Pregiudizi criminali 2.0

di Sokew86
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Pregiudizi criminali

Capitolo 1

Varese, 14 Maggio  2013 06.00 A.M

-Che stanchezza, voglio andare a casa-

Una donna dalla chiara provenienza dell’Europa dell’Est sbadigliò dopo quella dichiarazione.

-Cosa tu pensi Amir?- domandò la donna al suo collega, la cui pelle indicava chiaramente l’appartenenza al vasto Medioriente e Amir alzò le spalle, leggermente infastidito - Abbiamo appena iniziato. Quale piano devi pulire Natalia?- Si scambiarono le informazioni relative ai lavori della giornata, ma Natalia appariva dubbiosa.

-Strano, che non dobbiamo pulire la stanza delle persone importanti-.

-Forse più tardi- replicò Amir salutandola -Ci vediamo dopo-

Amir con il suo carrello da lavoro si avviò agli ascensori di servizio per accedere ai piani inferiori, dove si trovavano le stanze meno belle dell’albergo, mentre Natalia era andata a pulire i piani superiori. Amir entrò in una delle stanze meno costose del piano, trovandola comunque aggraziata ed elegante con i suoi due letti separati e la tinta blu alle pareti. L’inserviente aprì la porta del bagno e tirò un sospiro di sollievo: lo sporco era normale e non c’era con nessuna strana macchia da eliminare. Il Palace Grand Hotel poteva essere un albergo di lusso ma Amir sapeva bene quanto gli ospiti potessero diventare pretenziosi, sporchi e irrispettosi  del lavoro di persone come lui. L’uomo si mise a lavorare di buona lena. Passò un bel po’ di tempo, quando l’inserviente sentì squillare il telefono della stanza. Intuì subito che si trattava della reception e infatti riconobbe la voce annoiata di Bianca che lo invitava, e non tanto cordialmente, a raggiungere Natalia per pulire la suite destinata all’Ambasciatore e al Generale: erano quelle le persone importati di cui aveva accennato precedentemente  prima la donna. L’inserviente tentò di protestare: non avrebbe fatto in tempo a pulire le ultime stanze del suo piano, ma la sfuriata che ricevette dal suo diretto superiore non gli lasciò alternative e capitolò.

L’inserviente raggiunse Natalia e sebbene la ragazza gli fosse sempre piaciuta, questa volta s’irritò per la sua lentezza. I popoli dell’est Europa non erano forse conosciuti per la loro rapidità e voglia di lavorare? O forse queste doti non appartengono esclusivamente a una razza o a una nazione? Si domandò Amir. I due riuscirono a sistemare la suite come voleva il direttore dell’albergo: perfettamente e avevano persino lucidato il pianoforte.

Amir era rimasto ovviamente indietro con il suo lavoro e, nonostante avesse lavorato il più velocemente possibile, l’ospite, dell’ultima camera che avrebbe dovuto finire di sistemare da un po’, arrivò prima che potesse completarla. L’inserviente si prese l’ennesima strigliata al telefono ma non poté che borbottare qualcosa contro le tante, e per lui incomprensibili, regole di etichetta. Terminato il lavoro, chiamò la reception dicendo di aver finito e che l’ospite poteva accomodarsi, uscì quindi dalla stanza con il suo pesante carrello, irritato ma sollevato dalla fine del suo turno, quando improvvisamente ricordò di aver dimenticato di mettere nel bagno della stanza l’asciugamano per il viso. Lasciò incustodito il carrello nel corridoio e tornò indietro con fare circospetto, trasportando con sé solo l’asciugamano. Entrò nella stanza, sistemò l’asciugamano sentendosi più una spia che un inserviente. Ne uscì contento d’aver evitato l’ennesima sfuriata, ma finì a faccia a faccia con l’ospite, quest’ultimo attese pazientemente che Amir uscisse.

-Mi scusi!- esclamò a disagio Amir, mentre l’ospite sorrideva comprensivo.

-No, si preoccupi-. disse l’ospite, in un italiano non perfetto che tradiva un fortissimo accento francese, -Io posso entrare, adesso?- domandò. L’inserviente annuì imbarazzato e prendendo coraggio domandò all’ospite -Potrebbe evitare d’avvertire il direttore del fatto, per favore?-.

-Certo, voi come vi chiamate?-

Amir tentennò. Se non voleva denunciarlo perché mai voleva sapere il suo nome? L’ospite intuendo i pensieri dell’uomo lo rincuorò.

-Vorrei conoscere il vostro nome, solo perché a me sembra maleducato non saperlo-. Alla fine Amir, convinto, si presentò e l’ospite fece altrettanto. Si strinsero la mano, e ad Amir lasciò una piacevole impressione: il nome Maurice Leblanc non l’avrebbe dimenticato facilmente.

 

Varese, 14 Maggio  2013 11.00 A.M

L’arrivo dell’Ambasciatore e del Generale significò una sola cosa per tutto l’albergo: PANICO. Efficienza, invece, era la parola ripetuta più spesso da tutti e con i pittoreschi accenti della manovalanza dell’albergo. Ad Amir toccò il compito di pulire la suite. Era stato ben informato dei pregiudizi sulla Repubblica Magna, disprezzatamente chiamata Terronia. Gli avevano detto che lì o erano mafiosi o soldati o tutte e due le cose e Amir, infatti, trovò la suite in condizioni perfette: con cura militare il Generale aveva rifatto il proprio letto e così pure aveva fatto l’Ambasciatore. Notò sul comodino dell’Ambasciatore una cornice con la foto di una giovane donna, probabilmente la figlia o la nipote dell’illustre funzionario e trovò il gesto molto dolce e umano.

Amir era arrivato in Italia a pochi anni dalla separazione del territorio geografico, nel periodo in cui si erano consolidati i due stati. Al Nord si era formato il Regno Padano che, nonostante fingesse una grande indipendenza, era costantemente legato al parere dell’Unione Europea e aveva frequenti crisi interne di natura etnica. Al Sud si era consolidata la Repubblica Magna, uno stato militare, alleato ufficialmente con gli Stati Uniti e che aveva fatto fortuna con il petrolio della Basilicata e l’immenso patrimonio artistico.

Questi due stati erano considerati tra i punti di tensione più pericolosi dell’intera Europa, tanto da richiedere una costante opera di diplomazia che consisteva nello scambio d’opere d’arte a scopo di “interscambio culturale”. Per questo motivo l’Ambasciatore e il Generale, in altre parole il presidente della Repubblica Magna, erano in quell’albergo: trasportavano un’importantissima opera d’arte proveniente dal Meridione. Un’opera dal valore inestimabile ed era soprattutto un motivo di grande vanto per la repubblica militare. Quest’ultima ci teneva molto a rilevare la quantità di opere d’arte che erano presenti sul proprio territorio, escludendo, ovviamente, la sola città di Roma la quale era rimasta un polo attrattivo per i turisti di tutto il mondo. Se fosse accaduto il più piccolo incidente al dipinto, si sarebbe scatenato il finimondo, tanto che nessuno in albergo aveva voluto sapere di che opera si trattasse.

Amir camminò a disagio in quella suite. Si vociferava che l’Ambasciatore e il Generale custodissero il dipinto in una cassaforte di produzione sudista e che fosse nella loro camera dell’albergo. Amir sperò di non vedere neanche la cassaforte, personalmente pensava che i due illustri fossero fin troppo paranoici per non tenere il dipinto nelle casseforti di sicurezza dell’albergo. L’inserviente sistemò la suite e il suo turno era finalmente terminato, uscì dalla porta di servizio e colse l’ospite francese del giorno prima nei giardini dell’albergo, con un’espressione persa nel vuoto.

-Sì, è perso signore?- domandò Amir, il francese sorrise e negò, Amir pensò che forse l’ospite stesse ammirando la splendida struttura liberty dell’albergo.

-State andando a casa?-domandò l’ospite ad Amir.

-Si-

-Dovete pranzare ancora?- domandò il francese gentilmente e titubante Amir rispose affermativamente.

-Vi va di venire a pranzò con me?- chiese l’ospite.

Amir era confuso: d’accordo essere gentili ma il signor Maurice Leblanc lo era troppo … Che avesse strane intenzioni? Ma quali intenzioni poteva avere? In fin dei conti che gli costava andare? Era sempre meglio di mangiare da solo nel tugurio in cui viveva.

-Non ho tanti soldi- si affrettò a precisare l’inserviente.

-Mangeremo, dove volete voi-, rassicurò il francese con classe.

Alla fine Amir accettò e portò l’ospite in una piccola tavola calda, dove conversarono a lungo o meglio Amir parlò molto. Il francese era davvero abile a mettere a proprio agio le persone e a spingerle a parlare di sé. L’inserviente gli raccontò persino del fatto che voleva mettersi a studiare per cambiare lavoro, motivo per il quale aveva frequentato alcuni corsi comunali d’italiano: voleva essere in grado di iscriversi a una scuola superiore senza il problema della barriera linguistica. La lunga conversazione sfociò infine nella politica per una semplice domanda di Amir.

-Perché usa il voi?- Amir domandò incuriosito all’ospite, che si era sentito preso in contropiede dalla domanda.

- È sbagliato in italiano?- si affrettò a chiedere imbarazzato, come se fosse per lui di vitale importanza possedere una corretta grammatica.

-Sì, la forma corretta in una conversazione formale è la terza persona, il “lei”-

-Avete … Ha ragione, che sbadato sono io. In francese si usa il “voi”. Mi dispiace di essere stato maleducato. Ero convinto che si usasse anche qui - disse il francese con un’espressione sconfitta sul volto. Amir accennò un no con la testa e indicò il pavimento- Giù. Al Sud si usa-

-In Terronia?-.

-Sì-.

-Questa è la fondamentale differenza che li ha fatti dividere?- domandò ironico il francese, sembrò strano che fosse in grado di fare ironia … era sempre sempre così gentile e sensibile.

-Non lo so, sinceramente. L’arrivo dei due illustri mi ha aperto gli occhi- iniziò l’inserviente passandosi una mano sulla leggera barba.

-Come mai?-

-Fisicamente i terroni sono come le persone di qui. Per esempio, hanno il naso grande- Amir disse indicando anche il suo -Un po’ come dalle mie parti-.

-Poi l’ambasciatore è chiarissimo di pelle e di capelli. Mi avevano detto che solo nel Regno ci sono persone con quelle caratteristiche-.

-Non pensavo che ci fossero tutti questi pregiudizi. Vada avanti- commentò il francese chiaramente interessato.

-E poi gli occhi- esitò Amir per un istante per poi indicare gli occhi del francese -Sono come i suoi sa? In tutta la penisola, le persone hanno degli occhi espressivi, con … car… carattere-. Maurice Leblanc rimase in silenzio.

-Li chiamo gli occhi italiani- confessò l’inserviente.

-Sono davvero così belli?- domando l’ospite riferendosi a suoi.

-Sì, e lei ce li ha. Come mai?-

Il francese sorrise, un sorriso furbo e misterioso- Le svelo un segreto: sono di discendenza italiana-. Amir si entusiasmò e domandò di quale regione ma Maurice fu ancora più misterioso-Nessuna delle due, sono nato prima della separazione-. Amir capendo l’antifona, si scusò per essere stato invadente, ma il francese ci scherzò sopra e gli domandò quanti anni avesse dato il suo furore giovanile.

-Ho vent’ anni- rispose Amir sincero.

Quando Amir tornò a casa, si sentì contento d’aver accettato l’invito a pranzo del francese … per la prima volta dopo tanto tempo si era sentito trattato come una persona e non solo come l’inserviente.

 

Varese, 14 maggio  2013 10.30 P.M.

I passi del Generale rimbombarono per tutto l’albergo, il suo volto scuro e normalmente inespressivo era carico d’ira. L’Ambasciatore camminava dietro di lui con la medesima espressione. I due illustri personaggi entrarono nella Sala Avorio, una sala destinata alle riunioni dell’albergo, con tale violenza da far spaventare il Ministro degli esteri e il Re padano.

-Che cosa vi turba, signori?- Domandò il Ministro con un falso sorriso.

-Il dipinto!  E’ stato rubato!- esclamò concitato l’Ambasciatore.

-In questo albergo?!?-

-No, in Bangladesh... - rispose sarcastico il meridionale alla domanda imbecille del Re.

-Carissimi, cercate di rimanere calmi … - il re cercò di essere diplomatico ma fu immediatamente interrotto dall’altro ufficiale.

-Al contrario: voi dovete rimanere calmi. Vi stiamo lanciando un ultimatum: se entro tre ore non permettete alle nostre forze di polizia di indagare sul caso vi dichiareremo guerra- il tono del Generale non prometteva nulla di buono e i padani rimasero allibiti.

-Caro Ministro-, scimmiottò l’Ambasciatore guardando con disprezzo il Re Padano e porgendo un documento ufficiale della minaccia al Ministro degli esteri -Potreste riferire velocemente le parole del mio superiore al suo?-

 Varese, 16 maggio  2013 12.00 A.

Amir si svegliò controvoglia. Il suo cellulare continuava a squillare insistentemente e pensò ai soliti problemi dell’albergo che lo perseguitavano persino nel suo giorno di riposo, ma quando sentì Bianca ordinargli istericamente di presentarsi in albergo, intuì che qualcosa di grave era successo. Con sgomento capì che era stato chiamato per un interrogatorio.

L’albergo era in pieno fermento, c’erano numerose automobili militari e straniere. Appena Amir entrò, si rese conto di essere nei guai: c’era il direttore dell’albergo che lo guardava con un’espressione impaurita in volto e c’erano due uomini in divisa nera. Il direttore invitò ad Amir a seguirli e i due uomini portarono Amir in una delle sale più piccole dell’albergo, dove ad attenderlo c’era una donna, quest’ultima era un militare e il nome era stampato sulla divisa.

Michela Neri era una delle donne più belle che Amir avesse mai visto. Il viso era fine e incorniciato da capelli ricci della forma tipica delle donne meridionali e dal colore castano con riflessi rossi. Il corpo … non passava di certo inosservato. Alla donna non mancava di certo la mercanzia giusta, parzialmente nascosta, sfortunatamente, dall’austera e nera divisa della polizia della Repubblica Magna con tanto di pistola in bella vista. Inoltre i suoi occhi scuri erano duri pezzi di empietà. La poliziotta guardava Amir come se fosse un disgustoso spettacolo e subito lo attaccò senza nessuna esitazione.

- Hai pulito la stanza degli ambasciatori la scorsa mattina?-

-Sì, signora-.

-E quando la sera l’Ambasciatore e il Generale sono tornati nella loro stanza, il dipinto era scomparso. Come lo spieghi?- domandò la donna con un tono accusatore.

Amir guardò impaurito la donna e temé di non uscire vivo da quella stanza.

-Non lo so- rispose sincero.

-Cazzate!- gridò la donna con un fortissimo accento romano.

-Signora, non ho neanche visto la cassaforte … - iniziò a spiegare l’inserviente.

-Dunque sapevi che il dipinto era in una cassaforte!-

-Era una voce di corridoio- si giustificò Amir.

-Giustificazione debole- contestò la donna con una voce di stizza.

-La prego di credermi, sono solo un emigrato che … - Amir s’interruppe nel vedere Michela guardarsi assorta le unghie.

Michela alzò lo sguardo e disse con finta accondiscendenza -Non finisci la tua storia patetica che rifili ai nordisti? Con me non funziona, sai? Nel mio Stato quelli come te non sono benvenuti. La nostra gente può raccogliere i pomodori da sola. Non susciti la mia pietà con la tua storiella. Non sono la poliziotta buona. Ho solo due ruoli io: la poliziotta cattiva e quella che ti uccide se non metti in moto il tuo piccolo cervelletto e mi fornisci informazioni -.

-Non capisco- replicò Amir tremando a quelle parole appena sentite.

- È impossibile che un omuncolo come te abbia rubato il dipinto. Hai incontrato qualcuno di sospetto negli ultimi tempi- domandò Neri stranamente gentile.

Amir cercò di rimanere calmo per ragionare con lucidità. Qualcuno di sospetto? Il francese era la persona che l’aveva colpito di più, recentemente, ma era solo una persona gentile ...

-Chi è allora?- domandò a bruciapelo la poliziotta vedendo un attimo d’esitazione in Amir.

-Il signor Maurice Leblanc. È una persona gentile, ieri mi ha invitato a pranzo- spiegò Amir non  riuscendo a reggere lo sguardo con la poliziotta.

-Ha chiesto qualcosa di particolare?- La poliziotta si era alzata in piedi e guardava dall’alto in basso l’inserviente.

-Solo della mia giornata e dei pettegolezzi dell’albergo-

Michela, seccata, sbuffò e domandò- Qualcosa’altro?-

-Abbiamo parlato di politica. Politica estera- fu costretto a specificare l’uomo.

-Precisamente di …?-

Amir rispose impaurito -Del perché l’Italia non è unita-

Sul volto della donna si manifestò un attimo di smarrimento, che subito si tramutò in un’espressione astiosa e disse -Ti sei fatto fottere omuncolo! Abbiamo finito. Esci da qui !- tuonò Michela.

Amir tirò un sospiro di sollievo ma era ancora inquieto -Cosa mi succederà? Sono colpevole?-

-Di essere imbecille, sì. Probabilmente ti licenzieranno per salvare la reputazione dell’albergo. Non un mio problema- dichiarò cinica la donna e senza mezzi termini.

Michela Neri prese il cellulare e urlò degli ordini ai suoi sottoposti e poco dopo ci fu una retata nell’albergo e a poco valsero i piagnistei del direttore che si trovò costretto a ubbidire a un volere superiore, quello del suo Re, precisamente. La camera del francese fu presa d’assalto e Michela entrò armata con quattro uomini armati. La camera era vuota, ad eccezione di un cellulare lasciato sul letto.

