Flare of a Frozen Heart

di KyraPottered22years
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Flare of a Frozen Heart


Prologo



Quella notte, una violenta tempesta arrivò nel momento in cui una donna cadde a terra in preda alle prime doglie.
Un lampo, una contrazione.
Inizialmente volle trattenersi dall’urlare, quasi a volere nascondere il fatto che stesse per dare alla luce un bambino.
Non poteva partorire adesso, era troppo presto.
Ma chi voleva prendere in giro? Se stessa? Sapeva benissimo perché non avrebbe dovuto partorire così presto.
Si morse il labbro inferiore così forte da poter sentire il sangue sulla lingua, non riusciva più a trattenersi.  Non appena gridò disperatamente, capì che la sua ora sarebbe giunta pochi minuti dopo aver dato alla luce quel bambino.
E purtroppo non si sbagliò.
Le sue cognate la portarono nella camera da letto che condivideva con il marito e la distesero sul materasso di paglia e piume. La spogliarono di tutto tranne che della sottana e le allargarono le gambe. La tensione cresceva come le contrazioni, come i tuoni che rimbombavano incessantemente.
 «Svelte con quell’acqua!» Urlò forte sua suocera, posizionandosi davanti all’apertura. «Si vede già la testa.» Mormorò con preoccupazione in un piccolo sorriso, ansiosa di conoscere il nuovo nipotino.
Due donne arrivarono con il catino pieno d’acqua calda, mentre la terza le stringeva una mano.
 «Coraggio, Groewia, coraggio.»
Tutto era pronto e in ordine.
Adesso doveva solo spingere.

L’uomo se ne stava dietro la porta insieme al padre, faceva avanti e indietro nel corridoio e a ogni grido che la sua donna lanciava, più i suoi passi si facevano veloci e pesanti.
 «Devi stare calmo.» Gli consigliò l’uomo con apprensione. Non aveva mai visto suo figlio così teso, pur avendo affermato varie volte con i suoi amici quanto conoscesse il suo carattere sia prevedibile e scontato.
 «Sono solo otto mesi di gravidanza. Perché così presto?» Il timore più grande che aveva era quello di avere un erede storpio o incapace di lavorare e rendersi utile. Andava bene anche una femmina, tutto tranne che un bambino malato, inutile.
 «A volte capita, non è né la prima, né l’ulti-» Ma l’uomo anziano non riuscì a continuare la frase perché il pianto di un neonato si diffuse per tutta la piccola casa. I due uomini si guardarono negli occhi con una folle voglia di irrompere nella stanza, ma ebbero l’accortezza di aspettare alcuni minuti.
Vi era un’aria di estrema pesantezza, come se qualcosa fosse andato terribilmente storto. Le tre sorelle se ne stavano in silenzio, ma solo due di loro avevano delle espressioni indignate e disgustate stampate in volto. Se ne stavano lontane da Groewia, sdraiata sul letto, debole  e rassegnata al suo destino.
 «Cos’è accaduto?» Domandò preoccupato il marito. «Dov’è mio figlio?»
 «E qui.» Disse sua madre, che teneva in braccio il fagottino rosa, ancora urlante.
 «E’ una bambina.» Riuscì a dire Groewia con quelle poche forze che le erano rimase. «Vi prego, fatemela tenere in braccio, almeno una volta…» Singhiozzò, pregandoli affinché quei cuori di pietra fossero smossi da un po’ di pietà.
 «Taci!» Sibilò l’anziana. «Non meriti di parlare!» Non l’aveva mai vista sotto una buona luce, quella donna di cui suo figlio si era invaghito, e ora ne aveva la conferma. «Io l’ho sempre detto che questa qua è una lurida-»
 «Madre!» La richiamò l’uomo, avvicinandosi a lei. «Non è la fine del mondo se è una femmina, non-»
 «Guarda le orecchie, stupido idiota, guarda!» Lo interruppe l’anziana, mettendogli la creatura fra le braccia. E lui fece come sua madre gli aveva detto, osservò il corpo minuto della piccola a causa del parto prematuro, la pelle rosea, le guance e le labbra rosse, i capelli castani, abbastanza lunghi per un neonato.
Le orecchie a punta.
Capì il motivo di quelle facce arrabbiate e disgustate. Gli tremò il labbro inferiore, le gote gli divennero purpuree e gli occhi parvero uscirgli fuori dalle orbite per la forte collera. Non avrebbe tenuto in braccio quella cosa un attimo di più.
Esaudì così il desiderio di quella donna che fino a un momento prima aveva pensato fosse una moglie leale.
E lei strinse in gemiti di dolore la sua bambina, placando il suo pianto, ma non il proprio.
 «Uscite tutti.» I presenti esitarono a quell’ordine.
 «Figliolo, non-» Cercò di dire l’uomo anziano.
 «Uscite tutti, ho detto!» Urlò forte, con lacrime piene di vergogna agli occhi.
Stavolta lo ascoltarono.
Quando la porta sbatté, chiudendosi, lui le domandò: «Chi è lui? Da quando va avanti?» Cercò di trattenersi nel fare altre domande, altrimenti non avrebbe ricevuto le risposte che voleva.
Lei singhiozzò, mentre la bambina si addormentava nel calore del suo seno. Deglutì prima di rispondergli, ignorando per un attimo il dolore lacerante al ventre. «Due anni.»
Si sentì ancora più tradito e illuso scoprendo che quella storia era iniziata anni dopo il loro matrimonio.
Groewia non aveva mai amato suo marito, ma non aveva avuto altra scelta se non sposarlo per sopravvivere alla povertà. Quando i suoi genitori morirono assassinati da un branco di orchi, lei rimase completamente sola. La sua vita prese una svolta diversa quando degli una manciata di elfi sostarono al villaggio per ispezionarlo e proteggerlo. Nel giorno del funerale dei suoi genitori, conobbe l’elfo che amò come la cosa più preziosa al mondo. Il loro amore era andato avanti e quando lei gli aveva detto di essere incinta di lui, l’elfo le aveva promesso che una settimana prima del parto l’avrebbe finalmente portata via da lì.
Ma né Groewia e né lui avrebbero potuto prevedere un parto prematuro.
 «Ti ho chiesto anche il suo nome.»
Adesso non le rimaneva altro che dirgli addio tramite la telepatia, che aveva instaurato con lui dopo mesi e mesi di pratica in modo tale che potessero essere vicini nonostante la distanza. Ma ricordò di essere troppo debole per usufruire di quell’abilità.
 «Non lo conosci.» Provò a nasconderlo, non riuscendoci.
Il marito si avventò su di lei, incurante di tutto: c’era solo la sua rabbia e la voglia di soffocarla, di ucciderla. Le mise una mano al collo, stringendoglielo forte abbastanza da farle male, ma in modo tale che potesse rispondergli.
La bambina riprese a piangere istericamente.
 «Chi è lui?» Le domandò ancora, urlandole in faccia.
Lei pianse forte, sentendosi impotente, inutile, in colpa. «Il Capitano dei Galadhrim.» Non aveva altra scelta per poter salvare la vita della piccola.
Sapeva che l’avrebbe perdonata.
Infondo stava morendo.
Lasciò la presa sulla sua gola solo per dirle: «Sappi che ora andrò da lui, cavalcherò fin lì solo per dirgli che tu e sua figlia siete morte nel parto.» E andò verso la porta, con una meta ben precisa nella mente.
 «Abbi pietà per una creatura che non ti ha fatto niente!» Gli urlò, sforzandosi troppo. «E’ vero, io morirò tra pochi minuti. Ma lascia che lui venga a prendere sua figlia.» Quello stolto pensava solo a se stesso e all’occhio sociale in un villaggio di a stento cento abitazioni. «Fallo per quell’amore che mi hai giurato.»
Lui si voltò verso di lei con uno sguardo malefico e nauseante: «Io non devo niente né a te, né a quell’ibrido.» Detto ciò, andò via da quella stanza, chiudendo la porta così forte da far tremare il letto.

Prima di spirare, mormorò: «Perdonami, Haldir… perdonami, meleth nîn (amore mio).»

Nel regno di Lórien, un elfo si svegliò di soprassalto, pronunciando il nome di una donna.



















NDA.


Buon salve,
sono felice di ripresentarmi sul sito di EFP con questa nuova fanfiction. 
Spero che il prologo vi abbia incuriositi abbastanza da seguire questa storia.
Sarò puntuale con gli aggiornamenti, dato che ho un paio di capitoli già pronti e strutturati. 

Fatemi sapere in una recensione cosa ne pensate e cosa vi attira di più di questo prologo.

