Pregiudizi criminali 2.0 di Sokew86 (/viewuser.php?uid=67474)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Pregiudizi
criminali
Capitolo
1
Varese,
14 Maggio 2013
06.00 A.M
-Che
stanchezza, voglio andare a casa-
Una
donna dalla chiara provenienza dell’Europa dell’Est
sbadigliò dopo quella
dichiarazione.
-Cosa
tu pensi Amir?- domandò la donna al suo collega, la cui
pelle indicava
chiaramente l’appartenenza al vasto Medioriente e Amir
alzò le spalle,
leggermente infastidito - Abbiamo appena iniziato. Quale piano devi
pulire
Natalia?-
Si scambiarono le
informazioni relative ai lavori della
giornata, ma Natalia appariva dubbiosa.
-Strano,
che non dobbiamo pulire la stanza delle persone importanti-.
-Forse
più tardi- replicò Amir salutandola -Ci vediamo
dopo-
Amir
con il suo carrello da lavoro si avviò agli ascensori di
servizio per
accedere ai piani inferiori, dove si trovavano le stanze meno belle
dell’albergo, mentre Natalia era andata a pulire i piani
superiori. Amir entrò
in una delle stanze meno costose del piano, trovandola comunque
aggraziata ed
elegante con i suoi due letti separati e la tinta blu alle pareti.
L’inserviente aprì la porta del bagno e
tirò un sospiro di sollievo: lo sporco
era normale e non c’era con nessuna strana macchia da
eliminare. Il Palace
Grand Hotel poteva essere un albergo di lusso ma Amir sapeva bene
quanto gli
ospiti potessero diventare pretenziosi, sporchi e irrispettosi del lavoro di persone come
lui. L’uomo si
mise a lavorare di buona lena. Passò un bel po’ di
tempo, quando l’inserviente
sentì squillare il telefono della stanza. Intuì
subito che si trattava della
reception e infatti riconobbe la voce annoiata di Bianca che lo
invitava, e non
tanto cordialmente, a raggiungere Natalia per pulire la suite destinata
all’Ambasciatore e al Generale: erano quelle le persone
importati di cui aveva
accennato precedentemente prima
la donna.
L’inserviente
tentò di protestare: non avrebbe fatto in tempo a pulire le
ultime stanze del
suo piano, ma la sfuriata che ricevette dal suo diretto superiore non
gli
lasciò alternative e capitolò.
L’inserviente
raggiunse Natalia e sebbene la ragazza gli fosse sempre
piaciuta, questa volta s’irritò per la sua
lentezza. I popoli dell’est Europa
non erano forse conosciuti per la loro rapidità e voglia di
lavorare? O forse
queste doti non appartengono esclusivamente a una razza o a una
nazione? Si
domandò Amir.
I due riuscirono a
sistemare la suite come voleva il direttore
dell’albergo: perfettamente e avevano persino
lucidato il
pianoforte.
Amir
era rimasto ovviamente indietro con il suo lavoro e, nonostante avesse
lavorato il più velocemente possibile, l’ospite,
dell’ultima camera che avrebbe
dovuto finire di sistemare da un po’, arrivò prima
che potesse completarla.
L’inserviente si prese l’ennesima strigliata al
telefono ma non poté che
borbottare qualcosa contro le tante, e per lui incomprensibili, regole
di
etichetta. Terminato il lavoro, chiamò la reception dicendo
di aver finito e
che l’ospite poteva accomodarsi, uscì quindi dalla
stanza con il suo pesante
carrello, irritato ma sollevato dalla fine del suo turno, quando
improvvisamente ricordò di aver dimenticato di mettere nel
bagno della stanza
l’asciugamano per il viso.
Lasciò
incustodito
il carrello nel corridoio e tornò indietro con fare
circospetto, trasportando
con sé solo l’asciugamano. Entrò nella
stanza, sistemò l’asciugamano sentendosi
più una spia che un inserviente. Ne uscì contento
d’aver evitato l’ennesima
sfuriata, ma finì a faccia a faccia con l’ospite,
quest’ultimo
attese pazientemente che Amir uscisse.
-Mi
scusi!- esclamò a disagio Amir, mentre l’ospite
sorrideva comprensivo.
