di spiegazioni aveva bisogno, si rese conto ancora una volta di quanto i chiarimenti non servissero, non a lui; accettava quel momento così com’era e avrebbe potuto vivere anche tutta la vita quel mistero. A patto che quello sconosciuto non se ne andasse.
Gli sarebbe parso tutto naturale, ma solo a quella condizione.
Le dita di Giacinto si strinsero intorno a quelle solide e robuste di Apollo.
«Giacinto.»
«Giacinto? È un bel nome», disse. «Insolito, se posso dirlo.»
«Anche Apollo», gli fece notare il ragazzo.
La risposta pronta aveva fatto ritorno e a giudicare dall’espressione sul volto del biondo era stata apprezzata.
«Hai ragione. Abbiamo una cosa in comune, direi.»
Le loro mani ancora non si erano lasciate. Fu Apollo a sciogliere la presa, dopo aver guardato per un istante le loro dita ed essersi lasciato andare a uno sbuffo di risata. Ma non per schernire.
Quella stessa mano corse fra le sue ciocche bionde, raccolte morbidamente dietro la testa. Giacinto desiderò di poter compiere lo stesso gesto, di tracciare un sentiero in quel campo di grano ondulato.
Non gli era mai capitato di essere scosso da un tale interesse, da una simile attrazione. Subito pensò che la sua speranza più grande poteva essere solo una: che se la forza di attrazione che Apollo esercitava su di lui era tale, la sua fosse equivalente. Perché così non solo non avrebbe dovuto pazientare, ma si sarebbe sentito anche meno solo nel provare quel turbinio di emozioni e sensazioni.
«Ascolta, so che è un po’ strano, forse…» cominciò Apollo.
«Chiedimi di uscire », pensò Giacinto. « Chiedimelo. Anche solo di continuare a parlare. Ti prego, ti prego, ti prego.»
«Ma ti andrebbe se ti offrissi un caffè?»
«Sì.»
Giacinto pensò che avrebbe potuto rispondere in quel modo altre cento volte per osservare il sorriso che sbocciò sul volto di Apollo.


«Quindi studi belle arti.»
«E tu medicina.»
E il loro primo caffè insieme era quella sottospecie di acqua acida erogata dalle macchinette vicino alla biblioteca del polo universitario. Cittadella comune per un po’ tutti i corsi e per fortuna, o non si sarebbero incontrati.
«Come mai questa scelta?» indagò Apollo.
Non c’era il peso di un giudizio nella sua voce, né le tracce di un tono inquisitorio. Solo genuina curiosità. A Giacinto piaceva che volesse sentirlo parlare di sé, così decise di accontentarlo anche se avrebbe potuto rispondergli rivolgendogli la stessa domanda, solo per ingorda conoscenza. Decise di aspettare il proprio turno, per questo.
«Disegnare è l’unica cosa che so fare», rispose. «E che credo mi interessi fare.»
«Lo dici come se non fosse un traguardo da molto.»
Ora il tono di Apollo sembrava volerlo rimproverare, le sopracciglia leggermente aggrottate in un’espressione severa.
«Lo dico perché sono di fronte a un uomo che potenzialmente salverà delle vite», ribatté Giacinto.
Apollo rise. Di gusto, perché erano lontani dalla biblioteca e poteva concedersi di farlo. Una risata profonda e melodiosa.
Giacinto rimase incantato.
«Io? Io salvo i corpi. Tu salvi l’anima. Potremmo dire che facciamo lavoro di squadra.»
Era la frase più bella che avesse mai sentito pronunciare sull’arte. Una verità assoluta. Capì che Apollo comprendeva l’arte come pochi, che aveva una sensibilità propria di pochi.
E che non gli sarebbe dispiaciuto fare gioco di squadra con lui.
«E poi credo che per tanti io stia barando.»
«Che intendi?» si riscosse Giacinto.
«La gente dice che ho un dono naturale. Non per vantarmi, ma sono un tirocinante alquanto brillante», spiegò. «Senza contare che a quanto pare ho un tocco miracoloso.»
«Davvero?»
«Davvero.»
«Dovrai farmelo provare una volta.»
Apollo indagò il suo viso. Potevano non aver chiarito cosa intendesse, ma non c’era malizia nell’espressione di sincera sorpresa sul volto di Giacinto. Dal canto suo contava solo che quella fosse una promessa di rivedersi.
«Stai dicendo che vuoi rivedermi?»
Dovette chiederlo. Impellente come l’aria.
Giacinto si era ripreso. Non che l’incantesimo sortito dalla comparsa di Apollo fosse stato sciolto, che nessun effetto legato alla sua presenza aleggiasse più intorno a lui, ma stava riuscendo a fargli vedere una parte più sincera di sé. Forse la più sincera, una porzione del proprio essere che mai aveva mostrato a nessuno.
Si sentiva legato a lui e a patto che quel legame ci fosse non gli interessava indagarlo o comprenderlo: ne percepiva i benefici e questo gli era sufficiente.
Dopo quelle parole tornarono a sorseggiare il loro caffè – o intruglio al caffè – in silenzio. Era la prima volta che lo bevevano da quando avevano cominciato a tenerlo in mano, le dita intorno alla plastica non toccata dal liquido per non ustionarsi. Era tiepido, quasi freddo: avevano parlato troppo prima di ricordarsi del pretesto che li aveva spinti a trascorrere del tempo insieme.
Se anche, davanti alla panchina, Apollo gli avesse chiesto di sedersi perché voleva soltanto parlargli, Giacinto non avrebbe rifiutato.
«Ecco dov’eri! Ti ho cercato dappertutto!»
Il brusio dell’ingresso, fra studenti che attendevano l’inizio delle lezioni e chi come loro beveva un caffè in compagnia, avrebbe coperto quell’esclamazione se solo non si fosse distinta in prorompenza; Giacinto si sarebbe sporto ugualmente per controllare cosa stesse succedendo. O forse no, perché non aveva occhi che per Apollo.
Questo solo perché non conosceva quella voce. Per Apollo era diverso.
Fu come uno schiaffo capace di riportarlo all’ordine.
Una ragazza lo affiancò in fretta. Era alta quasi come lui, dai lunghi capelli castani e occhi di un grigio penetrante. Se l’azzurro di Apollo era il cielo terso, quello della ragazza corrispondeva alla coperta lanuginosa delle nuvole in un giorno di pioggia.
Sembrava la copia femminile di Apollo, ma priva dello stesso fascino che il ragazzo esercitava su Giacinto.
«Ti sei scordato che ho bisogno di una mano? O stai solo facendo finta?»
Apollo alzò gli occhi al cielo, Giacinto sorrise certo che una spiegazione sarebbe arrivata.
«Giacinto, questa è mia sorella Artemide», cominciò. «Artemide, questo è Giacinto. E tu mi stai facendo fare una pessima figura.»
La ragazza sorrise a Giacinto, ma si voltò in fretta verso Apollo.
«E tu stai rovinando la tabella di marcia dei miei studi. Scusa se non siamo tutti geni come te», lo rimproverò.
«È colpa mia», cominciò Giacinto. «Temo che potrei averlo distratto.»
I suoi occhi indugiarono in quelli di Apollo mentre lo diceva e lui gli rispose con un sorriso furbo e al contempo sorpreso; Apollo aveva compreso il proprio ascendente su Giacinto, ma da quelle parole ebbe la sicurezza che Giacinto fosse conscio di averlo a propria volta.
Artemide fece guizzare la propria attenzione prima su Giacinto, poi su Apollo.
«Sta tranquillo. Se devo stabilire io di chi è la colpa e ti trovi contro Apollo, sappi che sarà sempre colpa di Apollo.»
Il ragazzo dai capelli biondi gettò il proprio bicchierino di caffè nel cestino e guardò Giacinto con espressione sofferente.
«Guarda cosa mi tocca sopportare», sembrava dire.
Giacinto si sorprese di essere riuscito a immaginarlo dare voce a quella frase, per giunta con il suo stesso tono di voce. Aveva come l’impressione che Apollo volesse trasmettergli proprio quel messaggio.
Si conoscevano davvero solo da un’ora?
La mano di Artemide si arpionò al polso del fratello.
«Salutalo adesso.»
Apollo si ritrovò ad essere trascinato via.
«Mi dispiace, il dovere mi chiama!» si giustificò Apollo fra le risate di Giacinto.
«Devi salvare qualcuno anche se in modo diverso da come insegna la medicina, io posso aspettare!»
No, non era vero. Sentiva come se parte dell’equilibrio perfetto raggiunto quel pomeriggio stesse tornando a sbilanciarsi. Sentiva il bisogno di parlare di quell’incontro, di gridare dalla gioia in un cuscino.
Quando vide Apollo venire inghiottito dalla biblioteca, ghermita di studenti a quell’ora, Giacinto gettò il proprio bicchiere ormai vuoto e camminò. Gli pareva di stare sulle nuvole, metri e metri sopra i comuni mortali in una bolla di gioia incorruttibile.
Solo una volta comodo sul sedile del treno lo realizzò.
Non gli aveva chiesto il numero.





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Ricompaio nelle note finali per ringraziare, di nuovo, stavolta chi è arrivato fino alla fine di questo primo capitolo.
Mi auguro davvero vi sia piaciuto e che vogliate dirmi cosa ne pensate!
Questo è il primo di sei capitoli, più o meno lunghi, che cercherò di pubblicare con una cadenza regolare (immagino circa una settimana) per non lasciar intercorrere troppo tempo tra uno e l’altro. Ho scelto di non dilungarmi troppo in questa storia, un po’ come esercizio: spesso tendo ad essere troppo prolissa e basandomi in questo caso su una storia già nota ho cercato di narrare l’essenziale, tentando di renderla piacevole per chi già conosce il mito originale, ma esaustiva per chi invece magari non ne sa nulla.
Anticipo che gli avvertimenti e il rating potrebbero subire delle lievi modifiche nel corso della pubblicazione, perché gli ultimi capitoli sono ancora in fase di stesura.
Sfrutto questo spazio per fare un po’ di pubblicità alla ragione per cui mi sono imbarcata in quest’impresa. Come accennavo nelle note iniziali mi piace la mitologia greca, ma ho avuto poche occasioni per approfondirla. Non conoscevo il mito di Giacinto – o forse lo conoscevo e non ne ricordavo l’esistenza. La ragione per cui ho scelto di approfondirlo e scriverci dandone una mia versione è stato un fumetto di Martina Masaya, intitolato appunto “Giacinto”. Mi ha colpita molto ed è una lettura che vi consiglio davvero!
Altro ringraziamento doveroso è quello a tutte le persone che mi hanno sopportata, a Rika che mi ha spronata a postare nonostante volessi attendere di concludere l'intera storia e ai miei amici che si sono sorbiti le mie paturnie per timore che non uscisse nulla di originale.
Mi farebbe davvero piacere ascoltare le vostre opinioni, prima del prossimo capitolo <3
Per chiunque voglia seguire questa storia, vi ringrazio ancora.
Alla prossima!

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Capitolo 2
*** Apollo ***


II.
Apollo




Non gli aveva chiesto il numero.
Era questo il cruccio di Apollo.
Non aveva chiesto il numero a Giacinto e tutto per colpa di Artemide e della sua delicatezza. Lo aveva trascinato via e Apollo, tanto concentrato sullo scusarsi e sullo scegliere una battuta ad effetto con cui far calare il sipario sulla propria dipartita, non gli aveva chiesto il numero.
Se ne era reso conto sulla soglia della biblioteca, ma quando era riuscito a piantare in asso la sorella per cinque minuti in modo da correre al piano di sotto a controllare se Giacinto fosse ancora lì, facendo i gradini a quattro a quattro, aveva scoperto che il ragazzo se n’era già andato.
Sconforto. Ecco la sensazione che l’aveva assalito.
Apollo era un tipo ottimista, sicuro di sé. Avrebbe anche potuto incontrare nuovamente Giacinto, magari sulla stessa panchina dove lo aveva conosciuto. Sarebbe di certo accaduto se anche Giacinto avesse voluto che questo fosse il loro destino.
Apollo era ottimista, sicuro di sé. Ma era anche un grande attore e fare una tragedia dell’accaduto, incolpando la gemella e frignando sul tavolo della biblioteca era certo da lui.
Senza ombra di dubbio.
E l’aveva fatto.
Poco importava che Artemide lo stesse minacciando con il tomo di Farmacologia.
«Un colpo ben assestato in testa per farti rinsavire», aveva detto.
Apollo non era certo di voler declinare l’offerta, non in quel momento. In quel momento, per la prima volta nella vita, si reputava abbastanza stupido e si disprezzava per tutte le volte in cui, da adolescente, si era differenziato dai suoi coetanei per un’autostima sopra la media. Stava pagando per tutte quelle sofferenze risparmiate e oltre. 
Aveva sentito un legame speciale con quel ragazzo sconosciuto dal primo momento in cui gli aveva rivolto la parola. Avrebbe mentito dicendo che lo aveva percepito da subito e che solo per questo gli aveva parlato: era la sua bellezza ciò che lo aveva colpito e per fortuna che per una volta stava guardando qualcosa che non fosse la fiera strada che stava percorrendo. Troppe coincidenze.
«Apollo.»
Eppure quelle coincidenze non gli dispiacevano, così come non gli dispiaceva l’idea di essere rimasto tanto colpito da una persona che conosceva a malapena. Era come se quel poco che aveva conosciuto e intravisto gli fosse stato sufficiente a fare grandi scommesse sul futuro.
«Apollo?»
«Sì, mi scusi», rispose in automatico quando si accorse finalmente di qualcuno che lo chiamava.
Le coincidenze non gli dispiacevano, essere disturbato mentre pensava a Giacinto invece sì. Perché tutti sembravano mettersi d’accordo pur di ostacolarlo quando si dedicava a qualcosa che lo riguardava? Sua sorella il giorno prima mentre ci parlava, il caporeparto dell’ospedale durante il suo tirocinio.
Non che fosse molto legittimo sperare di non essere interpellato mentre veniva istruito a non avvelenare i propri pazienti per negligenza.
«In base alla diagnosi, che cura dovremmo somministrare alla paziente?»
Se si fosse trovato insieme al gruppo di tirocinanti che inseguivano come dei cuccioli il capobranco avrebbe anche potuto continuare a sognare ad occhi aperti: ci sarebbero state almeno tre o quattro mani alzate prima ancora che fosse lui ad essere interpellato: tutti facevano a gara per dimostrarsi migliori di lui. Ma invece era solo, perché “abbastanza brillante da poter seguire degli insegnamenti speciali e intensivi”. Testuali parole del dottore di fronte a lui. I pensieri su Giacinto erano durati poco più di un paio di minuti, in cui il medico aveva conversato con la signora seduta sul letto dandogli il giusto tempo per perdersi nei suoi pensieri. Ma Apollo conosceva la diagnosi.
«Consiglierei un antiemetico, prima di tutto», rispose distratto.
«Ottimo lavoro, come sempre.»
I complimenti erano diventati una piacevole routine che ormai gli scivolava addosso come l’olio. Era bravo e lo sapeva, non c’era quasi bisogno glielo ripetessero, per quanto le frasi «Complimenti, Apollo» e «Wow, sei davvero bravo, Apollo!» non invecchiassero mai.
Naturalmente portato per la medicina, ecco cos’era. Portato per quella disciplina così come lo era per molte altre arti e passatempi. Un po’ come Giacinto era portato per l’arte. Avrebbe voluto approfondire la questione con lui, il giorno prima, ma non ne aveva avuto il tempo. Più ci ripensava, più diventava nervoso.
Mentre usciva dalla stanza si ritrovò a chiedersi come sarebbe stato ricevere dei complimenti da Giacinto. Che riguardassero il suo lavoro, i suoi studi, il suo aspetto, qualsiasi cosa, sarebbero suonati come una fresca carezza di novità. Non lo avrebbero stancato.
Ma non poteva riceverli.
Non aveva il suo numero, maledizione.