Grazie per essere arrivato fin qui, caro lettore :)

Alla prossima ;)

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Capitolo 2
*** Capitolo Primo ***


Flare of a Frozen Heart
                                     



PARTE I 

Casa è alle spalle, il mondo avanti
le strade da seguire
tante



    

Capitolo Primo





Fra le spighe di grano si distingueva una cascata di lunghi capelli castani saltellante.
Una bambina di appena cinque anni correva nei campi del villaggio con un bastoncino di legno in mano. Giocava immaginando un branco di orchi famelici dietro di lei, sguinzagliando il ramoscello nell’aria, fingendo di infilzarli: l’obiettivo era quello di salvare il raccolto. A volte faceva piccole pause, fantasticando di danzare spericolata in una sala elegante e all’aperto, sotto un cielo stellato, con musiche allegre e rilassanti.
Le sue piccole e dolci risatine avrebbero suscitato tenerezza, se solo gli agricoltori non fossero stati stolti e ignoranti. Ogni volta che la bambina passava davanti loro, si auguravano che quell’ibrido non avesse scagliato alcuna maledizione al raccolto.
Ma la piccola continuava a correre e a ridere ignara di tutta quella paura nei suoi confronti: improvvisava battute che avrebbero messo in fuga un orco o frasi cordiali che avrebbe detto a un bel principe durante una galante festa.
 «In guardia!» E agitava il bastoncino così furiosamente che poteva udire lo schiocco che il legno provocava nell’aria. «Sarei una sciocca a rifiutare la vostra mano!»
Saltellava verso casa, in mezzo alle abitazioni, passando per la via del piccolo mercato.
Improvvisamente, si fermò vicino a una bancarella di spezie, osservò come dei bambini si divertivano a giocare fra di loro con ramoscelli più spessi e più belli del suo. I suoi occhietti a nocciola si spostarono verso un gruppo di bambine lì vicino, studiò come le piccole si divertivano danzando prendendosi per mano e cantando.
Guardava i due gruppetti avvicinandosi pian piano, sapeva che non l’avrebbero mai accettata nei loro giochi, ci aveva fatto l’abitudine ad essere emarginata. Eppure, qualche volta si domandava come sarebbe stato bello poter giocare con loro almeno una volta.
Si mise a correre velocemente verso casa quando una bambina si voltò verso di lei, indicandola a una sua amichetta.
 «E’ la mezzelfa!» Le sussurrò all’orecchio, e, interrompendo la danza di gruppo, il resto delle bambine parteciparono alla conversazione.
 «Non indicarla! Potrebbe lanciarti una maledizione!»
 «La mia mamma mi ha detto che è pericolosa.»
 «Continuiamo a fare finta di niente, finché siamo in tempo!»
Fortunatamente lei era scappata via prima di sentire quelle brutte frasi.
Sapeva di essere diversa dagli altri e sapeva anche il perché.
Arrivò in casa riponendo il bastoncino sulla cassapanca dello zio che non aveva mai conosciuto e congedò l’oggetto come un amico: «Giocheremo dopo, Laedus.» Andò verso l’orticello, alla ricerca dell’unica persona che, quella notte di tempesta di cinque anni fa, aveva avuto la bontà e la compassione di adottarla.
 «Zia Alun?» La chiamò quando la vide intenta a innaffiare una piantina.
 «Mayve?» La donna si voltò verso la bambina con sorpresa. Abbandonò ciò che stava facendo per dedicare le sue attenzioni a lei. «Sei andata di nuovo ai campi?» Le domandò retoricamente, inginocchiandosi davanti a lei in modo da poter togliere i residui di terra e le erbacce dalla sua gonna. «E’ pericoloso giocare lì.»
«Lo so, zia.» Si limitò a dire.
Quella risposta così breve la stranì, Mayve era solita a raccontare ogni cosa che aveva fatto per rassicurare la zia di non aver combinato nulla di cui potersi preoccupare.
La donna smise di pulire la piccola gonna e guardò la nipote negli occhi scuri. Erano lucidi e tristi.
«Tesoro, cosa succede?» L’abbracciò ancor prima che potesse iniziare a piangere silenziosamente.
 «Mi sento sola.» Confessò la bimba.
 «Ci sono io qui con te.» La allontanò da sé solo per guardarla in viso e asciugarle le lacrime. «Tu non sei sola, capito?»
Ogni volta che si sentiva triste, le bastava quello sguardo dolce e quella voce soave per riscaldarle il cuore di gioia, per sentirsi amata davvero e capire che nemmeno la compagnia di cento bambini avrebbe ripagato l’amore che quella donna le regalava con un solo sorriso.

La baciò sulla fronte e le rimboccò le coperte.
Alun sostò più del solito, perché mentre la guardava dormire, ricordava la notte in cui l’aveva presa dalle braccia di Groewia per adagiarla nelle proprie, cullandola. Suo fratello era appena andato via, in viaggio, come un folle, verso il regno di Lórien. Le sue sorelle e i suoi genitori se ne stavano in cucina a decidere sul da farsi, ignorando il fatto che in quella stanza c’era una bambina affamata e una donna morta per debolezza.
Coprì la bambina con una coperta di lana e raggiunse la famiglia.
 «Cosa stai facendo?» Domandò la madre con tono di scherno, il naso arricciato e gli occhi ridotti a due fessure.
 «Se nessuno ha intenzione di tenere la bambina, allora me ne occuperò io.»
 «Hai già abbastanza a cui pensare: tuo marito è malato, sta morendo!» Urlò il vecchio con un bicchiere di rum in mano, evidentemente poco sobrio.
 «Nessun altro morirà oggi.»
Qualche anno dopo, le due sorelle si sposarono, una restò al villaggio, un’altra partì insieme al marito violento; il padre morì e l’anziana madre si trasferì con il figlio, erano troppo pieni di vergogna per poter continuare a vivere lì.
Così Alun poté prendersi cura della piccola mezzelfa liberamente.
Donare amore a quella piccola la distraeva dal dolore per la perdita del marito.



Gli anni passarono velocemente e la piccola Mayve crebbe.
Quando Alun la guardava, vedeva Groewia: i capelli castani dalle punte morbide, il volto squadrato ma dai lineamenti dolci e delicati, gli occhi scuri a nocciola, le labbra piene e rosee. Solo l’altezza e il portamento erano diversi dalla madre; Mayve aveva dei modi di fare aggraziati e il passo leggero, quasi non udibile, proprio come quello di un elfo.
La solitudine l’aveva resa paziente, ma tremendamente insicura, e l’affetto di sua zia fruttò altruismo, bontà e amore verso la natura.
Mayve passava intere giornate fuori dai confini del villaggio, in mezzo a distese di prati fioriti. Ogni volta che trovava un fiore raro, lo coglieva per portarlo ad Alun, così che lei potesse aggiungerlo alla sua collezione nell’orticello.
Ritornava in casa con scorte di erbe per infusi medicinali e fiori per profumare e colorare la casa. Però, ciò che Alun non sapeva era che Mayve non si guadagnava del denaro vendendo fiori fuori dal villaggio nei fine settimana. In verità, il sabato e la domenica notte, la giovane andava a caccia di cervi e conigli, usando delle trappole che lei stessa aveva costruito con l’aiuto del libro illustrato di caccia.
Aveva provato a costruire un arco, ma non ci era riuscita, così si arrangiava con poco.
Portava la selvaggina nei mercati di un villaggio a due ore dal suo e ritornava a casa il lunedì mattina, stanca e soddisfatta.
La sua era una vita semplice e le andava bene così, o almeno a volte.
Desiderava andare via, disperatamente. Andare alla ricerca delle proprie origini, di suo padre, vivere insieme agli Elfi ed essere accettata per quello che era.
Ma poi ci ripensava, scuotendo la testa e dandosi della sciocca: il suo posto era lì con sua zia, non l’avrebbe potuta mai abbandonare, non dopo quello che aveva fatto per lei.
Alun le aveva raccontato anni prima della storia di Groewia e della sua morte subito dopo il parto, ma non aveva mai fatto parola sul padre. Quelle rare volte che Mayve chiedeva informazioni su di lui, la zia le rispondeva che un giorno, quando sarebbe arrivato il momento giusto, gliene avrebbe parlato.

E quel momento arrivò.