-No,
si preoccupi-. disse l’ospite, in un italiano non perfetto
che tradiva un
fortissimo accento francese, -Io posso entrare, adesso?-
domandò. L’inserviente
annuì imbarazzato e prendendo coraggio domandò
all’ospite -Potrebbe evitare
d’avvertire il direttore del fatto, per favore?-.
-Certo,
voi come vi chiamate?-
Amir
tentennò. Se non voleva denunciarlo perché mai
voleva sapere il suo nome?
L’ospite intuendo i pensieri dell’uomo lo
rincuorò.
-Vorrei
conoscere il vostro nome, solo perché a me sembra maleducato
non saperlo-.
Alla fine Amir,
convinto, si presentò e l’ospite fece altrettanto.
Si strinsero la mano, e ad
Amir lasciò una piacevole impressione: il nome Maurice
Leblanc non l’avrebbe
dimenticato facilmente.
Varese,
14 Maggio 2013
11.00 A.M
L’arrivo
dell’Ambasciatore e del Generale significò una
sola cosa per tutto l’albergo:
PANICO.
Efficienza, invece, era
la parola ripetuta più spesso da tutti e
con i pittoreschi accenti della manovalanza dell’albergo. Ad
Amir toccò il
compito di pulire la suite. Era stato ben informato dei pregiudizi
sulla
Repubblica Magna, disprezzatamente chiamata Terronia. Gli avevano detto
che lì
o erano mafiosi o soldati o tutte e due le cose e Amir, infatti,
trovò la suite
in condizioni perfette: con cura militare il Generale aveva rifatto il
proprio
letto e così pure aveva fatto l’Ambasciatore.
Notò sul comodino
dell’Ambasciatore una cornice con la foto di una giovane
donna, probabilmente
la figlia o la nipote dell’illustre funzionario e
trovò il gesto molto dolce e
umano.
Amir
era arrivato in Italia a pochi anni dalla separazione del territorio
geografico, nel periodo in cui si erano consolidati i due stati.
Al Nord si era
formato il Regno Padano che, nonostante fingesse una grande
indipendenza, era
costantemente legato al parere dell’Unione Europea e aveva
frequenti crisi
interne di natura etnica. Al Sud si era
consolidata la Repubblica
Magna, uno stato militare, alleato ufficialmente con gli Stati Uniti e
che
aveva fatto fortuna con il petrolio della Basilicata e
l’immenso patrimonio
artistico.
Questi
due stati erano considerati tra i punti di tensione più
pericolosi
dell’intera Europa, tanto da richiedere una costante opera di
diplomazia che
consisteva nello scambio d’opere d’arte a scopo di “interscambio
culturale”.
Per questo motivo l’Ambasciatore e il Generale, in
altre parole il presidente della Repubblica Magna, erano in
quell’albergo:
trasportavano un’importantissima opera d’arte
proveniente dal Meridione.
Un’opera dal valore inestimabile ed era soprattutto un motivo
di grande vanto
per la repubblica militare. Quest’ultima ci teneva molto a
rilevare la quantità
di opere d’arte che erano presenti sul proprio territorio,
escludendo,
ovviamente, la sola città di Roma la quale era rimasta un
polo attrattivo per i
turisti di tutto il mondo. Se fosse accaduto il più piccolo
incidente al
dipinto, si sarebbe scatenato il finimondo, tanto che nessuno in
albergo aveva
voluto sapere di che opera si trattasse.
Amir
camminò a disagio in quella suite. Si vociferava che
l’Ambasciatore e
il Generale custodissero il dipinto in una cassaforte di produzione
sudista e
che fosse nella loro camera dell’albergo. Amir
sperò di non vedere neanche la
cassaforte, personalmente pensava che i due illustri fossero fin troppo
paranoici per non tenere il dipinto nelle casseforti di sicurezza
dell’albergo.
L’inserviente
sistemò la suite e il suo turno era finalmente terminato,
uscì dalla porta di
servizio e colse l’ospite francese del giorno prima nei
giardini dell’albergo,
con un’espressione persa nel vuoto.
