Negli occhi degli amanti

di Tenar80
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


«Ti ha chiesto di togliergli un guanto con i denti. È evidente che vuole la tua lingua nella sua bocca».

    Con le parole di Martha ancora nelle orecchie, Otabek ritirò il proprio passaporto, preparandosi a uscire nell’area Arrivi dell’aeroporto di San Pietroburgo.

    Maglione grigio, giacca a vento, jeans neri e scarpe in tinta, era tutto ok. Tanto per cambiare lo avevano scambiato per un potenziale delinquente e si era beccato di nuovo la perquisizione, colpa forse della scritta “atleta” alla voce “professione” del documento d’identità che agli occhi delle autorità russe suonava fasulla in relazione al suo fisico. Se non altro, fermandosi solo due notti non aveva la necessità di recuperare il bagaglio, quello che gli serviva stava tutto nello zainetto. 

    Prese un respiro e distese le mani. Due notti, due sere, ma una gara di mezzo. Poteva farcela. E poi lo avrebbe trovato di buon umore. Era riuscito a sbirciare il cellulare. Ai campionati di Russia, nel programma corto che si era disputato quella mattina, Yuri si era classificato primo, davanti a Popovic. Victor era addirittura terzo. Doveva per forza essere di buon umore.

    Aggrappandosi a questo pensiero varcò le porte scorrevoli.

 

    Eccolo. Prima ancora dei capelli biondi Otabek notò la felpa rossa con un leone dorato sul petto che faceva capolino dalla giacca a vento aperta. Bisognava che facesse qualcosa per il suo abbigliamento. In fretta.

    – Ehi! Sono qui!

    – Ti ho visto. Non passi esattamente inosservato.

    Otabek fu sollevato dalla scelta del saluto dalle braccia del russo che gli si attaccarono al collo stile bradipo. Il kazako adorava il fatto che per farlo Yuri dovesse alzarsi sulle punte dei piedi. Lui non era proprio una stanga e non era una cosa che gli capitasse spesso. Doveva godersi il momento, dato che Yuri, a quindici anni, stava di certo ancora crescendo.

    – Allora, pronto a essere incoronato Zar di Tutte le Russie? – disse, quando si separarono.

    Per un istante i loro visi erano stati vicinissimi, ma c’era davvero troppa gente, gente russa oltre tutto, per nulla accomodante su certe questioni, per dare in quel momento l’assalto alle labbra del ragazzo. Quelle stesse labbra che, appena Otabek ebbe finito di parlare, si incurvarono in una smorfia tra l’imbarazzato e il disgustato.

    – Hai visto i punteggi?

    – Sono a terra da dieci minuti e otto li ho impegnati a svestirmi e rivestirmi davanti a un poliziotto. Ho appena guardato i risultati – sospirò Otabek.

    Doveva aspettarselo, per Yuri il pattinaggio veniva prima di qualsiasi altra cosa.

    – Meglio così. Devi assolutamente fare una cosa per me – il ragazzo si guardò intorno, mordendosi il labbro inferiore, poi il suo sguardo si fermò su qualcosa. – Al diavolo Lilia e la sua dieta. Hamburger?

    – Sono le quattro e mezza di pomeriggio… Merenda?

    – Pranzo.

    – Andiamo.

    La verità era che Otabek avrebbe detto sì a qualsiasi proposta. Con gli occhi verdi e enormi di Yuri che lo fissavano si sarebbe messo anche un diadema di piume rosa in testa.

    – Cos’è che devo fare? – chiese, quando si furono seduti al fast food dell’aeroporto.

    – Controllare se Victor è davvero morto, ucciso da un’indigestione di maialino giapponese.

    Otabek si permise di sogghignare.

    – È andato così male?

    Era quasi commovente il modo in cui Yuri teneva a quelle poche persone che in qualche modo avevano scalfito la sua armatura di aggressività. Dal canto suo il kazako, però, gareggiava nei senior da un tempo sufficiente da considerare Victor una meravigliosa spina infilata in qualche posizione dannatamente scomoda da raggiungere. Non aveva stappato champagne alla notizia del suo ritiro temporaneo, ma non ci trovava nulla di male nell’augurargli di godersi la vita a fianco del suo ragazzo il più lontano possibile dalle competizioni.

    – Facciamo così – disse Yuri. – Ti faccio vedere il video della sua esibizione e tu calcoli il punteggio. Lo sai fare, vero?

    Otabek lo guardò male.

    – Sono iscritto all’università. Matematica.

    Yuri prese la propria coca cola e iniziò a mordicchiarne la cannuccia come un cucciolo nervoso e passò il proprio cellulare al kazako. Dal canto suo, Otabek sarebbe stato assai più volentieri a osservare il proprio interlocutore, piuttosto che quella che si prospettava come la caduta di un dio. Ma era evidente che per Yuri il suo giudizio era importante.

    Fece partire il video. Il costume, blu e argento, lo aveva già visto, ma non dal vivo. Victor, decidendo di tornare alle competizioni a metà stagione, doveva aver rispolverato dei vecchi pezzi. Non quelli più famosi, però, come ci si sarebbe aspettato, ma roba di dieci anni prima o quasi. La musica iniziò, appena intuibile nel chiacchiericcio del fast food. Victor era Victor, maledizione a lui. Era stato fermo nove mesi e non aveva perso un grammo di fluidità ed eleganza. 

    Otabek arrivò in fondo e poi fece ripartire. Diligente, Yuri gli aveva avvicinato un foglio e una penna per segnare i punteggi.

    Non era la caduta di un dio. Era, senza ombra di dubbio, una bella esibizione. Non la più tecnica che gli avesse visto fare, c’era solo un quadruplo, per quanto impeccabile, e c’era stata una sbavatura in una combinazione. Se l’avesse presentata, eseguita così, alla finale del Grand Prix, il mese precedente, non avrebbe certo insidiato il record di Yuri e forse sarebbe persino arrivato dopo di lui. Era comunque un’esibizione da vertici mondiali. E dire che l’anno prima, ai Mondiali, per quanto sul gradino più alto del podio, Victor gli era sembrato così spento che Otabek aveva avuto la netta sensazione di aver assistito al canto del cigno di un atleta finito.

    – Fatto? – chiese Yuri, impaziente.

    – Quasi.

    Meglio rivedere la stima al ribasso. Se saltava fuori che aveva concesso a Victor più dei giudici era la volta che Yuri gli staccava una mano a morsi. Abbassò di un punto.

    – 104.80 – annunciò.

    Il viso del russo era indecifrabile. Perché era così importante?

    – Tu quanto hai fatto? – chiese, per tastare il terreno.

    – 106.30. Ho fatto un casino su una trottola, imbarazzante.

    – Eh, immagino – sorrise Otabek.

    Con un movimento casuale, allungò la propria mano per metterla accanto a quella di Yuri, appoggiata sul tavolino. Non si imponeva, ma rimaneva a disposizione.

    – Che miracolo ha fatto Georgi per arrivare secondo? – chiese.

    Georgi Popovic, povera creatura che viveva da sempre all’ombra di Victor, di solito faticava a superare i cento punti.

    – 102.60

    – Eh? Che punteggio ha preso Victor? Non posso aver sbagliato così tanto i calcoli.

    – 99.40. Gli hanno dato pochissimo di artistico, oltre che massacrare la combinazione – Il tono del ragazzo aveva il suono della desolazione. – L’esibizione non è piaciuta.

    D’istinto, Otabek ritrasse la mano, mentre la sua mente assimilava le implicazioni.

    – Non è piaciuto l’anello che ha al dito, vuoi dire, e il fatto che glielo abbia infilato un uomo.

    – Te l’ho detto. È morto per indigestione di maialino giapponese – replicò Yuri, amaro.

    – No. Lo vogliono uccidere per aver assaggiato il maialino – rettificò Otabek.

    Già l’hamburger gli faceva schifo. Ora di sicuro non l’avrebbe digerito. All’inferno Martha e tutte le aspettative che gli aveva cacciato in testa.

    – Come l’hanno presa Victor e il vostro allenatore? 

    Mentre formulava la domanda, Otabek realizzò che era in casa di quell’allenatore che avrebbe dovuto dormire nelle famose due notti. 

    Yuri si strinse nelle spalle.

    – Non lo so. Sono scappato appena è stato possibile. Ti ho aspettato per più di un’ora… Che cosa stupida, però, incasinarsi così la vita per una scopata.

    – Da quello che hanno detto a Barcellona è un po’ più di una scopata – replicò Otabek, con dolcezza.

    Mentalmente stava sussurrando alla propria lingua di dimenticarsi di poter esplorare in serata la bocca di Yuri. Le cose non stavano girando bene. Per niente.

    Il ragazzo, infatti, gettò uno sguardo sconsolato alle patatine che aveva preso solo per lasciarle raffreddare nel loro cartone.

    – Tu dici? Più invecchio e più penso che l’amore sia la più grande fregatura che abbiano cercato di venderci. Non ho mai conosciuto nessuno che ci abbia guadagnato qualcosa.

    – Eh già, uomo vissuto. Ricordami un po’, quando compi sedici anni?

    Forse non lo avrebbe baciato neppure il giorno successivo.

    – Tra due mesi.

    – Un vegliardo, proprio.

    – Perché tu, uomo di mondo, ci hai mai guadagnato qualcosa?

    – Qualche bella scopata, anche se non credo fosse propriamente amore, quello – rispose Otabek, sincero. 

     E anche un’ossessione per i ragazzi biondi con i capelli un po’ lunghi e il pessimo abbigliamento, aggiunse mentalmente.

    – Per il galà dobbiamo modificare l’esibizione – sospirò Yuri la cui mente era già tornata al pattinaggio.

    – Niente guanto tolto con i denti – precisò Otabek. Scosse la testa con finta noncuranza. – Meglio. Non sono sicuro di riuscire a rifarlo. Avrei finito per staccarti un dito a morsi.

    – Yakov mi avrà mandato venti messaggi per essere sicuro che non mi dimenticassi di dirtelo. Come se avesse a che fare con le cose schifose di quei due, poi. Era solo un guanto. E l’effetto mi piaceva da matti.

    L’effetto era stato conturbante ai limiti del lecito, secondo il giudizio del kazako. Dopo aver rivisto il video dell’esibizione aveva provveduto a fornirne alla famiglia una versione censurata. Anche così, a detta di sua madre, quel ragazzetto russo sembrava un po’ svergognato. Lo svergognato, però, sembrava non rendersene per niente conto e ora stava raccogliendo con le dita le briciole del proprio panino, senza accorgersi del desiderio che aveva l’altro di afferragli la mano e leccargli le falangi.

    – È venuto anche Yuuri a vedere la gara? – chiese, per cambiare argomento.

    – Emmenomale! È arrivato ieri. Victor stava iniziando a comportarsi come una ragazzina isterica. Terribile. E adesso il suo malumore se lo cucca lui.

    Otabek sorrise.

    – Cos’hanno intenzione di fare quei due?

    – A parte scopare? – replicò Yuri con una smorfia di disgusto.

    – Per il pattinaggio. Se Victor vuole continuare a farsi seguire da Yakov e allo stesso tempo allenare Yuuri, lui che fa? Si trasferisce qua?

    In questo bel clima accogliente?

    – E io che ne so? Ovvio che Victor continua con Yakov, con chi altro potrebbe allenarsi?

    – Mah, c’è gente che ha cambiato allenatore ed è sopravvissuta, sai? Io ad esempio.

    – Non se hai Yakov.

    Otabek non replicò. L’allenatore russo in realtà lo terrorizzava e ricordava i pochi giorni di stage  fatti sotto la sua guida alcuni anni prima come un incubo. In effetti, Yakov terrorizzava tutto il mondo del pattinaggio, con la sola eccezione dei suoi allievi. Yuri ci viveva addirittura in casa e lo aveva visto rispondere a un suo messaggio con l’emoticon di una linguaccia. Se non era coraggio quello…

    – E quindi Yuuri non ha molta scelta – concluse Otabek.

    Scosse il capo. Si chiese con quanta coscienza del futuro quei due avessero annunciato il loro fidanzamento, il mese precedente. Erano stati teneri e coraggiosi, a modo loro, ma del tutto folli. E la cosa non sarebbe stata un problema suo, anzi, se si distruggevano come atleti erano due grossi problemi in meno, se non che lui si trovava ad attentare alla virtù di un ragazzetto terrorizzato dall’amore che aveva, guarda caso, proprio in uno di quei due pazzi uno dei suoi pochi modelli di riferimento. Veder naufragare la storia di Victor e Yuuri tra omofobia e problemi pratici di sicuro non avrebbe avvicinato le labbra di Yuri alle sue. Sperò almeno che non si lasciassero proprio in quei due giorni.

    

*


    Victor pregò, ancora una volta, che l’ibuprofene si degnasse di fare effetto e lo graziasse almeno del mal di testa scatenato dalla rabbia. Non poteva evitare di essere furioso, ma non voleva rovinarsi del tutto il poco tempo che poteva passare con Yuuri.

 

    – È che non ci sei abituato – aveva riassunto Yakov, serafico, quando era diventato evidente quello che era accaduto.

    – A cosa? – aveva sibilato.

    – A non piacere.

    Lui aveva avuto la tentazione di rispondere con qualcosa di tagliente, ma il vecchio allenatore, che lo aveva riaccolto senza una parola di biasimo, o, meglio, senza una parola che lui si fosse soffermato ad ascoltare, non meritava il suo malumore.

    – Non sono più conforme ai Sacri Valori della Patria, eh? – aveva replicato, gettando uno sguardo all’anello d’oro sulla propria mano sinistra.

    Era quello e nessun altro l’elemento della coreografia che proprio non era piaciuto. E dire che si era impegnato, impegnato davvero, per tenere il più basso profilo possibile. Quella mattina Yuuri era rimasto tra il pubblico, affidato a Dimitri, il vice di Yakov, mentre lui posava per le foto di rito e eludeva le domande personali.

    – Che cosa ti aspettavi? Molla il ragazzo o fattene una ragione.

    Yakov, se non altro, era sempre lo stesso.

    – Devo farmi massacrare in silenzio, secondo te? 

    – Ma io con chi sto parlando? Con un idiota totale? – aveva sbraitato l’allenatore. – Certo che sì, in caso contrario non saremmo qui a parlarne. Questo è quello con cui dobbiamo fare i conti. Scarica il tuo giapponesino tremebondo o fai in modo, domenica mattina, di metterli tutti a tacere.

    Le urla di Yakov, in qualche modo, scaldavano il cuore. Quel suo modo di dare per scontato che lui ce l’avrebbe fatta sempre, che sarebbe riuscito in qualche modo a rimanere ancora il più grande di tutti, lo aveva quasi distrutto. Eppure, adesso, era infinitamente rassicurante ritrovare quella stessa granitica fiducia nelle sue possibilità. 

    – Qualcosa mi inventerò – aveva risposto.

    – Meglio. Però, per Carità di Dio o di quello che è, non fare di testa tua. Avvisami, quando ti viene l’idea, ok?

    Victor fece una smorfia.

    – E quando mai non ti ho avvisato?

    – Chiamami, a qualsiasi ora. Che non ti veda domenica fare qualche idiozia per cui io poi devo giustificarti con la stampa. Me lo devi.

    

    Glielo doveva. Ma neppure aveva idea di cosa fare. Alzare il livello tecnico del programma libero? Con tre settimane scarse di preparazione alle spalle? Era la volta che ne usciva in barella. Cambiare coreografia in toto? Non sapeva neppure se il regolamento glielo permettesse. E comunque i costumi quelli erano e quelli sarebbero rimasti. Cambiare in parte una coreografia che già funzionava? Pagare un sicario per uccidere qualche giudice?

    Si prese con due dita la radice del naso e poi alzò gli occhi al soffitto affrescato alla ricerca di uno sguardo di sostegno da parte delle dee, o delle eroine o di chiunque fossero le figure ritratte. Si rendeva conto di non essere per niente di compagnia. Aveva recuperato Yuuri quasi si trattasse di un pacco e aveva lasciato il palazzetto dove si svolgevano i Campionati di Russia il prima possibile. Il fatto di non avere più l’auto aveva probabilmente salvato la vita a qualche pedone temerario e il suo portafoglio da una multa epocale per eccesso di velocità. Doveva aver gelato ogni tentativo di conversazione e di consolazione da parte del suo compagno… Quando quella parola si infilò nei suo pensieri sospirò. Un sospiro diverso da quelli precedenti, di sollievo più che di rassegnazione, e quasi subito sentì i muscoli contratti che un poco si rilassavano e persino il mal di testa allentare la presa. 

    Yuuri… Il giapponese aveva accettato con un sorriso e una carezza appena accennata sulla mano il suo desiderio di leccarsi le ferite in silenzio. Ma del resto quello era il suo tocco. Non asfissiava, non si imponeva quasi mai e, quando lo faceva era sempre per mettere lui al primo posto. La sera precedente, chissà se si era reso conto, Yuuri, che le sue mani avevano tremato nell’infilare le chiavi nella toppa della porta del proprio appartamento. Non erano state molte le persone che avevano avuto il privilegio di entrare in quel bilocale, ma era la prima volta che con quell’atto stava davvero aprendo la propria anima. Si era scoperto terrorizzato da ciò che Yuuri poteva trovarci e da come vi avrebbe reagito. 

    Chissà se se ne rendeva conto, Yuuri, che adesso, nel più grande museo di Russia, era lui l’unica opera d’arte che Victor stesse ammirando? Il giapponese stava guardando con fare assorto un piccolo cammeo in cui erano ritratti i volti non troppo eleganti di chissà chi di famoso del passato. Lui invece, con luce proveniente dalla vetrinetta che gli rifletteva in faccia, sembrava avere un viso fatto d’avorio, lo strano, etereo volto di qualche spirito orientale.

    Doveva recuperare. Sapeva quanto Yuuri avesse desiderato visitare l’Hermitage. Aveva espresso quel desiderio con la sua particolare espressione sognante che Victor trovava irresistibile. E adesso, di fatto, stava attraversando le gallerie in silenzio, accompagnato da un fantasma.

    Prima che potesse avvicinarglisi, però, un vociare concitato attirò l’attenzione di entrambi. Un istante dopo un gruppone di turisti giapponesi si riversò nella stanza. I due atleti furono circondati, degnati di un’occhiata veloce, Yuuri mormorò qualche parola di saluto e poi l’onda d’invasione, com’era arrivata, se ne andò. Mentre il gruppo usciva dalla stanza, senza esserselo proposto, Victor visualizzò una versione differente dell’accaduto. I turisti che arrivavano, loro che si scostavano per non esserne investiti, poi un paio di giapponesi riconosceva Yuuri. Gli si accalcavano tutti intorno, chiedendo foto, dilungandosi in complimenti per le sue vittorie nella loro cantilenante lingua. Yuuri arrossiva leggermente e poi si prestava, pur con quel suo fare reticente, ad esaudire le loro richieste, mentre Victor si faceva da parte, cercando di rendersi invisibile, come invece aveva dovuto fare Yuuri quella mattina.

    – Cos’è che ti fa sorridere? – gli chiese Yuuri, avvicinandosi.

    – Una visione del futuro. E non vedo l’ora che si realizzi – rispose Victor e scoprì in quelle parole più sincerità di quanta non se ne aspettasse. – Vieni, la sala di Leonardo da Vinci non sarà accessibile per un po’, voglio farti vedere la mia opera d’arte preferita.

    – Non sapevo che ne avessi una.

    Victor esagerò una smorfia offesa.

    – Non sono uno zotico totale – disse, portandosi le mani ai fianchi.

    – Disse quello che non conosceva Picasso.

    – Non fare il bulletto con me, Yuuri Kastuki, solo perché hai marinato qualche allenamento con la scusa dello studio.

    – Da quando in qua una laurea è diventata “una scusa”?

    Victor sbuffò. Pur avendo un atteggiamento a prima vista remissivo, Yuuri aveva un caratterino niente male. E era quasi impossibile avere l’ultima parola.

    – Va bene, ero uno zotico totale quando sono arrivato a San Pietroburgo, ma Lilia ha quanto meno tentato di darmi una cultura. E mi ha portato all’Hermitage. E, sì, persino io ho un’opera d’arte preferita, anche se i quadri continuo a non capirli e Picasso, ora che so chi è, mi sembra uno con gravi problemi di vista.

    Con fare deciso afferrò Yuuri per un polso, estrasse la cartina del museo con l’altra mano e sperò di prendere la svolta giusta per raggiungere ciò che voleva fargli vedere.

 

    Sbagliò strada solo un paio di volte, poi individuò la lunga stanza dalle decorazioni dorate, al termine della quale, su un improbabile basamento verde, si trovava la statua che stava cercando.

    – Eccola qui.

    Rappresentava un giovane uomo ricciuto in posizione accovacciata, completamente nudo, intento a massaggiarsi un piede.

    – Non sapevo che ci fosse un Michelangelo, qui all’Hermitage – mormorò Yuuri, ammirato.

    – Ricordo che sul volantino che ho letto, la prima volta che sono venuto qui, c’era scritto che si sta togliendo una spina, ma io ho pensato subito che si trattasse di uno di noi, che si sta massaggiando il piede dopo un allenamento… Ho trovato a suo modo dolce che un artista volesse ritrarre uno sportivo non nella pienezza del gesto atletico, ma in un momento di dolore privato e che questo potesse risultare così bello.

    Yuuri gli si era fatto più vicino e gli sfiorò appena la mano, senza prenderla.

    – Se fosse un pattinatore, gli diresti di mettersi a dieta. Ma capisco perché la statua ti abbia tanto colpito.

    Arrossì, come se avesse detto chissà quale sconcezza.

    – Mah, sembrano più muscoli che grasso, magari fa pattinaggio di coppia e ne ha bisogno – lo difese Victor.

    – Certo… Mi ricorderò di questa statua, la prossima volta che mi chiamerai “maialino” – replicò Yuuri, poi gli sorrise. – Grazie di avermi portato qui.

    – Grazie a te di essere qui… Senza di te non sarebbe stato un bel pomeriggio… Avrei rischiato di fare qualche sciocchezza. Ho il drammatico sospetto di aver bisogno di te.

    Aveva mascherato la serietà della frase con una smorfia melodrammatica, ma questo non la rendeva meno vera.

    – Anch’io ho bisogno di te. Ma il Giappone non è dietro l’angolo. Ci sono decisioni che non possiamo rimandare – disse Yuuri.