Per una volta ad Apollo non andava di eccellere. Tradotto: non gli andava di studiare.
Era qualcosa che faceva senza peso di norma, gli riusciva così bene e con tanta facilità da spingerlo a non preoccuparsene neanche, a farlo e basta: più studiava e più in fretta avrebbe portato a termine la propria carriera universitaria, questo pensava.
Quel giorno però era troppo distratto: pensava ancora a Giacinto, a come avrebbe potuto fare per incontrarlo ancora e beh, per la verità recarsi in biblioteca era la scelta a suo avviso migliore.
Magari lo avrebbe trovato lungo la strada e se ci fosse riuscito avrebbe pur sempre potuto dire che era stato tutto merito di un nobile scopo come lo studio.
Se le cose non fossero andate così bene, magari sarebbe riuscito a concentrarsi su qualcosa che non fosse quel ragazzo, i suoi riccioli, le due pozze verdi che aveva al posto degli occhi e il labbro arrossato per i denti che lo stringevano mentre disegnava.
Calmati.
Se lo disse mentalmente.
Quando Apollo aveva degli interessi amorosi – e ne aveva avuti nella vita –, di solito non era mai quello più coinvolto. Non era di sicuro il tipo di ragazzo che tentava di conquistare qualcuno come se fosse uno sport o una sfida, non era così poco rispettoso: le persone non erano oggetti o trastulli e lui lo sapeva. Sua sorella Artemide sosteneva che non aveva mai trovato la persona giusta.
Era possibile avesse percepito a pelle che Giacinto poteva esserlo, quella persona giusta?
Si chiese se tutte quelle sciocchezze su un bimbo alato e grassottello che si aggira con la faretra piena di frecce dalla punta a forma di cuore non fossero vere, se sulla sua schiena non ci fosse piantata una grossa frecciona che lo aveva spinto a prendersi una bella sbandata per Giacinto.
Non gli importava.
Perché per il momento quelle farfalle nello stomaco, anche lo struggimento per non avere il suo numero, lo facevano sentire bene. Vivo. Si sarebbe sentito così anche con qualche ora in meno di sonno sulle spalle alle sei del mattino, orario in cui puntava la sveglia, dopo aver speso la notte intera a pensare a lui.
Con quei pensieri Apollo spinse la porta che conduceva all’atrio dell’edificio in cui si trovava la biblioteca. Guardò per un istante l’angolo con le macchinette del caffè, dove il giorno prima aveva conversato con Giacinto: di lui nessuna traccia.
Tragedia, struggimento.
Cominciò a salire le sfarzose scale di marmo che conducevano al piano superiore, alla biblioteca.
Apollo era corso lì dall’ospedale universitario, sperando con tutto sé stesso di trovare Giacinto lungo la strada. Aveva camminato così di gran carriera da impiegare molto meno tempo del solito, quando la sua sicurezza nelle vesti di scintillante sorriso garantiva a chiunque fosse con lui che sarebbero potuti arrivare quando volevano e che tanto, in biblioteca, un posto a sedere lo avrebbero trovato.
Una volta entrato, Apollo si guardò intorno.
Non c’erano poi così tanti studenti ad occupare i tavoli rettangolari disposti fra gli scaffali, tre sedie per ciascun lato.
Si sarebbe potuto sedere dove voleva: accanto alla porta, vicino alla finestra, protetto da una delle imponenti librerie o schiacciato dalla sua torreggiante altezza, nella speranza che il percepire l’incombere della conoscenza su di lui lo spronasse a studiare. Avrebbe potuto fare ciò che voleva, ma quello che scelse di fare Apollo fu rimanere fermo sul posto, gli occhi intenti a scorrere vigili sulle teste dei presenti.
Lui, ecco, non si aspettava qualcosa.
La speranza che nutriva nel cuore era quella rassegnata che provi come ultima spiaggia, per non demordere e non rassegnarti. Sai che non si avvererà mai, ma ti illudi ugualmente per procedere fino a quel momento e da quello in poi trovare un’altra motivazione che ti spinga a muoverti.
Stava già pensando a qualche frase da ripetersi a mente per consolarsi quando i suoi occhi si incepparono su una nuvola di capelli ricci che cadeva a cascata intorno al volto di un ragazzo chino su un album da disegno. Aveva il labbro stretto fra i denti.
«Giacinto!»
Grazie al cielo lo urlò solo nella propria testa, o già immaginava la bibliotecaria pronta a fulminarlo e poi a sbatterlo fuori dalla porta.
Si avvicinò al suo tavolo, perché era ovvio dove si sarebbe seduto anche se, man mano che copriva quella distanza, si rese conto del perché nessuno fosse sistemato accanto al ragazzo: seduto sulla sedia al centro, Giacinto aveva monopolizzato il tavolo, distribuendo su tutto il proprio lato matite, carboncini, pastelli e persino una tavolozza di acquerelli.
Apollo arrivò al suo fianco e sorrise.
«Guarda chi si vede.»
Il tono era entusiasta ma pacato, basso perché nessuno potesse lamentarsi del suo saluto.
Come il giorno prima, Apollo vide Giacinto alzare il capo, l’espressione sorpresa e il labbro inferiore che veniva lasciato dai denti.
«Apollo!»
Il ragazzo non si curò come lui di trattenere l’entusiasmo e nemmeno parve accennare a coprirsi le labbra in un gesto fatto per dissimulare l’accaduto.
La ragazza dall’altro capo del tavolo, Atena – Apollo la conosceva, era una sua compagna di corso sopravvissuta alla mietitura dei primi anni –, si schiarì la voce. Servì come monito per ricordare loro dove si trovavano.
Dopo aver scelto di ignorarla senza troppi scrupoli, Apollo si chiese se la scelta migliore in quel momento non fosse domandare subito a Giacinto il suo numero di telefono. Così, per non scordarsene in preda all’euforia, per essere certo di averlo e placare i crucci della notte quasi insonne.
«Oh… vuoi sederti?» chiese il ragazzo, raccogliendo le proprie cose e facendole da parte quel tanto che bastava per lasciare ad Apollo una bella fetta di tavolo.
Apollo lo ringraziò e si sedette.
«Non pensavo di trovarti qui», gli disse. «Ci speravo però. Ieri non ti ho salutato come avrei voluto.»
Giacinto gli rivolse un bel sorriso incastonato dalle labbra carnose.
«Avrei voluto fermarmi a chiacchierare molto di più anche io», rispose. «Ho pensato che se fossi stato nei dintorni, oggi, magari avremmo avuto occasione di vederci.»
Apollo era lusingato, perché l’oggetto di tutti i suoi pensieri era lì, accanto a lui, con un sorriso radioso fatto su misura per lui. E si era fermato lì sperando di rivederlo, proprio come aveva fatto lui.
Doveva essere un sogno, o forse la sua proverbiale fortuna non era solo un mito creato dagli invidiosi – e da sua sorella – per giustificare che la dea bendata lo baciasse un po’ troppo spesso.
«Anche io speravo di rivederti. Ho controllato sia la panchina dove ti ho trovato ieri che l’angolo delle macchinette del caffè, al piano di sotto.»
Se erano così intenzionati e speranzosi di vedersi entrambi, allora non doveva avere vergogna nel rivelare quei retroscena. Giacinto non lo avrebbe trovato esagerato.
«Davvero?» chiese il ragazzo. «Anche io ho controllato le macchinette prima di salire.»
Era normale che lo credesse sulla propria stessa lunghezza d’onda per quelle inezie?
Il suo cervello continuava a pensare. Chiedigli il numero, chiedigli il numero.
«Ascolta…»
«Oh santo cielo, volete piantarla?!»
Atena, la rivale di Apollo al corso di medicina, l’acerrima nemica che prendeva la vita in modo troppo serio, aveva parlato.
«Se dovete chiacchierare potete farlo fuori da qui. Se non lo sapeste è una biblioteca, c’è gente che sta cercando di studiare!»
Giacinto si era stretto nelle spalle, realizzando che si era meritato in tutto e per tutto quel rimprovero. Apollo, invece, non stava facendo altro che fissare Atena con aria di sufficienza, il gomito puntellato sul tavolo e il palmo della mano sotto il mento.
«Ti verranno le rughe da giovane se ti arrabbi così per ogni sciocchezza.»
Si stava immaginando il tic all’occhio di Atena, che non rispondeva probabilmente solo per evitare di insultarlo? E sarebbe stato peggiore se le avesse ricordato che in graduatoria l’avrebbe battuta, che studiasse tanto in biblioteca o no?
Apollo si voltò verso Giacinto e si sporse verso di lui. Voleva parlargli all’orecchio, o abbastanza vicino al viso da non disturbare. In realtà era una scusa per riuscire ad annusare il suo profumo.
Sapeva di vaniglia, di una dolcezza tale da ricordare un nettare divino.
«Perché non continuiamo questa discussione stasera?» gli chiese. «Se ti va di venire a cena con me.»
Giacinto sgranò gli occhi, sorpreso. Apollo amava le sue reazioni. Giurò di aver sentito il cuore del ragazzo battere più forte, ma forse era il suo.
Aveva lo sguardo di chi voleva dire mille cose, Giacinto, ma alla fine si limitò ad annuire energicamente, per non guadagnarsi altro odio dal fronte opposto del tavolo.
Si voltò verso il proprio sketchbook e recuperò la matita che stava già usando. Scrisse su un angolo il proprio numero di telefono e fece per staccare tutto il foglio. Apollo portò la mano sulla sua.
Atena scoccò un’occhiata di fuoco in sua direzione, vedendolo sul punto di parlare, le labbra appena aperte.
Sollevò l’indice e fece cenno a Giacinto di attendere.
Non che il ragazzo potesse fare molto, come se fosse facile muoversi: le mani di entrambi avevano percepito una scossa toccandosi.
Apollo trovò in fretta e furia un pezzo di carta nello zaino, poi fece cenno a Giacinto di prestargli la matita.
Scrisse il proprio numero, poi gli passò il foglio.
«Perché non mi fai un bel disegno finché siamo qui?»
Ancora quella luce negli occhi. Quella che sembrava dire che solo Apollo riusciva a farlo sentire apprezzato come davvero aveva bisogno, quella che scaldava il cuore del biondo fin quasi a bruciarlo. Annuì ancora. Di nuovo quel sorriso mozzafiato sul volto. Possibile fosse tanto bello?
Giacinto tornò chino sul blocco da disegno dove, senza attendere un istante, iniziava a tracciare delle linee sicure con la grafite della matita.
Apollo si chiese come avrebbe fatto a studiare il tomo di chirurgia con Giacinto accanto e il suo sguardo che non riusciva a resistere alla tentazione di guardarlo quasi ogni istante. Era una droga di cui non poteva fare a meno.
La sua presenza in qualche modo però lo faceva sentire più tranquillo e gli permise di concentrarsi, non senza che i suoi occhi indugiassero su di lui più a lungo di quanto fosse conveniente.
Apollo non si rese nemmeno conto del tempo e dopo aver perso il conto delle pagine lette e dei secondi vide Giacinto raccattare le proprie cose. Sul tavolo solamente un disegno, quello di una pianta di giacinti rossi acquerellata e illuminata dal tramonto.
Apollo si chiese se la muta richiesta di quel disegno fosse che pensasse a lui, perché avrebbe voluto dirgli che avrebbe continuato ininterrottamente senza dover guardare un dipinto.
Sopra c’era un bigliettino. Giacinto spinse entrambi i fogli verso di lui e gli sorrise.
«Questo è il mio indirizzo. Ti aspetto alle otto.»
Sotto l’indirizzo c’era anche una serie di cifre.
Lo sguardo che gli lanciò prima di andarsene sembrava dirgli una sola cosa: «sorprendimi».
Apollo non aspettava altro che quell’occasione.




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Dopo una lunga attesa eccomi qui con il secondo capitolo!
Un po' di passaggio, ma comunque necessario per gli sviluppi che la storia riserverà a questi due.
Come sempre ringrazio chiunque abbia letto fino a qui: mi auguro vorrete dirmi cosa ne pensate!
Alla prossima ~

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Capitolo 3
*** Apollo e Giacinto ***


III.
Apollo e Giacinto




«Non va bene neanche questo!»
Giacinto gettò l’ennesima maglia sul letto, rimanendo a torso nudo di fronte lo specchio ovale della sua stanza. Sul materasso l’unica cosa ordinata era sua sorella Polybea, sdraiata a pancia in giù accanto un cumulo di vestiti stropicciati come le lenzuola del letto che Giacinto non aveva rifatto pur essendo ormai tarda sera.
Erano le mansioni che odiava, quelle: perché rifare il letto se tanto la sera sarebbe tornato a disfarlo aggrovigliandosi con le lenzuola?
Giacinto non credeva avrebbe mai sperimentato l’orribile sensazione di non avere nulla da mettersi pur avendo molteplici capi fra cui scegliere in armadio. Non era trasandato, ma aveva uno stile con cui si sentiva a proprio agio e che gli permetteva di scegliere i vestiti dal guardaroba cinque minuti prima di scendere per fare colazione, o in generale di uscire. Una di quelle persone che riesce ad essere impeccabile anche con il primo straccetto trovato in fondo al guardaroba.
Adesso, invece, si sentiva tradito: tradito da sé stesso, che si era fatto cogliere impreparato in un momento tanto inopportuno e critico, e tradito da tutti gli abbinamenti che negli anni aveva costruito con tanta dedizione e impegno.
Polybea sorrise intenerita.
«Deve proprio piacerti, quell’Apollo.»
Giacinto non rispose. Non perché non volesse farlo, ma perché era così assorto da non averla nemmeno sentita.
«Forse il problema sono i jeans», sbottò improvvisamente il ragazzo, fissando gli skinny neri che indossava.
Con le mani sulla patta per sfilarli e cambiarsi udì la voce di sua sorella, questa volta troppo decisa per passare inosservata.
«Per l’amor del cielo no, basta!» esclamò in preda all’esasperazione.
Aveva rischiato di essere colpita in faccia da più e più magliette e anche da dei pantaloni, all’inizio. Senza contare che facevano di gran lunga più male, voleva evitare di far ritornare il fratello sui suoi passi.
Scese dal materasso e lo raggiunse, affacciandosi all’armadio.
«Abbiamo passato mezz’ora sui pantaloni, non ho intenzione di vederti arrivare in ritardo perché non sai scegliere.»
Così tirò fuori una gruccia a cui se ne stava appesa una camicia bianca, che così fluttuante aveva quasi la parvenza di un fantasma. Poi fissò un giacchino di jeans e provò ad accostarli: perfetto.
«E con questo sei pronto.»
«Ma…»
Giacinto avrebbe provato a ribattere. Polybea era una ragazza dolce e altruista, ma a tutto c’era un limite e non era il caso di farla spazientire troppo.
Non per niente suo fratello si era beccato un’occhiata di fuoco e uno dei peluche di Giacinto in piena faccia, nel corridoio, quando si era fermato a sbeffeggiare il suo fratellino presumibilmente innamorato.
Giacinto si rivestì sotto lo sguardo inquisitore della sorella, che lo avrebbe tenuto d’occhio fino a poco prima che uscisse per accertarsi che in un momento di debolezza non tentasse di cambiare di nuovo gli abiti che aveva indosso.
Sistemato il giacchino di jeans sulle spalle, Giacinto si guardò riflesso nello specchio, il volto della sorella affacciato sulla sua spalla.
«Sai, credo che Apollo mi piaccia davvero tanto», confessò Giacinto con un filo di voce.
Esitò, poi guardò il volto di Polybea nello specchio.
«Sono certa che farai colpo», lo rassicurò.
Giacinto ancora non aveva detto molto di Apollo. O meglio, forse aveva detto così tante cose da rendere fin troppo difficile seguirlo e ricordarle tutte, così era stato come se non avesse parlato: aveva descritto la sua fluente chioma dorata, le labbra cesellate e il fisico che almeno attraverso i vestiti gli era parso statuario. Un’attenzione al dettaglio che rasentava il maniacale e che solo un’artista poteva vantare. Se c’era una cosa che non aveva detto, fra le tante e dopo aver addirittura azzardato un «potrebbe fare il modello invece di studiare medicina!» era che Apollo sembrava in tutto e per tutto la misteriosa musa ispiratrice che ritraeva con costanza nei propri disegni
«Ah.» Polybea lo riscosse dai propri pensieri. «Dai un’occhiata al telefono, più tardi. È sepolto da qualche parte sotto tutti i vestiti che hai provato e non la finiva di vibrare, ma tu eri troppo occupato.»
Si scambiarono uno sguardo, le sopracciglia di Giacinto aggrottate in un lieve moto di apprensione.
«Non pensare a lui adesso», gli raccomandò Polybea. «Può aspettare!»
Quelle parole furono come un soffio di vento che spazzò via le nubi che avevano incupito per un istante lo sguardo di Giacinto.
«Hai ragione.»
 

Quando il campanello suonò, dilagò il caos.
Giacinto squittì, Polybea quasi urlò e corsero al piano di sotto.
Giacinto si pentì di non aver organizzato una strategia di battaglia sull’atteggiamento da tenere. Non c’era una formazione, uno schema, nulla! Un’azione semplice come raggiungere la porta e aprirla gli parve fin troppo complicata, senza contare che sua sorella improvvisamente non sapeva più quale fosse la collocazione migliore per sé: non sapeva se accompagnarlo o se attendere che fosse eventualmente lui a proporre ad Apollo le dovute presentazioni. L’unico che non creava problemi era Cinorta, troppo assorto nella propria partita ai videogame per potersi preoccupare tanto per l’appuntamento di Giacinto.
Riuscì a segregare Polybea in cucina, poi raggiunse la porta d’ingresso e l’aprì, quasi trafelato pur avendo appena compiuto un tragitto di un esiguo quantitativo di metri, dalla cucina all’ingresso. Gli pareva di aver impiegato troppo tempo, di essere in ritardo con tutto, anche con i pensieri, ma erano trascorsi appena pochi secondi.
«Ciao!»
Ci aveva messo troppo entusiasmo e la sua voce era esplosa come un fuoco d’artificio dritta in faccia ad Apollo, che sbatté le ciglia bionde, confuso nell’essere travolto da tanta euforia. Non parve dispiacergli però, perché si sciolse in un sorriso.
«Ciao», rispose.
Quando la porta si era aperta nella casa era entrata una ventata di profumo che per qualche ragione a Giacinto ricordava l’ambra. Forse perché aveva annusato qualche profumo con quel nome al centro commerciale e sentirlo su Apollo gliene aveva ricordato il nome, o forse ancora perché la pelle dorata del ragazzo riluceva caramellata sotto la luce del patio, proprio come una goccia d’ambra incaricata di custodire chissà quale tesoro.
Avrebbe dovuto fargli presente che era illegale con le magliette bianche a fasciare la muscolatura e a chiedere di guardare la pelle abbronzata, ben più invitante.
«Stai molto bene.»
Lo dissero all’unisono e Giacinto arrossì appena.
«Grazie.»
Di nuovo un coro.
Alla fine Giacinto rise, perché non avrebbe saputo cos’altro fare e Apollo si unì a lui.
Era un bravo cavaliere, Apollo, aveva avuto diversi appuntamenti e sapeva come comportarsi. Giacinto faceva crollare tutte le sue convinzioni ed esperienze. Per la verità era convinto che anche il ragazzo sarebbe stato più spigliato: dopo aver visto la sua sfacciataggine velata di timidezza credeva che la vergogna non gli fosse propria in nessun modo. Eppure scoprire dell’imbarazzo non gli dispiacque. Lo trovava carino.
«Ho portato dei pasticcini. Per i tuoi fratelli», disse. «Di solito chi porta dolci come dono di presentazione non viene visto come una minaccia.»
Giacinto rise e prese il vassoio in mano, facendosi da parte per lasciarlo entrare.
«Grazie per essertene ricordato, ma loro…»
Avrebbe voluto dire che non provavano alcun astio nei suoi confronti, nessun timore da fratelli maggiori nei confronti del nuovo possibile spasimante del minore della triade.
Gli parve improvvisamente una frase poco credibile, per il modo in cui Polybea e Cinorta si erano materializzati accanto alle scale, ostruendo l’ingresso alla cucina. Giacinto non aveva notato da quanto fossero lì. La sua mente elaborò, costruì l’idea che fossero apparsi nel momento in cui Apollo li aveva nominati e questo rese il tutto ancora più inquietante.
Gettò uno sguardo al ragazzo e si accorse che sembrava perfettamente a suo agio.
«Ciao! Io sono Apollo.»
Il carisma travolgente che aveva mostrato con Giacinto parve investire in pieno sia Polybea che Cinorta. Sembravano anche sorpresi, sbalorditi.
«Ehi, sembr-!»
Polybea per poco non lo uccise con uno sguardo. Apollo era confuso e Giacinto in imbarazzo.
La prima a porgergli la mano fu la sorella.
Dopo le dovute presentazioni, l’atmosfera sembrava più calma.
L’unico che pareva covare una sorta di risentimento con gli occhi era Cinorta, quasi come se fosse un animale messo nell’angolo da un nuovo arrivato dalle qualità più forti delle sue. E forse perché a causa sua si era messo in imbarazzo.
«Allora noi andiamo», annunciò infine Giacinto, che nonostante la situazione si fosse sgravata dell’iniziale tensione non smaniava all’idea di rimanere lì a lungo: troppo imbarazzo.
«Divertitevi!» li esortò Polybea.
«Ve lo riporto presto», li rassicurò Apollo, strizzando l’occhio.
Sembrava esattamente la frase peggiore da dire per rassicurare qualcuno: ricordava la preoccupazione da far scordare. Eppure con la voce di Apollo sembrava una promessa solenne.
Polybea era stata cortese, ma non si lasciò ingannare.
«Sarà meglio.»
Apollo parve stupito nel non aver fatto breccia, ma Giacinto gli afferrò la mano e trascinò il ragazzo fuori di casa prima di accorgersene e lasciare che lui metabolizzasse la minaccia della sorella. Una volta fuori sospirò di sollievo.
Non si vergognava dei suoi fratelli, ma non aveva un appuntamento da una vita.
«Sembrano simpatici», constatò Apollo, ma in realtà lo aveva detto a mezza voce, perché la sua attenzione era tutta per le dita di Giacinto intorno alle sue.
«Oh, lo sono!» rispose. «Solo che è stata una scena…»
«Mistica, oserei dire.»
Apollo gli rubò le parole di bocca.
Scoppiarono a ridere sotto la tettoia di casa sua.
«Sai, un po’ mi dispiace dover fare il tragitto in macchina», mormorò Apollo, guidando Giacinto verso la propria auto.
Era una macchina decapottabile rosso fiammante. Nel vederla Giacinto pensò subito che si addicesse perfettamente ad Apollo. Non si sbilanciò: voleva indagare.
«Come mai?» domandò Giacinto.
Apollo si chinò vicino al suo orecchio.
«Mi dispiace l’idea di lasciarti la mano.»
Giacinto divenne più rosso della carrozzeria fiammante dell’auto di Apollo.
 