-Sì,
è perso signore?- domandò Amir, il francese
sorrise e negò, Amir pensò che forse
l’ospite stesse ammirando la splendida struttura liberty
dell’albergo.
-State
andando a casa?-domandò l’ospite ad Amir.
-Si-
-Dovete
pranzare ancora?- domandò il francese gentilmente e
titubante Amir rispose
affermativamente.
-Vi
va di venire a pranzò con me?- chiese l’ospite.
Amir
era confuso: d’accordo essere gentili ma il signor Maurice
Leblanc lo era
troppo … Che avesse strane intenzioni?
Ma quali
intenzioni poteva avere? In fin dei conti che gli
costava andare? Era sempre meglio di
mangiare da solo nel tugurio in cui viveva.
-Non
ho tanti soldi- si affrettò a precisare
l’inserviente.
-Mangeremo,
dove volete voi-, rassicurò il francese con classe.
Alla
fine Amir accettò e portò l’ospite in
una piccola tavola calda, dove
conversarono a lungo o meglio Amir parlò molto. Il francese
era davvero abile a
mettere a proprio agio le persone e a spingerle a parlare di
sé.
L’inserviente
gli
raccontò persino del fatto che voleva mettersi a studiare
per cambiare lavoro,
motivo per il quale aveva frequentato alcuni corsi comunali
d’italiano: voleva
essere in grado di iscriversi a una scuola superiore senza il problema
della
barriera linguistica. La lunga conversazione sfociò infine
nella politica per
una semplice domanda di Amir.
-Perché
usa il voi?- Amir domandò incuriosito all’ospite,
che si era sentito preso in
contropiede dalla domanda.
-
È
sbagliato in italiano?- si affrettò a chiedere imbarazzato,
come se fosse per
lui di vitale importanza possedere una corretta grammatica.
-Sì,
la forma corretta in una conversazione formale è la terza
persona, il “lei”-
-Avete
… Ha ragione, che sbadato sono io. In francese si usa il
“voi”.
Mi
dispiace di essere stato maleducato. Ero convinto che si usasse anche
qui -
disse il francese con un’espressione sconfitta sul volto.
Amir accennò
un no
con la testa e indicò il pavimento- Giù. Al Sud
si usa-
-In
Terronia?-.
-Sì-.
-Questa
è la fondamentale differenza che li ha fatti dividere?-
domandò ironico il
francese, sembrò strano che fosse in grado di fare ironia
… era sempre sempre così
gentile e sensibile.
-Non
lo so, sinceramente. L’arrivo dei due illustri mi ha aperto
gli occhi- iniziò
l’inserviente passandosi una mano sulla leggera barba.
-Come
mai?-
-Fisicamente
i terroni sono come le persone di qui. Per esempio, hanno il naso
grande- Amir
disse indicando anche il suo -Un po’ come dalle mie parti-.
-Poi
l’ambasciatore è chiarissimo di pelle e di
capelli. Mi avevano detto che solo
nel Regno ci sono persone con quelle caratteristiche-.
-Non
pensavo che ci fossero tutti questi pregiudizi. Vada avanti-
commentò il
francese chiaramente interessato.
-E
poi gli occhi- esitò Amir per un istante per poi indicare
gli occhi del
francese -Sono come i suoi sa? In tutta la penisola, le persone hanno
degli
occhi espressivi, con … car… carattere-.
Maurice Leblanc
rimase in silenzio.
-Li
chiamo gli occhi italiani- confessò l’inserviente.
-Sono
davvero così belli?- domando l’ospite riferendosi
a suoi.
-Sì,
e lei ce li ha. Come mai?-
Il
francese sorrise, un sorriso furbo e misterioso- Le svelo un segreto:
sono di
discendenza italiana-.
Amir si
entusiasmò e domandò di quale regione
ma Maurice fu ancora più misterioso-Nessuna delle due, sono
nato prima della
separazione-. Amir capendo
l’antifona, si scusò per essere stato invadente,
ma
il francese ci scherzò sopra e gli domandò quanti
anni avesse dato il suo
furore giovanile.
-Ho
vent’ anni- rispose Amir sincero.