Un lunedì mattina in cui Mayve entrava in casa dopo due lunghi giorni di lavoro, aveva chiamato varie volte sua zia, ma alcuna risposta le era arrivata.
Andò nelle due camere da letto, continuando a chiamarla con preoccupazione.
La trovò distesa supina fra le erbacce, nell’orticello.
A Mayve mancò il fiato nei polmoni per la paura. Si gettò vicino a lei e controllò velocemente il battito e la temperatura.
Aveva la febbre alta.
 «No, no, no.» Diceva, rifiutandosi di ammetterlo, ma purtroppo era così: Alun si era ammalata della malattia che stava correndo da un bel po’ nel villaggio. La prese in braccio e la portò sul suo letto, la distese e la spogliò, lasciandole solo la sottana. Rivestì il suo corpo di pezze bagnate d’acqua fredda, cambiandogliele ogni dieci minuti, nella speranza che la febbre si abbassasse almeno un po’.
Aveva sentito quali erano i sintomi, se la pelle non si riempiva di chiazze violacee, c’era la possibilità di salvarla.
Dopo due ore interminabili passate a cambiare continuamente le pezze, la febbre si abbassò e Mayve poté allontanarsi in cucina per preparare un infuso. Mentre aspettava l’ebollizione dell’acqua, andò a cambiarsi. Fece una pausa dopo aver indossato la gonna: si sedette sul proprio letto e iniziò a piangere. Un pianto liberatorio, isterico. Aveva bisogno di far scivolare via tutta quella tensione che aveva accumulato.
I singhiozzi rumorosi svegliarono lentamente Alun.
 «Mayve?» La chiamò, facendosi sentire solo al terzo tentativo.
La giovane scattò in piedi e fece due respiri profondi per calmarsi.
E’ tutto finito, adesso stai bene. Adesso puoi continuare a essere forte, disse a se stessa, raggiungendo Alun.
 «Come ti senti?» Le chiese, toccandole la fronte ormai fresca.
 «Quando sei arrivata?»
 «Zia, davvero questo è più importante della tua salute?» Solo in quel momento ricordò dell’acqua che stava bollendo. «Ti sto preparando un infuso, sto tornando.»
Andò in cucina, versò l’acqua scottante su una tazza di legno e in un mortaio schiacciò due bacche e un petalo di fiore, quando il composto divenne una pasta omogenea, lo unì all’acqua, mescolò il tutto con un bastoncino e tornò da sua zia. Si rallegrò di trovarla seduta e lucida.
 «Tieni. Bevila tutta.» Le porse la tazza e Alun bevve fino all’ultimo sorso.
 «Grazie, piccola.» Le sorrise e Mayve si sentì subito meglio. «Adesso me lo fai un sorriso?» Non esitò a farlo, avvicinandosi subito dopo ad abbracciarla.
Rimasero vari minuti abbracciate, felici di quell’attimo di pace e serenità.
 «So che invece di vendere fiori vai a caccia il sabato e la domenica.» Disse seriamente, quasi con tono di rimprovero.
La giovane sgranò gli occhi e si sentì come beccata con le mani nel sacco. Si allontanarono e prima di rispondere, Mayve fece un respiro profondo. «Si guadagna di più con la selvaggina. Mi dispiace di averti mentito, ma se non me lo avessi permesso avremmo passato due inverni morte di fame.»
 «Va bene, non voglio discutere su questo.» Allungò una mano su una sua guancia per accarezzarla. «C’è una cosa più importante.» Mayve si preparò comunque a una ramanzina, mai si sarebbe aspettata che Alun avrebbe detto: «E’ arrivato il momento di parlare di tuo padre.»
La mezzelfa perse un battito a quelle parole. Per alcuni secondi rimase a guardare sua zia con un’espressione perplessa e scioccata.
 «Per-» si leccò le labbra, sbatté le ciglia, «perché?»
 Alun le sorrise. «Perché è arrivato il momento giusto.» Disse in una mezza bugia.
Mayve non aveva aspettato altro da anni, aveva sempre desiderato poter conoscere qualcosa su di lui e non ci credeva nemmeno. Sorrise ampiamente per una frazione di secondo, emettendo uno sbuffo allegro. Scosse la testa e guardò la zia negli occhi.
 «Raccontami, allora. Per favore.» Le prese le mani e gliele strinse.
Alun rise teneramente a quella reazione, poi cominciò: «Il suo nome è Haldir, è il Capitano dei Galadhrim, gli elfi che combattono per la loro dama Galadriel.»
Mayve sorrise, si portò le mani alla bocca ridendo di gioia.
 «Allora è vivo, è di Lórien!» Esclamò con gli occhi lucidi.
 «Sì, piccola.»
Ma il volto della giovane si rabbuiò lentamente per un pensiero: «Se è un Capitano ed è vivo, perché non ha mai voluto conoscermi?»
Alun le raccontò la versione completa dei fatti, di come il marito di Groewia urlò quella notte e del ripudio di tutti nei confronti della donna, accusata di tradimento. «Mio fratello andò a chiedere udienza a tuo padre solo per digli che sia tu che tua madre eravate morte durante il parto.»
 «E non sai altro? Sai cosa disse lui in risposta?»
 «No, non ne ho idea. Ma suppongo che Haldir gli abbia creduto, la disperazione di mio fratello lo avrà convinto.»
Mayve si accasciò sulla sedia, si portò una mano ai capelli e scosse la testa. «Perché gli ha detto che anche io ero morta?» Domandò, ingenua com’era.
 «Mio fratello, come il resto della mia famiglia, era egoista e avido di cuore.»
Rimasero in silenzio per un po’, poi Alun disse: «Mayve, io voglio che tu vada a conoscere tuo padre.»
Guardò la zia con gli occhi sgranati, pieni di stupore. «Cosa?» Mormorò col fiato mozzo.
Ciò che stava dicendo le costava tanto, eppure era giusto così: lei doveva andare via. Non poteva più rimanere lì.
 «Questo villaggio non è il tuo posto.»
 «Io non posso lasciarti.» Affermò con apprensione. «Specialmente adesso.»
 «Ascoltami, Mayve: tu devi andare a Lórien, conoscere tuo padre e stare con la tua gen-»
 «Non andrò da nessuna parte senza di te.»
Gli occhi di Alun si riempirono di lacrime, si morse l’interno del labbro e le fece segno di avvicinarsi per stringerla in un abbraccio.
Le accarezzava i capelli mentre la nipote le cingeva la vita. «Io so che conoscerlo è quello che tu desideri fin da quando eri una bambina. E’ il tuo sogno e devi inseguire i tuoi sogni, bambina mia. Non c’è tempo per guardare in faccia la realtà, specialmente alla tua età. Sai quante volte questa avrà modo di buttarti giù? Di prenderti a pugni, a schiaffi, fino a quando non aprirai gli occhi? Sei cresciuta in mezzo a una gente ignorante, che ti ha allontanata per paura di qualcosa che non capivano. Hai accettato una realtà orribile fin da piccola, adesso basta, tesoro. Adesso devi promettermi di inseguire i tuoi sogni, di iniziare a vivere davvero.» Mayve stava già bagnando di lacrime la sottana di Alun. «Promettimi che quando starò meglio prenderai il nostro cavallo alle stalle e andrai a Lórien a conoscere tuo padre.»
In un sussurro, ella rispose: «Te lo prometto.»


Una settimana dopo, quando i primi raggi del sole illuminavano il cielo e gli uccellini iniziavano a cinguettare, Mayve andò alle stalle a prendere il cavallo, che giudò verso la porta di casa sua, dove Alun la aspettava con una bisaccia piena di provviste.
 «Lo hai sellato per bene?»
 «Sì, sembra anche in salute, quindi si prospetta un viaggio tranquillo.» Commentò con una non leggera intonazione di ansia nella voce.
 «Stai tranquilla, andrà tutto bene. Devi solo seguire il percorso nella mappa e fare riposare il cavallo ogni cinque ore.» Le accarezzò una guancia e le pettinò amorevolmente i capelli con le dita, sistemandoglieli per bene. «Mi mancherai.»
In risposta, Mayve le gettò le braccia al collo. Affondò la testa nell’incavo fra il collo e la scapola e le sue narici si riempirono del suo odore: vaniglia e fiori. «Ho paura. Non so di cosa di preciso, forse di fallire.»
 «Non devi. Non c’è niente di cui aver paura.»
 «Mi mancherai.»
Si allontanarono, ma prima che Mayve saltasse sul dorso del cavallo, Alun la fermò per darle una cosa che tirò fuori dalla tasca. Era un fazzolettino piegato in quattro, conteneva qualcosa. Mayve lo prese fra le mani e lo aprì: era una collana d’argento, un medaglione che conteneva all’interno una piccola, ma luminosissima pietra.
 «Quella è una pietra di pura luce stellare. Haldir la regalò a tua madre il giorno in cui le promise che l’avrebbe portata via con lui qualche giorno prima del parto.»
Mayve ringraziò Alun e indossò il medaglione al collo, accarezzandolo con i polpastrelli con delicatezza.
 «Zia, posso farti una domanda?»
«Certo.»
«Come fai a sapere tutte queste cose su mia madre e mio padre?»
Alun sorrise, si avvicinò per baciare la nipote alla fronte e la spinse verso il cavallo. «Quando tornerai te lo dirò, adesso va’.»
Mayve salì sul cavallo e si sistemò più comodamente che poteva, risultando anche un po’ goffa. Guardò Alun un’ultima volta e prima di partire, le disse: «Ti voglio bene.»