Michela lo prese con la mano inguantata e vi urlò -Ancora questo trucco del cazzo fai?-.

-Non è un trucco è il mio biglietto da visita- Rispose dall’altra parte una voce maschile senza nessun accento francese ma con un chiaro italiano, piemontese per essere specifici.

-Terrorista ricchione del cazzo. Dove è il dipinto?!- domandò la poliziotta mentre faceva segno ai suoi sottoposti di rintracciare il cellulare.

-Ben nascosto-, fu la risposta laconica dell’uomo.

-Scatenerai la tua amata guerra-

-No. Hanno accettato quell’assurdo ultimatum. Ne abbiamo persa di dignità come nazione-

-Voi non siete una nazione- rispose pronta la donna.

-Se per questo neanche la repubblica Magna! L’Italia è una nazione. Quest’assurda divisione ci costerà cara e spero che quando lo capirai tu abbia un piano d’emergenza- dichiarò l’uomo dall’altro capo del telefono.

-Te lo sogni. Ti catturerò e ti sparerò con la mia stessa pistola. Alberto Giordano!-.

Michela non ottenne nessuna risposta, la telefonata era finita e non era stato possibile rintracciare il cellulare.

 

Varese, 20 maggio  2013 12.30 P.M.

Amir non fu licenziato. Stranamente il direttore era stato comprensivo, oppure aveva lasciato il compito di perseguitarlo ai membri del personale. Tutti ormai prendevano in giro l’ingenuità del povero Amir. Per lui lavorare era diventato un inferno. Rientrando a casa l’inserviente si maledì ancora una volta per aver creduto a quel finto rispetto che gli aveva riservato il criminale francese, anzi piemontese alla fine si era informato su tutto l’accaduto.

Alberto Giordano era il criminale più ricercato dell’intera penisola, sebbene lui si dichiarasse di essere un ladro gentiluomo era stato catalogato come terrorista. Il ladro, infatti, aveva fatto scattare più volte tensioni tra le due parti del territorio, manomettendo gli scambi interculturali rubando da una parte all’altra ma grazie all’azione diplomatica si era sempre riuscito ad evitare il peggio. Poiché il regno Padano non aveva le forze militare sufficienti per contrastare la Repubblica Magna, anche se Alberto Giordano fosse stato catturato nelle proprie terre, sarebbe stato condannato dalla repubblica Magna. Il che voleva dire la morte e Amir lo sperò che lo catturassero presto, avrebbe ottenuto un minimo di giustizia.

Amir aprì la porta di casa con questi pensieri nella testa e si paralizzò nel vedere qualcuno seduto sul suo letto.

-Buongiorno- disse quel qualcuno. Amir riconobbe immediatamente quella voce, anche se priva di accento francese.

-Stronzo!- urlò l’inserviente lanciandosi contro l’uomo.

Dopo aver incassato un paio di colpi Alberto, si difese.

-Mi hai rovinato la vita!- continuò l’inserviente ma Alberto riuscì a scansare i colpi e a mettersi a distanza da Amir.

-Tu stesso mi hai detto che odiavi lavorare lì!- gli disse il criminale calmo, riuscendo a far sfumare momentaneamente l’ira del ragazzo.

Amir ripensò a quel famoso pranzo: aveva veramente detto qualcosa del genere?

-Cosa vuoi?- domandò arrabbiato Amir, la sua voglia di colpirlo era passata … adesso c’era la curiosità.

-Pagarti i danni- disse il criminale porgendogli un assegno.

-70.000 euro possono bastare per dimenticare l’orribile esperienza con Michela?- domandò Alberto.

L’inserviente toccò titubante l’assegno e poi ritirò la mano.

-Sono soldi rubati-

Alberto sorrise come se si aspettasse quella risposta e spiegò -Questi no, fanno parte di un’eredità che ho ricevuto anni addietro-. Amir lo guardò scettico e si rese conto di osservarne per la prima volta il suo vero aspetto. Era un uomo sulla quarantina, con occhi verdi e capelli castani e dal sorriso beffardo. Gli occhi tuttavia conservavano la stessa espressività e determinazione dell’alter ego francese.

-Con 70.000 euro potrai tornare a studiare e andare all’estero. Te lo consiglio. Scoppierà una guerra prima o poi qui perché non mi fermerò finché non riuscirò a riunificare questo pezzo di terra- concluse Alberto lasciando l’assegno sul letto e uscendo dalla finestra della camera.

Amir non ebbe nemmeno il tempo di replicare … il ladro era già uscito dalla sua vita con la stessa velocità con cui era entrato.

Non lo rivide mai più, se non sugli articoli dei giornali.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


capitolo 2

Pregiudizi criminali

Capitolo 2

Città del nord, 22 maggio 2013 10.00 P.M.

 

Alberto guardava critico il dipinto che aveva appeso nella camera della figlioccia Giuditta, assieme a lei,anche il più distratto degli osservatori avrebbe capito che i due non avevano nessuna parentela : Giuditta era una giovane ragazza quindicenne dai grandi occhi scuri e obliqui e il suo viso era caratterizzato da chiari lineamenti del sud est asiatico mentre la fisionomia di Alberto era tipicamente europea, eppure i due si somigliavano molto negli atteggiamenti, ad esempio condividevano lo stesso modo di appoggiare il peso sul piede destro quando pensavano a qualcosa  come in quel momento.

-Mi dispiace ma un Salvator Rosa non si abbina a questa stanza- dichiarò la ragazza.

Alberto annuì distratto continuando a fissare il dipinto con intensità mentre Giuditta continuò la sua affermazione - È pacchiano- e, questa volta, Alberto decise di rispondere a tono- Salvator Rosa non è mai pacchiano-.

-Che ne facciamo?- domandò Giuditta seriamente mentre Alberto le rivolse uno sguardo sbarazzino e le domandò – Intendi … come facciamo a tenerlo? Bene, spostiamo i tuoi libri porno-harmony da qualche altra parte e nella tua libreria mettiamo una bella collezione di libri classici: così adattiamo l’ambiente al dipinto-.

Giuditta arrossì violentemente e alzando un po’ troppo la voce dichiarò- Non leggo libri porno-.

-Ma certo che lo fai. Alla tua età avevo le riviste e le ragazzine hanno i racconti. E’ normale-.

Giuditta iniziò a negare e poi si difese definendo quello che leggeva come storie d’amore a basso impegno intellettuale e Alberto rise di quell’aggressiva difesa di Giuditta.

-Sarebbe molto più facile se tu fossi un comune ladro. Potresti venderlo a qualche riccone arabo! O un imprenditore asiatico- dichiarò Giuditta cambiando repentinamente argomento.

-Sai che è impossibile- disse Alberto assumendo un’espressione pensierosa.

-Rimandalo indietro! Come al solito!Qual è il problema?- domandò la ragazza, la quale aveva capito che la preoccupazione del padrino era ben maggiore di vendere o tenere il dipinto e, infatti, Alberto si avvicinò al Salvator Rosa e sfiorando delicatamente la cornice, infilò le mani sotto di esso sollevandolo, pronto a trasportarlo da qualche altra parte.

-Non è efficace Giuditta. Non sto ottenendo nulla-.

-Aumenti il tuo rapporto di stima e affetto con la Michela scherzò a disagio Giuditta e poi ,rendendosi conto dell’errore grammaticale, si corresse imbarazzata- Con Michela-.

L’uomo le sorrise debolmente mentre riportava il dipinto nel suo studio, Giuditta lo seguì docilmente e poté scorgere la cassaforte aperta del dipinto: era costata due giorni di  lavoro, la Repubblica Magna aveva un'ottima industria della sicurezza.

Quando Alberto uscì dallo studio, guardò l’orario sul suo orologio da polso e ordinò alla ragazza di andare a letto.

-Ma sono solo le dieci e mezza- protestò Giuditta.

-Se non dormi a sufficienza diventi brutta, non lo sai?- scherzò Alberto, - Domani c’è scuola e devi essere riposata-

Giuditta iniziò a protestare- Ci sono dei ragazzi a scuola che vanno con gli occhi gonfi di sonno o chissà altro!-.

Alberto alzò le spalle- Allora non ti mostrerò come ho aperto la cassaforte-.

A quella semplice affermazione, improvvisamente, la ragazza dichiarò d’aver sonno: Giuditta non faceva i capricci perché era infantile, la verità era ben peggiore le piaceva far polemica!Perciò Alberto la trattava sempre duramente, perché se non lo fosse stato, chi lo sarebbe stato? La scuola, la società? In un mondo ideale sì, ma nella realtà l’Educazione spettava ai genitori e paradossalmente, pur essendo un ladro, Alberto aveva ben insegnato il comportamento civile a Giuditta.

-Posso sapere per lo meno, dove vai?- chiese la ragazza che apparve poco dopo struccata e con enorme pigiama a strisce verdi (era del suo patrigno ma glie l’aveva soffiato perché era più caldo dei suoi).

-Da qualche mio amante- rispose serafico Alberto, mentre sul viso di Giuditta passò un’espressione di chiara indignazione.

-Uomini … anche se gay, siete poco seri-. Alberto le sorrise, con quel sorriso beffardo che era il suo simbolo, e mentre giocherellava con le chiavi dell’auto, le augurò la buona notte con un bacio sulla fronte.

Prima di uscire Alberto si era ovviamente camuffato nel suo alter ego Renzo Rossi, un bell’uomo dai baffi, occhi scuri e con dei simpatici occhiali da vista: Renzo Rossi era uno degli alter ego di Alberto ma era quello più importante, era quello che gli permetteva di avere una vita da civile e soprattutto la custodia di Giuditta. Nonostante che da anni sia la polizia del Regno Padano e sia quella della Repubblica Magna erano sulle sue tracce, nessuno aveva scoperto quell’alterego. Al garage l’uomo mise in moto la sua automobile, pronto a mettersi in marcia pur non sapendo la sua destinazione: non sarebbe stata un'idea malvagia chiamare effettivamente qualche suo amante ma in quel momento non aveva nessuna voglia di relazionarsi con qualcuno e per cui decise di andare al cinema.

Era da qualche tempo che non ci andava e sapeva che nelle sale stavano proiettando un film storico che era stato acclamato sia dalla critica sia dal pubblico. Alberto normalmente evitava di guardare i film storici, le sue conoscenze lo rendeva uno spettatore difficile: la più piccola incongruenza storica provocava in lui repulsione e disprezzo eppure decise di fare un tentativo e uscì dal cinema inaspettatamente contento e ispirato. Il film parlava della guerra di successione americana e l’idea di unire uno stato tramite una guerra era un argomento che toccava profondamente Alberto e si era sentito stranamente nostalgico e ispirato dalle scene più belle del film girate del Sud degli stati Uniti.

Sud... come l’Italia meridionale, il Mezzogiorno, e ora la Repubblica Magna. Un territorio inospitale, non solo per lui, perché erano ben nove anni che le frontiere fra il Regno Padano e Repubblica erano state chiuse. L’ultima volta che era stato lì, era proprio alcuni mesi prima che chiudessero le frontiere definitivamente e appena in tempo per sotterrare il suo mentore Lucia  Mazzoccolo. Alberto ricordava ancora il traffico che aveva provocato il lungo corteo funebre del suo mentore per la strada di Via stadera a Napoli e Lucia era stata sotterrata proprio nel cimitero di Poggioreale. Era passato tanto tempo, troppo tempo ed era il momento di andare a far visita al suo mentore.

 

Aeroporto di Malpensa 05 agosto 2013 05.15 P. M

- È una pessima idea!- disse Giuditta, ancora una volta, mentre Alberto controllava se i suoi documenti di viaggio erano in ordine.

-Giudi… guarda com’è grande, l’aeroporto- rispose Alberto utilizzando il tono di voce che usava quando la ragazza era più giovane, ma Giuditta spazientita gli tirò via dalle mani i documenti.

-Giuditta… - iniziò il rimprovero di Alberto per essere immediatamente interrotto.

-Papà è una follia. Fammi venire almeno con te!- una sentita preoccupazione si leggeva sul volto di Giuditta e Alberto sentì un moto d’affetto e tenerezza.

-Questo sarebbe una follia. Gli stranieri non sono ben visti nella Repubblica Magna. Non devo attirare l’attenzione -.

-Posso usare una maschera!- Giuditta replicò- È più da folli fare un colpo nella tana del lupo. Già ti vogliono ammazzare per la beffa del Salvator Rosa e se ti scoprono, ti linceranno!-

Giuditta si riferiva a come Alberto avesse restituito il Salvator Rosa alla fine: prima aveva rimandato la cornice e poi il dipinto era stato ritrovato due settimane dopo, intatto, in una scatola nell’aeroporto di Catania. I repubblicani non l’avevano presa bene, sulla testa di Alberto erano aumentati i mandati di cattura e poco ci mancava che mettessero un annuncio con la scritta “ Vivo o Morto” come in un film di Sergio Leone. Alberto aveva deciso d’infliggere una vera e propria umiliazione alla Repubblica: se ci fosse riuscito, avrebbe potuto iniziare la guerra.

-Me la caverò. Approfitta della mia assenza per fare delle feste favolose in casa- scherzò ma la ragazza distrutta aveva abbassato lo sguardo e Alberto la cinse tra le sue braccia e le disse dolcemente che sarebbe andato tutto nel verso giusto.

Giuditta aveva rialzato la testa e con aria minacciosa dichiarò - Se ti succede qualcosa, vado giù e scateno il 48!- usando un modo di dire assai popolare in passato, di cui era stato proibito l’uso dopo la separazione, Alberto le accarezzò il viso come ultimo saluto e poi si avviò al suo gate.

 

Roma, Palazzo del ministero dell'Interno della Repubblica Magna

05 agosto 2013 10.00 P. M

Michela Neri non aveva paura e ,se l’avesse avuta il suo viso sarebbe rimasto inespressivo, però in quel momento era un altro sentimento a essere in carica, l'irritazione: secondo il suo parere il Ministro dell’Interno la stava facendo aspettare troppo. La donna annoiata provò ad ammazzare il tempo studiando gli interni dell’anticamera del Palazzo del Viminale ripetendo mentalmente la storia di quell’edificio: un tempo era stato usato per il medesimo scopo dalla Repubblica Italiana. Quando era avvenuta la scissione, la nuova politica pragmatica della Repubblica Magna aveva optato di tenere i ruoli intatti delle sedi. L'idea generale era che la Repubblica non avrebbe dimostrato la sua potenza spostando qua e là gli uffici, già la rinnovata instaurazione di Roma come capitale era un motivo di vanto per i Repubblicani poiché il Regno Lombardo si era dovuto accontentare della meno antica e gloriosa Milano, per ragioni economiche a discapito di città più antiche come Torino ad esempio.

Il palazzo del Vinimale era grandioso: i pavimenti di marmo e bellissime murature riflettevano la luce del sole espandendola nell’edificio, come se quest’ultima fosse attirata da un misterioso compagno. Michela non era assolutamente toccata da quel gioco di luce, era insensibile a tutto ciò che considerava superfluo. Mentre guardava, impassibile quei giochi di luce fu annunciata dalla guardia-porte e poté finalmente entrare nell’ufficio del Ministro e, quando entrò, non fu catturata dalla bellezza dell’ambiente ma dagli sguardi delle persone in cui vi erano all'interno: il Ministro era in compagnia del Generale. Il politico era un uomo dall’aspetto giovanile, aveva dei limpidi occhi che gli donavano più l'aspetto di un artista che quello di un uomo di potere, il viso era così fine che neanche i folti baffi riuscivano a renderlo più adulto. Il Generale, dall'altra parte, era un uomo cinquantenne dal viso virile e dalla splendida forma fisica, coerente alla sua storia personale: siciliano di nascita, aveva studiato dall'accademia Nautica di Napoli. Gli occhi del Generale erano così scuri da sembrare neri e per questo motivo era molto difficile capire dove il suo sguardo impenetrabile si dirigesse e, come accadeva ogni volta lo incrociava Michela riusciva a provare l'indegno sentimento della preoccupazione, paura mai. Michela notò che sia Il Generale e sia il Ministro apparivano stanchi e ansiosi mentre li salutò militarmente com’era di uso nella Repubblica.

-Benvenuta, Primo maresciallo Neri- le disse cordialmente il Ministro ricambiando il saluto in un modo frettoloso mentre il Generale ricambiò senza dire una parola, la donna rimase in posizione d'attesa aspettando istruzioni.

-Il suo amico Alberto Giordano ha annunciato il prossimo furto, immagino che lo sappia- chiese retoricamente il Ministro.

-Sì, signore. Il ladro ha avvisato che farà un colpo nel Museo di Capodimonte a Napoli. Ma, se permette, non c’è molto da preoccuparsi-.

Il Ministro cambiò espressione e commentò severamente- Come può a dire che non c’è molto da preoccuparsi?Tutti i suoi furti sono riusciti: che cosa le fa pensare che non possa costituire una minaccia per la bella e fortificata Napoli?-.Michela, per nulla turbata dal cambio di tono del ministro, mantenne la sua posizione e commentò sicura – Il biglietto diceva che avrebbe rubato ciò che è di più raro e prezioso. In un museo in cui c’è un’intera galleria dedicata a oggetti rari, non vuol dire nulla o tutto. La data del colpo coincide con l’arrivo di alcune opere del Canova e questo potrebbe far supporre che l’obiettivo possa essere tra quelle ma non lo è e credo che sia più importante setacciare la città perché lui deve essere già nella Repubblica-.

-Impossibile!- disse il Ministro risentito e cercò uno sguardo d’intesa nel Generale, il quale rimase invece impassibile continuando a studiare il maresciallo.