Quando
Amir tornò a casa, si sentì contento
d’aver accettato l’invito a
pranzo del francese … per la prima volta dopo tanto tempo si
era sentito
trattato come una persona e non solo come l’inserviente.
Varese,
14 maggio 2013
10.30 P.M.
I
passi del Generale rimbombarono per tutto l’albergo, il suo
volto scuro e
normalmente inespressivo era carico d’ira.
L’Ambasciatore
camminava dietro di lui con la medesima espressione.
I due illustri
personaggi entrarono nella Sala Avorio, una sala destinata alle
riunioni
dell’albergo, con tale violenza da far spaventare il Ministro
degli esteri e il
Re padano.
-Che
cosa vi turba, signori?- Domandò il Ministro con un falso
sorriso.
-Il
dipinto! E’
stato rubato!- esclamò
concitato l’Ambasciatore.
-In
questo albergo?!?-
-No,
in Bangladesh... - rispose sarcastico il meridionale alla domanda
imbecille del
Re.
-Carissimi,
cercate di rimanere calmi … - il re cercò di
essere diplomatico ma fu
immediatamente interrotto dall’altro ufficiale.
-Al
contrario: voi dovete rimanere calmi. Vi stiamo lanciando un ultimatum:
se
entro tre ore non permettete alle nostre forze di polizia di indagare
sul caso
vi dichiareremo guerra- il tono del Generale non prometteva nulla di
buono e i
padani rimasero allibiti.
-Caro
Ministro-, scimmiottò l’Ambasciatore guardando con
disprezzo il Re Padano e
porgendo un documento ufficiale della minaccia al Ministro degli esteri
-Potreste riferire velocemente le parole del mio superiore al suo?-
Varese, 16 maggio 2013 12.00 A.
Amir
si svegliò controvoglia. Il suo cellulare continuava a
squillare
insistentemente e pensò ai soliti problemi
dell’albergo che lo perseguitavano
persino nel suo giorno di riposo, ma quando sentì Bianca
ordinargli
istericamente di presentarsi in albergo, intuì che qualcosa
di grave era
successo. Con sgomento capì che era stato chiamato per un
interrogatorio.
L’albergo
era in pieno fermento, c’erano numerose automobili militari e
straniere.
Appena Amir
entrò, si rese conto di essere nei guai: c’era il
direttore dell’albergo che lo guardava con
un’espressione impaurita in volto e
c’erano due uomini in divisa nera. Il direttore
invitò ad Amir a seguirli e i
due uomini portarono Amir in una delle sale più piccole
dell’albergo, dove ad
attenderlo c’era una donna, quest’ultima era un
militare e il nome era stampato
sulla divisa.
Michela
Neri era una delle donne più belle che Amir avesse mai visto.
Il viso era fine e
incorniciato da capelli ricci della forma tipica delle donne
meridionali e dal
colore castano con riflessi rossi. Il corpo … non passava di
certo inosservato.
Alla donna non mancava di certo la mercanzia giusta, parzialmente
nascosta,
sfortunatamente, dall’austera e nera divisa della polizia
della Repubblica
Magna con tanto di pistola in bella vista. Inoltre i suoi occhi scuri
erano
duri pezzi di empietà. La poliziotta guardava
Amir come se fosse un
disgustoso spettacolo e subito lo attaccò senza nessuna
esitazione.
-
Hai pulito la stanza degli ambasciatori la scorsa mattina?-
-Sì,
signora-.
-E
quando la sera l’Ambasciatore e il Generale sono tornati
nella loro stanza, il
dipinto era scomparso. Come lo spieghi?- domandò la donna
con un tono
accusatore.
Amir
guardò impaurito la donna e temé di non uscire
vivo da quella stanza.
-Non
lo so- rispose sincero.
-Cazzate!-
gridò la donna con un fortissimo accento romano.
-Signora,
non ho neanche visto la cassaforte … - iniziò a
spiegare l’inserviente.
-Dunque
sapevi che il dipinto era in una cassaforte!-
-Era
una voce di corridoio- si giustificò Amir.
-Giustificazione
debole- contestò la donna con una voce di stizza.
-La
prego di credermi, sono solo un emigrato che … - Amir
s’interruppe nel vedere
Michela guardarsi assorta le unghie.
