Someone to live for

di Angel30
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1 ***
Capitolo 2: *** Chapter 2 ***
Capitolo 3: *** Chapter 3 ***
Capitolo 4: *** Chapter 4 ***



Capitolo 1
*** Chapter 1 ***


“E quando la mattina non ti sveglia nessuno.
 E quando la sera non ti aspetta nessuno.
 E quando puoi fare quello che vuoi.
 Come la chiami?
 Libertà o solitudine?”
 
Quando Margaret mi chiese di coprire il suo turno alla mensa la notte di Natale, sapevo di non potermi rifiutare; tra tutte le colleghe del volontariato, io ero l’unica senza una famiglia con la quale stare la sera di festa.
 
Una nuvola di vapore appannò la porta vetrata della mensa mentre le mie dita tremanti tentavano di infilare la chiave nella serratura. Per strada non c’era nessuno, il tempo gelido aveva costretto tutti alle loro dimore e lungo il viale illuminato solo dai lampioni e dalle decorazioni natalizie non si era ancora creata la solita fila di senzatetto che aspettavano un pasto caldo.
Aperta la porta entrai di fretta, liberandomi del cappuccio e della sciarpa che mi avvolgeva il volto, pronta a cominciare la serata.
 
In piedi dietro al bancone, cominciai a metter via. Il turno era passato velocemente e quella sera, solo pochi posti erano occupati. Osservai la sala pranzo semi deserta, sorridendo. Il fatto che ci fossero così poche persone quel giorno, voleva dire che anche i più sfortunati avevano una famiglia da cui tornare per Natale. Mentre ero assorta da quei pensieri, un uomo aprì la porta, restando sull’uscio e guardandosi attorno. Indossava un pesante cappotto nero, aveva gli occhi nascosti dal cappuccio e sembrava reggersi a stento, accasciato com’era allo stipite.
“Hey! Ma la vuoi chiudere quella dannata porta?!”
“Va tutto bene, Jim, ora ci penso io” dissi togliendomi il grembiule mentre raggiungevo a gran fretta il nuovo arrivato.
“Ciao, posso aiutarti?” provai a sorridergli, cercando di guardarlo negli occhi. Gli porsi una mano, ma dalle labbra dell’uomo uscì solo un grugnito. Si spostò dalla porta, trascinandosi verso un tavolo vuoto in un angolo della sala. Lo raggiunsi cautamente, speranzosa di finire il turno senza problemi. Capitava che alla mensa venissero anche alcolizzati o tossicodipendenti, e capitava che dessero di matto rovesciando qualche sedia o rompendo qualche bicchiere, ma quella sera c’ero solo io, e il mio nuovo ospite sembrava poter essere in grado di stendermi con un dito. Era ben più alto di me e l’imbottitura del cappotto non riusciva a nascondere le sue possenti braccia. Feci un respiro profondo, schiarendomi appena la voce per attirare la sua attenzione.
“Posso portarti qualcosa?” chiesi piano, ma notai che non mi stava ascoltando. Ancora incappucciato, lo vidi digrignare i denti e stringersi la testa fra le mani, borbottando qualcosa.
Mi allontanai verso il bancone, senza aggiungere altro. Sistemai su di un vassoio una porzione della cena di quella sera, per poi tornare al tavolo l’uomo dal cappotto nero. Aspettai qualche secondo, ed in assenza di una sua reazione parlai.
“Tieni…prova a mangiare questo.” Posai il vassoio sul tavolo davanti a lui prima di frugare nella mia tasca. I suoi occhi scattarono nella mia direzione e mi osservò con ferocia, sospettoso.
Gli mostrai immediatamente la bustina verde e bianca che avevo tirato fuori dai miei jeans.
“Qui ho…ho un’aspirina se vuoi. Per il mal di testa” posai anche quella sul tavolo e me ne andai, sentendo i suoi occhi puntati sulla mia schiena.
Dopo quella sera, non mi capitò più di rivederlo.
 
