1942

di daphtrvnks_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1942 ***
Capitolo 2: *** 14 Agosto ***
Capitolo 3: *** 16 Agosto ***
Capitolo 4: *** 18 Agosto ***
Capitolo 5: *** 20 Agosto ***
Capitolo 6: *** 19 Ottobre ***
Capitolo 7: *** 20 Ottobre ***
Capitolo 8: *** 21 Ottobre ***
Capitolo 9: *** 22 Ottobre ***
Capitolo 10: *** 24 Ottobre ***
Capitolo 11: *** 26 Ottobre ***
Capitolo 12: *** 26 Ottobre ***
Capitolo 13: *** 8 Gennaio 1943 ***
Capitolo 14: *** 5 Febbraio 1943 ***
Capitolo 15: *** 12 Febbraio 1943 ***



Capitolo 1
*** 1942 ***


'' 1942, 12 agosto.

La guerra prosegue mentre i nostri connazionali rischiano la vita. Siamo rimaste in venti, molte delle nostre compagne sono morte per malattia o non sono riuscite a resistere alle continue torture dei Giapponesi.

Il clima è caldo qui a Sumatra, afoso ed umido, gelido durante la notte. Ci ammassiamo nel riparo in ferro, stringendoci sul cemento duro e freddo tra serpenti e topi, che spesso ci passano tra le gambe e sui piedi, durante il nostro tormentato sonno.

Se solo riuscissimo a prenderli potremmo godere di una buona cena.

Ho trovato questo libretto mentre ero alla ricerca di erbe per abbassare la febbre di una donna, è vuoto e le pagine ingiallite, non ho idea di come sia arrivato fin qui e questo pezzo di carbone mi aiuta a passare il tempo.

Lottiamo continuando a subire, urliamo nel silenzio quando ogni giorno sotto la bandiera del nemico ci avvisano di come il Giappone stia vincendo. 

Eravamo state messe davanti un bivio: prostituirci per i loro soldati o lavorare nei campi.

Quelle puttane in questo momento staranno una meraviglia.

'Il club delle lenzuola.'

Quando due giorni fa ci hanno portato nella giungla, passando per una delle basi militari, le abbiamo viste sulla terrazza a prendere del thè. Le ho invidiate, ammetto, ma non aprirò le mie cosce a degli assassini.

Ieri Bulma ha osato parlare mentre il Capitano Hatake stentava un inglese scolastico, ha sussurrato un 'Bastardi' facendomi arcuare le labbra in un sorriso che agli occhi del mostro non era sfuggito. In questo momento è sotto il sole, sulle ginocchia dinanzi a stecche di bambù appuntite come coltelli, disidratata e con i polsi legati, se crollasse, se si lasciasse cogliere dalla stanchezza, ne verrebbe trafitta.

Ho provato a portarle dell'acqua, gli ematomi sul mio corpo sono la prova della disumanità di quegli uomini. Mi duole la testa, lo stomaco brontola e le mie ginocchia e braccia sono piene di ferite, da cui, se un giorno Dio volesse e sempre se esista, potrebbe entrare infezione. 

La mia pelle una volta pallida, un vanto per chi viveva nel lusso, ora è scura.

L'americana continua a guardarmi, abbiamo legato in queste ultime settimane, sa che io, una stupida cinese, non posso fare molto.

Riproverò questa notte. 

Sopravviverà, ne usciremo insieme.''

Il pezzò di carbone le si frantumò tra le esili dita. L'unica donna ad aver contatti con i giapponesi, alleata tedesca, la guardò con commiserazione; nei suoi occhi azzurri scorse la forza di quella che una volta, tra le stradine della sua Berlino, veniva vista come una illustre nobile. Aveva raccontato loro di essere una dottoressa, ma lei sapeva, invece, che fosse una professoressa, moglie di un chirurgo. Eppure ella le aiutava, e cercava assieme ad una infermiera inglese, di curare chiunque stesse male.

'Alle tre, io penserò alla guardia.'

Col suo rude accento le aveva proferito, la corvina aveva annuito e volgendo lo sguardo sulla ragazza dai capelli turchesi aveva fatto un cenno con le mani infondendole forza e coraggio.

'Pezzi di merda.'

Alzando le iridi verso la bandiera, bianca e da come Lazuli, ragazza austriaca, aveva ironizzato 'con un uovo al tegamino al centro' aveva sputato sul terreno.

La tedesca aveva riso ed una volta messa in piedi, reggendosi alla parete della baracca, aveva annuito a se stessa.

Sarebbero andate via da quell'inferno, qualunque cosa fosse successa.



//yay!

Mi sono deliberatamente ispirata al film Paradise Road, mi ha davvero colpito tanto che ne è uscita questa breve one-shot, per ora metto completa ma se me ne venissero in mente altre la continuerò come una raccolta, ovviamente, sempre se vogliate che continui, aggiungerò anche vegeta e goku se ne ho l'occasione.

-Daph

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Capitolo 2
*** 14 Agosto ***


'1942, 14 Agosto.

Bulma è salva.

Ha resistito e ne è uscita vincitrice, ora è stesa all'interno della baracca, ci stiamo prendendo cura di lei ma le sue condizioni sono pessime, suppongo abbia preso una grave insolazione e la sua pelle è rossa come fosse bruciata.

Ho novità, ma non ho idea di come comportarmi riguardo a queste. 

Ieri, durante il nostro solito lavoro nei campi mi è stato passato un biglietto da parte di Lazuli, dice che è stato un soldato giapponese a darglielo. All'interno ho trovato un orario, 17:45, con annessa una posizione, dietro l'ufficio del capitano.

È per oggi, mi chiedo se sia una trappola, se vogliano punirmi per aver dato da bere all'Americana.

Dovrei davvero essere punita per aver fatto del bene?

Ho deciso che ci andrò.

La bionda continua a farmi domande, le ripeto che è solo un avviso, nulla più.

Se mi accadrà qualcosa questo è il mio addio, se qualcuno trovasse mai questo maledetto diario avvisate mio padre, Jumaho, che gli ho voluto bene. '

La penna donatale dalla tedesca venne riposta all'interno delle pagine bianche, si alzò dal suo solito posto e dopo essersi accertata che nessuno la vedesse nascose il diaro sotto delle lamiere, tra l'erba alta e massi.

Sistemò l'abito di un viola sbiadito e dopo aver legato i capelli in una treccia con l'ultimo elastico rimasto si avviò verso il luogo descritto nel biglietto.

Continuava a domandarsi chi fosse, cosa volesse da lei e soprattutto cosa le avrebbe fatto o detto. Cercò di non farsi vedere dalle guardie, non era posto in cui stare e se fosse stata scoperta le conseguenze le sarebbero costate la vita.

Non aveva paura, non l'aveva mai avuta e tutto le era sempre passato sopra come un fiume in piena. Forte come una roccia che non viene scalfita dalla corrente o come una canna che nonostante il vento non si piega.

Svelta, veloce come una gazzella.

Nella corsa la treccia aveva iniziato a scomporsi, sciogliendosi e lasciando cadere l'elastico. Non ebbe il tempo di riprenderlo, era già sul luogo dell'incontro ed un uomo, appoggiato contro la parete esterna dell'ufficio del capitano Hatake, la stava osservando. 

Rimase immobile, le mani chiuse in due pugni pronta a difendersi. Lo vide avvicinarsi, le fronde degli alberi lì vicino coprivano con la loro ombra il volto ambrato di quello che poi apparve più come un ragazzo, su e giù della sua stessa età. Fece un passo indietro, indifferente nello sguardo ma con l'ansia crescente che bloccava il respiro, il battito accellerato che sperava il giapponese non sentisse. Una lieve brezza le accarezzò il volto, lasciando che i capelli corvini svolazzassero qui e là con i suoi lunghi fili di seta. Si concentrò sulla figura dello sconosciuto, studiandolo attentamente, si soffermò sul suo fisico statuario coperto dalla divisa verde militare e successivamente sul suo viso, gli occhi la colpirono maggiormente: due pozzi scuri d'ossidiana, lucenti come diamanti e dal taglio stretto, incorniciati da folte ciglia.

La resero irrequieta. Quella sensazione opprimente venne spezzata dalla forma inusuale dei suoi capelli, osò pensare, quasi tenera.

'Siete venuta, alla fine.'

Il ragazzo parlò, aveva immaginato una voce scura e tenebrosa rimanendo quasi spiazzata nel trovarla decisamente più allegra ed acuta. Aveva fatto dei passi avanti allugando una delle sue grandi mani nel tentativo di afferrare quelle della giovane che, prontamente, aveva poggiato sui fianchi coperti dal cheongsam. Parlava l'inglese, sempre col suo accento calcato nelle ultime lettere.

'Forse non avrei dovuto.'

Rispose, non aveva avuto cedimenti rimanendo fredda di fronte al nemico, solo dopo notò il fucile poggiato sulla sua spalla destra, questo peggiorò in parte la situazione rendendola anche nervosa.

'No, avete fatto bene. Non voglio mettervi in pericolo e sarò breve, vorrei sapere il vostro nome se mi è concesso.'

Continuava a bramarla, percorrendo con le sue iridi ogni centimetro del corpo armonioso della cinese, beandosi del profumo di fiori che i suoi crini emanavano, inebriandolo ed infatuandolo ancor più di quanto già non fosse.

'Chichi, ora, mi lascerete andare?'

Il giovane soldato sorrise, fece qualche passo avvicinandosi, riuscì finalmente ad acciuffare quelle piccole mani, che tanto nei giorni precedenti aveva desiderato di accarezzare; l'opposto delle sue, callose e coperte da cicatrici, erano delicate e soffici al tatto. Riprese a parlarle:

'Un nome meraviglioso ma sprecato per cotanta bellezza, vi accompagno.' 

La fanciulla si allontanò, infastidita da quel contatto e dalle parole troppo sdolcinate che le erano state riservate, soprattutto da chi con la sua gente stava maltrattando lei e le sue compagne portandole alla schiavitù.

‘È meglio che vada da sola… soldato.'

'Kakaroth ma potete chiamarmi Goku, se preferite'

Sembrava felice mentre le parlava, gioioso come un bambino. L'aveva colpita con la sua infantilità, l'espressione ingenua con un gran sorriso e gli occhi ora più aperti e grandi. Aveva impresso nella sua mente l'immagine di quello sconosciuto, ripescandola poi nelle settimane avvenire, negli anni che sarebbero seguiti e fino alla fine.

'Kakaroth, un nome ostico per la spensieratezza che vi appartiene.'


*cheongsam: abito tradizionale cinese.




 


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Capitolo 3
*** 16 Agosto ***


'16 Agosto, 1942

Bulma si sta rimettendo e di ciò ne sono felice. Ci sono nuovi soldati e tra questi spicca la figura di uno che prenderà il posto del generale Hatake, di lui conosciamo solo il nome: Vegeta. Questa mattina, quando siamo state chiamate per le notizie del giorno sulla guerra, ci è stato presentato: il suo sguardo era torvo e rigido, portava una divisa diversa dalle altre, di un colore blu scuro adornato di molte medaglie, alle mani dei guanti bianchi ed ai piedi degli stivali di pregiata manifattura in cuoio. Si è subito accorto che all'appello mancava una delle nostre compagne, di fatti Bulma era ed è tutt'ora distesta nella baracca. Ha bisogno di cure ed ha provveduto prendendosi carico delle sue condizioni di salute dicendo che, finchè la guerra non sarebbe terminata, tutte dovevano restare vive per evitare ulteriori conflitti. Ho notato Goku tra le file di uomini, mi fissava ed alla fine mi ha rivolto un sorriso che io non ho ricambiato. Mi tocca andare adesso, ho dei lavori da svolgere e non posso tardare di molto la mia assenza. '


Bulma rimase sola, anche Chichi dopo una breve visita seguita da un bacio sulla fronte andò via. Poggiata contro la fredda parete in cemento stringeva al petto una coperta in lana, debole e dimagrita teneva tra le dita della mano sinistra una sigaretta datale dall'austriaca, le avevano detto che fumare avrebbe alleviato le sue sofferenze: ad ogni tiro si sarebbe data in braccio alla morte, la cenere avrebbe buttato via ogni suo sogno, ogni bastoncino bianco come latte spento le sue speranze, e quando anche il fuoco, che ardeva come nel suo animo, avrebbe consumato l'ultimo residuo di tabacco, aspirandolo come fosse ossigeno, ella avrebbe gettato al vento come fumo il suo desiderio di tornare in patria. Eppure, anche se fumare un giorno l'avrebbe condannata alle più dispiacevoli delle malattie, in quel momento, sembrava l'unica soluzione per evadere dai pensieri. 

I capelli turchesi erano sporchi, avevano perso la loro lucentezza, al contrario gli occhi, belli come lapislazzuli, brillavano di forza. La sua pelle pallida come la neve, segnata da macchie rosse e croste scure, ferite da cui scendeva sangue, ricordava la lava dei vulcani. Stanca fisicamente, lo spirito che celava era simile a quello di un eroe, non si abbatteva, non veniva schiacciato, avrebbe lottato per le ingiustizie che le erano state riservate. Sarebbe andata via a testa alta, avrebbe lasciato Sumatra e non sarebbe morta lì, con una croce senza nome fatta in legno, sepolta dalla terra. Non aveva sentito i passi pesanti dell'uomo entrare nel rifugio, troppo presa da altro anche la sigaretta stava per finire. La luce del pomeriggio faceva male ma curiosa alzò lo sguardo per vedere chi fosse, trovò a suo malgrado uno dei soldati.

Diverso, non lo aveva mai visto.

Le parole di Lazuli le risuonarono nella mente, come un nastro riavvolto per risentire il pezzo preferito di una canzone : 'Oh, Bulma, avresti dovuto vederlo! Era davvero basso e poi, ah – la bionda rise leggermente sistemandole la coperta sulle gambe – portava dei guanti così strani!' era così simpatica, innocente, riusciva a trovare il lato positivo delle cose anche in quell'inferno. 

Portava dei guanti, sì, guanti candidi e spessi.

I suoi occhi scuri la scrutavano, i suoi capelli le ricordarono la fiamma di una candela, neri come la notte. Si chiese cosa volesse e prima ancora che potesse chiederlo lo sconosciuto parlò: 

'Dovreste star bene se siete qui a fumare come niente fosse.' 

La giovane fece una smorfia, il piccolo naso arricciato e gli occhi appena socchiusi. Non rispose, portò semplicemente la sigaretta alle labbra prendendo un lungo tiro per poi buttare la cicca nel guscio di un cocco usato come posacenere. Cacciò con noncuranza il grigio fumo, notando come egli non apprezzasse il gesto. Aveva storto le labbra, si era poi piegato al suo fianco rimanendo a guardarla ancora un altro po'. Accattivante come pochi, quando aveva parlato il suo accento giapponese era arrivato dritto alla sua mente come una lama. 

'Non parlate?'

Proferì nuovamente. Azzardò portando una delle sue grandi mani verso il volto dell'americana, tastando con l'indice la sua guancia segnata da un graffio. Morbida, calda. La bocca si schiuse dallo stupore, la straniera era graziosa. Avevano raccontato della tortuna che aveva subito, incredibile come una occidentale potesse avere così tanto coraggio da riuscire a resistere. 

'Cosa devo fare per farvi parlare, donna?' 

Bulma non parlò. Muta. Non voleva far beare quell’uomo, che pensò fosse davvero attraente, della sua voce. Rimasero a guardarsi per qualche minuto, tra il rumore costante degli stivali dei soldati al di fuori, dei comandi urlati a gran voce e del gracchiare degli uccelli. 

'Come volete.'

Sbottò dopo poco, era rimasto incantato dalle iridi cristalline della prigioniera. Bella come non ne aveva mai viste, anche in quelle condizioni diplorevoli, si era trovato a dover ammettere allo spirito contorto che portava come scudo, che ella, sì, era un fiore prezioso da dover custodire. Fosse stata un'altra non si sarebbe fatto scrupoli a sollevarla per i capelli ed a imporle di lavorare con le altre. Levò la mano, come se si fosse scottato. Si rimise in piedi osservandola dall’alto, imponendole il rispetto che avrebbe dovuto dargli, il rispetto che si dà ad un Dio temuto, un Dio che si supplica per non verdersi scagliare contro la sua ira. 