Neri continuò, senza far caso volutamente alla negazione - Alberto Giordano ha bisogno d’informazioni per organizzarsi in un posto sconosciuto: ha mandato quel biglietto per agitarci e per studiare l'organizzazione della difesa del museo così da vederne i difetti e se daremmo più importanza alla mostra di Canova o al museo in generale-.

- Quale crede sia il suo obiettivo?- domandò il Generale con vivo interesse mentre il Ministro fissava il Maresciallo con un’espressione mista a scetticismo e incredulità.

-Non è il Canova, Generale. La statua più famosa esposta è alta circa tre metri e mezzo. È un professionista ma non ha un complice, una statua così alta è impossibile da rubare da soli. Penso, per quanto assurdo, che neanche lui sappia cosa rubare e per questo il suo avviso è così generale. È solo, in una città sconosciuta e ha bisogno di tempo per organizzarsi infatti il colpo è stato annunciato per il prossimo mese. Possiamo provare a fortificare il museo ma ho un altro piano: dobbiamo scoprire la sua identità e incastrarlo. Venire qua è stato un vero azzardo e questo gli costerà caro-.

L’espressione del Generale divenne confusa, - La sua identità è Alberto Giordano, che cosa intende per identità?-.

-L’identità che usa per vivere da civile, deve averne una e direi che la considera molto preziosa: non improbabile pensare che possa avere una vita parallela con dei solidi affetti-, spiegò Neri mentre i due uomini la guardavano interessati ma anche forse preoccupati dal chiaro risentimento di Neri nei confronti di Giordano, ma il maresciallo ignorò quelle espressioni per tornare a parlare del suo piano.

-Giordano ha molti alter ego, di solito li usa una sola volta per fare i colpi, delle sorti d’identità usa e getta che sono inutili da rintracciare. Ho deciso di trovare il suo alter ego da civile e trovare che cosa difende così strenuamente per metterlo in ginocchio-.

Il Generale domandò scetticamente, - Se fosse vero ciò che dice sarebbe molto strano che la polizia del Regno Padano non sia mai riuscita a trovare il suo alter ego da civile. Che cosa le fa credere che lei e i suoi uomini possano trovarlo?-.

La donna disse senza mezzi termini- Perché siamo migliori e pronti a sporcarci le mani-.

Il Ministro guardò il Maresciallo scioccato, chi diamine credeva di essere da potersi permettere un atteggiamento così arrogante con un suo diretto superiore e nientedimeno con il capo della nazione che entrambi servivano? I pensieri dell’uomo furono interrotti da un piccolo applauso del Generale e solo quel rumore si sentì nella sala, il ministro era rimasto scioccato e in silenzio, basito da quel gesto.

- Maresciallo Neri, conosco i suoi meriti … ha catturato moltissimi criminali nazionali e internazionali: immagino che possa sentirsi orgogliosa, ma Giordano è sempre stato la sua disfatta: non dovrebbe avere un atteggiamento così arrogante-.

Michela Neri rimase nella sua posizione ad ascoltare quella dichiarazione e immaginando il resto.

-Lei però ostenta una grande sicurezza e per cui possiamo anche aumentare la posta in gioco-, il viso del Generale divenne malizioso, non la malizia comune ai maschi che Neri ben conosceva e tanto odiava.

-Se catturerà Alberto Giordano lei diventerà Tenente-.

Il Ministro si turbò a tale affermazione che quasi obiettò, ma il Generale lo bloccò e il Ministro indietreggiò di qualche passo conciliante, il Generale aveva pieno potere su tutti e chiunque nella Repubblica Magna, Michela invece rimase inespressiva sentendo la sua l’ansia crescere …

-Se invece non catturerà Giordano sarà degradata a … - il Generale prese volutamente tempo osservando bene il Maresciallo per vederne le reazioni- Sergente maggiore. Siamo d’accordo?-.

Non era una domanda, era un ordine e Michela lo percepì e rispose- Affermativo, signore-. Il ministro guardò il Generale e poi il Maresciallo, incapace di capire la strana alchimia e tentativi di prevaricazione che avevano entrambi l'uno sull'altra.

-Ministro- il Generale attirò la sua attenzione- Che tutto questo sia messo a verbale-ordinò perentoriamente.

-Quanto a lei- disse rivolgendosi a Michela- Può andare-.

Michela uscì con passi decisi dalla stanza lasciando i due uomini soli,il Generale si sedette al posto del ministro, costringendolo ad accomodarsi disagiatamente al lato opposto della scrivania, sulla sedia più scomoda.

-Se ha delle domande, può chiedermele-, chiarì il Generale mentre il ministro lo guardava confuso e intimorito, il Generale si trattene a sbuffare, non capiva perché tutti i ministri avevano paura di lui … preferiva a questo punto una persona come il primo maresciallo: la sua arroganza era meno disturbante della codardia.

-Si fida del Maresciallo?-

- È in gamba e la posta in gioco è alta, non solamente per lei: la credibilità della Repubblica è in pericolo, se quel ladruncolo riesce a rubare a casa nostra sarà come ammettere la nostra incapacità e per riconquistare la nostra supremazia sulla penisola saremmo costretti a dichiarare guerra al Regno. In pochissimo tempo ci ritroveremmo l’UE e, se riesce a convincerlo, l’esercito ONU in casa. Se facciamo però la guerra, quel Giordano avrà vinto: vuole riunificare la penisola come fecero anni orsono gli americani tramite la Guerra di Successione o i Prussiani con le terre germaniche -.

-Non è più il tempo di guerre di questo tipo, Generale- obiettò il Ministro, per poi deglutire nervoso agli acuti occhi del superiore.

- La guerra non cambia, magari non si ridisegna una cartina geografica ma comunque controlleremo quelle terre, le quali sono controllate dall’UE, che aspetta un nostro atto di forza per denunciarci all’ONU. Noi non rispettiamo quelle ipocrite leggi che ha l’Unione. Che cosa te ne fai della libertà se non puoi lavorare, essere indipendente e dignitoso?-.

-Ma il Maresciallo, signore, è … - iniziò il Ministro.

- … Una persona che non crede nella Repubblica, ma è solo accecata dal suo desiderio di potere e vendetta?Ho letto il suo profilo: da una persona del genere non può aspettarti nulla che non sia per suo tornaconto, è fedele per calcolo, per questo più facile da gestire. Non mi aspetterei da lei un tradimento o un’alleanza con Giordano-. Il Ministro fissò il Generale invidiandone la sicurezza: sembrava così certo, come se considerasse il maresciallo Neri un pezzo di una scacchiera e che sapesse quali mosse sfruttare per vincere quella partita in corso.

-Sì, signore- concordò stancamente il Ministro sentendosi anche lui un pezzo di un gioco che non conosceva.

Napoli, Cimitero di Poggioreale 11 agosto 2013 10.00 A. M

Alberto si era rasato i capelli prima di andare a Napoli, sapeva che la maggior parte degli uomini aveva quel tipo di acconciatura e rendeva sopportabile il caldo umido della città. Stava camminando lungo le strade del cimitero di Poggioreale, alcune di esse si legavano al tessuto urbano della città e per cui si doveva fare attenzione alle automobili di passaggio.

Alberto rifletté, che dall’ultima volta che era stato lì, il cimitero non era cambiato molto ma la città sì, era diventata fredda, efficiente e pronta a opprimerti, aveva perso il carattere anarchico che la caratterizzava: Alberto aveva notato che c’erano moltissimi militari in giro, soprattutto nelle vicinanze delle Università dove se ne stavano lì con le loro divise nere e i mitra imbracciati pronti a fermare qualsiasi indisciplina. Proprio in virtù di questi cambiamenti, questa volta non aveva scelto come alterego l'identità di un turista straniero ma aveva preferito fingere di essere un uomo proveniente dall’Umbria in visita nella seconda città della Repubblica: i turisti oltre confine erano benvenuti nello stato militare ma la popolazione locale non avrebbe mai parlato apertamente della situazione interna con uno loro e Alberto non era solo lì a fare il colpo, voleva raccogliere informazioni.

Quello che aveva visto e sentito non gli era piaciuto per niente e con quei pensieri continuò a camminare, fino a quando trovò la sala in cui era stata spostata la salma del suo mentore. Fin dai tempi della sua costruzione il cimitero di Poggioreale era sempre stato sovrappopolato, per questo motivo i morti erano trasportati molto velocemente dalla terra ai sarcofagi a muro per guadagnare spazio.

Alberto avrebbe preferito trovarsi davanti a una lapide piuttosto che salutare il suo mentore guardando scomodamente verso l’alto, ma, come le avrebbe detto la stessa donna, “ Questo passa in convento”. Trovò il suo sarcofago sopra altri tre e quando vide l’incisione “ Lucia Mazzoccolo nata 31 ottobre 1922 morta 2 giugno 2004” sentì un colpo a cuore. L’uomo si fece il segno della croce e, assicurandosi che non ci fosse nessuno in ascolto, iniziò a parlare a bassa voce.

-Ciao-, non ci ovviamente nessuna risposta e Alberto continuò il suo monologo raccontandole di com’era diventata la sua città, le disse dei soldati sempre presenti nei posti di sapere e di circolazione d’idee (come le sedi universitarie, cinema, teatri) e del clima angoscioso di prevaricazione che si avvertiva negli attimi di silenzio.

All’apparenza tutto era diventato bello, pulito ma era chiaro che la popolazione non avesse avuto nessun merito di quella trasformazione. La Repubblica era efficiente, però la popolazione era stata ridotta a una chiara sottomissione di un Signore: non era cambiato nulla, esistevano ancora il feudalismo nel cuore del sud dell’Italia. La popolazione non era responsabile delle sue azioni e non poteva lamentarsi delle azioni dei governanti che fornivano il lavoro per avere sia il divertimento e il cibo, e la forca per punire chiunque si opponesse a quella prigione dorata. La situazione poteva essere descritta come antico detto popolare che recitava "Festa, farina e forca"

-Lucia … la ribellione, la rabbia … hanno perso tutto. Sono consapevole che il nord non se la passa meglio: appena la popolazione ha perso l’apparente superiorità si è chiusa in se stessa ed è diventata ancora più individualista, ignora completamente il significato di senso sociale.- sospirò Alberto.

-Forse non è una buona idea unirla questa penisola, forse è veramente soltanto un’espressione geografica-, commentò aspro  mentre il silenzio della cripta aumentava la sensazione di sconforto nel suo cuore, sentiva la sua fede indebolirsi eppure ci credeva ancora in quella nazione e in quel popolo che lui sentiva di appartenere.

-Farò un colpo al Museo di Capodimonte. Quest’anno porteranno alcune opere del Canova da Roma, tra cui l’Ercole e Lica della Galleria Nazionale d'Arte Moderna-, Alberto strinse le spalle e commentò- M’interessava molto come opera, ma è troppo grande, circa tre metri e mezzo-.

Sorrise al sarcofago, - Probabilmente questo non ti avrebbe fermato però non ho più spazio in casa per tenere delle opere d’inestimabile valore ad ammuffire e ormai il tuo negozio è stato chiuso.  Inoltre, se tornassi con qualcos’altro, Giuditta mi ammazzerebbe: il suo caratteraccio peggiora ogni anno che passa-. Sorridendo tentò di deporre nel vaso del sarcofago dei fiori che aveva con sé, ma era troppo alto per lui, allora li lasciò a terra, facendo il segno della croce, sussurrò- Addio-.

Alberto Giordano uscì con le lacrime agli occhi in una città ostile.

Napoli, Bosco di Capodimonte 11 agosto 2013 11.00 A. M.

Il museo di Capodimonte si trovava nel maggior sito verde della città, il Bosco con l'ononimo nome e quest’ultimo era un parco enorme per una città che era sempre immersa in un traffico claustrofobico, esso comprendeva all’incirca 1.340 km² di vegetazione ed era caratterizzato da grandi spazi aperti o piccoli boschetti adatti agli imboscamenti delle coppie.

Alberto sentiva l’aria fresca arrivargli ai polmoni mentre camminava, era già la seconda volta che veniva lì ma rimaneva entusiasta da quel vento rinfrescante e da quella sensazione di calma assoluta nonostante la presenza numerosa di persone: il parco era un ritrovo per turisti, studenti, che avevano saltato la scuola, coppiette. Il ladro era lì per dare un senso visivo allo studio dell’intero perimetro, studiato in precedenza nell’eventualità che dovesse fuggire attraverso il bosco che, data la sua estensione, sarebbe stata un’ottima alternativa per far perdere le proprie tracce, ad eccezione nei grandi spaziali verdi e aperti: in quelli Alberto sarebbe stato un facile bersaglio per una sparatoria.

L’uomo si sedette sotto una palma, che gli permetteva di studiare comodamente l’entrata del museo respirando il suo profumo dolciastro.Il museo di Capodimonte era immerso nel verde perché originariamente avrebbe dovuto essere una cascina da caccia, ma quando il re Carlo Borbone ottenne la preziosa Collezione Farnese, decise che la cascina sarebbe diventata un museo per ospitarla e fu esposta la prima volta nel 1757.

La Collezione era stata ideata dal papa Paolo III, della famiglia laziale Farnese, ed era composta di dipinti appartenenti al movimento del Rinascimento emiliano e romano e da pitture fiamminghe raccolte nelle città di Parma e Roma. Non era ovviamente l’unica collezione esposta al museo: la collezione dei Borgia, la galleria d’arte napoletana e quella dell’ottocento avevano la possibilità di essere apprezzate dal pubblico. Dopo aver riposato ed essersi dissetato sotto la palma, Alberto decise che era il momento di visitare il museo.

 

Napoli, Museo di Capodimonte 11 agosto 2013 11.20 A. M

Il museo di Capodimonte era una struttura a tre piani, appariva dall’alto come un grosso rettangolo con tre insenature quadrate, il resto del perimetro creava lo spazio reale delle sale. Il piano terra del Museo ospitava il gabinetto dei disegni e delle stampe di vari artisti, manifesti e una parte della sezione dell’Ottocento: era probabilmente uno dei piani meno apprezzati dai turisti, assieme a quello dedicato all’arte moderna al terzo piano, nonostante che l'esposizione vantasse anche dei disegni di autori come Carracci, Tintoretto e perfino di quelli monumentali di Michelangelo e Raffaello. Alberto sapeva che gli schizzi normalmente non riuscivano ad appassionare il pubblico, forse in parte convinto dal luogo comune che un artista iniziasse il suo lavoro senza nessuna fase preparatoria: generalmente qualcuno si fermava per buona educazione a quelli di Michelangelo o Raffaello,ma non avrebbe dedicato più di mezz'ora a quella collezione di duemilacinquecento fogli e venticinquemila stampe.

Le sale di quel piano erano spesso viste di sfuggita quasi come ci fosse una maledizione, ad eccezione delle volte che ospitavano qualche mostra di opere esterne, come il caso della mostra del Canova: in quel caso il piano era stranamente pieno di visitatori. Alberto camminò a passo spedito in quelle sale, soffermandosi soltanto a qualche disegno che attirava la sua attenzione o curiosità,ma fu felice di poter salire al primo piano, che era sicuramente il più ammirato.

Ospitava la collezione Farnese, gli appartamenti reali e la galleria delle collezioni rare: Alberto decise di visitare il museo passando per gli appartamenti reali, i quali erano stati tutti restaurati e permettevano di rivivere pienamente la sensazione della vita della corte settecentesca napoletana.

La sala da ballo era il più famoso e apprezzato locale di quei appartamenti: aveva le pareti di colore azzurro e grandi motivi barocchi, il pavimento di marmo ocra e bianco risplendeva nel suo motivo geometrico e le grosse finestre avevano un tendaggio color crema, una sfumatura che dava alla sala quel tocco di spensieratezza che ci aspettava dalla sua funzione. Nella sala Alberto vide due ragazzine ballare nei modi più disparati lungo tutto lo spazio, sorrise pensando Giuditta a casa intenta a fare chissà cosa, ma il divertimento delle ragazzine durò poco: appena si avvicinarono troppo al cordone che indicava la parte della sala non visitabile, una delle guardie le sgridò pesantemente e, le due, rosse di vergogna, scapparono immediatamente nel corridoio successivo.

La guardia esagitata tornò dal suo compagno tutto baldanzoso, come se avesse fermato chissà quale crimine in corso, ma non ottenne dall’altro i meriti che si aspettava, infatti, quest’ultimo lo guardò con un’aria di sufficienza costringendolo a chinare la testa sconfitto.  Alberto finse di mettere a fuoco la sala e li fotografò: aveva osservato che in ogni sala c’era una coppia di guardie, una più giovane e una più vecchia ma le altre erano sembrate più affiatate tra loro, era sempre un bene trovare eventuali anelli deboli nella sicurezza del museo.

Alberto s’incamminò in un'altra sala famosa, il Salottino di porcellana e corrispondeva al numero cinquantadue. Il Salottino di porcellana era stato commissionato da Maria Amalia di Sassonia ed era un ambiente in stile Rococò interamente rivestito da lastre di porcellana bianca decorate ad altorilievo con festoni e scenette ispirate al gusto orientale, in voga in quel periodo. Il Salottino era famoso perché era stata una grande opera di manifattura della Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte e rappresentava i contatti che aveva il Regno napoletano con il lontano oriente, facendo presumerne la sua potenza a quei tempi. Dopo aver dedicato qualche scatto al salotto, Alberto iniziò a visitare la Collezione Farnese mentre avvicinandosi così sempre di più al vero motivo della sua visita.