 
 
Era la notte di capodanno e, ovviamente, ero di turno io. Non che mi dispiacesse particolarmente, mi piaceva servire ai bisognosi, inoltre, molti erano diventati a me cari. Quando finii il turno, diedi un’occhiata all’orologio, mancavano dieci minuti alla mezzanotte. Spensi e chiusi tutto di fretta, eccitata all’idea di riuscire a vedere i fuochi d’artificio. C’era un parco lì vicino, con una panchina sopra una collinetta, da lì la vista era spettacolare. In cinque minuti, ero arrivata. Mi sedetti sulla panchina a riprendere fiato, accovacciandomi e stringendo le gambe al petto. Dai locali poco lontani sentivo le persone festeggiare, sorrisi tristemente. Mi ero trasferita da poco in quella città, lasciando amici e famiglia dall’altra parte del mondo. Dovevo andarmene, non potevo più restare lì, eppure c’erano momenti nei quali desideravo tornare, vivere come prima, ma la persona che ero costretta ad essere mi sembrava talmente diversa da quella che ero diventata, eppure, nessuna delle due versioni di me sembrava completarmi.
Sentii da lontano un countdown generale, alzai speranzosa gli occhi al cielo.
Tre…
Il rumore di bottiglie di vetro che si infrangevano mi fece sobbalzare.
Due…
Mi guardai freneticamente attorno, cercando nella penombra la fonte del rumore.
Uno…
Fontane di luci colorate illuminarono il cielo ed il mio volto, vidi solo allora due uomini barcollare verso di me. Mi alzai di scatto ed indietreggiai, feci per correre, ma uno di loro si buttò su di me, facendoci cadere entrambi e rotolare giù dalla collina. Arrivata in fondo, sentivo la terra sotto di me ruotare mentre le risate dell’altro uomo si facevano sempre più vicine. La testa mi bruciava terribilmente, mi toccai la fronte sopra l’occhio sinistro. Sanguinava. Tentai di alzarmi e correr via, barcollando per le vertigini, quando mi sentii strattonare per il braccio destro. L’assalitore che non era caduto ci aveva raggiunti, rideva ancora e il tanfo di alcool mi dava alla testa. Mi avvicinò a lui, mettendomi a fuoco e sogghignando.
“Non porta bene cominciare l’anno senza un bacio, non credi?” sghignazzò rivolgendosi al suo amico che, barcollando, ci aveva raggiunti.
“Lasciami andare…schifoso!” gli sputai addosso, facendogli allentare la presa.
Mi scagliò a terra con un pugno, sentii che aveva cominciato pestarmi la caviglia destra, quasi volesse romperla. Gridai di dolore, di frustrazione. Tentai di sollevarmi, ma un calcio sul viso mi rispedì a terra. Strinsi fra le mie mani l’erba, il dolore al viso mi stava accecando. Sentivo rivoli di sangue scendermi dal naso, tossii forte, in bocca non avevo che il suo sapore metallico.
Aspettai a terra, aspettai che finissero con me, ma li sentii gemere di dolore e cadere in due grandi tonfi. Respiravo a fatica, non mi mossi per parecchi secondi, ma quando non sentii più le voci dei due assalitori cominciai a tirarmi su, piano.
“Hey, tu! Va tutto bene?” un ragazzo ed una ragazza corsero verso di me.
“Io…sì, io…” i miei occhi erano puntati sui due uomini a terra, avevo paura potessero alzarsi. La ragazza si accovacciò al mio fianco, porgendomi un fazzoletto e guardando sprezzante i due.
“Che bastardi…”
“Nat, linguaggio!” la ragazza sogghignò, alzandosi ed aiutandomi ad alzarmi.
“Sì, nonno…” il ragazzo si avvicinò a me, guardandosi attorno, scrutando fra gli alberi del parco.
“Sono stati solo loro a farti del male?” chiese preoccupato, annuii. Lui sospirò, sollevato. Mi porse la mano, abbozzando ad un sorriso.
“Io sono Steve Rogers e lei è…”
“Natasha” concluse lei, ammiccando.
“Hai un posto dove stare?” chiese dolcemente, annuii nuovamente. Non riuscivo a proferire parola.
“Molto bene, ti ci porteremo noi” disse Steve, cominciando ad incamminarsi e guardandosi ripetitivamente attorno. Lo seguii piano, affiancata da Natasha, scavalcai uno dei due corpi a terra quando notai in mezzo all’erba la carta verde di una bustina d’aspirina. Rimasi ad osservarla per un po’, facendo voltare i due verso di me.
“E’ tutto okay?” mi chiese Natasha, risvegliandomi dai miei pensieri. Mi schiarii la gola, abbozzando un mezzo sorriso.
“Sì…”