Sostò ogni notte sotto la chioma di qualche albero e faceva riposare una mezzora il cavallo ogni cinque ore di viaggio.
Mentre l’aria le sferzava in viso, Mayve non si era mai sentita così viva.
Più si avvicinava, più il suo cuore si riempiva nel vuoto che era rimasto cupo e silenzioso per anni. Le notti, stringeva il medaglione in una mano e guardava le stelle, immaginando l’incontro con suo padre.
Dopo cinque giorni, quando il cielo iniziava a imbrunire, Mayve si addentrò nel bosco. A mezzora di strada, si accorse di essere arrivata nella radura che veniva indicata come meta nella mappa.
Scese dal cavallo, preferì procedere a piedi e trasportare il puledro dalle redini.
Una sensazione di pace le rilassò i sensi, e nel fruscio delle foglie le sembrava di udire un canto distante, ma al contempo molto vicino. Avanzava lentamente, perché desiderava non farsi sfuggire nulla: quel posto era meraviglioso. Alla sua sinistra una grossa montagnola era ricoperta di un manto d’erba verde; in cima, crescevano due cerchi di alberi: quelli all’esterno avevano una corteccia candida come la neve, erano spogli, ma pieni di armonia nella loro nudità; quelli interni, invece, si levavano in tutta la loro altezza, ancora vestiti di foglie dalle tonalità dell’oro.
Al centro vi era un albero e fra gli alti rami splendeva un bianco flet.
L’erba ai piedi dei tronchi e sulla collina era cosparsa di piccoli fiori d’oro a forma di stella e Mayve non poté fare a meno di coglierne un paio: la zia sarebbe stata felice di aggiungerli alla sua collezione. Il colore dell’oro, si miscelava armoniosamente nell’erbetta con altri fiori di colore verde pallido e bianco.
Prima che potesse andare avanti e incontrare più flet fra gli imponenti rami degli alberi, improvvisamente un gruppo di pochi elfi accerchiarono con archi e frecce Mayve e il suo cavallo. Questo nitrì terribilmente spaventato, ma con le carezze e le gentili parole della padrona, riuscì a calmarsi velocemente.
Coloro che la circondavano erano tutti di sesso maschile, alti e ognuno di loro portava i capelli lunghi, così lisci che le orecchie a punta erano possibili da individuare. Il cuore di Mayve tremò di felicità e timore.
 «Ya naa lle?» Parlò l’elfo dai capelli scuri che le era davanti, colui che le puntava la freccia dritto fra le sopracciglia. Mayve non capì cosa le aveva detto e si ritrovò con le guance rosse dall’imbarazzo.
 «Chiedo scusa, ma non so parlare la vostra lingua.» Riuscì a dire. Due elfi alla sua sinistra si lanciarono un’occhiata interdetta, quasi sbigottita, mentre gli altri non lasciavano trapelare alcuna emozione dai loro volti marmorei.
 «Chi siete voi?» Domandò nuovamente l’elfo, nella lingua comune, così che lei potesse capire.
Ma prima che potesse rispondere, un altro gruppo di elfi raggiunse quello presente. Colui che li guidava richiamò l’attenzione di tutti. Mayve capì che si trattava di qualcuno che loro riconoscevano come un superiore, perché quando parve ordinare qualcosa in elfico, tutti abbassarono gli archi, riponendo le frecce nelle faretre. Quando finalmente Mayve lo poté vedere, identificò il suo aspetto: capelli biondi e lunghi, un volto lungo e squadrato tracciato da lineamenti severi ma morbidi, le labbra sottili e uno sguardo gentile e autoritario.
Quegli occhi su cui Mayve si era soffermata, trovandovi qualcosa di estremamente familiare, si posarono su di lei per la prima volta, guardandola con un’evidente espressione di disorientamento.
 «Groewia?» Mormorò l’elfo, perché quella donna di fronte a lui era terribilmente somigliante a colei che aveva amato un tempo. E che aveva perso.
Allora Mayve capì che chi stava cercando, era colui che le stava davanti.
Il suo cuore prese a battere più forte per l’emozione e gli occhi le si riempirono di lacrime.
 «Era il nome di mia madre.» Disse piano, ma abbastanza forte da farsi udire da Haldir.















Nda

Salve, cari lettori

vi ringrazio per essere arrivati fin qui. Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere in una recensione.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto, recensito e aggiunto alle seguite questa storia.

Ps. Nella descrizione del Regno di Lorien mi sono aiutata con il libro di Tolkien "La Compagnia dell'Anello", perché, ad essere sincera, mentre scrivevo ho riscontrato alcune difficoltà.

Grazie ancora,

alla prossima!

 

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Capitolo 3
*** Capitolo Secondo ***


Flare of a Frozen Heart
                                        

 
Capitolo Secondo



Calò un silenzio in cui molti occhi confusi scrutavano  il Capitano e la forestiera.
Quell’immagine nella radura rimase immobile per una decina di secondi, poi Haldir ebbe la forza di distogliere lo sguardo da quello di sua figlia per rivolgersi alle truppe intorno a lui. Mayve si risvegliò da una specie di stato di trance quando l’elfo ordinò qualcosa in elfico. Senza esitazione, gli elfi eseguirono: andarono via di lì. Alcuni di loro si arrampicarono sugli alberi, altri sparirono fra gli spessi tronchi.
Adesso c’erano solo loro due, il canto elfico di sottofondo e quello splendido paesaggio a cingere le loro figure.
 «Mi spiace se la mia irresolutezza ti ha turbata, ma non mi sarei mai aspettato una tua visita.» Mayve studiò il suono della sua voce; era limpida, pacata e cortese. Le labbra si muovevano appena mentre parlava e i suoi occhi erano pieni di una luce che gli rendeva le iridi blu più chiare.
Gli sorrise timidamente. «Non vi dovete scusare, non ne avete nessuna colpa.» Le parole tremarono un po’, ma non avrebbero potuto fare altrimenti: un turbine di emozioni le scombussolavano la bocca dello stomaco e i polmoni, che facevano fatica a respirare.
 «Vieni, camminiamo.» La invitò a passeggiare al suo fianco e lei non se lo fece ripetere un’altra volta. Il terreno sotto i suoi piedi era morbido e quasi le sembrava un peccato calpestare quei fiori così belli.
 «Qual è il tuo nome?» Le chiese con gentilezza.
 «Mayve.» Rispose piano, scandendo bene ogni lettera.
 «E’ stata tua madre a chiamarti così?»
 «Non credo. Penso che sia… morta prima di poterlo fare.»
 «E’ un nome incantevole, comunque.»
Mayve lo ringraziò ed entrambi si guardarono per qualche secondo, studiandosi come se stessero davanti a un complesso dipinto da interpretare.
I primi raggi lunari arrivarono nella radura, illuminando d’argento le chiare cortecce degli alberi. Quel paesaggio aveva qualcosa di magico, paradisiaco. Così rilassante e accogliente da far piangere d’emozione chiunque avesse avuto un cuore in pena.
Sotto la luce della luna, il medaglione che Mayve portava al collo splendé, e riflettendo i raggi, catturò l’attenzione di Haldir, che ebbe un fremito al cuore alla vista dell’oggetto.
 «Questo me lo ha dato Alun pochi giorni fa.» Disse lei, capendo su che cosa si erano soffermati gli occhi dell’elfo. Entrambi smisero di camminare, sostando l’uno davanti all’altra.
 «Lo regalai a tua madre come promessa.» Allungò una mano e toccò il medaglione d’argento, lo aprì, scoprendo la gemma incastonata all’interno. «Avremmo dovuto essere una famiglia.» Chiuse il ciondolo e alzò gli occhi sullo sguardo scuro della giovane. «Non sai quante notti ho passato insonne, rimpiangendo quel futuro che non vi ho mai potuto dare.» E ciò che disse era l’aspra verità con cui aveva dovuto convivere per diciannove anni.
Quasi ogni notte dopo la notizia, Haldir vagava per la radura e il bosco per contemplare le stelle, ma esse non riuscivano a dargli conforto. C’era solo un sordo dolore al petto, qualcosa che faceva così male da togliergli il fiato, ma al contempo esso era così silenzioso da sembrare solo un’illusione.
Un peso asfissiante.
Un nodo alla gola che gli impediva di esprimere le sue emozioni.
E l’elfo si stendeva fra i fiori bianchi, ma nemmeno la dolcezza del loro profumo o la morbidezza dei petali gli annebbiavano per un decimo di secondo la vista degli occhi di Groewia pieni di lacrime, a implorargli perdono per qualcosa di cui non aveva colpa.
Allora dagli occhi spenti di Haldir fuoriuscivano lacrime calde e dense. Immaginava la vita che avrebbe potuto avere se il destino non fosse stato così crudele con lui.
 «Non potete incolparvi di qualcosa che non avreste potuto controllare.» Gli disse con dolcezza e compassione, con l’intento di consolare quello sguardo che si era rabbuiato di malinconia. «Se il marito di mia madre non fosse stato così avido da raccontarvi quella bugia…»
 «Lui dov’è?» Chiese in un improvviso moto di rabbia. «E’ ancora vivo?»
Sentiva ancora la voce rauca e grottesca di quell’uomo nelle sue orecchie che gli urlava: “E’ quello che tu e quella lurida vi meritate!”
 «Non vi so dire, non l’ho mai conosciuto.»
Haldir scosse la testa, nell’udire la voce della ragazza, scacciò via quelle brutte emozioni e il ricordo di quell’uomo.
Mayve si riconobbe molto in quel gesto, in quello scuotere del capo quasi a scrollare via tutta la negatività, e sulle sue labbra si dipinse un sorriso involontario che scaldò il petto dell’elfo.
 «Per favore, non rivolgerti a me con il voi. Sono tuo padre.» Le disse, facendosi pervadere completamente dalla bellezza che c’era nell’assurdità di quel momento.
Finalmente, dopo tutto quel supplizio, gli appariva davanti un miracolo, una concessione divina.
Sua figlia.
Allora Mayve lasciò che l’istinto prendesse il sopravvento, ignorò le possibili conseguenze o una sua probabile reazione di sdegno a quella richiesta.
 «Magari sarò inopportuna - disse inizialmente, avanzando di un passo - ma ho il bisogno di farlo.» Si avvicinò di colpo al corpo dell’elfo, gli circondò il busto con le braccia e poggiò una guancia sul suo petto. La sorpresa lasciò Haldir di pietra, tantoché non riuscì a muoversi. «Adesso se lo desideri posso anche allon-» Mayve fece come stava per dire, ma il padre, prima che lei potesse allontanarsi e terminare la frase, ricambiò il gesto affettuoso con gentilezza e premura. Sentì il mento di lui sulla propria testa e il suo odore delicato pervaderle i sensi. La sensazione di protezione era così forte che avrebbe potuto giurare di sentirsi al sicuro da qualunque cosa.
Lì, in quello scambio di affetto, i due non erano due persone che si erano appena conosciute, ma due anime che da sempre erano state legate e che solo in quel momento si stavano toccando per la prima volta.
Dalle guance di Mayve scivolarono varie lacrime, qualche secondo dopo dei piccoli singhiozzi le fecero tremare la schiena. «Sono così felice di essere qui con te.»
Haldir sorrise teneramente e per risposta, la strinse ancor di più a sé, sussurrandole: «Anche io lo sono.»