La collezione Farnese era molto vasta, i dipinti più famosi del primo piano erano i seguenti: Danae e alcuni ritratti della famiglia Farnese di Tiziano, la monumentale Crocifissione di Masaccio, il Trittico di Nicolò di Tommaso, alcune tavole del Botticelli e la Trasfigurazione del Bellini. Il dipinto di Tiziano “Danae” era uno dei preferiti di Alberto, si trovava nella sala numero 11,non lontano dal suo vero obiettivo. Molte persone ignoravano che il dipinto di Danae non era semplicemente una rappresentazione dell’antico mito classico (in cui Giove invaghito di Danae, si trasformava in una pioggia d’oro per penetrare nella stanza attraverso un pertugio nel tetto a fecondarla). Il dipinto poteva essere considerato un ritratto erotico e anche in certo senso satirico: la modella usata per Danae non era altro che una favorita del cardinale e il suo viso era estremamente somigliante al soggetto femminile di un altro dipinto “Fanciulla Farnese” (altra opera sempre esposta nel museo) e la pioggia d’oro, tintinnante di monete, sembrava alludere alla natura di cortigiana della donna. Alberto sorrise osservando il dipinto, in tutti i secoli gli artisti avevano trovato sempre il modo di superare la censura e talvolta anche di ridicolizzare chi gli dava da vivere.

Scattò qualche altra fotografia alle telecamere e silenziosamente si avviò nella Galleria delle cose rare, che iniziava con la sala numero 13, essa ospitava numerosi oggetti d’arte preziosi che probabilmente provenivano dalle residenze private dei Farnesi e ,tra questi oggetti spiccava, il peculiare Cofanetto Farnese.

Era in argento e rettangolare, le pareti erano impreziosite da lapislazzuli, in cui erano incastrati sei ovali di cristallo di rocca, sopra questi c’erano delle iscrizioni in latino e greco nominavano le scene rappresentate lungo il cofanetto. Le gambe del monile erano dieci modiglioni terminanti a zampa di leone e agli angoli vi erano quattro sfingi imponenti, che sostenevano quattro statue della mitologia romana: Minerva, Marte, Diana e Bacco. La forma del coperchio era di un frontone spezzato, fra le due parti si ergeva una bella statuetta di Ercole seduto su uno scoglio brandendo una clava.

L’intero cimelio sembrava voler celebrare l’abilità dell’artigianato dell’essere umano, era un pezzo raro e misterioso: il cofanetto non era mai stato menzionato negli inventari del Palazzo Farnese e l’unica citazione della sua esistenza era una menzione della Galleria Ducale di Parma nel 1708. Anche l’uso era rimasto un mistero e gli studiosi presumevano che avesse lo scopo di contenere libri, anzi che fosse stato realizzato per contenere il Libro d’Ore, il più prezioso testo miniato posseduto dal Cardinale Alessandro.

Anche se non poteva toccarlo perché protetto da una tecca, Alberto già pregustava la freddezza dell’argento nelle sue mani e la soddisfazione nel rubare un oggetto così magnifico, raro e, soprattutto, che si trovava in uno dei musei più prestigiosi della Repubblica. Fischiettando Alberto scattò altre foto della sala e si avviò agli altri piani del museo per studiare altre meravigliose opere, che avrebbero potuto essere un’interessante scelta se avesse dovuto ricompiere nuovamente un furto in quel museo.

Al secondo piano erano presenti, nella cosiddetta “ Galleria Napoletana”, dei dipinti dell'arte "caravaggesca" e i capolavori assoluti della pittura napoletana che andavano dal XIII al XVIII secolo. Tra i dipinti più noti c’era la Flagellazione di Cristo del Caravaggio. Era un dipinto di notevole dimensione, rispetto alle antecedenti opere che l'artista aveva svolto nel suo soggiorno napoletano, Caravaggio aveva dipinto una scena di tortura: Gesù era tra due aguzzini, appoggiato a una colonna. Il dipinto era organizzato proprio intorno a quella colonna su cui era legato Cristo e dove si disponevano i due torturatori, uno dietro e l'altro sul lato. Il corpo di Cristo era luminoso e sinuoso del suo dolore, tanto da contrastare i movimenti strozzati e secchi di concentrazione dei suoi aguzzini: era un dipinto dove si avvertiva la tensione fisica dei personaggi,soprattutto quella di Cristo torturato.

Alberto fissò un lungo attimo quel dipinto, affascinato dal gioco di luci e contrasti domandandosi com’era possibile che, in una terra come l’Italia, fossero nati dei geni di quel lignaggio. Era forse stato il senso di precarietà divoratrice, esistente fin dai tempi della caduta dell’Impero Romano a far nascere quei geni? Che continuavano a esistere in una terra così arida di possibilità e opportunità? Lentamente Alberto ripose la sua macchina fotografica nella custodia, come se fosse stato improvvisamente stanco … soltanto lui soffriva per le sorti di quella terra?

Decise di visitare, senza impegno, anche il terzo piano del museo che ospitava una galleria dell’ottocento napoletano, un'altra dedicata alla fotografia e una sezione d'arte contemporanea: le opere più importanti erano quelle dello scultore napoletano Vincenzo Gemito, morto tragicamente, con “O Pescatoriello” e di Andy Warhol, il fondatore e maggiore esponente della Pop Art, con Vesuvius.

Il terzo piano subiva la stessa impopolarità del primo piano perché l’arte moderna è sempre mal vista dalle persone comuni, considerata la morte dell’arte e non la rappresentazione della propria generazione. Alberto non era innamorato di quel genere, ma riusciva a riconoscere la follia che rappresentava perfettamente il XXI secolo e per cui si concesse un po’ tempo per ammirare quel piano così bistratto rimanendo affascinato dai colori scelti per rappresentare il Vesuvio da Andy Warhol: erano eccentrici come lo era un tempo quella città che il suo mentore aveva tanto amato. Alberto uscì soddisfatto dal museo, ma non prima d'aver chiacchierato amorevolmente con la commessa della biglietteria per ottenere più informazioni sull’attesissima mostra di Canova.

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Pregiudizi criminali
Capitolo 3

Gagliola, Quartiere Posillipo, Napoli 15 agosto 2013 07.00 A.M
La zona della Gagliola era l’angolo più strano della città di Napoli che si potesse visitare, era nascosta nei meandri del quartiere di Posillipo e sembrava un piccolo villaggio di mare celato in una grande città: quel luogo aveva qualcosa di nostalgico con le sue piccole casette basse e bianche e un' unica strada ,una grossa scala in pietra, che conduceva a una baia dal mare cristallino. Alberto ispirò forte l’aria sentendo l’odore salmastro del mare e guardò con simpatia un grosso gatto tigrato con una coda a tinta unita, che si dondolava al sole nei pressi di una casa con una porta blu, a ridosso delle scalinate. Il piemontese tentò d'avvicinarsi per accarezzare l'animale e questo lo guardò indispettito, quasi offeso da quella violazione della sua area personale, ma Alberto non demorse e continuò ad avvicinarsi finché il gatto s’ingobbiò sulle zampe e ringhiò minaccioso.
-Non è una buona idea stuzzicare Virgilio, all’improvviso si udì una voce e apparteneva al padrone di casa dalla porta blu: un uomo vicino ai sessanta, dal viso olivastro regolare e i capelli grigi ben curati, che indossava una semplice maglietta a mezze maniche e dei jeans scoloriti. Alberto gli sorrise e questo ricambiò invitandolo a entrare in casa e Virgilio sgattaiolò via evidentemente ancora più offeso.

-Lascialo stare, è viziato- dichiarò il proprietario del gatto e Alberto poté finalmente salutarlo come si deve.
-Signor Mauro de Santis… - iniziò a parlare nostalgicamente Alberto scoccando due baci in successione all'uomo, quest'ultimo lo istruì a chiamarlo solo Mauro e lo invitò  a sedersi nel piccolo salottino di casa.
    Non era una casa molto grande osservò Alberto: era un bilocale, spartano, luminoso e decisamente modesto per il valore attuale che possedeva.
-Mi piace questa zona di Napoli -, disse Alberto guardandosi attorno, come se fosse stato ancora fuori all’aperto- Ogni volta che la vedo, rimango colpito da quest’oasi peculiare: sembra di essere finiti in un piccolo villaggio di mare-.
-Già … peccato che una casa qui costa mezzo milione di dollari magna- disse caustico il signor Mauro e Alberto replicò -Considerò ciò come una lezione su come non giudicare un libro dalla copertina-.
-Può essere- affermò Mauro che prese dal tavolo del salotto un pacchetto di Marlboro e l’offrì con un gesto al suo ospite che rifiutò fermamente,con grande approvazione del primo.
-Fai bene. Sai che quella pazza di Lucia aveva cercato di farmi smettere quando siamo stati amanti?- domandò Mauro.
Alberto negò divertito con la testa, non aveva mai sentito questa storia dal suo mentore.
-Ovviamente non ci è riuscita. Lucia aveva ragione: l’unico modo di cambiare un uomo è dentro la culla o se è un babbeo... -.
Dopo una lunga e profonda occhiata ad Alberto, il Signor Mauro costatò con non poca ironia- Infatti è riuscita a cambiarti. Da saccente e disoccupato studioso di storia sei diventato uno dei criminali più ricercati al mondo-.
Alberto ridacchiò – Quindi Lucia è riuscita a cambiarmi perché ero giovane quando la incontrai o perché sono un babbeo?-
-A ventisei anni si è sia troppo giovani e sia troppo babbei-, rispose prontamente l’uomo più anziano mentre Alberto,seccato, alzò le spalle - Riuscirò mai ad avere l'ultima parola con te?- domandò leggermente irritato e Mauro ghignò vittorioso- No, piemontese. Quest’abilità è il miglior dono che Dio mi abbia mai fatto, se vorresti battermi in una conversazione, dovresti venderti l’anima al diavolo-.
-Non è un mio desiderio. In questo periodo ho già abbastanza diavoli per ogni capello che ho-. De Santis osservò i capelli rasati di Alberto - Con quei capelli qualcuno almeno l’avrai eliminato -.
    Alberto non rise alla battuta, ma osservò l’altro che ispirò rumorosamente la sigaretta, appoggiò le braccia sulle ginocchia e domando con un tono di rimprovero, -Il museo di Capodimonte. Vuoi farti ammazzare!?- il suo acuto sguardo rendeva giustizia alla pericolosa situazione.
Alberto rimase calmo e con uno sguardo indifferente dichiarò di aver bisogno l'aiuto del vecchio amante di Lucia, i suoi occhi si spalancarono e l’uomo trattené il respiro per un attimo.
-Questa è bella! I tuoi colpi sono famosi proprio perché lavori da solo-.
-Qualche volta con un aiuto interno- specificò Alberto- Utilizzare come complice un ladro in prepensionamento è come utilizzare un fantasma: non si può parlare di complice-.
-Eppure dovresti sapere che non è un colpo interessante per me!-,tuonò Mauro e nervosamente spense la sigaretta, si alzò seccato dalla sedia e si aggirò per la stanza, lasciando un imbarazzato Alberto seduto.
-Vuoi ancora la tua adorata guerra?-,il volto di Mauro aveva un’espressione così seria che la sua pelle pareva si fosse trasformata in duro granito.
-Sai bene cosa voglio- disse docilmente Alberto preparandosi a un possibile rifiuto.
-L’unificazione... -,commentò sarcastico l’ex-ladro –Io sono tra quelli che sputano sulla vecchia bandiera a tre strisce-.
Un cipiglio di collera comparve sul volto di Alberto a sentire quelle parole, ma Mauro non parve voler venire incontro all'altro ladro e, infatti, gli ordinò -Non guardarmi così- si passò una mano tra i capelli, Mauro sembrava quasi esasperato da quell'argomento.
-Tu e Lucia l’avete sempre saputo che sono a favore della separazione. L’Italia meridionale ci è andata a guadagnare! Abbiamo dimostrato che l’unificazione del 1861 era stata una manna dal cielo solo per voi polentoni, che siete stati voi a distruggerci e ha costringerci alla fame, alla povertà e al beffeggio perenne-.
Mauro volse lo sguardo verso il vuoto ed emise un ringhio, un ricordo spiacevole aveva chiaramente occupato la sua mente.
-Terrone. Non mi sono mai sentito tale finché non stato al norde -.
Mauro rivolse il suo sguardo di dolorosa rabbia verso Alberto, - Non ho mai odiato tanto una parola-. Alberto fu costretto ad abbassare lo sguardo e delle infrenabili parole di scuse volevano uscire dalla sua bocca ma Mauro continuò a parlare.
-Ora non è più così, siamo più ricchi, più potenti e più efficienti di voi: le nostre vere doti sono uscite appena ci siamo liberati della piega dello stivale- la voce di Mauro era piena di orgoglio.
-Lo so- fu costretto ad ammettere sconfitto Alberto - So che la prima unificazione è stata un disastro e che l’Italia meridionale ha avuto dei vantaggi dalla separazione. Ma quanto durerà? Finché i potenti USA troveranno un modo di occupare il sud e l’UE allora troverà quello di occupare il nord. Allora ci mangeremmo le mani perché l’Italia tornerà a essere solo un’espressione geografica: non ci saranno più né la Repubblica Magna né il Regno Padano.-.Mauro si risedette ascoltando attentamente le parole di Alberto.
-L’unificazione che desidero è del tutto simile  a quella avvenuta negli stati germanici nel 19° secolo: una totale sottomissione che con il tempo si è trasformata in unità. Voglio che la Repubblica Magna conquisti il Regno così avremmo una potente Repubblica militare che nessuno potrà sottomettere.
Mauro non disse nulla e Alberto si sporse verso di lui e parlò appassionatamente- Con questa separazione lo sai che siamo ridicoli e che nessuno prende sul serio entrambe le due parti. Il Regno padano sta lì a chiedere l’approvazione dell’Europa come un cane, mentre la Repubblica ha un’alleanza sempre in bilico con l’America. La vostra alleanza si basa su vostro petrolio e sugli accordi su di esso che evitano la concorrenza diretta con gli USA-. Questa volta Mauro guardò sbalordito Alberto e quest'ultimo rincarò la dose.
-So che potete utilizzarlo per uso interno, ma che non avete mai avuto il permesso dalle “ Sette Sorelle” di venderlo o formulare qualunque tipo d'accordo commerciale che non sia stato in precedenza approvato-.
-È un’informazione riservatissima … - commentò turbato Mauro-Mi sorprendo della tua capacità- e Alberto, soddisfatto  da quelle parole, approfittò per continuare- ... Per tenervi questa alleanza avete dovuto far compromessi con l’America. Avete l’UE sul collo a causa della non considerazione  dei diritti umani nella Repubblica:sarebbe già intervenuto l’ONU, se non fosse che in realtà l’ONU non è altro che l’America che tenete buona. Se malauguratamente saltasse quest’alleanza vi ritrovereste in guai seri-.
Mauro sorrideva teso, era rimasto piacevolmente colpito dall’acutezza di Alberto e lo lasciò continuare senza accennare a una qualunque tipo di obiezione.
- Se tutta l’Italia tornasse unita, come una repubblica meno rigida, potrebbe riavere l’appoggio dell’UE e non sarebbe costretta a cedere ai ricatti dell’America-.
Mauro si rialzò dalla sedia e porse la mano ad Alberto dicendogli, -Complimenti sei riuscito a battermi in una conversazione, senza venderti al diavolo-, Alberto ricambiò la stretta e commentò- Chi ti ha detto che non l’abbia fatto?-, contraddicendo ciò che aveva dichiarato poco prima. Il Signor Mauro scoppiò in una fragorosa risata e, appena ripeté parlare, commentò canzonatorio- Quanto onore, piemontese- e si sfregò energeticamente le mani e dichiarò- Ti aiuterò in onore di Lucia e perché forse mi hai convinto a non vederti come un tonto, ma prima un po’ di colazione è d’obbligo e poi parleremo della “faccenda”-.
    Mauro finì tutta la sua discussione con un'altra espressiva stretta di mano e Alberto si sentì rasserenato di sapere di avere un alleato in quella città ostile. La colazione fu lauta e Alberto si convinse di essere ingrassato di un chilo soltanto con quella, ma quando sono offerte le specialità culinarie napoletane, sono difficili da rifiutare.
-Hai gradito?- domandò Mauro premuroso mentre Alberto riuscì appena a boccheggiare un sentito grazie, privo di qualsiasi eleganza e il padrone di casa soddisfatto preparò del caffè.
    Mentre bevevano il caffè iniziarono a discutere della faccenda,Alberto gli espose tutto quello che aveva visto nel museo e che cosa gli interessava rubare, gli disse dei dubbi su un eventuale colpo e dei rischi di infiltrarsi come soldato.
-È una pessima idea. Non sono poliziotti, sono militari. Non si faranno mai fregare da un trucchetto del genere- aveva decretato il signor Mauro senza nessuna delicatezza- Non mi stupirebbe se ti facessero fare qualche rito militare per capire se sei un infiltrato-. Alberto concordò con l'ipotesi e iniziò a esporre anche i suoi dubbi su un eventuale colpo notturno.
-La sicurezza notturna … - iniziò il ladro piemontese-... è troppo sofisticata. Per questo l’ideale sarebbe fare il colpo proprio alla mattina della mostra, la sorveglianza sarà numerosa, ma almeno quei dannati sensori saranno programmati a essere meno sensibili, altrimenti con il pubblico vasto ,che ci sarà in sala, gli allarmi impazzirono per un non nulla-.
Mauro guardò l’altro dubbioso- Eppure la sorveglianza dei soldati ti dovrebbe fare più paura. Hai pensato di fare il colpo come quelli dell’urlo di Munch?-. Alberto cambiò posizione sulla sedia evidentemente infastidito dal pensiero- Entrare dentro armato e minacciare tutti ,come se fosse un furto della gioielleria? No, la mia reputazione ne risentirebbe e soprattutto, l’abbiamo già detto, le guardie del museo sono dei militari … non esiterebbero a far saltare il cervello a qualunque rapinatore-.
-Hanno il permesso d’avere il grilletto facile. Resta solo l'inganno ma la tua paura è di non riuscirci-.
-Soprattutto se c’è Michela Neri, sono sicuro che quell’arpia riesca ormai a percepire il mio odore come la bestia che è-, disse duramente Alberto.
    Il signor Mauro non rispose, riprese da tavolinetto del suo salotto un’altra sigaretta e iniziò a fumare nuovamente, degli irregolari cerchi di fumo uscirono dalla sua bocca.
Alberto si alzò dalla sedia e si avvicinò alla finestra, da lì non c’era nessun bellissimo panorama, però udiva l’infrangersi delle onde del mare della baia appoggiando l’orecchio al vetro.
-E se … - iniziò assorto Mauro costringendo l’altro a voltarsi verso di lui.
-... se mettessimo in pericolo la gente in sala?- finì Mauro guardando Alberto con una strana espressione determinata ma dubbiosa allo stesso tempo -Cosa?- domandò Alberto confuso non riuscendo a capire.
- I soldati non sono forse obbligati a proteggere i civili prima di ogni altra cosa?- replicò Mauro, come se volesse in realtà affermare quello che diceva, e, a quelle parole ,Alberto si risedette ascoltando attentamente: forse stava riuscendo a intuire che cosa volesse suggerire l’amico.
-Se creassimo una condizione di pericolo tale, da costringere i soldati a tenere sotto controllo la folla, avremmo almeno un paio di minuti per rubare il tuo prezioso cofanetto-.
-Tipo una calamità naturale?- domandò Alberto.
-Niente di così difficile, magari un incendio che dici?-
Alberto rimase per un po’ in silenzio e poi parlò cautamente.
-Tra i pregiudizi che ho sentito sulla repubblica Magna, c'è ne uno che dice che siete tutti addestrati nel regime militare e quindi una folla di civili si comporterebbe sempre freddamente ed efficientemente-.
Mauro divertito fece una smorfia, -I civili sono civili, puoi addestrarli quanto vuoi ma la paura non è un’emozione che puoi eliminare. In una situazione di pericolo devono essere tenuti sotto controllo e sarò il compito di un paio di militari con il mitra.- Alberto sorrise sincero- L’idea mi piace ma è il momento di affinarla- ed entrambi uomini iniziarono a lavorare di buona lena.