 

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Capitolo 2
*** Chapter 2 ***


Dopo la notte di capodanno, i mal di testa erano diventati abitudine ormai. Era passata una settimana e l’emicrania mi colpiva nei momenti più inappropriati, costringendomi a chiudermi in casa.
Mi alzai dal letto dolorante, massaggiandomi le tempie con le dita. Andai stancamente verso il bagno, alla ricerca di un’aspirina nella credenza. Trovai la scatola, vuota.
“…merda”
mi strinsi forte la testa fra le mani, avrei dovuto pensarci prima… a onor del vero, ne avevo ancora una, ma da quando l’avevo trovata al parco quella notte avevo preso l’abitudine di portarla con me come portafortuna.
Dopo essermi infilata maglione e cappotto uscii di casa, rabbrividendo immediatamente per la gelata. Cominciai a dirigermi verso la farmacia, godendomi i flebili raggi di sole che mi carezzavano il viso. Anche quello era mal concio. Un livido violaceo mi copriva tutto lo zigomo destro e il labbro inferiore era ben spaccato. Sospirai e continuai per la mia strada, in tasca mi rigiravo il mio portafortuna, pensando e ripensando a come fosse finito lì quella notte.
 
Stava già facendo buio mentre ero di ritorno a casa. Fra le buste della spesa, della farmacia, la caviglia ancora dolorante e il ghiaccio sulla strada, mi sembrava un miracolo riuscire ad intravedere il mio palazzo in lontananza. Brooklyn non mi era mai risultata una città particolarmente pericolosa da quando mi ci ero trasferita, ma per tutto il tragitto una sensazione di disagio mi aveva fatto attorcigliare lo stomaco. Provavo a guardarmi indietro, a guardarmi attorno, ero sola per le strade eppure mi sentivo osservata.  
Tentai di accelerare il passo, passando dal fascio di luce di un lampione all’altro, fino a che non arrivai al portone. Lì, una figura mi stava aspettando. Mi sorrise, ci misi un po’ a ricordare.
-Oh…Natasha! Ma cosa…- la guardai confusa, lei si avvicinò velocemente, prendendomi una busta della spesa tra le mani. Ci impiegò qualche secondo di troppo, e mentre era ancora china verso di me, mi sussurrò all’orecchio divertita.
“C’è un’ombra che ti segue” mi pietrificai, guardandola ad occhi spalancati mentre mi sorrideva quasi divertita.
“Allora, saliamo?” mi chiese, ci misi parecchio tempo a riprendermi e ad aprire il portone.
“Prego…entra” la invitai con un fil di voce, guardando la strada da dove ero arrivata, deserta come quando l’avevo attraversata.
 
“Cosa intendevi, prima?” chiesi appena chiusi la porta dell’appartamento alle mie spalle, guardando con occhi impauriti Natasha. Lei sorrise dolcemente, togliendosi con non calanche il cappotto e andando ad accomodarsi in salotto. La seguii come un cagnolino, senza toglierle gli occhi di dosso.
“Come conosci il soldato d’inverno?” chiese a bruciapelo, guardandomi dritta negli occhi, pronta a studiare ogni mia reazione.
“Chi?”
“Non hai un accento di Brooklyn…sei qui da poco?” provò poi, sorridendo dolcemente, ma ero io a voler fare domande in quel momento.
“Natasha, cosa ci fai a casa mia? Di che ombra parlavi, prima? Chi…chi sei veramente?” lei rimase in silenzio ad osservarmi, io tentai di reggere lo sguardo. Il mio mal di testa aumentava, rendendomi la cosa particolarmente difficile. Sembrava nel mentre di un conflitto interno, strinse le labbra assorta e sospirò.
“Bene…io non dovrei essere qui con te, sai? Se lo venisse a sapere Steve” sorrise per un secondo, la sua espressione era diventata incredibilmente seria.
“Io e…Steve, stiamo cercando una persona, una persona molto importante. Il suo migliore amico” si fermò un secondo, calibrando le parole.
“E’ molto importante che…che venga trovato da noi, prima di altri”
“Altri?”
“Hai mai sentito parlare degli Avengers?”
“No” risposi sinceramente, strappandole un sorriso.
“Io e Steve, siamo Avengers. Gli Avengers hanno nemici, e gli amici degli Avengers sono nemici dei nemici…capisci?”
“No, o meglio, non capisco cosa c’entri con me” Natasha si alzò, si mise il suo cappotto beige e si avvicinò a me.
“Tieni, questo è il numero di Jarvis, una persona fidata. Se noti qualcosa qui a Brooklyn, chiamaci immediatamente, arriveremo subito, okay?”
“Ma…”
“Mi raccomando, e cerca di tenerti fuori dai guai” ammiccò ed uscì velocemente di casa, chiudendosi la porta alle spalle. Rimasi in piedi nel mio soggiorno con il bigliettino ancora in mano. Sarà stato il mal di testa, sarà stata la conversazione assurda, ma ci misi un po’ a riprendermi dai miei pensieri.
“Cosa…cosa è appena successo?” mi passai una mano sul viso e, confusa, andai in camera mia, le parole di Natasha ancora nei miei pensieri.
 