Se qualcuno avesse detto ad Apollo che un locale modesto per un primo appuntamento era una scelta avventata, che serviva impressionare con cene in ristoranti la cui fama grandiosa era inversamente proporzionale alla dimensione delle porzioni portate ai tavoli, avrebbe riso.
Così, senza pensarci troppo. Avrebbe piantato i piedi per terra e avrebbe riso in faccia a chiunque si reputasse tanto intelligente da credere che il suo primo appuntamento in una tavola calda sarebbe stato un fallimento.
Lui e Giacinto avevano appena finito i loro hamburger accompagnati da niente di meno che aranciata e coca. Tutto modesto, ma non perché Apollo fosse tirchio: quella tavola calda era a tema. I muri erano tappezzati di quadri – ovviamente falsi, o due hamburger sarebbero costati ad Apollo un occhio della testa – e le pareti stesse erano quadri: su un muro c’era Notte stellata di Van Gogh, su un altro I papaveri di Claude Monet. L’accostamento di colori era azzardato, eccentrico, ma in un clima che trasudava arte sembrava tutto perfetto.
Su ogni tavolo c’era un vaso con dentro dei girasoli di carta. Sia anfora che fiori erano dipinti con delle pennellate che ancora una volta ricordavano quelle spiraleggianti e grezze di Van Gogh e accompagnavano le tovagliette americane disposte sul tavolo. Anche quelle erano coperte di pennellate, ma non creavano alcuna immagine particolare.
«Conoscevi già questo posto o l’hai trovato per l’occasione?»
«Me ne avevano parlato, ma non ero mai riuscito a venirci», rispose. «Un po’ un azzardo, ma non mi pare sia andata a finire male, no?»
Giacinto si guardava ancora intorno estasiato. Era tornato dal bagno da cinque minuti e ancora doveva smaltire l’entusiasmo di aver trovato quadri anche lì. Quadri che per giunta erano costati ad Apollo una lezione di storia dell’arte abbastanza approfondita, ma se l’era cercata: era stato lui a chiedere a Giacinto di parlargliene, di sfoggiare le conoscenze che l’Accademia di belle Arti gli aveva fornito.
Anche se Apollo amava il suono della propria voce e adorava essere ascoltato invece di ascoltare, con Giacinto era tutta un’altra storia: avrebbe potuto bearsi della sua voce vellutata per ore, rimanendo in silenzio senza interromperlo un solo istante. E contro ogni aspettativa se qualcuno gli avesse chiesto cosa Giacinto avesse detto, Apollo sarebbe stato in grado di recitare il suo discorso da cima a fondo, citando virgole e pause. Avrebbe rubato i pensieri di Giacinto e li avrebbe ripetuti con le proprie labbra. Se c’era una cosa che era sicuro non sarebbe riuscito a far trasparire, era l’emozione.
«Sai», cominciò Apollo, la cameriera – con un grembiule scenicamente sporco di tempera – che adagiava al centro del tavolo il frappè che avrebbero diviso; peccato ci fossero due cannucce: avrebbe voluto sapere cosa ne pensava Giacinto dei baci indiretti. «Hai un modo particolare di parlare degli argomenti che ti appassionano. Ti si illuminano gli occhi e sembra che tu non voglia nemmeno darti il tempo di prendere fiato.»
Giacinto non si aspettava un complimento simile proprio in quel momento. Non se lo aspettava, ma non ne fu per nulla dispiaciuto: si trovava bene con Apollo. Si trovava maledettamente bene con Apollo e scoprire di aver guadagnato dei punti straparlando d’arte non poteva che renderlo felice. E questo per due motivi: il primo, che essersi rintanato contro lo schienale dopo aver realizzato di aver blaterato per svariati minuti, forse annoiando Apollo, era stato un timore infondato; e il secondo, cioè che Apollo lo aveva ascoltato sul serio.
Si era accorto di cosa provava, lo aveva visto per davvero. Aveva sentito. Non come le persone che ti ascoltano con mezzo orecchio perché non vedono l’ora di parlare di sé; Apollo era sinceramente interessato a lui e Giacinto non poteva esserne più felice.
Si chiedeva, Giacinto, se Apollo avesse notato anche il nervosismo che provava nel parlare delle sue passioni proprio a lui. Si chiedeva se si fosse reso conto di quanto gli piacesse, seppure al primo appuntamento, seppure dopo essersi incontrati appena due volte al campus. Si chiedeva se si fosse reso conto che si era innamorato di lui a prima vista e che pendeva dalle sue labbra in ogni istante.
«Io… sono felice che tu la pensi così», rispose Giacinto, costruendo la frase a fatica.
Quel periodo era accettabile o aveva detto sciocchezze?
Si sporse verso la cannuccia che pendeva verso di lui dal bicchiere di frappè e bevette un paio di sorsi. Anche Apollo si avvicinò e Giacinto desiderò per un istante che quel bicchiere, in mezzo, non ci fosse proprio. E nemmeno le cannucce.
Solo le loro labbra.
Doveva smetterla se non voleva diventare paonazzo.
Apollo si allontanò dal bicchiere e si leccò le labbra con la punta della lingua.
«Sono sincero», rincarò la dose Apollo. «Sono davvero felice di essere venuto a cena qui con te, Giacinto.»
Gli occhi di Giacinto guizzarono dal bicchiere – su cui si erano fossilizzati – ad Apollo. Continuò a bere non per ingordigia, ma per calmarsi. Poi si allontanò e sorrise.
Era felice di essere andato a cena con lui.
«Anche io ne sono felice», gli rispose, un sorriso sincero sulle labbra. «Credo sia stato il miglior primo appuntamento della mia vita.»
Apollo sentì un tuffo nel petto, il cuore inghiottito da una voragine da cui dubitava sarebbe riemerso.
Non era ancora abituato a non riuscire a dare per scontato che il suo bell’aspetto e l’atteggiamento fascinoso lo rendessero piacente a tutti.
Pensò a sua sorella Artemide, senza una ragione, immaginandola intenta a sbeffeggiarlo saltellandogli intorno intonando una cantilena che recitava «sei innamorato, sei innamorato!»
Fra i due era lui quello abbastanza infantile da farlo e forse lo stava immaginando proprio come penitenza.
Ma era una penitenza se si trattava della verità?
«Per fortuna mi hai confermato che ti stai trovando bene di tua spontanea volontà…» si rilassò Apollo. «Saprò anche leggere la mano, ma ancora non riesco a leggere nella mente.»
Quando ci si avvicinava ai sentimenti, alle rivelazioni nascoste, Giacinto si rifugiava nell’imbarazzo, da cui non riusciva a liberarsi. Per questo si appigliò con tante energie a quella piccola chicca sul conto di Apollo, su quel dettaglio che aveva appena scoperto.
E per quanto ogni informazione sul conto di Apollo fosse una novità, Giacinto proprio non riusciva ad abbandonare la convinzione di sentirlo vicino, in qualche modo, di sentirsi come se si conoscessero da una vita. Apollo era entrato nella sua vita e aveva segnato un cambiamento brusco e improvviso, ma dolce nel suo essere necessario. A Giacinto sembrava incredibile come voltandosi da passato a presente la sensazione fosse quella di avere un intero mondo nuovo da scoprire. Eppure quel mondo da scoprire, Giacinto lo faceva sentire a suo agio. Come se ci avesse già abitato. Come se Apollo fosse il suo porto sicuro e, per quanto gli fosse stato sottratto fino ad allora, si appartenessero di diritto a vicenda. Doveva tornare da lui.
Si sarebbe nascosto nel silenzio anche scoprendo che Apollo pensava le stesse cose, troppo spaventato dall’intensità delle proprie emozioni.
«Sai leggere la mano?» chiese di punto in bianco Giacinto, dopo quel breve attimo di silenzio, sapendo che se non si fosse concentrato su un discorso frivolo la sua parlantina durata per tutta la sera si sarebbe esaurita e proprio perché si rendeva finalmente conto di quanto fosse stato bene con il biondo.
Apollo parve sorpreso, quasi come se non riuscisse a capire da dove Giacinto avesse tirato fuori quella la domanda. Soppesava spesso le proprie parole per impressionare, lui, ma non era quello il caso: nemmeno aveva scelto di mettere a parte Giacinto di quel piccolo segreto, gli era solo sembrato spontaneo raccontarglielo. Per una volta non si stava vantando, non stava cercando di rendersi il più bravo: era solo sé stesso.
«Mi destreggio», rispose Apollo, un sorriso soddisfatto sul volto. «Vuoi provare?»
Era una scusa la sua, adesso. Era una scusa e lo si capiva dal sorriso sornione in cui erano scolpite le sue labbra. Perché ora Apollo l’aveva, una ragione: aveva l’occasione perfetta per toccare Giacinto, per saggiare la sua pelle anche se solo con le dita.
Senza dire una parola, il ragazzo di fronte a lui sistemò l’avambraccio sul tavolo, adagiò il dorso della mano pericolosamente vicino ad Apollo e sollevò di poco la manica della camicia. Scoprì il polso esile, le vene bluastre che scorrevano in un intrico sotto la pelle diafana. Una pulsava nel piccolo promontorio che costeggiava l’insenatura della mano.
Apollo avrebbe voluto tastare ogni punto di quella mano: sentire ogni giuntura, ogni falange. Magari vedere le dita arricciarsi in risposta.
La mano sinistra verso il braccio di Giacinto; vi fece scorrere sotto le dita e lo strinse appena, come se tenerlo fermo fosse necessario. Come se potesse scappare. La punta dell’indice della gemella toccò invece il centro del palmo di Giacinto.
Era superfluo, ancora non serviva, ma voleva sondare le sue reazioni.
«Sei teso…» gli fece notare. «Rilassati, sono un dottore», scherzò.
Giacinto sorrise, quasi ridacchiò, ma avrebbe ribattuto che non era facile, non di fronte a tutta la sicurezza di Apollo, non mentre lo toccava, ma sarebbe suonato sospetto e ritroso, ma non voleva, così annuì rimanendo in silenzio.
Il polpastrello di Apollo si spostò e raggiunse il piccolo rigonfiamento alla base dell’anulare.
«Sai che questo si chiama monte di Apollo?»
«Davvero?» domandò Giacinto.
Apollo annuì in risposta. Giacinto era più rilassato: si era distratto. Gli piaceva l’idea di portare in qualche modo il nome del ragazzo su di sé.
Apollo restò a studiare quella mano minuta e perfetta qualche istante. La immaginò chiusa intorno a un pennello e trovò che sarebbe potuta essere già da sola una magnifica opera d’arte.
Improvvisamente ad Apollo sfuggì uno sbuffo di risata.
«Che cosa c’è?» domandò Giacinto.
«Questa linea è la linea della testa», spiegò Apollo, percorrendo con l’indice, solo sfiorando la mano di Giacinto, una linea che da poco più in alto dell’attaccatura del pollice si incurvava fino al toccare l’estremo opposto del palmo. «È molto marcata, è indice di creatività. Vedi come curva?» Insistette con il dito sull’ultimo tratto, che deviava puntando verso il basso. «Significa che hai un forte estro artistico. Direi che è accurata, no?»
Apollo avrebbe anche potuto rifilare a Giacinto una marea di sciocchezze, ma ancora una volta Giacinto pendeva dalle sue labbra e gli credeva. Perché mai avrebbe dovuto mentirgli? Non c’era ragione per cui lo facesse.
L’indice di Apollo corse su una seconda linea, che quasi pareva sfociare dalla precedente e sfilare anch’essa verso il polso.
«Questa è la linea della vita. Non è troppo lunga, ma è marcata. Lo vedi questo?» chiese, puntando il polpastrello su un piccolo salto, dove la linea smetteva di essere tanto incisiva. «È un grande cambiamento. Ma sembra quasi all’inizio della tua vita, come se…»
Apollo si interruppe. Doveva riflettere su ciò che diceva: Giacinto non lo aveva giudicato per quella sua inclinazione esoterica, non poteva spaventarlo ora.
«Come se?» incalzò Giacinto.
Troppo tardi.
«La prima cosa che ho pensato è che pare quasi che ci sia stata un’altra vita prima e che questo salto indichi l’inizio di una nuova», spiegò. «Ti torna qualcosa di simile?»
Giacinto provò a pensarci.
Aveva sperimentato come tutti gioia, dolore, solitudine, separazione. Ma nulla sembrava rappresentare quello che diceva Apollo.
«Magari qualcosa che deve succedere?»
Apollo alzò le spalle.
«O forse qualcosa che ti è già successo prima che nascessi, se credi a cose come la reincarnazione.»
«Tu ci credi?» indagò Giacinto con un piccolo sorriso.
«Non lo so», rispose Apollo. «Dovrei essere scientifico o la mia laurea in medicina varrà nulla, ma la trovo un’idea affascinante e per altro molto romantica. Sai, no? Quando ti trovi con qualcuno che hai la sensazione conoscere da una vita mi piace pensare che magari sia vero.»
Giacinto schiuse le labbra e non poté fare a meno di pensare che Apollo, che il suo modo di fissarlo negli occhi intensamente, gli stessero dicendo che pensava la stessa cosa: che era come se si conoscessero da una vita.
Apollo si schiarì la voce.
«Andiamo avanti.»
Puntò il dito sulla linea che nasceva fra indice e medio. La seguì piano.
«Sei mai stato innamorato, Giacinto?» chiese Apollo, curioso.
«Per davvero? No, mai.»
Preferì evitare di rivelare che per molti anni si era reputato innamorato del ragazzo che disegnava come un mantra; sarebbe stato imbarazzante, data la somiglianza che aveva con Apollo e beh, corrispondeva a dichiararsi.
«Beh, complimenti allora: la tua mano sembra dire che avrai un unico, intenso amore che durerà per tutta la tua vita.»
E Apollo non lo disse mai, se non a sé stesso.
«Spero di essere io», pensò.
 

Avevano lasciato la macchina di Apollo in un parcheggio poco lontano dalla stradina di villette a schiera in cui abitava Giacinto.
A nessuno dei due andava di accogliere l’idea che di lì a poco si sarebbero salutati, mettendo un punto a quel promettente primo appuntamento: avevano riso, avevano scherzato. Sarebbe stato un appuntamento da film se solo avesse fatto abbastanza freddo da costringere Apollo a liberarsi della propria giacca per metterla sulle spalle di Giacinto. Peccato che lui ne indossasse già una.
Apollo portava la propria sotto braccio, quasi la pelle già abbronzata nonostante fosse appena inizio maggio avesse catturato tutto il sole che l’aveva baciata dai suoi primi anni di vita.
Camminavano uno accanto all’altro, Giacinto che ogni tanto deviava la propria traiettoria e si trovava più vicino al fianco di Apollo. O forse sarebbe stato meglio dire che camminavano così vicini l’uno all’altro che deviava traiettoria quando si allontanavano, tornando poi a farsi vicini come se per proseguire avessero bisogno di sentire l’attrazione che insisteva fra le loro braccia, debole ma forte come quella dei poli opposti di due calamite.
«Mia sorella Artemide ha passato tutto il pomeriggio a raccomandarmi di essere impeccabile questa sera», disse Apollo, dopo qualche istante trascorso in silenzio.
Non perché non avessero nulla da dire, non perché non andasse loro di parlare: solo perché il silenzio era solo un altro dei mille aspetti confortevoli, quando erano insieme.
«Come se potessi non esserlo», borbottò Apollo.
Sembravano quasi ubriachi, o senza esagerare: su di giri. Ma forse lo erano, un po’, di felicità. Erano inebriati dalle sorti fin troppo positive di quell’appuntamento e provavano la sensazione che ti scivola addosso e ti avvolge, ti scalda, dopo un’uscita che vorresti non finisse. Quando ti trovi per strada di notte, incamminato sulla strada del ritorno, e ti rendi conto che con la persona accanto a te saresti in grado di qualsiasi cosa, anche scalare la vetta più alta.
Giacinto rise e poggiò le dita sul suo polso dorato. Sentì una scossa.
«Perché era preoccupata?» domandò.
«Vuoi che lo parafrasi o vuoi la versione senza censure?»
«La tua versione della verità andrà bene», rise.
«Beh, lei sostiene che quando tengo davvero a qualcosa, spesso mi comporto da idiota.»
In effetti Giacinto non si sarebbe aspettato tutte le battutine in cui si era scomposto Apollo durante la loro cena. Ci aveva parlato così poco, prima di uscirci, da non poter dire di conoscere il vero lui, non poteva prevederle, ma non gli erano dispiaciute. Avevano anche finito per imitare dei trichechi con i cucchiaini del frappè.
«E tu invece cosa pensi?» indagò Giacinto.
«Che quando tengo davvero a qualcosa sono me stesso.»
Rallentò fino a fermarsi e Giacinto con lui. Si guardarono.
«Mi sono appena dato dell’idiota, in pratica», notò.
Giacinto cercò di trattenersi, temendo che ridere in qualsiasi occasione lo avrebbe fatto sembrare frivolo ai bellissimi occhi di Apollo. Non sapeva però che Apollo sarebbe ricorso ai peggiori stratagemmi pur di sentirlo ridere anche tutta la notte, che si sarebbe incantato di fronte alle sue labbra schiuse sulle file ordinate di denti bianchi, che si sarebbe lasciato abbagliare da quella luce che gli piaceva più di quella del sole.
Era romantico, avrebbe dovuto appuntarsi quel paragone per cavarne fuori qualche cosa, magari il verso di qualche poesia da recitare a Giacinto per impressionarlo.
«Se il mio parere conta qualcosa…» cominciò Giacinto.
«Oh, conta moltissimo!»
Giacinto arrossì.
«Non ti trovo idiota. Ti trovo carino.»
Gli dedicò un sorriso dolce. Così dolce che Apollo si sentì sciogliere. Ma lui era una persona composta, il suo sorriso era suadente anche con due borse sotto gli occhi cinque minuti dopo essersi alzato. E gli piaceva così tanto sentirsi umano e imperfetto di fronte a Giacinto, rendersi conto che le farfalle nello stomaco potevano contagiare anche lui.
«Solo carino?» protestò, un piccolo broncio sul viso. «Se io dovessi parlare di te direi che ti trovo bellissimo!»
Dopo quella sera l’imbarazzo che Giacinto sembrava provare era sparito. O meglio, compariva ancora come purpuree sfumature sulle sue guance, ma non lo portava più a incepparsi, a schiudere le labbra senza poter parlare. Faceva convivere l’indole timida e quella risoluta lì, di fronte ad Apollo.
«Sì, beh, è una cosa che sento spesso», gli fece notare. «Anche se prima di questa sera non l’ho mai sentita dire da chi avrei voluto lo pensasse.»
Erano quasi di fronte al suo vialetto: avevano superato la cassetta delle lettere.
Apollo si voltò piano e portò le mani sui suoi fianchi in un gesto che non turbò Giacinto.
«Stai dicendo che ti piaccio?» domandò.
«Pensavo lo avessi capito», gli rispose, gli occhi verdi da cerbiatto puntati nei suoi.
«Sai, ho un dono naturale anche per capire quando piaccio o non piaccio a qualcuno, o forse mi convinco di piacere a tutti…» Abbassò gli occhi sulle dita di Giacinto sul proprio petto. «Ma temo di dover ammettere che tu sei in grado di scombussolarmi un bel po’.»
«È un complimento?» lo punzecchiò Giacinto.
«Dici che ne ricevi a bizzeffe, pensavo lo avessi capito», lo canzonò.
Sentì il soffio della sua risata contro le labbra.
Apollo si chinò, piano, avvicinando le labbra a quelle del ragazzo stretto fra le sue braccia.
Si fermò ad un soffio dalle sue labbra, perché in effetti la sua bocca aveva incontrato qualcosa. Sì, le dita di Giacinto. Indice, medio, anulare e mignolo erano un muro fra le proprie labbra e quelle del ragazzo.
Lo guardò smarrito.
Era il momento giusto, no?
Subito ricordò le parole di Artemide.
«Non rovinare tutto come un coglione.»
Ecco la versione non parafrasata del suo monito. Apollo non aveva capito cosa significasse fino a quel momento, in cui quelle parole erano state investite del mistico significato «non correre troppo, Apollo.»
Di solito non c’era motivo per lui di preoccuparsene: quando usciva con qualcuno era perché quel qualcuno aveva già una cotta per lui o se la prendeva nell’arco dei primi cinque minuti di appuntamento. Forse anche Artemide si era accorta che Giacinto era diverso; erano gemelli e doveva condividere la parte che come lui gli aveva lanciato una scossa spingendolo ad essere attratto dalla diversità di Giacinto.
Sbatté le palpebre degli occhi celesti e guardò Giacinto.
«Mi sono comportato come un idiota?» esalò, esasperato, sperando di sdrammatizzare.
E davvero non capiva, perché Giacinto gli parve sul punto di ridere.
«No, in realtà speravo che lo facessi.»
Se gli avesse riso in faccia sarebbe stato meglio. Per fortuna il ragazzo proseguì prima che dovesse incalzarlo dando prova di quanto la sua proverbiale perspicacia lo avesse abbandonato.
«Ma se non ti bacio questa sera sarai obbligato a uscire con me di nuovo, no?»
Apollo sorrise.
«Giacinto, non esiste bacio al mondo che mi farebbe smettere di volerti vedere.»
Ne avrebbe voluti mille altri, di quei baci.
«Beh, deve essere speciale.»
«Stai dicendo che con me non sarebbe speciale?» gli chiese. «Ora non è speciale?»
«Sto dicendo che penso tu abbia baciato molte altre persone oltre a me al primo appuntamento, magari davanti al loro vialetto mentre le portavi a casa», rispose. «Magari facendogli lo stesso sorriso che hai fatto a me.»
Lo disse tracciando il contorno delle sue labbra cesellate. Lo stava torturando, maledizione. I suoi occhi tradivano tutto il desiderio di baciarlo.
Beccato.
Aveva indovinato anche la verità sul suo sorriso. Di solito era il colpo finale per far cadere gli spasimanti tra le sue braccia. Letteralmente, perché una volta le ginocchia di una ragazza si erano sciolte come burro al sole e l’aveva dovuta stringere in un caschè un po’ sgangherato, ma molto ad effetto per la situazione.
Apollo alzò una mano in segno di resa.
«D’accordo, d’accordo», confessò. «Cosa vuoi che faccia, quindi?» domandò.
In qualche modo quella sorta di sfida gli suonava piacevole. Coniugava perfettamente la sua proverbiale voglia di vincere e il desiderio bruciante di baciare lo splendido ragazzo che aveva di fronte.
«Non lo so. Non sei bravo in queste cose?» chiese Giacinto. «Direi che basta conquistarmi.»
Poteva permettersi i lussi di chi in fondo era abbastanza coraggioso da poter giocare con il fuoco.
Si divincolò piano dalla presa delle sue braccia, si alzò in punta di piedi e gli baciò una guancia.
«Buona notte, Apollo.»
Apollo si rese conto che Giacinto era molte sue prime volte.
Era la prima volta che qualcuno lo lasciava lì, come l’idiota che secondo Artemide era.
Era la prima volta che veniva rifiutato.
Era la prima volta che sentiva le farfalle nello stomaco per un bacio sulla guancia, che stava cercando di tenere intrappolato sulla pelle con la mano.
E anche se per la prima volta il dolceamaro dubbio di non aver colpito qualcuno lo tradiva, Giacinto era con la schiena contro la porta e le braccia strette al petto.
Si guardarono mentre Apollo sorrideva, a dimostrare tutta la propria risoluzione e si salutarono, scambiandosi qualche altro sguardo.
Giacinto sospirò.
Perché voleva davvero che quel primo bacio fosse speciale, ma negarsi le labbra di Apollo era la più grande delle punizioni che si fosse mai inflitto.