 

Città del nord, 23 agosto 2013 4 PM
Giuditta si stava annoiando così tanto che avrebbe preferito essere a scuola a studiare le materie scolastiche che detestava di più, tutte ad eccezione della matematica. I suoi amici erano in vacanza mentre il suo patrigno era a Napoli a fare chissà cosa e non poteva nemmeno contattarlo perché le era sempre stato severamente proibito. Giuditta non comprendeva questa prudenza perché erano quasi cinque anni che viveva con Alberto, sotto le mentite spoglie di Renzo Rossi, e nessuno aveva mai sospettato di loro, come avrebbe potuto una semplice telefonata ammazza-tempo far saltare la loro copertura? La ragazza sbuffò e gironzolò per la casa vuota, non c’era nulla d’interessante da fare e dire che si era messa a curiosare nello studio del suo tutore! Fuori dalla finestra il sole illuminava la strada e faceva caldo, quel caldo afoso che era capace di abbattere anche un orso ma uscire per una passeggiata era una miglior prospettiva rispetto a quella di rimanere a oziare pigramente al chiuso.

    Seppure annoiata anche dai gesti più semplici, la ragazza si vestì e uscì, aveva deciso di andare al lago per godersi la brezza e rimase lì  per almeno un’ora a leggere uno dei suoi libri, che il patrigno aveva definito porno-harmony e forse non si sbagliava a definirli in quel modo ma Giuditta, fedele al suo genere, negava spesso con veemenza che ci fossero scene spinte in quello che leggeva. Quando ciò accadeva, il patrigno, con aria di sfida, ne prendeva uno e si metteva a decantare qualche parte osé e ,a quel punto, la ragazza specificava che i personaggi facevano l’amore ed era una cosa ben diversa da quello che si vedeva nei film porno: Giuditta amava avere sempre la risposta pronta.
    Ci fu improvvisamente un colpo di brezza così forte che fece voltare le pagine del libro di Giuditta e la ragazza tentò di tenerle ferme con le dita guardandosi attorno, infastidita da quel cambiamento climatico indesiderato ma, ad un tratto, sentì freddo, diverso da quello che sentiva un corpo a un improvviso calo di temperatura ... qualcosa non andava
Giuditta si alzò guardandosi attorno attenta, uno degli insegnamenti più efficaci del suo patrigno era stato fidarsi  sempre del proprio istinto. Alle donne è insegnato che basarsi sulle apparenze è negativo, ma a un uomo, invece, gli si concede di fidarsi delle proprie sensazioni: se un uomo e una donna incontrano per la prima volta qualcuno che al primo impatto non piace, l’uomo non concede il beneficio del dubbio e lo tiene lontano dalla sua vita, mentre la donna si costringe ad andare oltre le sue sensazioni e dare una possibilità a qualcuno che in futuro potrebbe farle del male.
Giuditta, fortunatamente, non era stata educata in quel modo e ascoltò le sue sensazioni e seguì il piano del patrigno: doveva raggiungere il rifugio della casa, dove vi era una stanza segreta per l’emergenza.
    La ragazza s’incamminò con forzata tranquillità ma sentendosi vulnerabile e nervosa, iniziò a canticchiare sotto voce un vecchio inno, che se qualcuno l’avesse sentita sarebbe rimasto sconvolto che una ragazza così giovane lo conoscesse. Arrivò intatta a casa senza riuscire a rilassarsi, sentiva il suo cuore battere così forte d’aver la sensazione che si fosse bloccato in gola, non ebbe neanche il tempo di fare qualche passo dalla porta che sentì qualcuno bussare producendo dei rumori secchi e duri.
    Giuditta trattenne il respiro e spiò attraverso lo spioncino, due uomini con la divisa verde del regno padano aspettavano fuori. La ragazza aprì la porta cautamente, lo spazio era appena sufficiente per intravedere la sua testa, e domandò ai due -Cosa succede signori agenti?-, le fu spiegato che stavano facendo il giro del quartiere per avvertire della presenza di un ladro travestito da poliziotto.
-Si ricordi signorina che noi della polizia agiamo sempre in coppia e questo è il nostro distintivo- dissero mostrando il loro ufficiale segno di riconoscimento: un uomo con lo spadone.    
    Cercando di rimanere calma e volendo, soprattutto, apparire non troppo sollevata Giuditta ringraziò i poliziotti della loro premura e chiuse la porta dietro di sé, ma ,improvvisamente, l'inconfondibile rumore del caricamento di una pistola si udì e Giuditta rimase pietrificata. C’era una donna davanti a lei, dalla bellezza sublime che ben conosceva perché tante volte l’aveva studiata in alcune foto con il patrigno, Michela Neri.
-Ciao Giuditta- disse la donna e la ragazzina non poté fare a meno di sorridere, era la prima volta che sentiva l’accento romanesco ed era divertente come quello che aveva sentito nei vecchi film italiani, però lo sguardo della donna le provocò un brivido di paura.
- Sei stata maledettamente brava- quasi sussurrò con un filo di voce Giuditta sincera, non aveva percepito la presenza di quella donna nella sua casa e s'insinuò immediatamente il dubbio che la visita pocanzi fosse parte di un buon piano congeniato da entrambe polizie.
    Michela sorrise soddisfatta e, continuando a tenere la mira sulla ragazza, la invitò ad avvicinarsi, Giuditta, vulnerabile per la situazione, dové ubbidire e Michela iniziò a perquisirla: la giovane s’imbarazzò per il tocco così evasivo. Michela estrasse dalla giacca delle manette e legò i polsi della ragazza e Giuditta, a sentire quella strana e opprimente sensazione di freddo, manifestò il suo fastidio con gemito strozzato in gola. Gli occhi del Maresciallo divennero più freddi e la sua voce fu tagliente come un pezzo di vetro sulla fragile pelle umana- Abituati ragazzina-, Giuditta manifestò con un solo sguardo di disgusto tutto il disprezzo per quella donna, aveva ragione il suo patrigno a dire che era solo una bestia.
-Guarda che non mi ribello solo perché ho notato gli altri uomini nascosti della stanza-, dichiarò acida, mentre la bella Michela la guardava stupita, e incoraggiata da quell’espressione, la giovane continuò imprudentemente- Non mi fai mica paura!- . Lo schiaffo che Giuditta ricevette da Michela fu preciso e letale, era talmente forte che le bloccò il respiro per un attimo e poi si sentì essere strattonata per il colletto: il viso di Michela era vicinissimo e Giuditta poteva vedere i dettagli che non avrebbe mai potuto notare in foto, come l'affascinante riflesso argenteo negli occhi della donna.
-Vedo che hai la stessa lingua del tuo patrigno- Michela sorrideva ma la sua voce era asciutta e dura, -Ti farò passare la voglia di fare la spaccona- e così dicendo lasciò  violentemente la presa sulla ragazza costringendola a indietreggiare su se stessa.
    Michela continuò a tenere la pistola puntata su Giuditta, la quale vide degli uomini nascosti uscire dalle loro tane, come rassicurati dalla crudeltà del loro superiore. Quando li vide tutti, Giuditta confermò con orrore che era un complotto tra le due polizie perché erano presenti agenti con entrambe le divise. Ormai terrorizzata, la ragazzina domandò perché non le erano stati letti i suoi diritti, come aveva sempre visto fare nei film , e una risata agghiacciante uscì dalla carnosa bocca di Michela.
-Da questo momento sei sotto la giurisdizione della Repubblica Magna e noi non rispettiamo i trattati di Ginevra-. Gli occhi delle due donne s’incontrarono e, in quel momento, Giuditta capì che qualsiasi passo falso le avrebbe portato via la sua vita e probabilmente anche quella del patrigno. 

Note dell'autrice
Dopo moltissimo tempo sono riusciuta a concludere questa storia, nelle prossime due settimane posterò ogni domenica i due capitoli finali. Ringrazio per la vostra pazienza, sto cercando di sistemare la formatazzione dei capitoli che se ne andata a farsi benedire appena ho utilizzato il programma NVU.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


senza formatazzione
Pregiudizi criminali
Capitolo 4

Napoli, Museo di Capodimonte 02 settembre 2013 09.00 A.M.
Il museo di Capodimonte era illuminato da una meravigliosa luce autunnale, la temperatura era calda e umida … l’arrivo del vero freddo non avrebbe spaventato i napoletani fino alla metà d’ottobre, Alberto sorrise a quella vista.
    Questa volta si era infiltrato nel museo nelle vesti di un semplice blogger, Ciro D’aria, ed era pronto a scatenare l’inferno al comando di Mauro, con cui comunicava tramite una trasmittente camuffata in un apparecchio acustico, ciò non era l'unico aiuto ricevuto dal ladro: Mauro negli scorsi mesi aveva lavorato come operario per manutenzione della mostra a vantaggio di Alberto.
    La mostra era iniziata da mezz’ora ma c’era una folla che sembrava infinita e aveva occupato tutto il piano terra del museo, i soldati silenziosi controllavano la situazione mentre il direttore, che per occasione aveva fornito la sua collaborazione come guida turistica, stava radunando attorno a sé il gruppo delle persone interessate a quel servizio.
    La folla in gran parte si radunò a una delle statue più celebri dell’artista romano, Ercole e Lica, un enorme complesso monumentale che rappresentava un episodio famoso del semidio: Ercole, impazzito dal dolore procuratogli dalla tunica intrisa dal sangue avvelenato del centauro Nesso, scaglia in aria il giovanissimo Lica, che, ignaro, gliel'aveva consegnata su ordine di Deianira. Era un’opera dal realismo potente che chiunque,nel vedere Ercole afferrare il piede del povero Lica per scagliarlo in mare, si sentiva dispiaciuto per il ragazzo e intimorito dalla forza del semidio: Alberto guardò la statua con un’inquietante interesse, aveva la consapevolezza che avrebbe potuto fare la fine di Lica.
    Il direttore del museo invitò il gruppo a seguirlo, docilmente Alberto si accodò, esso attraversò le sale che Alberto aveva studiato in precedenza e il ladro iniziò a scattare fotografie per il suo “blog”. La mostra era apprezzata, tanto che tutti i visitatori intessevano lusinghe al museo e il direttore era soddisfatto dal successo, il suo umore era tale che, alla fine della mostra del Canova, propose al gruppo di continuare la visita per le altre sale e la folla accettò con entusiasmo, mentre Alberto gettò un’occhiata nervosa alla coppia di soldati dell’anticamera. La coppia era formata dal solito giovane e veterano ed entrambi non sembravano contenti per il quel cambiamento di programma, Alberto vide il più vecchio sussurrare qualcosa all’orecchio del collega, il quale annuì e accennò il saluto militare come per segno d’aver compreso.
In pochi minuti il giovane soldato parlò al direttore e si unì al gruppo osservando i presenti, senza accennare a un saluto e senza neanche sbattere, per un attimo, le palpebre. A quella scena una goccia solitaria di sudore scivolò al lato del viso di Alberto e quest'ultimo sentì un brusio nell’orecchio -Il piano cambia?-, la voce di Mauro era ridotta a un sussurro e Alberto cercò di sdrammatizzare, quel soldato voleva soltanto dire che avrebbe avuto tre uomini alle calcagna a tempo debito.
Mauro annuì preoccupato mentre Alberto e il gruppo continuavano la loro visita al primo piano seguendo l’ordine delle sale, il direttore continuava le sue belle spiegazioni e il pubblico, come impazzito, continuava a scattare foto a raffica al museo mentre il soldato si muoveva a distanza tranquillo, come se fosse stato solo un visitatore più lento ed era a poco meno di mezzo metro da Alberto.
    Si avvicinavano inesorabilmente alla sala 13, Alberto risentì un brusio indistinto al suo orecchio e Mauro, chiaramente allarmato, gli domandò -Sei sicuro di quello che fai? Quel tipo è troppo vicino-. Alberto pensò che Mauro avesse ragione e iniziò a studiare le persone davanti a sé per trovare un diversivo finché la comitiva arrivò alla sala numero 13, a quel punto il ladro piemontese disse sussurrò  la parola in codice “Russell Crowe” attraverso al suo auricolare.
    Inconsapevole di quello che sarebbe successo da lì a poco, il direttore, entusiasta del successo, continuava le sue spiegazioni e nella sala numero 13 enfatizzò molto il mistero attorno gli oggetti presenti, tra cui proprio quello del Cofanetto Farnese.
-... Questo cimelio possiamo definirlo un oggetto-fantasma, è stato menzionato una sola volta in un unico documento eppure, come potete vedere, esiste eccome, non è un oggetto immaginario-
Un visitatore ne domando l’uso e il direttore teatralmente rispose -Il suo scopo è rimasto un mistero che speriamo un giorno di risolvere … -
    Alberto guardò in alto e un sottilissimo strato di fumo si stava lentamente diffondendo con un movimento che assomigliava a una pittoresca danza: andava come previsto e restava solo il soldato da distrarre. Una vecchietta dalla maglia cobalto camminava a pochi passi da lui, sorretta da un bastone del medesimo colore, una coincidenza che forse faceva a caso suo.
-Non oserai farlo?- domandò sbalordito Mauro mentre fissava incredulo la scena dal suo PC, intuendo correttamente le intenzioni di Alberto.
-Lo faccio per l’Italia e se siamo in queste condizioni, è colpa delle vecchie generazioni- borbottò cinico Alberto e prese dalla sua giacca una penna stilografica, la tenne vicina al petto e la puntò alla base del bastone: una pallina minuscola uscì violentissima dalla penna e colpì il bastone facendolo vacillare mentre, nel frattempo, il fumo aveva raggiunto i dispositivi anti incendio.
    L’anziana persa l’equilibro e cadde causando un momento di confusione nell’intera sala, il soldato del gruppo si avvicinò a soccorrerla e poi ,improvvisamente ,come si risvegliasse il ruggito di mostro, gli antincendi iniziarono ad annunciare violentemente la loro presenza.
    Si scatenò il panico, la gente iniziò a gridare e i soldati in sala furono costretti a intervenire per calmarla persone mentre gli antincendi cominciarono a benedire con la propria acqua stantia i presenti.
Il soldato più anziano cercò di calmare la folla con la classica frase- È tutto sotto controllo- ma uno dei presenti obiettò,-Come fa a dirlo? Questo fumo aumenta invece di diminuire!- e il soldato si guardò attorno sbalordito, in pochi istanti e, non solo nella sala numero 13, si era alzata una specie di nebbia che offuscava la vista e il soldato intuì che qualcuno avesse utilizzato le caratteristiche del ghiaccio secco per causare quell’effetto.
-Seguitemi e non succederà nulla – ordinò mentre uno dei soldati più giovani sentì un lievissimo fruscio in direzione delle bacheche e, con il permesso tacito del superiore, corse a controllare per scoprire con sgomento il cofanetto Farnese scomparso.
    Nel panico chiamò il superiore attraverso la trasmittente annunciando il furto e fu incitato a iniziare subito le indagini perché il ladro non poteva essere andato troppo lontano e il giovane soldato riprese il suo sangue  freddo cominciando a osservare l'ambiente, dove poteva essere scappato il ladro? La nebbia che si era formata offuscava la vista e il soldato decise di aprire le finestre, corse verso la più grande e la spalancò sperando di poter eliminare velocemente tutto quel denso fumo. La differenza di temperatura tra quella interna del museo e quell’esterna era tale che creò un potente risucchiò d'aria e liberò l’ambiente, così da permettere al soldato di poter osservare una presa d’aria, sopra la sua testa, abbastanza grande da far passare un uomo di media corporatura. Il soldato non sembrò convinto della scoperta per l’ovvietà della scelta e non udiva nessun rumore estraneo, ma decise comunque di comunicare quella pista al sistema centrale della sicurezza del museo, nella speranza di poter controllare le condotte dell’aria e di bloccare eventuali uscite eppure la risposta che ricevé non fu quella sperata.
-Non possiamo, il protocollo dice che dobbiamo evacuare l’edificio in caso d’incendio-
-L’incendio è fasullo, c’è stata una manomissione delle prese d’aria per un furto- replicò il soldato duro e spazientito
-Mi dispiace ma la nostra priorità è mettere a sicuro i civili in ogni caso- replicò a sua volta il sistema centrale e il soldato scoraggiato terminò la telefonata, si guardò  attorno: il fumo aveva creato confusione e le guardie erano state costrette a far sloggiare i civili seguendo gli appositi percorsi, le uniche probabili vie d’uscita osservabili erano le finestre ma ciò era impossibile perché chiunque avrebbe notato un uomo arrampicarsi sia sul lato esterno sia quello interno del cortile, eppure … era l'unica possibile via di fuga,  escludendo i condotti d'aria. Il soldato si affacciò precipitosamente a entrambi lati dell’edificio per controllare se ci fosse qualcuno chiamando i suoi superiori e spiegò che il ladro probabilmente era riuscito a fuggire  semplicemente dalla finestra o ,forse, utilizzando i condotti d'aria.
    Mentre succedeva tutto questo, il rumore degli allarmi distruggeva le orecchie di Alberto che respirò profondamente creandosi un fugace attimo di pace, poi indossò la maschera della sua tuta e si calò dal lato del museo nascosto dall’ombra di un bel e fitto bosco. La tuta che indossava l’aveva reso praticamente invisibile: era un'innovazione militare, un capo formato da piccolissime fibre di vetro che assumevano il colore dell'ambiente circostante e Alberto si era trasformato in una macchia rossa,perfettamente camuffata, tra le tegole del tetto del medesimo colore.
-Mauro, sei in posizione? – ,domandò e un brusio di riposta arrivò al  suo orecchio.
-Distruggi la trasmittente- gli ordinò- Saprai se sono vivo dai giornali- e detto ciò distrusse nella mano il suo finto auricolare tenendo i resti per sé.
Alberto scomparve nei boschi, mentre Mauro travestito prendeva il suo ruolo come il blogger Ciro D’aria che, insieme alla folla evacuata, sarebbe stato interrogato e rilasciato per la mancanza di prove che l’avrebbe reso pulito.