Michela
alzò lo sguardo e disse con finta accondiscendenza -Non
finisci la tua storia
patetica che rifili ai nordisti? Con me non funziona, sai? Nel mio
Stato quelli
come te non sono benvenuti. La nostra gente può raccogliere
i pomodori da sola.
Non susciti la mia pietà con la tua storiella. Non sono la
poliziotta buona. Ho
solo due ruoli io: la poliziotta cattiva e quella che ti uccide se non
metti in
moto il tuo piccolo cervelletto e mi fornisci informazioni -.
-Non
capisco- replicò Amir tremando a quelle parole appena
sentite.
-
È
impossibile che un omuncolo come te abbia rubato il dipinto. Hai
incontrato
qualcuno di sospetto negli ultimi tempi- domandò Neri
stranamente gentile.
Amir
cercò di rimanere calmo per ragionare con
lucidità. Qualcuno di sospetto? Il
francese era la persona che l’aveva colpito di
più, recentemente, ma era solo
una persona gentile ...
-Chi
è allora?- domandò a bruciapelo la poliziotta
vedendo un attimo d’esitazione in
Amir.
-Il
signor Maurice Leblanc. È
una persona
gentile, ieri mi ha invitato a pranzo- spiegò Amir non riuscendo a reggere lo
sguardo con la
poliziotta.
-Ha
chiesto qualcosa di particolare?- La poliziotta si era alzata in piedi
e
guardava dall’alto in basso l’inserviente.
-Solo
della mia giornata e dei pettegolezzi dell’albergo-
Michela,
seccata, sbuffò e domandò-
Qualcosa’altro?-
-Abbiamo
parlato di politica. Politica estera- fu costretto a specificare
l’uomo.
-Precisamente
di …?-
Amir
rispose impaurito -Del perché l’Italia non
è unita-
Sul
volto della donna si manifestò un attimo di smarrimento, che
subito si tramutò
in un’espressione astiosa e disse -Ti sei fatto fottere
omuncolo! Abbiamo
finito. Esci da qui !- tuonò Michela.
Amir
tirò un sospiro di sollievo ma era ancora inquieto -Cosa mi
succederà? Sono colpevole?-
-Di
essere imbecille, sì. Probabilmente ti licenzieranno per
salvare la reputazione
dell’albergo. Non un mio problema- dichiarò cinica
la donna e senza mezzi
termini.
Michela
Neri prese il cellulare e urlò degli ordini ai suoi
sottoposti e
poco dopo ci fu una retata nell’albergo e a poco valsero i
piagnistei del
direttore che si trovò costretto a ubbidire a un volere
superiore, quello del
suo Re, precisamente.
La camera del francese
fu presa d’assalto e
Michela entrò armata con quattro uomini armati. La camera
era vuota, ad
eccezione di un cellulare lasciato sul letto.
Michela
lo prese con la mano inguantata e vi urlò -Ancora questo
trucco del cazzo
fai?-.
-Non
è un trucco è il mio biglietto da visita- Rispose
dall’altra parte una voce
maschile senza nessun accento francese ma con un chiaro italiano,
piemontese
per essere specifici.
-Terrorista
ricchione del cazzo. Dove è il dipinto?!- domandò
la poliziotta mentre faceva
segno ai suoi sottoposti di rintracciare il cellulare.
-Ben
nascosto-, fu la risposta laconica dell’uomo.
-Scatenerai
la tua amata guerra-
-No.
Hanno accettato quell’assurdo ultimatum. Ne abbiamo persa di
dignità come
nazione-
-Voi
non siete una nazione- rispose pronta la donna.
-Se
per questo neanche la repubblica Magna! L’Italia è
una nazione. Quest’assurda
divisione ci costerà cara e spero che quando lo capirai tu
abbia un piano
d’emergenza- dichiarò l’uomo
dall’altro capo del telefono.
-Te
lo sogni. Ti catturerò e ti sparerò con la mia
stessa pistola. Alberto
Giordano!-.
Michela
non ottenne nessuna risposta, la telefonata era finita e non era stato
possibile rintracciare il cellulare.