    – Lo so. Ma rimandiamole almeno a dopo aver mangiato qualcosa.

    

 

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Capitolo 2
*** Capitolo2 ***


Yuuri sorseggiava il proprio the, spiando da sopra la tazza Victor, intento a leggere un menù per lui incomprensibile. Fuori dall’ampia vetrata, la notte precoce e aggressiva di San Pietroburgo aveva già divorato la Neva, appena intuibile nei riflessi dei lampioni. C’era qualcosa di oppressivo in quell’oscurità gelida così ingombrante dell’inverno russo. Yuuri non era sicuro di riuscirne a venire a patti. Ammesso che Victor glielo chiedesse davvero, di venire a vivere a San Pietroburgo.

    Il pattinatore aveva cercato di partire dal Giappone privo di qualsiasi aspettativa, aperto a ogni possibilità. Minako, con quel suo modo quasi brutale di guardare la realtà, aveva messo le cose in chiaro.

    «Forse per lui il Giappone è stata una sorta di vacanza» aveva detto. «Una parentesi piacevole, ma pur sempre una parentesi. Non si può dire che tu lo conosca davvero».

    Aveva ragione. Yuuri amava Victor, ma non lo conosceva. A parte che per ciò che riguardava il pattinaggio, le cose che sapeva di lui potevano stare nella manciata di un bambino. Sapeva che se si trattava di stare a mollo o sotto il getto di acqua calda perdeva la cognizione del tempo. Sapeva che poteva entusiasmarsi per ogni sciocchezze e che non andava lasciato solo in un negozio di souvenir. Sapeva che era abbonato a più di una rivista di moda. Sapeva che se mangiava il gelato ne offriva anche al proprio cane, evitando di prenderlo al cioccolato per paura che gli facesse male. Sapeva che a volte nel sonno tremava e poi si svegliava di soprassalto, guardandosi intorno con occhi spaesati. Sapeva che il giorno del proprio compleanno, il giorno di Natale, aveva ricevuto messaggi d’auguri da mezzo mondo, ma neppure una telefonata.

    Victor era tornato in Russia il 28 dicembre e in quei quindici giorni Yuuri gli aveva inviato le riprese dei propri allenamenti, che tornavano indietro corredate di commenti tecnici. C’erano state videochiamate e migliaia di messaggini, naturalmente, ma il giapponese era salito sull’aereo che lo avrebbe portato a San Pietroburgo sentendo si non sapere davvero che cosa avessero significato quei giorni per Victor. Aveva cercato di mettere in conto il fatto che qualcuno o qualcuna si fosse nuovamente insinuato nella sua vita, aveva cercato di accettare la possibilità di essere stato dimenticato. Persino quando aveva visto il suo braccio alzato, sul ponte, in quella luce strana, che sembrava quella dell’alba e invece era del mezzogiorno, non si era fidato del tutto del suo sorriso. Forse neppure adesso, mentre Victor ordinava per entrambi chissà cosa, si fidava davvero di occupare il posto giusto.

    Rimase in silenzio mentre la cameriera scambiava con Victor qualche battuta e poi lui si prestava a un selfie sorridente insieme alla ragazza.

    – Non penso sappia che questa mattina sono arrivato solo terzo – commentò, appena lei si fu allontanata.

    – Sei davvero famosissimo qui in Russia – constatò Yuuri.

    Che fosse una celebrità mondiale a livello di pattinaggio era ovvio. Aveva posato per un buon numero di pubblicità internazionali e quindi era un volto conosciuto. Che la gente lo fermasse per una foto, però, Yuuri non l’aveva messo in conto.

    Victor fece una smorfia.

    – È un effetto collaterale delle vittorie, pare – disse. – Comunque destinato a finire.

    – Domani vincerai! Non possono darti ancora un punteggio così basso di artistico!

    – Anche tralasciando quello, lo azzoppi tu Yurio per me?

    – Non ce n’è alcun bisogno! – esclamò Yuuri, indignato.

    Gli piaceva moltissimo lo stile del ragazzo, per non parlare della sua mostruosa bravura, ma Victor era ancora un altro pianeta… Ancora… Per la prima volta Yuuri si domandò per quanto. Yurio non aveva ancora sedici anni e Victor aveva già compiuto i ventotto…

    – Allora, ti piace la mia città? – chiese il russo, forse per cambiare discorso.

    – È buia – disse Yuuri, d’istinto, poi pensò che forse non era la risposta che Victor si era aspettato. – È molto bella. Mette quasi soggezione.

    L’altro sorrise, annuendo.

    – Sì. Ha fatto anche a me lo stesso effetto, all’inizio. Una vecchia signora arcigna fatta di pietra… Lilia formato città.

    Yuuri rise a quel commento, mentre la cameriera tornava con delle zuppe a prima vista non così diverse da certi ramen.

    – Ci abiti da quando ti allena Yakov, giusto? – chiese.

    – Sì, da quando avevo tredici anni.

    – Io non sarei riuscito ad andarmene da casa a quell’età – mormorò Yuuri.

    Victor non replicò. Il vapore della zuppa si intravedeva davanti al suo viso, che aveva assunto quella particolare espressione malinconica, con una sorta di mezzo sorriso triste, che a volte accompagnava i silenzi dell’atleta.

    – Perché l’hai fatto, andartene dal Giappone? – chiese Victor. – Ho scovato alcuni video di quando eri juniores… 

    – Hai cercato dei video di quando ero juniores?

    – Mi sono annoiato parecchio in questi giorni. Ad allenarsi e dormire non si occupano comunque ventiquattr’ore – rispose Victor, il cui sorriso adesso era diventato sornione. – Eri notevole. Perché andare fino a Detroit?

    – Perché l’uomo che mi aveva allenato fino ad allora è morto – disse Yuuri. – Un incidente d’auto… A volte penso che quel giorno si sia rotto qualcosa per sempre in tutti noi.

    Si bloccò. Di colpo pensò a quelle telefonate non arrivate. Era puerile raccontare di quel lutto, quando forse chi aveva davanti ne aveva vissuti di ben altri. Eppure, in quel momento, gli sembrò che il proprio dolore fosse la cosa migliore che avesse da offrigli.

    – Non voglio neppure immaginare cosa sarebbe stato di me se fosse accaduto qualcosa a Yakov – mormorò Victor, piano, senza deridere la sua sofferenza.

    Yuuri annuì. Forse, tra tutti, Victor poteva capirla. All’epoca ne aveva parlato con una compagna di scuola. Ma chi non praticava sul serio uno sport individuale non poteva capire cosa fosse un allenatore, più di un maestro o di un famigliare, un tetto al riparo del quale dare forma alla propria vita.

    – Ognuno ha reagito a modo suo – raccontò. – Non ci eravamo mai accorti che Minako avesse una storia con lui, o forse non l’aveva, non ancora. È da allora che ha iniziato a bere… Yuko ha mollato l’agonismo e si è voluta sposare subito. Non voleva trovarsi alla fine della propria vita a scoprire di averla trascorsa in un’eterna attesa, ha detto. In breve, del gruppo che allenava sono rimasto solo io. E mi sembrava di doverglielo, a provarci fino in fondo col pattinaggio, che almeno uno di noi dovesse onorare la sua memoria in quel modo. In Giappone, però, non c’era nessuno che non finissi per paragonare a lui e quindi, quando si è presentata l’occasione, ho cercato qualcosa del tutto diverso.

    – Com’è tipico di te, Yuuri, questo modo di fare… – sospirò Victor, scuotendo piano il capo. 

    – Vitya! È stata un’estenuante caccia all’uomo, ma finalmente ti ho scovato!

    Yuuri sobbalzò, preso alla sprovvista dalla voce femminile squillante e aggressiva che aveva parlato in inglese con un forte accento russo. 

    Dietro di lui c’era una giovane alta, almeno qualche centimetro più di lui, con il fisico tonico e asciutto delle sportive. Portava i capelli castani legati in una coda e aveva impressionanti occhi turchini nel viso affilato. Yuuri l’aveva già vista. Il giorno prima, in un cartellone pubblicitario all’aeroporto, ritratta insieme a Victor a favore di un marchio di abbigliamento sportivo a cui non aveva fatto caso.

    – Non mi presenti al tuo… Allievo, Vitya? – chiese, posando una mano dalle unghie fucsia sulla spalla del pattinatore russo.

    Se non fosse stato per il disagio che quella posa possessiva gli procurava, Yuuri si sarebbe goduto l’espressione di totale imbarazzo di Victor.

    – Yuuri, ti presento Ludmilla Sopronova, due ori olimpici nel salto con l’asta, un numero imprecisato di titoli mondiali tra esterno e indoor, un paio di onorificenze nazionali, mia partner in qualche campagna pubblicitaria e, mi auguro, la donna più rapida del mondo nello spiegarci cosa ci fa qui in questo momento – ringhiò il russo.

    Lei rise, poi con rapidità degna della grande atleta che era, si abbassò fino ad avere il viso all’altezza di quello di Victor, estrasse il cellulare e scattò un selfie. Un battito di ciglia dopo stava già valutando lo scatto con sguardo critico, prima di diffonderlo sui social.

    – Salvo il culo a entrambi, come sempre – disse. – Ah, Yuuri, grazie per quella foto su istagram con i gatti del museo. Sarebbe stato un casino trovarvi, senza.

    Victor, intanto, si era alzato, afferrando il polso di Ludmilla con un gesto del tutto diverso da quello che aveva usato, neppure un’ora prima, per condurlo fino alla statua di Michelangelo.

    – Yuuri, perdonaci, torno subito – disse, gelido, mentre già stava conducendo Ludmilla fuori dalla sala ristorante del museo.

    Il giapponese rimase seduto, seguendoli con lo sguardo. Vide Victor condurre Ludmilla nell’atrio, mettersi di fronte a lei, con una mano appoggiata al muro, in una posa che da lontano poteva apparire affettuosa. Li osservò parlare a bassa voce. Victor rovesciò indietro la testa in una breve risata, in un movimento abituale, ma Yuuri da dov’era vedeva i suoi occhi chiari, tutt’altro che divertiti. Facevano quasi paura. Il giovane sapeva che l’anno precedente Victor aveva fatto coppia per un periodo con una famosa atleta russa e adesso si chiese perché in dieci mesi non gli avesse mai sentito pronunciare il nome di Ludmilla e quanto male fosse finita la storia con lei. Si portò alle labbra un cucchiaio di zuppa. Aveva un aspetto che assomigliava a certi ramen, ma il sapore gli risultò del tutto nuovo, irrimediabilmente sgradevole.

 

*
   

    Arrivato sulla soglia della casa, Otabek si bloccò.

    – Mi fa impressione – confessò.

    – Cosa? – chiese Yuri, guardando perplesso l’androne    del palazzo signorile.

    – La casa di Yakov.

    – A dire il vero è la casa di Lilia, la ex moglie, anche se non ho mica capito cosa combinano quei due, adesso. Una volta mi sa che li ho beccati a baciarsi.

    Yuri finse di vomitare, a sottolineare quello che pensava della scena a cui, forse, aveva assistito.

    – Grazie tante. Per noi che non siamo dei del pattinaggio russo è come entrare in tempio. Sempre con la paura che un fulmine ci colpisca per indegnità.

    Il ragazzo biondo lo guardò perplesso.

    – E quindi io sarei che cosa, il dio?

    – Mi pare evidente, il giovane dio capriccioso del pattinaggio, con Yakov come grande sacerdote.

    – Ma quanto sei scemo – replicò Yuri, affibbiandogli un pugno giocoso sullo sterno.

    Otabek scosse il capo. Niente da fare. Poteva fare a Yuri qualsiasi tipo di complimento. Tanto quello non coglieva. Prese un respiro e superò il portone, sperando davvero che nessun fulmine gli cadesse in testa.

    – Non ci sono, Yakov e Lilia? – chiese.

    Poteva sperare di rimanere solo con Yuri per un po’?

    – Lilia è via con il balletto, Yakov tornerà, suppongo.

    Ecco, sapere che il vecchio allenatore poteva rientrare da un momento all’altro era una cosa in grado di bloccare qualsiasi iniziativa. E poi, sì, l’idea di entrare in quella casa faceva impressione. Anche l’aria, lì, era impregnata di pattinaggio. Yuri, però, fece irruzione nell’appartamento con la tracotanza innocente di chi, davvero, non ha nulla da spartire con i mortali. Gettò noncurante lo zaino su un divano dei tempi dello zar e passò senza apprensione davanti a una sfilza di fotografie che ritraevano per lo più pattinatori sul gradino più alto di podi importanti e qualche ballerina. Alcuni erano volti noti. Otabek riconobbe un Victor forse quattordicenne ritratto insieme a un giovanissimo Georgi e a un altro ragazzo che non riconobbe. 

    – Chi sono?

    – Tutti gli allievi che Yakov ha allenato fino al 2006, quando ha divorziato e si è trasferito.

    – Questo però sei tu.

    Era già stata incorniciata e aggiunta la foto del podio del Grand Prix, con Yuri che esponeva la propria medaglia d’oro.

    – Sì, ma io sono nella quota di Lilia, è lei che ha insistito perché venissimo a vivere qui, io e Yakov.

    – Quindi conti come una ballerina? – provocò Otabek.

    L’altro non si scompose.

    – Io sono la prima ballerina – replicò, altezzoso.

    – Naturalmente.

    La camera di Yuri era, come Otabek si era immaginato, un’esplosione di caos. Sul letto c’erano strati di vestiti, in parte provenienti da una valigia rossa semi aperta abbandonata sul pavimento. Sulle ante di un armadio che non meritava dello scotch stavano dei poster di improbabili cantanti punk russi, truccati in modo da far sembrare Popovic un mostro di sobrietà e buon gusto. Attaccato al muro di una parete, però, stava un poster scolorito, antico di almeno quindici anni, che ritraeva un pattinatore russo che Otabek ricordava di aver visto quand’era bambino. Ed erano già registrazioni vecchie.

    – Chi l’ha appeso quello? – chiese.

    Yuri scosse la testa, facendo ondeggiare i capelli biondi.

    – Victor, credo. È Jagudin, ha vinto quattro campionati mondiali, ai suoi tempi.

    Lo disse come se fosse una cosa normale, quasi scontata, vincere quattro campionati mondiali. Ma, del resto, a quanto pareva, un tempo in quella stanza ci aveva dormito Victor, che ne aveva vinti cinque e all’età di Yuri gareggiava ancora tra gli juniores. Quel mostro biondo aveva tutto l’agio di vincerne sei o sette. Lui, invece, poteva solo sperare di salire di nuovo su un podio mondiale una volta o due. Chissà quanto doveva apparire patetico a Yuri…

    Ma Yuri in quel momento stava cercando qualcosa sul letto, raspando come un cane alla ricerca di un osso.

    – Eccola qua! Prendi al volo!

    Otabek si girò appena in tempo per afferrare qualcosa di peloso. Un maglione? Ma l’oggetto si mosse e un istante dopo lo fissò con enormi occhi turchesi.

    – Un gatto?

    – Sua Maestà La Gatta! – lo corresse Yuri.

    – È di Lilia? – chiese Otabek, perplesso, mentre elargiva una carezza alla bestiola.

    – È mia!

    Otabek immaginò per un istante di chiedere a uno qualsiasi degli allenatori che aveva avuto di essere ospitato a casa loro, con un gatto al seguito. Era tanto se i Leroy gli avevano permesso di mangiare al loro stesso tavolo, ogni tanto, quando stava in Canada.

    Posò sul letto la gatta, che era già riuscita a lasciargli una scia di pelo bianco sul maglione, e cercò uno spazio per il proprio zaino.

    – Lì no! È lo scaffale del fantasma.

    – Eh?

    – Quando sono arrivato ho trovato un quaderno e un portachiavi su quello scaffale. Sono ancora lì, vedi?

    In effetti dove Otabek aveva pensato di riporre il pigiama c’era un vecchio quaderno e un pupazzetto a forma di dinosauro.

    – Erano di un tale Ivan – spiegò Yuri. – Ho pensato che fosse il figlio di Yakov e Lilia e che fosse morto o scomparso, perché è evidente che quelle cose sono state lasciate lì apposta e la cosa iniziava a diventare un po’ inquietante. Così ho chiesto a Victor, ma pare fosse un atleta, c’è la sua foto di là in salotto. Si è rotto un ginocchio dopo aver vinto il mondiale juniores e adesso lavora in una fabbrica… È stato Victor a chiamare quello “il ripiano del fantasma”. Dice che deve servirmi a ricordarmi che non è scontato, andare a vanti. Anche a prescindere dal talento.

    Fece una smorfia per sdrammatizzare, ma lo sguardo che lanciò al vecchio quaderno, parlava di un’inquietudine tutt’altro che esorcizzata.

    L’inquietudine che sentiva Otabek, invece, era di tutt’altra natura. Tre ragazzi, più o meno della stessa età, si erano succeduti in quella stanza. La cosa lo portava verso pensieri sgradevoli. Domandare: «non è che per caso il tuo allenatore ti molesta?» non sembrava una buona idea. Ma ormai l’idea era nata e non poteva ucciderla.

    – Com’è che sei venuto a vivere qui? – chiese con fare noncurante, mentre estraeva spazzolino e pigiama dallo zaino.

    – Non è male questa bettola, no?

    – No, per niente. Posso farti sentire qualcosa che ho portato su quel mega stereo che c’è di là? Però io non ho vissuto a casa del mio allenatore.

    – Lo stereo di là? Fino a che i vecchi non sono in casa è nostro. E comunque è una bella comodità per me stare qui. Prima mi ospitava un amico di mio nonno. Ma era deprimente stare con quel vecchio e comunque il nonno gli pagava l’affitto. Potrei pagarmelo io, ma per lui, mio nonno, è tipo una questione d’onore mantenermi. I soldi che guadagno li spenderò più avanti, dice. Non è mica convinto che possa farlo per lavoro, pattinare.

    Otabek annuì.

    Il nonno tornava spesso nei racconti di Yuri. Sempre il nonno. Mai la madre, il padre, uno zio. E non sembravano ricordi di un’infanzia agiata.

    – E Victor, perché ha abitato qui? – domandò, passando al biondino la chiavetta con i brani che voleva fargli ascoltare. Chissà se il metal kazako era di suo gradimento? 

    – Nessuno sa molto di Victor, ma credo non avesse molta scelta – ora Yuri aveva il fare cospiratorio di chi sta per rivelare un segreto. – Una volta ho trovato un vecchio documento nell’ufficio di Yakov, un’iscrizione a una gara. A quanto pare Yakov ne era il tutore legale.

    Otabek annuì, dandosi del cretino. Il pattinaggio non era certo lo sport nazionale kazako, non era un passatempo per ragazzi ricchi come aveva visto negli Stati Uniti o in Canada, ma era comunque una cosa che si sceglieva. Con genitori che pagavano gli allenatori e portavano i pargoli all’allenamento. Una cosa per ragazzi di città di quartieri almeno rispettabili. La Russia, invece, allevava atleti e aveva da sempre nel pattinaggio uno dei propri cavalli di battaglia. Andava a prenderseli, gli atleti, anche, o forse sopratutto, tra chi non aveva niente da perdere.

    Di colpo la stanza accogliente, con il pavimento di legno rossiccio, con i suoi poster alle pareti e il disordine, tollerato in una casa arredata con precisione maniacale, acquisì tutto un altro aspetto. La gatta venne a strusciarsi sul suo calcagno. Otabek si chiese se Lilia avesse dovuto sopportare anche il cane con cui Victor si faceva sempre fotografare. Forse, dopo tutto, c’era un motivo per cui Yakov terrorizzava tutti, tranne i propri atleti.

    – Allora, questo pezzo che deve cambiarmi la vita? Ti avviso che quando torna il vecchio mette su la lirica.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo3 ***


Yuuri si era aspettato di trovare a San Pietroburgo qualche risposta su Victor. Invece aveva trovato altre domande.

    A quanto pareva, nella stanza che occupava ad Hasetsu Victor aveva riprodotto in miniatura il salotto del proprio appartamento. Stessi toni grigi, poltrona e lampada nella stessa posizione. Per essere così attratto dalle novità, nel cuore della propria vita Victor era inaspettatamente abitudinario. Alle pareti, lì, c’erano delle fotografie. Yuuri sospettava che fosse solo una selezione delle sue vittorie. Nella foto più vecchia, quella del mondiale juniores, aveva un sorriso di un entusiasmo contagioso. Se lo ricordava, lui, quel sorriso. Lo aveva visto in televisione ed era stato il miglior incentivo ad andare avanti che avesse potuto ricevere. Chiunque avrebbe voluto trovarsi un giorno con quell’espressione di felicità pura. Le foto in successione dei cinque podi mondiali assoluti raccontavano una storia diversa. Nell’ultima fotografia sembrava un imputato in attesa di ascoltare la sentenza. Il che poteva anche adattarsi a certi sportivi che vivono le gare quasi come una religione. Il kazako, arrivato terzo, aveva un’espressione simile, ma, da quello che Yuuri aveva visto, Otabek non aveva una muscolatura facciale adatta al sorriso. Quelle poche volte che lo faceva sembrava persino inquietante. Il sorriso, d’altro canto, era la natura di Victor, aveva mille sfumature di sorriso diverse, persino quella per esprimere rabbia o delusione. In quella foto era quasi come se non fosse del tutto se stesso. Il corpo di Victor privato della sua anima. 

    Poi c’erano le assenze. C’era una fotografia in cui appariva Yakov e una in cui Victor aveva al collo la medaglia d’argento dell’olimpiade di Vancouver ed era al fianco di Giacometti, medaglia di bronzo, al centro il portafazzoletti di peluche posizionato come se bevesse da una cannuccia. Per il resto le uniche altre persone ritratte erano quelle che dividevano con lui il podio. Anche quando parlava di sé, Victor nominava un numero assai limitato di persone. Yakov, i membri dello staff della squadra. I compagni di allenamento, alcuni dei quali ormai facevano tutt’altro, qualche avversario, qualche ragazza con cui era uscito, qualche ragazzo, quasi nessun altro. C’erano di sicuro delle omissioni studiate, Ludmilla ne era la prova evidente, ma Yuuri si chiedeva quante di quelle assenze corrispondessero ad effettive mancanze.

    – Vuoi mangiare qualcosa? Non hai quasi toccato il rassolnik – chiese Victor, mentre riempiva la ciotola di Makkachin.

    Quindi quella roba aveva un nome terribile quasi quanto il suo sapore. 