Città del nord, 08 settembre  2013 10.00 P.M.
Alberto, a costo di sentirsi un po’ banale, era felice di essere tornato a casa tutto intero: gli ultimi due giorni trascorsi erano stati pieni perché aveva dovuto essere molto abile e scaltro per rientrare in patria. Entrò in casa con il migliore degli umori ma, in un solo attimo, tutto cambiò quando vide la sua casa messa a soqquadro e rimase per un attimo fermo, sentendosi completamente violato e aggredito. Il tappeto del corridoio era aggrovigliato su stesso come se fosse stato trascinato dal passo di troppe persone incuranti e, sulla destra, dalla porta della cucina faceva capolino una sedia rovesciata.
    Alberto richiuse gli occhi e respirò profondamente, quando li riaprì non era più sbarrati dal terrore o dalla sorpresa, erano penosi e afflitti e con grandi passi si diresse nella stanza più importante della casa. Gli tremavano le mani mentre apriva la camera della sua figliaccia e quando la trovò anche in essa in disordine, si sentì angosciato nella profondità della sua anima. L'odore penetrante di chiuso confermava dolorosamente le paure di Alberto che aprì violentemente la finestra della camera, cercando di scacciare quell’orribile odore di chiuso insieme alla sua angoscia, mentre la rabbia offuscava lentamente lo sguardo nei suoi occhi.
    Lentamente entrò nella cucina della sua casa, dove regnava il caos più totale invece della tranquillità familiare, e dal banco di lavoro prese il telefono, quello stesso telefono con cui Giuditta avrebbe chiamato una pizzeria d’asporto, e compose il numero del suo demonio personale - Dove è la mia Giudi?- disse appena sentì di essere stato collegato, la sua voce sussurrante tremava per la rabbia e sentì la sua odiata nemica ridere silenziosamente.
-Non è mai carino prendere il numero di una donna senza il suo permesso, dovresti saperlo, nonostante tutto -, la voce di Michela non era mai stata così dolce nei suoi confronti , Alberto la udiva picchiettare ritmicamente con le dita su qualcosa e Alberto riusciva a immaginarla con un’espressione trionfante.
-Mi complimento per la tua capacità di scoprire l'ubicazione della mia casa... - iniziò acido Alberto - Molto brava Michela ma dimmi dove è?-
Michela, dall’altra parte del telefonò, si alzò dalla sedia su cui era seduta e sbatté la mano violentemente su un tavolo e disse con tono di voce gentile ma fermo-La domanda giusta è che cosa voglio, ladro-.
-Fammi parlare con lei- il tono di Alberto assunse, senza volerlo, una sfumatura di autentica pena e ormai chiaro che stava cedendo al peso della situazione.
-Le condizioni non sono a tuo favore, ascoltami prima- ordinò perentoria la donna, un sorriso di fredda soddisfazione comparve sulla sua bocca, e si ritrovò a pensare che fosse un vero peccato a non aver lasciato delle telecamere nella casa del ladro, avrebbe voluto tanto vedere spegnersi quel sorriso ironico che l’aveva reso tanto famoso.
    Alberto non provò neanche a replicare e tacque un silenzio lungo e ricco di significato, che assumeva due aspetti così diversi per le due persone coinvolte: la sconfitta e la vittoria.

-Cosa vuoi?- domandò Alberto avvilito e Michela ridacchiò, ben decisa a umiliarlo- Non sono tua sorella, sono un ufficiale e come tale devi trattarmi-. Alberto respirò a fondo, l’aveva sempre saputo che Michela non fosse una rivale sportiva e che alla prima occasione si sarebbe burlata di lui, era la dura legge dell’occhio per occhio a cui credeva fermamente la donna.
-Maresciallo Neri che cosa vuole in cambio di mia figlia?- la parola maresciallo si tinse del suo disprezzo ma Michela non sembrò offendersi e infatti la sua voce ritornò amabile, come era stata fin dall’inizio della conversazione.
-Voglio tutto , tutto ciò che io e miei uomini non abbiamo trovato: come avrai visto ti abbiamo già anticipato del lavoro-
    Alberto gettò un'occhiata di disprezzo e irritazione a quel disordine, che non aveva mai regnato sovrano in quella casa,e commentò sarcasticamente -Avresti potuto far mettere ordine ai tuoi uomini, la porta di casa non l'avete neanche scassinata-
-Quel dettaglio era parte del progetto di farti avere un impatto più teatrale al tuo ritorno a casa:certi cliché sono duri a morire- il divertimento di Michela aumentava sempre di più,assieme alla frustrazione dell'uomo.
-Immagino che tu abbia ragione- commentò furioso Alberto, ormai esasperato- Che cosa altro vuoi?-
-Tra due giorni, alle undici del mattino, consegnerai tutte le opere all’entrata della città di Teano, una città che ho scelto in tuo onore, e ovviamente vogliamo te: anzi io voglio te e dovresti sentirti onorato perché difficilmente ho desiderato un uomo-.
-Sono talmente onorato che piangerei- ogni minuto che passava metteva a dura prova il sangue freddo di Alberto e il suo disgusto per quella donna aumentava.
-Posso parlare con la mia figlioccia?- domandò infine con la voce piegata dall'angoscia ma dall’altra parte del telefono si sentì un lungo e prolungato silenzio e Alberto capì che quella era l’ennesima vendetta della sua nemesi e abbassò il telefono e pianse distrutto.

Teano, 10 settembre 2013 11 A.M.
Teano era un’antica città che sorgeva sulle pendici del massiccio vulcanico di Roccamonfina, nel territorio compreso tra la valle del fiume Savone e quella del torrente Rio Messera, e le sue costruzioni in mattone apparivano come parte delle insenature rocciose, l’intera città appariva come una fortezza.
    Un tempo era stata famosa per l'incontro storico,avvenuto durante la seconda guerra d'indipendenza italiana, tra il re piemontese Vittorio Emanuele e il generale Giuseppe Garibaldi, dove quest' ultimo aveva consegnato metaforicamente e letteralmente il Italia meridionale.

    Il maresciallo Neri era stata indubbiamente "amorevole"nella sua scelta: la città apparteneva alla regione Campania ed era ben lontana dal confine  ma ad Alberto non importava fuggire,voleva salvare sua figlia. L'incontro era stato fissato lungo la strada provinciale della città, esattamente dove si trovava il cartello turistico marrone che recitava "Teano", ed era stata bloccata per ragioni ignote ai civili mentre gli attori di quel siparietto si preparavano a mettere in scena uno spettacolo privato.
    Alberto era arrivato dal Nord con un anonimo e piccolo camioncino color bianco, a denti stretti s’imponeva di stare calmo perché una sua qualsiasi sciocchezza sarebbe costata la vita di Giuditta.Due jeep militari lo attendevano e in ognuna c'erano almeno cinque uomini, in quella che appariva come la più pretenziosa agli occhi di Alberto era guidata da una Michela trionfante e, ovviamente, armata come il resto dei suoi uomini. Alberto fermò la vettura a una decina di metri dalle due jeep e non accennò a uscirne: non vedeva Giuditta e fissò la sua nemica, la quale lo osservò per un lungo attimo e ,intuendo il suo freddo diniego, accennò un segno a uno dei suoi uomini che malamente tirò fuori Giuditta dalla parte inferiore del posto del passeggero.
Ad Alberto mancò il respiro alla scena, Giuditta era stata praticamente tra le gambe di un uomo per tutto il viaggio, quanta umiliazione aveva dovuto subire durante il suo rapimento? L'ira voleva divenire padrona della sua mente e delle sue azioni ma tentò di calmarsi intuendo che Michela cercava di fargli saltare i nervi.
    La donna scrutava il suo avversario e gli gesticolò di scendere ma Alberto la fissò con durezza, prese dalla sua tasca un cellulare e in attimo nell'abitacolo del Maresciallo si sentì una suoneria penetrante e la donna rispose. La voce di Alberto fu veloce e lapidaria, -Non mi muovo da qui, finché non mi portate Giuditta-,il maresciallo poteva guardare l’uomo mentre le diceva quelle parole, i suoi occhi erano due cerchi di fuoco e la mascella rimase rigida mentre l'uomo parlava.
-Ti ricordo che io a detto le regole -,Michela dichiarò quelle parole fingendo di guardare verso il finestrino, sentì un lungo e rabbioso sospiro da parte di Alberto, osservandolo poté vedere il suo viso pieno di sconforto per un attimo, per poi riprendere nuovamente la sua fermezza.
- Non uscirò da qui finché non sarò sicuro che rispetterai la tua parte dell’accordo- la voce di Alberto era ferma e dura ma ebbe un attimo di smarrimento, quando vide negli occhi di Michela passare uno sguardo divertito che la rendeva così temibile in quel momento.
    Senza nessun preavviso l’uomo che teneva prigioniera Giuditta aprì lo sportello della jeep e la spinse a terra, Alberto preoccupato si raggelò all'istante ma ,vedendo che l’uomo stava trascinando Giuditta verso di lui, si sentì sollevato … almeno non era stata sparata seduta stante. Il suo sollievo scomparve quando vide uscire il Maresciallo con la pistola in vista e dirigersi verso la ragazza a passo marziale e Giuditta guardò afflitta il suo patrigno: i suoi occhi erano sanguinei,un vistoso livido le copriva la guancia sinistra e la sua bocca era stata legata da una benda così stretta da averle causato delle abrasioni agli angoli.
    Senza pensarci due volte Alberto aprì la portiera della vettura e uscì, sentì l’aria sulla pelle e udì il suono inconfondibile di un caricamento d'armi: il piemontese aprì la giacca e mostrò di non essere armato e poi portò le mani in alto per dichiarare la sua inoffensività.
    Michela, ormai accanto a Giuditta, sorrideva con la stessa espressione che doveva aver la Dea Calì quando riceveva le sue vittime, con un gesto femminile invitò il ladro a farsi avanti e appena l’uomo le fu vicino gli domandò quasi curiosamente- Perché devi rendere tutto complicato?-

    Alberto non rispose, non sapeva che cosa dirle se non parole di disprezzo, che in quel momento erano troppo pericolose da pronunciare perché la vita di Giuditta era nelle mani di quella persona, docilmente si lasciò ammanettare mentre Giuditta fu smanettata e si lanciò ad abbracciare il patrigno. A quella ridotta distanza il padrino le sussurrò di andare alla stazione ferroviaria di Teano, dove un amico l'avrebbe riportata a casa, la ragazza avvilita accennò, nonostante la benda, a una protesta quando si sentì tirata dai capelli da Michela.
- Ho rispettato la mia parte dell'accordo ... -tuonò la sua voce prepotente e, senza degnare di nessuna attenzione al gemito di dolore di Giuditta, fissò negli occhi Alberto.
- .... È il momento della tua - e con quelle parole tirò nuovamente a sé la giovane, che faceva un grande sforzo a non insultarla, mentre Alberto con un groppo alla gola assisteva imponente alla scena, per quanto ancora avrebbe visto la sua figlia maltrattata? Alberto parlò con la stessa voce sconfitta di un torturato che cede al peso del dolore e disse che nel camioncino c'erano le restanti opere.
    Michela guardò sospettosa il veicolo e tendendo la ragazza sotto tiro, ordinò ai suoi uomini, tranne uno che andò con lei, di controllare il piemontese mentre lei trascinava  con sé la ragazza fino al camioncino bianco. Alberto sudava freddo ma rimaneva in un dignitoso e angoscioso silenzio mentre ascoltava l'orribile suono che producevano le scarpe trascinate di Giuditta. Michela spalancò violentemente la portiera del retro del camioncino e per poco non rimase a bocca aperta: seppur ristretti in uno stretto spazio c'erano i dipinti tanto ricercarti dalle due polizie della penisola e l'accompagnatore del maresciallo li autenticò. Con un sorriso divertito e ironico, la bella Michela si complimentò col ladro - Sei un uomo che sa sfruttare gli spazi- Alberto sorrise debolmente a quelle parole e anticipò il pensiero della donna dichiarando- Il cofanetto è sul sedile anteriore del passeggero- Alberto rimase a fissare la sua nemica mentre apriva la portiera , Michela gettò un'occhiata all'interno della vettura, individuò una scatola di cartone e al suo interno trovò il prezioso ninnolo avvolto in dei vecchi vestiti malconci.
    La donna scrutò quel manufatto a lungo e con sorriso di soddisfazione stampato sulla bocca, che significa molto per lei ,tranne il sollievo che non fosse andata perduta un'opera d'arte di quel valore, e si avvicinò nuovamente al ladro tenendo ben stretta a sé la sua figlioccia.
- Come mai era sul sedile?- domandò, questa volta, con autentica curiosità e Alberto le spiegò tranquillamente che, con tutta la fatica che aveva fatto per ottenerlo, gli sembrava un capriccio legittimo tenerlo con sé durante il viaggio della sua disfatta.
-Sei un uomo strano Alberto- commentò seccamente il maresciallo.
-Sono un estimatore dei piccoli capricci nella vita, non si può dire altrettanto di te- rispose per ripicca il ladro pentendosi amaramente della sua battuta, infatti, la donna colpì in faccia Giuditta, un chiaro avvertimento a tenere la bocca chiusa...
-Bene, portate il mio criminale alla jeep-, ordinò Michela ai suoi uomini e questi si sbrigarono a ubbidire, il rumore dei loro passi marziali si mischiò con gli urli soffocati di Giuditta e, appena fu tutto pronto, la ragazza fu spinta a terra e finalmente libera dalla stretta del maresciallo.
    Giuditta accennò ad alzarsi quando la voce autoritaria del maresciallo le intimò di stare ferma e sparire, la giovane fin troppo terrorizzata obbedì mentre con calde lacrime di rabbia le rigavano il viso, aspettò di vedere le auto allontanarsi per togliersi finalmente la benda dalla sua bocca e lasciare andare un urlo stridulo d'angoscia, mentre nei suoi occhi rivedeva all'infinito la scena del suo patrigno catturato.