 
Dopo un paio di giorni nei quali la mia mente acuta e penetrante si applicava per giungere inevitabilmente alla conclusione sbagliata, decisi di entrare in azione. Feci un respiro profondo prima di incamminarmi per le strade innevate. Come al solito, non c’era nessuno, sotto la luce dei lampioni si intravedevano fragili fiocchi di neve. Camminai da un vicolo all’altro, senza sosta, senza meta. Mi sentii osservata, seguita.
“Forse non è stata una grande idea…” borbottai, riprendendo la strada di casa a passo veloce. Nel buio della sera, sentivo solo il battito feroce del mio cuore e gli scarponi che affondavano nella neve.
Mi guardai intorno, non c’era nessuno, eppure il mio stomaco si contorceva.
“Tutto ciò è ridicolo, non posso andare avanti così” mi fermai sotto la luce di un lampione.
Alla mia destra c’era un muro di mattoni, alla mia sinistra una fila macchine parcheggiate. C’eravamo solo io e il battito del mio cuore che rimbombava nella mia testa.
Tirai fuori dalla tasca una catenina metallica, due targhette incise tintinnarono. Feci un respiro profondo, alzai una delle due targhette sotto la luce del lampione per leggerne l’incisione.
“James…James Buchanan Barmes? 3255 7038, sergente James Buchanan BaAH!”
Qualcosa mi scagliò contro il muro, togliendomi il fiato. Una mano gelida mi strinse per la gola, boccheggiai disperatamente alla ricerca d’aria. Aprii gli occhi a fatica, la mancanza d’ossigeno mi offuscava la vista, ma riuscii a focalizzare un cappuccio scuro e due occhi furenti, grigi come il mare d’inverno.
“James… Ja…James” la mia voce era roca, sentivo la presa stringersi e i miei sensi affievolirsi. I suoi respiri erano feroci, gli occhi velati dall’ira.
“Bucky?” caddi ai piedi del muro, tossendo e massaggiandomi la gola. I polmoni mi bruciavano per lo sforzo, l’aria mi mancava per i continui colpi di tosse.
“Io n-non… io non…cosa ho…” lo vidi indietreggiare, avevo pochi secondi prima che mi sfuggisse.
“Hey…Bucky? Bucky, resta con me, va tutto b-bene…guarda” mi alzai a fatica, appoggiandomi al muro dietro di me. Lo guardai negli occhi, due occhi completamente diversi da quelli di pochi secondi fa. Ora che aveva indietreggiato, riuscii a vederlo grazie alla luce del lampione. Era un ragazzo, non tanto più grande di me. Aveva lo sguardo terrorizzato, mortificato. La fronte era madida di sudore, il viso sofferente. Gli porsi una mano, piano, lui la guardò.
“Mi chiamo Leyla, puoi fidarti” fece un passo indietro, maledizione. Stava per fuggire, potevo sentirlo, e non volevo assolutamente che ciò accadesse. Mi venne in mente un’idea, provai a infilare una mano in tasca, piano. I suoi occhi seguivano ogni mio movimento, tirai fuori una bustina logora verde e bianca, gliela porsi.
“Ecco, vedi? Siamo amici” lui aprì la bocca per rispondere, ma le sue ginocchia cedettero. Riuscii a prenderlo al volo, a fatica, lo presi sotto braccio. Il suo respiro era veloce, scoordinato, sentivo che faceva fatica a reggersi in piedi.
“Devo essere completamente impazzita…” provai ad incamminarmi, un passo dopo l’altro, solo il suo braccio che tenevo attorno alle mie spalle pesava un quintale. Lo strinsi forte, sentivo che faceva del suo meglio per non pesarmi, e ci incamminammo così, per i vicoli di Brooklyn, sotto la neve.