Colto da quelle idee malsane, i quali lo avevano fatto arrivare fino alla carica di generale, stava per tirare un calcio al suo esile e fragile corpo.

La ragazza si era tirata indietro gemendo leggermente per il dolore dovuto all'azione troppo fugace a cui si era sottoposta per proteggersi, le ginocchia bruciavano, troppo le aveva tenute piegate qualche giorno prima.

'Shōgun, Nara taii wa de anataga hoshīdesu.'

Uno dei sottoposti si affacciò dinanzi alla baracca, inchinandosi ed aspettando una risposta. 

'Kare wa matsu koto ga dekimasu.' 

Bulma li guardava cercando di capire cosa stessero dicendo, sperava che si fermasse, che quel 'salvatore' portasse via il demonio a un passo da lei.

'Sore wa kinkyūde, konakereba naranai.'

Un ringhio, infastidito Vegeta strinse le mani in pugni, uscì dalla baracca senza degnarla di uno sguardo, spintonando il soldato e dirigendosi a grandi passi verso il suo ufficio.

Accese un’altra sigaretta, tenuta lì accanto. Un altro tiro e non avrebbe più sofferto.


*Generale, il capitano Nara vi vuole al telefono.

*Può aspettare.

*È urgente, deve venire.

 


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Capitolo 4
*** 18 Agosto ***


' 18 Agosto 1942

Sono stati giorni difficili, nuovo soldati e disgrazie.

La tedesca, che per noi è stata come una madre e confidente, ci ha lasciato ieri sera. La febbre era alta, le coperte sembravano non bastare mai e senza medicinali abbiamo provato a fare il possibile, inutilmente.

Prima che chiudesse gli occhi per abbandonarsi ad un sonno profondo mi ha chiesto di mantenere una promessa: portare a suo marito un ciondolo in oro e una lettera. Li tengo nascosti nella sottoveste del vestito, so per certo che se qualcuno dei giapponesi li vedesse mi verrebbero immediatamente rubati.

C'è una novità: Bulma può tornare a camminare, per ora fa solo qualche passo, le sue ginocchia non hanno ancora la forza necessaria per reggerla a lungo ma la sua determinazione può superare anche questo ostacolo.

Altro però mi tormenta, non è la nostalgia del mio paese ma la mancanza di una persona, di un viso che avevo imparato a conoscere: Goku.  

Il soldato non si fa vedere da due giorni, solitamente lo vedevo passare nel pomeriggio e in mattinata accompagnato dal nuovo generale, potrebbe essergli accaduto qualcosa e ciò mi spaventa - 



Da tutt’altra parte due uomini, comodamente seduti, parlavano amabilmente della guerra in corso e del raid nell'arcipelogo di Gilbert, avvenuto il 16 sull'isola di Makin. Gli statunitensi avevano provato un attacco a sorpresa che già a quell'ora tarda del pomeggio contava i primi morti e feriti. Si erano trovati impreparati e un anno dopo, per lo stesso errore, gli alleati avrebbero reso la base libera, segnando così una grande svolta nel conflitto. 

Il generale aveva sbottonato i primi tre bottoni della sua divisa, il caldo era insopportabile e rivoli di sudare iniziavo a colare dalla fronte, il collo madido veniva baciato dai raggi del sole provenienti dalla finestra alle sue spalle, la poltrona in pelle lo rendeva nervoso ed i piedi poggiati sulla scrivania sporcavano il legno ed il pavimento di terra.

'Due aerei abbattuti, maledizione!'   

Kakaroth con le mani tra la chioma scura commentava gli esiti dell'offensiva, la radio continuava a blaterare sputando informazioni come una sfilza di proiettili. 

-Sore wa tsunemi itte iru to shite, Nihon teikoku wa, hai no naka kara tachiagari, kono haiboku no tame ni ochiru koto wa arimasen watashi wa, shin ga ten ni sorera o motte irushi, soreha seiyō no taisuru kongo no tatakai de watashi! Tatta o hogo shi, shi reidi kara roku-ochi o kōkai shimasu. –

Il generale fece una smorfia nell'ascoltare la voce metallica dell'imperatore Hirohito, non considerava fosse di stirpe divina ed il modo in cui stava gestendo la situazione non era propria del suo ruolo. Sbuffò poggiando le mani sulla scrivania, in cerca del bicchiere di vetro in cui versare dell'altro scotch, quando di colpo il soldato dinanzi a lui fece uno dei suoi strambi versi di disapprovazione.

 'Quarantasei? Erano settantuno! Ah, devo distrarmi o andrò di matto!' 

Vegeta gli rivolse uno sguardo indagatore. Conosceva il giovane da qualche anno ed ormai aveva fatto abitudine con i suoi comportamenti esagerati, da qualche giorno però gli risultavano più aggressivi, quasi violenti. Aveva notato i suoi sguardi concentrarsi un po' troppo sulle prigioniere e un leggero sorriso sorse sul suo volto.

'Vatti a svagare, ma ti avviso, nessun morto.' 

Sbottò allungando una mano verso il basso. Dall'ultimo cassetto della scrivania fece uscire una frusta in cuoio, porgendola, come niente fosse, al soldato, il quale negò subito con il capo facendo diversi passi indietro. 

'Per chi mi hai preso? Non sono come te.'

'No, non lo sei, ma potresti diventarlo.'

Incarrò la dose cercando di tentarlo, provando a far uscire la bestia, il male, da quel cuore troppo puro per poter resistere in guerra. Kakaroth o Goku non era fatto per uccidere, e questo il giapponese lo aveva capito. 

'Finiscila, non farò mai una cosa del genere.' 

Un sospiro, profondo, come quelli che Vegeta aveva visto spesso fare alla madre quando suo padre la evitava, sfuggendo dal letto d'amore per andare in quello lussurioso di qualche donna di strada. 

'Con questa, sai, lei potrebbe amarti davvero. Prendila, non ti dirà di no dopo qualche colpo.

Aveva centrato in pieno i pensieri dell'amico, lo aveva notato dalle iridi lucide e la bocca appena schiusa, si era immobilizzato. Quella proposta indecente aveva scalfito il povero Kakaroth, agitandolo, combattutto dalla scelta giusta da fare. 

'Non è così che funziona, tienine conto con l'americana, i calci non servono e neanche le fruste.' 

Ora era l'ingenuo a tenere il coltello dalla parte del manico. Se Vegeta aveva capito qualcosa l'altro aveva capito tutto, senza lasciare niente al caso. Si era trovato spettatore due giorni prima ed era stato lui stesso a mandare il 'salvatore', li aveva visti troppo vicini e conoscendo il carattere del capo aveva preferito intervenire.

Detto ciò uscì dall'ufficio, a grandi passi si diresse dalle prigioniere. Voleva provarci ancora, vedere come stesse e in qualche modo rimediare a quell'incontro finito troppo presto e non come aveva sperato.

La trovò seduta di spalle alla baracca, con un diario poggiato sulle ginocchia ed una penna nella mano destra. Si chiese dove avesse trovato quegli oggetti ma preferì non perdere troppo tempo, azzerò le distanze portandosi davanti a lei, il quale dopo qualche secondo alzò lo sguardo sul ragazzo saltando appena dalla sorpresa. 

Egli non le sorrise, prese semplicemente il diario dalle sue mani, chiudendolo e girandoselo tra le dita curioso. Piccolo, dalle pagine ingiallite e dalla copertina bianca, sporca di fango e terra ai lati. La cinese cercò di riprenderlo, ma troppo bassa e debole non poteva contrastare quello che a lei pareva come un gigante. Dopo un’analisi superflua lo aprì, capiva poco e niente ma nell'ultimo foglio macchiato d'inchiostro un nome in grande colse la sua attenzione.

Era il suo, aveva scritto di lui.

La guardò, ritornò alla pagina ed infine lo chiuse con un tonfo restituendoglielo. 

'La tua scrittura è illegibile, sai?' 

Il tono era grave, diverso dalla prima volta in cui l'aveva visto. Sembrava un rimprovero, come se volesse punirla per quel sorriso non ricambiato di qualche giorno prima. Chichi aveva ragione, ci era rimasto male e quella non era altro che una reazione al suo gesto sconsiderato. 

'Non lo leggerà mai nessuno, non vedo perche dovrei scrivere bene…' 

Rispose ella, sfrontata come al suo solito, cercò di reggere il confronto con gli occhi neri dell'uomo, non riuscendoci comunque e dovendo girare il viso di lato.

'Qui ti sbagli, leggerò io Chichi. Dimmi, quanto dovrò aspettare?

Si sporse in avanti portando le mani dietro la schiena, la punta del naso sfiorò alcune ciocche della donna sfuggite dalla crocchia disordinata dietro la nuca. La vide arrossire, fare un passo indietro e poggiarsi alla parete, cercando così di scappare da lui. 

'Ne avrò finchè non sarò fuori da qui, lo porterò via con me. Mettiti l'anima in pace… Goku.'

Quella frase, detta troppo acidamente, aveva fatto scattare qualcosa nella mente del soldato.

'Stai peggiorando le cose Chichi, io voglio essere buono con te… ma non me lo permetti.'

Le parole di Vegeta risuonarono nei suoi timpani come lo avesse davanti, non gli parve più qualcosa di meschino e truce bensì una cosa giusta. 

Si è ciechi agli occhi dell'amore ma anche sordi e muti dinanzi alle orecchie e la bocca del male.

'Menti, non farlo. Non scherzare con me, non sei come loro, tu- 

'Io cosa? Non sono come loro, dici? Forse hai ragione, ma da qui non andrai via, non senza di me.' 

Era ancora ad un palmo della mano dal suo viso, così vicino da sentirne il calore, il profumo dei suoi crini e quasi la morbidezza della sua pelle. Provava qualcosa di strano al suo fianco, suscitava in lui tratti nascosti della sua personalità: due giorni di mancanza e di quell'uomo dalla bontà infinita non ne era rimasto nulla. 

'Mi faresti del male se io-'

Nuovamente venne interrotta, cercò di spostarsi trovando le sottili labbra a qualche centimetro dalle sue, soffici, invitanti. 

'No, ma faresti del male a me. Non ignorarmi.' 

Gli occhi della corvina erano rimasti fissi sulla sua bocca e con un lieve sorriso si era tirato indietro per lasciarle ossigeno, ci voleva pazienza. 

Imprecò contro il generale, aveva una brutta influenza su di lui e portava idee malsane che non poteva accettare.

‘Meglio che vada.' 

Guardava alle sue spalle, il tempo di girarsi per notare Vegeta fissarli e Chichi era sparita portando via con sé anche il diario. 





*- L'impero giapponese non crollerà, risorgerà dalle ceneri, come esso ha sempre fatto! Mi rammarico dei quarantasei caduti, che i Kami li abbiano in cielo e che ci conducano verso la vittoria!- 


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Capitolo 5
*** 20 Agosto ***


20 Agosto 1942 

Quella giornata non venne trascritta come al solito nei diari della corvina, fu un giorno differente dagli altri, uno di quelli da voler dimenticare e cancellare senza rimurginarci troppo sopra. Iniziò monotona, svegliate all'alba e mandate direttamente nel campo a lavorare, con Bulma finalmente a farle compagnia ed una zappa tra le mani. 

C'era Vegeta a sorvegliarle, come se non avesse nulla da fare e si divertisse a passare avanti ed indietro nelle file puntando aspramente i suoi occhi sulla terra tolta; buche profonde riempite di massi. Scattò qualcosa, Chichi non seppe spiegarselo ed in quel momento si sentì inutile, un essere infimo al confronto della sua forza. Si fermò dinanzi alla turchina per qualche secondo, spostando la sua attenzione sul viso di lei visibilmente impaurito, concentrata sulla terra da smuovere cercò di non ricambiare lo sguardo e di fare come se lui non ci fosse. Bastò un gesto; una presa rigida sul polso della ragazza per fermarla e trascinarla lontano da loro, nonostante lei si dimenasse come una bestia in catene, urlasse e si disperasse la sua sorte fu una delle peggiori per una donna.

Sfiorata, toccata e violata, il suo corpo divenne oggetto, girato e rigirato tra le dita del generale. Derisa, sfidata e umiliata, la sua persona non era più degna di essere chiamata in quel modo da lui.

Bulma subì la sola colpa di essere entrata nel mirino di Vegeta, di averlo affrontato senza neanche rendersene conto ed averlo reso agli occhi del suo amico ridicolo. Caricata sul furgone sotto gli occhi vigili di Kakaroth che provò ad opporsi in vano, portata poi nel suo ufficio. 

O almeno, questo erano quello a cui le donne del campo credettero, Kakaroth stesso lo pensò; inorridito rivolse un'occhiata alla cinese, si soffermò sulla sua espressione smarrita e dopo essersi avvicinato le sussurrò una frase in giapponese che Chichi non comprese a pieno.

'Watashi wa kare ga sukide wanai... Anata ga sore o rikai suru kote o nagatte.'

Si spostò portando una mano al fucile sulla spalla destra, urlò a gran voce di continuare a lavorare e tenendo il capo basso tornò al suo posto. 


La cosa rimase segreta, Vegeta pretendeva che avessero paura di lui e lo considerassero un seviziatore, ma a quei livelli no, non sarebbe mai arrivato fino a quel punto. 

Arrivati nell'ufficio continuò a tenerla per il lembo di pelle oramai livido, sembrava si fosse arresa al suo destino rimanendo in silenzio e muovendo appena la testa per girarsi intorno ed esaminare il luogo in cui si trovasse. 

La lasciò libera solo dopo aver chiuso la porta ed essersi accertato che nessuno li spiasse, le indicò la poltrona in pelle dietro la scrivania ed ella titubante fece come gli fu ordinato, sedendosi.

'So a cosa pensate e no, non lo farò. Il nostro primo incontro non è stato dei migliori e preferirei rimediare. La mia fama mi precede ed immagino che conosciate il mio nome, vero?'

Proferì facendo qualche passo verso la scrivania, a quell'azione ne subì una contraria, con la donna che si fece indietro.

'Vegeta.' 

Sussurrò impecettibilmente, un fil di voce accompagnato dal versare dello scotch nei due bicchieri in vetro, uno di questi venne spostato in direzione della ragazza, il quale scosse la testa rifiutando.

'Buon per me.' 

Rispose lui, il liquido venne versato nel suo bicchiere e poi bevuto avidamente, neanche una goccia osò scappare dalle labbra umide dell'uomo. Fatto ciò lasciò il bicchiere al suo posto, tra i documenti e le penne. Levò i guanti bianchi con molta attenzione e li portò nella tasca dei suoi pantaloni, sbottonò i primi tre bottoni della sua divisa decorata di medaglie ed onori e con un sospiro si lasciò cadere sulla sedia posta al lato destro della stanza. Il comportamenro singolare di lui la sconvolse, l'orologio appeso alla parete in legno segnava le sette ed il generale si era appena scolato due bicchieri di scotch come fossero acqua. 

'Ora che so che sapete parlare posso rimanere tranquillo. Bulma, giusto?' 

Si era lasciato cadere sulla vecchia sedia, cigolante e scomoda, le mani poggiate sui braccioli e le palpebre chiuse. La ragazza colse il momento per soffermarsi su i dettagli del generale; la sua pelle era ambrata e lucida, i raggi del sole non arrivavano in quel determinato punto donandogli un aspetto oscuro e più spaventoso di quanto il suo comportamento ed i suoi tratti già non dimostrassero. I capelli erano volti verso l'alto in una forma strana, tutto ciò nell’insieme si rivelava armonioso e ben equilibrato e per Bulma, lui, non ne era degno. 

'Sì…'

Un altro lungo sospiro e le iridi nere di Vegeta fissarono il soffitto in cerca di qualche frase per continuare il discorso, impacciato rispetto al suo solito. Avrebbe potuto fare di lei qualunque cosa gli passasse per la mente, ma il suo infinito ego gli aveva imposto di aspettare e lasciare che fosse lei a desiderare ed implorare di possederla. 

'Un nome particolare. Ditemi, vi sentite bene?'

La ragazza si sentì a disagio, si mosse sulla poltrona in cerca di una via di fuga, quella tranquillità le attanagliava la gola bloccandole il respiro in un'ansia cresente. Annui semplicemente, le unghie scavarono a fondo nella pelle scura della poltrona lasciando dei solchi evidenti.