 «Qual è la parola elfica per dire felicità?» Chiese con la bocca ancora piena.
 «Alassë.»
 «Allasee?»
 «No, è alassë.» La corresse nella pronuncia, scandendo meglio la parola.
Mayve la ripeté un’altra volta, correttamente.
 «Fai presto a mangiare la tua mela, dobbiamo procedere con lo studio.»

Haldir impallidì quando Mayve gli confessò di non essere capace né a leggere e né a scrivere. Non aveva esitato un solo momento a offrirsi come maestro e lei accettò volentieri, entusiasta dell’idea. Le era sempre dispiaciuto non riuscire a leggere un testo, un avviso o una qualunque scritta. Anche Alun era analfabeta, come quasi tutti in quel villaggio.
Erano due settimane e mezzo che Mayve prendeva lezioni da Haldir, imparando poco a poco le basi della lingua elfica, gli usi e i costumi del popolo e la sua storia.
Mayve scoprì che studiare era la cosa più bella che si potesse mai fare per occupare il proprio tempo, imparare cose nuove era come un modo per conoscere meglio la Terra di Mezzo. Haldir era un bravo insegnante, sempre presente e disponibile: da quanto lei alloggiava da lui, si era reso libero da ogni impegno, mancava solo quelle volte in cui veniva convocato dai suoi soldati per assemblee o controlli giornalieri.
La cosa più bella che le era successa fino a quel momento era stata fare la conoscenza di Lady Galadriel. Haldir la presentò ufficialmente come sua figlia e la dama parve guardarla come se sapesse già tutto, fin dal principio. Mayve si era sentita tremendamente a disagio sotto il suo sguardo penetrante, come se ogni suo pensiero o segreto sotto i suoi occhi scrutatori fossero solo carte scoperte facili da leggere.
 «Spero tu possa trovarti bene qui da noi.» Le aveva augurato e per la prima volta da quando l’aveva incontrata, si sentì improvvisamente libera di poterla guardare senza alcun timore.

 «Ti vedo pensierosa oggi, c’è qualcosa che ti turba?» La figlia camminava di fianco al padre, appoggiandosi al suo braccio lungo la via.
 «Penso ancora alla storia che mi hai raccontato ieri.»
 «Sauron e l’anello del potere?»
 «Esattamente.» Mayve aveva pensato a lungo al potere, alle guerre e battaglie sanguinolente che caratterizzavano quel racconto. Iniziava a capire come andava avanti il mondo e la sua ingenuità, man a mano, andava maturando in una piena consapevolezza della realtà. «Mi chiedo perché proprio gli uomini caddero più facilmente sotto il potere dell’anello.»
 «Perché essi sono deboli di cuore, iell nín (figlia mia).»
 «E i nani? I nani come sono?» Haldir sospirò e indugiò un attimo a quella domanda. Mayve notò un certo fastidio negli occhi dell’elfo. «Ho chiesto qualcosa di sbagliato?»
 «Assolutamente no, è solo che tra gli elfi e i nani non scorre buon sangue.»
 «Come mai?»
Haldir sorrise a quell’insistenza per pura curiosità. «Che ne dici se concentri questa tua voglia di sapere nella scrittura?» Le propose, ammiccando scherzosamente. Le indicò i fogli di pergamena sul tavolino e la invitò a sedersi per ricominciare a lavorare.



Il giorno seguente, Haldir avvisò Mayve che quella sera ci sarebbe stata la festa di Sheelala.
Alla domanda della ragazza, l’elfo rispose: «La natura lascia trasparire un’energia che si manifesta in molti modi: i mille colori dei fiori, il verde brillante delle foglie e l'aria frizzante sono solo alcuni di questi.»
Così Mayve fece un bagno caldo, intrecciò varie ciocche di capelli e indossò l’abito che il padre le aveva portato quella mattina: il tessuto verde scuro era soffice e leggero, lo scollo le lasciava le spalle e le clavicole scoperte, le maniche erano lunghe e larghe e alla vita aveva legato un cordoncino dorato.
Quando Haldir entrò in stanza, rimase immobile a contemplare ciò che gli si presentava davanti con un sorriso solare sul volto. «Sei splendida.»
Mayve sentì le guance avvampare, piegò la testa da un lato e sorrise, abbassando lo sguardo. « Diola lle, ada (Grazie, papà).»
 «Il tuo elfico fa progressi.» Si avvicinò a lei, offrendole il braccio come appoggio. Era arrivato il momento di raggiungere gli altri nella radura.
 «Il merito è tutto tuo.»

Osservò ogni cosa, ogni minimo particolare e apprezzò tutto.
In quell’occasione, ebbe modo di conversare con vari elfi, sia maschi che femmine, anche se inizialmente fu molto timida e riservata; solo verso la fine della serata cominciò ad avere più confidenza con se stessa e gli altri. Erano tutti gentili e disponibili, le loro voci erano leggiadre e soavi, i loro modi di parlare e di fare erano raffinati. Mayve si ritrovò in ogni loro movimento. Si sentiva a suo agio lì, in mezzo a quella gente, accanto a suo padre.
Fu una delle serate più belle della sua vita.
Sulla strada del ritorno, Mayve raccontò ad Haldir le sue impressioni. 
 «Per la prima volta non sentivo di essere nel posto sbagliato.» Terminò il suo discorso davanti alla porta degli alloggi di Haldir.
 «Non mi hai ancora raccontato dei tuoi rapporti con la gente di quel villaggio.» Entrarono nella stanza e andarono a sedersi sul divano nel balconcino, con i nasi in su ad ammirare le stelle. Dopo minuti, Mayve rispose all’osservazione del padre.
 «Sono a mala pena duecento abitanti, nessuno esce dal villaggio se non per andare ai campi. E’ una società chiusa e di conseguenza molto ignorante. Non sono cattivi, sono solo impauriti dalla natura e dai misteri della vita.» Haldir sorrise impercettibilmente alle parole della figlia, apprezzando in cuor suo quella gentilezza e quell’ingenuità, eppure iniziò a preoccuparsi, perché suonavano come una difesa. «Non sanno se sia normale un mezzelfo e per evitare che un’altra disgrazia si abbattesse su di loro, hanno preferito allontanarmi.»
 «Mayve, dimmi solo se ti hanno mai fatto del male.»
Guardò il padre perché sentiva il suo sguardo insistente su di sé: aveva degli occhi apprensivi, le sopracciglia aggrottate in segno di profondo interesse.
 «Ci hanno provato.» Mentì, sussurrando appena, ma Halir la udì comunque.
 «Quante volte?»
Mayve schiuse le labbra, indugiando a rispondere. «Alun mi ha protetta.»
 «Hanno mai tentato di ucciderti?»
 «No,» rispose immediatamente, mentendo di nuovo. «anche se mi avrebbero voluta morta, non hanno mai provato ad uccidermi. Penso abbiano avuto troppa paura che gli scagliassi contro qualche… maledizione.» Ridacchiò amaramente all’ultima parola, abbassando lo sguardo sulle proprie mani, intente a stringere la stoffa dell’abito.  
 «Mayve, ascoltami:» le disse con dolcezza, prendendole le mani premurosamente, così che lei potesse guardarlo negli occhi, «tu non puoi più vivere lì. Il tuo posto è qui, con la tua gente, con me.» Lo guardò con uno sguardo pieno di confusione, anche se aveva perfettamente capito. «Continuerei a insegnarti. Potresti iniziare l’allenamento per prendere parte dei guerrieri di Lady Galadriel, come tu stessa hai detto che ti piacerebbe fare.» Ed era quello che lei voleva, ciò che desiderava era diventare parte integrante di quella società dove si trovava così bene… «Potresti scegliere una vita immortale, essere un elfo.» …ma non poteva farlo.
Abbandonò le mani di suo padre e si alzò in piedi.
 «Ciò che mi proponi è tutto quello che io desidero, ti ringrazio per la tua gentilezza, te ne sono davvero grata. Ma non posso accettare.»
 «E’ per tua zia, non è vero?»
 «Non posso lasciarla da sola dopo tutto quello che ha fatto per me.»
Haldir curvò un angolo della bocca, sospirando. Si alzò in piedi e raggiunse sua figlia.
 «Ti capisco.» Disse solamente.
Dagli occhi di Mayve scesero delle lacrime calde, in contrasto con la fredda aria notturna. «Domani partirò, ma non voglio dire addio alla vita che tu mi hai fatto conoscere.»
 «Sono un essere immortale, iell nín. Sarò sempre qui ad attendere il tuo ritorno.» Si avvicinò a lei e quando quella capì le sue intenzioni, gli saltò al collo quasi come se abbracciarlo fosse l’unica cosa che contasse davvero. Haldir strinse sua figlia fra le proprie braccia con protezione e affetto, apprezzando la bellezza di quell’istante.