    – No, grazie. Credo di non aver digerito Ludmilla.

    Victor si esibì nel suo miglior sorriso da scuse imbarazzate.

    – Avrei dovuto parlartene, vero?

    – Eh, sì. L’ho vista sui cartelloni pubblicitari, ma avrei dovuto sapere qualcosa di più.

    Victor diede una pacca affettuosa al cane. Poi prese un respiro e si sedette di sbieco sulla poltrona.

    – Avresti dovuto, sì… Vieni qui, Yuuri.

    Il giovane scosse il capo. Si era seduto su un puff di fronte a lui e non avrebbe ceduto quella posizione di vantaggio.

    – Bene… Abbiamo girato insieme delle pubblicità, come certamente hai visto – esordì il russo. – Funzionava bene e ci hanno consigliato di farci vedere insieme… E poi, come sai, non sono bravo a mantenere le distanze e a… dividere gli aspetti della mia vita. 

    – Te la sei portata a letto e lei si è fatta delle illusioni – continuò Yuuri.

    Difficile non capirla.

    Victor scosse il capo.

    – Non pensare a Ludmilla come una vittima innocente del mio charme. Per lei è sempre stata una questione d’immagine.

    – E per te?

    – Per me è stata una questione di disperazione.

    Yuuri rimase spiazzato dalla risposta. A volte Victor era del tutto trasparente. A volte Yuuri sentiva di non avere indizi per discriminare tra verità e menzogna. A volte Yuuri sentiva di sperare di trovarsi di fronte a una menzogna.

    – In ogni caso era finita ben prima che partissi per il Giappone.

    Il fatto che si fosse premurato di precisare fece incurvare le labbra di Yuuri in una smorfia.

    – Cosa voleva?

    – Minacciarmi. Ma credo di essere stato io a minacciare lei.

    Sì, a volte era meglio pensare che Victor mentisse. Yuuri non aveva mai visto i suoi occhi farsi così freddi e le labbra stringersi in un sorriso, sì, ma il genere di sorriso che potrebbe avere un killer nel momento in cui prende la mira.

    – Tra me e lei, ormai, c’è solo rancore, tuttavia c’è ancora aperto l’aspetto promozionale – continuò Victor. – Domani devo andare a una sorta di aperitivo con lei, a mezzogiorno, me ne ero dimenticato… Se preferisci, però, trovo una scusa di qualche tipo.

    C’è solo rancore… Yuuri si chiese se valesse la pena di spendere il proprio cuore per ottenere in cambio solo quello. Guardò l’anello al suo dito. Un legame è sempre anche un potenziale cappio. Cercò di immaginarsi Victor che parlava di lui con quel tono piatto e desolato a qualcun altro, a qualcun’altra. Non riuscì, tuttavia, a immaginare l’opposto.

    – Vai. Sei stato via mesi. Sei un simbolo, qua in Russia, e come tale hai dei doveri che hai trascurato. È questo che ti hanno fatto pagare questa mattina, vero? Non era il punteggio che ti meritavi.

    Yuuri aveva evitato per tutta la giornata di parlare di quel terzo posto. L’esibizione di Victor non era stata al livello di quella di Yurio, ma era stata senza dubbio più tecnica e elegante di quella di Georgi, eppure Georgi era secondo e lui terzo. Il giovane era competitivo, cercava di negarlo anche di fronte all’evidenza, ma odiava perdere. Quello che era lui, però, era niente rispetto alla competitività di Victor. Dopo la finale del Grand Prix, dall’annuncio del proprio ritorno alle gare, qualcosa era cambiato in lui. Victor era rimasto l’uomo svagato e dagli atteggiamenti buffi che Yuuri aveva conosciuto, per tutto ciò che non riguardava il pattinaggio. Solo che il pattinaggio era tornato a inglobare la quasi totalità della vita. Nei giorni che avevano trascorso insieme in Giappone dopo la finale, Victor si era sempre alzato ben prima dell’alba, quando Yuuri riemergeva dalla propria camera era già di ritorno dalla pista. Andavano a correre insieme, un’attività che Yuuri amava e Victor odiava con tutto se stesso. In quei primi giorni il giapponese aveva imparato tutta una serie di imprecazioni in russo di cui il suo allenatore, nei mesi precedenti, non aveva mai fatto uso. Andavano insieme in palestra, poi il russo studiava le coreografie e infine seguiva l’allenamento di Yuuri sul ghiaccio. Durante il periodo natalizio Victor si era nutrito di quasi solo insalata, riso bollito e un poco di pesce. Da lui esigeva delle buone performance, da se stesso la perfezione. Un paio di volte, alla sera, Victor si era addormentato mentre Yuuri gli stava parlando o mentre stavano guardando un film insieme. Lo aveva visto tremare di fatica, bloccarsi a metà scala per un qualche dolore muscolare, eppure ripartire il giorno dopo come se niente fosse successo. Yuuri era arrivato a pentirsi di aver insistito così tanto per il suo ritorno alle gare, perché aveva avuto modo di toccare con mano di quanta vita si privasse Victor pur di primeggiare. Vedere tutta quella fatica resa inutile dai capricci dei giudici faceva male e Yuuri capiva che fosse un dolore che magari l’altro non voleva condividere.

    Adesso Victor fece una smorfia, come se avesse appena assaggiato qualcosa di disgustoso. Guardò l’orologio.

    – Sono le nove – constatò. – Ormai dovrebbe essere finita anche la gara femminile. Stavo quasi pensando di chiedere a Yakov di tornare in pista, per studiare qualcosa per domenica… Dio, sono un fidanzato pessimo! Volevo essere solo questo, almeno per tre giorni. Rimango muto per mezza giornata, poi ti servo una scenata con la mia ex e infine progetto di mollarti a casa per la serata.

    Yuuri si alzò per andare a toccarlo con un dito sulla testa, in un gesto che ormai per lui era diventato un benevolo rimprovero.

    – Stupido Victor. È la tua gara di rientro. È ovvio che venga prima di tutto. 

    Tuttavia Yuuri si chiese come se la sarebbero cavata quando la gara sarebbe stati di entrambi. Anche sorvolando sul piccolo particolare dell’intero continente che separava le loro due abitazioni, anche se Victor si fosse deciso a chiedergli di venir a vivere lì… Yuuri provò ad immaginarsi, in quell’appartamento arioso, ma chiuso nel buio gelido dell’inverno, nel pieno della sua ansia da pre gara, con un compagno allenatore avversario, avviluppato dai quei troppi ruoli, anche lui con il diritto alle proprie ansie…

    – Cosa pensi di fare? – chiese.

    – Ho ripreso i programmi della stagione 2006/2007. Praticamente non li avevo usati, perché ho passato tre quarti della stagione infortunato: sono persino riuscito a farmi operare a un polso… Ma è evidente che non sono abbastanza. Per il lungo avevo anche un’altra versione della stessa musica. L’ho tratta da un musical francese e più personaggi cantavano sulla stessa melodia. Allora ne avevo scelto uno, ma forse, per il me stesso di adesso, è meglio la versione che allora avevo scartato. Per l’aspetto tecnico voglio sentire Yakov. Posso tollerare di essere battuto da chi ha appena fatto il record del mondo, ma di certo non da Georgi.

    – Non ti sta proprio simpatico, eh?

    – Georgi? – Victor arricciò il naso. – Ci abbiamo provato, credo, tanto tempo fa, a tollerarci. Ma io non sono bravo come te a farmi degli amici in pista.

    – Stai scherzando, vero? – domandò Yuuri.

    Victor lo guardò come se non capisse cosa avesse detto che non andava.

    – Io sono famoso per non essere in grado di farmi degli amici! – protestò il giapponese.

    – Ma non è vero. Yuko e suo marito? Pich? Quanti amici credi che abbia io? 

    Tutte quelle telefonate mai arrivate…

    – Chris? – provò Yuuri.

    – Chris – concesse Victor. – Non ci siamo mai allenati insieme, però.

    – Perché?

    – Perché cosa?

    – Insomma, ti alleni nella stessa pista da che sei ragazzino. E persino io mi sono fatto degli amici, pattinando.

    Victor scosse la testa, come faceva il suo cane per togliersi l’acqua dalle orecchie.

    – Siamo in Russia.

    – E allora?

    – Guarda i Grand Prix juniores. Sono pieni di russi. E poi? I posti per i Mondiali o le Olimpiadi sono al massimo tre. Io sono le opportunità mancate di Georgi, così come Yurio sarà le opportunità mancate di altri atleti russi per i prossimi dieci anni almeno. Quanti amici credi che abbia?

    – Otabek. 

    – Giusto. Otabek.

    Adesso il sorriso di Victor era quello frivolo.

    – Yurio ha quindici anni! E Otabek non ha proprio l’aria di essere gay.

    – Hai ragione, Yuuri Katsuki, bisogna averne l’aria. Quindi tu hai una sottoveste rosa sotto quella felpa nera?

    Per tutta risposta Yuuri afferrò la propria sciarpa, che aveva ancora al collo, e la scagliò su Victor, prendendolo in piena faccia. La rappresaglia non si fece attendere e arrivò sotto forma di cuscino in testa. Un istante dopo sia Yuuri che Makkachin erano all’assalto del russo. Le risate che all’improvviso riempivano la stanza avevano il suono della felicità.

    Yuuri aveva tutta l’intenzione di approfittarne per un bacio, ma fu battuto sul tempo da Makkachin, che riuscì ad affibbiare al proprio padrone due leccate in piena faccia. Poi la vibrazione di un cellulare riportò tutti all’ordine.

    – Yakov può essere in pista tra mezz’ora – annunciò Victor.

    Yuuri annuì. 

    – Ne approfitto per pattinare un po’ anch’io, posso?

    – Sono già le nove.

    – A me piace allenarmi alla sera.

    Era Victor quello che si spegneva più o meno a quell’ora.

    – Sono dieci minuti a piedi e adesso fuori sarà a meno quindici.

    – Ah…

    Si sarebbe abituato. Senza dubbio. 

    Andando in camera a cercare lo zainetto con i pattini, Yuuri pensò che si sarebbe aspettato almeno la neve. Invece, almeno quell’anno, l’inverno di San Pietroburgo era spoglio e buio, con un freddo che mozzava il fiato e risaliva ad ogni passo dalle piante dei piedi. Eppure, senza dubbio, valeva la pena di abituarcisi.

    Quando ritornò, pronto per uscire, si trovò valutato dallo sguardo di Victor.

    – Abbigliamento tecnico, tutto nero, nessuna cura negli accostamenti. Terribilmente etero. Signor Katsuki, mi auguro almeno che in quello zaino tenga un paio di scarpe rosse con tacco dodici.

    In assenza di oggetti da lanciare, Yuuri si limitò a una boccaccia.

    – Sei terribile. E adesso per colpa tua sto continuando a immaginarmi Otabek in sottoveste rosa.

    Risero entrambi. Poi, senza esserselo aspettato, Yuuri si trovò quasi stritolato in un abbraccio.

    – Grazie di essere qui – gli sussurrò Victor.

    Prima che il giapponese potesse replicare, l’altro era già oltre la porte di casa.

 

*

 

    – E quella roba lì cosa voleva essere? – chiese Yakov.

    Lui e Victor stavano discutendo sul bordo della pista, mentre Yuuri stava, almeno in apparenza, provando una serie di cadute. 

    – Il quadruplo Loop.

    – Ah, certo… No, lo ammetto, ha stile. Risparmiamo almeno una lucidatura della pista, la sta già facendo lui con la pancia.

    Victor tentò uno sguardo severo alla volta dell’allenatore, senza però impegnarcisi davvero.

    Yakov aveva un aspetto stanco. Aveva passato a bordo pista quasi tutta la giornata per seguire prima la loro gara e poi quella di Mila. Essere tornato lì a quell’ora per lui andava ben oltre il suo dovere di tecnico.

    – Quindi, fammi capire, non si tratta di cambiare la musica già annunciata, cambia solo il mixaggio.

    Victor annuì.

    – Sempre da Notre Dame de Paris. La parte cantata è sempre da Belle. Nell’originale ci sono tre cantati maschili, nel 2006 avevo scelto quello di Phoebus, invece adesso userei quella di Frollo. E cambierebbe l’ultima parte musicale, ma, fondamentalmente, sono sempre pezzi dalle stesse musiche da Notre Dame.

    L’allenatore sbuffò.

    – Quindi è comunque coerente con quello che abbiamo annunciato, credo che la cosa non vada contro il regolamento, anche se ci faranno storie per la sostituzione all’ultimo momento della traccia audio. E immagino che adesso tutta la routine sia da rivedere… Chi l’avrebbe detto… C’è quasi riuscito.

    Lo sguardo di Yakov era tornato su Yuuri e Victor si godette l’espressione di approvazione professionale del viso dell’allenatore.

    Il giovane non era riuscito a chiudere in modo pulito il quadruplo Loop. Aveva dovuto appoggiare una mano, ma aveva comunque completato le rotazioni. Era la prima volta in assoluto che ci riusciva, ma era quasi incredibile da parte di un atleta che un anno prima riusciva a eseguire, a malapena, solo il Toe Loop.

    – Se vuoi continuare a giocare all’allenatore, qui a San Pietroburgo, con un atleta giapponese, potresti avere dei problemi, anche al netto dei pettegolezzi. Non puoi usare come se fosse tuo l’impianto federale – grugnì Yakov, sempre guardando Yuuri. – Se invece vuoi che ci metta mano io, dovete chiedermelo in ginocchio, tu, lui e la federazione giapponese.

    Era un’apertura in cui Victor non aveva sperato.

    Yakov bloccò con un movimento della mano qualsiasi reazione del proprio allievo.

    – Odio vedere la gente che può fare le cose e non le fa, sopratutto se ci sono così tante altre persone che vorrebbero quella vita e non la possono avere. Quando ti sei fermato mi sei sembrato un bambino capriccioso che smette di giocare solo perché non è più sicuro di vincere. Il che è come sputare in faccia a chi la possibilità di vincere non l’ha mai neppure avuta.

    Un bambino capriccioso che smette di giocare solo perché non più sicuro di vincere… Come spesso accadeva, Yakov sapeva dove colpire per fare più male. 

    – Non era solo per quello…

    – No – concesse l’allenatore. – Il ragazzo ha i numeri per fare bene. Si merita di meglio di un allenatore improvvisato e a mezzo servizio. E tu… Hai la capacità di recupero che hai, o non saremmo qui a parlare, adesso. Ma lo capivo sempre, quando avevi bevuto.

    Victor annuì.

    Non avrebbero affrontato l’argomento in modo più esplicito. Era il massimo dell’approvazione in cui poteva sperare. Per certi versi era molto di più di quanto sentisse di meritare.

    – Ci penseremo. Seriamente. Sei il miglior allenatore che si possa desiderare.

    Yakov sbuffò.

    – Non sperare di cavartela così. Adesso il dio del Loop ha sofferto abbastanza. Cerchiamo di portare a casa questo maledetto programma.

    

    Niente da fare. Non c’era modo di far girare quella routine sul ghiaccio nello stesso modo in cui girava nella sua mente. Nove mesi di allenamenti mancati pesavano sulla fluidità dei movimenti. E poi c’era il resto. La caviglia destra, ormai, era insieme con lo sputo e faceva male ogni volta che veniva sollecitata troppo. E un allenamento intensivo dopo una gara era troppo anche per la schiena.

    … Mi sei sembrato solo un bambino capriccioso che smette di giocare perché non è più sicuro di vincere.

    Yakov non aveva capito niente. O, forse, aveva capito troppo.

    Una parte di se stesso, per tutta la stagione precedente aveva sperato di perdere. Per tutta la vita Victor aveva sognato solo di pattinare il meglio possibile. Non di diventare, dopo la medaglia olimpica, una sorta di monumento vivente di una Russia di cui, in realtà, sapeva pochissimo e quel poco non gli piaceva neppure un gran che. Si era sentito una sorta di poster, portato in giro, congelato in un’unica espressione. Aveva avuto delle fantasie, in certe sere, in cui perdeva in modo ignobile qualche gara importante. Era arrivato a immaginare di infortunarsi in gara, in modo abbastanza serio da fermare in modo definitivo quel carosello impazzito. Poi, però, c’era l’altra parte di se stesso. Quella che sul ghiaccio si sentiva un dio. E voleva continuare a esserlo. Oltre il limite umano della stanchezza. Fino a immaginarsi cose che lo avevano terrorizzato assai più dell’augurarsi di azzopparsi in gara. Di certo l’anno precedente non sarebbe mai sceso in pista con la prospettiva di arrivare secondo.

    – Così non arrivi vivo in fondo – commentò Yakov, piatto, quando Victor gli si avvicinò.

    La verità era che non sapeva neppure se sarebbe arrivato vivo in fondo all’allenamento. Si sentiva a un passo dall’infarto.

    – Tre quadrupli sono sufficienti – provò timidamente Yuuri.

    – Sono anni che ne faccio quattro.

    – E quando mai in questi anni ti sei goduto mesi e mesi di vacanza? – ringhiò l’allenatore. 

    – Cosa ne pensi, sinceramente? – chiese Victor a Yuuri.

    – Sinceramente? – il ragazzo lo guardò come se cercasse una via di fuga.

    – Sì.

    – Di solito sembra che tu non ci debba neanche pensare all’aspetto tecnico. Si rimane talmente incantati dall’esibizione che i salti quasi si dimenticano. Sembrano facilissimi e pensi solo a quanto siano belli. Adesso però hai bisogno di pensare a quello che stai facendo e non riesci a tenere sotto controllo sia una coreografia che non hai del tutto interiorizzato sia degli elementi che sono al limite delle tue possibilità. Quindi o risulti legnoso oppure impreciso.

    – Il ragazzo non è del tutto stupido – commentò Yakov. – Magari rifacendo la coreografia dell’anno scorso potevi permetterti lo stesso livello tecnico. Ma sei andato a rispolverare roba di dieci anni fa, a cui vuoi mettere mano adesso. 

    – Lo sai che non mi piacciono le scelte scontate – replicò Victor.

    – E come faccio a non saperlo? – sospirò l’allenatore. – Vuoi la verità? Sei stato fermo e hai ventotto anni. Senza la vacanzina giapponese era un conto, ma così come stanno le cose non vali come dodici mesi fa. Ma continui a essere Victor Nikiforov. Hai esperienza, talento, muscoli che bene o male reggono, e nervi più saldi di chiunque altro. Quindi cosa sei tornato a fare? Quando lo capirai riuscirai anche a farlo.

    –… Anche se domenica dovesse essere un disastro? – completò Victor.

    Ormai li conosceva tutti i sottintesi dei discorsetti motivazionali di Yakov.

    – Anche, sì. Adesso vai a dormire. Domani vai in palestra. E domenica usiamo la traccia già concordata. Portiamo a casa un’esibizione dignitosa e poi pensiamo agli Europei.

    – Eh, no, non va bene! – esclamò qualcuno in russo.

    Victor, Yakov e Yuuri si girarono all’unisono.

    Dall’altra parte della pista, vicino all’ingresso, tra una giacca a vento rossa col bavero alzato e un cappello nero con zebrature, stavano due rabbiosi occhi verdi.

    – Che cosa ci fai qui, Yuri? È mezzanotte! – chiese Victor.

    – Che cosa ci faccio? È da quando ho undici anni che voglio batterti. Ma batterti davvero, non con quasi sette punti che mi hanno regalato i giudici. Quindi adesso tu sistemi questo maledetto libero, perché domenica mattina io non mi presto a una farsa!

    Victor rimase del tutto immobile, pietrificato da quell’apparizione. Indeciso se tirargli un pugno nello stomaco per essersi immischiato o correre ad abbracciarlo.

    – Yuri, la cosa non ti riguarda – sbuffò Yakov. – Domenica fai dei tuo meglio senza darti già vincitore e qualsiasi faida ci sia tra voi due la risolvete agli europei.

    – E no! – ringhiò Yuri. – Io lo conosco e dovresti conoscerlo anche tu che lo alleni da una vita. Lo sai che non farà il libero come lo avevate progettato. Tenterà qualche follia tecnica e agli europei ci arriva bello che rotto. E, a proposito, bel favore che fai ai giudici e a chi la pensa come loro, Victor, rompendoti alla prima gara.

    Adesso il sorriso che esibì Victor fu quello di imbarazzo. Perché, se non riusciva a fare quello che aveva in mente, almeno poteva stordire i giudici con qualcosa di tecnicamente ineccepibile, anche a rischio di sacrificare la coreografia. E, sì, c’era il rischio concreto che qualcosa andasse storto e si realizzasse esattamente la previsione di Yuri. Anche Yakov stava guardando il proprio allievo più giovane con sguardo diverso, rispetto a prima.

    – Sì, è probabile che vada così – disse infatti, l’allenatore. – Quindi che cosa dobbiamo fare?

    Yuri prese un respiro e poi fissò Victor come se stesse per lanciarsi in una rissa.

    – C’è un limite a quello che puoi fare a livello tecnico con l’allenamento che hai, ma puoi farlo molto bene e siccome gli occhi ce li abbiamo tutti, lì al massimo possono negarti mezzo punto. Ti hanno fregato sulla coreografia e l’interpretazione. Lavora su quello. Devi fare un’esibizione così bella che i giudici, se fanno un’altra cazzata come quella di oggi, devono rischiare il linciaggio da parte del pubblico. Puoi farlo o io è da quando ho undici anni che ammiro un incompetente?

    Victor si rese conto di avere ancora la bocca aperta. La richiuse e scosse il capo. Yuuri non aveva capito una parola, visto che il suo omonimo aveva parlato in russo, ma Yakov stava sogghignando.

    – Questo prima frega i titoli a te e poi il posto a me – commentò. – Allora, Vitya, cosa aspetti? La vediamo o no questa coreografia perfetta o stiamo facendo perdere il sonno a un minorenne per niente?

    Victor abbassò la testa.

    – Agli ordini, signori – disse.

    Strapazzato da un ragazzino di quindici anni davanti al proprio fidanzato che, per inciso, avrebbe anche dovuto saper allenare. Strapazzato a ragione da un ragazzino di quindici anni. Si chiese se Yuri avesse parlato in russo per delicatezza o se non ci avesse pensato. Decise che non ci aveva pensato.

    – E Otabek dove l’hai lasciato? – chiese, prima di tornare al centro della pista.

    Yuri lo guardò come se non sapesse bene di cosa l’altro stesse parlando.

    – A casa. Immagino dorma.

    Yakov colse all’istante il suo cenno.