'Mi fa piacere. Gradite qualcosa? Infondo dobbiamo pur passare il tempo, le vostre compagnie tarderanno fino alle due.' 

Si alzò con uno scatto improvviso facendola sobbalzare dalla paura e lasciando che lei facesse lo stesso, le porse una mano e con un affabile sorriso cercò di tirarla su di morale.

'Non sono un mostro come mi dipingono ma a volte, cara Bulma, per far sì che la gente ti rispetti è mille volte meglio far credere questo. Siamo in tempo di guerra, si vince così.'

L'americana accettò con timore, la grande mano del generale la accolse con delicatezza. La maschera di uomo meschino e bruto crollò come il bicchiere in vetro sul pavimento, minuscole schegge si sparsero ovunque scomparendo alla vista e riflettendo luce come diamanti. Cogliendo il momento di disattenzione si era sporto in avanti prendendo con la mano libera la vita della prigioniera ed avvicinandola, piccola e sottile, unì il suo volto a quello della turchina con un bacio focoso ed avventato, le guance pallide si tinsero di un rosso acceso e i grandi occhi azzurri fissarono quelli chiusi di Vegeta. Il gusto dolciastro dell'alcohl penetrò prepotentemente nella sua bocca invadendole i sensi e lasciandola interdetta qualche attimo, la sua lingua si muoveva con maestria provando in ogni modo possibile di farle ricambiare il bacio, quando ebbe davvero bisogno di riprendere fiato si staccò dalle carnose e sublimi labbra delle donna, riaprì gli occhi e con un'alzata di spalle fece una semplice constatazione.

'Ammattetelo i mostri non baciano così.' 


Alla sera, quando ormai Bulma era tornata ai suoi doveri e informata su ciò che avrebbe dovuto dire, Kakaroth tornò in ufficio. Sapeva lo avrebbe trovato lì, a bere ed a leggere il giornale sugli avvenimenti della giornata, una pratica che dalle nove in poi diveniva un obbligo. Con passi pesanti si diresse verso la porta, i capelli ribelli si muovevano con vita propria ad ogni falcata conferendogli un'aria buia che solo pochi avevano potuto ammirare su quel volto gioioso ed ingenuo assimilato al suo nome. Goku non era violento, non lo era mai stato e mai avrebbe pensato di poterlo diventate un domani, eppure, con quell'atto disumano che Vegeta aveva compiuto si sentì in dovere di fare qualcosa, reagire. Spintonò alcuni soldati piazzati sul suo cammino e bruscamente aprì la porta, entrando e poi richiudendola con un tonfo. Vegeta ebbe l’impressione che con quel gesto i cardini avessero tremato, così come il pavimento, sotto quella furia. 

'Qual buon vento. Giornata pesante?'

Sbottò piegando accuratamente il giornale e posandolo sulla scrivania, aspettò risposta ma dal ragazzo provenirono solo alcuni ringhi e mormorii che non riuscì a comprendere.

'Allora?'

'Allora?! Dopo quello che hai fatto fai finta di nulla!?'

Il più giovane alzò le mani sbraitando, cercando di dare enfasi al suo tono alterato e facendo sorgere un lieve sorriso sul volto del generale, curioso di vedere fino a che punto si sarebbe spinto.

'Sentiamo, cos'è che avrei fatto?'

Conveniva mentire, certamente con ironia. Si alzò con stanchezza e facendo il giro si appoggiò sul bordo del mobile aspettando una sua qualsiasi reazione che non tardò ad arrivare. Immaginava fosse di quel genere, le parole non erano il forte di Kakaroth, tutt'altro, preferiva esprimersi con le azioni. Il gancio destro che arrivò al suo zigomo fu potente, tanto forte da lasciargli una macchia rossa e spaccargli con un taglio la pelle. Non reagì, lasciando in quel modo che si sfogasse, con un movimento della mascella constatò il dolore fulmineo ed intenso che si espanse fino al labbro inferiore intorpitendolo appena.

'Dannazione, non mentire! Fai fottutamente schifo Vegeta, credevo fossi diverso... invece no.' 

Inumidì le labbra percependo il sapore ferruginoso del sangue, sicuramente colato dalla recente ferita. Dalla rabbia era subentrata la delusione ma non gli importò, se voleva salire di grado i suoi metodi sarebbero dovuti arrivare fino ai vertici del potere, neanche lui doveva essere a conoscenza della verità e ridacchiando leggermente fece un cenno di assenso con la testa.

'La verità fa male, dicono.'



 

'Io non sono come lui… spero tu lo capisca.'

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Capitolo 6
*** 19 Ottobre ***


' 19 Ottobre 1942.

Sono passati due mesi, monotoni e stancanti, la speranza inizia a vacillare. Non è successo molto e mi sorprendo io stessa di aver abbandonato questo diario per così tanto tempo ma nulla avevo da raccontare fino ad ora: Il generale è salito di grado due settimane fa e Goku adesso controlla una parte degli uomini del campo, Bulma continua a non parlarmi, sembra ancora sconvolta da ciò che le è accaduto mesi fa, io non le faccio domande e lei non vuole darmi risposte. È un azzardo scrivere ciò che ho scoperto qui, è un segreto ma ho bisogno di dirlo a qualcuno; ho una via di fuga, certamente non sicura e potrei rimetterci la pelle ma è mille volte meglio perdermi in quella maledetta foresta che rimanere qui a patire la fame e soffrire per il lavoro. Questa notte ne parlerò all'americana, se vorrà seguirmi bene in caso contrario andrò da sola. È ora che vada, i giapponesi hanno notizie da darci.'



Ancora una volta sotto la bandiera del sol levante, bianca e rossa sospinta dal vento caldo d'ottobre. Ricordava umido l’autunno lì a Hubei, nella provincia di Wuhan divisa in tre parti, i giapponesi il 20 di cinque anni prima a conquistarla. Con la loro politica dei tre assi avevano distrutto tutto ciò che le era caro, bruciando uccidendo e depredando qualsiasi cosa i loro occhi scovassero. Le bestie avevano proclamato orgogliosamente di poter prendere Shangai in tre giorni e la Cina in tre mesi, eppure guerre continuavano sul suo suolo natio, il popolo Yamato e il popolo cinese a lottare nel sangue per un pezzo di terra. L'avidità dell’uomo si estendeva fino ai limiti dell'egoismo, poco importava se qualcuno perdesse la vita, il più forte e chi possedeva più di tutti aveva il diritto di farlo. 

  - Il raid del dicembre 41' da parte degli americani ha avuto giustizia, gli otto dei dieci uomini sono stati condannati a morte. Ancora una volta il Giappone ha vinto, tenetelo bene a mente.'

Vegeta continuava a parlare lodando e giustificando le azioni nefaste dei suoi compatrioti ricevendo sguardi d'ammirazione dai suoi sottoposti. Aveva le mani dietro la schiena passeggiando avanti e indietro, ricordava perfettamente il suo discorso senza il bisogno di fogliettini come il vecchio Hatake che spesso portava con sé. La sua eloquenza era degna di un dittatore, ammaliava e lasciava senza fiato spronando a tifare per il proprio paese. Un mucchio di parole buttate al vento per le orecchie di Bulma, con gli occhi fissi e vuoti al pensiero dei suoi connazionali ora sul filo di un rasoio, magari della sua stessa città, chi poteva mai saperlo? Un cugino, un parente lontano, un compagno di scuola. L'America arruolava chiunque fosse maggiorenne e lei nel 40' non credeva che tutto ciò potesse mai avvenire. Aveva lasciato Chicago alla fine del 41' per passare alcuni mesi a Singapore, ammaliata dalla dinamicità di quel luogo era lì per delle ricerche affidatale dal padre. Una sera come tante in cui era andata a ballare con altre donne, tra di queste l’austriaca con la quale aveva da poco instaurato una conoscenza più approfondità. Andava tutto troppo bene perché qualcosa di brutto non accadesse: i giapponesi avevano appena sganciato una bomba sulla città, gli attimi di panico e le urla le avevano spinte a cercare la sopravvivenza in un battello diretto chissà dove. Quella che pensavano fosse la loro ancora di salvezza le aveva poi portate a finire tra le mani dei nemici, i quali le trascinarono nel campo femminile di concentramento di Sumatra. Indosso portava ancora l'abito di quella sera, delicato con i ricami di fiori e foglie su un tessuto rosa antico e le scarpe del medesimo colore con un tacco basso ed un laccetto alla caviglia. Le belle scarpe ora erano macchiate, rovinate e ad entrambe mancavano i tacchetti, la veste sgualcita e con una spallina rotta a penzolarle sul braccio destro. 

 - Potrà anche essere aiutata dall'Unione Sovietica, gli Stati Uniti o il Regno Unito che sia, gli sporchi comunisti devono solo buttarsi ai nostri piedi e subire tutto ciò di cui sono degni! 

Dicendo questo le sue iridi d'ossidiana si rivolsero a Chichi. Si avvicinò continuando a proclamare il suo disprezzo e alzando la mano destra la spinse giù ai suoi piedi, le ginocchia sulla terra, tenendole con la mano il capo verso il basso. Ella ribolliva dalla rabbia e dalla voglia di ribellarsi ma intuiva che questo non avrebbe portato a nulla se non a una morte più veloce. Kakaroth dovette tenersi fermo, mordendo con forza l'interno della guancia e corrugando le sopracciglia dal nervoso. 

  - Una maledetta cinese nel campo, una fortuna, non trovate?

Disse parlando ai suoi sottoposti i quali annuirono e sorrisero. Prese in pugno i capelli neri di cui la giovane era sempre andata fiera, li tirò facendole scappare un gemito di sofferenza e poi cacciando dalla tasca dei suoi pantaloni un coltellino prese a tagliarne le ciocche lasciandole cadere tra la polvere. Della sua capigliatura folta e lucida non ne rimase che un mucchio dalla forma storta, più lunga da un lato e corta dall'altro. 

 - Non sarai mai come le donne giapponesi, solo loro li possono portare lunghi, che ti serva da lezione.

Tra una risata e l'altra quando si fu allontanato Chichi cercò di riprendere le file corvine, inginocchiata, troppo lenta e non attenta da ignorare che la suola dello stivale del generale si fosse posato sul dorso della sua mano sinistra. Iniziò a premere facendole contorcere le dita nel tentativo di liberarsi dalla morsa dolorosa del suo peso.

'Basta, vi odio! Lasciatemi la mano, dannazione!' 

Urlò lei provocando nel generale la voglia di continuare con quella 'tortura'. L'aveva privata dell'essere donna tagliandole i capelli, umiliata facendola inginocchiare, sottomessa al suo volere ed obbligata a star ferma. 

'Ancora una parola, una soltanto e ti farò rimpiangere d'essere nata.'

Le sussurrò continuando a premere. Sentì dei passi avvicinarsi e riconobbe la falcata di Kakaroth, solo lui possedeva la particolarità di far così baccano.

'Lasciala.' 

'Torna al tuo posto Son.'

Bulma rimase ad osservare, non sapendo come comportarsi in una situazione così delicata. Kakaroth era nervoso, si tratteneva dal fare del male a Vegeta e il suo sguardo truce non ammetteva altro disonore per la ragazza di cui era infatuato. Le sue gemme brillavano di una strana e bieca luce, ribollente d'uno spirito turpe che Chichi, portando l'attenzione sul suo viso spigoloso, mai aveva notato. 

'Ho detto di lasciarla, Vegeta.' 

Tra il silenzio solo la risata sadica del generale fece eco, tolse la suola dalla mano della cinese passandola poi sul terreno, come per pulirla. Nel frattempo ella si tirò indietro portando la mano rossa e segnata sul petto trattanendo le lacrime. Egli alzò le braccia continuando il suo discorso.

'La tua devozione è insufficiente, i loro ideali di ugualianza ti hanno contagiato?' 

Si girò intorno con un sorriso beffardo, neanche l'amicizia contava più quando in gioco c'erano cariche più alte. L'esercito imperiale non ammetteva concessioni, le loro disfatte simili a quelle naziste con diversi ranghi, torture ed esperimenti. Vegeta e gli altri a malapena conoscevano i veri orrori della guerra, rinchiusi in un buco ed atteggiandosi da Re.

'Dovresti essere punito. Hai disonorato la figura dell'imperatore concendendo la grazia alla comunista, dunque ciò che non ha subito lei lo subirai tu.' 

Disse, inumidì le labbra sistemando i guanti bianchi e tirandoli appena fece cenno col capo di prendere il suo amico e portarlo via. Una parte della sua mente gli diceva di fermare quella farsa, di smettere, che non sarebbe servito e che in quel modo avrebbe perso l'unica persona che gli era sempre stata accanto, l'altra maldicevole di continuare, che ormai non erano amici, nulla se non un generale ed un soldato. 

'Non mi faresti mai questo!' 

'Sbagli, amico.'



*popolo Yamato: Giapponesi.

*politica dei tre assi: Sanko Sankusen, responsabile della morte di più di 2,7 milioni di civili cinesi, "uccidere tutti, bruciare tutto, e distruggere tutto"- Hirohito.

*Comunisti: all'epoca la Cina non era ancora comunista ma per affrontare l'attacco giapponese le due coalizioni (nazionalista - comunista) si unirono momentaneamente. 

* Wuhan: 20 Ottobre 1938 presa della città divenuta nel frattempo capitale militare, politica e economica della Cina centrale. Divisa in tre parti da Wu- Han ( Wuchang - Hankou - Hanyang) 

Sono più lunghe le note che il capitolo stesso, argh.






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Capitolo 7
*** 20 Ottobre ***


20 Ottobre 1942

Pioveva, gocce fredde e lucide a piombare giù come proiettili dalle nuvole cariche e nere, i lampi come scatti argentei a decorare col vento impetuoso e caldo il cielo di quella giornata. Un uomo legato ad un palo in legno, i polsi stretti in corde fracide e dure, la pelle arrossata delle caviglie anch'esse legate. Il capo era chino e la folta chioma d'ebano copriva il viso stanco. Gli occhi socchiusi in due fessure fissavano immobili la terra divenuta fango, ignoravano il petto nudo disseminato da ferite grondanti sangue, ardevano quelle ogni qualvolta le lacrime del dio finivano tra i solchi dei tagli. Scivolava mischiandosi con acqua l'inchiostro della vita, scappava dallo zigomo violaceo scavalcando la mandibola e percorrendo la sua strada fino a perdersi sul suo corpo massiccio e poi, con un tonfo sul suolo. Ma bruciava più del dolore l'umiliazione, tradito da colui che considerava amico, e lo vedeva ora in maniera diversa, come se quello che per anni aveva conosciuto fosse solo l'ombra corrotta della persona che celava. Vegeta era maligno e solo adesso se ne rendeva conto. Quando aveva imposto ai suoi sottoposti di trattarlo in quel modo, legato e picchiato e la scusa, inesistente e mera bugia: ' Ha disonorato la nostra patria e il nostro imperatore, lo merita.' Si era ritrovato solo al mondo, fermo sotto le intemperie, ignaro che qualcuno stesse osservando. Dietro frasche e rami umidi la cinese lo guardava disperata, non era pietà ciò che provava ma anch'ella rabbia e frustrazione che come un fiume in piena si tramutava in odio, nelle sue diverse sfumature violente e screpitanti dai colori oscuri e opachi simili a quelle delle sue ciocche corvine, tagliate nelle forme più disparate incorniciavano il viso lucente. Intorno nessuno, a ripararsi tutti dalla furia del tempo e loro due fuori da ogni dimensione. Quel giorno stesso avrebbe voluto fuggire, ma decise che avrebbe portato con sé anche Goku, non importava come. Una mano sicura si posò sulla sua spalla scuotendola appena, si girò convinta di trovare un volto familiare, una delle donne o addirittura Bulma, sfortuna volle che gli occhi d'ebano che si incatenarono nei suoi furono quelli dell'uomo a cui tutti i mali erano stati riservati in quelle ore. 

'Ti senti in colpa comunista?' 

Egli teneva un ombrello blu nella mano sinistra, alti anfibi a fasciargli i piedi fino al ginocchio e la solita divisa, i guanti non erano candidi come ricordava ma in pelle dura e nera. Percepiva il fiato solleticarle le guance, un odore aspro simile a tabacco. Il labbro inferiore le tremò esangue, la paura la invase facendole fare diversi passi indietro e piombare nel fango. Ancora si tirò, trascinandosi nell'ignoto e continuando a tenere un contatto visivo, lui si avvicinava passo dopo passo, portò la mano libera nella tasca della sua divisa cacciando la rivoltella e puntandogliela. Chichi girò il viso di lato, strinse con forza le palprebe e urlò un 'No!' gremito di sofferenza.