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Mi sono presa una pausa di qualche settimana dalla scrittura, ma non mi sono assolutamente dimenticata di questa storia. Quando il pungolo di aggiornare si è fatto sempre più insistente non ho potuto fare a meno di assecondarlo e così ecco qui il terzo capitolo della fanfiction.
Ne vado molto fiera e spero che piacerà a voi almeno quanto è piaciuto a me scriverlo e riscoprirlo correggendolo dopo diverso tempo dalla stesura.
Mi sono anche dovuta documentare per scriverlo: pur essendo le interpretazioni molto libere e ai fini della trama, ho cercato su internet come funziona la lettura della mano. Mi piace essere accurata.
Sono anche soddisfatta dell'effetto dato dal locale e mi auguro che la descrizione ve lo rievochi come l'ho immaginato. Chissà se esiste un posto del genere da qualche parte...
Ad ogni modo, spero vogliate farmi sapere che cosa ne pensate. Giacinto starà tirando troppo la corda? O forse rimettere Apollo in riga è la scelta migliore?
Vi aspetto a braccia aperte nelle recensioni <3
Alla prossima!

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Capitolo 4
*** Apollo e Giacinto ***


IV.
Apollo e Giacinto




Dal loro primo appuntamento era trascorso un mese. Un lungo mese di due uscite la settimana, il mercoledì e il sabato, perché Apollo riusciva a giostrarsi con i turni del tirocinio e Giacinto usciva presto dall’accademia.
Per non sprecare nemmeno un minuto di tempo Apollo si faceva trovare nel parcheggio con la macchina già in moto e Giacinto aveva imparato a portare con sé una tracolla di riserva, da infilare in quella più grande e piena di libri e blocchi da disegno che usava per la scuola, in modo da essere più comodo e leggero dopo averle scambiate.
Le loro uscite erano molto improvvisate, spesso nemmeno pensavano con preavviso a dove andare: lo decidevano in macchina, i finestrini abbassati per lasciar entrare la brezza che prometteva estate.
Si erano visti otto volte. La prima era quella che Apollo ricordava con più affetto, anche se Giacinto gli aveva negato un bacio. Cosa che aveva continuato a fare anche per le sette uscite successive.
Solo una volta erano andati al cinema in otto uscite, al secondo appuntamento, perché «Ammetto che preferisco usare il tempo che riusciamo a ritagliarci per parlare.»
Lo aveva detto Giacinto, questo, ma dando voce anche ai pensieri di Apollo. Nell’udire quelle parole, Apollo per poco non aveva sospirato, come una ragazzina innamorata. E, maledizione, non si riconosceva più. Così non c’erano più andati.
Se non altro quell’appuntamento al cinema gli aveva permesso almeno di intrecciare le dita con quelle di Giacinto, i gomiti sul bracciolo condiviso e le mani a penzoloni a mezz’aria.
Le altre sei uscite erano state al ristorante, in un fast food che «rovina la mia linea, ma ti ci porto perché ti piace tanto», secondo Apollo, e qualche tavola calda.
Ritrovi molto poco sofisticati per il giovane Apollo che, prima di Giacinto, era abituato a far notare la propria presenza a qualche festa ben meno sobria organizzata da un amico. Amico. Già. Forse, o forse no. Meglio dire conoscente, suo o di sua sorella Artemide, che lo voleva come invitato per la sua popolarità. E Apollo si divertiva, conosceva persone. Cosa gli importava di essere usato?
A proposito di Artemide, Apollo quel giorno la odiava. Non stava esagerando: essere gemelli lo portava a nutrire dei forti sentimenti nei suoi confronti, positivi o negativi che fossero. Raramente quelli negativi perduravano per più di uno o due giorni, ma era certo che almeno nelle ventiquattr’ore successive alla mattina di quel giorno l’avrebbe mal sopportata. Infantile? Probabile, ma Apollo non brillava certo per la bravura nell’ammettere i propri difetti e le proprie colpe. Lo aveva fatto solo con Giacinto e perché credeva gli avrebbe portato un tornaconto che alla fine non era arrivato. O forse perché funzionava su di lui come un siero della verità, chissà.
Artemide sosteneva, e proclamava di farlo per il suo bene, che forse Apollo avrebbe dovuto imparare a gestire meglio la propria relazione con Giacinto. Relazione che ancora non c’era, essendo il loro uscire confuso: entrambi chiamavano le loro serate insieme “appuntamenti”, ma Giacinto non voleva ancora saperne di baciarlo. Si frequentavano per diventare una coppia, ma di fatto non lo erano. Nemmeno ne parlavano. Apollo era interessato. Anzi: era cotto. «Cotto e stracotto», aveva detto Artemide, «tanto da sembrare un idiota». Ma tanto a lei Apollo pareva sempre un idiota.
Dunque, secondo l’umile parere della sorella che diceva di parlare nel suo interesse, Apollo avrebbe dovuto trovare un equilibrio. Tra Giacinto e lo studio, tra Giacinto e il tirocinio. Tra Giacinto e la sua intera vita.
E Apollo si era sentito punto sul vivo, perché era vero che avrebbe dovuto trovare un equilibrio e gli sarebbe piaciuto – forse – smettere di vivere di farfalle nello stomaco e testa fra le nuvole, notti insonni, sospiri e sguardi persi nel vuoto mentre pensava a Giacinto. O almeno lo aveva creduto fino a quando, un giorno in cui era arrivato in ritardo davanti all’accademia, guarda caso, per uscire con Giacinto, lo aveva sorpreso nelle sue stesse condizioni. Non poteva parlare per le farfalle nello stomaco, ma il ragazzo aveva lo sguardo trasognato e sospirava, un’espressione inebetita stampata sul viso.
E quando aveva rotto il ghiaccio con un «A che pensi?» Giacinto aveva risposto con estrema innocenza e sincerità.
«A te.»
Apollo studiava medicina ed era abbastanza arrogante da reputarsi piuttosto bravo nel diagnosticare anche i disturbi assenti nel suo manuale di sintomatologia. Era un talento naturale, non c’era margine di dubbio.
Lui e Giacinto, ne era convinto, soffrivano della stessa malattia. Quindi, finché era così, Apollo aveva scelto di non guarire e qualsiasi cosa Artemide dicesse, anche se supportata dalla più inconfutabile delle prove, per lui rimaneva una sciocchezza.
Una sciocchezza da non ascoltare e che minava alle sue libertà, e che dunque lo infastidiva. Anche se Artemide gli aveva fatto notare che il suo rendimento scolastico sarebbe potuto crollare, se avesse continuato a rischiare di arrivare tardi ai tirocini e se non si fosse messo a studiare come aveva sempre fatto.
Era solo una coincidenza che quel giorno, con Giacinto, fosse in aula studio. Perché se lui era convinto di qualcosa niente e nessuno gli faceva cambiare idea. Erano lì soltanto perché si era messo a piovere così forte che alla fine avevano scelto di rimanere insieme in quell’aula fino a quando non avesse smesso, facendo qualcosa di costruttivo nel frattempo. Per Apollo sarebbe stato costruttivo anche un cappuccino in caffetteria, ma a quanto pareva Giacinto aveva tutta l’intenzione di disegnare.
Lo aveva salutato con una strana luce negli occhi, quel giorno, quasi avesse un’idea pazza a frullargli nella mente e che non vedeva l’ora di realizzare.
E così eccoli lì, Apollo che nemmeno si era sforzato di aprire il libro chiuso di fronte a sé.
Almeno trovandosi in un’aula diversa dalla biblioteca, probabilmente assediata da quella antipatica di Atena che dell’amore non capiva niente e che gli avrebbe fatto pagare ogni suo singolo fiato con la vita, Apollo poteva compensare il libro chiuso chiacchierando con Giacinto. Si erano scelti una delle aule più rumorose dell’intero campus e Apollo giurava di aver notato con la coda dell’occhio anche dei ragazzi coinvolti in una giocosa guerra, intenti a colpirsi a tradimento con delle cerbottane improvvisate, fatte con le cannucce larghe dei bicchieri della mensa. Paravano i colpi con quaderni e libri, svilendoli del loro valore intellettuale.
Apollo raramente non aveva voglia di studiare. O meglio: gli veniva così facile studiare che imporsi venti pagine al giorno da imparare era una sorta di scotto da pagare per dedicarsi in tutta tranquillità alle attività con cui riempire il resto della giornata.
Giacinto gli annebbiava la mente come un oppiaceo e lo spingeva a confidare nelle sue abilità abbastanza da fargli credere di poter studiare il tomo di medicina a partire da cinque giorni prima dell’esame, per disperazione. Esame che forse avrebbe anche potuto rimandare, tanto non era quello l’importante.
Quindi Giacinto gli faceva confidare in sé stesso un pochino troppo.
«Come mai ti è venuta tutta questa voglia di disegnare?»
«In realtà un’amica di mia sorella ha bisogno di una caricatura per una festa, così la sto aiutando. Devo mandargliela entro questa sera.»
Giacinto era adorabile quando si concentrava: aveva aperto bocca e il carnoso labbro inferiore era scappato alla presa dei denti, vibrando appena, arrossato. Era appena lucido e Apollo lo trovava dannatamente invitante.
«All’amica di tua sorella non piace il preavviso, eh?»
«No, direi di no.»
E gli rispondeva, Giacinto, ma sbrigativamente. Di solito alzava almeno gli occhi verso di lui e li puntava in quelli chiari di Apollo. Lo scrutava perché non gli piaceva perdersi un solo istante di lui.
In quel momento però Giacinto non era solo un’immagine paradisiaca di giovane intento a disegnare su un blocco. No: stava continuando a strappare fogli su fogli del suo album da disegno. Uno spreco, lo avrebbe ammesso anche lui, ma doveva sentirsi sotto pressione per il poco tempo e con ogni probabilità non aveva davvero voglia di disegnare. Doveva.
«Va bene, d’accordo», disse infine Apollo, portando entrambe le mani su quelle di Giacinto, una per ciascuna. «Fai una pausa.»
«Non posso fare una pausa…»
«Sì, invece. È il tuo medico che la prescrive.»
Solo a quel punto Giacinto alzò gli occhi verso quelli di Apollo e si convinse. In qualche modo il ragazzo gli trasmise tutte le vibrazioni che andavano dalla frequenza calma a calmissima. Improvvisamente si ricordò che non sarebbe tornato prima delle undici, vero, ma anche la festa non sarebbe stata prima del giorno successivo e che a conti fatti avrebbe potuto disegnare anche di notte, essendo sabato.
Sospirò e rilassò le spalle contro lo schienale della sedia.
Svuotare la mente per ritentare con più calma – e ispirazione – in seguito poteva solo fargli bene.
Doveva essere quella la sensazione provata ad essere Apollo, quello che crede di poter preparare un esame in cinque giorni e che è così calmo nel farlo da riuscirci a pieni voti. Chissà se funzionava solo da quando era a medicina o se ne era sempre stato in grado, al liceo o prima ancora. Chissà se era davvero un dono naturale, o se lasciava trapelare solo ciò che era conveniente gli altri vedessero, i propri successi.
Per qualche motivo Giacinto non riusciva a non credere che fosse perfetto. Non gli sembrava ci fosse alcuna menzogna in quell’aspetto di Apollo.
«Distraimi», esalò infine Giacinto. «Se non mi distrai ricomincerò a fare il nevrotico consumando grafite e fogli.»
«Ok, distrarti…»
Apollo si rigirò in bocca quella parola per qualche altro momento, cercando disperatamente un modo per tenere impegnata la mente di Giacinto. Gli sembrava che i suoi occhi fossero ancora pericolosamente attratti dal blocco sotto il suo naso, tanto spesso vi cadeva il loro sguardo.
«Sai che so suonare la chitarra?» chiese di punto in bianco.
«Davvero?» domandò Giacinto.
Sembrava genuinamente sorpreso, ma non gli donava ancora tutta la propria attenzione.
«Già, ma ho scelto il momento sbagliato per dirlo dato che non posso farti sentire un pezzo», notò. «Saprei anche cantare, ma per quanto l’aula sia chiassosa direi che non è il caso farlo qui…»
Giacinto sorrise. Le sue mani erano ancora sotto quelle di Apollo, ferme. Sentiva le sue dita muoversi, senza imbarazzo, per accarezzare la pelle diafana.
«C’è qualcosa che non sai fare, scusa?» domandò con un sorriso.
Se i suoi calcoli fossero stati corretti…
«Se voglio saper fare davvero qualcosa allora no, è davvero molto raro.»
Giacinto ridacchiò.
Apollo, modesto come sempre.
«Infatti, ecco, mi dedico anche alla poesia.»
In qualche modo l’attività “distrai Giacinto” era diventata un’ottima occasione per tessere le proprie lodi in un palleggio di risposte che faceva sembrare Apollo un po’ narcisista. Un po’ tanto. Solo più del solito. Ma beh, Giacinto sembrava divertirsi.
«Le scrivi o le reciti e basta?»
«Le scrivo, anche.»
«Mi improvvisi qualcosa?»
Sia Giacinto che Apollo sapevano che produrre arte su due piedi non era sempre facile. Giacinto aveva eliminato mezzo sketchbook nell’arco di dieci minuti per via della poca ispirazione, quindi sapeva di aver messo alle strette Apollo. Era per questo che proprio lui, proprio Apollo, trovava Giacinto interessante: non gli risparmiava nulla, lo metteva alla prova e lui adorava percepire qualcuno alla sua altezza. Era stimolante.
Restò in silenzio qualche attimo perché no, non avrebbe improvvisato qualcosa. La sua mente era vuota. Ma lui voleva farlo, non poteva smentire delle parole dette solo qualche istante prima, tradendosi.
A quel punto Apollo strinse di più le sue mani fra le proprie. Unì quelle di Giacinto sotto le proprie, quasi una cupola protettiva intorno alle sue. Gli occhi azzurri si fissarono in quelli verdi del ragazzo, decisi.
«Rapito
Nello specchio dei tuoi occhi
respiro
il tuo respiro.
E vivo.»
Giacinto, il respiro, lo aveva trattenuto. Era rimasto immobile a osservare la curva sinuosa delle labbra di Apollo che si muoveva.
E smise di resistere, perché potevano anche essere in una rozza aula studio, ma non gli importava. Contavano loro, non il luogo, non il momento, l’epoca, l’ambiente.
Si sporse sul tavolo e lo baciò. A stampo, nulla più.
«Ti bacio perché voglio farlo, ma non troppo, non se siamo qui», sembrava dire. «Per questo un po’ di intimità serve.»
Lui voleva respirarlo davvero il respiro di Apollo e lo aveva fatto, in quel bacio che sapeva d’impazienza e di sospensione. Perché Apollo rimase con le labbra schiuse e gli occhi sgranati. Un ciuffo di capelli portati dietro l’orecchio cadde attonito al lato del suo viso. Giacinto lo riportò dov’era con le dita esili e gli sorrise.
Perché era felice di quella poesia e di averlo finalmente baciato. Era felice di essere lì con Apollo, con le labbra che sapevano di lui.
«Ringrazia Saffo per questo bacio.»
Apollo sorrise e portò una mano calda sul suo volto. Non sarebbe mai riuscito a ingannare Giacinto, ma adesso poteva baciarlo.
 