Il viaggio di ritorno fu più duro di quello di andata.
Piovve incessantemente durante tutti i cinque giorni e nelle notti fu costretta a proteggersi dal freddo da una sola coperta, soggetta a inzupparsi dopo poche ore di sonno.
Due giorni prima di arrivare alla meta si ammalò di un forte raffreddore. Ogni volta che starnutiva, un dolore allucinante le scuoteva il petto. Sperò vivamente di non peggiorare prima di arrivare a casa.
Quando arriverò mi preparerò un infuso alle erbe, si diceva per tirarsi su il morale. Le mancava quella piccola dimora di appena quattro stanzette, piena di profumi e colori. Sorrise solo al pensiero di stringere fra le sue braccia Alun, le mancava tantissimo il suo sorriso e non vedeva l’ora di raccontarle tutto nei minimi dettagli.
Arrivò al villaggio nelle prime ore del pomeriggio, legò il cavallo alla stalla e gli diede da mangiare. Si incamminò verso casa, immaginando la zia durante il suo riposo pomeridiano. L’avrebbe svegliata, ma almeno sarebbe stata una sorpresa piacevole.
Bussò alla porta e la chiamò.
Nessuna risposta.
Sta decisamente dormendo.
Decise di entrare e di raggiungerla nella sua camera da letto, ma quando mise piede all’entrata, notò subito qualcosa di diverso. I fiori erano spariti, non ve ne era rimasto uno, il pavimento era polveroso e il tavolo pieno di stoviglie sporche.
Un raccapricciante presentimento si impossessò di ogni suo muscolo, si sentì sbiancare in volto e le dita delle mani le tremarono per la preoccupazione.
 «Alun!» Urlò il suo nome, correndo verso la sua camera.
Arrivata alla soglia, scoprì che non c’era traccia di lei. La cercò in tutta la casetta. Andò per ultimo in giardino e con sgomento osservò come alcune piante erano appassite o disidratate.
Corse fuori dalla casa e bussò alla prima porta con il pugno chiuso, facendo sobbalzare gli abitanti all’interno.
Gli occhi di colei che andò ad aprire si spalancarono di terrore nel momento in cui la riconobbero. «Cosa vuoi?» Le domandò freddamente, con una gran voglia di chiuderle la porta in faccia.
Mayve non ci vedeva più dall’angoscia che le provocava quell’ansia. «Avete visto Alun?»
La donna schiuse le labbra con sorpresa. «Pensavo lo avessi saputo.»
 «Sapere cosa?» Domandò rude.
 «L’hanno sepolta due giorni fa.»

Quel giorno Mayve imparò a convivere con qualcosa che aveva da sempre temuto: il vuoto che una persona cara lascia nel momento in cui va via.
Aveva sempre avuto paura di perdere Alun, ma ogni volta che lo pensava, scacciava via quel pensiero.
Eppure, in quel freddo pomeriggio di primavera, dopo aver cercato quella lapide per minuti, capì che tutto quello che stava vivendo era reale.
Quando cadde in ginocchio, incapace di respirare regolarmente per i troppi singhiozzi che le scuotevano il corpo, capì che non ci sarebbe stata alcuna possibilità di rivederla un’ultima volta.
Perché era andata via.
Per sempre.
E questo era troppo difficile da comprendere nello stato di shock in cui si trovava.
Si distese sul terreno a braccia larghe, come un modo per abbracciare la terra, abbracciare lei.
Pianse disperatamente, ma urlò una sola volta, così forte da sentire le corde vocali lacerarsi. Così forte che i suoi timpani presero a fischiare subito dopo.
Si rannicchiò in posizione fetale e tremò, sporcandosi il volto in un impasto di terra e lacrime.
Ricordò e gli mancò angosciosamente ogni singola carezza, ogni abbraccio, ogni bacio.
Nella testa, la sua voce le cantava la ninna nanna con cui si addormentava ogni notte da piccola. Schiuse le labbra e in dei sussurri intonò la dolce melodia, interrompendosi più volte a causa del pianto incessante.
Nessun dolore terreno era paragonabile a quelle fitte al petto e alla testa, a quei pensieri assordanti, a quella consapevolezza di un vuoto incolmabile.

Quando dopo un paio d’ore riuscì a smettere di piangere, svuotò alla rinfusa la bisaccia da tutti i fiori che le aveva raccolto durante il viaggio. Intrecciò i steli fino a quando non ottenne una ghirlanda profumata e colorata. La posò sulla lapide e le sue dita indugiarono sulla pietra fredda, come a voler accarezzare quel volto che non avrebbe mai più rivisto.
Il sole iniziava a tramontare e lei prese coscienza di non poter più rimanere lì a compiangerla.
Era arrivato il momento di dirle addio.
 «Adesso capisco perché insistevi così tanto.» La sua voce era un mormorio rauco e malinconico. «Conosci meglio di me le malattie, sapevi che non saresti mai guarita e mi hai mentito: dovevi lasciarmi andare prima che fosse troppo tardi. E io sono stata così stupida da assecondarti.» Si portò le mani al viso, reprimendo quei singhiozzi in gola. «Non mi perdonerò mai per non essere riuscita a salutarti dignitosamente, un’ultima volta. Perché, sarebbe stato il minimo, dopo diciannove anni passati a crescermi senza esserti mai lamentata una volta.» Si asciugò le lacrime e si passò una mano fra i capelli, spostandoli all’indietro. «Il tuo sorriso era il sole della mia vita. Tu mi hai dato amore quando nessun’altro era disposto a darmelo.» Impugnò la terra morbida e ingoiò un fiotto di saliva. «Ti prometto di essere una persona buona e paziente. Farò le scelte giuste per tutto il corso della mia vita. Seguirò i miei sogni come volevi tu.» Si alzò in piedi e lasciò che la terra scivolasse via dalla sua mano. «Rimarrai per sempre nel mio cuore, nella mia mente e nella mia anima.»



Decise di ritornare da Haldir immediatamente, ignorando il fatto di essere ammalata o che il cavallo era ancora troppo stanco per affrontare un altro viaggio.
Sta di fatto che riuscì a raggiungere Lórien in quattro giorni e mezzo.
Quando attraversò la radura, il cavallo si fermò e, esausto, si sdraiò sull’erbetta. Mayve si alzò in piedi, barcollando un po’. La testa le girava vorticosamente e la febbre era così forte che le tempie, bollenti e gocciolanti di sudore, le pulsavano insistentemente.
Le ginocchia non resistettero più: cadde e chiuse gli occhi ancora gonfi dal pianto, addormentandosi immediatamente. Pochi minuti dopo due elfi la trovarono svenuta fra i fiori d’argento di Lórien. Fortunatamente uno di loro la riconobbe, ricordando la chiacchierata che avevano avuto durante la festa; questo la prese fra le sue braccia e la portò direttamente alla porta di Haldir.

Il padre si prese cura della propria figlia.
Dopo tre giorni di sonno, Mayve si svegliò. Non appena Haldir guardò nei suoi occhi, capì che qualcosa era andato tremendamente storto.
La ragazza gli raccontò tutto.
Lo stesso giorno, Haldir disse a Mayve: «Il marito di Alun era un uomo saggio, buono ed era anche un mio amico. Lui sapeva di me e Groewia, ma non ha mai raccontato nulla a nessuno fuorché sua moglie. Lui me la descriveva come una donna dolce e gentile.»
 «Come fai a sopravvivere al dolore della morte?»
 «E’ la parte più brutta dell’immortalità. Alla fine, devi imparare a convivere con quel dolore ed evitare di affezionarsi a un mortale diventa sempre più necessario.»





























NDA


Parto ringraziando tutti coloro che hanno recensito, messo fra le preferite e\o seguite questa storia. Vi ringrazio tantissimo per il vostro sostegno.

Un grazie speciale va alle Giulie, una di Roma e una che è una filmaker (che, giusto per dire, mi ha aiutata nella trama di questa storia e nella scelta del nome della protagonista).

Spero di leggere varie recensioni sui vostri pareri su questa storia

Grazie ancora,

alla prossima ;)

 

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Capitolo 4
*** Capitolo Terzo ***


Flare of a Frozen Heart
                                        
                                                                                                                      PARTE II
                                                                                                                    Nell’ombra
                                                                                                              il mio viaggio va