'Bang!'

Niente altro. Nessuno sparo o schizzi di sangue, aveva semplicimente imitato il suono dell’aggeggio infernale per poi ridacchiare soddisfatto e riporlo nuovamente in tasca. Quando riaprì gli occhi non c'era più nessuno, solo l'incessante pioggia e lo sguardo pungente di Goku fisso su di lei. Si alzò e correndo, per quel che poteva, ritornò nella baracca. Il respiro affannoso e l'incarnato pallido fecero risvegliare tutte dallo stato di quiete in cui erano cadute, l’austriaca si avvicinò per accertarsi se stesse bene e lei la cacciò scuotendo il capo ed andando verso il suo giaciglio, al fianco di Bulma che ignara fumava l'ennesima sigaretta.

'Dobbiamo andare via da qui.'

Pronunciò poggiando la schiena bagnata contro la superficie alle sue spalle, l'altra annuì semplicemente e buttò con superficialità il fumo dalla bocca.

01:43 

Aveva finito di piovere da un pezzo ed i rumori della foresta risaltavano ora più che mai, quella che era l'unica strada per la salvezza terrorizzava nel buio della notte. Dormivano le loro compagne mentre le due, senza far baccano, sgusciavano fuori tenendo tra le mani delle coperte sgualcite. Si diressero verso quel Gesù in croce, tradito da Giuda, che apparentemente sembrava morto. I cuori palpitavano ruggenti, sembravano i tamburi negli spettacoli a teatro, li stessi che l'americava aveva visto volentieri nella sua città natale. Chichi si sentiva come quando all'insaputa del padre fuggiva verso il fiume a Wohan, da sola nei pomeriggi assolati per bearsi delle acque limpide e fresche saltando le ore di Storia con la maestra. Una cosa che non dovevano fare e per cui sarebbero state punite. Scattanti, slegarano polsi e caviglie sorreggendolo con attenzione. La cinese lo accolse tra le braccia lasciando che si appoggiasse interamente, lo sentì sospirare e mormorare qualcosa, le braccia a penzoloni. 

'Shh, ti portiamo via…' 

Gli sussurrò facendosi poi aiutare dall'amica, dimezzarono il peso tenendolo per le spalle e lasciando che i piedi si trascinassero sul terreno creando solchi. Non bastarono che tre metri perché le forze iniziassero a mancare, Goku pesava e non accennava a riprendere lucidità borbottando frasi distaccate in un dialetto incomprensibile. Nell'oscurità iniziarono a velocizzare il passo, ci sarebbero state guardie poste ovunque e non avevano un piano vero e proprio se non quello di prendere il giapponese, di cui l'americava non sapeva neanche il motivo, e scappare via. Ingenue, sciocche, non avevano considerato tutte le ostilità. Uomini circondavano il perimetro brandendo fucili e con l'ordine di sparare ad ogni movimento, i fari puntati verso la baracca e l'ufficio del generale. Quando dopo dieci metri Goku crollò sulle ginocchia con un lamento le ragazze capirono che non avrebbero potuto farcela, non in quelle condizioni, bisognava mettere il giapponese al sicuro, in un posto in cui nessuno avrebbe potuto cercare, il problema era che esso non esisteva e loro erano in trappola.

È una follia, torniamo dentro, ti scongiuro.'

Piagnucolò la turchina girandosi intorno e sul punto di una crisi, non aveva idea di come sentirsi, frastornata e colta impreparata da quello che accadeva e che le si gettava addosso senza avvertimenti. Chichi cercava di rialzare l’uomo, gli accarezzava il viso con dolcezza e si tratteneva dal non alzare la voce, gli parlava nell'orecchio cercando di dargli forza. Lo ringraziava e poi, sfiorando con la punta del naso le sue labbra, gli canticchiava pezzi di una vecchia canzone della sua terra. 

'hǎo yī duǒ, mĕi lì de mò li huā, fēn fāng měi lì mǎn zhī yòu xiāng…'

Inginocchiata al suo fianco, lui non accennava a riprendersi, cadaverico e malconcio lasciava cadere la testa sulle spalle della ragazza cercando un rifugio, incosciente con occhi spenti. La sua fronte era bollente, segno che si fosse ammalato. Il tono titubante con le labbra tremanti della donna e le dita frenetiche a muoversi tra i capelli del soldato. 

'Yòu bái rén kuā wô làoi jiāng nî zhāi xià... Sta' zitta, maledizione! Sòng g- Vuoi essere stuprata ancora?!.'

Non si trattenne ed urlò, le luci dei fari rifletterono sui loro corpi, vennero scoperte. La tensione bloccava i loro muscoli tenendole con i piedi piantati come radici, immobili ed in balia degli eventi, come una nave in un mare in burrasca trascinato dalle onde.

'Vegeta non mi ha stuprata! Stupida! Sei solo una stupida bambina che crede che tutto sia un gioco, non lo è ed io come una deficiente ti ho seguita!' 

In lacrime aveva lasciato cadere le coperte portandosi le mani tra i crini e tirandoli appena, si era poi messa a singhiozzare vedendo arrivare le guardie che nel frattempo avevano iniziato a gridare ordini che per lei non avevano alcun senso.

'Una stupida sì… non mi hai detto nulla tu! Guarda… guarda che diavolo hai combinato con le tue bugie.' 

Aveva tirato su col naso continuando a stringere quel corpo martoriato, iniziava a non temere per se stessa ma per la sorte che sarebbe toccata agli altri due. Si sentiva sporca dentro, un’ingrata per aver portato innocenti sull'orlo del baratro. Era colpa sua se Goku aveva subito quel trattamento e nuovamente colpa sua se Bulma si era ritrovata in quel guaio. 

‘È finita…' 

La sentì biascicare. Venne spintonata, il fucile puntato alle spalle per intimarla a camminare verso l’ufficio.

__________________________

Respirava piano per non far rumore, non le era stato fatto nulla e di questo doveva ringraziare il generale. 

Non aveva idea il giapponese e Chichi che fine avessero fatto, ricordava fossero dietro di lei ma dopo essere entrata nella stanza di Vegeta non aveva sentito più nulla se non i rimproveri dell'uomo, le aveva urlato più e più volte di non riprovarci, che altri non sarebbero mai stati caritatevoli come lui e che adesso gli doveva qualcosa. Era stata in silenzio per ore e il suo unico svago erano i ticchettii dell'orologio a segnare le tre e un quarto. Lui era rimasto seduto sulla sua poltrona in pelle ad osservarla, prima a farle domande con tono arrogante e poi, come nulla fosse, a chiederle se volesse bere; aveva risposto di no ed alla fine neanche il più impercettibile dei rumori sopraggiunse. Quando anche il sonno del generale divenne profondo e gli zigomi bagnati si asciugarono, seduta sulla sedia in legno si lasciò cullare dalle tiepide braccia di Morfeo e ricordi sbiaditi. 

Dall’altra parte dell'edificio i due erano rimasti uniti, chiusi in una delle celle adibite ai prigionieri meno obbedienti. La giovane era seduta sul pavimento freddo, stringeva ancora il ragazzo tra le braccia cercando di infondergli calore e curare le ferite sul costato, a nulla era servito recuperare la coperta gettata da Bulma. Ad ogni modo i suoi pensieri erano unicamente rivolti a Goku; madido di sudore era costantemente in un sonno agitato che lo portava a parlare e a muoversi, lo sentiva rabbrivire, stringersi contro il suo ventre e poi, guardandolo in viso, premere con forza le labbra come se dentro la sua imprescrutabile mente stesse combattendo contro il più temibile dei demoni. Ora intuiva la domanda del generale e quello che aveva visto non era solo un illusione.

'Sòng gěi bié rén jiā, mò li huā ya mò li huā…'


*la canzone è Mò li huā: 

Un bel fiore di Gelsomino

Odoroso, bello, pieno di petali

Fragrante e bianco, compiace chiunque

Lascia che io ti colga

Ti dia a qualcuno

Fiore di Gelsomino.



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Capitolo 8
*** 21 Ottobre ***


21 Ottobre 1942 

'Amerika no kuso! Watashitachi wa kare no o shiri o soru o shite  imasu yo ne?

'Amarini mo jibun o azamuite wa ikenai Shika...Kawaguchi sore wa sire hodo subarashī kotode wa arimasen.'

Provò ad ignorare quelle voci assordanti arricciando appena il naso e girando il capo di lato. La sedia su cui era addormentata risultava scomoda, presto un dolore lancinante le colpì la nuca attraversando la spina dorsale e proseguendo fino ai piedi gelati. Dopo un minuto di totale quiete i rumori ripresero, oltre ai soldati ecco le interferenze della radio. Il suono mettalico la destò all’istante facendola sedere con un sobbalzo, gli occhi si aprirono con uno scatto mettendo lentamente a fuoco ciò che la circordava; due uomini in divisa portavano un fucile poggiato sulla spalla destra, in ferro forse e continuavano a blaterare nella loro lingua sotto lo sguardo infastidito del generale, il quale muoveva come una furia la manovella per far funzionare l’oggetto risintonizzandolo su segnali diversi in cerca di notizie dell'armata nipponica.

'Guadarukanaru, matanikau no Amerika-gun kōgeki ni kansura atarashī jōhō ga arimasu. Sensha 9-seki to arashi hōhei ga arimasu.'

Sembrava non si fossero accorti del fatto che fosse sveglia, tutt'altro, erano rimasti in allerta captando tutto ciò che ritenevano interessante. Quando le iridi di Vegeta incontrarono le sue egli si risistemò sulla sua poltrona e con un gesto della mano destra indicò loro di uscire dalla stanza, un breve inchino e i due ancora chiaccherando animatamente uscirono senza degnarla di uno sguardo. 

'Era ora vi svegliaste, sono le dieci del mattino, è tardi.'

Sentenziò alzando di poco il tono coprendo quella delle notizie estere ancora in corso. Bulma non lo ascoltò, presa da altro si concentrò sul giapponese di cui aveva iniziato a percepire qualche parola e tradurla, risultava difficile ma abituata a stare tra quella gente lo considerava quasi normale. Non ricevendo risposta il generale sospirò, spense la radio e si distese meglio sulla poltrona picchiettando le dita sulla scrivania in legno. 

'Non ho intenzione di riaprire il discorso di ieri ma sappi che i tuoi amici non rimarranno illesi. Rispondimi, dunque, perché avete liberato Kakaroth?'

C’era una punta di curiosità in quella domanda a cui sinceramente non aveva risposta. Avrebbe voluto chiederlo a Chichi ma era così semplice la soluzione a quel dilemma che le parve quasi stupida e senza senso. Amore. A meno che la cinese non avesse avuto la geniale idea di usarlo come ostaggio per essere liberate.

'Non lo so…'

Ammise. Vegeta fece una smorfia, non sembrava stesse mentendo ma non riusciva a trovare un senso a tutto ciò. Parlarne con Kakaroth era fuori questione, aveva deciso di tranciare ogni tipo di legame con il ragazzo e nella sua mente contorta questo era un bene. 

'Mi avete dato troppi problemi, tu e quella comunista, vi farò trasferire.' 

Bulma aveva scosso il capo e per la sorpresa si era alzata in piedi. Era serio o scherzava? 

'Dove?Quando?' 

Non riuscì a trattenersi dal domandarlo e lui inumidì il labbro inferiore pronunciando una singola frase.

'Al servizio degli ufficiali in città.' 

Come un lampo Bulma collegò i ricordi al Club delle lenzuola, rabbrividì al pensiero di dover perdere il suo onore e con determinazione si avvicinò alla figura dell'uomo poggiando le mani sulla scrivania. Ciò che volle dire uscì violento come una scheggia eppure non lo aveva fatto intenzionalmente, forse la paura, la rabbia e una serie di emozioni l'aveva spinta a reagire in quel modo, con il tono di voce simile a una minaccia e le parole scandite velocemente.

'Non mi abbasserò a tanto, né io né Chichi ci andremo perciò eviti di perder tempo generale.' 

In tutta risposta lui aveva morso il labbro inferiore quasi come se quella reazione gli fosse piaciuta, la determinazione della ragazza lo eccitava oltre i limiti concessi dalla sua mente, il quale rigida gli imponeva di tenere un certo contegno. Si aspettava, data la testardaggine mostrata dall'americana, che avrebbe risposto di no, impuntandosi e facendo valere la sua posizione di donna. Si alzò a sua volta sovrastandola con la sua stazza, facendo quasi ombra nonostante non fosse tutta quest'altezza. Ella non si mosse. La radio continuava con le sue frequenze sconnesse che tra parole e scatti divennero solo il sottofondo di un qualcosa di diverso, impetuoso e che colse entrambi in un turbinio dai colori contrastanti: l'azzurro limpido e setoso si scontrò contro il selvaggio nero del generale e l'ambrato della sua pelle accolse con dolcezza la carnagione più pallida dell’altra. Non erano labbra quelle che si sovrapposero e non erano mani quelle che vagarono sulle forme e le linee curve o possenti, non erano cuori palpitanti e palpebre chiuse. Non era niente di tutto ciò se non azioni che sfuggivano al controllo rifugiandosi nella pazzia e nella completa incertezza, inconsapevoli dello sbaglio e di quello che giusto non era. Sì, si lasciarono sopraffare senza un vero e proprio motivo. Sulla scrivania poi che divenne palcoscenico per due attori nell'atto carnale impuro e senza scrupoli, ella si era lasciata spogliare dei suoi petali rivelandosi in tutta la sua bellezza ed egli, come bestia dominata dagli istinti aveva cambiato corpo e mente mutando nel tocco delicato dei suoi polpastrelli sui seni e dei baci rubati, a fior di labbra, nell'interno umido delle cosce nude. Nuovamente poi si era trasformato, in continua evoluzione con il sapore ferruginoso del sangue di lei, con le spinte irruente ed i graffi profondi sulla schiena colma di cicatrici. I respiri sommessi e silenziosi divennero gemiti, urli soffocati e calde lacrime. Alla fine si erano lasciati cadere nella fiamma rovente della passione ed il sipario si era chiuso, le tende vermiglie coprivano le scene e così Vegeta pose fine a quell'anfratto di mondo parallelo; 

'È anche questo perder tempo?'

Non ricevette risposta o nessun altro suono, reduce un semplice sguardo e nulla più.

_____________________________

Aveva aperto gli occhi dopo tanto, stanchi e spenti stentava a riconoscerli. Aveva concentrato tutti i suoi pensieri su Goku tanto da scordare i sentimenti contrastanti sulla bugia di Bulma, non riusciva a capirne il perché, era ovvio che non le avesse fatto domande durante quei mesi ma rassicurarla e dirle che nulla le era successo l'avrebbe fatta stare meglio, invece rimanendo in silenzio aveva peggiorato l’odio profondo che provava per quell’uomo. Nonostante si sentisse confusa non doveva perdersi d'animo, doveva occuparsi del soldato e uscire dalla cella. Il ragazzo era seduto al suo fianco, ancora febbricitante aveva fortunatamente smesso di tremare e sanguinare, le medicazioni non erano state delle migliori ma erano comunque servite in parte a farlo rinsavire. 

'Qual'era la canzone che - a fatica fece un respiro più lungo - cantavi ieri?'

Scossa dalla voce roca del giapponese erano tornata con i piedi per terra, interrompendo il flusso dei suoi pensieri si era girata a guardarlo incrociando le mani sul ventre e rivolgendogli un tenero sorriso. 

'Non penso che tu la conosca… me la cantava spesso mio padre per farmi addormentare.' 

Al ricordo felice di quelle notti senza i rumori della guerra e le urla di morte aveva abbassato lo sguardo, la malinconia aveva preso il sopravvento e la paura si era insinuata sotto pelle stringendole la carne e azzannandole il cuore. Chissà se suo padre, il gigante buono e gentile, fosse ancora vivo e se magari anche lui la stesse pensando, cullandosi di quella speranza aveva alzato le iridi volendo incontrare il cielo trovando però sulla sua testa un soffitto in cemento. 