    – Fammi capire, hai lasciato a casa mia un atleta di una nazione avversaria? – sbraitò. – Lo sai cosa succede se trovo anche solo una carta fuori posto? La tua pelle devo dare alla federazione! Altro che i colpi di testa di quell’altro pazzo!

    Dall’espressione, Yuri non era del tutto certo che l’allenatore dicesse sul serio, ma neppure che scherzasse. Quando la musica partì, il ragazzo iniziava ad avere un’espressione terrorizzata.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo4 ***


   – Sei almeno sicuro che sia gay?

    – Martha, quale quindicenne etero direbbe con orgoglio di essere una prima ballerina?

    Otabek, sbuffò.

    Si sentiva ridicolo, stanco e anche un po’ patetico.

    Era mezzanotte e lui era accampato, da solo, nella stanza di Yuri. Sedotto e abbandonato. Se almeno fosse stato sedotto!

    Aveva valutato di spaccarsi la testa su uno spigolo qualsiasi della casa. Ma se non si fosse ucciso a dovere, alla fine Yakov e, sopratutto, Lilia, gli avrebbero fatto pagare per lo scempio procurato alla casa. Era facile immaginarsi Lilia che lo scuoteva da uno stato di svenimento, gli applicava sommariamente qualche punto in fronte e poi lo obbligava a pulire. L’altra alternativa era spulciare il computer che Yuri, almeno, gli aveva gentilmente concesso in uso alla ricerca dei file più privati del ragazzo. Ma non aveva ancora abdicato del tutto alla propria dignità, o, almeno, ci sperava. Quindi aveva attivato Skype nella speranza che Martha, sette ore più indietro, fosse rientrata in camera. Almeno si sarebbe sfogato. Tra l’autolesionismo, il guardone o la ragazzetta isterica, alla fine aveva vinto la ragazzetta isterica.

    – Quindi è gay e ti ha mollato a casa per dare man forte al suo compagno di allenamento. Direi che è del compagno di allenamento che si è innamorato.

    Martha, da dietro i suoi occhiali tondi, gli servì un’eloquente occhiata con quei suoi occhi da gatto. Ancora in quel momento, Otabek non sapeva dire se lui avesse una fissa per gli occhi di quel particolare verde felino o se anche quattro anni prima avesse notato quelli della ragazza perché già pensava agli occhi di Yuri. Né sapeva spiegarsi come fosse rimasto amico di una che, dopo che avevano fatto sesso, se ne era uscita con un «non sei stato affatto male, considerato che sei gay».

    – È ovvio che è innamorato del suo compagno di allenamento. È Victor – replicò

    Dallo sguardo della ragazza si rese conto di dover contestualizzare. Aveva conosciuto Martha al corso di matematica avanzata del liceo che aveva frequentato a Ottawa. Non era mai riuscito a farle capire un gran che di pattinaggio, quindi le inviò un link e le diede il tempo di guardare il video su youtube. Tanto di tempo ne aveva, considerato che di Yuri e Yakov non c’era ancora alcuna traccia.

    – È carino, in effetti, e mi sembra notevole da un punto di vista atletico. Però è troppo grande per il tuo ragazzino.

    – E, grazie ad Allah, fidanzatissimo. Ma per noi è una sorta di idolo. Tutta la mia generazione di atleti è cresciuta con un’ammirazione per Victor che rasenta l’innamoramento.

    – Anche tu?

    – No, io appartengo alla fazione che lo trova meraviglioso sulla pista e che per tanto preferirebbe saperlo morto – replicò Otabek.

    Di sicuro lo avrebbe preferito morto in quel momento.

    – Comunque penso che Yuri non sappia razionalizzare i propri sentimenti.

    – A quindici anni ormai voi maschietti dovreste aver capito cosa ve lo fa rizzare.

    Il commento di Martha quasi lo fece arrossire.

    Ma era per questo, supponeva, che era la sua unica amica. Era impensabile far quel genere di  discorsi con una ragazza kazaka o anche con un ragazzo kazako. In effetti conoscerla era stato un bello shock culturale.

    – Tu non capisci – disse. – Pensa a me quando sono arrivato a Ottawa. E io ero di mentalità aperta. Qui non si può essere gay. Se ti piacciono gli uomini e non vuoi finire al rogo o aspetti che ti passi, secondo il vecchio adagio che è una fase, o fai finta che non sia così. Se sei Yuri, sublimi tutto col pattinaggio.

    – Quindi mi stai dicendo che ti sei reso conto di essere innamorato perso di un ragazzino represso che non ammetterebbe neppure sotto tortura di essere gay e che, se anche lo facesse, probabilmente ti direbbe che il suo sogno erotico è sempre stato un altro – riassunse Martha.

    Avrebbe dovuto scegliere lo spigolo.

    – Non sono innamorato perso. Diciamo che ho mal interpretato alcuni indizi e quindi ho dato per scontato qualcosa per cui, forse, Yuri non è ancora pronto.

    – Cacciagli la lingua in bocca e risolvila così.

    – Ma sei scema! Così mi cava gli occhi e poi scappa in Siberia.

    – Sei innamorato perso.

    – Io non mi innamoro mai!

    Martha si sistemò i capelli castani e di nuovo lo guardò con quella sua espressione da futura professoressa di matematica.

    – Marcus – si limitò a dire.

    Otabek ringraziò il Cielo di non arrossire facilmente.

    – Non ero innamorato di Marcus.

    – Quindi gli scodinzolavi dietro come un cagnetto per puro sport?

    – Era una persona interessante. E mi piaceva uscire con lui. E anche andarci a letto, va bene?

    – Sei un dannato romantico, Otabek. Ammettilo, almeno una volta.

    Il kazako evitò di replicare. Non aveva senso. C’erano cose che con tutta la sua intelligenza, Martha, agguerrita femminista figlia di un’agguerrita femminista, non poteva capire. Non poteva capire cosa volesse dire per un kazako mussulmano che ha di tanto in tanto fantasticato sul sesso tra uomini trovarsi in un posto dove cose del genere uscivano dallo spettro dell’indicibile per entrare in quello del possibile. Né poteva capire cosa significasse trovarsi corteggiato in modo garbato, ma insistente, da un dottorando in matematica di quasi dieci anni più grande, di aspetto decisamente gradevole, pronto a guidarlo in quello che per lui era sempre stato il territorio di un peccato che mai avrebbe avuto il coraggio di commettere.

    – Il problema è che vivi in un mondo troppo semplice – sbuffò.

    – Sì. E nel mio mondo un ragazzo che prima si veste da cigno bianco e poi si fa togliere indumenti con i denti desidera solo che tutti i suoi orifizi vengano indagati. Il prodotto sembra interessante, se ti piace il genere, e quindi ti consiglio di affrettarti, prima che si faccia vivo qualche altro compratore. Anzi, vista l’ora che è lì da te, io mi assicurerei che l’acquisto non sia già in atto.

    – Martha! – esclamò Otabek. Poi fu gelato da dei rumori provenienti dall’appartamento. – È tornato! 

    Chiuse la videochiamata con la stessa velocità con cui chiudeva i porno quando sua madre o sua sorella stavano per fare irruzione in camera.   

    – Sei ancora sveglio? – chiese Yuri un istante dopo, gettando la giacca a vento direttamente per terra.

    – Com’è andata? – domandò Otabek, ritenendo inutile rispondere.

    – Sono degli idioti, tutti quanti, Yakov compreso – borbottò il ragazzo che aveva preso a togliersi gli indumenti uno dopo l’altro, in uno spogliarello disordinato, ma non per questo meno affascinante. – Dei geni del pattinaggio, sia chiaro, ma degli idioti totali.

    Sbadigliò come faceva a volte il fratellino più piccolo di Otabek, che aveva sette anni, dando bella mostra di ugola e tonsille.

    – Dio, come sono stanco.

    – Sei in piedi dall’alba, hai gareggiato, vorrei ben vedere.

    – E domani mattina stretching e palestra. A volte penso che sia quasi meglio studiare.

    La smorfia con cui accompagnò quella frase la diceva lunga su cosa pensasse davvero.

    – Guarda che i libri non mordono!

    – Non ho alcuna prova che non lo facciano.

    Ormai gli erano rimasti addosso solo i boxer. Infilò una mano nel marasma di coperte e oggetti non identificati che c’era sul suo letto e estrasse la casacca di un pigiama bianco.

    Quando Otabek vide il disegno che vi era stato stampato strabuzzò gli occhi.

    – Che ha che non va? È uguale a Sua Maestà.

    Vero. Rappresentava un leziosissimo muso felino dagli occhi turchesi.

    – Mia sorella ne ha uno quasi uguale. 

    Otabek ci mise tutta la propria buona volontà per imprimere alla frase un tono neutro e evitare di iniziare a ridacchiare in modo isterico.

    Yuri, però, lo guardò per un istante come se non riuscisse a spiegarsi il commento, poi sbadigliò di nuovo, estrasse i pantaloni e, più che entrare nel letto, si mise a far parte del suo disordine.

    – Buonanotte – mugolò.
 

*

Sabato

 

        Il suono del cellulare, lasciato sulla panca addossata alla parete della sala danza, riportò Victor al presente.

    Yuuri si era svegliato? Nonostante i propositi del giapponese, Victor non aveva avuto cuore di svegliarlo. Quando aveva lasciato la camera da letto il ragazzo stava dormendo con un mezzo sorriso in volto e una mano posata sulla schiena di Makkachin che, dal canto suo, si era limitato a socchiudere un occhio. Disturbarli sarebbe stato un delitto.

    Non era Yuuri. Era Ludmilla. Ma che ore erano? Le undici e venti. Avevano l’inaugurazione del  super store o quello che era a mezzogiorno. Fece una smorfia, mentre digitava veloce una risposta. L’arpia era già appostata fuori dal palazzetto, per prevenire qualsiasi tentazione di fuga.

    E dire che la mattinata, considerata la giornata precedente, aveva riservato alcune piacevoli sorprese, oltre al sorriso addormentato del suo ragazzo. C’era stato un momento, durante l’allenamento, in cui quasi Victor si era aspettato di sentire i propri capelli lunghi sul viso. Solo allora si era accorto che non c’era nessun muscolo che gli dolesse, che neppure la caviglia si stava lamentando. Nonostante la gara del giorno precedente, si stava muovendo senza pensare, con in circolo le endorfine dovute allo sforzo che gli davano la sensazione di essere là dove Dio lo aveva immaginato. E in quel momento la domanda di Yakov, Cosa sei tornato per fare? aveva assunto un significato del tutto diverso. Come se lui stesso non vedesse l’ora di scoprirne la risposta.

    Scosse il capo. Doveva sbrigarsi. Se si fosse comportato da bravo ragazzo, da bravo ragazzo puntuale, forse gli sarebbe stato concesso un intero pomeriggio con Yuuri. Si trattava di passare con Ludmilla non più di due ore. Quanto poteva disgustarlo in due ore?

 

    Lei lo aspettava in piedi, appoggiata alla propria auto, di fronte all’entrata del palazzetto.

    Bella era bella. Nel piumino argentato disegnato per esaltare la sua figura magra e slanciata, con il trucco leggero a sottolineare l’intensità dello sguardo, Ludmilla aveva un’eleganza altera che persino Lilia avrebbe approvato. Anche tenendo conto delle specifiche caratteristiche delle rispettive discipline, aveva vinto più di lui. Era stato un idiota autolesionista su tutta la linea, ma almeno poteva riconoscersi qualche attenuante.

    – Alla buonora – lo salutò la donna. – Devi dormire di più, hai le occhiaie.

    – Scusa tanto se sono nel bel mezzo delle nazionali.

    – Inizia a esercitarti, dammi un bacetto.

    Victor sospirò.

    – Abbiamo preso degli impegni. Che rispetterò. Poserò insieme a te davanti ai fotografi. Ma non ho intenzione di prestarmi ad alcuna farsa.

    Lei arricciò il naso.

    – Come vuoi. Sei tu quello che ha tutto da perdere. Sali.

    – Non sfidarmi, Ludmilla – replicò, cercando il suo sguardo.

    Quando furono in auto, la donna si tolse i guanti per guidare.

    – Non avevi quell’anello, ieri – commentò Victor, notando il brillante al suo anulare sinistro.

    – Ieri non avevo motivo di metterlo – replicò lei.

    – Dimmi che non hai intenzione di fingere che te l’abbia regalato io.

    Ludmilla non lo degnò di uno sguardo, concentrata sul traffico.

    – Non ho intenzione di fare alcun che, lascerò che siano gli altri a trarre le conclusioni che preferiscono.

    – Non puoi vivere in un castello di menzogne, Milly – disse Victor, con più dolcezza.

    Suo malgrado, quello che provava per lei era più che altro tristezza.

    Al contrario, da come contrasse i muscoli delle mani, Ludmilla per lui provava rabbia pura.

    – Senti, mettiamo le cose in chiaro. Tu per me puoi farti anche tutto il Giappone – ringhiò. – Ma siamo una coppia che funziona. Io sono stata portabandiera alle olimpiadi, tu potresti esserlo alle prossime. Noi siamo il volto della Russia. Ci pagano bene per esserlo. Ti viene chiesto di evitare di sbaciucchiarti in pubblico il tuo allievo e di assecondarmi. Persino un idiota come te dovrebbe capire cosa gli conviene.

    Victor prese a tamburellare con le dita sulla propria gamba.

    – Hai ragione. Tu sei il volto perfetto della Russia. Io preferisco continuare a riuscire a guardare allo specchio il mio.

    – Sei uno stupido bambino viziato a cui piace atteggiarsi a superiore. Ostentando la tua relazione con un uomo offendi uno stato che ti ha nutrito, coccolato e vezzeggiato per anni. E, mio caro uomo perfetto, lo sa il tuo giapponesino come sei davvero? Lo sa perché sei senza macchina?

    Victor prese un respiro. L’abitacolo era troppo caldo per starci con la giacca e il deodorante per auto aveva un profumo dolciastro e oppressivo. Forse, se fosse arrivato a destinazione già sul punto di sentirsi male, lo avrebbero lasciato fuggire?

    – La verità è che senza di me non rendi abbastanza – replicò. – La maggior parte degli sponsor ci vuole insieme, vuole vendere la favola e la sola principessa non basta. Fai attenzione. Se tiri troppo la corda non ti resteranno neanche le briciole.

    Ludmilla smise un istante di guardare la strada per fissarlo.

    – Ci sei dentro anche tu – disse, con un’incertezza appena percepibile.

    – Tu credi?

    Erano arrivati.

    Il marchio sportivo di cui entrambi erano sponsor inaugurava un nuovo punto vendita monomarca in pieno centro. Non poteva essere così terribile. Dopo tutto si trattava solo di sorridere, di fingere di conoscere le persone che si aspettavano di essere riconosciute e di annuire ai discorsi. In cambio avrebbe avuto un calice di vino e qualche stuzzichino, come si conveniva a un cane ben addestrato. Per cercare un sorriso un po’ meno finto, Victor immaginò come si sarebbe comportato Yuuri nella stessa situazione. Lo visualizzò a cercare di mimetizzarsi tra i manichini, come un camaleonte tra i fiori di una giungla. Chissà se si rendeva conto che, in fondo, certe situazioni lo mettevano a disagio nello stesso modo. Victor, però, al contrario di Yuuri, fin da bambino aveva imparato a fingere.

    All’inizio non fu terribile. Come previsto bastava seguire il copione. Victor e Ludmilla fecero alcune foto. Lei tagliò il nastro e lui stappò lo spumante. Fecero un beve discorso su quanto performanti fossero i prodotti in vendita. Quel marchio non produceva pattini e Victor non si sentì in particolare disagio a magnificare le qualità di una tuta comoda quanto qualsiasi altra e delle scarpe da corsa che odiava cordialmente, ma per un astio che nulla aveva a che fare con la triplice suola o col plantare a memoria di forma. Poi vennero sciolti i ranghi e arrivò il momento di svolgere il proprio lavoro di bestie ammaestrate.

    Nessuno degli invitati era a conoscenza della sua relazione con Yuuri. Victor aveva scoperto che Yakov aveva allungato una mazzetta a chi di dovere perché la registrazione della gara in Cina andasse in onda in Russia privata di alcuni fotogrammi. Il bacio tra lui e Yuuri era reperibile su youtube, per chi volesse cercalo, ma in una ripresa in cui poteva in qualche modo essere scambiato per un abbraccio affettuoso. Una parte di Victor voleva dare un pugno a Yakov per quello, ma rimaneva il fatto che l’allenatore aveva speso denaro, non voleva neppure immaginare quanto, per salvare la sua immagine in un momento in cui neppure si parlavano e in cui in pubblico Yakov diceva il peggio possibile di lui. Nell’ambiente del pattinaggio, ormai, la sua relazione era nota, con gli effetti che aveva sperimentato il giorno precedente, ma là fuori poteva ancora recitare la sua parte. Quindi si sforzò di sorridere, rispondere alle domande, e magnificare l’abbigliamento. Da quel momento, pensò, quella sarebbe stata la norma. Avrebbe dovuto presenziare a decine, centinaia di eventi simile. Mai una volta con Yuuri al suo fianco. Avrebbero potuto dividere la pista, l’allenatore e l’appartamento, ma ogni volta che fossero stati in pubblico avrebbero dovuto centellinare i gesti. Avrebbe dovuto mentire davanti a domande dirette. Recuperò un calice di champagne da un cameriere di passaggio per annegarci dentro il disagio.  Era abituato a omettere, ma non a una vita come quella che si prospettava. Le sue esperienze con gli uomini erano state per la maggior parte fughe di una notte o poco più. Non era neppure valsa la pena di nasconderle. Chris era stato un’eccezione, ma da che avevano raggiunto l’età della ragione avevano convenuto che la loro era un’amicizia a cui capitava ogni tanto di sconfinare. E, in ogni caso, questo strabordare dei confini non era mai avvenuto in Russia. Immaginò di aver portato con sé Yuuri e di essere obbligato a non sfiorarlo, a non cercare di continuo il suo sguardo, di rispondere in modo vago con lui al fianco a domande sulla sua situazione sentimentale.

    – Non stare rigido come un salmone affumicato – gli sussurrò Ludmilla, posandogli una mano sulla spalla.

    Senza alcun permesso, strofinò la testa contro la sua guancia, come un gatto troppo invadente, che viene a lasciare il proprio pelo senza essere stato invitato.

    Prima che Victor potesse scostarsi di un passo, li raggiunse una donna che aveva tutta l’aria di essere una giornalista di una qualche testata femminile.

    – Il signor Nikiforov è stato parecchio all’estero e avevo sentito dire che i vostri rapporti si fossero raffreddati – disse. – Mi fa piacere sapere che non è così.

    Ludmilla non disse nulla, ma la sua presa sulla spalla di Victor si fece più forte e fece in modo di mettere in bella mostra il proprio anello.

    Victor vide lo sguardo della donna passare dal brillante dell’astista alla mano del pattinatore, dove stava un altro anello, più discreto.

    – Si prevedono novità? – aggiunse, con fare cospiratorio.

    – Lasciamo tempo al tempo – sussurrò Ludmilla, esibendo il migliore dei suoi sorrisi.

    Victor si sentì scomodo e sudato, nonostante l’abbigliamento sportivo. Immaginò che Yuuri fosse lì e lo osservasse da lontano, con quel suo sguardo che non gli imponeva mai niente, triste dietro gli occhiali.

    – Non le novità a cui forse allude – disse. – Ho grande stima per la signorina Sopronova a cui, come vede, mi lega un’affettuosa amicizia che spero non si esaurisca mai. Ma tra noi al momento non c’è altro.

    Con un movimento che sperò elegante, si sottrasse al tocco di Ludmilla, terminò il vino rimasto nel calice e si allontanò.

    Ludmilla era troppo abituata all’autocontrollo per fare una scenata in pubblico, ma per tornare a casa avrebbe dovuto prendere un taxi. 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


    Ormai, Otabek aveva esaurito gli insulti che poteva rivolgere a se stesso. 

    Alla serata solitaria del giorno prima era seguita una notte che gli aveva rivelato solo quello che già sospettava. Yuri, addormentato in quel suo nido di cose, abbracciato ora a Sua Maestà, ora a uno di quei peluche che gli regalavano alla fine delle gare, era la cosa più bella che avesse mai visto. Ogni tanto muoveva le labbra nel sonno, ma non arrivava a pronunciare parole intelligibili. Considerato quanto si muoveva, con le gambe che ogni tanto scalciavano come ad allontanare un nemico immaginario, dormici assieme doveva essere un incubo. E a quel punto, dovevano essere le tre di notte, Otabek era andato in bagno a sciacquarsi la faccia, perché i suoi pensieri stavano iniziando a travalicare i limiti che lui stesso si era posto. Un conto era fantasticare su del sesso che quasi di certo sarebbe rimasto immaginario, un altro era iniziare a progettare il letto migliore per accoglierli comodamente entrambi. Lui non era innamorato. E, per tanto, non gli dispiaceva per niente che Yuri avesse deciso di portarlo fuori a pranzo insieme al suo omonimo giapponese. O che sembrasse preoccupato per il ritardo di quest’ultimo e quasi ignorasse lui.

    – Avrà capito le indicazioni? Quello confonde la metà delle parole già in inglese, figuriamoci i nomi delle strade in russo.

    – Google maps non mente.

    – Non mi sembri entusiasta.

    – Figurati. Sto andando a pranzo con due che nell’ultima gara mi hanno stracciato. Non hai pensato che magari voglio avvelenarvi?

    – Vedi che dovresti essere entusiasta? Quando ti ricapita l’occasione?

    – Hai ragione. Sono irritato perché ho dimenticato a casa l’arsenico… Eccolo.

    Yuuri non gli stava antipatico. Ma era ingiusto che un atleta che l’anno prima faceva schifo ora detenesse il record del mondo. E ancora più ingiusto era che si fosse portato non solo a letto, ma addirittura a casa un uomo che in fondo non aveva fatto nulla per conquistare. A Yuuri era caduto in mano quello che lui lottava per conquistare, eppure se ne andava in giro con quell’aria costantemente depressa. E se quel pranzo in solitaria significava che lui e Victor avevano già litigato, giustificando così il terrore che Yuri sembrava avere per qualsiasi forma di romanticheria, gli avrebbe dato un pugno in faccia.

    – Ti sei perso in giro? – lo accolse Yuri.