«Perché mi hai baciato quel giorno, Giacinto?»
Apollo era sistemato alle spalle del suo ragazzo, Giacinto, seduto sul letto e con le mani vicino al suo collo. Stava massaggiando piano i muscoli delle spalle, contratti a causa della posizione fin troppo accartocciata che il ragazzo assumeva quando disegnava. Sembrava così assorbito dai segni che tracciava con la matita da arrivare nell’arco di pochi minuti a premere il naso sul foglio e ad abbracciare il tavolo su cui se ne stava appoggiato.
Un’immagine adorabile o forse, a dirla tutta, un po’ inquietante.
Almeno a detta di Artemide, che una volta lo aveva visto e l’aveva paragonato allo sgorbio de il Signore degli Anelli, mandato in onda in tv appena la sera prima. Inutile dire che Apollo si era offeso anche per il fidanzato, perché le battaglie di Giacinto erano le sue. Sì, anche se Giacinto nemmeno era a conoscenza dell’offesa.
Siccome Giacinto era inconsciamente testardo, anche se Apollo tentava di fargli notare la sua postura e di sistemarlo in una posizione più salutare per la sua spina dorsale, ci voleva poco perché la schiena del ragazzo si afflosciasse di nuovo sulla carta come un fiore appassito. Sulla testardaggine si incontravano: Giacinto aveva approvato l’idea di Artemide circa i doveri accademici di Apollo, così era divenuto il suo carceriere personale che si rifiutava di salire sulla sua auto se prima non si trattenevano in aula studio almeno un poco, per essere certo che Apollo studiasse. Mai Artemide avrebbe potuto essere più felice, così aveva subito dato la propria benedizione al loro legame. Apollo aveva tentato di rifiutare, opporsi, e Giacinto minacciato di gridare al rapimento se avesse provato a trascinarcelo di peso.
Giacinto non era Artemide: non riusciva a odiarlo nemmeno un secondo.
Così andava.
Apollo cedeva, Giacinto no.
E poi succedeva ciò che era accaduto qualche istante prima.
«Mi fa male la schiena.»
«E lo sai perché?»
«Sì, lo so… mi fai un massaggio?»
E Apollo come poteva resistere di fronte a quegli occhioni verdi, innocenti senza che nemmeno loro lo sapessero? Come poteva fare la predica al suo splendido ragazzo?
Giacinto gli aveva avanzato quella richiesta perché se Apollo avesse fallito come medico si sarebbe sempre potuto dare alla massoterapia. Giusto perché di cose ne sapeva fare poche.
Era anche un brillante pensatore, ma a quella domanda ancora non aveva trovato risposta.
«Perché mi hai baciato quel giorno, Giacinto?»
E la risposta giunse in fretta, chiara e coincisa.
«Perché mi andava di farlo.»
«Hai capito cosa intendo», gli rispose Apollo. « Perché proprio quel giorno? Perché proprio quel momento? Perché ti andava di farlo?»
Giacinto esitò, la schiena che finalmente tornava a dargli tregua.
Se Apollo avesse potuto vederlo in viso si sarebbe accorto delle sue guance rosse e degli occhi in fuga verso ogni angolo possibile per evitare uno sguardo che non avrebbe comunque potuto raggiungerlo.
«Perché con la poesia che mi hai recitato penso di aver sentito tutto l’amore che provavi nei miei confronti», rispose, sincero. «E io… beh, ti ho fatto dannare tanto perché volevo essere sicuro che provassi almeno la metà di quello che provavo io. Avevo paura.»
Mai chiedere all’animo delicato di un artista di denudarsi, ecco cosa si appuntò nella mente Apollo. Mai chiederglielo se sai di non avere tutto il tempo e la passione per raccoglierlo e prenderti cura di lui. Però lui aveva entrambe queste cose, le aveva eccome.
Il mento di Giacinto era sulla sua spalla, adesso, e lo guardava incerto. Così Apollo si fece vicino e lo baciò, piano, le mani sulle sue di spalle e poi sul suo viso come se fosse il cimelio più prezioso al mondo.
«E la tua conclusione qual è stata?»
«Che provavamo entrambi le stesse cose, in un perfetto equilibrio.»
Anche Apollo aveva più equilibrio, ora: sua sorella Artemide nemmeno si lamentava più di quanto sospirasse assorto in preda all’amore. Buffo come la fonte del suo squilibrio fosse anche ciò che aveva riportato tutto all’ordine.
Giacinto era irresistibile, nella sua innocenza. Era irresistibile da quando lo aveva conosciuto, ma ancor di più quando aveva lasciato cadere quei muri di risposte di gentile riserbo, costruiti per proteggersi.
«Quindi lo sai che ti amo o vuoi che te lo ripeta?» domandò Apollo sulle sue labbra, che stava baciando fino allo sfinimento.
«Mhn… mi piace se me lo ricordi», sussurrò Giacinto. «Anche io ti amo.»
E scivolare sotto Apollo mentre Apollo scivolava in lui, i vestiti a terra, gli parve quanto di più naturale potesse esserci al mondo.
 

Giacinto non viveva senza il blocco da disegno, quindi anche se il suo corpo nudo era coperto solo dalle lenzuola e Apollo sonnecchiava accanto a lui, il busto allenato scoperto e lo chignon dietro la testa sfatto a causa delle dita di Giacinto contorte e rese artigli per il piacere, nulla gli aveva impedito di recuperarlo per disegnare.
Voleva disegnare Apollo, perché si era reso conto che dopo più di due mesi di relazione ancora non lo aveva ritratto. Non copiandolo dal vero, almeno.
Le dita di Giacinto scivolavano come pennelli sul viso di Apollo; sfioravano gli zigomi e il pollice tracciò il contorno delle labbra. Facevano ciò che i pennelli fanno su una tela, ma per carpire i suoi lineamenti e poterli riprodurre.
Memorizzava prima per sé, poi per la carta.
Dopo aver spostato la gamba per trovare una posizione più comoda, Apollo schiuse gli occhi e lo guardò.
«Che stai facendo?»
«Metto su carta quello che provo per te.» Giacinto esitò un istante. «Ti disegno.»
Apollo fece per sollevarsi.
«Quindi devo restare fermo?»
«No, non serve. Ho quasi finito e le ombreggiature posso metterle anche a memoria.»
Giacinto sapeva tutto di lui a memoria. Ogni muscolo, voglia, piega della pelle. In qualche modo sembrò ad Apollo il pensiero più romantico al mondo.
Quindi il biondo si alzò e si appostò alle spalle di Giacinto, le braccia nerborute cinsero i suoi fianchi e il mento andò a riposare sulla sua spalla.
Gli piaceva quella posizione: gli sembrava quasi di inglobare quel corpo tanto piccolo e delicato, di proteggerlo con tutto sé stesso, che era poi ciò che sempre avrebbe voluto fare.
E scoprì che gli piaceva anche guardarsi attraverso gli occhi di Giacinto.
«Sai, il giorno in cui sei venuto a presentarti stavo disegnando un viso che prima di conoscerti ero solito ritrarre spesso», cominciò Giacinto, ripassando un punto in particolare del foglio per scurirlo di più. «L’ho sempre fatto da che ho memoria, come se fosse un mio grande bisogno. Sono passato dal disegnare questo ragazzo biondo in versione stilizzata quando avevo cinque anni ai ritratti più accurati, come quelli che faccio ora. E c’è una cosa buffa. Sai qual è?»
«Qual è?» chiese Apollo, incuriosito da quella storia.
Allora Apollo non se n’era accorto.
«Ti assomigliava tantissimo. Polybea mi aveva detto di dargli un nome, come se fosse una mia creazione, ma non ne trovavo uno che fosse adatto.» Poggiò la matita sul foglio e lo guardò. «Lo stavo disegnando anche il giorno in cui mi hai parlato la prima volta. Quando ho sentito il tuo nome mi è parso subito perfetto.»
Apollo non rispose, perché non sapeva bene cosa dire. La trovava solo una coincidenza romantica, che lo spinse a baciare la guancia morbida di Giacinto e poi la curva della sua mandibola.
«Ora capisco perché mi sembrava tanto bello…» fece Apollo.
Giacinto rise prima di voltarsi.
«Presuntuoso», lo rimproverò. «Ma te lo puoi permettere. Davvero non te n’eri accorto?»
Apollo lo guardò negli occhi, serio per un momento.
«Ho davvero guardato cosa stavi disegnando e mi è davvero piaciuto, ma ero più preso da te, Giacinto.»
Il giovane non si lasciò ingannare.
«È un modo carino per dirmi che volevi solo provarci?»
«Così stai minimizzando!»
Apollo lo punì con una tempesta di baci sulla guancia e Giacinto si dichiarò sconfitto solo per averne degli altri.
Poggiò il ritratto sul comodino e si rilassò contro il petto del fidanzato, portando le mani sulle sue braccia mentre intrecciavano le gambe sotto le lenzuola.
Erano abituati a non avere un filo logico nei loro discorsi: potevano parlare di arte e poi improvvisamente di scuola, passavano dallo sviscerare filosofie antiche al chiedersi quale fosse il loro gusto di gelato preferito. Scherzavano, poi tornavano seri.
«E sai cos’altro trovo buffo?»
Giacinto aveva voglia di chiacchierare e ad Apollo stava bene, perché la sua voce era la melodia più soave che avesse mai sentito. Un po’ acuta per essere la voce di un ragazzo, ma cristallina e confortante. Ad Apollo piaceva ascoltarla, soprattutto quando come in quel momento Giacinto era del tutto rilassato, pelle d’oca al passaggio dei suoi polpastrelli, lievi sulle braccia esili.
Sentiva ogni sua parola vibrare attraverso la sua schiena, contro la propria cassa toracica.
Scosse il capo.
«I nostri nomi», rispose. «Sai che un ragazzo di nome Giacinto, nei miti greci, si è innamorato del dio Apollo?»
«Che è quello che hai fatto tu.»
«Cercherò di ignorare il fatto che la tua autostima ti abbia appena portato a paragonarti a un dio.»
Risero entrambi.
«Peccato che la loro storia non sia finita bene. Si dice proprio da Giacinto sia stato generato il fiore per cui io mi chiamo così. Infatti uno dei colori del giacinto, il rosso, gli dà come significato il dolore.»
Apollo scosse piano il capo.
«È un momento troppo perfetto perché tu mi chieda di ascoltare epiloghi tristi.»
Giacinto sorrise mentre i muscoli si scioglievano come burro contro il petto caldo del fidanzato.
«Beh, il giacinto ha molti significati, sai?»
Sentiva tutta la volontà che Apollo aveva di ascoltarlo dalle piccole carezze che stava dedicando al suo ventre. Giacinto non sapeva come spiegarlo, ma aveva un modo di carezzarlo quando nonostante tutto, nonostante parlasse da ore, non vedeva l’ora di ascoltare altre sue parole.
«Gentilezza…» cominciò Giacinto e le labbra di Apollo schioccarono un bacio sulla sua spalla.
«Sincerità», proseguì.
Apollo baciò di nuovo la sua pelle in un punto più vicino al collo, come se stesse prendendo come ritmo le sue parole. Le sue attenzioni lo fecero sospirare.
«Dolore è solo uno dei tanti significati, come può esserlo la gelosia, la costanza e il gioco», spiegò. «È anche il fiore degli amanti.»
Apollo alzò il capo verso Giacinto.
«Oh, si fa interessante…»
Giacinto gli pizzicò bonariamente un braccio mentre Apollo rideva, salendo con le labbra e con il respiro lungo il collo esile del ragazzo. Le dita stavano scorrendo sulla sua gola in una carezza sensuale che portò il mento del ragazzo a sollevarsi.
Apollo ricordò che da quella stessa gola erano scappati dei gemiti adorabili solo poco tempo prima e desiderò di udirli ancora, di esserne la fonte.
La voce di Giacinto era anche questo.
«La vita è un po’ come un mazzo di giacinti di tanti colori diversi. Si trovano tutte queste cose lungo il proprio cammino», mormorò. «Mi piace che sia il mio nome. Giacinto. È un po’ come un augurio per tutte le cose belle che significa.»
Apollo smise di baciare la linea morbida della sua mandibola.
«E quelle brutte?»
Giacinto sorrise. Rendersi conto di quanto Apollo non potesse abbandonare quei significati negativi gli diede come l’impressione di avere un ruolo speciale, al suo fianco: era le sue ali. E per questo il suo compito era non lasciare che Apollo si concentrasse anche per lui sugli aspetti più nefasti e oscuri dell’esistenza.
«Fanno parte della vita, compensano quelle belle. Si chiama karma.»
Apollo alzò gli occhi al cielo.
«Grazie per la lezione, professore», brontolò.
Giacinto si voltò fra le sue braccia, accoccolandosi contro il suo petto. Era il suo turno di alzare il capo per baciare il mento deciso del ragazzo dalla pelle e i capelli dorati.
«Hai capito cosa intendo.»
«Ho capito che stando al tuo modo di vedere le cose dovrei pagare per una vita intera la più grande fortuna che io abbia mai avuto, cioè incontrarti.»
Il volto spruzzato di lentiggini di Giacinto si fece purpureo.
«Beh… non funziona proprio così…»
Apollo si sporse verso le sue labbra. Parevano quasi una statua greca, una composizione: i corpi morbidi adagiati uno sull’altro, le braccia di Giacinto onde che si avviluppavano attorno al busto di Apollo come due rampicanti d’edera; le gambe annodate. I loro corpi erano linee morbide che sfumavano in quelle dell’altro.
Giacinto pesava su di lui come una piuma, pur essendo del tutto abbandonato fra le sue braccia. Apollo gli teneva il viso come fosse una reliquia preziosa e poggiava le labbra sulle sue quasi stesse bevendo da un calice colmo fino all’orlo del nettare più delizioso. Ambrosia.
«Facciamo che non funziona così e basta», protestò. «Facciamo che impedirò al dolore di avvicinarsi a te anche solo per sbaglio.»
Giacinto doveva essere le ali di Apollo, questo gli impediva per definizione di aiutarlo a rimanere con i piedi ancorati per terra. Ma quando Apollo sceglieva di volare da solo, maledizione, sarebbe riuscito a stregare chiunque.
Quell’attimo di pace venne turbato da una suoneria. Il telefono di Giacinto.
Il ragazzo era di nuovo sdraiato sotto il peso di Apollo, incastrato fra le sue ginocchia e l’unico palmo che il ragazzo non stava usando per accarezzargli il viso.
Sapeva cosa sarebbe accaduto, avrebbe lasciato che accadesse ancora e ancora. Avrebbero fatto l’amore e Giacinto si sarebbe sentito al sicuro, felice come mai prima di allora.
«Mhn… spegnilo…» si lamentò Giacinto, del tutto disinteressato dal mittente.
Apollo eseguì, perché nemmeno a lui andava troppo di vedersi sottratto del tempo con Giacinto affinché parlasse con… chiunque. Era abbastanza egoista da credere fosse una questione di poca importanza.
Odiava distrarsi da lui.
Nulla avrebbe vietato ad Apollo di ignorare la chiamata senza nemmeno distrarsi dai baci di Giacinto. Eppure qualcosa, forse il fato, lo spinse a far cadere l’occhio sullo schermo acceso del cellulare.
«Chi è Zefiro?» domandò, esitando nel bacio.
Quando abbassò il capo si accorse subito che l’espressione sul volto di Giacinto era una smorfia. E si era incupito.
Non gli rispose subito.
«Ehi…» tentò di richiamare la sua attenzione Apollo.
Giacinto quasi trasalì.
«Oh… scusami. Lui è… un amico, credo.»
«Credi?» domandò Apollo, un sopracciglio inarcato. «Perché sembra proprio quello che diresti di una persona che ti sta dando fastidio?»
Giacinto si tirò a sedere e Apollo con lui.
«È molto solo. Ho cercato di essere carino con lui, ma diciamo che si è attaccato troppo.»
Si sentiva orrendo, anche se fra tutte le persone che conosceva Giacinto sapeva di essere l’unico a non aver mai parlato male di Zefiro. Persino sua sorella Polybea si era lasciata sfuggire qualche commento spazientito su quanto fosse fuori luogo quel ragazzo nel presentarsi di fronte casa anche se non invitato.
«Direi che è il momento giusto per dimostrarti che posso tenere le scocciature ben lontane.»
Giacinto si sforzò di sorridere, ma scosse il capo.
«Va bene così, Apollo… non è un cattivo ragazzo. È solo che…»
«Ti mette a disagio, a me basta vedere questo.»
Giacinto sospirò, ancora indeciso su quanto fosse una fortuna essere capito tanto da qualcuno, senza nemmeno parlare.
Apollo lo strinse fra le braccia e gli baciò una tempia.
«Non te ne preoccupare ora, d’accordo? Lo risolveremo.»
Apollo era stupendo, ammaliante.
In tempi antichi sarebbe stato considerato una creatura pericolosa, tanto era attraente e persuasivo. Giacinto sarebbe stato un miscredente, perché si sarebbe gettato nelle braccia del male pur di stare con lui, pur di farsi baciare dalla luce che nonostante tutto emanava.
Avrebbe scelto il destino più tragico pur di poter essere suo e sapere di averlo per sé anche solo per un istante.
Ma non tutto doveva essere tragico, non tutto doveva ferire. Non avrebbe sofferto, lo aveva detto Apollo.
E, ancora una volta, Giacinto scelse di credergli.

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Capitolo 5
*** Zefiro ***


V.
Zefiro




La mensa era uno degli ambienti scolastici che meno piacevano a Zefiro: era così affollata, così piena di tutte quelle persone che avrebbe preferito di gran lunga non vedere. Si sentiva nauseato ogni volta, un nodo alla bocca dello stomaco che lo incentivava a tutto meno che mangiare.
Se stava seduto lì e non a uno dei tavoli esterni, magari uno dei più isolati e defilati dalle vie principali che conducevano alla caffetteria, era grazie a Giacinto.
Era dall’altro lato del tavolo, il vassoio ormai mezzo vuoto e il solito album da disegno abbandonato accanto a sé.
A Zefiro sarebbe piaciuto chiedergli che cosa avesse disegnato nell’ultimo periodo, quali fossero stati i suoi soggetti preferiti, ma aveva avuto modo di scoprirlo quando si erano incontrati lungo la strada per entrare in mensa, alla panchina dove si erano dati appuntamento: c’era solo lui. Solo e soltanto quel ragazzo a tappezzare ogni pagina.
Apollo.
Era stupido che si ingelosisse allora, che solo in quel momento cominciasse a dargli immensamente fastidio l’immagine che aveva visto ritratta più e più volte da Giacinto. O forse no, dato l’improvviso significato che aveva assunto. Dato che il ragazzo che tappezzava le pagine dello sketchbook era adesso il suo vero ragazzo.
Sembra quasi che Giacinto avesse avuto una premonizione da mettere su carta.
Non si erano ancora presentati, o meglio, Zefiro non lo aveva incontrato e Giacinto forse non teneva nemmeno troppo a farli presentare.
Zefiro era paranoico forse, ma credeva di non avere torto nel credere che Giacinto si vergognasse di lui: si vergognava del suo amico dalle parvenze spettrali, i capelli neri che sembravano scarmigliati come se fossero costantemente spazzati da un vento feroce e implacabile. Però no, Giacinto non lo poteva volere diverso. Non era da lui. Zefiro non si era mai reputato una bellezza, ma temeva il problema ormai fosse un altro: temeva che Giacinto avesse finalmente compreso i suoi sentimenti, che tutta l’innocenza a lui appartenuta prima di stare con quell’idiota gli fosse stata strappata via e che d’improvviso le sue pene d’amore dovute all’incapacità di dichiararsi e alla purezza che impediva a Giacinto di porre nei suoi gesti qualsivoglia tipo di malizia si fossero tramutante in un supplizio infinito.
Zefiro era innamorato di Giacinto dal primo momento in cui lo aveva visto. E beh, rispetto all’incontro fra Apollo e Giacinto – Giacinto non ne aveva voluto parlare troppo, era stato Zefiro a insistere per conoscere in un moto masochistico i dettagli –, quello di Giacinto e Zefiro non era stato poi così memorabile: Giacinto gli aveva chiesto se il posto accanto a lui in mensa fosse libero e Zefiro aveva detto di sì.
Nient’altro.
Si era limitato a osservare di tanto in tanto i fogli su cui il nuovo arrivato stava disegnando dopo aver finito di mangiare, senza confessargli che non era la prima volta che lo vedeva al campus, che più di una volta i propri occhi si erano posati su di lui, ma che mai aveva avuto il coraggio di dirgli la verità, di presentarsi, di provare a parlare con lui.
Fino a prova contraria era sempre stato lo sfigato, lui, quello da evitare, quello che veniva preso in giro ed etichettato come “strano”. Con il tempo Zefiro si era convinto di esserlo davvero, strano, e di non meritare nulla di ciò in cui sperava per guadagnarsi un po’ di felicità nella propria vita.
Nel caso delle voci su Zefiro la verità stava nel mezzo: un po’ lo era davvero, strano, e un po’ si era lasciato influenzare da chi di lui diceva questo.
Poi, improvvisamente, si era convinto che la felicità potesse arrivare con Giacinto.
Il fato aveva voluto che qualche settimana dopo il loro primo incontro Giacinto si fosse seduto ancora una volta accanto a lui, trovando il posto a mensa libero.
Era ancora il periodo in cui Zefiro si ostinava ad andarci, pensando avesse un senso farlo.
Si era ricordato di lui, Giacinto. Gli aveva rivolto un sorriso raggiante e aveva detto che si ricordava di lui, del suo viso e del fatto che gli aveva già elargito la cortesia di farlo sedere accanto a sé quando la mensa era piena.
Da quando aveva cominciato l’università Zefiro non si era fatto nemmeno un amico. Non aveva voglia di farsene uno per le delusioni che le persone gli avevano provocato in passato, eppure quel bellissimo, splendido ragazzo dagli occhi verdi e il sorriso contagioso stava parlando proprio con lui.
Zefiro non avrebbe potuto essere più felice.
«Ma tu sei il ragazzo dell’altra volta!», aveva esordito Giacinto. «Io sono Giacinto, tu come ti chiami?»
Zefiro.
Tre sillabe da lui sempre odiate, anche se forse più a causa delle prese in giro retaggio dei primi anni di scuola, quando i bambini abbandonano l’innocenza per mostrare tutta la propria crudeltà.
Ancora si chiedeva perché i suoi genitori lo avessero voluto ferire in quel modo, dandogli un fardello tanto scomodo e pesante da portare come era il suo nome. Buffo fosse pesante: era il vento dell’ovest.
Sentendo il nome di Giacinto, Zefiro non indugiò un solo istante sul pensiero che fosse strano soltanto perché insolito. Pensò fosse perfetto almeno quanto lui.
«Zefiro? È un bel nome.»
Da quel momento Zefiro, il suo nome, lo aveva odiato un po’ meno.
Erano passati mesi da quel primo incontro. Mesi che per la verità erano stati costellati di incontri solo all’inizio: lui e Giacinto non avevano corsi in comune, non più almeno, perché Zefiro ricordava la sua nuvola di ricci durante le lezioni di storia dell’arte prima che Giacinto lo notasse, e il tempo lasciato libero dalle lezioni si riduceva a quello passato in mensa, o a casa e in aula studio per preparare gli esami.
Il fato non era dalla loro parte, ma Zefiro viveva per quegli incontri di un’ora appena, dove poteva respirare il profumo di Giacinto e godersi i suoi sorrisi.
Era come un’avida pianta che per crescere aveva bisogno di tutto il calore che Giacinto, uno splendido fiore, poteva emanare. Era come edera, Zefiro.
Nemmeno pensava che così facendo avrebbe potuto soffocarlo.
Nemmeno pensava che tutte le chiamate, l’essere andato a cercarlo a casa a sorpresa, dopo quella volta che era passato a prenderlo per uscire, potesse sembrargli inquietante.
Nemmeno pensava che aver rifiutato tutti gli amici di Giacinto con ostilità, che avergli preso senza chiedergli il permesso la mano dopo il film che avevano visto al cinema, potesse averlo scosso.
Perché Zefiro non realizzava di essere lui, il problema: era convinto fosse Apollo.
Lui, con la sua auto dalla carrozzeria rosso fiammante, che apriva la portiera a Giacinto nel parcheggio dell’università sotto lo sguardo di tutti per portarlo chissà dove, lontano da Zefiro.
Lui, che solo perché sapeva sorridere più di quanto non facesse Zefiro aveva stregato Giacinto a tal punto da farlo cadere fra le proprie braccia.
Lui, che gli aveva portato via Giacinto.
Lui.
Apollo.
Zefiro lo odiava.
E non esagerava, nel pensarlo. Odiava davvero Apollo e forse, in fondo, un po’ era arrabbiato anche con Giacinto; perché se all’inizio era certo il ragazzo si fosse lasciato stregare, che il suo compito fosse farlo risvegliare da quel sortilegio capace d’offuscargli mente e pensieri, poi Zefiro si era reso conto che a Giacinto stava bene. Si era reso conto che era felice di vivere così, fra le braccia di Apollo, convincendosi che quello fosse tutto il suo mondo.
Così Zefiro aveva iniziato a pensare che, forse, Giacinto non era poi così diverso dalle altre persone. Forse non era così speciale, forse sarebbe stato meglio lasciarlo andare.
Ma Zefiro prese una scelta pericolosa, una scelta drastica e carica di tutta la presunzione che un essere umano non dovrebbe nemmeno arrogarsi: aveva scelto di far cambiare idea a Giacinto, perché fra i due era lui a sapere cosa fosse meglio per quel ragazzo.
Perché lui lo amava, Giacinto.
Lo amava davvero.
 