                                                                                                              Capitolo Terzo




Se ne stava sui robusti rami, nascosta fra le numerose foglie. Osservava le orride creature sotto di lei e con pazienza e silenzio attendeva il segnale d’attacco.
Ricordava ancora gli occhi dei suoi compagni: pieni di disgusto e sgomento; quando era arrivato l’ordine di pattuglia, erano rimasti un po’ tutti stupiti: non si vedevano orchi nei dintorni di Lòrien dall’inizio della Terza Era.
Mayve era immobile da mezz’ora e i piedi iniziavano a formicolarle. Smosse un po’ le gambe, stando attenta a non cadere giù e a non fare rumore. Sospirò piano e serrò la mascella. Con la mano stringeva l’elsa della spada e con il pollice disegnava dei cerchi sul pomolo.
Ingoiò un fiotto di saliva, abbassando gli occhi sul ramo dov’era appostato Haldir. Mayve sorrise senza accorgersene quando, dopo qualche attimo, lui la scoprì a guardarlo, quasi come se lui avesse sentito lo sguardo della figlia addosso. L’elfo sorrise di rimando e con un cenno del capo le ordinò di concentrarsi sugli orchi.
Mayve obbedì e tornò a rivolgere la sua attenzione alle creature.
Circa un minuto dopo si sentì un fischio molto simile al canto di un uccellino.
Ma quello non era il fischio di un uccellino.
Saltarono giù dai propri rami e simultaneamente incoccarono le frecce negli archi, accerchiando gli orchi; questi due sibilarono e grugnirono, sguainando le loro spade, ignari del fatto di essere completamente in svantaggio di numero.
 «N’ndengina sen! (non uccideteli)» Ordinò Haldir, prima che un orco si scagliasse proprio su Mayve. Con un colpo di lama, le scagliò l’arco sul terreno, disarmandola.
Fortunatamente riuscì a tirar fuori la spada dal fodero in tempo: la lama dell’orco fendette contro quella elfica di lei in un colpo medio. Con un’abile manovra, Mayve disarmò il nemico, dopodiché  gli lanciò un calcio alla pancia e quello cadde in ginocchio, dolorante.
Non fu difficile affrontarli, non che gli orchi siano abili combattenti, ma questi erano proprio principianti.
Senza armi e rassegati, non opposero più resistenza e un elfo poté legarli senza problemi. Si incamminarono così verso il palazzo di Lady Galadriel.
Osservava come la natura di Lòrien iniziava a prepararsi alla notte, il sole tramontava e i fiori si schiudevano impercettibilmente. Le prime stelle splendevano sul cielo e facevano da sfondo al panorama del Regno di Galadriel.
Erano passati duecentocinquant’anni dalla prima volta che aveva visto quello splendido panorama e Mayve giurava di non essersi ancora abituata a tutta quella meraviglia.

Dopo la morte di Alun, Mayve si era dedicata con tutta se stessa alla sua promessa: inseguire i sogni.
Così si era impegnata a diventare un elfo.
Amalgamarsi fra la sua gente, camminare come loro, parlare come loro, era ciò che voleva. Imparò a leggere e a scrivere, studiò la storia di Arda e dei Valar, il Sindarin, gli usi e i costumi delle varie razze della Terra di Mezzo. Contemporaneamente si esercitava con Haldir affinché potesse prendere una posizione fra le truppe militari. Si allenò ogni giorno, affrontò ogni esame e non si arrese nemmeno quando fallì per la prima volta: sapeva ciò che voleva, aveva un obiettivo e doveva portarlo al termine. Dopo dieci anni di duro lavoro, divenne un soldato, una dei Galadhrim. Le prime battaglie furono dure da affrontare, molte volte non ne uscì illesa, altre volte ne rimase profondamente segnata. Ogni esperienza formò la persona che era diventata: forte e responsabile. Anche se non dimenticava mai da dove veniva, da chi era stata cresciuta e quale fosse la cosa più importante nella vita: avere il coraggio di fare del bene, e Mayve coltivava quel coraggio poco a poco, maturando dentro di sé una visione completamente realistica del mondo.

Solo Haldir, Mayve e un altro soldato furono incaricati di portare gli orchi dalla dama.
 «Mia Signora,» parlò il Capitano dei Galadhrim. «questi sono gli orchi che avete visto nei confini della radura?»
Lady Galadriel indossava un abito di un pallido azzurro, la lunga gonna era ornata da fili argentei. I suoi occhi erano vitrei e lucidi, le palpebre pesanti le socchiudevano gli occhi in due fessure. Era stanca, non una di una stanchezza dovuta a un grande sforzo, ma di  un’acuta tristezza, come se mille preoccupazioni le tormentassero l’animo.
Si alzò dal trono e cammino lentamente verso i due orchi. Quando arrivò davanti loro, ordinò con un impercettibile cenno del capo ai soldati di allontanarsi. Mayve fece due passi indietro e ripose il pugnale che aveva puntato fino a qualche secondo prima sulla gola di uno degli orchi.
 «Per rendere più semplice la questione: voi risponderete alle mie domande e io vi lascerò liberi.»
I due sibilarono, ma solo uno ripose: «Affare fatto.» Digrignando i denti neri e affilati.
 «Per quale motivo siete in queste terre?» Domandò a voce bassa, atona, con gli occhi a scrutare la creatura dall’alto.
 «Siamo in esplorazione.» Ruggì, indignato da quella collaborazione.
 «Perché?»
 «Ci è stato ordinato!»
L’orco silente si avventò verso la dama, irritato da quell’oppressione da prigioniero. Ma Galadriel fu veloce: lo bloccò telepaticamente, voltandosi lentamente verso di lui. Fece segno con un’occhiata di pochi istanti ad Haldir e quello si avvicinò all’orco, pugnalandolo alla gola. Liquido nero sgorgò via dalla ferita fatale e l’orrida creatura cadde nella pozza del proprio sangue.
L’altro orco grugnì e fu Mayve a bloccarlo da dietro, puntandogli un coltello alla gola e un altro al petto.
 «Ti conviene rispondere se non vuoi fare la sua stessa fine.» Gli occhi della dama si illuminarono per un attimo di una luce color smeraldo, la sua voce era grave e piena di rabbia.
 «I giorni degli elfi sono finiti! L’Oscurità sta facendo ritorno e niente riuscirà a fermarci!» Pronunciò una frase in lingua nera prima che Mayve gli tagliasse la gola e lo pugnalasse in un sol colpo.
Restarono pochi secondi in silenzio, tutti rifletterono su quelle parole, su quello spaventoso monito.
 «Portateli via di qui.» Ordinò Galadriel, si voltò e andò verso il trono. Si sedette lentamente e sul suo volto si tinse un’espressione in pena.
Mayve ignorò l’ordine e si avvicinò verso la dama. «Mia signora,» la chiamò con gentilezza, ricevendo la sua attenzione. «vi sentite bene?»
Un tiepido sorriso piegò per alcuni secondi le labbra di Galadriel. «Non ti preoccupare per me.»
 «Avete bisogno di qualcosa?» Domandò con cortesia e dolcezza.
 «Ho solo bisogno di riflettere.»



Mayve fissava le parole sulle pagine del libro, ma non le leggeva. La sua mente era affollata da pensieri, il ricordo di ciò che era successo il giorno prima era ancora vivido e presente.
Una parte di sé si preoccupava di ciò che aveva detto l’orco, l’altra voleva ignorare quelle parole, convinta che quell’avviso fosse solo una bugia.
L’Oscurità era stata distrutta, non poteva ritornare.
Così, sospirò e le sue preoccupazioni di concentrarono sulla salute di Lady Galadriel. Una delle cose che amava di più di Lòrien era proprio il rapporto che c’era fra la regina e i suoi abitanti. Era una persona piena di mistero, i suoi poteri e il suo sguardo potevano mettere in soggezione chiunque, eppure dietro quella fama, vi era un animo puro e dolce, pieno di premura verso i suoi sudditi.
Mayve l’adorava, come l’adoravano tutti gli elfi, e ricordare quell’espressione afflitta e in pena le faceva male.
 «Iell nín,» la chiamò Haldir e lei chiuse il libro, ormai convinta di lasciar perdere la lettura per quel giorno. «parlami. I tuoi pensieri fanno rumore.» Le sussurrò dolcemente in elfico.
L’elfo si sedette accanto alla figlia, le accarezzò una guancia col dorso delle dita e si avvicinò per darle un bacio fra le sopracciglia. Mayve sorrise istintivamente a quel gesto e cinse il polso del padre con le dita.
 «Ada (padre/papà), penso a ciò che è successo ieri.» Confessò, poggiando la testa sulla sua spalla.
 «Ti preoccupa ciò che ha detto l’orco?»
 «In parte sì. Secondo te mentiva o diceva la verità?»
Quella domanda lo colse impreparato, ci mise alcuni secondi a rispondere. «Questo lo sa solo la regina. Solo lei ha visto nella sua mente.»
 «Dall’espressione che aveva ieri penso proprio che dovremmo preoccuparci.» Commentò infine.
 «Non essere pessimista, iell nín. Io consiglio di sperare per il meglio e di pensare positivo in qualunque circostanza.»
 Mayve sollevò la testa dalla sua spalla per voltarsi a guardarlo. «Vorrei tanto avere la tua pazienza, ada.»
Haldir ridacchiò in quello che sembrò un piccolo sbuffo. Con l’indice e il medio le afferrò il naso in una stretta giocosa e glielo tirò con delicatezza. Anche Mayve sorrise vivacemente.
 «La acquisirai col tempo.»
 «Lo spero.»
In quegli anni, fra di loro si era saldato un legame di profonda fiducia e affetto. Mayve ammirava il padre e faceva tesoro ogni suo insegnamento, Haldir la riempiva di attenzioni e la trattava come la persona più importante. Qualche litigio alla padre-figlia c’era stato nel corso di quei due secoli, ma niente di così importante da essere ricordato con rancore.
Proprio quando avevano iniziato a preparare la cena, qualcuno bussò alla porta della loro casa.
Andò ad aprire Mayve e con grande sorpresa scoprì che si trattava della dama di compagnia Lady Galadriel. «Vanië, accomodatevi.» La invitò ad entrare, ma l’elfa rifiutò con cortesia.
 «Sono qui per comunicarvi che la regina richiede la presenza del Capitano e del soldato Mayve nei suoi alloggi.»
Nell’udire quelle parole, Haldir si avvinò alla porta e domandò: «Adesso?»
 «Sì, Signore. Penso sia urgente.»