Nota dell’autore:
Perdonate la formattazione differente del terzo capitolo e eventuale ma NVU mi sta facendo impazzire. Alla prossima domenica per l’ultimo capitolo ^-^

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5
Pregiudizi criminali
Capitolo 5
Carcere di Poggioreale, 15 settembre 2013 11 A.M.
Alberto batteva ritmicamente un piede contro il muro della cella, quest’era piccola ma né fredda e né umida e le pareti erano di uno spiccato bianco candido, come se fossero state ritinte di recente. Continuava a battere ritmicamente il piede perso nei suoi pensieri e ,poco distante ,una guardia annoiata lo sorvegliava svogliatamente mentre girava le pagine di un giornale.
    Dalla sua cella Alberto riusciva a vedere una sua foto in prima pagina e non apparteneva di repertorio, di quelle che gli davano il fascino di un ladro gentiluomo come Arsene Lupin, ma era ritratto di un carcerato che tentava di esprimere una forzata di fierezza. Il piede continuava a battere cullando i tristi pensieri di Alberto: non ce l'aveva fatta, la missione di una vita era fallita e non era neanche riuscito a preparare Giuditta come avrebbe sempre voluto. Avrebbe pianto se si fosse sentito in grado di sopportare le probabili umiliazioni che sarebbero arrivate appena qualcuno si fosse accorto del suo stato d'animo, non poteva neanche mentire dicendo che provasse del dolore perché nessuno era autorizzato a toccarlo per legge: la Repubblica Magna vietava espressamente che un condannato a morte subisse torture, non c'era nessuna logica in quella premura poiché il suo corpo sarebbe stato presto martoriato dalle pallottole dei suoi boia.
    Alberto chiuse gli occhi stancamente quando udì il suo guardiano scattare in piedi, il suo gesto fu talmente rumoroso che Alberto, infastidito, fece una smorfia e riaprì gli occhi: il soldato era in piedi e salutava militarmente qualcuno e una voce femminile gli ordinò di lasciarla sola con il prigioniero. Incuriosito, Alberto si sporse per confermare a chi appartenesse quella voce e non fu poco stupito nel riconoscere la sagoma di Michela. La guardia se ne andò lasciando il maresciallo e il ladro guardarsi negli occhi, era la prima volta per Michela poterlo guardare così a lungo senza che le fosse già fuggito e questo la rendeva particolarmente felice, una felicità che sarebbe stata completa una volta avvenuta la sua condanna. Anche per Alberto quella vicinanza era sorprendente, conosceva bene il volto della sua nemica avendolo memorizzato da anni attraverso fotografie, ma era tutta un'altra storia vedere a quella distanza quel volto, che era così bello da poter essere stato dipinto da Tiziano. Michela sembrava un angelo ma non c'era nessun sentimento di misericordia nel suo volto... un angelo della morte.
-Di che cosa vuoi parlare?- domandò con finta allegria il piemontese mentre sul volto di Michela comparve un’espressione d’autentica curiosità.
- Parlarti e di cosa?- e, dopo quella domanda così fuori tono per lei, specificò-Sono venuta ad ammirare il mio lavoro- sorrise sornionamente mentre un brivido di raccapriccio attraversò la schiena del ladro. Ci fu attimo di silenzio Alberto rispose con laconico "capisco" e poi alzandosi dalla brandina, in cui era stato seduto fino a quel momento, si avvicinò alle sbarre e fissò Michela e le disse che lui voleva invece parlarle: la donna reagì compostamente a quella dichiarazione assumendo la posizione di riposo dei soldati e altrettanto laconicamente accettò la richiesta.
-Sei soddisfatta?- le domandò Alberto accusatore mentre il maresciallo lo guardò per un attimo allibita, per poi scoppiare una risata grassa e liberatoria.
-Alberto, spero che non ti sei troppo impegnato a pensare per questa domanda perché conosci la risposta-, dichiarò con finta accondiscendenza, il ladro sorrise a quella reazione che aveva già previsto e combattuto così tante volte nella sua mente.
-Ogni discorso ha bisogno di un'introduzione Michela, per quanto stupida e ovvia possa essere. So benissimo che sei soddisfatta, ma quello che non capisco è perché impegnarsi in una causa a cui non si crede per niente...- il ladro si avvicinò ancora di più alla donna e sussurrò suadente -Perché entrambi sappiamo che non credi alla Repubblica Magna e non sei entrata nell'esercito per servirla-. Michela ascoltò tranquilla la dichiarazione del ladro, era ancora nella posizione di riposo dei soldati, evidentemente la posizione più rilassata che riuscisse ad assumere, e guardò silenziosa e con interesse il volto del suo nemico, con un freddo sorriso di circostanza.
- Sei una donna in gamba, avresti potuto combattere per la mia causa ... con me addirittura- Alberto pronunciò piano e scadendo bene tutte le parole e aspettò con impazienza la risata denigratoria di Michela che invece non arrivò; la donna lo guardò per la prima volta con vago sentimento d'umanità che lo sorprese, eppure le parole del maresciallo furono proprio come le aveva sempre immaginate.
- Non sono mai importanti le cause ma che cosa puoi ottenere da esse e dalla tua avrei ottenuto una cella, Alberto - enfatizzò le sue parole indicando le sbarre e a quel gesto Alberto rispose con un’indifferente scrollata di spalle.
- Con la mia ho ottenuto quello che è più importante a questo mondo, il Potere-
    Troppo e nulla voleva dire quella frase e, infatti, ci fu un silenzio indescrivibile, Alberto si allontanò da Michela e la osservò a distanza e poi , con la voce insinuante e giocherellona che lo contraddistingueva, le domandò se avesse diritto un ultimo desiderio.
- Ovvio, che cosa vuoi?- rispose serena mentre il ladro continuava a fissarla intensamente, era uno strano gioco di sguardi che qualche persona più ingenua avrebbe potuto vederci l'intesa di due amanti ma non era così, il gioco assomigliava all'istinto di un gatto di catturare una lucertola e di molestarla e torturarla a proprio piacere.
- La tua storia o meglio sentirla pronunciata da te-.
- È noiosa, Alberto, e non ci troverai nulla da usare contro di me- fu la risposta tagliente di Michela.
- È il mio desiderio da condannato a morte- specificò Alberto ridacchiando un po’, aveva sempre pensato che la donna fosse un'egocentrica e invece la trovava piuttosto riservata o inviperita da quella domanda così personale.
    Michela sciolse la sua posizione e si appoggiò leggermente alle sbarre, molti avrebbero considerato stupido e imprudente quel gesto ma lei non aveva paura di Alberto e, in ogni caso, la sua preparazione fisica l'avrebbe liberata da qualsiasi impiccio.
-Va bene, mettiti comodo-, ordinò la donna con uno strano sorriso e Alberto e si sedette tranquillo sulla brandina mentre la donna lo studiava con una strana espressione, forse incuriosita da quella stupida curiosità che era certa che il ladro già conoscesse.
- La bellezza è un'arma a doppio taglio, soprattutto in una donna. Ti mette in posizione strana, gli uomini ti adorano ma non ti considerano nient'altro che un premio da mostrare in giro mentre le donne ti detestano perché esiste l'istintiva competizione animale per cui l'accompagnamento con il maschio è la cosa più importante del mondo. La dignità, l'amicizia, la sorellanza sono concetti sconosciuti alla maggior parte delle donne e quando vedono un maschio, appetibile o meno, sono concetti inesistenti. Una donna bella è sfortunata perché, se è intelligente, è condannata a una vita fatta di lotte contro i pregiudizi di essere solo una bella bambola per gli uomini o una puttana, in qualsiasi caso, per le donne. Ho passato un'intera vita a subire tentativi di molestie o molestie vere proprie dagli uomini e merda dalle donne.- Alberto rimase in silenzio scioccato, era incredibile come Michela fosse distaccata mentre parlava di sé, anche se utilizzava un linguaggio colorito.
- Ai suoi inizi la Repubblica Magna doveva mostrare di essere più efficiente e moderna del regno Padano. Era risaputo che i dati ufficiale della Repubblica Italiana parlavano di maggior disoccupazione femminile nel sud dell’Italia, dando enfasi al pregiudizio che le donne del sud fossero più remissive e per cui preferissero rimanere a casa ad accudire ai figli, queste statistiche ignoravano fattori come il lavoro a nero o che, logisticamente, fosse più conveniente, dato la mancanza di asili nido, che le donne si occupassero dell'educazione dei figli poiché uno stipendio era sufficiente alla dignità economica di una famiglia. La Repubblica iniziò ad aprire i concorsi a ambedue sessi con pari opportunità: per legge i concorrenti dovevano essere metà uomini e metà donne però una volta entrati, soprattutto nell'esercito, dovevi dimostrare di esser in grado di fare qualunque lavoro senza nessun favoritismo e senza trattare le donne come se fossero delle handicappate, incapaci di ottenere un lavoro se non aiutate dal Papino Stato. Fu l'inizio della meritocrazia perfetta. Quando indossai per la prima volta la divisa dell'esercito non ero più la bella donna da odiare ma un rappresentante ufficiale che poteva distruggerti- spiegò concisa Michela mentre un sorriso freddo appariva sul suo volto- E ho scoperto che il Potere mi piaceva-.
Alberto la guardò tubato e replicò con enfasi- Sei pazza a credere che il potere sia tutto e che farà la tua felicità!-
- Il Potere è tutto e ne sei ossessionato anche tu. Non negarlo!-ordinò la donna fissandolo con un’espressione di condiscendenza, - Amavi farmi sentire in tuo potere, di poter rubar qualunque cosa e umiliarmi ogni volta! Ami pensare di poter cambiare le sorti di questo territorio però non sei nessuno Alberto. Nessuno è così importante da poter permettersi di credere che un suo contributo possa cambiare il mondo: perché credere a degli ideali quando non potremmo mai ottenerli? Meglio vivere la propria vita con egoismo, è un atteggiamento che dà molti più risultati-.
- Ma questo non ci rende degli esseri pensanti, così nemmeno gli animali ragionano -puntualizzò Alberto sentendosi confuso, lui non aveva dedicato la sua vita al Potere ,credeva a un'ideale e aveva provato a fare il possibile per renderlo reale. Era vero che nessuno valeva qualcosa in questo mondo, però non era forse come decidiamo di vivere la nostra vita che ci rende almeno esseri passivi o attivi nella storia dell'umanità? Avere dei sogni e tentare di realizzarli non era quello che rendeva gli esseri umani tali? Un uomo molto saggio una volta disse " I have a dream" e a quella frase Alberto ci credeva. Era anche vero che forse si era divertito a umiliare quella donna, ma Alberto non aveva mai pensato di sé come una persona buona: era un uomo con degli obiettivi che intendeva raggiungerli, una persona con degli ideali non coincide sempre con un eroe.
- Forse mi sottovaluti Michela, pensi che sia un’intellettuale pieno di sé che vuole educare la gente, ma sono una persona pratica, uno storico, se te ne fossi dimenticata, e ci sono solo due cose che possono cambiare un popolo: una rivoluzione e una guerra, fai caso che entrambe pretendono sangue-.
- Non ti spaventa, che una volta ottenuto la tua adorata guerra, non cambierà nulla? Sacrificheresti delle vite-.
Alberto guardò negli occhi la sua nemica e sorrise dolcemente- Sacrificherò anche la mia, quando scoppierà la guerra parteciperò-. Michela lo guardò per un attimo con un'espressione attonita e poi, lentamente, iniziò a ridere piano per poi scoppiare in una risata fragorosa e ,con la voce ancora ridente, disse sarcasticamente - Avevo ragione a definirti un terrorista, sei un kamikaze! Il peggiore della tua specie-.
    Alberto sorrideva tranquillo e non affatto ferito della reazione della donna, lei aveva rinunciato agli ideali e alla fiducia dell'umanità mentre lui credeva in entrambe le cose, ciò lo faceva sentire vivo e un essere umano ancora capace  di sognare e non di sopravvivere come un animale. Non erano uguali, per niente, erano i due lati di una generazione privata degli ideali con due modi differenti di affrontare quella perdita, nessuno dei due lati poteva definirsi quello giusto perché entrambi erano chiusi nelle proprie convinzioni e guidati da estremismi: Alberto era per il suo credo e l'avrebbe seguito.
Capirono che non avevano più nulla da dirsi e rimasero in silenzio, Michela e Alberto si guardarono con accondiscendenza e lei si allontanò dalla cella, non senza dimenticare di dire al ladro delle sprezzanti parole- Buona notte Alberto, spero che la passerai tranquilla perché sarà tra le ultime -.
Alberto rispose cinico- Passerò qualche notte qui però... preparati alla tua prossima umiliazione-. Lo sguardo di Michela s’indurì e una risata cattiva uscì dalla sua bocca- Alberto , sei un uomo morto e lo sai- e lo fissò un'ultima volta e poi uscì, poco dopo un’altra guardia tornò a sorvegliarlo e aveva lo sguardo attento e vigile di un'aquila. Alberto iniziò a fischiettare una melodia triste con occhi determinati, Michela e suoi non lo stavano sottovalutando ma non si preoccupavano di chi lui aveva attorno, e questo sarebbe stata la loro rovina.
    C'era un gran fermento nella città di Napoli, il più famoso criminale della penisola era stato catturato e attendeva la sua condanna nel carcere di Poggioreale, sembrava che tutti fossero d'accordo ad augurare il peggio al ladro e qualcuno ricordava con battute  spiritose di poco spirito sulla poca distanza tra il carcere e il cimitero.
L'esecuzione era stata programmata dopo pochi giorni dalla cattura e si era in attesa dell'arrivo di uno spettabile dignitario del norde, così ironicamente chiamato, e, addirittura ,dello stesso Generale, ma erano in molti a credere che quella notizia fosse fasulla e che fosse stata messa in giro da qualcuno un po' toccato di testa. Quel clima di pettegolezzo e gioia non era stato il riflesso dell'umore di Michela: per lei quei giorni erano stati d'angoscia e di doveri ed era stata contattata dal Generale, molto soddisfatto di lei ma ,finché Alberto Giordano non fosse stato dichiarato morto da un medico legale, lei non avrebbe avuto quello che le spettava. Le dichiarazioni sospettose del Generale avevano scosso il duro e insensibile cuore di Michela ... la paura, quel sentimento che credeva d'aver dimenticato l'aveva presa di spalle in un agguato: se Alberto scappava, lei avrebbe perso tutto e per questo aumentò la sorveglianza.