«Scusami Zef, oggi devo uscire con Apollo.»
Ancora. Avrebbe aggiunto Zefiro.
Giacinto usava quel soprannome anche quando doveva dargli una notizia pessima come quella, quasi non si rendesse conto del dolore che gli provocava. Lo chiamava Zef e pareva scaldarlo, convincerlo che tutto sarebbe andato bene, e poi diceva quell’altro nome, pronunciava il nome di Apollo con tutto l’amore che aveva in corpo e pareva pugnalarlo nello stesso punto che poco prima aveva accarezzato con il suo soprannome.
«Lo immaginavo.»
Giacinto gli rivolse un piccolo sorriso. Quando uscivano ormai sembrava quasi intimorito da qualcosa che Zefiro non conosceva e che, in verità, ancora non gli aveva chiesto.
Si trattava del suo sguardo, in realtà, della fiammella di rabbia che pareva infuocare le sue iridi nere come la pece quando il telefono squillava e lui si accorgeva – o convinceva, accadevano entrambe le cose – che si trattava di Apollo. Leggeva quel nome e pareva infuriarsi, odiare Apollo, sé stesso e probabilmente anche Giacinto.
Si chiedeva perché, perché mai il ragazzo non potesse avere occhi solo per lui. No, così sarebbe sembrato troppo egoista, sarebbe sembrato pretenzioso: l’unica cosa che Zefiro voleva era che lo guardasse almeno un po’. Ma quel poco che osava chiedere all’inizio era diventato in fretta un «guardami tutto il tempo di cui ho bisogno.»
Ed era ingordo, Zefiro. Era ingordo come una belva che sa di poter prevalere su qualsiasi preda abbia intorno, che continua a cacciare e a nutrirsi anche se non serve, per la supremazia. Si sentiva così minacciato da Apollo, percepiva i propri sensi vibrare con tanta intensità quando gli si avvicinava anche solo con il pensiero, con le parole di Giacinto, che un paragone con le bestie nemmeno era errato. Si diceva sempre che esagerava, che non lo avrebbe fatto sul serio, ma non gli sarebbero dispiaciuti dei begli artigli da premergli sulla gola, con cui squarciare la carne e pressare la sua trachea fino a non sentire più il pulsare vitale della giugulare.
Si ripeteva di pensarlo senza ragione, solo per la rabbia.
Si era ripetuto questo anche quando, l’ennesima volta in cui Giacinto aveva fatto scorrere il polpastrello dell’indice sullo schermo del telefono per rispondere, si era immaginato mentre chiudeva le dita intorno al suo esile collo e premeva, premeva fino a che di parole per Apollo non ce n’erano più, perché a Giacinto mancava l’aria.
Lì sì, che si era spaventato. Perché lui a Giacinto non voleva fare del male, perché non era colpa sua se era così buono da aver scelto di perdere tempo con lui, per essersi reso disponibile con Apollo.
Già, doveva essere quel ragazzo ad averlo cambiato, ad averlo reso diverso. Giacinto era buono, era solare. Apollo lo aveva ammaliato come ammaliava tutti, con parole false che mai lui avrebbe dedicato a Giacinto.
Zefiro voleva che Giacinto fosse il suo, di sole, e se lo aveva scelto doveva essere perché in cuor suo sapeva che Giacinto non lo avrebbe mai abbandonato.
Non riusciva nemmeno a pensare che, forse, lo aveva idealizzato troppo. Che a conti fatti Giacinto era una persona come tutte le altre, un essere umano e che per questo, più o meno speciale che fosse, cambiava: cambiava e conosceva persone nuove, si legava a loro. Non è cattiveria, è la vita. E che la vita possa essere crudele è vero da secoli, da millenni, ma non tutto vien per nuocere. E nulla è una scusa per far del male agli altri.
Zefiro si era così perso nei propri pensieri da essersi già dimenticato cosa avesse chiesto a Giacinto di fare insieme, se si trattasse di un’uscita al centro commerciale o di prendere un cappuccino insieme nella caffetteria nuova del centro.
La seconda ipotesi sarebbe stata forse la più vittoriosa: Zefiro sapeva di non poter fallire, che avrebbe preso Giacinto per la gola perché il cappuccino di quella caffetteria lo adorava. Non c’erano stati insieme, per la verità Zefiro lo aveva visto seduto al suo interno mentre lo sorseggiava, l’espressione soddisfatta e due baffi di schiuma dipinti sul labbro superiore. Stava andando a prendere l’autobus dopo la lezione e la sua giornata si era rallegrata, accesa nel vederlo lì.
Se Giacinto avesse voluto prima prendere quel cappuccino e poi andare al centro commerciale, però, a Zefiro sarebbe andato bene comunque; il tempo passato con Giacinto era ambrosia per lui e avrebbe voluto drogarsi di quel nettare ogni singolo secondo senza mai esserne sazio.
Azzardò nell’immaginare lui e Giacinto aggirarsi per le vie del centro con le mani congiunte, strette, e poi le dita intrecciate in un groviglio che avrebbe reso il suo cuore palpitante e leggero come il vento.
Ma non sarebbe mai successo, perché Giacinto teneva una mano, sì, ma non era la sua. Era quella di Apollo.
Dio, quanto lo odiava. Lo odiava, lo odiava, lo odiava.
Proprio mentre si convinceva di poter avere un’occasione con Giacinto, proprio mentre riusciva a illudersi che i sorrisi del ragazzo fossero tornati tanto luminosi solo per lui, quell’idiota si era messo in mezzo.
Perché Zefiro non lo conosceva, ma era tutta colpa sua. Non avrebbe nemmeno mai voluto conoscerlo, un po’ per non ferirsi, un po’ per timore di scoprire che cosa i suoi istinti e pensieri crudeli lo avrebbero reso in grado di fare. Non tanto per Apollo, lui se lo sarebbe meritato, ma non voleva fosse Giacinto a rimanere ferito dall’immagine che in quel modo Zefiro avrebbe dato di sé.
Non voler vedere Apollo però cozzava con ciò che aveva fatto per parlare con Giacinto: lo aveva raggiunto sotto la tettoia della biblioteca, dove il ragazzo se ne stava solo, scrutando l’orizzonte. Zefiro si era inzaccherato dalla testa ai piedi per colpa della pioggerellina leggera ma fitta che imperversava da quella mattina, per arrivare a lui, ma era un male minore.
Giacinto indossava una felpa molto più grande di lui, ma se così non fosse stato Zefiro gli avrebbe volentieri ceduto la propria per poter poi affermare con orgoglio che fosse impregnata del suo profumo.
Ciò che Zefiro non sapeva era che Giacinto, sotto quella tettoia, aspettava Apollo. Sapeva che doveva incontrarlo, che dovevano uscire. Non che dovesse arrivare proprio da un momento all’altro.
No, mentiva: era ovvio sapesse. Apollo lo aspettava nel parcheggio con il sole più intenso, con la pioggia sarebbe corso da lui.
Zefiro voleva trovarsi lì, o se ne sarebbe andato.
Mentiva persino a sé stesso.
«Parli del diavolo…»
Zefiro percepì un brivido alla base della spina dorsale ancora prima di vederlo. Si sentì febbricitante e desiderò di sparire, di non trovarsi lì. Di non essersi mai trovato lì, per non sapere.
Vide un ragazzo che attraversava il parcheggio sotto un ampio ombrello scuro. Ma poco importava che fosse blu, verde, nero: il giovane uomo che lo reggeva sembrava brillare nel grigiore di quella giornata.
Zefiro ebbe l’impressione che a differenza sua, che sembrava un fantasma, Apollo fosse un raggio di luce.
Il sole di cui Giacinto si era innamorato, la fastidiosa sorgente di luce che Zefiro non avrebbe voluto vedere. Il sole che Giacinto era per lui.
Apollo gli donava luce, lo nutriva. Zefiro era l’ombra che invece inghiottiva Giacinto, scuotendolo con un vento che non meritava. Rischiava di spezzare il suo stelo da un momento all’altro e non faceva nulla per fermarsi, non voleva vederlo.
Quando Apollo arrivò sotto la tettoia e chiuse l’ombrello si fece vicino a Giacinto che, Zefiro lo vedeva, sorrideva come mai prima lo aveva visto fare.
«Ehi piccolo, sono in ritardo?» chiese Apollo, avvolgendo un braccio intorno ai suoi fianchi.
Si stava avvicinando per baciarlo, ma Giacinto si voltò e le labbra di Apollo si scontrarono sulla sua guancia. Il biondo aggrottò le sopracciglia e sfoggiò un broncio non indifferente. Prima che potesse chiedere e che Giacinto si schiarisse la voce, Apollo si degnò di accorgersi della presenza di Zefiro.
«Apollo, lui e Zefiro», lo presentò Giacinto.
Quella era la parte in cui gli porgeva la mano?
Zefiro si convinse in pochi istanti che i ragazzi come Apollo non davano mai la mano a quelli come lui. Non lo facevano e basta, poche storie.
Invece lo fece, maledizione a lui.
Era anche gentile.
«Oh, piacere. Devi essere l’amico di Giacinto», disse.
Ma non c’era entusiasmo. Sembrava circospetto, attento, come se sapesse qualcosa di cui Zefiro non era a conoscenza. Lo aveva definito l’amico di Giacinto, ma sembrava quasi ironico.
E un po’ lo era, Apollo, perché non avrebbe mai dimenticato il cambiamento nello sguardo di Giacinto quando aveva saputo che un certo Zefiro lo stava cercando al telefono.
Zefiro strinse la sua mano con vigore, più di quanto non ne utilizzasse di solito.
«Già, sono un suo amico.»
Suonò minaccioso e Giacinto si sentì a disagio. Apollo non raccolse la sfida. Non perché fosse sciocco, perché non avesse intuito che qualcosa non andava, ma perché da quando aveva messo piede sotto quella tettoia si era accorto che Giacinto si sentiva a disagio, che sembrava quasi spaventato. La sua priorità era farlo sentire al sicuro.
«Beh, per noi si è fatto tardi», prese in mano la situazione Apollo.
Aprì di nuovo l’ombrello e attirò Giacinto a sé.
«Andiamo?»
Giacinto annuì.
Sembrava essersi fatto sempre più piccolo in quella felpa e ancor di più contro il fianco di Apollo quando il biondo gli aveva avvolto il braccio intorno alle spalle.
Prima che si lanciassero sotto la pioggia, Apollo si voltò e rivolse a Zefiro un’occhiata. Una vera e propria occhiataccia nella quale si leggevano sdegno e ostilità.
Zefiro la ricambiò.
Maledizione, avrebbe voluto ucciderlo.




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Ed eccolo qui, Zefiro.
Mi ero bloccata a questo capitolo qualche mese fa, poi in uno sprint la settimana scorsa ho scritto la parte mancante della fanfiction. Quindi sì, ora i capitoli ci sono tutti, completi, fino alla fine.
Sto ancora decidendo che fare, ma non escludo che potrei pubblicarli tutti di fila entro stasera o nei i prossimi giorni.
Tengo a ringraziare Rika, perché ho atteso trepidante il suo parere essendo molto incerta della storia dall'inizio di questo capitolo fino alla sua conclusione. Grazie per aiutarmi sempre e per il tuo immenso supporto <3
Ringrazio chiunque abbia avuto la pazienza di aspettarmi e spero vogliate darmi un parere sul seguito della storia.
Al prossimo capitolo!

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Capitolo 6
*** Apollo e Giacinto ***