 

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Capitolo 3
*** Chapter 3 ***


Dormì per molte ore, steso senza sensi sul mio letto. Aveva la febbre alta, e durante il sonno non faceva altro che incubi. I lunghi capelli scuri gli incorniciavano il viso sudato, sofferente. Per ore mi rigiravo il numero di Jarvis fra le dita, indecisa sul da farsi.
“Dove…Chi…”
“Mh?” Alzai lo sguardo dal fogliettino di carta, si era svegliato. Sorrisi sollevata, mi avvicinai piano, prendendo un piccolo asciugamano bianco da sopra il comodino per poi porgerglielo.
“Ben svegliato, come ti senti?” si mise a sedere a fatica, appoggiandosi alla testata del letto. Mi guardò in silenzio per qualche secondo, pensieroso.
“Sono stato io?” chiese con un filo di voce.
“A fare cosa?” corrucciai la fronte, sedendomi sul margine del letto. Lui allungò la mano e mi spostò una ciocca di capelli dietro de spalle, rivelando una porzione del mio collo. Rabbrividii quando le sue dita mi sfiorarono. Capii che stava indicando i lividi che mi aveva lasciato poco prima, nel vicolo. Scossi la testa, sorridendo.
“Non ti preoccupare, capita a tutti di perdere la testa a volte” tirai fuori dalla tasca la catenina con le medagliette.
“Erano queste che volevi, no?” lui le prese titubante, le nostre dita si sfiorarono.
“Sono tue?” chiesi poi, lui accarezzò l’incisione con un dito.
“Erano” risposte, stringendole forte. Annuii.
“Eri un soldato?”
“Un assassino”
Rimasi in silenzio, e lui con me. Teneva lo sguardo basso, malinconico, immerso nei suoi pensieri. Mi alzai piano, gli porsi un sacchetto che avevo lasciato ai piedi del letto.
“Tieni, soldato. Ti ho preso qualcosa per cambiarti, in fondo al corridoio c’è il bagno se vuoi farti la doccia. Io adesso ho il turno di notte, devo andare…torno domani mattina, okay? Ti ho lasciato la cena in cucina, cerca di riposarti” mi guardò confuso, perplesso. Aggrottò la fronte, prendendo titubante il sacchetto.
“A domani” gli dissi, uscendo dalla camera.
“A domani, Leyla”
 