    – Sono rimasto addormentato… Mi sa che ho ancora qualche problema con il fuso orario… Ti, vi ringrazio per l’invito. Nel frigo di Victor c’è solo insalata e della roba russa che mi guarda malissimo.

    Yuri si strinse nelle spalle.

    – Ho mangiato a sbafo dai tuoi per più di una settimana, questa primavera.

    – Non ti hanno fatto pagare? Ci credo che poi si lamentano degli affari!

    – Secondo Mari il mio solo fascino era sufficiente a farvi aumentare la clientela!

    E da quando quei due erano così in confidenza? Col suo fare svampito quel giapponese si prendeva un po’ troppe libertà con i russi!

    Intanto si erano avviati verso il misterioso locale in cui Yuri voleva a tutti i costi portarli.

    Appena Otabek ne vide l’insegna iniziò a ridacchiare tra sé. Il giapponese, invece, ci mise un poco di più per capire dove stavano finendo, ma, una volta compreso iniziò a guardarsi intorno alla ricerca di una via di fuga.

    – Dimmi che non è uno di quei posti in cui i gatti girano liberi! – gli sussurrò.

    – È terribilmente da Yuri. Ringraziamo che non siano tigri.

    – Sono allergico.

    – Non devi gareggiare tu, domani. Puoi imbottirti di antistaminico.

    Come aveva fatto lui stesso, del resto, che era allergico invece agli acari della polvere, appena aveva capito che chiunque facesse le pulizie a casa di Lilia non aveva accesso alla stanza di Yuri.

    Appena varcarono la soglia un solerte gatto pezzato, che per manto e taglia avrebbe fatto meglio a nascere mucca, saltò sulle spalle di Yuuri. Il ragazzo prese subito a starnutire, ma poi le risate sostituirono gli starnuti. Forse, pensò Otabek, la sua presenza, appurato che non fosse dovuta a una crisi di coppia, non era del tutto un male. Era evidente che Yuri lo stimava e aveva nei suoi confronti un rapporto molto più paritario di quello che poteva avere con Victor. Forse frequentare il giapponese poteva iniziare a far penetrare nel ragazzo l’idea che non ci fosse nulla di male nell’innamorarsi. Neppure se l’oggetto di tale innamoramento era un altro ragazzo e per lo più uno straniero avversario.

    – Ti trasferirai a San Pietroburgo? – chiese, appena ebbero ordinato.

    Yuuri fissò per un istante le bollicine della propria bibita.

    – Pare che Yakov sia disposto ad allenarmi.

    Yuri quasi rovesciò la propria coca cola.

    – Yakov? Non ho mai sentito che abbia allenato a tempo pieno qualcuno di un’altra nazionalità.

    Guardò il giapponese con tanta ostilità che questi mise le mani avanti.

    – Non ho preso una decisione. Volevo parlartene. Sarebbe un problema per te?

    Da come lo guardava, la Tigre di Russia sembrava pronto a aprirgli la giugulare a morsi, ma poi vinse la Fata, accarezzò un altro gatto di taglia bovina, e scosse il capo.

    – Naa… Sarà divertente umiliarti tutti i giorni. Con Georgi non c’è davvero partita.

    – È la cosa più razionale – intervenne Otabek. – E va a vantaggio di tutti, anche di Yakov. È stato un po’ uno smacco per lui che un suo allievo, alla prima stagione da allenatore, si sia portato a casa come allenatore un record. Se avessi vinto tu il Grand Prix Yakov ci avrebbe rimesso la faccia. Così, invece, viene in qualche modo riconosciuta la sua superiorità come allenatore.

    Yuuri era arrossito di colpo.

    – Non l’avevo mai vista così – mormorò.

    – Non sembri entusiasta – osservò Yuri, che stava metabolizzando l’idea. – Guarda che Yakov non odia te in particolare, ci odia tutti.

    Otabek nascose un mezzo sorriso. Gli era bastato un giorno a stretto contatto con Yuri per capire che se c’era al mondo un allenatore che avrebbe attraversato il fuoco per il suoi ragazzi, questo era Yakov.

    Yuuri, intanto, stava scuotendo il capo.

    – No, lo so che è la cosa migliore – disse. Poi prese un sospiro, sempre guardando il bicchiere. – È che sono egoista. Era bello avere Victor tutto per me, in Giappone.

    Invece che vivere in uno stato omofobo fingendo di non essere fidanzato con il proprio compagno? Otabek si chiese se fosse davvero tutto egoismo. A tradimento, una voce dentro la sua testa, gli chiese se avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare un cambiamento simile per amore. Con la coda dell’occhio spiò Yuri, che adesso stava facendo giocare un gatto con una cannuccia, e non riuscì a trovare una risposta.

    – Comunque, dato che sono stato io a insistere perché Victor tornasse a gareggiare non posso lamentarmi, vero? – concluse Yuuri.

    – Lo sai che è esattamente questo il motivo per cui la maggior parte di noi ti vorrebbe uccidere, me compreso? – replicò Otabek.

    – No, non è vero! – protestò Yuri. – Almeno adesso sarà chiaro a tutti che io sono il più forte.

    – Ecco, appunto. Un solo russo imbattibile alla volta ci bastava. Ricorda che potrei essere qui per uccidervi!

    Il cellulare di Yuuri prese a squillare.

    – È Victor! Scusatemi – disse, precipitandosi fuori dal locale per rispondere.

    Otabek notò che Yuri seguiva il suo omonimo con uno sguardo strano, quasi di tristezza.

    – Cosa c’è? – gli chiese, con il tono più dolce possibile.

    – Ci si può quasi credere, vedendoli, all’amore… Fa così schifo!

    – Schifo?

    Era il momento di una domanda diretta. Se gli facesse schifo perché erano due uomini.

    – L’idea che poi si lasceranno e staranno malissimo – concluse invece Yuri.

    – Non è detto che si debbano lasciare.

    – Quanto pensi che dureranno come avversari? Litigheranno, si insulteranno, si lasceranno. E io dovrò sopportare il malumore di entrambi!

    Otabek represse l’istinto a passargli una mano tra i capelli.

    – Eh, uomo vissuto, guarda che non è detto.

    – No? Tu quante volte ti sei innamorato?

    Prima di adesso?

    – Una, forse – ammise.

    Marcus.

    – E lei dov’è adesso?

    Era il momento di dire «chi ti ha detto che fosse una lei?», ma gli mancò il coraggio. Si limitò a scuotere il capo.

    – Ecco. Perché è finita?

    – Non ero l’unico – disse Otabek, a malincuore.

    – Vedi? È una fregatura e ci cascano tutti. Persino te.

    Yuuri stava rientrando in quel momento, con uno sguardo perplesso al cellulare.

    – Tutto bene? – gli chiese Otabek.

    – Sì, credo – rispose Yuuri, che ancora guardava il cellulare. – Victor doveva raggiungerci, ma è stato lasciato a piedi in un punto improbabile della città. Una vendetta della sua ex che si è messa d’accordo con il taxista, a quanto ho capito.

    – Vedi? – disse Yuri, acido, come se quelle parole avvalorassero la sua tesi.

    – Yuuri, aiutaci, stiamo andando sul filosofico – si intromise Otabek. – Quante storie d’amore felici conosci, ma conosci davvero? Diciamo che durino da anni.

    Il giapponese lo guardò perplesso.

    – Yuko, la mia migliore amica. Si è sposata giovanissima e tutti le dicevano che era una follia, invece… I genitori contano? A volte li becco ancora che si baciano, e sono sposati da oltre trent’anni.

    – Anch’io ho un’amica fidanzatissima, in Canada – disse Otabek. – Lui è un po’ uno zerbino, ma sono felici così. I miei genitori, naturalmente. Ho un cugino che è andato fino in Australia per stare con la moglie. E…

    – Tutte balle. È solo gente che non si è ancora mollata.

    Yuuri sospirò.

    – Fammi indovinare, sei tra quelli che scommettono che tra me e Victor non durerà neppure fino a fine stagione – disse, ma senza astio.

    Doveva esserci abituato.

    – No. Magari a fine stagione ci arrivate – concesse Yuri.

    – È perché siamo due uomini?

    Il biondino fece una smorfia e Otabek ebbe il terribile sospetto che fino a quel momento non avesse neppure preso in considerazione quell’aspetto della questione.

    – No… Mi facevate già schifo anche senza essere pervertiti. È solo perché siete esseri umani.

    Otabek prese il proprio bicchiere di birra e quasi rimpianse di non avere l’arsenico. Forse quello che voleva uccidere era se stesso.
 

*

 

    Forse, una volta che si fosse trasferito lì, Yuuri avrebbe finito per parlare con Victor meno di quanto avesse fatto nelle settimane in cui avevano avuto tra loro tutta l’Asia.

    Quella mattina lui non si era svegliato e adesso si trovava a guardare Victor che dormiva tutto storto sulla poltrona, con una scarpa ancora ai piedi e l’altra abbandonata sul pavimento. Se non altro adesso al giapponese era chiaro il perché l’altro non avesse mai davvero capito la sua difficoltà a dormire a ridosso delle gare. Victor, quand’era stanco, crollava. Era entrato in casa, si era tolto giacca e sciarpa, aveva iniziato a togliersi le scarpe e di colpo aveva smesso di parlare. Makkachin, a cui era stata promessa una passeggiata, non si era scomposto ed era salito a sua volta sulla poltrona, incastrandosi tra gli arti del padrone, dando a Yuuri l’impressione che quella fosse una situazione abituale.

    Il giovane si chiese se dovesse cercare di sistemarlo in qualche modo. Se lui si fosse addormentato in quella posizione si sarebbe svegliato a pezzi. D’altro canto, Victor non era abituato ad allenarsi di notte e quella mattina si era alzato al suo solito orario inumano. Sospirò, rassegnato a lasciare le cose come stavano e guardò fuori dalla finestra. Erano le tre e mezza del pomeriggio. Il cielo si era annuvolato, anticipando il già precoce crepuscolo. La temperatura era meno glaciale di quella del giorno prima, Victor aveva detto che faceva caldo. Meno otto. Se si fosse alzata ancora, forse avrebbe nevicato. Yuuri cercò il proprio cellulare. Vi aveva scaricato un corso di russo base. In meno di un anno Victor era riuscito a imparare quel minimo di giapponese che gli permetteva di muoversi per Hasetsu in discreta autonomia. Per la prima volta Yuuri si chiese se nei primi tempi si fosse sentito in trappola, neppure in grado di chiedere un’indicazione stradale, circondato da suoni, odori e sapori del tutto estranei. A dire il vero Victor era sembrato deliziato da Hasetsu e dalle sue novità. Storcendo le labbra, Yuuri si chiese se, in effetti, dopo anni a San Pietroburgo la sua sonnolenta cittadina giapponese non diventasse deliziosa agli occhi di chiunque.

    Il cellulare vibrò. Un messaggio privato su Facebook. Chi usava ancora Facebook? Sua madre, sua sorella. Ma entrambe per contattarlo avrebbero usato wa.

    Era Ludmilla.

    Ti contatto qui, non avendo il tuo numero. Puoi guardarlo oppure no. Ma è giusto che tu possa farlo prima che io decida se diffonderlo in rete.

    Seguiva un video. 

    Yuuri strinse i denti. Victor quindi non mentiva, quando parlava di ricatto. In quel file c’era di certo qualcosa di compromettente. Quasi di sicuro Victor che faceva il cretino con qualche ragazzo. Tutto considerato era un miracolo che la rete non ne fosse piena. Con una mano si tormentò i capelli. Che cosa voleva Ludmilla? Scandalizzarlo con una ripresa in cui il suo fidanzato, quando non era tale, ballava con un altro? Nessuno poteva pensare che lui fosse ingenuo a tal punto. Più probabilmente voleva che lui facesse pressione su Victor affinché continuasse la sua relazione di facciata con Ludmilla. In cambio lei si sarebbe astenuta dal rovinargli la reputazione. Beh, cascava male. Nessuno al mondo riusciva a imporre qualcosa a Victor. Non ci riusciva Yakov, di certo non ci sarebbe riuscito lui. Quindi la cosa migliore era non guardare il video. La cosa più corretta era attendere che Victor si svegliasse, parlargli e, nel caso, prendere visione della cosa insieme. Ma la luce stava sparendo, il russo gli dava acidità di stomaco e alla fine anche lui era un essere umano.

    Era un video girato in un locale, chissà da chi. Chissà com’era arrivato nelle mani di Ludmilla? Non era stata lei a farlo. Sembrava professionale, forse era stato fatto con un cellulare, ma la mano che lo reggeva era ferma. Nonostante le luci intermittenti della discoteca si riconosceva senza problemi la ragazza, che ballava strusciandosi al suo accompagnatore, che era Victor. Per un istante Yuuri credette che fosse quello ciò che lei voleva che vedesse, che avevano ballato insieme negli ultimi giorni. Ludmilla gettò le braccia al collo di Victor, come avrebbe fatto lui stesso in simili circostanze. Da ubriaco, almeno. Victor, però si scostò. Iniziò un alterco, nascosto dalla musica, e che comunque Yuuri non avrebbe compreso. Il pattinatore lasciò la pista e per un poco la ripresa seguì solo la giovane donna, che riprendeva a ballare da sola, nonostante le lacrime che le imperlavano le ciglia. Poi, però, chiunque fosse a filmare, decise che il più interessante dei due era Victor. Probabilmente nella realtà dei fatti erano trascorsi alcuni minuti, forse di più. Il russo era appoggiato al bancone del bar del locale, stava bevendo qualcosa che Yuuri suppose essere molto alcolico. Un ragazzo gli si era avvicinato. L’immagine zoommò verso di lui, rivelando che aveva i capelli scuri, gli occhiali e sembrava terribilmente giovane. Non come Yurio, certo, ma poco oltre la maggiore età, sempre che l’avesse raggiunta. Volendo, nonostante i tratti occidentali, quel ragazzo un poco assomigliava a lui. Yuuri iniziava a sentirsi un idiota. Non aveva bisogno di vederlo in un filmato per sapere quanto Victor potesse essere seducente, sopratutto se si impegnava per esserlo. E, sì, vederlo rivolgere sorrisi, attenzioni, carezze perfino, a qualcuno che non era lui lo irritava. Se lo scopo di Ludmilla era quello, ci stava riuscendo e lui era complice. Perché ormai era certo che il video risalisse all’inverno precedente, quando Victor, per quello che riguardava lui, aveva tutto il diritto di intrattenersi con chi voleva. Tuttavia continuò a guardare mentre Victor offriva da bere al ragazzo, curando di ingerire almeno il doppio dell’alcol, e poi lo scortava in pista. Era come vedere un’altra versione della festa dopo la finale del Grand Prix dell’anno precedente. Il ragazzetto ci stava mettendo lo stesso impegno che ci aveva profuso lui nel catalizzare su di sé l’attenzione di Victor. Come faceva Yuuri a biasimarlo? Certo, se quel video fosse finito in rete, sarebbe stato un bel pasticcio mediatico. Victor ubriaco che si strusciava contro un ragazzo… Ci fu un altro stacco. La scena successiva era in un parcheggio sotterraneo, era sgranata, come se fosse stata ripresa da lontano, con lo zoom al massimo. Victor e il ragazzo erano vicino a un’auto sportiva grigio metallizzato. Si stavano baciando… No, forse stavano per farlo, ma il ragazzo scosse il capo, preso da uno scrupolo dell’ultimo minuto. Fece per scostare l’altro e andarsene, ma Victor non era della stessa idea. Lo bloccò ai polsi, spingendolo contro la parete di cemento del parcheggio, determinato a ottenere almeno quel bacio. La qualità dell’immagine non permetteva di vedere l’espressione dei visi, né di cogliere le parole che i due si erano scambiati. Non c’era dubbio, però, che non fosse un gioco. C’era disperazione, da ambo le parti. 

    Yuuri si rese conto che gli mancava il respiro, perché quello che vedeva era talmente sbagliato, talmente in contrasto con quella che era la sua esperienza, da colpirlo con un dolore fisico all’imbocco dello stomaco. In realtà la scena era durata una manciata di secondi. Di colpo Victor si scostò e il ragazzo corse via, di sicuro in lacrime. Il pattinatore invece arretrò di qualche passo, appoggiò la schiena alla portiera dell’auto e poi si lasciò scivolare, fino a sedersi a terra, scosso da quelli che di certo erano singhiozzi.

    – Basta.

    Un indice proteso di una mano bianchissima entrò nel campo visivo di Yuuri e schiacciò lo schermo del cellulare, bloccando l’immagine.

    – Hai visto abbastanza – disse Victor, quello del presente, con il suo tono dolce.

    – Chi l’ha girato? – chiese Yuuri, sentendosi un idiota.

    Tra tutte le domande, quella? Ma, forse, era ancora troppo sotto shock per elaborarne di migliori.

    – Un giornalista specializzato in scandali. Poi l’ha proposto a me e a Ludmilla, per vedere se poteva ricavare più da noi o da una televisione o un giornale.

    Lo sguardo pietrificato di Yuuri fece scuotere il capo a Victor.

    – Non funziona così in Giappone?

    – Non ne ho idea. Non sono mai stato famoso… Quando è successo?

    – Due settimane prima del mondiale, l’anno scorso.

    Yuuri si scoprì a fissare lo schermo ormai spento del cellulare. Non riusciva a focalizzare i pensieri. Il ragazzino sbattuto contro il muro, che poi scappava in lacrime. Victor accasciato contro l’auto, con un’espressione che non si vedeva, ma si poteva immaginare. 

    Victor gli poggiò una mano sulla spalla e Yuuri d’istinto si scostò.

    – Scusa…

    – Non sei tu che devi scusarti.

    Yuuri non aveva idea di che faccia avesse, ma sapeva che Victor aveva un’espressione che non gli avrebbe mai voluto vedergli in volto. L’espressione che si ha dopo una sconfitta da cui non c’è riscatto possibile.

    – Dobbiamo parlare – disse, come nel più trito dei copioni.



– A causa di una trasferta il prossimo capitolo arriverà con un po' più di calma. Per intanto un grande GRAZIE a chi ha letto fino a qui

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***



Mentre pregustava l’arrivo di Yuuri, nei giorni precedenti, Victor aveva immaginato che il ragazzo avrebbe adorato le passeggiate serali con Makkachin. Avrebbe riso vedendogli infilare i guanti e quella sorta di cappottino con tanto di strisce rifrangenti ai lati. E avrebbe riso ancora di più nella sera gelida, vedendo quelle strisce di luce apparire a intermittenza, a seconda di come riflettevano i lampioni, mentre i cane correva lungo il sentiero pedonale a lato del canale. Invece, c’era quel silenzio più pesante del buio.

    Dopo aver insistito perché concedessero al cane la passeggiata promessa, Yuuri si era preparato con movimenti meccanici, lo sguardo ancora perso in quel locale, la notte dell’anno prima. Victor lo aveva spiato come un imputato in attesa della sentenza, senza sapere se avesse diritto oppure no a un’ultima arringa difensiva. Senza sapere se volesse avere diritto a una difesa. Senza il coraggio di chiedersi cosa ne sarebbe stato di lui se Yuuri se ne fosse andato. Senza il coraggio di indagare cosa avrebbe fatto lui, a parti invertite.

    Non aveva detto nulla, se non per indicare la strada per il parco lungo il canale, in attesa, con tutti i muscoli tesi, come quando si è nella posizione di partenza e si aspetta che la musica cominci. Senza conoscere, però, la coreografia. Senza voler avere una coreografia già pronta per manipolarlo.

    – Volevi portatelo a letto – disse infine Yuuri, guardando non lui, ma il proprio fiato che si condensava.

    Tra cuffia e sciarpa spuntavano solo gli occhiali. Impossibile leggerne l’espressione. Victor, al contrario, voleva sentire tutto il gelo di quel pomeriggio che era quasi notte sul viso. Voleva essere del tutto trasparente, anche se non aveva idea di cosa l’altro avrebbe visto in lui.

    – Non ci saremmo arrivati a un letto. L’auto sarebbe stata più che sufficiente. Lo era quasi sempre, in quel periodo.

    Yuuri annuì.

    – Perché lo hai lasciato andare?

    Era preparato a domande che facessero male. Dovette comunque fermarsi a prendere un respiro. Rivide gli occhi smarriti di quel ragazzo di cui aveva dimenticato il nome. Gonfi di lacrime e di panico nel momento in cui aveva smesso di lottare. A quel punto, se glielo avesse chiesto, avrebbe risposto «sì». Avrebbe risposto «sì» ad ogni cosa. Aveva forse dieci anni meno di lui, quindici centimetri in meno, una muscolatura ancora da adolescente. Si arriva a dire «sì» a qualsiasi cosa, quando ci si rende conto di non potersi opporre. «Sì» che hanno un sapore tutto particolare, che lui conosceva.

    – Gli stavo facendo male. Me ne sono accorto. Io più di chiunque altro… – si bloccò.

    Non avrebbe aggiunto nulla che avrebbe potuto portare Yuuri ad avere pietà di lui. Non era meschino fino a quel punto. Non ancora.

    – C’è stato qualcuno o qualcuna con cui non ti sei fermato, in quel periodo, anche a costo di fargli del male?

    Victor sibilò.

    Aveva passato mesi pensando che avrebbe potuto mandare in pezzi Yuuri con una frase. Com’è che adesso la sua voce aveva la durezza del granito ed era lui che poteva infrangersi contro le sue parole?

    – No – disse, con tutta la sicurezza che seppe trovare. – Non sono un violentatore. 

    Erano arrivati sotto un lampione. Yuuri si fermò, gli afferrò i polsi con le mani inguantate e cercò i suoi occhi.

    – Lo so. Sei tu che sembri pensare al contrario.

    L’aria sfuggì di nuovo tra i denti di Victor come un sibilo. Sbatté le palpebre. Cercava la rabbia, in Yuuri, l’accusa. Non c’erano. Non sapeva dire cosa ci fosse, ma non quello che si era aspettato di trovare.

    – Lo hai visto…

    – L’ho visto – disse il giapponese. – Eravate ubriachi fradici. Volevate baciarvi. Poi lui è andato in panico, ti ha detto di no e quando lo hai capito lo hai lasciato andare.

    Victor scosse il capo.

    Non era andata così.

    – Si chiama molestia, quella cosa che hai visto. Se mi avesse denunciato, nessun tribunale mi avrebbe assolto.

    – Non in Russia, di sicuro – commentò Yuuri. – Quello che ho visto si chiama esagerare. E fermarsi appena in tempo. Cos’è successo dopo?