'Me la canteresti di nuovo?'

Aspettava da lui qualsiasi domanda sul perché fosse in una cella assieme a lei, eppure candidamente ciò che le aveva chiesto era di cantarle una canzone. Allungò una mano prendendo la sua e dopo aver poggiato il capo contro la parete aveva ricominciato il suo canto, sembrava che a lui piacesse, in silenzio la osservava e con il pollice le accarezza il dorso macchiandolo appena di terra. Aveva continuato finché la bocca non le divenne secca e la voce impastata non le permise di andare avanti, un nodo allo stomaco li teneva incatenati al suolo senza la possibilità di potersi alzare ed il giovane si era chiuso in un guscio di indifferenza dopo aver visto passare il generale. Chichi non poteva sapere quanto male potesse sentirsi Goku, forse lo intuiva ma non ne aveva piena conoscenza. Il rapporto tra lui e Vegeta non era mai stato normale fin dall'inizio, si trattava di una sfida senza fine che non vedeva mai nessuno dei due come vincitore, persino durante gli allenamenti nell’esercito cercavano di battersi l'un l’altro e pian piano tra un tozzo di pane e una scazzottata avevano imparato a conoscersi meglio, confrontarsi ma non più sfidarsi, non più nemici ma amici. Goku si era visto crollare tutto giù come un mazzo di carte, le basi erano venute a mancare con le divergenze che avevano su quelli che definivano 'valori' e la diatriba era continuata nel peggiore dei modi, era stato umiliato, picchiato ed ora messo in cella. Si chiedeva davvero se ci fosse qualcosa sotto, se quel comportamento meschino fosse solo una maschera a coprire la sua fragile umanità perché quel campagnolo giapponese nonostante fosse ingenuo e relativamente troppo pacifico conservava la verità in un pugno e non aveva intenzione di lasciarla.

'Bosu ni denwa suru.'

La guardia che sostava nel corridoio lo guardò di sbieco, sul punto di ribattere incontrò gli occhi cupi del ragazzo ed annuendo eseguì l’ordine. Nuovamente la cinese potè notare la stessa espressione avuta il venti ed un groppo alla gola si fece spazio costringendola a dover stringere la presa sulla grande mano del soldato. Non aveva idea di cosa avesse in mente ma di lui si fidava e infondere coraggio a quell'animo malridotto perché troppo buono era l'unica cosa che potesse fare.



*

'Americani del cazzo! Faremo loro il culo, giusto?'

'Non illuderti troppo Shika…Kawaguchi non è un granchè.'

*'Guadalcanal, si hanno nuove informazioni sull'attacco alla linea americana del fiume Matanikau, sono presenti 9 carri armati e nuova artiglieria.' 

*'Chiamatemi il generale''

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Capitolo 9
*** 22 Ottobre ***


22 ottobre 1942


La guardia eseguì l’ordine, teneva il giovane dalle braccia conducendolo a passi cadenzati verso l’ufficio del generale.

Chichi guardava dalle sbarre i due camminare, in pena nell’osservare come i piedi del soldato si trascinassero stancamente sul pavimento.

Un nodo alla gola la soffocava, non sapeva cosa fosse successo a Bulma nel corso di quella notte e cosa, di lì a poco, sarebbe accaduto.

Sperava soltato che il generale tenesse conto delle condizioni del suo sottoposto, che un barlume di razionalità mista a bontà lo persuadesse dal lasciarlo stare, non era sua la colpa, era loro, era della cinese, della sporca comunista, la quale unico peccato era quello di voler sopravvivere, di voler tornare in patria, di poter vivere.

Li vide svanire oltre la porta, poi la stanchezza si impossessò di lei facendola crollare in un angolo della cella.



Vegeta aveva fatto rivestire l’americana, mentre sistemava la sua cintura e abbottonava i bottoni dorati della sua divisa la porta venne aperta.

Un espressione infastidita abbellì il suo volto ancora madido di sudore.

Alzò lo sguardo ritrovando una delle guardie che teneva a fatica Kakaroth.

Lo gettò a terra e in un gemito sofferente il giovane alzò gli occhi incontrando quelli stupiti del generale.

Con un gesto della mano intimò alla guardia di andare e così egli fece richiudendo la porta. 

Ghignò divertito da quella piacevole visita, le sue dita libere giocarono con i guanti che infilò avanzando verso il corpo martoriato del suo amico.

- Che bella sorpresa. –

Goku scostò il suo sguardo portando la sua attenzione sulla prigioniera, nella sua mente annebbiata il ricordo di ciò che Vegeta ebbe fatto tornò vivido come un lampo, ella si sistemava l’abito; una serie di lividi adornavano la sua pelle assieme a rossastre macchie recenti.

Non gli ci volle molto per intuire cosa fosse successo poco prima.


- Kuso yarō, anata wa butadesu... -


Urlò a pieni polmoni in un giapponese stretto, il tono cadenzato dall’accento dialettale.

Vide il ragazzo alzarsi a fatica ed a Vegeta bastò una lieve spinta perché lui cadesse nuovamente sulle ginocchia con un tonfo.

Bulma rimase in disparte, tremante come una foglia, ancora scossa dall’amplesso avuto precedentemente.

Le coscie umide, del liquido ancora colava fino alle caviglie macchiandole le scarpe.

Avrebbe dovuto sentirsi violata, abusata dalla forza e dalla potenza del vile che aveva dinanzi agli occhi e le fu strano sentire dentro di sé come quel sentimento in realtà fosse coperto e soffocato dall’attrazione che provava nei suoi confronti.

Avrebbe dovuto odiarlo, schifarlo e, forse, lo faceva anche, ma il tutto era annebbiato dalla bellezza di quel corpo.

Dai segni che gli aveva lasciato sulla pelle con le unghie sporche, sulle labbra morse e si sentì una stupida.

Mentre la sua compagna era chiusa in una cella lei si era concessa al nemico, si era lasciata possedere dal diavolo e le era persino piaciuto e lo avrebbe rifatto di nuovo e ancora, senza fermarsi.


Vegeta sorrise divertito, non aveva mai visto Kakaroth in quelle misere condizioni, così debole e fragile. 

Sarebbe stato un esempio, gli sarebbe piaciuto vederlo nuovamente alla mercè del tempo, bloccato in un punto strategico, essere ammirato dai suoi colleghi, essere da ammonimento per le prigionere, per chiunque osasse mettersi tra i piedi interrompendo il suo sadico gioco di potere. 

Se fosse svanita l’amicizia che provava nei suoi confronti? 

Non era mai esistita, era solo invidia, non era altro che gelosia, voglia di vincere, di avere tutto quello che aveva lui. 

Solo questo e nulla più. 

Cacciò la pistola. 

Le iridi cristalline di Bulma brillarono dallo sconcerto, tutto ma non quello. 

Non era pronta per vedere la morte in quel modo, non inferta da qualcuno di così intimo verso un altro essere vivente. 

Non in quella maniera tanto rude. 

Non lì, non con lei. 

Si fece indietro finendo su una delle sedie, strizzò con forza gli occhi non volendo assistere. 


La canna della pistola premette sul collo di Kakaroth, il più giovane degludì. 

Vegeta non l’avrebbe mai fatto, nonostante tutto confidava in lui, esisteva ancora un briciolo di umanità in quelle viscere temprate d’odio. 


- Ripetilo Kakaroth e questo proiettile ti uscirà dalla bocca. – 


Divertito, quel ghigno sulle labbra era un sorriso storto, inquietante, ma che Golu aveva già visto numerose volte.

Le sopracciglia corrughate e quegli occhi stretti e alberganti d’orgoglio. 

- Anata wa butadesu. -

Sussurrò Kakaroth, lo sguardo fisso nei suoi pozzi d’ossidiana, il tono duro e di sfida che anche in quella situazione nei suoi confronti non mancava


Vegeta non gliel’avrebbe data vinta, troppo facile, troppo patetica come scena e a lui piacevano i gran finali. 

Tolse la pistola afferrandolo dalle braccia ed aprendo la porta scaraventandolo nuovamente contro il pavimento pulito. 


- Guardie, prendete questo traditore e la comunista. – 


Bulma si riprese, riaprì le palpebre facendosi pervadere dalla luce che per attimi la accecò stordendola.

Si rimise in piedi avvicinandosi alla porta, alle spalle del generale ed urlando un sonoro ‘No, Lei no!'

La bocca le venne tappata e Vegeta ordinò alle guardie di far vedere alle prigioniere quali possono essere le conseguenze nel cercare di scappare da Sumatra. 


25 ottobre 1942


Il sole picchiava forte, le giornate a Sumatra si alternavano tra tempeste e afa infernale.

Chichi sembrava aver perso la concezione dello spazio e del tempo. 

Rimaneva china con lo sguardo sul terreno sottostante. 

Legata a mani e piedi a quel palo con la costante paura di cadere e di finire con il viso sfracellato sulle pietre. 

Vegeta li aveva mostrati alle prigionere come fossero dei fenomeni da baraccone, il sorriso largo, le aveva tirato i capelli e poi al suo compagno aveva sollevato il viso tenendolo con forza dalla gola. 

Quando una delle guardie aveva osato ribattere sostenendo che non era quello il comportamento consono ad un generale uno sparo aveva rimbombato su quell'isola, il corpo era caduto all'indietro senza vita, le donne avevano urlato e Chichi aveva seguito con lo sguardo i colleghi trascinare il cadavere nelle fosse. 


Passati i due giorni spesso i soldati le passavano accanto, la osservavano e poi allungavano le mani tastando i suoi seni, sfiorandole le cosce e strappandole brandelli del vestito lasciando che la sue pelle venisse oltraggiata dal caldo, bruciata.

Le labbra screpolate, senza saliva, non riusciva a dir di no. 

A malapena si muoveva sotto le loro parole, sotto i tocchi. 

Si lasciava andare e nemmeno le lacrime sembravano volerla aiutare, per dissetarla appena.

Al suo fianco Goku le teneva compagnia, per le prime ore aveva parlato, si era dimenato nonostante la stanchezza e Chichi lo aveva osservato in silenzio, non si era lasciata abbattere sputando a chiunque le si avvicinasse, come una iena ringhiava, malediva in cinese strizzando la punta del naso e urlando, ed ora quasi si pentiva di aver consumato senza nessun risultato la saliva e la voce. 


- Sei viva? - 


Sentì impercettibilmente, sembrava un eco lontano ma era più vicino di quel che pensava. 

Volse lo sguardo, la luce intensa la accecò e schiuse appena la bocca in un gemito che non volle uscire. 

Annuì soltanto, il collo scoperto dai capelli era scottato, così come le spalle. 

Muoversi le faceva male. 


- L'importante è questo. - 

Sentì dire nuovamente. 

Sospirò con lentezza sollevando appena il viso, la frangia le annebbiò lo sguardo ma potè notare dalla finestra dell'ufficio del generale qualcuno osservarla, un gesto con le mani come a rassicurarla. 

Allora, qualche speranza esisteva ancora. 

Pensò. 




** - Maledetto bastardo, sei un porco… -

** - Sei un porco. - 

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Capitolo 10
*** 24 Ottobre ***


24 Ottobre 1942


Il generale non faceva altro che rimanere al telefono, il suo tono era calmo e freddo, sembrava stesse ubbidendo a degli ordini.

Il suo sguardo di ghiaccio rimaneva puntato sulla scrivania, gli anfibi picchiettavano sul pavimento sporco di terra e nella mano sinistra teneva un nuovo bicchiere di vetro, lo muoveva piano lasciando che il contenuto andasse avanti e indietro, onde ambrate dal forte odore dolciastro e pungente.

Bulma lo osservava, poi spostava il suo sguardo verso il campo dove la sua campagna ed il soldato erano legati su pali di legno.

Mosse le mani in un segno di incoraggiamento incrociando le dita per rincuorarla che tutto sarebbe tornato alla normalità, che entrambe sarebbero state bene, prima o poi.

La speranza non sarebbe svanita, non finché sarebbero rimaste unite.

Poi, in un tonfo, Vegeta aveva lasciato la cornetta sbattendola con fin troppa forza.

Rimase in silenzio per qualche attimo poi si alzò recuperando la sua giacca blu, la infilò non degnando la turchina di nessuna attenzione.

Uscì dall’ufficio chiudendo a chiave e la turchina sospirò, il suo stomaco brontolò dalla fame.

Non mangiava da due giorni e il suo corpo aveva iniziato a patirne le conseguenze, spossata, si sentiva debole eppure, pensò, era fortunata.

Chichi era nelle sue stesse condizioni, ma oltre a ciò era assetata, sotto il sole cocente nessuno si era disturbato a portarle dell’acqua.

Doveva fare qualcosa, doveva aiutarla. 

Dalla finestra intravide il generale recarsi verso i due, le mani dietro la schiena.


Vegeta aveva avute notizie da un superiore, il tenente Imamura aveva bisogno di nuovi ufficiali dopo la prematura dipartita dei comandanti Tsukahara e Hyakutake, e chi meglio dei suoi allievi prediletti?

La Guerra a Guadalcanal era al centro della resistenza contro gli alleati, gli americani avevano intenzione di prendere il controllo dello spazio aereo presente sull’isola e ciò avrebbe potuto comportare una grave sconfitta per i giapponesi.

Dovevano raggiungerli al più presto, avevano bisogno di loro e a malincuore dovevano lasciare Sumatra per andare in pasto alla morte. Prima però dovevano tornare a Nagasaki, confrontarsi con i superiori per nuove strategie e, solo infine, partire.

- Kakaroth, sei fortunato, sai? –

Il ragazzo aprì piano le palpebre ed a fatica alzò il capo, la vista sfocata non gli permetteva di vedere bene il volto di Vegeta ma la sua voce risuonò nei suoi timpani cristallina.

Lo sentì chiamare dei soldati e di colpo si ritrovò tra le braccia di uno di questi.

Fece un profondo respiro, lo sterno doleva ma ebbe la forza di parlare.

- Portate anche lei, vi prego. - 

Quel rantolo che uscì dalle sue labbra secche servì a convincere il tenente, erano rimasti lì abbastanza, avevano dato spettacolo e andava bene così.

Liberarono anche la cinese e Bulma, che nel frattempo teneva d’occhio la situazione, ne fu sollevata.

Vegeta li fece portare nell’infermeria del campo, quando Kakaroth si sarebbe ripreso gli avrebbe spiegato la situazione.


Ci vollero tre giorni perché entrambi si riprendessero, il giusto per poter tornare a camminare e rimanere lucidi.

Bulma aveva passato quei tre giorni a far visita alla sua compagna, il tutto permesso solo dopo essersi concessa nuovamente al generale.

La cosa non le dispiaceva, tutt’altro.

Per quanto si sentisse sporca tendeva a lasciar da parte quel disgusto, i peccati della carne superavano la sua morale e ne era a conoscenza, accettava tutto ciò.

Grazie a questo era riuscita a permettersi libertà che le altre prigioniere potevano solo sognare; una doccia, un cambio di vestiti, addirittura del cibo e una branda dove riposare.

Era così, dunque, che vivevano le donne nel club delle lenzuola?

Sentiva addosso, però, gli sguardi di altri soldati, indesiderati al contrario di quelli di Vegeta.

Si chiedeva se ora fosse di sua proprietà, se fosse diventata, anche solo col corpo, sua. 

Erano pensieri stupidi, la coscienza le ripeteva che concedersi andava bene ma non con la mente, non sarebbe sottostata ai suoi ordini a patto che non avesse ricevuto qualcosa in cambio


Al fianco della mora, distesa nel letto, le fasciava le ultime ferite sulle braccia, la ragazza sussultava e digrignava i denti ma la sua forza d’animo le faceva onore, nemmeno una lacrima era sfuggita dai suoi occhi. 

- Tu.. sai cosa ha in mente il generale?-

Chiese Chichi col suo inglese stentato, fortemente influenzato dalla sua lingua madre. 

Bulma scosse il capo ed inumidì le labbra. 

Vegeta e il soldato parlavano nella stanza affianco, le due udivano diverse parole in giapponese che per loro non avevano nessun significato. 

Inoltre, il fatto che volessero fortemente la loro presenza le faceva dubitare. 

La porta della stanza si aprì, Kakaroth entrò, ancora malandato riusciva a camminare trascinando il piede destro, nulla di grave, una semplice storta che sarebbe passata nel giro di due settimane. 