VI.
Apollo e Giacinto




«Hai intenzione di spiegarmi per bene cosa vuole quel tizio?»
Erano seduti nella macchina di Apollo da un po’, qualche bacio a scaldare l’atmosfera umida di quel piovoso pomeriggio. Lontano dal campus, lontano da tutto. Era accaduto giorni prima.
«Zefiro. Te l’ho presentato, no?»
«Hai capito che intendo.»
«È un amico.»
«Ah, davvero? Ti ostini a dirmi questo?»
E così Apollo aveva scoperto tutta la verità. Aveva scoperto di Zefiro, di come aveva conosciuto Giacinto, della sua capacità di trovarsi sempre casualmente nei paraggi a condizione ci fosse Giacinto.
Inquietanti coincidenze che al fidanzato avevano iniziato a stare strette.
«È solo questo, Giacinto?» aveva chiesto Apollo. «Ti senti minacciato per questo?»
Giacinto si era mordicchiato il labbro, aveva esitato.
«Una volta siamo usciti insieme e beh… credo pensasse che il nostro fosse un appuntamento?» aveva cominciato Giacinto. «Mi ha preso la mano, ma io non volevo e ho trovato ogni scusa per allontanarmi. Siamo anche usciti prima dalla sala e ho chiesto a Polybea di venirmi a prendere, di nascosto. Ma lui voleva accompagnarmi, voleva che rientrassi con lui.»
Giacinto ricordava ancora quella sera, la ricordava bene. Zefiro non si era mai reso conto di quanto lo avesse spaventato e lui, dal canto suo, non aveva mai fatto nulla per farglielo capire: aveva sperato che un cortese distacco sarebbe stato sufficiente, perché Giacinto era buono, era gentile e sapeva quanto Zefiro avesse sofferto; gli aveva raccontato dei bulli del suo passato e Giacinto stesso li aveva visti. Una volta aveva addirittura risposto male ad alcuni di loro, quando avevano urtato Zefiro con la spalla per fargli cadere dei libri.
«Siete dei bambini, quando crescerete?» aveva detto.
Lo aveva difeso perché non gli facevano paura, non come aveva iniziato a fare Zefiro.
Perché Giacinto avrebbe voluto essere solo amico di Zefiro.
Solo questo.
Eppure ricordava la mano del ragazzo che continuava a prendere la sua. Ricordava le sue invadenti domande quando Giacinto, agitato, era uscito dalla sala del cinema per prendere una boccata d’aria che, seduto sulle poltroncine, sembrava mancargli.
E ricordava quando aveva insistito perché salisse in macchina e nella testa di Giacinto erano comparsi i peggiori scenari. Polybea era arrivata appena in tempo, da quel momento Giacinto aveva cominciato a evitarlo.
Perché Giacinto stava lontano da Zefiro da molto prima di incontrare Apollo; da dopo quell’appuntamento.
Trovava i suoi messaggi, le sue chiamate. Trovava dei biglietti nei libri di scuola e non sapeva come fosse possibile, ma tutto si esauriva in quelle mura.
Gli stava lontano e si fingeva felice di vederlo perché temeva che altrimenti avrebbe incrinato un equilibrio sottile che il ragazzo manteneva per miracolo.
Giacinto non aveva bisogno di questo.
Giacinto aveva bisogno di Apollo. Aveva bisogno della luce, della dolcezza del ragazzo.
Perché era cortese Giacinto, era buono e Zefiro aveva sofferto. Ma non era una giustificazione, non era giusto costringersi ad avere paura per il suo bene, un bene falso che nemmeno lo avrebbe fatto crescere.
«Se dovesse importunarti ancora ci penserò io.»
«Non devi, Apollo! Davvero, va bene così.»
«No, neanche un po’. Non credevo stessi passando qualcosa di simile.»
Giacinto credeva di avere la situazione sotto controllo. Lo credeva davvero.
Credeva che Zefiro non avrebbe mai toccato Apollo e che pian piano si sarebbe semplicemente allontanato.
Quel giorno aveva ricevuto la conferma che le sue speranze erano state troppo rosee.
«Ehi, Giacinto!»
La voce di Zefiro lo raggiunse mentre attraversava il piazzale del campus per raggiungere il parcheggio. Gli venne spontaneo: si voltò, ma non smise di camminare.
«Ehi, Zefiro», ricambiò, nemmeno più servendosi del soprannome che usava di solito.
Da quando lo aveva visto presentarsi ad Apollo, Giacinto aveva compreso che doveva allontanarsi da quel ragazzo, che non c’era più nulla da salvare se non Apollo stesso. E Giacinto non sapeva spiegarlo, ma sentiva in cuor proprio che se fosse rimasto amico di Zefiro, se si fosse anche solo finto tale, Apollo sarebbe stato nei guai, ne avrebbe sofferto.
E Giacinto non voleva questo, non lo voleva per nulla al mondo.
Però anche Zefiro si era accorto di quel cambiamento nel suo tono, nel modo in cui lo aveva chiamato.
«Aspetta un attimo, Giacinto!»
Aveva accelerato il passo per raggiungerlo e Giacinto si disse che avrebbe solo dovuto camminare un poco più in fretta, che già vedeva il rosso scarlatto della carrozzeria dell’auto di Apollo.
Ma se lo avesse portato fin lì e fosse fuggito via, cosa avrebbe risolto?
Non sapeva cosa volesse Zefiro: se proporgli di uscire passando per la vittima ignorata della situazione, o cos’altro. Forse voleva rincarare a voce le calunnie inviategli per messaggio, su Apollo, perché era stato capace anche di questo, di inoltrargli una vecchia foto che ritraeva Apollo e una ragazza, e corredarla di una semplice domanda: «Credi che accadrà di nuovo?»
No, Zefiro non era la vittima e Giacinto era troppo buono.
Ma non era sciocco e doveva proteggere il ragazzo che amava.
Giacinto aveva ignorato, ignorato, ignorato. Aveva soprasseduto, ma solo in vista di un momento migliore.
Smise di camminare, prese un respiro e si voltò.
«Adesso basta.»
Giacinto era immotivatamente spaventato, perché nel parcheggio c’erano diversi ragazzi, persone che aveva incrociato e persone che non conosceva. Ma non era solo, di fronte a Zefiro.
Pensò ad Apollo, seduto nell’auto qualche metro più avanti e si sentì più forte.
Zefiro lo guardò, confuso.
«Che cosa…»
«Fa parlare me!» sbottò il ragazzo, nervoso. «Sono stanco… perché non capisci che devi smetterla? Potevamo essere amici, potevamo esserlo, ma continui a comportarti come se fossi la vittima quando invece non lo sei!»
Giacinto strinse le mani in due pugni duri, serrati.
«Sono felice con Apollo, sono davvero felice grazie a lui. E se tu tenessi a me come dici di fare, allora proveresti ad essere felice per me e non faresti… così.»
Zefiro aveva gli occhi sgranati, le labbra schiuse. Ma non c’era solo sorpresa, non sembrava essere solo scosso perché l’uccellino che credeva di tenere fra le proprie grinfie si stava ribellando, troppo forte persino per i suoi artigli acuminati. No: Zefiro era furioso. Furioso perché lui, i propri torti, non li vedeva.
Non vedeva il modo in cui aveva soffocato Giacinto.
Non vedeva il modo in cui lo stava spaventando e ferendo.
Non vedeva nulla perché Zefiro credeva di avere ragione. No, lui sapeva di averla.
Ed era colpa di Apollo. Era colpa di Giacinto.
«Quindi ora me ne vado e per favore, per favore, smettila di cercarmi. Non può funzionare per nessuno», spiegò. «E lascia fuori Apollo, non mi ha detto lui di parlarti in questo modo.»
Furono quelle ultime parole a far infuriare Zefiro. Lo resero la belva che temeva di diventare, ma che non aveva fatto nulla per soggiogare.
Ringhiò e iniziò a camminare verso Giacinto.
«Non sei tu che stai parlando, non ti rendi conto che è stato lui a farti diventare così?!»
Ormai erano quasi giunti alla macchina di Apollo.
«Finiscila!» rispose Giacinto, nervoso.
Diverse persone si erano fermate per ascoltare cosa stesse succedendo.
«Sei tu il problema, sei tu!» gridò ancora Giacinto.
Il rumore sordo di una portiera.
«Ehi!»
Apollo era sceso dall’auto perché Giacinto non urlava mai. Uno sguardo allo specchietto retrovisore era stato sufficiente per fargli capire che cosa stesse accadendo e la gravità della situazione. Si era gettato in soccorso del suo amato.
Giacinto si mise in mezzo, lungo il cammino di Apollo e poggiò le mani sul suo petto.
«No, no Apollo… lascia stare, ti prego. Andiamo via, è tutto risolto.»
Giacinto lo guardò, vide l’espressione rabbiosa sul volto del fidanzato e gli prese il viso fra le mani. Lo guardò negli occhi e provò a sorridergli.
«Va tutto bene, andiamo via.»
Apollo lo guardò qualche istante e in quegli occhi verdi ritrovò la ragione, il senno. Non c’era nulla che gli impedisse di spaccare la faccia a Zefiro se non Giacinto. Per lui Apollo avrebbe dato il peggio di sé, si sarebbe abbandonato ai flutti dell’ira. Ma per lui voleva anche essere migliore.
Si placò e annuì, accarezzando a propria volta il viso di Giacinto prima di sospingerlo verso l’auto, quasi lo stesse mettendo al sicuro.
Quando Apollo alzò il capo, Zefiro si fermò. Non perché avesse paura, non perché avesse visto Apollo scendere dall’auto e fulminarlo, dopo aver udito quel trambusto. Non perché lo aveva visto corrergli in contro in preda alla rabbia.
Ma perché Zefiro si convinse di aver visto sul suo viso un sorriso.
Era Apollo che aveva cambiato Giacinto, era stato lui.
E mentre lo guardava aggirare l’auto e far salire Giacinto, mentre lo portava via, Zefiro continuò a pensarlo.
Era tutta colpa sua.
 
 
Giacinto non avrebbe mai potuto dimenticare in fretta quanto era accaduto quel giorno nel parcheggio. Non avrebbe potuto dimenticare lo sguardo folle di Zefiro, la paura che Apollo scendesse dall’auto. Non avrebbe potuto dimenticare nulla per molto tempo, ma adesso andava tutto bene.
Giacinto si era tolto un peso e in cuor suo era certo che questo avrebbe reso molto più felici sia lui che Apollo.
Si era sfogato fra le sue braccia, in auto. Aveva tremato e aveva singhiozzato e ancora portava i segni di quelle lacrime, come piccole borse arrossate sotto i suoi occhi.
Ma andava tutto bene.
Apollo gli aveva sussurrato all’orecchio che era forte, che non avrebbe dovuto affrontare più nulla da solo. Gli aveva sussurrato che era il suo piccolo eroe coraggioso e Giacinto si era sentito invincibile.
Sarebbe andato tutto bene e Giacinto lo sapeva, lo sapeva perché in quel momento nulla poteva toccarli: Giacinto era stretto fra le braccia del suo Apollo, sul divano di casa. Stavano guardando uno sciocco programma televisivo mentre in casa non c’era nessuno; si scambiavano morbidi baci, qualche carezza maliziosa perché nessuno li avrebbe visti.
Giacinto ridacchiava e si sentiva al sicuro.
La storia che aveva raccontato ad Apollo in macchina giorni prima, Zefiro, le grida nel parcheggio, ogni cosa era chiusa fuori, lontana.
Apollo aveva detto che lo avrebbe protetto e Giacinto sapeva che sarebbe stato così, che lo avrebbe fatto. Perché lui avrebbe fatto lo stesso.
Lo aveva visto scendere dall’auto appena qualche ora prima, fiero come un angelo della guerra. Aveva intimorito Zefiro solo con gli occhi.
Giacinto sentì un lieve solletico sulla pelle, colpa delle labbra di Apollo che stavano soffiando sul suo collo.
«Non stavamo guardando la televisione, mhn…?» domandò sottovoce Giacinto.
«Io non la stavo guardando…»
Giacinto ridacchiò, sollevando la coperta per avvicinarsi al fidanzato e rubare un bacio alle sue labbra. I loro respiri scaldavano il piccolo ambiente protetto dalla lana, mentre le loro labbra schioccavano le une sulle altre. Era maggio inoltrato, ma da qualche giorno pioveva o minacciava sempre di farlo, il vento spazzava gelido le strade.
Giacinto carezzò il viso di Apollo, saggiò quei lineamenti decisi che tanto amava e si sentì come il primo giorno in cui aveva iniziato a vivere quel sogno.
Nemmeno il trillo del campanello riuscì a rovinare quella sensazione.
«Chi è che rompe a quest’ora?» bofonchiò Apollo contro le morbide labbra di Giacinto.
Il ragazzo fece saettare lo sguardo verso il portoncino d’ingresso.
«Non so…» confessò, ancora distratto dal bacio di Apollo.
«Non andare ad aprire…» protestò Apollo, spostando i baci sulla guancia di Giacinto.
Il giovane ridacchiò, accarezzandogli i morbidi capelli biondi. Parve rinsavire.
«Dovrebbe essere Polybea, mi ha scritto che aveva dimenticato le chiavi e che sarebbe rientrata presto», spiegò, tentando di alzarsi.
«Se è Polybea non posso più starti appiccicato!»
«Stai forse suggerendo che dovrei lasciare mia sorella sotto il portico perché tu vuoi starmi appiccicato?» gli domandò divertito.
«Vuoi la verità? Sì.»
Giacinto sfuggì alla presa di Apollo e gli lanciò contro un cuscino, ridendo.
«Lei andrà in camera e sarò tutto tuo, non hai nulla di cui preoccuparti», lo rassicurò. «Basta che ti comporti bene e mi lasci fare piano…» aggiunse malizioso.
Si chinò e gli rubò un altro bacio prima di avviarsi verso la porta.
Apollo lo guardò andare, il cuscino che Giacinto gli aveva tirato stretto al petto.
Sentì la porta aprirsi.
In qualche modo gli parve di sentire dell’esitazione dall’uscio.
«Che ci fai qui…» cominciò. «… Zefiro?»
L’aria gelò.
Dal divano Apollo non poteva vedere l’ingresso della casa, ma captò la preoccupazione nella voce di Giacinto e immaginò che il ragazzo avesse parlato per metterlo in guardia.
Che diavolo ci faceva lì quell’idiota?
Giacinto sentiva freddo. Sentiva il sangue ghiacciare nelle vene come tutte le volte che aveva Zefiro di fronte, ormai. Era come se un vento freddo gli frustasse il viso, il corpo. Mordeva la pelle e lo faceva soffrire.
«Ero da queste parti e ho pensato di passare a scusarmi. Sai, per oggi nel parcheggio», disse il ragazzo.
Sapevano entrambi che era una bugia. Sapevano entrambi che se Zefiro era lì era solo perché voleva essere lì e non di certo perché si era ritrovato casualmente nei paraggi, essendo casa sua discretamente lontana.
Giacinto reggeva saldamente la maniglia della porta. Avrebbe potuto sbattergliela in faccia. Avrebbe dovuto.
«Scuse accettate. Ma quello che ti ho detto non cambia», rispose deciso Giacinto. «Ora scusa, ma… ci sono dei parenti e non è un buon momento.»
Mentì con il sorriso più convincente di cui disponeva. Zefiro pensò che fosse bello, anche se sapeva che gli stava mentendo: aveva visto la macchina di Apollo sul vialetto e non sentiva alcun vociare dall’interno della casa.
E come conferma lo vide comparire alle spalle di Giacinto.
Apollo, in tutta la sua statuaria bellezza, i capelli biondi sciolti a incorniciare il viso cesellato.
Ecco, Giacinto avrebbe voluto che non accadesse. Non avrebbe saputo come gestire una rissa, era il suo terrore più grande da quando Apollo aveva scoperto di Zefiro: non voleva che Apollo si facesse male e nemmeno che finisse nei guai a causa sua, non voleva comprometterlo in nessun modo. Temeva davvero ciò che Zefiro sarebbe stato in grado di fare e per la verità quando aveva detto il suo nome, con sforzo enorme, lo aveva fatto sperando che questo avrebbe tenuto Apollo saldamente ancorato al divano.
Si sbagliava.
Forse il fidanzato sentiva ancora il desiderio impellente di colpire la faccia di Zefiro, come gli aveva garantito che avrebbe fatto e come gli era stato negato di fare quel giorno nel parcheggio.
Giacinto era riuscito a fermarlo quel pomeriggio, non era certo di poterci riuscire di nuovo.
«C’è qualche problema?» domandò Apollo, raggiungendo il fianco di Giacinto. «Ah, ciao, Zefiro.»
Lo disse come se avesse avuto la conferma di un problema e quel problema stava esattamente dirimpetto a loro, sull’uscio di casa.
Zefiro voleva strappargli quel sorrisetto dalla faccia.
Il sorrisetto che era convinto di aver visto, quello strafottente e di scherno.
Ma lo vedeva solo Zefiro, perché Apollo era serio e non avrebbe mai osato sorridere, non a lui. Non voleva schernirlo, metterlo in ridicolo.
Il vecchio Apollo lo avrebbe fatto, quello che aveva conosciuto Giacinto, che era cresciuto grazie a lui invece no, perché era migliore.
Voleva solo che Zefiro se ne andasse e li lasciasse in pace, che smettesse di terrorizzare Giacinto.
«Ciao Apollo.»
Apollo vide Giacinto tremare appena e portò una mano sulla sua spalle.
Poi realizzò qualcosa, qualcosa che Zefiro non aveva mai fatto prima, nei suoi confronti: aveva sorriso.
Un sorriso malato, inquietante.
Capiva perché Giacinto tremasse.
«Siamo impegnati, ti dispiacerebbe…»
«Non così in fretta.»
Un rumore metallico e Apollo si trovò a fronteggiare la canna di una pistola puntata esattamente verso di lui.
«Zefiro, no! Cosa stai--»
Giacinto provò a intromettersi, ma Zefiro aveva gli occhi puntati in quelli di Apollo. Toccarlo avrebbe potuto significare farlo sparare.
«Non sei più così sicuro di te adesso, eh? Non sei più così strafottente», ringhiò. «Non mi dici più di levarmi dai piedi!»
Apollo lo fissò negli occhi. L’istinto primario era stato di tirare Giacinto dietro di sé, ma era più al sicuro lì, fuori da quello scontro, a qualche passo da loro. Preoccuparsi per lui lo aiutò a mantenere il sangue freddo.
Alzò appena una mano.
«Stai fermo!» sbottò Zefiro.
«Voglio solo far allontanare Giacinto», gli spiegò, con calma. «Sei qui per me, no? Non vuoi che lui si faccia male.»
Zefiro sussultò e annuì appena.
«Ma Apollo…» tentò di protestare Giacinto.
Il ragazzo gli fece cenno con il capo di allontanarsi e sperò, sperò che capisse davvero la sua idea.
«Sono stanco di vederti… il ragazzo perfetto che ha ogni cosa. Giacinto non era… così. Lo hai reso diverso… lo hai rovinato.»
Delirava, pareva un folle. E mentre Giacinto provava l’impulso di intromettersi, di tentare almeno di calmare Zefiro, Apollo sosteneva quello sguardo pazzo con occhi gelidi, ma fieri.
Era questo che Zefiro odiava di lui: la fierezza.
Perché era così?
«E pensi forse che sparandomi risolverai le cose? Pensi che lui ti vorrà a quel punto?»
«No! Non lo penso, ma almeno ti avrò tolto di mezzo!»
Il dito di Zefiro tremava sul grilletto.
Doveva prendere tempo, prendere tempo. Ogni secondo.
Giacinto stava lasciando parlare lui, mentre arretrava. Poi Apollo vide che aveva capito: si era avvicinato alla centralina dell’allarme.
Un piccolo cenno e il rumore assordante dell’antifurto risuonò per tutta la casa.
Zefiro si voltò verso Giacinto, un’espressione tradita in volto. Fu un istante utile per Apollo, che afferrò il braccio di Zefiro per fargli lasciare la pistola.
Ma maledizione, aveva una stretta di marmo intorno al calcio dell’arma.
«È finita Zefiro, lasciala andare!» gridò. «La polizia sarà qui fra poco!»
Ciò che ottenne in risposta furono dei ringhi sommessi, indice di tutto lo sforzo che Zefiro stava mettendo nel vano tentativo di caricare il suo corpo per fare in modo che lo lasciasse.
Non sembrava più nemmeno umano.
Apollo tentò di tenere il suo dito lontano dal grilletto in ogni modo.
Un colpo esplose verso l’alto.
Dov’era Giacinto, dov’era?
Non lo vedeva più.
Poi lo intercettò: si era avvicinato all’armadio dell’ingresso dove sapeva che suo padre teneva i ferri da golf.
Solo qualche istante e con un colpo Zefiro sarebbe stato a terra.
Apollo doveva solo dargli tempo.
Si ritrovò premuto contro la parete con tutto il peso di Zefiro e poi a spingerlo contro l’altra parete.
In preda alla disperazione Zefiro morse il suo polso, per fargli lasciar andare la presa sulla sua mano. E maledizione, fu una trovata geniale perché i nervi di Apollo risposero involontariamente al dolore, allentando la morsa sulle dita di Zefiro.
Con un calcio venne allontanato e fece giusto in tempo ad afferrare di nuovo il braccio di Zefiro per far cambiare traiettoria al proiettile della pistola. Lo avrebbe colpito se solo non fosse riuscito a deviarlo.
Un gemito.
Apollo sgranò gli occhi.
Giacinto si era spostato, non era più di fronte al salotto.
Era davanti alla porta d’ingresso ancora aperta nella fretta, dopo averli aggirati attraverso la cucina.
Nel caos della colluttazione, Apollo non lo aveva visto.
Il manico nella mano di Giacinto cadde a terra e tintinnò mentre una macchia rossa si spandeva sul petto del ragazzo.
«No… no… no!» gridò Apollo, precipitandosi verso di lui prima che cadesse.
Lo strinse fra le braccia e lo accompagnò sul pavimento freddo mentre il corpo molle di Giacinto si accartocciava al suolo. Ed era un po’ come se anche Apollo stesse crollando, sprofondando, insieme a lui.
Gli accarezzò il viso.
«Ehi… ehi… va tutto bene, andrà tutto bene», tentò di rassicurarlo.
Lo stava facendo per lui o per sé stesso?
«Dio… cosa ho fatto?»
Non gli importava che Zefiro fosse dietro di lui con una pistola, non gli importava nulla. Poteva anche ammazzarlo, a quel punto.
Nemmeno l’aveva sentita cadere al suolo, l’arma, il ragazzo pietrificato per ciò che aveva fatto alle sue spalle. Era in stato confusionale sul pavimento, mentre fissava le dita che prima impugnavano la pistola. Riusciva ancora a biascicare di non avere colpe, che era stato Apollo.
Era Zefiro il responsabile, eppure Apollo sentiva che era colpa sua. Quel proiettile era per lui.
Era per lui.
Pressò una mano sulla ferita.
Ora Apollo aveva paura, più di quanta non ne avesse provata di fronte alla canna della pistola che Zefiro gli aveva puntato contro.
«Resta sveglio, Giacinto… resta sveglio…»
Era vicino al tavolino dell’ingresso, dove si trovava il telefono. Compose il numero delle emergenze mentre il telefono squillava.
Giacinto gli sorrise.
«Va tutto bene, Apollo… va tutto bene», sussurrò, mentre alcune lacrime si formavano agli angoli dei suoi occhi.
Era spaventato, aveva paura. Provava dolore.
«Non è colpa tua…» esalò.
Una voce metallica rispose dalla cornetta.
«Mi serve aiuto, un ragazzo è stato ferito con un’arma da fuoco…»
Giacinto gli sussurrava di ascoltarlo, mentre Apollo parlava. Sembrava lucido, ma lo sembrava e basta.
Mentre balbettava l’indirizzo, Apollo sentiva le dita bagnarsi di sangue e lo vedeva dilagare sul pavimento. Sembrava una palude cremisi che voleva inghiottire il suo Giacinto.
«Dio, no… Giacinto, ti prego tieni gli occhi aperti…»
Si chinò sul suo viso. Lo vide sporgersi poco, come se volesse chiedergli qualcosa e Apollo gli andò incontro. Lo baciò, con tutta la disperazione che aveva in corpo.
Sentiva il metallo sulla lingua.
E quando si allontanò, le lacrime agli occhi proprio come Giacinto, vide uno splendido sorriso sbocciare sulle sue labbra. Anche se era pallido, anche con il volto imperlato di sudore, anche con il sangue che arrossava i suoi denti.
Giacinto era bellissimo.
«Ti amo, Apollo…»
E sussurrò ancora che non era colpa sua, mentre si aggrappava con le dita alla camicia del fidanzato. La strinse forte, con tutta la forza che aveva.
Ed era poca, maledizione. Era poca.
Aveva paura, Apollo glielo leggeva negli occhi. Era terrorizzato eppure cercava di essere forte, per lui.
Il suo Giacinto cercava di fare del proprio meglio, anche in fin di vita.
Il suo piccolo, coraggioso eroe.
«Ci ritroveremo, vedrai…»
Le palpebre gli pesavano sugli occhi vitrei, le labbra ancora sorridenti. La sua linfa vitale sul pavimento e l’ultimo respiro fuori dalle sue labbra.
Non si era dato alcuna speranza.
Apollo lo stringeva, stringeva la ferita dicendo che sarebbe guarito. Ma lo aveva appena visto andarsene.
«No… no ti prego Giacinto, non mi puoi lasciare… non posso… io non posso…»
Singhiozzò. E le lacrime scesero, copiose, lungo le sue guance.
Le sirene in fondo al vialetto, della polizia o dell’ambulanza.
Apollo gridò.
Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, con tutta la rabbia che aveva in corpo.
Gridò così forte da farsi male alla gola, ai polmoni.
Gridò il proprio dolore e più gridava, più ne sentiva nascere.
Si accasciò sul corpo esanime di Giacinto, le lacrime che si mescolavano al suo sangue.
Il pavimento era rosso scarlatto.
E non volle lasciarlo andare, nemmeno con i paramedici intorno, nemmeno con i poliziotti che bloccavano Zefiro.
Si rivide seduto sul letto di Giacinto, mentre gli baciava le spalle e il viso caldo, roseo, vivo.
«Il Giacinto ha tanti significati, sai, Apollo?»
Lo ricordava.
«Dolore è solo uno dei tanti.»