 
Mi stiracchiai assonnata, i raggi del sole erano riusciti a trovare l’angolazione perfetta per attraversare la tenda e puntare direttamente alla mia faccia. Tirai la coperta fin sopra la testa, accovacciandomi sotto il suo calore, pronta ad addormentarmi di nuovo.
“Ma cosa…” mi alzai di scatto, causandomi qualche vertigine. Ero in camera mia, sul mio letto. Quando era successo? Mi stropicciai gli occhi, confusa ed assonnata. L’ultima cosa che ricordavo era di essere tornata dal lavoro la mattina presto e di aver cominciato a fare ricerche al pc su James…
“James?” chiamai, nessuna risposta. Scesi dal letto, in camera non c’era traccia di nessun altro al di fuori di me; che mi fossi sognata tutto quanto?
“Bucky?” nessuna risposta.
Camminai piano verso il soggiorno, attenta a non fare rumore.
Afferrai con la mano lo stipite della porta, il mio stomaco era preda di forti conati di vomito. Provai ad urlare, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono…rimasi paralizzata, l’odore del sangue mi dava le vertigini.
Bucky era in ginocchio, al centro del salotto. Teneva la testa bassa, si guardava le mani, era ricoperto di sangue.
Il tappeto, i muri, il pavimento…tutto era macchiato di rosso, ovunque posassi gli occhi c’erano cadaveri.
Uomini, donne, bambini… erano tutti a terra, privi di vita, ricoperti di sangue, sfigurati.
Il mio cuore batteva così forte che sembrava volermi uscire dal petto, gli occhi mi bruciavano dalle lacrime.
Tremante, feci qualche passo in avanti, senza togliere gli occhi dal soldato.
Non riuscivo a crederci, non potevo crederci…il mio respiro era corto, irregolare, gridai di nuovo, questa volta la mia voce fece eco in tutta la stanza.
A terra, ai piedi del soldato, gli occhi spalancati e privi di vita di una ragazza mi fissavano. I capelli mossi e lunghi ricadevano sul suo esile corpo, piccole ciocche castane le incorniciavano il viso pallido. Un rivolo di sangue usciva dalle labbra socchiuse, rosee e sottili.
“No…nononononoNO!!!”
E’ colpa sua.
Aprii gli occhi di scatto, accecandomi per qualche secondo. Un brivido gelido mi fece tremare, ero ricoperta di sudore. Mi sedetti lentamente, stringendo fra le mani le coperte del mio letto. Sul comodino affianco ad esso, risplendevano sotto la luce del sole due targhette metalliche, le targhette di James. Allungai la mano e le presi, guardandole confusa. Scivolai in silenzio fuori dalle coperte, camminai fino al soggiorno, era identico a come lo avevo lasciato la sera prima. Di Bucky nessuna traccia. Sul tavolo della cucina, il pc era ancora aperto, sullo schermo i vari titoli di giornale sul soldato d’inverno che avevo trovato la sera prima. Mi passai una mano sul viso, ancora scossa. Era solo un sogno… strinsi le medagliette fra le mie mani, portandomele al petto.
“Solo un sogno…” mormorai piano, il cuore batteva ferocemente nel mio petto. Il mio sguardo fu attirato da un pezzo di carta sul tavolo, un numero scritto sopra. Sospirai piano, presi il fogliettino e lo guardai attentamente. Sapevo dove era andato.

 

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Capitolo 4
*** Chapter 4 ***


Dormì per molte ore, steso senza sensi sul mio letto. Aveva la febbre alta, e durante il sonno non faceva altro che incubi. I lunghi capelli scuri gli incorniciavano il viso sudato, sofferente. Per ore mi rigiravo il numero di Jarvis fra le dita, indecisa sul da farsi.
“Dove…Chi…”
“Mh?” Alzai lo sguardo dal fogliettino di carta, si era svegliato. Sorrisi sollevata, mi avvicinai piano, prendendo un piccolo asciugamano bianco da sopra il comodino per poi porgerglielo.
“Ben svegliato, come ti senti?” si mise a sedere a fatica, appoggiandosi alla testata del letto. Mi guardò in silenzio per qualche secondo, pensieroso.
“Sono stato io?” chiese con un filo di voce.
“A fare cosa?” corrucciai la fronte, sedendomi sul margine del letto. Lui allungò la mano e mi spostò una ciocca di capelli dietro de spalle, rivelando una porzione del mio collo. Rabbrividii quando le sue dita mi sfiorarono. Capii che stava indicando i lividi che mi aveva lasciato poco prima, nel vicolo. Scossi la testa, sorridendo.
“Non ti preoccupare, capita a tutti di perdere la testa a volte” tirai fuori dalla tasca la catenina con le medagliette.
“Erano queste che volevi, no?” lui le prese titubante, le nostre dita si sfiorarono.
“Sono tue?” chiesi poi, lui accarezzò l’incisione con un dito.
“Erano” risposte, stringendole forte. Annuii.
“Eri un soldato?”
“Un assassino”
Rimasi in silenzio, e lui con me. Teneva lo sguardo basso, malinconico, immerso nei suoi pensieri. Mi alzai piano, gli porsi un sacchetto che avevo lasciato ai piedi del letto.
“Tieni, soldato. Ti ho preso qualcosa per cambiarti, in fondo al corridoio c’è il bagno se vuoi farti la doccia. Io adesso ho il turno di notte, devo andare…torno domani mattina, okay? Ti ho lasciato la cena in cucina, cerca di riposarti” mi guardò confuso, perplesso. Aggrottò la fronte, prendendo titubante il sacchetto.
“A domani” gli dissi, uscendo dalla camera.
“A domani, Leyla”
 