Lo videro aprire uno degli armadietti e prendere da questo una divisa pulita. 

Infilò la camicia abbottonandola con attenzione, poi fu il turno dei pantaloni dopo aver tolto quelli logori, le calze ed infine gli anfibi. 

Si avvicinò al letto sedendosi e lasciando che il materasso si inclinasse a causa del suo peso. 

- Devi venire con me a Nagasaki. – 

Chichi lo osservò confusa e Bulma si fece di lato per poi alzarsi e lasciarli da soli a parlare. 

Nagasaki? 

- Perché? - 

Chiese lei, cosa c’era lì? Un nuovo campo di prigionia? L’avrebbe lasciata là a morire assieme ad altre sue connazionali o semplicemente l’avrebbe lasciata libera? 

- Vuoi sopravvivere, vero? Allora seguimi, te ne prego, non sarai sola, Vegeta sembra aver instaurato un certo legame con la tua amica, porterà anche lei.- 

- E tu? - 

Quel botta e risposta lasciò Kakaroth in silenzio, le sorrise appena avvicinando la sua mano alla guancia della ragazza, la accarezzò con dolcezza per poi alzarsi. 

- Vestiti, partiremo tra due ore. – 

La lasciò sola tra i dubbi, perché non le aveva risposto? Che diamine aveva in mente e che rapporto c’era tra Bulma e il generale?



Chichi aveva fatto in tempo a riprendere il suo diario, ancora fermo al 19 ottobre vi erano nuovi fatti da dover aggiungere. 

Il tragitto da Sumatra e Nagasaki era lungo, circa due giorni di viaggio in mare. 

Le veniva quasi da ridere al pensiero che era proprio così che era incominciata la sua sventura e quella delle sue compagne, una nave che sembrava la loro ancora di salvezza dai bombardamenti si era rivelata come un mezzo per l’arrivo all’inferno. 

Ricordava bene i minuti e le ore di terrore, il rumore nauseante degli aerei sopra le loro teste e in lontananza il fragore delle bombe e le grida dei superstiti che si gettavano in mare in cerca di una via di fuga dal fuoco. 

Singapore era una terra libera dicevano gli inglesi, lei ci era cascata dopo essere fuggita da Wuhan.

Credeva che in quella maniera avrebbe trovato una vita migliore lontano dalla guerra ed ora ci era finita dentro con tutte le scarpe. 

Tutto il mondo era in lotta, non vi era un solo paese immune al terrore. 

Sospirò recuperando dalla sottoveste il ciondolo e il biglietto da dover recapitare al marito della tedesca, chissà magari era ancora vivo…






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Capitolo 11
*** 26 Ottobre ***


25 ottobre 1942


Il mal di mare si faceva sentire, si teneva lo stomaco e strizzava con forza le palpebre. 

Bulma aveva sempre preferito altri mezzi per raggiungere luoghi lontani, aerei o treni. 

Era così che si era ritrovata a Singapore, una città così affascinante e piena di luci e colori.

Una cultura distante da quella occidentale, era un mondo nuovo da scoprire soprattutto per la ricchezza di quel paese, tutto ciò che Singapore aveva da offrire Bulma lo aveva accolto con felicità, allegra come una bambina, con la stessa energia e stupore. 

Il fior fiore di scienziati, archeologi e ingenieri si era riunito lì, forse per scappare dall’inizio della guerra in europa e proseguire con gli studi. 

Era stata mandata lì dal padre, lo aveva convinto in ogni maniera, la voglia di scoprire e la curiosità che la caratterizzava erano scoppiate in quel luogo. 

Ritrovare una donna nel campo della scienza e della tecnologia era qualcosa di strano e che faceva storcere il naso a molti ma lei sapeva di esserne in grado, di essere la migliore. 

Suo padre era troppo impegnato nella costruzione di nuovi aerei da caccia, lavorava notte e giorno ma Bulma non voleva sottostare a quel tipo di lavoro, voleva aiutare l’umanità a progredire non ad autodistruggersi. 

La sera che tutto ebbe inizio era stata invitata ad un ballo da un commerciante di thè inglese, aveva convinto Lazuli a venire con lei, una ragazza simpatica e alla mano che aveva conosciuto durante il viaggio in treno e che casualmente aveva ritrovato anche nel suo stesso hotel. 

Le sembrava il paradiso, gli odori di spezie mai viste prima, quell’accento tanto inusuale che dopo qualche bicchiere di troppo apriva aspri dibattiti che finevano in risate rumorose, e danzava con le sue scarpe rosa sul marmo pregiato, tra le mani coperte da guanti bianchi di quell’uomo affabile che poi, dopo quei boati era svanito nel nulla correndo tra la folla e così, anche lei. 

Poi il mare, fuochi, urla e l’arrivo dei giapponesi, lo sbarco a Sumatra e il cammino tra la giungla che le aveva condotte fino al campo di prigionia. 

Sospirò, ricordare le faceva male ma almeno distraeva la nausea. 

Si tenne stretta all’inferrata della nave che affacciava direttamente sull’oceano, il colore scuro delle onde la rendeva irrequieta.

Con il fragore dell’acqua a malapena riuscì a percepire i rumori dei passi del tenente che le si era affiancato, anche lui osservò la distesa salata e poi parlò:

- Una volta arrivati non parlare, esegui solo i miei ordini, qualsiasi cosa accada. – 


Bulma rimase in silenzio senza voltarsi, si perse la bellezza del viso di quell’uomo. I raggi caldi del sole sfioravano la sua pelle ambrata illuminando le sue iridi scure, lo sguardo concentrato e le braccia dietro la schiena.

La giovane si chiese cosa intendesse per quel ‘qualsiasi cosa accada’ ma decise di non rispondere ed accettare il corso degli eventi. 

Le ore passarono veloci, Bulma passeggiava per la nave attenta a non farsi scoprire da altri soldati, a volte si sedeva e contava i secondi, poi si rialzava per andare alla ricerca di Chichi, ci parlava, scherzavano ricordando momenti della loro infanzia e poi si separavano di nuovo con un tacito sorriso. 

La sera rimanevano chiuse in cabina, Kakaroth portava loro del cibo rimasto per poi lasciarle nuovamente sole. 

Bulma aveva notato i loro sguardi, il ragazzo sorrideva sempre a Chichi, sembravano essersi uniti, un legame strano che non aveva avuto occasione di scoprire come fosse iniziato. 

Lui non aveva dei modi molto garbati, impacciato e parecchio intontito però rivelava attraverso semplici gesti dell’affetto nei confronti della cinese. 

Si sentì quasi invidiosa, Vegeta non le aveva mai rivolto un sorriso di quel tipo, avrebbe voluto che anche lui si comportasse in quella maniera nei suoi confronti anche se, lei sapeva, Vegeta l’aveva protetta e le aveva riservato un trattamento speciale seppur nascosto dall’orgoglio. 

26 Ottobre 1942

Dormirono profondamente quella notte ed il mattino seguente, entrambe sedute sul pavimento in legno ad osservare l’orizzonte notarono in lontananza una distesa di terra, nebbia copriva in parte quei tratti sconosciuti. 

Stavano per arrivare, poche ore e sarebbero giunti a destinazione. 

- Mi sento una traditrice. – 

Bulma si voltò confusa dall’affermazione della ragazza, si portò maggiormente al suo fianco accarezzandole dolcemente i capelli tagliati. 

Le donavano, in un certo senso. 

- Perché mai dovresti? Non è colpa tua. – 

Chichi in risposta sospirò e poi dietro di loro arrivò Goku, si sedette anche lui sistemando i lunghi stivali che fasciavano i suoi polpacci per poi sbuffare sonoramente. 

- È un rischio portarvi con noi ma al posto di Vegeta, al campo, sarebbe arrivato il generale Lapis e dubito che a quest’ora sareste ancora vive con lui. – 

Bulma inumidì le labbra portando la sua mente a Lazuli rimasta sola, sarebbe stata dura per lei ma sperava di poterla rivedere un giorno.

Abbiamo già avvisato i superiori che non siete altro che delle schiave che abbiamo voluto portare con noi per rallegrarci le giornate, rimarrete lì al sicuro assieme ad altre donne. – 

Fu spontaneo per Bulma fare la stessa domanda che fece Chichi qualche tempo prima ma ancora una volta non ebbe risposta. 



Tornare in patria era ciò che desiderava da quando era stato mandato a Sumatra, rivedere le distese pianeggianti della sua terra, le strade lastricate, i boschi e i monti. 

Eppure vi era stato un tempo in cui il suo desiderio più grande era quello di scappare da quel luogo, uno spirito avventuriero come il suo odiava rimanere nello stesso posto per troppo tempo. 

Si chiedeva cosa ci fosse oltre al giappone ma la geografia non lo aiutava, voleva toccare con mano, ascoltare e conoscere nuova gente e quale occasione migliore se non far parte dell’esercito?

Magari in qualche missione lontana, ma non credeva, non era stato in grado di prevedere che l’unica cosa che avrebbe visto nei suoi viaggi non sarebbero state città innevate o calde spiagge, gente accogliente e sorridente, ma solo sangue e morte al suo passaggio. 

Il porto era piano zeppo di soldati di basso rango, scaricavano merci, armi e rifornimenti. Scese con lentezza arrivando sul molo, Vegeta lo superò spintonandolo appena e salutando uno dei superiori. 

Si affiancò al tenente compiendo lo stesso gesto, l’anziano si sistemò la fascia rossa al braccio, sul viso i segni di chi aveva combattuto grandi guerre ormai dimenticate. 

La sua divisa era adornata da una placca smaltata, un bellissimo fiore lilla affiancato dalle bandiere del giappone.  

Maresciallo generale d’armata, comandante del terzo squadrone d’artiglieria e colui che li aveva accompagnati durante il percorso da reclute. 

- Anata wa yoi kaisha o motte iru to omoim asu. - 

Il vecchio sorrise cacciando dalla tasca della sua divisa una boccetta contenente dell’alcol, ne ingurgitò un goccio strizzando appena le palpebre rugose riponendolo nuovamente nella tasca. 

Alto e magrolino, portava sotto la divisa una specie di bavaglio, regalo della moglie morta da tempo, sul capo il cappello della divisa che copriva la calvizia e dei baffi bianchi sotto al naso aquilino.

- Pixas shogun, warashitachiha jinsei no atu yorokobi o ubaimasen - 

L’uomo annuì alla risposta di Vegeta, calmo e sereno come al suo solito. 

Fece segno di seguirlo e Vegeta ordinò ai soldati di portare le ragazze nel loro alloggio minacciando anche che se solo un capello fosse stato torto loro ne avrebbero pagato le conseguenze. 

Bulma quando il tenente si voltò per dire quelle parole di cui non capì il significato cercò con preoccupazione di far incrociare i loro sguardi, cosa che avvenne, ma nei suoi occhi la turchina non scorse altro che una crescente ansia. 

Cercava del conforto ed aveva trovato tutt’altro. 



 * - Vedo che avete buona compagnia. - 

 * -  Non ci priviamo di certi piaceri della vita, generale Pixas. - 





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Capitolo 12
*** 26 Ottobre ***


26 Ottobre 1946.


Il tavolo in mogano vedeva radunate tutte le più alte cariche dell’esercito, nonostante il corso della guerra e quella che poteva apparire come una imminente sconfitta per il Giappone coloro che vi erano attorno sembravano calmi e non perdevano occasione nel lasciarsi sfuggire battutine di dubbio gusto sulle loro mogli e sulla famiglia lasciata a casa. 

Riempivano i loro bicchieri di una sostanza simile all’acqua, poi prima che l’ordine venisse richiamato la scolavano velocemente riversandola nelle loro bocche rugose. 

Vegeta osservò i documenti che teneva tra le mani, su di questi vi erano scritte informazioni sui nomi dei caduti, i scomparsi, gli spostamenti, i tipo di rifornimenti e i mezzi. 

L’alleanza con la Germania non faceva che favorire l’esercito nipponico a crescere, venivano mandati un gran numero di soldati, come se sul fronte europeo quei crucchi non ne avessero bisogno. 

Eppure, da quel che si sentiva, la triplice alleanza era sul punto di vacillare e all’intesa vi si erano uniti altri stati. 

Il giovane sospirò portando il suo sguardo su Pixys che non perse occasione per ribadire uno dei suoi tanti motti. 

Quel vecchiaccio era acclamato e ben rispettato, aveva fatto parte della campagnia in Cina anni addietro portando buoni risultati. 

- Bene, ora che ci siamo tutti, la riunione può essere aperta. – 

Affermò dopo che la porta venne richiusa per l’ultima volta da uno dei soldati. 

Vi era sempre la strana convinzione che si potesse essere spiati, soprattutto in quel tipo di situazioni.

I vari comandanti tenevano le mani sotto il tavolo tastando spesso la superficie, nessuno si sentiva al sicuro ed i loro occhi tenevano sotto controllo i presenti in sala. 

- Come ben sapete l’America vuole il controllo della base aerea del Guadalcanal, la quale è nostro punto di sbocco per la conquista definitiva dell’indonesia. Se ciò non accadesse oltre ad una sconfitta, state certi, che avremmo anche un attacco. – 

Il generale si alzò in piedi, le mani ben ferme dietro la schiena e chiuse in due pugni, i suoi passi pesanti facevano rizzare i capelli a quei poveri soldati che assistevano alla runione. 

-Ciò che dice la radio ed i discorsi del nostro imperatore sono giusti ma non veri, abbiamo bisogno di nuove reclute, nuove strategie e mezzi, al momento non possediamo neanche un quarto dell’armamento americano e da ciò che voci di corridoio affermano hanno una tecnologia superiore anche a quella tedesca. – 

Gli uomini presenti storsero il naso ma solo uno tra questi ebbe il coraggio di esprimere le proprie perplessità. 

- Non bisognerebbe fidarsi delle voci di corridoio, Pixys, lo sapete bene. - 

A parlare non fu nient’altro quell’ubriacone di Nara che per quanto fosse un acclamato stratega tendeva ad essere fin troppo impulsivo e ingenuo. 

L’anziano sospirò annuendo col capo per poi continuare. 

- Bisogna prestar attenzione anche a quelle, detto ciò i nostri scienziati si stanno dando da fare per rispondere a tono alle provocazioni americane. Tornando al punto di questa riunione assieme al comandante Hatake abbiamo assegnato ai presenti dei nuovi compiti. - 

Disse indicando col capo uno dei più giovani comandanti in carica, determinato e rispettato da tutte le cariche. 

Il comandante Hatake era un tipo schivo, autoritario e dagli occhi stretti e lunghi, una lunga cicatrice sull’occhio destro che nascondeva da una bandana che copriva metà del volto. 

Si raccontava tra le reclute del suo corso che non si fosse scoperto neanche una volta, alcuni vociferavano che avesse qualche malformazione alla bocca ma non erano altro che bazzecole. 

Vennero dati ai presenti dei documenti e tra le mani di Vegeta e di Kakaroth al suo fianco, piuttosto annoiato e non presente con la testa, finirono due fogli pieni di timbri e firme. 

Non erano richieste, erano obblighi a cui non potevano in alcun modo ritrarsi. 

- Il tenente e il suo sottoposto Son verranno mandati nelle provincie interne dell’isola alla guida dei due battaglioni di fanteria per la conquista dello spazio aereo, confidiamo in loro per la riuscita del piano. Oltre a loro per la marina abbiamo Uzumaki e Rayzake, per quanto riguarda l’aeronautica lascio parte del mio incarico a Harade e Kizumoto. Questo è tutto. - 

Detto ciò tutti si alzarono in piedi, dopo il consueto saluto la sala venne abbandonata ad eccezione di Pixys che richiamò Vegeta e Kakaroth per le ultime informazioni. 

Vegeta tornò a sedersi ripiegando i documenti e portandoli nella tasca della sua divisa, al contrario Kakaroth rimase poggiato alla parete esaminando i documenti che teneva ben ferme tra le dita. 

- Volevo giusto informarvi che data la situazione le vostre signore verrano riportate a Sumatra, non saranno liberate per ragioni diplomatiche, inoltre se ci fosse una fuga di informazioni sui campi di concentramento l’opinione pubblica non sarebbe… per così dire, allegra, e non riporrebbe più fiducia nel loro tanto amato esercito, intesi? - 

Kakaroth rialzò lo sguardo puntando i suoi occhi scuri in quelli del generale, sul punto di obiettare Vegeta lo fermò rialzandosi in piedi e rispondendo con un semplice e fermo ‘Sì signore’ abbandonando la sala e trascinando via con sé il suo sottoposto. 