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Non mi dilungo in queste note. Vi aspetto nell'epilogo, già pubblicato dopo questo capitolo.

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Capitolo 7
*** Epilogo ***


Epilogo




A Giacinto,

mio unico, vero, grande amore.
Sono passati due anni da quando te ne sei andato, da quando ho potuto stringere il tuo corpo fra le braccia un’ultima volta. Due lunghi anni in cui ho temporeggiato, mi sono seduto alla scrivania prendendo la penna. Quando la poggiavo sulla carta non sapevo cosa dire. Non sapevo cosa scrivere. Non sapevo più che cosa pensavo.
In realtà, non ho più saputo che cosa stessi pensando da dopo la tua scomparsa.
Sono impazzito dal dolore, Giacinto. Non sai quanto. E quando il dolore non lo sentivo, ero pazzo e basta; tutti si aspettavano che sparissi dalla circolazione per un po’, che sfogassi tutto ciò che provavo. Si aspettavano di vedermi in lacrime in ogni angolo della casa, i miei genitori sono addirittura tornati per un mese dai loro lavori fuori città per occuparsi di me. E io non facevo una piega. Ero una statua.
Sono tornato a lezione tre giorni dopo.
Tutti sapevano cos’era successo, solo io non sapevo che tutti ne erano al corrente.
Sentivo i loro sguardi di compassione e per la prima volta nella mia vita quasi nessuno ha osato parlarmi. Ero al centro dell’attenzione, ma speravano che diventassi invisibile, che qualcuno con cui era così difficile trattare, a cui non sapevano che cosa dire, sparisse.
Perché quando incarni il male che gli altri non vogliono provare, Giacinto, non vogliono nemmeno vederti.
Ho continuato a far finta che andasse tutto bene.
Sai perché ho creduto di essere impazzito?
Perché un giorno mentre andavo a lezione ti ho visto sulla panchina.
Tu c’eri, anche se sapevo che non poteva essere vero. Però sono rimasto calmo. E non ti ho immaginato. Eri proprio lì, a disegnare. Avevi le labbra rosse dopo averle serrate per concentrarti, le briciole della gomma sul blocco da disegno.
C’era tutto, Giacinto.
C’eri tu.
Quando mi sono avvicinato ho capito che non mi sbagliavo, che eri tu, perché stavi disegnando me e per quanto ti abbia visto farlo milioni di volte, quel ritratto aveva qualcosa di nuovo, di diverso.
Avevo gettato un’ombra fastidiosa sul foglio, così hai alzato il viso e mi hai guardato.
Hai sorriso.
Niente di più, niente di meno. E poi sei scomparso, sotto il mio sguardo stralunato e sconvolto.
Mi sono convinto che fosse un segno, che fossi tu. Che volessi dirmi che andava tutto bene.
Non ne ho mai fatto parola con nessuno. Sai perché? Perché ho pensato che l’unica persona che mi avrebbe creduto, che mi avrebbe capito, saresti stato tu.
E tu non ci sei, Giacinto.
Maledizione, non ci sei.
E me lo ricordo ogni giorno, ogni mattina quando apro gli occhi.
Sento la sveglia, sollevo le palpebre. Fisso il soffitto e tante volte si annebbia. Si annebbia di tutte le lacrime che ho pianto la notte e che ho tenuto nascoste.
Perché saranno passati due anni, ma io ti piango ancora, anche se di nascosto.
Perché questo faccio io: mi nascondo. Sorrido anche quando non dovrei. Grazie al cielo Artemide capisce, alle volte ha addirittura dormito con me. Era una cosa che non facevamo da quando eravamo bambini e io non so, non so se sia stato questo pensiero, che mi ha fatto credere che se fossi stato piccolo il nostro amore fosse tutto da vivere e ti avrei potuto incontrare ancora, o se sia stato sentire un corpo caldo sul letto accanto a me di nuovo.
Ricordo che la prima volta che Artemide ha dormito con me, ed è successo dopo mesi da… quello, ho pianto. Mi sono rannicchiato contro di lei e ho pianto come un bambino, ho pianto tutte le lacrime che avevo in corpo e la cosa che ha fatto davvero paura è che quando lei mi diceva di calmarmi, che sarebbe tutto passato, non la sentivo. Non la sentivo perché non ci credevo, perché non sarebbe mai passato.
E a distanza di mesi, anni, questo lo posso dire: avevo ragione. Non è passato, non passerà mai. Posso solo conviverci, sperare che con il tempo faccia meno male.
Ti vedo ancora su quella panchina, alle volte. Entro in camera mia con i pancake che ti preparavo e che tanto ti piacevano e ti immagino a gambe incrociate sotto il lenzuolo, per coprire il tuo corpo nudo.
E mi sorridi.
Mi manca il tuo profumo, mi manca ogni cosa.
Mi manca la tua risata.
Perché anche se non dimenticherò mai, non la posso sentire.
Alle volte mi convinco anche che in casa manchi qualcuno che deve tornare. Ed è vero, che qualcuno manca. Ma non tornerai.
È un inganno del mio cervello, questo. Ho sperato che ogni cosa fosse un suo inganno, che un bel mattino mi sarei svegliato credendo fosse tutto un brutto sogno. Ed è successo, una volta: ho sceso le scale pensando di chiamarti per darti il buongiorno.
Poi ho ricordato.
Così come ho ricordato dopo essere passato davanti al locale del nostro primo appuntamento. Mentre rientravo, la macchina mi ha portato davanti a casa tua. Ha fatto tutto da sola, io neanche me ne rendevo conto.
Sono sceso e ho ripercorso i nostri passi, mi sono fermato dove ho sperato di rubarti il primo bacio e poi ho guardato la porta, oltre la quale eri sparito.
Ho suonato il campanello e ho passato tutta la sera insieme ai tuoi fratelli.
Ci teniamo in contatto, sai? Alle volte li vado a trovare io, alle volte vengono loro da me.
Hanno lasciato la stanza in disordine perché gli ricorda te.
Il giorno del tuo funerale hanno anche accettato la mia idea di lasciarti vicino un blocco da disegno e una matita. Bianco, nuovo di zecca, la matita con la punta appena fatta.
È uno di quelli che ti ho regalato io e che ancora non eri riuscito a cominciare.
Ho pensato che potesse farti piacere e, a conti fatti, è un segreto fra noi quattro: me, te e i tuoi fratelli.
Faccio visita alla tua tomba ogni mese, il giorno del nostro mesiversario. Prima ero qui ogni settimana, poi ho capito: tu non sei qui. Sei ovunque, in ogni cosa. Ogni persona che ti ha conosciuto ha un pezzo di te e ne sono felice, non voglio essere egoista.
Anche Atena.
L’ho incontrata in biblioteca e su due piedi ho provato il cinico bisogno di dirle «ehi, non farò alcun rumore questa volta, ne sei felice?»
Poi però sono rimasto zitto, ho pensato a te che mi dicevi che non sarei stato cortese nel farlo. Mi ha rivolto uno sguardo, poi è tornata a studiare.
È stata lei a parlare per prima.
Stavo cercando di liberarmi di quell’esame maledetto… quello per cui mi hai aiutato a studiare, ricordi? Con te che non mi leggi più i bigliettini con le domande è diventato meno facile studiare e anche molto meno divertente, ma ho trovato un modo per farcela. Ecco, proprio mentre ripetevo una di quelle parole che non ricordavo mai, Atena ha alzato lo sguardo.
Mi manca sentirvi parlare.
Ha detto solo questo.
E non lo so, sai, avrei potuto arrabbiarmi. Avrei potuto dirle che anche a me mancava, che quella che aveva detto era una sciocchezza. Però mi è servito per realizzare che segno profondo hai lasciato nelle persone, non solo in me. Ho visto con i miei occhi quanto per entrambi fossimo uniti e non lo so, mi ha reso felice. Il nostro amore è ovunque.
Questo è successo prima che sapessi di lui.
Se non avessi avuto il tuo corpo da stringere mentre arrivava la polizia, quella notte, lo avrei ucciso.
Giuro, Giacinto, che lo volevo uccidere.
Ho anche pensato di farlo poi, a mente lucida. Credevo di non avere più uno scopo e ho pensato che potesse diventare quello.
Lo hanno arrestato, processato. Ergastolo.
E forse sono più felice così, sempre che possa esserlo, senza essermi fatto giustizia da solo. Odiarlo non mi farà riavere te, l’unica cosa di cui ho bisogno. Odiare me stesso come ho fatto all’inizio, quando mi incolpavo di averti ucciso tentando di proteggerti non salverà nessuno. Ti renderebbe triste e ho lasciato andare tutto questo, tutto ciò che potrebbe farlo. Ho scelto di restare una persona di cui tu potresti essere fiero. Non crescerò mai come sarei cresciuto con te accanto, avevamo tante idee e tanti progetti, ma farò del mio meglio. Ne porterò a termine alcuni – ho ridipinto la mia stanza, del bel verde che mi avevi consigliato tu e hai ragione: mi mette di buon umore – e altri rimarranno dei sogni. Ma che male c’è, in fin dei conti, a sognare?
Ti aspetterò, così le altre nostre idee le realizzeremo insieme.
Mi sono preso il mio tempo per scrivere questa lettera, già te l’ho detto.
Mi è venuta in mente quella volta in cui con il mento sulla mia spalla mi hai intimato di non forzarmi, mentre tentavo di scrivere. Hai detto che le parole sarebbero venute quando sarebbe stato il momento. Premevo per farle uscire, mi obbligavo a trovare una voce che non avevo. E poi sono arrivate, spontanee, proprio come avevi detto tu.
E riesco solo a dirti quanto ti amo, ora. Quanto ti ho amato e quanto ti amerò sempre.
Con il tempo le persone hanno smesso di volermi lontano, qualche vero amico si è palesato. Ricordi il ragazzo buffo della caffetteria dove ci piaceva andare? Quello che ti ha domandato un disegno della sua ragazza e in cambio ci ha offerto il caffè per una settimana? Un giorno mi ha chiesto che fine avessi fatto e quando gli ho detto la verità è stato così triste che il giorno dopo ha appeso il tuo disegno dietro il bancone.
Adesso siamo amici. Ti piacerebbe, ne sono sicuro. Gli parlo spesso di te.
E anche se ho incontrato nuove persone, non credo l’amore faccia più per me, Giacinto. Sono giovane, è vero, ho tutta la vita davanti. Ma sai quando senti che qualcosa è una forzatura? Ecco. Ecco cosa sento. Sento che l’amore per me è come le parole che non vogliono uscire, perché ho già avuto il mio meglio.
Forse è solo per adesso, forse sarà per sempre. Forse verrà da sé quando sarà il momento, potresti avere ragione.
Quello che posso prometterti, Giacinto, è che proverò a non perdere la mia luce. Tu non avresti voluto. Avresti voluto vedermi sorridere. No, so che tu vuoi vedermi sorridere, dovunque tu sia. Troppo lontano.
Dopotutto è quella luce che devo ringraziare, se ti sei innamorato di me.
Ricordo quando ti ho letto la mano, al nostro primo appuntamento.
Ti ho detto che sembrava avessi vissuto molteplici vite, prima di questa. E io lo spero, sai? Spero che sia vero. Spero che esista un mondo, da qualche parte, dove siamo insieme e siamo felici. Spero ci sia un mondo dove sei riuscito a insegnarmi a disegnare qualcosa che non sia un omino stilizzato, dove mi sgridi ancora per l’anatomia che so bene a memoria ma non so riprodurre. “Come puoi ricordarti dove sono i muscoli e non saperli disegnare, dico io!” Me lo ricordo ancora, il tuo viso imbronciato e quel tono. Maledizione, quel tono che voleva rimproverarmi ma che in fondo aveva questa punta di fiducia anche per me, il tuo caso artistico più disperato.
Spero in un mondo dove viviamo in una villetta in cui tu dipingi i quadri per le tue mostre e a cui io faccio ritorno, scoprendoti sempre pronto ad aspettarmi.
Spero in un mondo dove dipingi un nostro ritratto, aspettato con impazienza, per vedere attraverso i tuoi occhi quanto ti senti felice, perché io lo sarei tantissimo.
Ecco cosa devo fare, ora: aspettare.
E aspetterò.
So che forse mi avresti detto di andare avanti e a modo mio lo sto facendo. Ma so che non troverò mai nessuno come te. Nessuno potrà mai competere e il mio cuore, ormai, è tuo.
Ho incorniciato sulla scrivania il ritratto che mi hai fatto, quello che ti piaceva di più perché nei miei occhi leggevi tutto l’amore che provavo per te. Me lo hai detto con le guance rosse e un piccolo sorriso sulle labbra.
Sul comodino invece c’è la nostra foto, quella bella, dove sorridiamo entrambi perché eravamo nel nostro angolo di paradiso. Non ricordo dove fossimo, forse il parco. Ogni posto era un paradiso, con te.
Quel posto non ce l’ho più, ma sto tentando di conviverci.
Tra pochi mesi mi laureerò, sarò dottore.
Avrei voluto sentirtelo usare con cognizione di causa, dottore, e non per prendermi bonariamente in giro.
Guardami, Giacinto.
Sto facendo del mio meglio.
Sto affrontando ogni cosa, sto andando avanti.
Sto cercando di rendere questa vita immensamente vuota in qualche modo sensata.
E ti voglio ringraziare, per tutto.
Ti voglio ringraziare per avermi amato, per essere stato con me. Ti ringrazio per ogni sorriso, per ogni risata che ancora mi strappa il ricordo dei nostri sabati sera stretti sul divano a commentare qualche sciocco programma televisivo.
Grazie per ogni cosa, amore mio.
Sarai l’ispirazione delle mie poesie, di ogni mio giorno. Sarai il mio unico pensiero mentre guardo gli album da disegno che ho portato a casa mia e che ho riposto sullo scaffale sopra la scrivania.
Sarai sempre con me.
Ho fatto avverare uno dei nostri propositi: ho imparato a fare giardinaggio. Ora sul davanzale della mia camera c’è un vaso, uno di quelli rettangolari. Ho piantato dei bulbi di giacinto di vari colori, per ricordarmi che ha vari significati.
Dopo quella notte mi ero convinto che uno predominasse sugli altri e volevo smetterla di pensarla così.
Perché tu non sei stato solo dolore, mi ucciderei se pensassi solo questo di te.
Questa lettera è in una busta, in camera mia, come se fosse pronta ad essere spedita. Voglio tenerla per i momenti difficili, voglio tenerla perché non ti ho lasciato andare.
Penso che ti scriverò ancora, sai? Perché non so se quando ti parlo nella mia testa, se quando ti chiedo consiglio in un momento difficile puoi sentirmi. Perciò scrivo tutto, perché ricordo che quando tu avevi bisogno di un consiglio, di un appoggio, appuntavi tutto ciò che ti confondeva e poi me lo ripetevi a voce, magari tra le lacrime, magari inciampando nelle parole perché qualcosa ti agitava. E io ero lì per stringerti.
Voglio fare lo stesso.
Voglio sentire il tuo abbraccio, anche solo immaginarlo.
Questo non è un addio, Giacinto. È un arrivederci.
Perché in cuor mio so, lo sento, che ci rivedremo.
Magari ti darò queste lettere di persona.
E non aspetto altro che scoprirti di nuovo a disegnare il mio volto, con la tua espressione concentrata. Non aspetto altro che innamorarmi di nuovo di te al primo sguardo.
Non aspetto altro che te, la nostra vita insieme.
Perché ti amo, amore mio. Ti amerò sempre.

Tuo, in eterno
Apollo




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E dunque eccoci qui, alla fine di un viaggio cominciato ormai a luglio 2018 e conclusosi ora, a febbraio.
Volevo pubblicare il capitolo lasciandolo intonso, poi alla fine ho limato dei punti perché non riesco a star ferma e perché concentrarmi sul sistemare era l'unico modo per non scoppiare in lacrime. Non dovrei dirlo da sola, lascio a voi il giudizio di quanto commuovente sia il finale, ma mi sono immedesimata molto in questa lettera di Apollo e leggerla anche solo per sistemarla è un pugno in faccia, per me.
E così si spiega anche il titolo, "A Giacinto". La loro storia d'amore e poi questa lettera, che contiene tutte le fragilità e le paure di Apollo, rivelate solo al suo amore.
Come dicevo qualche riga sopra, mi sono molto immedesimata ed è stato forse questo a rendermi tanto insicura sulla conclusione del racconto. Ringrazio ancora Rika, sempre pronta a supportarmi in ogni mio progetto. Mi ha motivata quando dovevo iniziare a stendere quest'idea, mi ha motivata a pubblicare questi ultimi capitoli e continua a farlo tutt'ora. Quindi grazie <3
E ringrazio anche chiunque abbia letto, silenziosamente, o lasciandomi un parere. Spero che questa storia vi abbia dato qualcosa e non solo sofferenza: ma anche amore. È per questo che Apollo non ha pensato troppo al sentirsi in colpa, in questa lettera. Perché Giacinto per lui è solo cose belle e così va ricordato.
Tornerò a scrivere su di loro. Qualche stralcio che non è apparso nei capitoli, una what if, non lo so. Ho il bisogno fisico di scrivere ancora su di loro, perché mi sono affezionata e sull'amore c'è sempre qualcosa di nuovo da dire!
Per la verità, ora posso dire di avere un bel progetto in serbo per loro, perciò restate sintonizzati!
Spero davvero che questo breve racconto vi sia piaciuto, che lo abbiate seguito in corso d'opera o che lo leggiate tra mesi, forse anni.
E per spiegare la filosofia con cui ho scritto il finale e molte altre scene, vi lascio con questa citazione del libro Cloud Atlas: "Credo che esista un altro mondo che ci attende, un mondo migliore, e io ti attenderò lì."

Vi invito a seguirmi sulla mia pagina o su twitter per rimanere aggiornati sulle mie future storie e su un futuro ritorno di Giacinto e Apollo!
Vado a mettere la dolorosissima spunta su completa, ora.

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