    Yuuri continuava a cercare il suo sguardo e Victor a fuggirlo.

    – Sono salito sull’auto. E mi sono schiantato contro un albero fuori città. Non è rimasto molto della macchina. Un colpo di sonno.

    Fuori città. Dalla parte opposta rispetto al suo appartamento. Un rettilineo con i prati congelati ai lati e un unico albero. Quando lo avevano soccorso e estratto dal veicolo, con la spalla che sanguinava per una scheggia di vetro, aveva ammesso di aver bevuto. Non avevano trovato tracce di frenata. Era stato sfortunato a uscire di strada proprio lì, avevano detto, cinque metri in più o in meno e avrebbe salvato l’auto. Che invece, aveva dato un senso a tutto il denaro che era costata, salvando lui. Non aveva fatto male a nessuno, non c’erano autovelox, non gli avevano neppure ritirato la patente. Era domenica. Lunedì mattina era andato regolarmente a fare allenamento. Nessuno gli aveva chiesto niente.

    – Un colpo di sonno – ripeté Yuuri. – Come sei arrivato a ridurti così?

    E Victor lo ringraziò dal più profondo del suo cuore di non obbligarlo a dire ad alta voce che i suoi occhi non si erano mai chiusi.

    – Un giorno capirai davvero cos’è un’olimpiade… Può essere l’esperienza più bella di una vita. Oppure un incubo. Sopratutto se è un’olimpiade in patria, in cui vai da favorito… Dopo, vincere diventa una sorta di dovere e, allo stesso tempo, l’unica cosa che ti definisce. L’unica cosa che sei.

    Avevano ripreso a camminare. Con una sorta di timidezza, Yuuri aveva preso la sua mano. Come se lo sapesse quant’era difficile, per lui, parlare davvero di se stesso. Com’era difficile distruggere l’immagine di sé che in quei mesi aveva costruito. Giorno dopo giorno, Yuuri aveva continuato a vedere l’uomo che voleva vedere. Bello, competente, in grado di essere d’aiuto. Giorno dopo giorno, era stato bellissimo fingere di esserlo, rimandando sempre il momento dello svelamento. Alzò gli occhi al cielo, ma era coperto e la luce dei lampioni si perdeva in un buio indefinito.

    – È difficile da spiegare… Come qualcosa possa spezzarsi quando tutto da fuori sembra perfetto… – provò. – Cose sciocche. Dopo il mondiale del 2014 invece che diminuire i miei impegni erano triplicati. Ero diventato un simbolo e come tale andavo esibito. C’erano i galà, le tournée. Sono arrivato a ridosso dell’inizio della stagione più stanco di quanto non fossi a marzo. E iniziavo a sentirmi solo. E patetico. Perché avevo tutto quello che gli atleti vogliono e sognano per una vita e questo non mi dava il diritto di non esserne felice… Per tutta la vita il momento in cui mi legavo i pattini, prima di scendere in pista, è sempre stato quello più bello di una giornata e invece mi sentivo male al solo pensiero. Ho fatto una marea di esami, ma non c’era niente, se non che non ero più un ragazzino.

    – Stavi come me nell’ultimo periodo a Detroit. Solo che io stavo male perché perdevo e tu perché vincevi.

    – Sì… E come te a Detroit, mi sentivo solo. La persona che mi faceva meno schifo, in pista, era un ragazzino di quattordici anni. Quando inizi a far parlare Yurio di videogiochi solo per far finta di avere una conversazione sei messo piuttosto male, suppongo.

    Riuscì a indovinare il sogghigno di Yuuri sotto la sciarpa.

    – Chi ti aveva lasciato? – chiese però il giapponese.

    – Nessuno. Non avevo nessuno da cui essere lasciato.

    Il fatto che Chris avesse deciso di mettere la testa a posto e che sembrasse così dannatamente soddisfatto nel rimanere fedele a quella noia ambulante di nome Max non aveva nulla a che fare con quanto era successo. Vero?

    – Quando è arrivata Ludmilla?

    – Verso agosto, credo. Lei mi piaceva o forse volevo che mi piacesse. Ha vinto più di me e sembrava perfettamente a suo agio nella follia mediatica che ci circondava. Era simpatica. Sembrava che ne valesse la pena, di provarci.

    Era difficile ricordare come gli fosse sembrata Ludmilla, allora. Bella. Non il tipo di bellezza che potesse stregarlo, ma una bellezza gradevole. Gli piaceva il modo in cui rideva e in cui ballava. L’idea che non fosse una pattinatrice, ma che capisse la sua vita e che lui potesse capire la sua. Una persona che potesse stimare. In quel momento gli sembrava la miglior approssimazione possibile dell’amore.

    – Stai tremando – disse.

    – Ho freddo – ammise Yuuri. – Fa un freddo terribile. Non riesco a capire come tu possa sopravvivere senza neppure un cappello. Ci credo che a Barcellona facevi il bagno…

    – È tutto, sempre, una questione di prospettiva. Vengo da un posto più freddo. Vieni, qui vicino c’è un locale in cui accettano i cani.

    – Continua a raccontare, così ignoro l’assideramento.

    – Quando arriveremo al riparo dovrò spogliarti e scaldarti col mio corpo, lo sai vero?

    – Considerando il carattere dei tuoi connazionali, preferisco farmi leccare da Makkachin. Dovrebbe funzionare comunque.

    Risero entrambi.

    – Non ci posso credere. Che non mi stai lasciando – disse, sincero. Poi esitò – Perché non mi stai lasciando, vero?

    – Dipende. Se muoio assiderato ti lascio.

    – Sono trecento metri. Per vivere pattini sul ghiaccio con indosso delle tutine semi trasparenti. Puoi farcela.

    – Torna a Ludmilla. Sono sicuro che prenderti a calci mi aiuterebbe a scaldarmi.

    – Ludmilla… Con lei… Avremmo anche potuto evitare di massacrarci, credo. Ma io ho fatto l’errore di crederci. Di fidarmi. Le ho raccontato come mi sentivo. E lei mi ha presentato la soluzione.

    – E sarebbe?

    – Una cosa banale. Scontata. Qual è la prima cosa che chiunque pensa di un atleta russo?

    – Che sarà imbattibile.

    Victor sorrise, mentre rimetteva il guinzaglio a Makkachin. L’insegna della tavola calda era in vista. Così Yuuri avrebbe scoperto anche quello, che il suo locale preferito era una bettola dalle pareti rosse scrostate gestito da una vecchia siberiana.

    – Escludi il pattinaggio.

    – Esistono altri sport?

    – Doping. La sua soluzione era il doping.

    Yuuri rimase senza parole e Victor ne approfittò per farlo entrare nel locale e togliergli i guanti. In effetti aveva le mani gelide al punto che non riusciva a muoverle. Ordinò del the in russo.

    – I piedi come vanno? – chiese.

    – Ludmilla fa uso di doping?

    – Come quasi chiunque altro, qui – fece una smorfia amara. – Sono io che vivo in una bolla. Lei è rimasta sbalordita che io non ci avessi neppure pensato e a me si è aperto un mondo.

    Con la coda dell’occhio controllò che Eléna fosse già arrivata, in tutto il suo splendore da centodieci chili, a soccorrere Makkachin con i soliti biscotti.

    – E tu? – chiese Yuuri.

    – Il migliore amico di Yakov è morto a trent’anni d’infarto, per le schifezze che aveva preso – rispose, piatto.

    Alla fine era solo questo che l’aveva trattenuto. Non certo l’etica sportiva. O un’etica qualsiasi. Se avesse dato ascolto a Ludmilla e al suo medico di fiducia, un medico federale, per di più, prima o poi Yakov l’avrebbe capito. E questo lo avrebbe ucciso. Gli aveva quasi spezzato il cuore andandosene all’improvviso, lo sapeva. Ma in un certo senso era stato un modo per salvarlo, perché l’alternativa era peggiore. Perché la semplicità con cui Ludmilla parlava di certe pratiche, dei metodi per aggirare i controlli, delle coperture compiacenti a livello federale, era una sirena difficile da ignorare.

    Eléna arrivò a posizionare il the e un vassoio di biscotti, regalando a Victor una pacca sulla spalla e a Yuuri uno sguardo curioso. Erano anni che frequentava quel locale e non ci aveva mai portato nessuno.

    – Hai perso del tutto la stima che avevi per Ludmilla – commentò Yuuri.

    Victor gli mise tra le mani la tazza calda, dato che il giapponese sembrava avere ancora qualche difficoltà con i movimenti fini.

    – Sì. Lei mi ha presentato il suo medico e io ho documentato tutto, per dimostrare, nel caso fosse scoppiato uno scandalo, che ne ero estraneo. Eppure continuavo a frequentarla. A fingere di essere il suo fidanzato. Non credo di essermi mai sentito così meschino. Bere o scopare erano dei modi per non pensare a quanto mi facessi schifo.

    Era quasi semplice, da dire così. Poche frasi concise per descrivere mesi di buio, di lacrime mattutine versate nel tentativo di trovare la forza di alzarsi dal letto, di momenti troppo lunghi, alla sera, sul proprio balcone, a considerare se l’altezza fosse sufficiente a evitare che qualcun altro gli dicesse che era stato fortunato. D’istinto allungò una mano ad accarezzare Makkachin, che in quei momenti si limitava a guardarlo, in attesa che lui rientrasse, per andare a stendersi al suo fianco sul letto e lasciarsi abbracciare, quando si svegliava di soprassalto nella notte. Il grande campione, salvato da un cane…

    Yuuri, inspirò il vapore proveniente dalla tazza.

    – Anche Ludmilla, a modo suo, è una vittima e a suo modo è stata sincera con te… – considerò. – Quando parli di ricatto, intendevi denunciarla all’antidoping.

    – Non lo farò. Così come lei non metterà davvero quel video in rete. Voleva solo far del male a te. Non dovresti considerarla una vittima.

    – La sera della festa, dopo il Grand Prix dell’anno scorso… Non ci hai neppure provato a baciarmi o a portarmi a letto. Perché?

    Victor, che stava ancora accarezzando Makkachin, si girò di colpo. Yuuri era arrossito un poco. Beh, considerato quello che aveva visto, la domanda era legittima. Anche la risposta lo era?

    – Quella sera di noi due eri tu il più disperato – disse. – E non mi capitava da parecchio, di avere davanti qualcuno che fosse più disperato di me. Quando mi hai chiesto di diventare il tuo allenatore, già in quel momento, ho pensato che forse, io che stavo affondando, avrei potuto salvare te. In quel momento mi guardavi come una sorta di eroe. E gli eroi non si approfittano delle principesse che vogliono salvare.

    – Io sarei una principessa, quindi?

    – La più bella che mi sia capitato di incontrare… Ed è stato bellissimo interpretare per te il ruolo dell’eroe. Ci sono state giornate in cui, quasi, ci ho creduto davvero…

    – Ma lo sei stato. L’eroe. Tu sei venuto fin in Giappone e hai trasformato un atleta che si voleva ritirare nel detentore di un record del mondo. Lo hai fatto. Hai cercato il più possibile di essere l’eroe che io vedevo in te.

    Ma non lo era. E perché mai Yuuri adesso non glielo stava rinfacciando?

    – E tu vedevi in me un atleta vincente. E io ho cercato il più possibile di essere l’uomo che tu vedevi – continuò Yuuri. – Non ho vinto un Grand Prix, ma ci sono andato vicino, infinitamente più vicino di quanto non avrei mai fatto senza di te. Tu non sei perfetto, non sei un eroe, ma hai dato tutto te stesso per cercare di esserlo. Alla fine è questo ciò a cui serve l’amore, no? Negli occhi di chi ci ama c’è una versione migliore di noi stessi e guardando quel riflesso possiamo trovare una strada per cercare di renderlo reale.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Otabek si guardò le mani sporche.

    Non ci poteva credere. Si era fatto una sega nel bagno dell’uomo che lo aveva terrorizzato più di chiunque altro al mondo. Peggio. Nel bagno della donna che era in grado di terrorizzare l’uomo che lo aveva terrorizzato. Ma, d’altro canto, dall’altra parte del muro Yuri dormiva a torso scoperto, in quanto offeso per la sua battuta sulla casacca del pigiama. E questa era la migliore alternativa che era riuscito a trovare al saltargli addosso. Che poi era il suo piano originario. Lo scopo per cui era venuto a San Pietroburgo. Solo che Yuri, lo Yuri reale che alle dieci di sera già dormiva con un gatto tra i capelli, non era quello di cui Otabek si era invaghito.

    Lo Yuri da cui Otabek era rimasto ipnotizzato era un ragazzo che aveva seguito sui social, spiandone la crescita, ammirandone le esibizioni, leggendo le dichiarazioni pubbliche. Un ragazzo bellissimo e sfrontato, con il fisico di un ballerino e la determinazione di un soldato. E, aveva immaginato il kazako, con la stessa innocenza di un soldato gettato nella battaglia fin dall’infanzia. Viveva fuori casa da che aveva dieci o undici anni. Si allenava con Popovic, che aveva una media di tre fidanzate a stagione e con Victor, che si era fatto metà del mondo del pattinaggio, sia maschile che femminile. Per dirla con la finezza di Martha, l’articolo era interessante e di certo aveva già ricevuto delle offerte. Nulla nel suo atteggiamento lasciava presupporre che non le avesse anche accettate. Otabek aveva pregato in tutte le quattro lingue in cui sapeva farlo che non fosse stato con Victor. Prima dell’inizio della stagione era girato uno speciale sulla pista di San Pietroburgo in cui si vedevano i due atleti ridere insieme a bordo pista. Era stata quella scena a fargli decidere che, costasse quel che costasse, in quella stagione avrebbe fatto in modo di gareggiare con Yuri e di parlargli. Prima che quel maledetto russo con i suoi cinque ori mondiali allungasse le zampacce. Era già abbastanza terribile dover essere confrontato al Victor pattinatore, i commenti dei giornalisti al mondiale dell’anno precedente erano stati impietosi, certo non voleva dover reggere il confronto con Victor come amante. Quando aveva saputo che Nikiforov se ne era andato in Giappone aveva gridato di gioia, nel salotto di casa sua, tra lo sconcerto generale. Nulla lo aveva preparato alla totale inesperienza di Yuri in campo affettivo. Non erano quelle le regole d’ingaggio per cui aveva firmato. Era come essersi imbarcato sul volo sbagliato ed essersi trovato da tutt’altra parte del mondo, con un bagaglio del tutto inadeguato.

    Otabek non era mai stato la prima volta di nessuno. Né aveva mai corteggiato qualcuno che non si fosse mai innamorato. Aveva frequentato il liceo un anno negli Stati Uniti e poi in Canada. Era partito dal Kazakistan che era un bambino e si era trovato circondato da adolescenti. Adolescenti occidentali disinibiti. Per quanto non integralista, la sua famiglia era mussulmana e frequentava per lo più altre famiglie mussulmane, aveva studiato fino ad allora in una scuola privata non confessionale, ma ispirata a principi in cui si suoi genitori potevano riconoscersi. In cui, tanto per dire, era impossibile trovarsi a giocare a pallavolo in squadre miste, con le ragazze in divise minimal che lasciano bel poco all’immaginazione. Loro, le ragazze, invece, lasciavano espliciti commenti su quello che stava sotto le divise dei ragazzi, che coprivano un poco di più, ma evidentemente non abbastanza. Invitavano alle feste. Cacciavano la lingua in bocca. Se sembravano innocenti e studiose si rivelavano poi come Martha, capaci di discutere di orgasmi con la stessa disinvoltura con cui le sue cugine parlavano di abiti per i matrimoni.

    Dopo le mani, Otabek si lavò anche la faccia.

    Non sono le regole d’ingaggio per cui ho firmato, pensò.

    Perché non si trattava solo di inesperienza, Yuri aveva una sorta di rifiuto per ogni coinvolgimento sentimentale. Il kazako ci aveva messo un pomeriggio intero a pilotare con cura le conversazioni, tra una seduta di streaching e una sfida alla play station, per altro clamorosamente persa, per indagarne l’origine. Il risultato di tale scientifica analisi era evidente. Nella vita di Yuri non c’era una singola esperienza di relazione affettiva positiva. Il nonno? Vedovo. I genitori? Non pervenuti. Morti o spariti, Otabek non ne aveva idea. L’allenatore, dio, sostituto famigliare? Divorziato. Situazione al momento incerta con la ex moglie, ma comunque non un esempio di rapporto felice. I compagni di allenamento? Mila, quella più vicina a un’amica, malmenata almeno una volta da un ex fidanzato. Otabek non l’avrebbe mai detto, ma, del resto, non lo si può mai dire, in quei casi. Georgi? Caduto in depressione dopo essere stato mollato per la milleunesima volta. Victor? Con una vita sentimentale talmente disordinata alle spalle che ci si sarebbe potuto scrivere non un romanzo, ma una saga di romanzi. Scommesse aperte sulla durata della sua attuale storia. Che voglia poteva avere di lasciarsi andare uno che aveva quel genere di esperienza? Nella storia più felice di cui avesse sentito parlare, lei era morta. Nessun lieto fine in vista.

     Non si trattava di battere la concorrenza. Non si trattava neppure di sedurre un’anima candida. Si trattava di abbattere una fortificazione eretta contro il mondo intero. Yuri non era un ingenuo. Nessuno che avesse avuto la sua vita poteva esserlo. Sapeva di essere bello e che il mondo era pieno di persone, di ambo i sessi, che avevano fatto dei pensieri su di lui. Gli aveva fatto leggere un imbarazzantissimo messaggio inviatogli da una fan che era una dichiarazioni d’intenti pornografica. Tutto quello che lei avrebbe voluto che lui le facesse, con una dovizia di particolari da far arrossire Otabek.

    – È di San Pietroburgo – aveva confidato. – Potrei davvero incontrarla. 

    – Beh, potrebbe essere divertente – aveva detto lui, a denti stretti.

    Yuri, però, aveva scosso il capo.

    – Non fa per me. E se poi si appiccicasse, come la ex di Victor, che continua a tampinarlo persino adesso? 

    Decisamente, quel ragazzo, per cui qualsiasi coinvolgimento sentimentale non faceva per lui non era la destinazione per cui si era imbarcato. Il problema era che la landa sconosciuta a cui era approdato era quanto di più seducente si potesse immaginare. Yuri non poteva essere una scopata occasionale con un bel ragazzo. Era qualcuno che non aveva mai permesso a nessuno di avvicinarsi davvero, ma che concedeva a lui di dormire nella sua stessa camera. 

    Aprì la finestra, per ispirare l’aria gelida di gennaio.

    Lui non era innamorato di Yuri.

    Pensava solo ossessivamente a lui. Lo desiderava al punto, beh, di avere fatto quello che aveva appena fatto e allo stesso tempo sentiva di volerlo proteggere da tutto e da tutti.

    Non era per nulla quello che aveva provato per Marcus, ammesso che quello fosse stato amore. No. Quello che desiderava era essere guardato da Yuri come lui aveva guardato Marcus. Spiandolo da dietro a un libro con un misto di terrore e ammirazione. Attendendo con una trepidazione quasi simile al dolore il momento abituale in cui, dopo che aveva svolto un esercizio, il dottorando che gli dava ripetizioni si metteva dietro di lui, con le mani sulle sue spalle, per spiare da sopra alla sua testa. Tremando e sudando nell’istante in cui, dopo due mesi di lezioni serali, la testa di Marcus si era abbassata fino a sfiorare con le labbra il suo collo. Lui era rimasto del tutto immobile e il giovane aveva aumentato la pressione, fino a che era stata la lingua a sfiorare la pelle, e dal profondo del torace di Otabek era emerso un gemito del tutto incontrollato, segno del risveglio di una parte di se stesso che neppure aveva mai ammesso di avere. Quello che desiderava, comprese, era essere la persona che avrebbe portato Yuri a un simile cedimento. Lo voleva vedere accadere con le sue mani sulle spalle del ragazzo. Voleva essere il primo a guardare i suoi occhi, nel momento in cui il russo si fosse reso conto di essersi inoltrato in un territorio ignoto da cui non era più possibile arretrare.

    Questo però aveva delle conseguenze.

    Portare qualcuno nell’ignoto significava esporlo, renderlo vulnerabile. Non aveva mai pensato che Yuri potesse essere fragile. In nessuna accezione del termine. Aveva fatto il record mondiale alla sua prima finale seria, che diamine! Otabek era sbarcato a San Pietroburgo accettando la possibilità di tornarsene indietro con l’ego a pezzi, sbranato dalla tigre quindicenne. Ma, d’altro canto, neppure lui aveva pensato di essere fragile quando infine il viso di Marcus si era rialzato e lui si era trovato a fissare il suo sguardo castano e calmo, mentre le loro mani si intrecciavano. Non lo aveva pensato neppure quando per la prima volta si era trovato nudo di fronte a lui, con la luce del lampione che filtrava attraverso le veneziane della camera del giovane. Perché il sesso non era un problema, neppure quello che non avrebbe mai dovuto sperimentare. Perché lui affrontava tutto come se fosse una guerra e in guerra non ci sono tabù. Non lo aveva pensato fino alla sera in cui era andato con Martha al concerto, strano scambio di M, perché Marcus quella sera doveva terminare la stesura di un articolo importante. Articolo che, a quanto pareva, si scriveva con le labbra sulle labbra di un ragazzo biondo e slavato, proprio a quel concerto. E in quel momento Otabek aveva scoperto che forse non era debole, ma anche i soldati, quando vengono colpiti sanguinano. Che anche i soldati soffrono. Piangono abbracciati a un cuscino. Sbagliano i salti. Litigano con compagni di allenamento che sono, per altro, i figli del proprio allenatore. Si trovano a telefonare alla mamma dicendo di voler tornare a casa. Come un adolescente qualsiasi con il cuore spezzato per il naufragio della propria prima storia d’amore.

    Chi avrebbe potuto chiamare, Yuri, nella notte, se lui gli avesse spezzato il cuore? 

    Un cuore che nessuno aveva mai toccato è per sua stessa natura più fragile. Otabek non aveva idea di come andasse maneggiato. Di come disarmare l’artiglieria difensiva di Yuri senza accendere per errore una miccia e causare un’esplosione. Lui che, dopo Marcus, non aveva mai più avuto una storia. Non si era mai più neppure posto il problema di dover essere fedele, di meritarsi il reiterarsi di un affetto.