Avevano fatto di tutto per portarle via con loro ed adesso la guerra le reclamava indietro, senza la loro protezione avrebbero fatto la stessa fine delle loro compagne, patito nuovamente la fame e ridotte a pelle ed ossa, con il loro temperamento sarebbero finite in pasto a soldati meno clementi e solo i Kami potevano sapere se prima o poi sarebbero finite sotto tre metri di terra. 

- Dobbiamo fare qualcosa, non ho intenzione di lasciar tornare Chichi a Sumatra e.. - 

Vegeta gli si parò davanti spingendolo indietro con entrambe le mani facendolo arrancare di qualche passo. 

- Fottitene, dobbiamo pensare ai nostri doveri e non a due sporche puttane. - 

- Fottermene? Sbaglio o anche tu tieni a quell’americana, non te la saresti portata fin qui se non ci tenessi. - 

Vegeta rise trascinando i suoi scarponi sul pavimento e ignorando lo sguardo del suo amico per puntarlo sul via vai di gente. 

- Oh sì, solo perché mi apre le gambe ogni volta che glielo chiedo, sei così ingenuo Kakaroth, le mie punizioni non sono servite a nulla. - 

Strinse i pugni, quell’espressione che Vegeta oramai aveva già visto. 

Non capiva perché non si mettesse in testa che in quel mondo crudele i favori non sarebbero mai stati ricambiati, non serviva a nulla fare il gentiluomo, mettere la propria vita alla mercé di una donna che non gli avrebbe dato altro che grane. 

Eppure, forse, Kakaroth aveva ragione. 

Non lo avrebbe mai ammesso, neanche a sé stesso, ma nella sua mente, in un angolo, un pensiero continuava a premere martellandogli le tempie e facendogli contorcere lo stomaco dal dolore. 

Senza volerlo, senza riuscire a smettere, riappariva il volto candido della giovane, i suoi capelli turchesi morbidi al tatto, le labbra carnose, i suoi ansimi nei timpani e una sofferenza che squartava il suo petto al pensiero che altri avrebbero potuto provare lo stesso con lei. 

Non era innamorato, di ciò era sicuro, ma qualcosa c’era ed era determinato a sdraticarlo dal suo corpo, dalla sua testa o, per meglio dire, dalla sua anima. 

- Io le salverò, che tu lo voglia o meno. - 

Lo superò e percepì la sua rabbia dai passi pesanti. 

- Domani partiremo, goditi questa notte perché sarà l’ultima. - 


26 Ottobre, 21: 07 


Era da tanto che non tastava la morbidezza di un cuscino, il calore delle lenzuola sulla sua pelle dopo una lunga dormita. 

Quella camera d’hotel non era male, seppur non fosse lussuoso Chichi non chiedeva molto e si adattava. 

Una volta alzata si sedette dinanzi alla scrivania al lato della stanza, il diaro posato sulla sinistra assieme alla penna, la lettera da portare al marito della tedesca ed il suo ciondolo.

Si osservò allo specchio notando le occhiaie scure sotto gli occhi, la pelle rossastra, le spalle e le braccia colme di segni e chiazze violacee, le sue gambe erano combinate peggio ma si riteneva fortunata, per lo meno non era ancora morta. 

A quel pensiero accennò un lieve sorriso recuperando dal cassetto sulla sua destra una spazzola, prese con lentezza a pettinare i suoi capelli. 

Quel movimento ripetitivo le fece tornare alla mente quando chiusa nella sua stanzetta si ammirava allo specchio e lentamente si accarezzava i crini scuri e lunghi, lava nera e lucente che si posava sullo schienale della sua sedia. 

Tutti le facevano i complimenti dicendole fosse il ritratto della madre e che, prima o poi, sarebbe diventata una bellissima donna in sposa ad uno dei mercanti della sua città. 

Suo padre le ricordava che non bastava essere affascinante per attirare un uomo, le serviva la cultura e l’ingegno. 

Chichi si impegnava, studiava, ma non per un uomo bensì per se stessa. 

Sua madre sarebbe stata fiera di lei, ne era sicura. 

La porta si aprì facendola ritornare alla realtà, si aspettò la voce cinguettante di Bulma ma a sorpresa udì quella di Goku. 

Si voltò sentendosi violata da un uomo in quel momento di intimità. 

Si strinse nella camicia da notte regalata da una delle donne presenti all’hotel una volta arrivata. 

La porta venne richiusa ed il ragazzo si avvicinò lentamente sedendosi sul letto, la osservò dallo specchio per poi sorriderle. 

Nelle sue iridi una profonda malinconia, difficile da non notare.

- Domani parto, non so se tornerò e se ci rivedremo di nuovo. - 

Iniziò allungando una mano verso il viso della ragazza, Chichi lo lasciò fare, le sfiorò la guancia per poi concentrarsi sulle sue ciocche corte. 

- Volevo solo dirti questo, se sono di disturbo vado. - 

Lei abbassò lo sguardo sulle sue cosce poi si alzò sedendosi al suo fianco sul letto. 

Sospirò e si tirò in avanti posando la testa sulla sua spalla, chiuse le palpebre percependo le mani del giovane stringersi intorno alla sua vita in un tiepido abbraccio. 

Goku pensò che quella fosse davvero l’ultima volta e che avrebbe dovuto far ciò che sentiva, sarebbe stata impressa nella sua memoria e chissà, forse anche in quella di Chichi. 

- Mi scriverai, vero? - 

Il ragazzo deglutì a quella domanda posta con tanta speranza e tenerezza nella voce, come poteva dirle che sarebbero state rimandate a Sumatra?

Che forse non si sarebbero più visti e che quella sarebbe stata l’ultima occasione per stare insieme prima che uno dei due morisse? No, lei non sarebbe morta, lei avrebbe continuato a vivere, non sarebbe tornata a Sumatra, l’avrebbe salvata. 

- SÌ. - 

Mentì, si sporse sfiorando con la punta del naso la sua guancia, il respiro caldo contro la pelle della cinese e poi, un bacio dolce. 

Il rossore sulle guance di entrambi era evidente, quando anch’ella riaprì gli occhi ritrovò il viso paffuto di Goku, in imbarazzo. 

Risero entrambi, appena a disagio, ma desiderosi che ciò accadesse di nuovo, e così fu. 

Si strinsero, si attorcigliarono tra le lenzuola candide togliendo i vestiti, corpi nudi che si toccarono ed esplorarono. 

Parlarono l’uno nell’orecchio dell’altro, parole d’amore in lingue che non conoscevano. 

Si dedicarono il cuore, l’eternità in un domani incerto e quando tutto fu finito, in un ultimo sussulto, nei seni traballanti di lei e il fiato corto, il sudore e le ciocche umide di lui, si guardarono nuovamente, si osservarono e risero scambiandosi un lungo bacio. 


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Capitolo 13
*** 8 Gennaio 1943 ***


2 Novembre 1942, Isole Salomone, Guadalcanal.


Cara Chichi, questa è la prima lettera che ti mando dopo il nostro forzato addio in Giappone.

Mi scuso per i miei errori grammaticali e la carta sporca ma sai bene quanto io non conosca bene l’inglese e quanto in una situazione di questo tipo trovare della carta su cui poter scrivere sia complicato.

Mi dispiace averti mentito e non averti avvisato che saresti dovuta tornare a Sumatra, non potevo fare altrimenti.

Mi dispiace anche non averti contattata prima ma la mia vita sembra essere perseguitata dalla sventura e in questo mese di lontananza non ho avuto il tempo di potermi sedere qualche attimo e dedicarti del tempo.

Non mi dilungherò.

Sto bene, resisto e spero di poterti venire a prendere.

Qui la situazione non è delle migliori e gli americani sembrano avere la meglio nella conquista dell’isola impedendo la costruzione della base.

Chichi, spero che tu non possa provare odio nei miei confronti e possa perdonarmi.

Abbi fede e lotta, tornerò a prenderti non appena tutto sarà finito; tu osserva il cielo ed io farò lo stesso, forse per un istante ci incontreremo.

Ti sogno. 

Tuo, Goku.


29 Novembre 1942, Isole Salomone, Guadalcanal.


Cara Chichi, questo mese sta per terminare e non ho ricevuto tua risposta, se sei arrabbiata ti prego, ti prego dimmelo, capirò. 

In ogni caso ti avviso che sto bene, nella notte alcuni dei nostri uomini sono stati uccisi in una retata, Vegeta è ferito ma non accetta il mio aiuto.

Lo comprendo, non ha mai voluto l’aiuto di nessuno.

Qui mi sento inutile, non sono un grande stratega e neanche il meglio dei soldati, sono solo il braccio destro di un conflitto senza senso.

Davanti a me il mondo sembra volersi ribellare al potere degli uomini: le giungle interminabili, distese di piante rampicanti, clima umido e insidie in ogni angolo.

Non siamo immuni al potere della natura, anche gli statunitensi, così invincibili ai nostri occhi, cadono come mosche per le febbri.

Chichi dimmi che mi pensi, che sei viva, sana e salva in quell’inferno in cui ti trovi.

Aspetterò e ti sognerò ancora, anche se la tua immagine non è più vivida come una volta. 

Tuo, Goku.


12 Dicembre 1942, Isole Salomone, Guadalcanal.


Cara Chichi, avrai letto le ultime due lettere che ti ho mandato, forse questa sarà l’ultima.

L’inchiostro sta per finire e la situazione degenera di giorno in giorno.

Il nostro campo d’azione si restringe, da Nagasaki ci dicono di continuare, non arrenderci e proseguire nell’obiettivo per la gloria del nostro impero ma gli uomini e le munizioni scarseggiano, se non è la fame, la sete o la guerra a farci disperare ci si mette l’odio e la frustrazione.

Io li vedo, Chichi, vedo la pazzia negli occhi dei miei commilitoni.

Io li osservo tra le trincee, sono pazzi, Chichi, non hanno più nulla in cui credere e neanche il sonno dà loro sollievo.

Ho paura, ho paura di poter diventare anche io come loro.

Con gli occhi spenti, desiderosi della morte o tanto matti da voler ancora combattere.

Ho paura, anche, di dimenticare presto il tuo viso, si somma tra gli amici che sotterro, per alcuni mi rammarico di non aver potuto dar loro una degna sepoltura.

Non riesco a dormire, ogni qualvolta io chiuda gli occhi, nella speranza di poterti vedere la mia mente si ostina a voler cambiare ricordo e anche il più bel sogno si trasforma in realtà, un incubo da cui non riesco a sfuggire.

Nonostante Vegeta non voglia dì alla tua amica che anche lui la pensa, non lo ammette ma spesso ha pronunciato il suo nome senza che se ne rendesse conto. 

Tornerò Chichi, è una promessa. 

Abbi fede e sopravvivi. 

Tuo, Goku.


8 Gennaio 1943, Isole Salomone, Guadalcanal. 


La nave di ritorno per i superstiti giapponesi giaceva immobile sulla riva nell’attesa che gli uomini vi salissero. 

L’isola aveva mutato il suo maestoso primordiale aspetto. 

Il cielo nuvoloso copriva come una lastra la grande vegetazione rendendola cupa e maligna, gli uccelli dalle piume colorate che al loro arrivo cantavano gioiosi sembravano esser stati zittiti dagli orrori della guerra, se ne stavano appollaiati col becco serrato a fissare con le iridi vitree i volti dei soldati. 

Sulla sabbia, mesi prima candida e pura, giacevano armi, mine inesplose, fili di ferro e caschi, questi ultimi divenuti casa di granchi e paguri. 

Kakaroth si guardò intorno in attesa del suo turno di salire sulla nave e tornare finalmente a casa. 

Nonostante la sconfitta il ragazzo si sorprese nel non vedere gli uomini trepidare dalla gioia nel sapere che sarebbero ritornati dalle loro famiglie. 

Muti e dal viso scarno, ogni briciolo di emozione pareva esser stato risucchiata in una voragine di apatia. 

Nemmeno una lacrima, un lamento da i feriti, un cenno di sorriso dalla controparte per la vittoria, solo il continuo ondeggiare delle onde e l’infrangersi violento di esse contro la scogliera. 

Vegeta dinanzi a lui fece un passo, la suola della scarpa atterrò sulla pedana in metallo ma una mano bloccò il suo cammino.

Altre mani afferrarono le sue braccia, al contatto col bicipite destro dolorante, ancora fasciato e forse infetto, digrignò i denti ma i soldati ignorarono tirandolo indietro. 

- Voi no, rimanete con noi. – 

Quello che a prima occhiata parve essere il capitano della divisione americana sull’isola aprì bocca spostando il fucile dietro la schiena. 

Kakaroth provò ad intervenire ma anche lui venne prontamente bloccato e tirato indietro lasciando che i suoi connazionali salissero al loro posto. 

- Che diamine significa? Avete vinto, non è abbastanza? – 

Provò a liberarsi dalla presa, il tenente ci provò con tutte le sue forze scalciando i piedi fino a cadere sulle ginocchia.

Kakaroth osservò quella scena con pietà e sdegno, colui che non si era mai chinato dinanzi a nessuno adesso si trovava inconsciamente inginocchiato al nemico, eppure, col seguire degli eventi, quegli attimi divennero preludio della sconfitta imperiale.

- Non crediate che dopo questa futile guerricciola vi lasceremo andare, due figure così informate come voi due. Stolti. –

Il biondo parlò nuovamente mentre un suo sottoposto gli passava una sigaretta accesa.

Le labbra sollevate in un ghigno disturbante che dava fastidio, pizzicava sotto le carni, ma forse, Vegeta dovette rendersene conto, era la rabbia, non quella faccia da stronzo che l’americano si ritrovava ad avere.

Quelle rughe, il ridicolo berretto e la divisa colma di medaglie e stelline.

Ma forse no, era anche il suo aspetto ed essere seccante.

- Se credete che uno di noi due possa darvi delle informazioni sbagliate di grosso. – 

Sibilò Kakaroth beccandosi in risposta una gomitata nello stomaco prima di essere gettato a pancia in giù sulla sabbia con un calcio al polpaccio, granelli gli entrarono in bocca e quando sollevò lo sguardo, appena sfocato, ciò che vide fu Vegeta sputare sugli stivali lucidi del generale americano prima di essere colpito violentemente alla testa, senza poter ribattere la stessa sorte capitò a lui.


//HEEEEYLÀ So che è piuttosto corto ma avevo bisogno di uno stacco per approfondire meglio la nuova situazione nel prossimo capitolo, non tarderò più di qualche giorno so... Stay tuned! -daph

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Capitolo 14
*** 5 Febbraio 1943 ***


8 Gennaio 1943

I capelli scuri ormai ricresciuti le scendevano dolci sulle spalle, sporchi e annodati, Chichi incominciava a non sopportarli più. 

Al suo fianco Bulma trafficava con dei fili in ferro passando il suo tempo ad intrecciarli con fatica, spesso sospirava ed arricciava il naso quando, forse per qualche pensiero improvviso, si distraeva facendosi male alle dita pungendosi. 

Erano ricadute all'inferno e quei due giorni di pace passati a Nagasaki sembravano oramai un sogno, una mera illusione che seppur bella, ora, faceva più male.

A malapena capiva se quel Goku che aveva incontrato e con cui aveva fatto l'amore fosse frutto della sua immaginazione, non riusciva a capacitarsene, ma quando l'americana si lamentava di quel Vegeta capiva che sì, era stato tutto reale, non era matta, era tutto accaduto e lì, poi, la paura e la preoccupazione prendevano il sopravvento.

Nessuna lettera, nessun messaggio, niente le era arrivato tra le mani da quando il giovane soldato giapponese era partito per la guerra senza avvisarle di dove sarebbe andato e quando sarebbe tornato lasciandola in un limbo di incertezze e frustrazione da cui non riusciva più ad uscire portandola ad arrovellarsi le cervella nella speranza che lui fosse ancora vivo, vagliando tutte le ipotesi di quello che gli sarebbe potuto capitare.

Si ricordava di lei? 

La pensava?

E se la pensava perché non le scriveva?