Riposero le pentole e spensero il fuoco prima di dirigersi nelle stanze reali.
Haldir bussò e la dama di compagnia li fece accomodare. Lady Galadriel se ne stava nella veranda a contemplare la luna con aria pensierosa, mentre alcune serve preparavano delle borse da viaggio. Alla vista di quei bagagli, Mayve lanciò un’occhiata ad Haldir, cercando, invano, una risposta nei suoi occhi.
La dama di compagnia li accompagnò alle porte della veranda, annunciandoli.
 «Puoi andare, Vanië, grazie.» Galadriel congedò l’elfa e si voltò verso i due ospiti. «Vi ringrazio per essere venuti.»
 «Ogni vostro ordine è dovere, Arwen en amin (mia Signora).»
La regina sorrise all’elfo e li invitò a sedersi insieme a lei.
 «Haldir, tu non sei solo un Capitano, ma un amico e ripongo in te la mia fiducia.»
 «Queste vostre parole mi colmano il cuore d’onore.» Disse con modestia, portandosi una mano al petto.
 «Domani partirò per Gran Burrone, ho scritto una lettera a Re Elrond e gli ho spiegato in poche righe il motivo della mia imminente visita.» Galadriel guardò per la prima volta da quando era arrivata Mayve. «Il messaggio di quell’orco non può essere interpretato solo da me.» Tornò a rivolgersi ad Haldir. «Ciò che ti chiedo è di mantenere il silenzio, fino a quando sarà ancora possibile, questa situazione dev’essere mantenuta nel suo alone di mistero.» Le nocche di Galadriel si fecero bianche, segno della stretta che stava esercitando fa le sue dita, a sua volta segno di tensione e preoccupazione.
 «Sarà fatto, mia Signora.»
Mayve si era trattenuta per minuti, ma, dopo aver accumulato per tanto tempo, si fece avanti, ignorando un’eventuale disapprovazione di Haldir.
 «Mia Signora, cosa sta succedendo di preciso?» Domandò con tono pacato, cercando di equilibrare così la domanda avventata con la gentilezza.
 «Al momento non posso dirti niente di preciso, l’aspetto positivo, però, è che mi accompagnerai tu a scoprirlo.»
Mayve impallidì dalla sorpresa e le sue labbra rimasero schiuse, inizialmente pronta a dire qualcosa in risposta, scoprendosi poi decisamente senza parole. Galadriel accennò un tiepido sorriso e fu più specifica: «C’è un motivo se ho convocato anche te e non solo tuo padre: vorrei che tu mi accompagnassi durante questo viaggio. Non ho bisogno della protezione di un semplice soldato, ma di un elfo che sappia fare il suo dovere da soldato e da persona contemporaneamente. Non so se mi spiego.»
Mayve trovò la forza di riprendersi e finalmente parve sapere cosa dire. «Mia Signora, mi cogliete impreparata a questa notizia,» ciò che le veniva proposto era qualcosa che le sarebbe piaciuto fare. Mayve non aveva viaggiato molto, quel giusto solo per conoscere cosa confinava Lòrien, dopo di ché si affidava solo alle cartine della Terra di Mezzo, viaggiando con la sua mente nei bellissimi posti illustrati nei libri che sfogliava ogni giorno. Respirare aria nuova, vivere un’avventura… non poté che rispondere: «ma sarò lieta e onorata di accompagnarvi e proteggervi.»


Il sole era appena sorto e Mayve stava controllando per l’ultima volta la borsa da viaggio. Due vestiti, due paia di pantaloni, una blusa e tutti gli attrezzi possibili per un’eventuale battaglia, non che fosse strettamente necessario, ma per lei era sempre meglio prevenire che curare. Andò nuovamente in camera, indossò la cintura con il fodero della spada e dei pugnali, legò i capelli sciolti in una lunga treccia. Si osservò pochi minuti allo specchio e ricordò l’aspetto che aveva duecentocinquant’anni fa. Adesso i suoi muscoli erano leggermente accentuati sopra i vestiti, nulla a che fare con il corpo esile e fin troppo scarno di tanto tempo prima; il suo volto aveva assunto una perenne espressione calma, perfetta a celare ogni emozione o sentimento che aveva dentro; i capelli castani erano lunghi, anche fin troppo. Un pensiero solcò la mente di Mayve, un’idea che si rifiutò di accettare, ma che poi suonò più che conveniente quando analizzò gli aspetti positivi. Allora prese in mano il manico di un pugnale e rimosse la piccola lama dal fodero, poggiandola sul punto medio della lunghezza della treccia. Fu un taglio netto, in pochi secondi aveva una lunga treccia fra le mani e il pugnale nell’altra. Ripose la lama e buttò in un cestello quella piccola parte di sé che non le apparteneva più. Infilò le dita fra i capelli, sciogliendoli e legando il ciuffo in trecce che le avrebbero ornato elegantemente la nuca.
Adesso sì, aveva l’aspetto di una guerriera.
Indossò un mantello da viaggio verde acido e uscì dalla propria stanza, chiudendo la porta. Davanti alla sacca da viaggio, c’era Haldir con in mano una boccetta di vetro rivestita di cuoio. Gli occhi del padre si sgranarono in un’espressione piena di sorpresa.
 «Hai tagliato i capelli.» Osservò. «Come mai?» Quando Mayve si avvicinò abbastanza, Haldir infilò le dita fra le sue ciocche, allisciandogliele fino alla loro nuova lunghezza.
 «Erano troppo lunghi. So che vanno usati fino alle anche, ma durante i combattimenti sono indomabili e difficili da gestire, così li ho tagliati.» Forse anche troppo, ora che ci pensava. Haldir le sorrise, baciandole la fronte.
 «Ho una cosa per te.» Le annunciò, porgendole quella boccetta. Mayve la prese in mano e se la rigirò fra le dita. «E’ un infuso elfico per le ferite gravi.»
Mayve lo guardò subito negli occhi, cercando il suo sguardo. Quello non era un semplice infuso, quella era luce liquida. «Ada, è molto raro. Perché lo dai a me?»
 «Nel mio cuore, so che questo non sarà un viaggio che durerà poco. Voglio che lo tenga tu in caso di necessità.»
Un corno suonò una lunga nota grave, segno che la regina sarebbe salita sulla carrozza tra qualche minuto.
Mayve infilò frettolosamente la boccetta nella sacca che si mise alle spalle. «E’ ora che io vada.» Padre e figlia si guardarono negli occhi e si strinsero in un abbraccio.
 «Ricorda cosa diceva Alun:» il cuore di Mayve tremò a quel nome e delle lacrime minacciarono di uscire. «segui sempre il tuo cuore.»
Prima di allontanarla da sé, le diede un ultimo bacio nell’attaccatura dei capelli.
Mayve corse verso la porta, la aprì, ma prima di andare via a passo felpato, si voltò un’ultima volta verso Haldir, tenendo stretto il medaglione d’argento al petto.
 «Quel marth (buona fortuna)!» Le disse infine.
 «Diola lle, ada (grazie, papà).»

Arrivò appena in tempo davanti alla carrozza. Un servitore le prese la sacca, riponendola fra i bagagli della regina, successivamente le consigliò di mettersi in posizione.
Dopo pochi minuti arrivò Lady Galadriel, con un mantello blu a nascondere l’abito che indossava. Salì gli scalini e si accomodò dentro la carrozza. Quando il cocchiere annunciò la partenza, anche Mayve entrò a sedersi, chiudendo la piccola porta.
Davanti a lei vi era Galadriel, che scoprì a guardarla con quel suo solito sorriso appena accennato.
 «Buongiorno, mia Signora.» Le augurò cortesemente.
 «Buongiorno, Mayve. Hai dormito bene?»
 «Veramente non ho chiuso occhio.»
 «Troverai riposo durante il lungo viaggio di andata.»
Cadde un breve silenzio.
 «Voi, avete dormito questa notte?»
 «Purtroppo no.»
Scambiarono delle chiacchere su argomenti leggeri, come libri, stagioni, feste e usanze fra le culture della Terra di Mezzo. Quando venne l’ora di pranzo, le due mangiarono un pezzo di lembas e dopo, Galadriel le chiese se le avrebbe voluto leggere un libro per passare del tempo, Mayve fu più che felice di quella proposta.
Si dedicarono alla lettura fino alla sera e quando venne l’ora di cena, mangiarono un altro pezzo di pane elfico. Si coprirono con delle coperte e la luce lunare aiutò ad alimentare quella rilassante sonnolenza.
Prima che il sonno si impadronisse di entrambe, Mayve diede libero sfogo a un pensiero fisso:  «Mia Signora, non voglio essere indiscreta, ma, posso farvi una domanda?»
Galadriel le sorrise, facendole segno di sì con la testa. «Perché avete scelto me per accompagnarvi in questo viaggio? In questi duecentocinquant’anni ho avuto modo di conoscervi un po’ e so che non fate mai una cosa per un solo scopo.» Fece una pausa, per poi domandare di nuovo: «Perché proprio io?»
 «Non sta a me rispondere a questa domanda, anche se ammiro il tuo intuito. Un giorno, non molto lontano, sarai tu stessa a darti una risposta e allora capirai qual è davvero il tuo posto in questo mondo.»






Nda.

con qualche mese (di troppo) di ritardo, sono ritornata ad aggiornare questa fanfiction, per quale ho molte idee in mente per uno sviluppo interessante della trama ;)

Fatemi sapere cosa ne pensate,

un abbraccio e alla prossima!


kyra

 

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