    Doveva essere una missione da incursore, la sua. La rapida, senza dubbio effimera, ma appagante, conquista di qualcosa di bellissimo. Si era trovato avviluppato dai cavi contorti di una bomba pulsante. Non era decisamente l’ingaggio per cui aveva firmato. Poteva districarsi e lasciarla inesplosa. Sarebbe arrivato qualcun altro, con più esperienza, in un momento più adatto e avrebbe cercato di portare a termine l’impresa. Di sicuro sarebbe arrivato qualcun altro. Forse, lasciando il campo libero, Otabek non si sarebbe fatto troppo male. Ma nessuno gli assicurava che quel qualcun altro tranciasse al giusto momento il giusto cavo.

    Ecco, forse il punto era quello. Se proprio era inevitabile rischiare che il cuore di Yuri si spezzasse, trascinando chiunque lo avesse fatto nell’esplosione, allora forse voleva essere lui a rischiare.

    Solo che non aveva la minima idea di come fare.
 

*

 

    Qualcosa era cambiato nell’aria. Un impercettibile alzarsi della temperatura. Un variare appena dell’umidità. Victor non aveva bisogno di guardare le nubi, invisibili nell’oscurità, per sapere che stava per nevicare. Lo sentiva dalla pressione dell’aria sul viso, dal suo sapore sulle labbra. Il freddo, in tutte le sue forme, era una delle poche cose di cui fosse competente.

    Richiamò Makkachin, che aveva approfittato del suo risveglio per una pipì fuori programma nel minuscolo rettangolo verde sul retro del condominio, e rientrò nel palazzo. Non era da lui non dormire prima di una gara. E neppure era stato uno dei risvegli ansiosi e pieni d’angoscia che erano diventati abituali prima della sua partenza per il Giappone. Era piuttosto la necessità di far ordine nei pensieri. Imprescindibile e forse necessaria ai fini della gara stessa. Lui, però, considerò mentre, entrato nell’appartamento, andava ad accendere il bollitore, ne capiva di freddo e di pattinaggio. A districarsi nella vita era un disastro e, dovendo da qualche parte iniziare a pensare, l’unica cosa su cui aveva voglia di soffermarsi era il sesso.

    Yakov aveva smesso da molto tempo di raccomandargli l’astinenza prima di una gara. Era un inutile spreco di fiato che non andava a incidere né sulle sue azioni né sui suoi risultati. Quindi Victor non aveva provato alcun senso di colpa, la sera precedente, nel prendersi il suo tempo per indagare con le proprie mani la schiena di Yuuri. Quello era ancora un territorio in fase di esplorazione, qualcosa a cui si erano dedicati da troppo poco tempo, troppo poco, tra una gara e un volo intercontinentale. E quindi le sue mani si erano mosse lente sulla schiena chiara di Yuuri, assaporandone a uno a uno i muscoli sottopelle. Non voleva che quell’esplorazione fosse percepita come un tentativo di invasione. Era piuttosto il lento procedere di un colono in un territorio che già ama, ma che deve ancora fare del tutto proprio. Non una conquista, ma un accasarsi. Yuuri era sdraiato sul letto, con la faccia appoggiata al cuscino. Dopo quello che aveva visto di lui, dopo quello che Victor aveva raccontato, se lo sarebbe aspettato teso. Ma non si può mentire al tatto e la rilassatezza dei muscoli di Yuuri parlava di una fiducia che lui sentiva di non meritare. Negli occhi di chi ci ama ci scopriamo migliori e per non deludere quello sguardo diventiamo migliori… Quella fiducia gli imponeva di esserne degno. Sarebbe andato avanti ore ad accarezzarlo piano, se Yuuri non si fosse girato di scatto, afferrandogli i polsi e ribaltando la posizione con un’autorevolezza che non permetteva obiezioni.

    – Se ti stiri un muscolo adesso Yakov mi ammazza – aveva detto, con un tono professionale e serio smentito dalle guance arrossate e dall’eccitazione evidente. – Quindi adesso stai giù, da bravo, e ti rilassi, senza pensare a niente.

    E, invece, Victor aveva continuato a pensare. 

    Mentre si incastravano nel letto come due pezzi di un puzzle, pensava che era difficile non credere che qualcuno non li avesse disegnati apposta così, uno più forte proprio dove l’altro era più debole, perché potessero combaciare. Pensava che poteva anche permettersi di essere debole, in quel momento, abbandonarsi al piacere che Yuuri gli regalava con la bocca e con le mani. Poteva permettersi anche di tremare. Non c’era alcun gioco di potere, nessuna record da conquistare o avversari da battere. Non sarebbe successo, ma poteva persino permettersi di fermalo, se non si fosse sentito a suo agio. Lui che era il più esperto, che aveva già fatto tutto con tutti, poteva arrogarsi con Yuuri persino un diritto alla timidezza, a cui aveva dovuto rinunciare troppo presto.

    L’acqua iniziò a bollire e, sospirando, Victor se ne versò una tazza. La sveglia sarebbe comunque suonata un’ora più tardi. Rimase un istante a guardare le bollicine formarsi lungo la parete di ceramica, incerto su quale bustina immergere. Lui e Yuuri erano un puzzle e nei puzzle non ha senso pensare a quale pezzo sia più forte. Bisogna solo trovare il giusto modo di farli combaciare. Victor conosceva solo il freddo e il pattinaggio. E su quegli ambiti, su quelli solamente, era suo il dovere di trovare il giusto incastro. L’unico perfetto per entrambi. Ammesso che esistesse.

    Cosa sei tornato per fare? Chiedeva Yakov.

    Era tornato per strappare a Yuuri il record? Allora, senza alcun dubbio, sistemarsi entrambi a San Pietroburgo, con Yakov come allenatore, era la scelta migliore. Yakov conosceva lui da… Quindici, sedici anni? E per niente Yuuri. Non era difficile immaginare con chi avrebbe fatto il lavoro migliore. Era davvero tornato per i record? Che comunque presto o tardi gli sarebbero stati strappati di nuovo? Che cosa poteva dargli, ancora, il pattinaggio, che potesse rimanere suo per sempre?

    Per cosa era tornato?

    

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


– Non ci credo, hai un aspetto più stanco del mio – disse Yuuri, andando a sedersi a uno dei tavoli del bar del palaghiaccio con il caffè in mano, invitando Otabek a fare altrettanto.

    I russi avevano orari inumani. Yakov aveva voluto fare una riunione tecnica con i propri allievi prima dell’inizio degli allenamenti ufficiali. Victor e, supponeva il giapponese, anche Yurio si erano alzati prima delle cinque. Pimpanti e tranquilli come se si preparassero a una scampagnata. 

    – Non è normale pensare di voler andare a pranzo quando invece il sole sta appena sorgendo – si lamentò Otabek.

    In effetti erano appena passate le nove e il cielo stava iniziando a schiarirsi, per passare dal nero a un grigio depressione, illuminando appena una spruzzata di neve che pareva già sporca.

    Il kazako bevve una lunga sorsata di caffè e poi guardò con astio il bicchiere.

    – Non lo sanno proprio fare – grugnì.

    – Non mi sembra così male – lo difese Yuuri.

    Si era promesso di trovare quante più cose positive riuscisse, per abituarsi all’idea di poter vivere in quel posto e il caffè gli era sembrata una da cui poter cominciare.

    – Può essere. Ma io sono mezzo turco. Ho un’idea precisa di caffè e persino in Canada lo facevano migliore.

    A Detroit no, pensò Yuuri. 

    Vivere a San Pietroburgo non poteva essere così diverso dal vivere a Detroit, no? E nei primi tempi, prima che subentrassero la pressione e l’ansia costante non era stato male vivere là, no? Yurio non era Pich, certo, ma ci andava d’accordo, per quanto fosse possibile andare d'accordo con la Tigre di Russia, e Victor compensava il resto. Qui, però, non sarebbe vissuto in un campus, dove non era l’unico straniero, dove c’era sempre qualcuno a cui potesse chiedere un’indicazione, all’interno di un territorio circoscritto, sicuro, da cui partire pian piano in esplorazione. Non ci sarebbe stata l’università, materie che amava da studiare, persone che condividevano le sue passioni. Yuuri si chiese se sarebbe stato in grado di organizzarsi una vita senza l’ausilio di una griglia di doveri prefissata, senza un una zona di sicurezza, in un mondo che diffidava di lui senza conoscerlo, solo perché era fisicamente diverso. E che, conoscendolo, lo avrebbe odiato, perché viveva con un uomo.

    – Bene, quindi siete in grado di cavarvela, checché ne dicano i vostri anfitrioni.

    Una voce li fece voltare entrambi. Era quella di Dimitri, il sorridente vice di Yakov, che li osservava soddisfatto, in piedi dietro di loro.

    – L’istinto ci ha guidato fino a della caffeina – replicò Yuuri.

    Dimitri gli piaceva. Era amichevole tanto quanto Yakov era spaventoso. Con un po’ di fortuna, sarebbe stato lui a seguirlo per la maggior parte del tempo. L’altro doveva aver fatto un ragionamento simile, perché lo stava studiando di sottecchi, valutandolo.

    – Iniziano l’allenamento, rientriamo? – chiese Otabek.

    Il bar aveva una vetrata che dava sull’esterno e l’altra direttamente sulla pista principale.

    – No. Da qui vediamo allo stesso modo e siamo a distanza di sicurezza dalle grida di Yakov – replicò Dimitri.

    – Non si rilassa mai, vero? – chiese Yuuri.

    – Qui meno che meno. In patria è ancora più sotto pressione. Figuriamoci se giochiamo in casa. Se il podio non è tutto nostro ci facciamo una figura peggiore che non a perdere una medaglia alle olimpiadi.

    Condannati alla perfezione, pensò Yuuri. Il palazzetto si stava riempiendo rapidamente. Il pattinaggio era uno degli sport nazionali russi, da sempre una riserva sicura di medaglie per le olimpiadi invernali. A vedere la competizione c’erano moltissimi ragazzi e ragazze provenienti dalle scuole di pattinaggio di tutta la Russia che sognavano di diventare vincenti e famosi come Victor. Molti di loro nel giro di un anno o due avrebbero potuto confrontarsi direttamente con lui e Yurio, alla ricerca della propria opportunità. C’erano poi semplici appassionati, ragazze sopratutto, che stavano già iniziando a posizionare i propri striscioni. Quattro adolescenti stano cercando di appendere una sorta di lenzuolo in cui appariva Yurio disegnato in stile manga con le orecchie da gatto, ma il nome di Victor si leggeva già ovunque. Georgi aveva un paio di tifosi con una bandiera che lo ritraeva. Per età potevano essere genitori o famigliari. Degli altri partecipanti alla competizione sugli spalti non c’era traccia. Doveva essere piuttosto deprimente essere uno di loro.

    – Sto cercando di immaginarmi le nazionali kazake con questo tipo di pubblico, ma mi sembra fantascienza – commentò Otabek. – L’anno scorso ci saranno stati venti spettatori e mia madre ha offerto il the a tutti. È bastato un solo termos.

    I sei pattinatori in testa alla classifica dopo il programma breve scesero sul ghiaccio per l’allenamento pubblico, accolti dallo sfavillare dei flash dei fotografi. Victor, consapevole che i riflettori erano tutti per lui o quasi, si concesse un giro di pista, prima di iniziare a lavorare sul serio. Yurio, al contrario, mostrò un viso scontroso ai giornalisti e si affrettò a cercare spazio per provare i salti.

    – Ho iniziato a capire perché vi siete arrabbiati così tanto, quando Victor è venuto in Giappone – disse Yuuri, piano, rivolto a Dimitri.

    Non si era spettato nessun tipo di apertura da parte di Yakov. A Mosca era stato corretto e professionale nei suoi confronti e lui se n’era andato senza quasi una parola di ringraziamento. Voleva recuperare, ma non sapeva come fare. Ci sono momenti in cui la timidezza lo spingeva oltre i limiti della scortesia e lui, pur provandoci con tutte le sue forze, come un uomo in mare che non sa nuotare abbastanza per evitare di annaspare, non riusciva a recuperare. Ma non poteva iniziare un rapporto lavorativo con chi lo pensava uno spocchioso scostante. Il tecnico russo gli appoggiò una mano sulla spalla e Yuuri si costrinse a non irrigidirsi, nonostante odiasse tutti i contatti fisici che non era lui a ricercare. 

    – Non ce lo possiamo far scappare di nuovo – disse Dimitri, a bassa voce. – Lo capisci? È una sorta di proprietà dello stato e noi abbiamo promesso di conservarlo, integro e competitivo, fino alle prossime olimpiadi. Non possiamo caricare Yuratchka di tutte queste responsabilità.

    Yuuri annuì. 

    – Grazie per… Insomma, non c’è pattinatore che non sogni di lavorare alla Pista di San Pietroburgo, suppongo… Però, ecco, se fosse un problema, per voi, per te, il fatto che…

    Stava per strozzarsi con le sue stesse parole. Dimitri, però, doveva aver capito ugualmente, perché ne uscì con una risata sommessa.

    – Yakov non tollera smancerie in pista. E io sono un banale russo, stipendiato da una federazione russa, non puoi pretendere che non mi faccia schifo l’idea di vedere due uomini che si baciano – sorrise, a smentire la durezza delle proprie parole. – Però io ci passo la vita con gli atleti, fin da quando sono ragazzini. Conosco Victor da quando veniva alle gare con pattini usati e tute macchiate. E quando una persona la conosci da così tanto tempo, non puoi che augurargli un po’ di felicità. Anche se non è il tipo di felicità che vorresti per te o per uno dei tuoi figli.

    Dimitri doveva conoscere tutti i segreti di Victor. Tutte le cose che ancora non gli aveva detto, chi fosse stato davvero quel ragazzino con i pattini di seconda mano. Tutti, però, hanno diritto ai propri silenzi.

    – Grazie – si limitò a dire. – Spero che ne valga la pena.

    Victor, in pista, stava provando l’Axel. Era meraviglioso. Yurio era bravissimo, con tutta la grazia esplosiva dell’adolescenza. Un giovane eroe pronto a scalare l’Olimpo. Ma Victor era ancora, senza ombra di dubbio, il dio del ghiaccio.

    – Mi hanno detto che ha promesso di spostarti – commentò Dimitri.

    Yuuri scosse il capo, anche se istintivamente passò un polpastrello sull’anello d’oro che portava al dito.

    – È stato per dire, davanti a una birra.

    Per quello che ne sapeva, un sacco di gente poteva aver ricevuto un’identica promessa. Persino Ludmilla.

    – Per dire… – Dimitri guardava la pista e i suoi allievi che volteggiavano sul ghiaccio. – Gli ho visto dimenticare, o fingere di dimenticare, ogni sorta di impegno. Tuttavia di promessa gliene ho vista fare una soltanto, prima. Quella di vincere più di qualsiasi altro pattinatore russo.
 

*
 

    Otabek si era alzato in piedi, portandosi il caffè, per lasciare che Yuuri e Dimitri parlassero.

    Si chiese se Yuri fosse davvero sereno come sembrava, tra atleti che avevano il doppio o il triplo della sua esperienza. Tra Victor, Georgi e l’altro che era al momento quarto sul ghiaccio c’erano otto o nove medaglie olimpiche, di vari metalli, tra gare singole e a squadre. C’era di che fare tremare le gambe. Di sicuro erano tremate a lui, quasi un anno prima, alla finale dei mondiali. Yuri poteva ostentare tutta la sicurezza del mondo, ma il peso delle leggende lo si percepiva, lo si percepiva eccome. Ai mondiali dell’anno precedente Victor, che pure aveva esibito una faccia da funerale per tutto il tempo passato fuori dalla pista, in gara era stato inavvicinabile. Non una questione di mera difficoltà tecnica, Otabek nel libero aveva portato quattro quadrupli, esattamente come lui, ma di perfezione d’esecuzione. Una di quelle cose che ti fanno pensare di aver sbagliato tutto nella vita e che forse quel lavoro di cui hai sentito parlare all’università, una ricerca sulle abitudini della aquile, da svolgersi in un rifugio sperduto a tremila metri sulle montagne a sud di Almaty, non era poi da scartare. Giacometti, invece, lo aveva sconfitto guardandolo. Uno sguardo pesante di due olimpiadi e otto finali mondiali. Otabek si era sentito giudicato un bambino che sta giocando per la prima volta sui pattini in una pista messa al centro del paese per le festività natalizie. Non era umano, Yuri, se non si sentiva neppure un minimo così. Sotto la tuta aveva già il costume di gara, quello rosso del libero. Otabek sorseggiò un altro poco di quel terribile caffè. Lo aveva sognato, quella notte, Yuri nel costume rosso e non era stato un bel sogno.

    Nell’incubo, mentre iniziava il libero le fiamme che decoravano il costume di Yuri prendevano vita. Iniziava a vedersi del fumo seguire i suoi movimenti, un guizzare troppo acceso di quelli che non potevano essere lustrini e pian piano si faceva viva negli spettatori la consapevolezza che il costume del ragazzo stava prendendo fuoco. Con la logica ferrea e assurda che hanno a volte i sogni, l’Otabek onirico aveva pensato che era una vera sfortuna. Yuri avrebbe dovuto fermarsi, ritirandosi dalla competizione, per spegnere le fiamme. Solo che Yuri non si era fermato. La musica aveva continuato a suonare, mentre le fiamme pian piano lo avvolgevano, trasformandolo in una torcia. Impotente, Otabek lo aveva visto letteralmente carbonizzarsi, mentre portava a termine un’esibizione da record del mondo. Restava un istante soltanto fermo nella posizione di chiusura e poi si scomponeva in puro fumo, disfacendosi nell’aria.

    Si era svegliato sudato, con un insolito peso sul petto che si era rivelato, in realtà, il sedere di Sua Maestà. Nel buio aveva sentito il russare lieve del suo compagno di stanza, per niente intenzionato a disperdersi in fumo. Anzi. Era la notte prima della finale delle nazionali e a non dormire era quello che non doveva gareggiare.

    – Io torno dentro, sta per iniziare la gara – disse Yuuri.

    Otabek annuì, distratto. In realtà non gli importava niente di quelli che si stavano per esibire, ma Yuuri, con la sua tipica serietà orientale, avrebbe di sicuro considerato un dovere morale guardare tutti gli atleti in gara.

    – Non ti fa impressione neppure neppure un po’, esserti legato a un atleta simile, tuo avversario? – chiese Otabek, e subito si guardò con attenzione la punta delle scarpe.

    Era una domanda fuggita e non prevista, figlia di quel sogno che ancora gli pesava addosso. La sensazione che non ci potesse essere nulla di più terribile che veder sparire Yuri e, insieme, la consapevolezza che lo avrebbe desiderato ogni volta che avessero calcato la stessa pista.

    Yuuri, però, si limitò a scuotere il capo.

    – Mi terrorizzano gli aspetti pratici, la gestione delle nostre rispettive carriere, non l’agonismo in sé – disse, voltandosi a guardarlo mentre procedevano lungo gli spalti. – Ma non ci può essere davvero competizione tra noi. Anche se vincessi tutto, da qui al mio ritiro, comunque non potrei vincere quanto Victor, per una mera questione anagrafica. L’unico che può davvero insidiare la sua leggenda, sul lungo periodo, è Yuri… Spero di non averti offeso.

    – No. Hai ragione – ammise Otabek.

    Era uno dei migliori al mondo. Sapeva di esserlo. Era tra i dieci, forse tra i cinque migliori pattinatori, ma non era il migliore. Il divario tecnico tra lui e i russi era un dato oggettivo. Un anno prima, aveva fantasticato di insinuarsi nello spazio che si sarebbe aperto con l’inevitabile declino di Victor. Ma non aveva fatto i conti con Yuri. Poteva sperare di battere il ragazzo che si voleva portare a letto solo augurandogli una crisi di qualche genere. Non era una prospettiva entusiasmante. 

    – Chissà come ha fatto Giacometti a rimanere in buoni rapporti con Victor per anni, senza volerlo ammazzare – commentò.

    Continuavano a uscirgli frasi inopportune. Prima per se stesso, ora per il giapponese. Tre anni prima, subito dopo una gara in Canada, aveva visto Victor e lo svizzero in un bar vicino al palaghiaccio, uno con il braccio sulla spalla dell’altro, intento a sussurrargli qualcosa all’orecchio, in un atteggiamento indubbiamente intimo.

    Yuuri, intanto, aveva individuato i loro posti. Si sedette, prima di riprendere la conversazione.

    – Io ho passato la vita a sentirmi solo – iniziò. – Negli Stati Uniti, dove ero comunque l’unico giapponese, sia in aula che il pista, ma anche prima, a casa mia. Ho sempre pensato che ci fosse una sorta di barriera tra me e gli altri, fatta di lame di pattini e cose non dette.

    Otabek si trovò ad annuire.

    Nell’ambiente del pattinaggio erano in molti a non avere una grande considerazione del giapponese, per via dei suoi modi impacciati e i risultati altalenanti. Eppure, in due frasi il kazako si era sentito perfettamente descritto.

    – Vai avanti – lo incoraggiò.

    – Ma in realtà ho sempre avuto amici, famigliari, persone che mi vogliono bene. Non sono mai davvero stato così solo come credevo. Nel salotto di Victor ci sono parecchie foto, ma sono tutte di gare. Tranne una con Yakov e una con Chris. Io non ci sono, non ancora…

    Otabek annuì di nuovo. 

    Gli era bastato un giorno per toccare con mano la solitudine di Yuri. Per sentirsi un privilegiato per il fatto che gli era stato permesso avvicinarsi. C’era un prezzo che quei maledetti russi avevano pagato per la loro perfezione. Forse non lo avevano pagato consapevolmente, ma c’era. E il rendersene conto probabilmente rendeva un po’ più facile l’accettare di rimanere sempre un passo indietro. E, comunque, fosse stato al posto di Giacometti, lui in quel bar lo avrebbe strozzato, Victor, o almeno azzoppato.

    Scosse la testa.

    – Quando ero in Canada, i Leroy continuavano a ripetere che gli avversari sono sempre e comunque avversari. Io e J.J. ci allenavamo insieme, ma la sola prospettiva di diventare amici era impensabile. Mi è rimasto dentro, suppongo. Ma Yuri mi aiuterebbe a essergli amico, se ogni tanto sbagliasse qualcosa.

    – Allora puoi sempre tifare contro. Georgi apprezzerà.

    – Poveraccio, schiacciato tra quei due maledetti biondi.

    Sogghignarono entrambi.