I giorni a Sumatra erano passati lentamente dal loro ritorno, senza più la squillante voce di Lazuli, che da ciò che le era stato riferito si era trasferita nel club delle lenzuola alla ricerca di una vita, seppur così si potesse definire, più tranquilla a costo della sua dignità di donna.

Al posto dell'esuberante tenente Vegeta ora vi era Lapis; un tipo schivo, il quale rimaneva chiuso nel suo ufficio impartendo ordini ai suoi sottoposti. 

Non si era mai fatto vedere ma da ciò che i soldati affermavano confabulando tra loro tra una ronda e l'altra era che fosse un tipo lunatico, organizzato e preciso, con abitudini particolari e strane voglie.

A loro non si era mai fatto vedere e forse, era meglio così.

Un'altra novità da quando erano tornate era che vi fossero nuove detenute, tutte donne del posto che si erano ribellate al dominio dei giapponesi.

Da ciò che Bulma le aveva raccontato l'isola di Sumatra era prima della guerra sotto i coloni Olandesi, gli abitanti del posto furono per breve tempo felici della loro liberazione etichettando i Giapponesi come dei salvatori ma la situazione cambiò radicalmente quando si ritrovarono a dover far fronte a un nuovo impero a cui sottostare abituandosi a nuove regole e dinieghi. 

Si era così creata una coalizione di rivoltosi per avere l'indipendenza e ora, nel loro campo di prigionia, ecco che apparivano nuovi volti stanchi e affamati.

Le loro espressioni però erano diverse da quelle delle sue compagne europee, americane o asiatiche che fossero. Sembrava che qualcos'altro le spingesse a sopravvivere, non solo la voglia di vivere, l'istinto primordiale, ma anche l'amore per la propria terra, le proprie origini, la loro identità.

Non parlavano quelle donne, sembravano aver paura di noi straniere che per puro caso ci eravamo trovate sulla loro isola, ci osservavano con diffidenza esaminando nel dettaglio i tratti dei nostri visi. Lavoravano, si dimenavano quando qualcosa le veniva ordinato.

Non andavano avanti per inerzia come noi, lottavano e cercavano la libertà, e forse, avevano anche trovato una via di fuga. 

2 Febbraio 1943

Non sembrava far freddo lì a Sumatra, come se l'inverno in quei luoghi dimenticati da Dio non esistesse, in compenso le piogge torrenziali allagavano i terreni lasciando una forte umidità. 

Aveva appena smesso di piovere ma Bulma era già a conoscenza del fatto che sarebbe durato meno di due minuti. Uscì dal suo piccolo rifugio appoggiandosi al palo in legno che faceva da stipite lasciando dietro di sé il tessuto in lino che faceva da 'porta'.

Una ragazzina, appena diciott’anni da quello che poteva affermare osservando il suo fisico minuto, la sorpassò, dandole una spallata.

La turchina non fece in tempo a lamentarsene che la ragazza svanì sotto i suoi occhi correndo in direzione delle recinzioni, lì dove i soldati erano appostati. 

Se l'avessero vista sarebbe stata fucilata sul posto e Bulma di certo non poteva permettere che ciò le accadesse, di certo non davanti ai suoi occhi.

Le corse dietro urlandole di fermarsi, ma quella ragazzina non capì le sue parole, sul punto di arrivare dinanzi ai soldati svoltò l'angolo a destra verso l'ufficio di Lapis.

Per un attimo Bulma rischiò di scivolare sotto il terreno fangoso con le sue scarpette completamente nere e sporche, riprese fiato e la seguì ignara di dove quella sconosciuta la stesse portando con la sua ingenuità. 

Evitò di urlare ancora per evitare di attirare attenzioni non desiderate, non doveva assolutamente essere lì e se fosse stata scoperta si sarebbe cacciata in un bel guaio. 

Oltre un albero dalle grandi fronde vi erano delle siepi e dietro di queste una alta recinzione ancora sgocciolante. 

Quella ragazzina, sicuramente abitante del posto dati i suoi abiti, se ne stava inginocchiata in un punto preciso, scavando con le mani gettando dietro di sé fango e zolle d’erba. 

Bulma si avvicinò con cautela per poi affiancarla cercando di capire cosa stesse combinando ma soprattutto perché. 

Aveva creato una fossa, ma era più grande di quanto avesse potuto immaginare, quella non doveva essere la prima volta che si era ritrovata a scavare in quel punto. 

I suoi occhi azzurri varcarono la recinzione, la giungla selvaggia si stagliava oltre il campo. 

Era la libertà quella, pura e meravigliosa libertà. 

L’americana poggiò una mano su quella dalle unghie rovinate della più piccola, la quale si girò ad osservarla un po’ impaurita. 

- Sono Bulma, fatti dare una mano. – 

Accennò rivolgendole un piccolo sorriso sperando di tranquillizzarla, la ragazza non rispose, continuò a scavare ora aiutata dalla più grande. 

Quando tornò a piovere si fece di lato, l’indonesiana trascinò dei rami, foglie e rametti nascondendo ciò che avevano fatto per poi rialzarsi. 

Guardò per qualche istante Bulma e prima di tornare a correre per rifugiarsi dal diluvio sussurrò, quasi impercettibilmente, il suo nome. 

- Mai.- 


5 Febbraio 1943

Un mese. 

Era passato un maledetto mese da quando si erano ritrovati in quella fottutissima cella. 

Per Kakaroth non era la prima volta e non sembrava risentire di quello spazio angusto ma per Vegeta quella gabbia era troppo da sostenere. 

Dal primo istante in cui era stato sbattuto lì dentro i suoi nervi avevano iniziato a vacillare rendendolo isterico. 

Goku, il suo compagno di cella o, per meglio dire, di sventure, se ne stava a fissarlo nell’attesa che i suoi cinque minuti terminassero o che venissero a prenderlo per riempirlo di mazzate fino a farlo svenire e rigettarlo in un quel metro quadrato di cemento. 

Ciò che i suoi aguzzini chiedevano, nel più gentile dei modi, erano informazioni. 

Informazioni che loro avevano ma che non avrebbero mai rivelato. 

Goku lasciava la situazione nelle mani di Vegeta, non perché volesse addossargli questa responsabilità o per vendetta, semplicemente perché lui non avrebbe potuto sostenerla e risolverla. 

Kakaroth pendeva dalle labbra del suo superiore perché non aveva idea di come muoversi in una tale situazione, stava semplicemente fermo a prender botte con la lingua stretta tra i denti fino a farla sanguinare, con gli occhi neri e gli zigomi gonfi. 

I piedi pestati, i calci allo stomaco, senza cibo. 

Vegeta rispondeva, lo sentiva dalla stanza degli interrogatori ridersela di gusto, spostare tavoli, parlava in giapponese, no, non avrebbe mai parlato la lingua di quegli egocentrici.

Anche se sì, era incoerente. 

Vegeta parlava inglese, a Sumatra parlava inglese con le detenute, parlava con Bulma. 

Ma con loro no, come se non avessero il diritto di sentirgli parlare quella lingua rozza, dai vacaboli sciatti e troppo semplici. 

La lingua dei cani. 

Da parte sua quella lingua non gli piaceva, gli suonava strana perché ciò che voleva dire usciva dalla sua bocca con una intonazione differente, non dava valore alla parola. 

Goku sbuffò, seduto in un angolo buglio con le gambe incrociate. 

Provava a meditare. 

Vegeta rimaneva attaccato alle sbarre stringendole con le mani e guardandole oltre. 

- Dobbiamo avvisare che siamo qui, quei coglioni ci credono morti. – 

Scosse poi il capo girandosi ad osservare l’amico, gli bastò uno sguardo e Goku sembrò intuire che stesse per dirgli qualcosa che non gli sarebbe piaciuto per nulla. 

- Vuoi o non vuoi che quella comunista sappia che sei vivo? – 

Gli occhi onice del ragazzo si spalancarono, arrossati dal sonno, si avvicinò poggiando le grandi mani sul cemento freddo avanzando allo stesso modo di una scimmia. 

- Che cazzo vuoi dirmi con questo? – 

La voce del giovane si incrinò in una maniera così cupa che Vegeta poté solo accennare un sorriso prima che il bordo della sua maglia venisse afferrato dalla mano del soldato stretta in un pugno

- Voglio dire che ho letto le tue lettere, sono rimaste a Guadalcanal Kakaroth, ti avevo detto di dimenticarla. - 







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Capitolo 15
*** 12 Febbraio 1943 ***


12 Febbraio 1943

Bulma seguiva ogni giorno di pioggia quella ragazzina di cui a malapena aveva capito il nome.

Nel loro giaciglio e durante il lavoro nei campi Mai non le rivolgeva parola, spostava il suo sguardo vacuo avanti e indietro osservando con le iridi scure ciò che la circondava. 

Analizzava e studiava, muoveva le dita sulla terra asciutta scarabocchiando linee e figure, poi le ricancellava posando il piccolo palmo della mano su ciò che aveva disegnato facendo svolazzare via la terra in una folata.

Mai non le aveva più parlato ma un tacito accordo si era creato tra le due che Chichi, ormai, aveva intuito. 

La sua curiosità e in, un certo senso, anche la vaga paura di essere abbandonata da quella che considerava ormai come un’amica si faceva sempre più vivida.

Aveva notato come l’americana osservasse la nativa, si mordeva il labbro scrutandola forse aspettandosi qualcosa da parte sua e dopo la pioggia, Bulma, svaniva. 

Quel giorno però avrebbe scoperto cosa le due stessero combinando e furtiva, dopo aver nascosto il suo diario sotto una lastra di metallo, uscì dal rifugio pedinando le due. 

L’aria umida la fece rabbrividire portandola a stringere le braccia intorno al busto storcendo il naso per il puntiglioso odore di erba bagnata e le sue gambe nude presto si riempirono di punture di zanzara che decise di ignorare nonostante il fastidioso prurito. 

Sempre dritto fino alle guardie poi a destra verso l’ufficio del tenente, lì dove aveva incontrato Goku per la prima volta. 

Quell’albero era ancora rigoglioso con le sue grandi foglie verdi e sgocciolanti, maestoso in tutta la sua grandezza. 

Alle sue spalle due figure inginocchiate tra il fango. 

Chichi si guardò prima intorno e poi, con uno scatto, le raggiunse poggiando le sue mani sulle spalle di Bulma che saltò dallo spavento con un piccolo urlo. 

Mai le tappò prontamente la bocca con le mani sporche, togliendole subito dopo e tornando a fare ciò che stava facendo. 

- Sono io, non preoccuparti. – 

Sussurrò la cinese chinandosi tra le due, con un cenno del capo Bulma sembrò darle il via ingoiando un grumolo di saliva e sentendo il sapore della terra tra le labbra. 

- È il punto più debole della recinzione, non è controllato dai soldati e il terreno è molle, ancora un po’ di pazienza e potremmo scappare da qui. – 

Confabulò mangiandosi le lettere spostando la testa di lato e sputando in modo da togliere il più possibile il fango dalla sua bocca. 

- Non avete pensato al dopo, vero? – 

Alle parole di Chichi Bulma si irrigidì mentre l’altra affondava le dita nella buca. 

Il suo piano folle era scappare e correre il più lontano possibile da quel posto, trovare un traghetto, una barca, qualsiasi cosa e tornare a casa. 

Impossibile tornare a casa, non in quelle condizioni, non in quella situazione, non in quel tempo. 

Bulma, Chichi e Mai a malapena avevano idea di ciò che oltre quell’isola accadeva nel mondo. 

Rimaste a quando il Giappone aveva intenzione di appropriarsi della base aerea nel Guadalcanal, senza sapere che gli americani avessero vinto la base, della battaglia di Stalingrado e delle vittorie dei tedeschi nel continente europeo, di come l’America cercasse di farsi paladina della giustizia volendo a tutti i costi la vittoria. 

- No.- 

12 Febbraio 1943, base americana del Guadalcanal. 

Più di una settimana era passata e Goku iniziava sempre di più a convincersi che quegli americani fossero delle bestie. 

Diavoli scesi in terra senza nessuna umanità o coscienza. 

Non vi era morale tra quei bianchi. 

Altri giapponesi erano stati i presi e le celle come si riempivano venivano svuotate sotto i loro occhi. 

Goku nonostante avesse toccato con mano la morte e dopo aver sentito più volte il suo odore non riusciva a capacitarsene, eppure, non provava paura o timore. 

Solo disgusto. 

Non era la prima volta che vedeva quel soldato da quattro soldi giocare divertito con un teschio, appartenente a un soldato giapponese, sicuramente. 

Vi era una specie di traffico di resti umani tenuti come tesoro, se ne vantavano, ridevano. 

Affermavano di odiarci fin dalle viscere e addirittura piagnucolavano intristiti quando uno dei soldati rapiti metteva fine alla propria vita in onore della dignità da giapponese. 

Meglio la morte che arrendersi. 

Ma per loro era solo un giocattolo in meno con cui divertirsi. 

La notte tutto era silenzioso e buio, i soldati andavano via e rimanevano soli, abbandonati ai loro pensieri e ai rimorsi. 

Una mosca non girava tra quelle celle e la stanchezza nel corpo del giovane prendeva sempre più il sopravvento facendolo crollare lungo la parete con la bocca spalancata, le labbra secche e spaccate. 

Vegeta dinanzi a lui, inginocchiato, tastava con le dita le sbarre fredde nel tentativo vano di trovare una via di fuga, sempre speranzoso. 

Un colpo di pistola, due, tre. 

Altri ancora a ripetizione e Goku si svegliò di soprassalto confuso, così come Vegeta si alzò in piedi poggiandosi senza forze contro il cemento. 


14 Febbraio 1943, Sumatra. 

Il giorno era arrivato, intorno alle quattro del mattino una pioggia torrenziale aveva permesso alle tre di scappare dal rifugio e correre verso il loro solito punto, tra i soldati addormentati nelle ronde notturne, l’uno sull’altro e col fucile tra le mani sul punto di cadere. 

Un equilibrio precario, un soffio e l’arma sarebbe caduta, tanto bastava perché quegli uomini si svegliassero e le vedessero sgattaiolare affondando le gambe nella terra. 

Sul punto di scivolare con le ginocchia tremanti, le tempie sudate dalla tensione. 

Nelle loro orecchie una banda di musicisti; tamburi, trombe e flauti. 

Era solo il sangue nelle vene, era solo il fiato, era solo il loro cuore. 

Eppure non ne erano totalmente sicure.

Uno di quegli uccelli tropicali gracchiò e Chichi saltò un battito dallo spavento, annaspando. 

La mano di Bulma afferrò la sua tirandola oltre i soldati e velocemente arrivarono oltre l’albero. 

Mai fu la prima ad arrivare, tolse velocemente i rami e le foglie che facevano da nascondiglio e lentamente scivolò nella buca. 

Si aiutò con le braccia facendo attenzione a non toccare la recinzione e in un attimo fu fuori. 

Bulma venne presa dall’eccitazione. 

L’adrenalina partì come una scarica da sotto le unghie percorrendo il suo corpo tremolante. 

Si abbassò nella buca, infilò la testa e i suoi capelli azzurrini si incastrarono nella recinzione. 

Strinse gli occhi serrando le labbra per evitare un lamento, era più grande di Mai di corportatura e non le era passato per la mente che per lei sarebbe stato più complicato. 

Fece forza nelle braccia e oltre il gomito i fili in ferro graffiarono la sua pelle leggermente arrossata dal sole.

Non un fiato, non un sospiro. 

Le guance gonfie. 

Ancora uno sforzo. 

Chichi la guardava trepidante attendendo il suo turno; sotto la veste il diario e all’interno di questo gli ultimi doni da portare al marito della tedesca a cui aveva fatto una promessa sul letto di morte. 

Mai tirò Bulma per le braccia e finalmente fu fuori. 

La corvina voltò le spalle con ansia dando una breve occhiata alla situazione. 

Nessuno nei paraggi e finalmente fu il suo turno. 

Prima la testa nella buca, i capelli ormai lunghi fecero la stessa fine di Bulma, dovette digrignare i denti e farsi forza con le braccia ma qualcosa le afferrò le caviglie tirandola indietro facendole sfregare la guancia destra contro la terra. 

Dimenò un urlo e quando riaprì le palpebre oltre la recinzione Bulma e Mai non c’erano più. 





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