 
Mi stiracchiai assonnata, i raggi del sole erano riusciti a trovare l’angolazione perfetta per attraversare la tenda e puntare direttamente alla mia faccia. Tirai la coperta fin sopra la testa, accovacciandomi sotto il suo calore, pronta ad addormentarmi di nuovo.
“Ma cosa…” mi alzai di scatto, causandomi qualche vertigine. Ero in camera mia, sul mio letto. Quando era successo? Mi stropicciai gli occhi, confusa ed assonnata. L’ultima cosa che ricordavo era di essere tornata dal lavoro la mattina presto e di aver cominciato a fare ricerche al pc su James…
“James?” chiamai, nessuna risposta. Scesi dal letto, in camera non c’era traccia di nessun altro al di fuori di me; che mi fossi sognata tutto quanto?
“Bucky?” nessuna risposta.
Camminai piano verso il soggiorno, attenta a non fare rumore.
Afferrai con la mano lo stipite della porta, il mio stomaco era preda di forti conati di vomito. Provai ad urlare, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono…rimasi paralizzata, l’odore del sangue mi dava le vertigini.
Bucky era in ginocchio, al centro del salotto. Teneva la testa bassa, si guardava le mani, era ricoperto di sangue.
Il tappeto, i muri, il pavimento…tutto era macchiato di rosso, ovunque posassi gli occhi c’erano cadaveri.
Uomini, donne, bambini… erano tutti a terra, privi di vita, ricoperti di sangue, sfigurati.
Il mio cuore batteva così forte che sembrava volermi uscire dal petto, gli occhi mi bruciavano dalle lacrime.
Tremante, feci qualche passo in avanti, senza togliere gli occhi dal soldato.
Non riuscivo a crederci, non potevo crederci…il mio respiro era corto, irregolare, gridai di nuovo, questa volta la mia voce fece eco in tutta la stanza.
A terra, ai piedi del soldato, gli occhi spalancati e privi di vita di una ragazza mi fissavano. I capelli mossi e lunghi ricadevano sul suo esile corpo, piccole ciocche castane le incorniciavano il viso pallido. Un rivolo di sangue usciva dalle labbra socchiuse, rosee e sottili.
“No…NO!!!”
E’ colpa sua.
Aprii gli occhi di scatto, accecandomi per qualche secondo. Un brivido gelido mi fece tremare, ero ricoperta di sudore. Mi sedetti lentamente, stringendo fra le mani le coperte del mio letto. Sul comodino affianco ad esso, risplendevano sotto la luce del sole due targhette metalliche, le targhette di James. Allungai la mano e le presi, guardandole confusa. Scivolai in silenzio fuori dalle coperte, camminai fino al soggiorno, era identico a come lo avevo lasciato la sera prima. Di Bucky nessuna traccia. Sul tavolo della cucina, il pc era ancora aperto, sullo schermo i vari titoli di giornale sul soldato d’inverno che avevo trovato la sera prima. Mi passai una mano sul viso, ancora scossa. Era solo un sogno… strinsi le medagliette fra le mie mani, portandomele al petto.
“Solo un sogno…” mormorai piano, il cuore batteva ferocemente nel mio petto. Il mio sguardo fu attirato da un pezzo di carta sul tavolo, un numero scritto sopra. Sospirai piano, presi il fogliettino e lo guardai attentamente. Sapevo dove era andato.
 
 
 
 
“Jarvis, c’è un barbone nel mio salotto” Stark fece tintinnare i cubetti di ghiaccio del suo drink, fissando di sbieco il suo nuovo ospite. Ignorò l’occhiataccia di Steve Rogers, troppo preoccupato per rispondergli.
Bucky Barnes era seduto su di un lussuoso divano rosso, gli occhi spenti puntati sul pavimento. Teneva le spalle ricurve, le braccia appoggiate alle gambe, i ciuffi di capelli corvini gli ricadevano sul viso serio.
Un randagio raccolto dalla strada, questo era Bucky Barnes.
Steve era in piedi affianco a lui, le braccia incrociate al petto e quello sguardo costantemente preoccupato che tanto faceva innervosire il genio e filantropo Tony Stark. Tony sospirò rumorosamente, finendo in un sol sorso il suo drink.
“Jarvis, manda il nuovo fossile al check. Controlliamo gli organi interni, parametri vitali, l’arma di distruzione di massa che gli hanno attaccato al busto e…un’antitetanica”  una voce robotica ma gentile rispose, indicando la strada da seguire al soldato.
“Benvenuto alla Torre Stark, signor Barnes.”

 

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