    – E adesso, con il tuo arrivo, si trova in pista un altro record del mondo – osservò Otabek.

    Yuuri scosse il capo.

    – Non riesco a farmi piacere San Pietroburgo – ammise.

    Otabek non riuscì a trovare qualcosa da dire. Non era bravo a consolare le persone. E lui stesso non sarebbe stato entusiasta di doversi di nuovo trasferire, proprio in quel momento in cui aveva trovato un modo di far funzionare le cose rimanendo a casa propria. Si guardò le mani. Victor e Yuuri erano la sua migliore prospettiva possibile. Per quanto scomoda fosse al momento la sua posizione, forse poteva solo peggiorare.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


E con questo siamo arrivati in fondo a questa storia.
Vi lascio con un capitolo un po' più lungo, che lascia spazio a tutti e tre i punti di vista.
  

– Che cosa è cambiato da venerdì sera? – chiese Yakov, al termine dei minuti di riscaldamento, prima che il sesto classificato dopo il programma breve scendesse in pista.

    – Ho trovato la risposta alla tua domanda – replicò Victor, appoggiandosi al bordo pista.

    – E sarebbe? – borbottò il tecnico.

    – Una cosa che forse non ti piacerà, quindi è meglio parlarne dopo l’esibizione.

    – E quando mai mi piacciono le tue idee? – sospirò il tecnico. – Tieni i muscoli caldi, che a questo giro non sei l’ultimo. Se sei tornato te stesso, vado dagli altri due.

    Victor annuì.

    Era tornato se stesso?

    Lanciò uno sguardo veloce intorno a sé. Il sesto in classifica si stava già esibendo. Non ne ricordava il nome, anche se era anni che lo vedeva nelle competizioni nazionali, per lo più nel proprio scaglione. Si erano scambiati qualche parola e un paio di volte si erano fatti dei selfie insieme. Sapeva vagamente chi erano i due che avrebbero gareggiato immediatamente dopo. Quanto ai suoi compagni di allenamento, Georgi, come sempre, stava eseguendo gli allungamenti in modo metodico, serissimo nell’inguardabile costume di quell’anno, pronto a dispensare consigli a Yuri. Che si godessero il momento, avrebbero potuto dire che una volta erano scesi sul ghiaccio in vantaggio su Victor Nikiforov. Sorrise tra sé. Quindi sì, era tornato il cinico se stesso.

    Cercò sugli spalti Yuuri. Eccolo là, a fianco di Otabek. Sarebbe arrivato il momento in cui lo avrebbe guardato dal bordo pista, entrambi in attesa di scendere sul ghiaccio. E una parte si sé lo avrebbe guardato con quello stesso cinico distacco, valutando il punteggio potenziale e le condizioni del momento, spiandolo in cerca di un segno di debolezza. Yuuri non avrebbe mai fatto lo stesso con lui. E, tuttavia, Yuuri non si sarebbe neppure aspettato nulla di diverso da lui e non l’avrebbe amato di meno. Lo sapeva già che era un egoista. Aveva già visto la parte peggiore di lui. Ed era per quello che, infine, sapeva perché era tornato a gareggiare.

    Arrivò il momento di entrare in pista.

    A diciannove anni aveva scelto con arroganza quel pezzo. C’era stata una conferenza stampa al termine della quale Yakov aveva avuto voglia di picchiarlo. Per una volta, Victor aveva avuto il sospetto che dicesse sul serio. Lui aveva dichiarato di aver scelto il personaggio di Phoebus perché si sentiva esattamente così, consapevole della propria bellezza e del proprio valore, intenzionato a non negasi alcuna esperienza, perché tanto sapeva che non sarebbe stato lui a pagarne il prezzo. Lui solo sapeva quanto avesse da esorcizzare, dopo un’olimpiade che era stata tra le peggiori esperienze della sua vita, e continuava a rimanere nella top ten delle peggiori esperienze anche adesso, e una caviglia che si era frantumata senza un motivo apparente, se non la sua stupidità. Ma, come sempre, era vero anche quello che aveva detto e rifletteva fin troppo bene il suo comportamento fuori dal palaghiaccio. 

    Il costume era lo stesso di allora, grigio argento, con decorazioni nere che salivano dai pattini, come fiamme d’oscurità pronte ad avvilupparlo. Andava benissimo anche per la nuova versione.

    Questa volta ad accompagnare le stesse note era la voce più profonda di Frollo, l’arcidiacono di Notre Dame, che guardava la zingara e già sapeva che il suo amore per lei lo avrebbe distrutto. Non si faceva alcuna illusione, Frollo, eppure non dubitava, neppure un istante, che ne valesse la pena. Per tutta la vicenda Frollo correva verso la propria dannazione senza alcuna esitazione. Yakov senza dubbio pensava che lo avesse scelto per Yuuri, la sua zingara ammaliatrice. Si sbagliava. La sua Esmeralda era il ghiaccio. Quel ghiaccio che già lo aveva quasi distrutto e a cui, tuttavia, era tornato, anche se aveva ogni scusa e ogni motivo per non farlo. All’età che aveva, per gli obiettivi che si prefissava, ci sarebbe stato senza dubbio un prezzo da pagare. Ma in qualche modo, finalmente, accettava il fatto come ineluttabile. Lui era Victor Nikiforov, il dio del ghiaccio, e avrebbe reso le proprie ultime stagioni memorabili, quale che fosse il prezzo da pagare.

    Prese fiato per il salto. Un triplo Axel. Doveva uscire più che perfetto, o nulla avrebbe avuto senso. Yuuri, e Yuri, le sue due strane ombre contrapposte, avevano ragione. Non lo aveva ripetuto abbastanza volte da farlo in scioltezza. Doveva rimanere concentrato. E limitarsi a ciò che poteva portare a casa in sicurezza con quel poco di allenamento che aveva. Ma poteva ancora dar lezioni a tutti, lì, su cosa significasse pattinare. Quadruplo Loop, triplo Toe Loop. Non avrebbe insidiato il record di Yuuri, non ancora. Forse neppure avrebbe strappato l’oro dal collo di Yuri. Ma entrambi sarebbero andati a casa con la consapevolezza dei veri equilibri delle forze. Non per cattiveria, ma solo perché era giusto. Neppure le loro future vittorie avrebbero avuto valore, senza quella consapevolezza.

    Arrivò alla posizione di chiusura qualche centesimo di secondo in ritardo sulla musica. Con i polmoni assai più indietro rispetto alla richiesta di ossigeno e il cuore che martellando gli ricordava che forse era il caso di fare testamento. Ma sugli spalti si stavano tutti alzando in piedi per applaudire e quello era tutto ciò che importava. Anche i giudici dovevano essere resi consapevoli dei veri rapporti di forza.

 

    – Allora, cos’è che mi devi dire? – chiese Yakov, quando Victor ebbe ripreso fiato, prima di andare a scoprire i punteggi.

    – Non mi dici che cos’ho sbagliato? – ribatté l’altro, mellifluo.

    – Lo sai benissimo che non hai sbagliato niente, anche se, da come respiri, controllerei l’enfisema.

    – Taci, vecchio.

    Avrebbe preferito di gran lunga un abbraccio da parte di Yuuri. Ma anche gli abituali brontolii di Yakov erano rassicuranti. L’effetto per certi versi era lo stesso. Era tornato a casa. Per quanto ridotta fosse, la sua famiglia iniziava al termine di ogni esibizione.

    – Allora? – lo incalzò Yakov. 

    – Non riesci a immaginarlo? Eppure te l’ho detto, mentre ero sul ghiaccio.

    – Gli indovinelli lasciali per quel fesso che alleni.

    – Non è un fesso.

    – Lo è, se è convinto che tu lo sappia allenare. E se ti sopporta.

    – Vero, ma mi sopporti anche tu.

    – Perché sono un fesso. Allora?    

    – Voglio arrivare alle olimpiadi – disse Victor, piano. – E voglio qualcosa che nessuno mai mi potrà rubare. Essere il primo a fare in gara il quadruplo Axel. Il resto non mi interessa… Non posso riuscirci senza di te, ma ci sono alcune modifiche al modo in cui avevamo pensato di organizzarci.

    Guardò di sottecchi Yakov, per spiarne la reazione.

    Sogghignava.

    – No, davvero, fin dall’inizio mi sei piaciuto perché sei modesto.    

    – Pensi che non ci possa riuscire?

    – Penso che avresti dovuto iniziare ad allenarti per questo fin dal giorno dopo le olimpiadi. Non sei l’unico a volerci provare. E non ho intenzione di perdere la faccia vedendoti diventare il secondo al mondo a fare quel salto. 

*
 

    – Allora, come ci si sente si sente a essere incoronato Zar di Tutte le Russie? – chiese Otabek.

    – Non sono ancora stato incoronato – puntualizzò il ragazzo.

    Le premiazioni si sarebbero svolte appena prima del galà, dopo un minimo di pausa per permettere agli atleti che avevano gareggiato quella mattina di cambiarsi e rifocillarsi.

    – Paura che i giudici ci ripensino? – lo punzecchiò il kazako.

    – No, ma non posso vincere sempre per meno di mezzo punto di distacco – rispose Yuri.

    In realtà aveva gli occhi che brillavano come quelli di un bambino a Natale.

    Non era andato in fumo. Neppure dopo che Victor aveva dimostrato ancora una volta perché era lui e lui soltanto ad aver vinto cinque ori mondiali uno di fila all’altro, con un’esibizione da 212.30 punti. Non era il miglior punteggio che avesse portato a casa, naturalmente, e era quasi dieci punti sotto il record di Yuuri. Ma era il massimo possibile con quelle difficoltà tecniche. In tutta la sua carriera Otabek aveva visto pochissime volte un atleta raggiungere il proprio punteggio potenziale. Anche nelle esibizioni migliori c’era sempre la sbavatura minima, l’atterraggio salvato all’ultimo, la trottola che finiva un battito di ciglia in anticipo, giusto per dimostrare che anche loro erano esseri umani. Victor, a quanto pareva, aveva dimostrato di non appartenere alla categoria “essere umano”. Popovic, povera bestia, era andato in panico. C’era anche da dire che la sua esibizione era la farcitura del panino tra quella di Victor e quella di Yuri e Yakov aveva mandato il vice ad assisterlo. L’uomo gentile con cui lui e Yuuri avevano preso un caffè prima dell’inizio gara, ma che comunque aveva scritto in fronte “io accompagno la seconda categoria”. Come se Yakov stesso avesse considerato quel secondo posto dopo il corto un errore o un caso fortuito che di certo non si sarebbe ripetuto, e infatti… Che vita di merda. Almeno Otabek aveva compreso che poteva capitare di peggio che innamorarsi di Yuri. Essere Georgi Popovic, ad esempio. Yuri, naturalmente, era fatto della materia degli dei. Non aveva pattinato in modo pulitissimo. In fondo era ancora in parte umano o era quanto meno una divinità alle prime armi. Otabek non avrebbe saputo dire se il problema fosse di fiato o, più probabilmente, di gestione del libero. Era così facile dimenticarsene, ma Yuri gareggiava nei senior da pochi mesi soltanto e una delle differenze tra le categorie era la durata dei programmi. Da fuori poteva sembrare solo un’insignificante manciata di secondi, ma era la differenza tra uscirne vivi o con una sincope. In ogni caso, come alla finale del Grand Prix, aveva dato il meglio nel corto. Andare peggio nel lungo, per un dio del ghiaccio significava comunque superare la soglia dei duecento punti, insomma, un esempio puro di relatività. In ogni caso, alla fin fine aveva mantenuto su Victor trenta centesimi di punto di vantaggio. Una vittoria risicatissima e che tuttavia sembrava dargli più soddisfazione di quei sei punti di vantaggio che aveva avuto venerdì sera.

    – Agli Europei sarà dura – considerò il ragazzo, come se in realtà pregustasse la sfida. – Con altre due settimane di allenamento Victor piazza di sicuro quattro quadrupli e se fa di nuovo il Loop alla fine, come oggi, bisogna aggiungere al punteggio base…

    – Ok, fermati. Agli europei ci sono anch’io. E Giacometti. E un sacco di altra gente che preferirebbe non considerare la cosa solo una questione privata tra te e Victor.

    – Ma lo sarà.

    – Yuri! – Otabek si mise le mani a pugno sui fianchi, nella sua migliore espressione da locale malfamato kazako.

    All’istante, il ragazzo passò dall’espressione esaltata di prima a quella di un micetto sorpreso a macchiare con le zampe sporche il tappeto migliore di una casa elegante. Gli occhi verdi si allargarono e parvero farsi più umidi, come se stesse per scoppiare a piangere.

    – Io non intendevo… – biascicò.

    – Lo sarà, una questione privata tra te e Victor. Ma non è gentile sentirselo dire in faccia – replicò Otabek. – E adesso vieni a buttar giù qualcosa prima della premiazione e il galà.

    La verità era che un’espressione simile sul viso di Yuri non l’aveva mai neppure immaginata. Come se avesse avuto per un istante il terrore puro di averlo offeso. Era durata una frazione di secondo. Ma era bastata a scatenare qualcosa all’interno di Otabek di cui non aveva mai fatto esperienza. Un calore del tutto diverso da quello che aveva provato nell’istante in cui Marcus lo aveva baciato la prima volta. Non eccitazione e terrore. Quasi… Gratitudine. Perché era sicuro che non fosse capitato a molti di vedere quello che aveva visto, il filtrare dell’umanità fragile che stava sotto la scorza di un dio. E sentire di poterla raggiungere e afferrare. Perché, per un istante, un istante soltanto, aveva intravisto quanto Yuri ci tenesse a lui. Che quel sentimento potesse trasformarsi in qualcosa di più di un’amicizia era tutto da dimostrare. Del resto, però, Otabek aveva basato quasi tutte le sue scelte di vita fin da quando aveva otto anni sulla possibilità di diventare uno dei migliori cinque o sei pattinatori al mondo. Le probabilità non potevano essere tanto inferiori. Non scommetterci su sarebbe stato quasi un delitto.

    – Uhm… Dici che posso permettermi un tramezzino? – chiese Yuri, che intanto aveva ricostruito alla perfezione la sua corazza da giovane dio luminoso e distante.

    – Ci sono tre ore prima del galà, eviterei il topo fritto cosparso di aglio e cipolla candita come farcitura, però.

    – Ma quanto sei scemo. Dobbiamo provare l’estrazione del guanto. Devi metterci lo stesso tempo che ci mettevi con la bocca a farlo venire fuori.

    La mente di Otabek si riempì all’istante di doppi sensi a sfondo sessuale. Ciascuno dei quali corredato da un’immagine con uno Yuri variamente svestito.

    – Che hai da sogghignare?

    – Niente, andiamo.

    Prima o poi, non importava quanto poi, avrebbe sperimentato ciascuna di quelle immagini. Nell’attesa poteva studiarne altre e dilettarsi nell’immaginarne ogni particolare. Non era un brutto modo per passare il tempo.

*

    – Ah, io una medaglia d’argento non la bacio – disse Yuuri, quando infine Victor si fu liberato della massa di fan e giornalisti che lo attendevano all’uscita del palaghiaccio.

    Il russo prima sgranò gli occhi, e Yuuri si godette il fatto di averlo preso alla sprovvista, e poi estrasse dalla tasca della giacca a vento la medaglia.

    – No, che schifo! Chi mai ne bacerebbe una d’argento? – disse, considerandola. – Fortuna che a casa ho un cassetto pieno, di medaglie d’oro, nel caso servissero.

    – Giusto. Mi chiedo come faccia certa gente a fare sesso senza medaglie d’oro a disposizione. Pervertiti.

    Scoppiarono a ridere entrambi e poi si avviarono fianco a fianco verso la fermata dell’autobus.

    – Prendiamo un taxi? – chiese Victor.

    – No. Nevica. Non fa così freddo, preferisco camminare, se per te va bene – replicò Yuuri.

    Si stava abituando alla temperatura. O forse era il fatto che era risalita fino a meno quattro. In Giappone avrebbero potuto sfiorarsi. Magari prendersi discretamente per mano o, persino, Victor avrebbe potuto passargli un braccio sulle spalle. Forse qualche passante li avrebbe fissati qualche istante di troppo, ma non ci sarebbero stati commenti. Li avrebbero fissati di più a causa dell’aspetto esotico di Victor. Ma anche a quella mancanza di contatto Yuuri si sarebbe abituato. Dopo tutto era una novità degli ultimissimi tempi. Per tutta la vita aveva odiato il contatto fisico in pubblico. Non poteva di punto in bianco mancargli così tanto una cosa che in fin dei conti non aveva mai avuto.

    – Io ho una sorta di dipendenza per questa cosa, i podi, le medaglie, lo sai, vero? – chiese Victor, con fare noncurante, guardando in alto.

    Un fiocco di neve gli atterrò sulla punta del naso e Yuuri fece in tempo a vederlo, prima che si sciogliesse.

    – Lo so. È molto più socialmente gestibile di un sacco di altre dipendenze – disse. – Ma ti amerei anche se scoprissi che hai invece un problema con la droga o il gioco d’azzardo.

    Non si voltò, ma sentì lo sguardo di Victor su di lui.

    – Lo so – disse piano in russo. – E questo un po’ mi spaventa.

    – Questo è l’amore.

    – Così mi dicono, ma io, prima, non l’avevo mai sperimentato.

    Yuuri si concesse di sorridere.

    – Per mia fortuna, ti piace eccellere, in tutto quello che fai.

    Victor sbadigliò.

    – Sarai stremato – osservò Yuuri.

    – Domani riposo. Ti metto sull’aereo e dormo fino a martedì… Tu invece, appena arrivato, devi iniziare a fare una cosa.

    Qualcosa nel tono di Victor fece voltare Yuuri. Un autobus, che non era il loro, si avvicinò alla fermata che ormai avevano raggiunto e poi ripartì, facendo ondeggiare i lembi della sciarpa di Yuuri. Il russo attese che si fosse allontanato, prima di proseguire.

    – Devi cercare un appartamento per noi, a Hasestu. Se possibile vicino al palaghiaccio. Se possibile da cui si veda il mare. Sarebbe bellissimo alzarsi ogni mattina, aprire la finestra e vedere il mare.

    Di nuovo, Yuuri si voltò a guardarlo. E di nuovo, Victor aveva il viso rivolto verso l’alto, teneva gli occhi chiusi, come assaporando la sensazione della neve che gli cadeva sul volto.

    – Quand’ero ragazzo venire a San Pietroburgo mi ha probabilmente salvato la vita – disse, con un tono così sommesso che quasi sembrava rivolto a se stesso. – Ma questa città mi ha quasi ucciso, alla fine. E ora, l’idea di dovermici muovere così, con te a fianco senza poterti toccare, fingendo ogni volta che esco di casa di essere un altro, mi sembra intollerabile. Non voglio deludere la Russia. C’è un sacco di gente che in me vede… Beh, qualcosa che io non sono, ma che comunque sono fiero di rappresentare. La possibilità di farcela, suppongo. Forse, però, se non passo in Russia la maggior parte del mio tempo, ho meno probabilità di fare cretinate. Non sono molto bravo a impedirmelo, e non mi vengono in mente altri modi per limitare i rischi. Sarà dura, per entrambi. Dovrò tornare spesso, fare dei periodi di allenamenti intensivi qua, come in queste ultime settimane. Ma la nostra base sarebbe il Giappone. E io rimarrei il tuo allenatore, evitando a Yakov dei guai con la federazione che certamente avrebbe accettando di allenare te. Rimanere il tuo allenatore qui ci creerebbe ogni sorta di problemi, perché forse non ci lascerebbero usare la stessa struttura. Quindi, alla fine, potrebbe essere la soluzione migliore per entrambi.

    Era arrivato l’autobus giusto, eppure era così strano muoversi e spezzare quel momento. 

    – Se lo perdiamo dovremo aspettare un quarto d’ora – fece notare Victor, con dolcezza.

    Yuuri annuì, mettendosi in moto.

    – Ho pensato così tanto, in questi giorni, al mio trasferimento qui che non pensavo che potesse esserci un’altra soluzione. Ammesso che ci sia. Non voglio che tu debba rinunciare a Yakov come allenatore – disse, una volta che si fu seduto sul proprio sedile.



 – Non ci rinuncio. Io sono egoista. Voglio te. Ti voglio allenare. In realtà non sopporterei di cederti a qualcuno, fosse pure a Yakov. Voglio gareggiare. E voglio Yakov come allenatore. E questa mi sembra l’unica soluzione che possa accontentarmi.

    Yuuri si nascose dentro la sciarpa come un tartaruga nel proprio guscio. Non pensava che quella fosse tutta la verità. Forse era una parte. Non era sicuro che quella fosse la soluzione migliore per Victor, ma di certo lo era per lui. E anche lui era un egoista. Tutti gli atleti lo sono, ma questo non vuol dire che non possano amare.

    – Cercherò l’appartamento – disse.

    Fuori dal finestrino, si vedeva San Pietroburgo ammantata di neve, luccicante sotto i lampioni.

    Per la prima volta, gli parve bella.


– Ed eccoci qui, alla fine della storia, che alla fine è solo in racconto di tre giorni dei nostri pattinatori.

Non entravo su EFP davvero da tantissimi anni e non sapevo davvero cosa ci avrei trovato. Ho trovato, a quanto pare, dei lettori. Quindi GRAZIE, GRAZIE davvero a tutti coloro che sono arrivati fin qui.

Questa storia è stata scritta per i compleanni di E e di M. Senza di loro non sarei mai andata a vedere i Mondiali a Milano, di conseguenza non avrei mai guardato Yuri on Ice, non avrei passato mesi a scriverci su e in definitiva mi sarei davvero persa qualcosa.

Sono debitrice a due persone che difficilmente passeranno di qui, F e I che mi hanno condiviso con me le foto di due viaggi a San Pietroburgo e che mi hanno permesso di scrivere le scene all'Hermitage, quella al locale con i gatti e la passeggiata lungo il canale. 

Infine ho un debito di riconoscenza verso questi personaggi, che si sono insediati nel mio cervello e hanno iniziato a raccontarmi della loro vita, con la forza e la delicatezza che è loro propria. Dal momento che sono dei gran chiacchieroni, questa è solo una parte (piccola) di quanto mi hanno raccontato. Sono piuttosto in dubbio se e cosa condividere qui, ma probabilmente settimana prossima andremo indietro nel tempo, perché anche Yakov ha qualcosa da dire.

Grazie di essere arrivati fin qui –

 

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