Carcere di Poggioreale 16 settembre 2013 10 P.M.
Alberto chiese come ultimo pasto della polenta e le guardie storsero il naso alla sua richiesta ma acconsentirono, in un secondo Alberto li sentì dire, in dialetto napoletano che lui aveva imparato dalla sua protettrice, che era un polentone ignorante in cucina. Alberto rise al commento, avevano ragione loro a dire che non capiva nulla di cucina , era sempre stato un uomo dai gusti semplici, a volte grossolani, sul cibo.
-Va bu’, andiamo a far preparare questa polenta- fu l'ennesimo commento ironico, detto per provocare il ladro il quale sorrise pazientemente innervosendo la guardia spiritosa, che si allontanò a grandi passi mentre l’altra rimaneva accanto alla cella.
    La polenta fu portata dopo almeno due ore, a quasi mezzanotte e Alberto era rimasto in silenzio tutto tempo aspettando il suo ultimo pasto, che gli fu consegnato violentemente e fu incitato a mangiare velocemente.
-Oltre il danno, la beffa: se mi dovessero condannare a morte preferire di notte- commentò la guardia che aveva portato la polenta al collega che si limitò a tenere sott’occhio il prigioniero.
-Come sei silenzioso Ciro - sbottò la guardia improvvisamente- Cosa è ?Hai litigato con tua moglie?-
Ciro rispose che era così e per questo era un po’ distratto, Alberto si limitò a osservava i due con interesse e in silenzio, soprattutto Ciro.
-Sì, sarà ma non puoi farti buttare giù da lei -,Ciro annuì ancora più enigmatico e Alberto ebbe l’intuizione che ci fosse qualcosa che non andava . La guardia chiacchierona si voltò a fare lo stronzetto con lui e Alberto si godette la scena.
    Ciro fu molto rapido nei movimenti, si spostò dietro il collega e con un movimento simultaneo gli bloccò bocca e gli applicò una presa sul collo: Alberto vide gli occhi stupiti della guardia e poi perdere la luce della coscienza, Ciro tenne a sé la guardia e aprì la cella del detenuto. Il ladro lo guardò colpito mentre la guardia gli sussurrava e lo ammanettava a sé - Fai il pazzo, chiedi di un prete-.
Alberto non se lo fece ripetere due volte, con la massima potenza nella sua voce iniziò a urlare che voleva un prete e Ciro lo trascinò fuori dalla cella, tenendo ancora tra le braccia l’altra guardia rispondendo a eventuali reclami in dialetto napoletano.
- Che sfaccima, fallo stare zitto- lo invitò ,senza tanti preamboli, una guardia che era dalla parte opposta del lungo corridoio e poi guardando Ciro domandò perché il collega fosse tra le sua braccia.
-Perché non tengo un culo! Questo qui fa il pazzo e Rocco si è sentito male- a quell'affermazione l’altro secondino gli ripose di farsi benedire da un prete ricchione e se volesse il suo aiuto mentre Alberto continuava a mormorare e a lanciare improvvisamente strilli , Ciro lo colpì in volto.
    L’altra guardia lo avvisò che si sarebbe messo nei guai se sarebbe comparso un livido sul condannato a morte ma Ciro sminuì la raccomandazione e iniziò a camminare con quel groviglio formato da una guardia svenuta e un pazzo piemontese: il quadretto era inquietante. Indispettito dal comportamento di Ciro, l'altra guardia preferì non aiutarlo più perché non voleva essere accusato di aver maltrattato il prigioniero e lasciò a sbrigarsela da solo..
    Appena Alberto e Ciro furono lontani dalla zona delle celle il primo mormorò sottovoce - Mauro?-, Ciro, o meglio Mauro, sorrise e disse che aveva un piano e se andava tutto bene non avrebbero fatto la fine di un fuoco d’artificio illegale. Mauro portò Alberto in una piccola stanzetta e gli disse di rubare velocemente i vestiti della guardia e di seguirlo senza fiatare, Alberto fu rapido e con la coda dell’occhio studiava la stanzetta, soddisfatto della situazione: Mauro era proprio stato un complice della sua maestra. Nonostante ciò Alberto era nervoso perché non erano stati in molti a essere in grado di fuggire dal carcere di Poggioreale, perché si trovava in piena città e diventare invisibili era complicato, per cui, per quanto fiducioso in Mauro, si domandava quale fosse il piano.
    La guardia svenuta fu ammanettata mani e piedi, con una stretta benda a cucirgli la bocca e Alberto, con un sospiro indignato, sistemò la pistola di servizio, affrettandosi a seguire Mauro quando fu invitato a muoversi.
-Che cosa hai intenzione di fare, non crederai che camuffati così, riusciremmo a scappare?- domandò legittimante Alberto e Mauro, gli rivolse un sorriso complice continuando a camminare speditamente verso il basamento. Alberto era confuso, non potevano di certo scavalcare il grande muro di pietra attorno al carcere ma andare verso la fredda terra sembrava solo voler anticipare la loro fine.
    Arrivarono davanti a un muro scarno e freddo, Mauro lo tastò a lungo e con una mano pulì una piccola zona in cui apparì una fessura simile a una toppa di una porta, Alberto stava di guardia domandandosi dove diamine fossero finiti. Quella cosa che assomigliava alla toppa di una porta si rivelò essere tale e Mauro con le mani portò allo scoperto il perimetro di una piccola porta e iniziò a trafficare con la serratura con gli attrezzi del mestiere, estratti dalla sua giacca da secondino finché la forzò: la piccola porta si aprì e mostrò un corridoio scavato nella terra.
-Muoviti!- esortò il ladro più anziano e Alberto lo seguì chiudendo la porta dietro di sé e rendendola inutilizzabile per gli inseguitori, che prima o poi sarebbero spuntati.
Mauro iniziò a illuminare il percorso davanti a sé con una piccola torcia, era talmente buio che Alberto fu costretto a mettere un braccio sulla sua spalla per non cadere e gli chiese delle spiegazioni.
- La ditta che costruì questo carcere si chiamava “Cacciapuoti fu Salvatore”-,il nome era talmente altisonante che Alberto si sentì costretto a sdrammatizzarlo con una risata.
-C’è una leggenda attorno a questo carcere, si dice che fu progettato in modo da essere inespugnabile e che il costruttore fosse così fiero da vantarsene costantemente finché, un giorno, suo figlio finì dentro-. Mauro continuò percependo la confusione di Alberto.
-Però c’è un’altra leggenda, meno conosciuta, si dice che il carcere sia collegato con una scuola dei dintorni e posso confermarti che è vera- Mauro indicò il lungo corridoio scavato nella terra.
    Alberto guardò intorno a sé, respirò forte e una sensazione di freddo arrivò ai polmoni, notò che Mauro riusciva a camminare abbastanza spedito come se avesse fatto quel percorso tante volte ma quest'ultimo confutò la teoria di Alberto.
-No, l’ho fatto una sola volta quando ero bambino e come altri ricordi belli della mia infanzia, ne ho fatto particolare tesoro. A sentire parlare d’infanzia Alberto s’incuriosì e domandò di dirgli di più.
-Hai mai sentito parlare del terremoto dell’ottanta?- rispose con una domanda Mauro che continuava a camminare così spedito che Alberto tendeva a perdere la presa sulla sua spalla.
-Ne ho sentito parlare-.
-Allora non esisteva la Repubblica Magna, Napoli era la città emblema dell'inefficienza dello Stato della Repubblica Italiana. Quando successe, come al solito , furono promessi mari e monti … tutti sarebbero tornati quanto prima a casa ,ma ovviamente non fu così. Le persone vissero per molto tempo nelle scuole che non  erano crollate, tra cui io con la mia famiglia-.
Alberto pensò a quella mostruosa scena, dei civili costretti a vivere come degli affollati in uno spazio come quello di una scuola. La vecchia Repubblica Italiana ne aveva di peccati d’inefficienza ma la peggiore era l'incapacità di reagire  alle calamità naturali.
-Mentre vivevo nell’istituto Tecnico Leonardo da Vinci venni a sapere di questa leggenda. La scuola avrebbe dovuta essere collegata al carcere: indagai e scoprii che i sotterranei della scuola portavano effettivamente al basamento del carcere-.
Con un sorriso allegro, Mauro si voltò a guardare Alberto e disse- Oggi stiamo percorrendo questo collegamento e dubito fortemente che qualcun altro lo conosca-.
Rimassero in silenzio, forse a causa del peso del racconto, e nonostante la dichiarazione della segretezza del luogo entrambi i ladri erano ben concentrati a percepire ogni rumore che fosse estraneo a loro passi.
-Fai attenzione, ci sono dei gradini- ammonì Mauro che iniziò a salire lentamente delle scale in pietra, permettendo a Alberto di attanagliarsi al suo braccio, la torcia aveva una luce troppo debole che permettesse a due di camminare spediti.
    Quando iniziarono a percorre le scale, di appena ventina di gradini, si iniziò a percepire  una traccia di aria fresca sotto il penetrante odore d'umido che li aveva accompagnati fino in quel momento. Prima d’uscire definitivamente dalla galleria, Mauro si liberò della giacca della divisa e disse ad Alberto di fare altrettanto per rendere anonimo il loro abbigliamento. I due si trovarono in un cortile deserto e davanti a loro si ergeva l’edificio della scuola, un esempio di architettura imperiale fascista circondata da un uno spesso muro. Alberto sorpreso da quel particolare, si dimenticò di respirare l’aria fresca di cui era stato privato in quei giorni, e domandò a Mauro- Questa scuola è un carcere per caso? Come mai il muro, hanno paura che gli studenti fuggano?-.
-Credimi, se vedessi i ceffi che girano qui potresti capire l’uso delle mura-. Alberto si voltò, erano usciti da una specie di guardiola per nulla nascosta, com’era possibile che nessun studente avesse avuto la curiosità di esplorarla?Mauro lo condusse al portone principale, che era in legno, e  lo aprì con una chiave universale evitando di far rumore.
-È rischioso, ma se proviamo a scavalcare i muri della scuola ci vedranno le guardie dal carcere. Distiamo da lì solo a trecentocinquanta metri e il carcere ha un'altezza superiore.-
    Alberto per la prima volta capì che l’arte dell’arrangiarsi rendeva i napoletani pazzi, forse addirittura più sprezzanti del pericolo di quello che si credeva. Mauro chiuse scherzosamente la porta della scuola dicendo- Ciao, ciao. Casettina mia-. La loro fuga non era ovviamente finita lì. La scuola si trovava in una strada chiamata Via Foggia e di fronte a essa c’erano una serie di palazzotti in cui abitavano persone. Mauro condusse Alberto alla sua auto che si trovava in una traversa a destra della scuola. L'auto di Mauro era una vecchia Fiat che aveva addirittura la targa bianca e non ancora quella gialla voluta dall’Unione Europa. Alberto sorrise involontariamente a vederla, era da secoli che non vedeva un’auto italiana e sembrò che anche Mauro, per un attimo, ricambiasse la sua nostalgia con il suo sguardo pensieroso, Alberto aprì la bocca per dire qualcosa ma fu fermato dall’amico con dura occhiata.
-Non ringraziarmi ancora, fallo quando sarai al sicuro-.
Eppure Alberto non riuscì a star zitto e domandò della sua Giuditta.
-Sta bene, l’ho recuperata in quel posto dimenticato da Dio dove hai fatto lo scambio con quella stronza. Per fortuna che mi hai avvertito-, Alberto lasciò andare un sospiro di sollievo, era così preoccupato per Giuditta che pensava di morire per quello, piuttosto che per la scarica di pallottole che avrebbe dovuto ricevere la mattina di quel giorno. Mauro gli disse che lo stava portando al porto, lì avrebbe avuto un passaggio da una nave merce diretta per Cagliari. Alberto ricordava vagamente il porto napoletano, sapeva che era uno dei più importanti d'Europa, occupava l’insenatura naturale più a nord del Golfo di Napoli e s'estendeva per alcuni chilometri dal centro della città verso la sua parte orientale.
Mauro guidava veloce e il paesaggio scorreva davanti agli occhi di Alberto come i fotogrammi di una pizza cinematografica: attraversarono l’ex piazza Garibaldi, la piazza che ospitava la stazione ferroviaria e, un tempo, la statua del suddetto eroe: era stata distrutta e sostituta con una costruzione rettangolare che mostrava delle pubblicità. Alberto si sentì disgustato, come si poteva cancellare con quello sfregio il periodo del Risorgimento? Guardò infastidito la strada formata dai san pietrini per non guardare la mancata raffigurazione del glorioso eroe dei due mondi. Nonostante che fosse passato del tempo, Alberto la ricordava la statua, rappresentava l’eroe con uno sguardo basso, vigile e paterno sulla città come volesse difenderla.
Mauro percepì il malumore del piemontese, ma non disse nulla e attraversò uno dei rami dell’incrocio della piazza per percorrere Via Marina, era il modo più veloce di raggiungere il porto.
    Via Marina era una delle poche strade che poteva essere considerata larga in città ed era quasi un rettilineo per tutta la sua lunghezza e Mauro poté accelerare drasticamente, passarono davanti rapidamente vicino a due torri diroccate che facevano parte della chiesa della Madonna del Carmine, una chiesa molto antica e la cui santa era molto venerata dal popolo napoletano. Infine l’auto imboccò la strada via Agostino Depretis, che nonostante fosse nominata come un politico del periodo del post risorgimento, non era stato reputato importante cambiare il nome:Alberto immaginò che fosse stato molto più facile e significativo distruggere un simbolo come Garibaldi che l’ennesimo politico corrotto.
    La via Agostino Depretis sbucava dietro il castello Maschio Angioino , il ladro piemontese riconobbe uno dei più importanti simboli della città: un enorme castello dall’aspetto squadrato di colore ocra che maestoso si imponeva sulla città. Iniziò a scorgere le banchine del porto e rimase sorpreso che non gli fosse rimasto impresso nella memoria, un particolare importante come quello che stava vedendo: il porto di Napoli si trovava a ridosso della città, le banchine e le navi sembravano parte del marciapiede e l’enorme piazzale, occupato da un grande parcheggio all’aperto, aumentava quella sensazione d’apertura quasi come volesse mostrare l’apertura al mondo della città. Eppure Alberto sapeva che i napoletani potevano essere incredibilmente freddi e austeri se era necessario.
Davanti al parcheggio, vi era una costruzione dall’architettura tipica del fascismo, che fungeva da stazione marittima, in cui le persone potevano attendere l’orario d'imbarco. Quanto sarebbe piaciuto ad Alberto osservare i particolari di quella struttura! Ma quando Mauro frenò l’auto, fu consapevole che non c’era tempo per simili sciocchezze  e che per lui Napoli sarebbe stata zona proibita per parecchio tempo. Sempre se fosse riuscito a sopravvivere grazie a quella fuga di cui non sapeva nessun dettaglio,costretto a fidarsi completamente della capacità di qualcun altro.
    Mauro consegnò ad Alberto una busta per lettere contenente frusciante denaro in euro, che scricchiolò tra le dita di Alberto, e una piccola pistola, inutile tra le sue mani , che il ladro nascose in una scarpa.
-Mi sono accordato già con il capitano, ma possono essere molto avari-, spiegò Mauro mentre consegnava l’ultima cosa: una maschera che Albero indossò con il suo aiuto. Con una stretta di mano e un sorriso e i due si salutarono, Alberto attraversò il piazzale prudentemente e raggiungesse la banchina, dove una nave merci dall’aspetto vissuto attendeva che la sirena desse il via libera per abbandonare del porto.
Il capitano stava attendendo l’ospite, era un uomo dall’aspetto piacente che scoccò una lunga occhiata a Alberto e senza neanche aprire la bocca, con un gesto imperioso si fece consegnare la busta contente il denaro.
-Ti chiamerò Tonio-, disse perentorio e Alberto non protestò , sperò solo, guardando dietro di sé mentre saliva sulla nave il porto vuoto e spettrale, che Mauro avesse scelto un avaro onesto e di non essere il consegnato alla polizia padana, una volta arrivato a Cagliari.
Sperò di poter riabbracciare Giuditta ancora una volta.

Carcere di Poggioreale, 16 Settembre 2013 11 A.M.
La fuga di Alberto Giordano aveva fatto molto discutere: il mattino seguente l’intera popolazione mormorava, ma se il popolo parlava, dall’altra parte, chi aveva il potere prendeva decisioni. Michela Neri era mortificata, delusa, sconfitta e il suo disprezzo per Alberto era stato sostituito momentaneamente da quello per se stessa. Si trovava in una della base militari della città e partecipava alla riunione più difficile di tutta la sua vita.
    Il Generale,seduto, la fissava con occhi severi e implacabili, accanto a lui c’era il Ministro degli Esteri, l'uomo che Michela aveva incontrato durante il caso di Varese. Era ferma nella sua ostinata posizione di riposo in cui si sentiva più protetta, ben sapeva che la sua carriera sarebbe terminata a lì a poco.
-Primo Maresciallo Neri-, disse il Generale con voce inflessile- Avevamo un accordo-, mentre i suoi occhi si posavano sulle spalle del soldato, Michela Neri tentennò ma strappò dalla distintivo e consegnò il suo grado nelle mani del Generale, che continuava a fissarla implacabile e commentò quasi dispiaciuto.
-Sembrava così sicura-, e Michela Neri mantenne il suo sguardo, ma a che cosa serviva?
-È congedata Sergente Maggiore Neri- quest’ultima chiuse la porta dietro di sé, lasciando il Generale e il Ministro in un silenzio che durò solo pochi instanti, per essere interrotto dalla preoccupazione tangibile di quest'ultimo.
-Che cosa faremmo Generale?- domandò e questo non rispose, si alzò e osservò il paesaggio dalla finestra dalla stanza. Vide dall'alto l’ex maresciallo camminare caparbiamente eretta per la sua strada e pensò che quell'atteggiamento era la risposta.
- Sanciremo un ultimatum, se non ci consegnano Alberto Giordano ci sarà la guerra-
- Prima di ciò, la metto in contatto anche con il Presidente americano?- domandò un po’ timoroso il Ministro degli esteri e il suo capo annuì. Doveva essere sicuro d’aver come alleato l’America, convincere l'intero mondo che quella fosse una missione antiterroristica importante e necessaria, altrimenti l’Europa avrebbe tentato di occupare la penisola e il Generale non aveva nessuna intenzione di farla diventare,per l’ennesima volta ,un’espressione geografica. La repubblica Magna doveva sopravvivere.

5 Gennaio 2014 Benighton 2 P.M.
Erano passati quattro mesi di grande fermento politico che avevano attanagliato il cuore di Giuditta, costretta a vivere non più nella sua bella casetta con il suo amorevole patrigno ma da un amico di famiglia in Inghilterra.
Giuditta leggeva i giornali, ogni singola notizia faceva presagire l’inizio della guerra. I primi mesi c’era stato un gran polverone sulla fuga di Alberto Giordano con teorie piuttosto fantasiose, se si considerava che in realtà una volta in Sardegna il ladro si fosse semplicemente imbarcato per la Spagna per incontrarsi infine con la figliaccia lì.
    L’incontro aveva ridotto alle lacrime entrambi, Giuditta aveva sempre saputo che prima o poi il momento dell'addio sarebbe arrivato,Alberto avrebbe continuato a inseguire la sua strada non curandosi di quello che avrebbe dovuto lasciare dietro di sé. L'aveva abbracciata a lungo mentre le chiedeva di fare la brava e di perdonarlo d’averla trascinata in quell’assurda storia mentre lei lo rassicurava- Senza di te, a quest’ora starei morendo per qualche malattia sessuale. Ti devo tanto però ce l'ho con te! Perché preferisci l'Italia a me-, aveva dichiarato , rossa in viso per quella imbarazzante e infantile dichiarazione ma il patrigno le aveva baciato la fronte e accarezzato i capelli e, cullandola dolcemente tra braccia, le disse-Sono un pessimo padre però spero di tornare per poter aggiustare le cose-.
    Giuditta aveva tirato su con il naso incapace di smettere di piangere mentre già con il cuore pregava che il suo patrigno tornasse vivo e adesso, dopo quei quattro mesi dal loro ultimo incontro, pregava ancora con tutta se stessa. La guerra scoppiò dopo che i vari tentativi di rappacificamento fallirono e ogni possibilità di pace scartata per sempre: Alberto Giordano era pronto a combattere per un ideale cui aveva dedicato un'intera vita.

 2 Giugno 2023 Roma 10 A.M.
Dieci anni erano passati e con non poco rancore Michela Neri pensava che Alberto Giordano aveva vinto:la penisola italiana era stata unificata dal ferro e fuoco della Repubblica Magna. La guerra era durata all'incirca due anni ed era stata brutale,la stessa Michela aveva subito la sua potenza e portava segni visibili che avevano sfigurato in parte la sua bellezza, forse l'unica cosa positiva che le era capitata in quei anni, in cui con la reputazione danneggiata non aveva potuto avanzare granché nella scala militare. Come le pesava quell’insulso grado di sergente maggiore capo, per ovvi motivi ma soprattutto perché non le permetteva di sapere che fine avesse fatto Alberto Giordano e lei sperava con tutta se stessa che fosse stato ucciso dopo mille torture.
    Portava rancore, nonostante che l'unificazione aveva dimostrato la sua validità perché lentamente il Governo della Repubblica Magna stava perdendo il suo carattere militare a favore di uno più civile. Michela, con disappunto, pensava che Giordano non era mai stato l'unico pazzo che voleva quella penisola unificata: muti per troppo tempo le persone favorevoli avevano trovato il modo di fare qualcosa per quella nazione, anche una minuscola cosa. Si domandava quando avrebbero infine richiamato quella strana terra" Italia" e sperava che Giordano fosse morto così da essere incapace di gioire della vittoria della sua lunga missione.

Nota dell'autore: Salve a tutti.E' finirà la storia di Alberto, fatemi sapere che ne pensate qui su efp oppure ne discutiamo insieme sulla mia pagina facebook!











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