Varese,
20 maggio 2013
12.30 P.M.
Amir
non fu licenziato. Stranamente il direttore era stato comprensivo,
oppure aveva
lasciato il compito di perseguitarlo ai membri del personale. Tutti
ormai
prendevano in giro l’ingenuità del povero Amir.
Per lui lavorare era diventato
un inferno. Rientrando a casa l’inserviente si
maledì ancora una volta per aver
creduto a quel finto rispetto che gli aveva riservato il criminale
francese,
anzi piemontese alla fine si era informato su tutto
l’accaduto.
Alberto
Giordano era il criminale più ricercato
dell’intera penisola,
sebbene lui si dichiarasse di essere un ladro gentiluomo era stato
catalogato
come terrorista. Il ladro, infatti, aveva fatto scattare più
volte tensioni tra
le due parti del territorio, manomettendo gli scambi interculturali
rubando da
una parte all’altra ma grazie all’azione
diplomatica si era sempre riuscito ad
evitare il peggio. Poiché il regno Padano non aveva le forze
militare
sufficienti per contrastare la Repubblica Magna, anche se Alberto
Giordano
fosse stato catturato nelle proprie terre, sarebbe stato condannato
dalla
repubblica Magna. Il che voleva dire la morte e Amir lo
sperò che lo
catturassero presto, avrebbe ottenuto un minimo di giustizia.
Amir
aprì la porta di casa con questi pensieri nella testa e si
paralizzò
nel vedere qualcuno seduto sul suo letto.
-Buongiorno-
disse quel qualcuno. Amir riconobbe immediatamente quella voce, anche
se priva
di accento francese.
-Stronzo!-
urlò l’inserviente lanciandosi contro
l’uomo.
Dopo
aver incassato un paio di colpi Alberto, si difese.
-Mi
hai rovinato la vita!- continuò l’inserviente ma
Alberto riuscì a scansare i
colpi e a mettersi a distanza da Amir.
-Tu
stesso mi hai detto che odiavi lavorare lì!- gli disse il
criminale calmo, riuscendo
a far sfumare momentaneamente l’ira del ragazzo.
Amir
ripensò a quel famoso pranzo: aveva veramente detto qualcosa
del genere?
-Cosa
vuoi?- domandò arrabbiato Amir, la sua voglia di colpirlo
era passata … adesso
c’era la curiosità.
-Pagarti
i danni- disse il criminale porgendogli un assegno.
-70.000
euro possono bastare per dimenticare l’orribile esperienza
con Michela?-
domandò Alberto.
L’inserviente
toccò titubante l’assegno e poi ritirò
la mano.
-Sono
soldi rubati-
Alberto
sorrise come se si aspettasse quella risposta e spiegò
-Questi no, fanno parte
di un’eredità che ho ricevuto anni addietro-. Amir
lo guardò scettico e si rese
conto di osservarne per la prima volta il suo vero aspetto. Era un uomo
sulla
quarantina, con occhi verdi e capelli castani e dal sorriso beffardo.
Gli occhi
tuttavia conservavano la stessa espressività e
determinazione dell’alter ego
francese.
-Con
70.000 euro potrai tornare a studiare e andare all’estero. Te
lo consiglio.
Scoppierà una guerra prima o poi qui perché non
mi fermerò finché non riuscirò
a riunificare questo pezzo di terra- concluse Alberto lasciando
l’assegno sul
letto e uscendo dalla finestra della camera.
Amir
non ebbe nemmeno il tempo di replicare … il ladro era
già uscito dalla sua vita
con la stessa velocità con cui era entrato.
Non
lo rivide mai più, se non sugli articoli dei giornali.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
capitolo 2
Pregiudizi criminali
Capitolo
2
Città del nord, 22 maggio 2013
10.00 P.M.
Alberto
guardava critico il dipinto che aveva appeso nella camera della figlioccia
Giuditta, assieme a lei,anche il più distratto degli osservatori
avrebbe capito che i due non avevano nessuna parentela : Giuditta era una
giovane ragazza quindicenne dai grandi occhi scuri e obliqui e il suo viso era
caratterizzato da chiari lineamenti del sud est asiatico mentre la fisionomia
di Alberto era tipicamente europea, eppure i due si somigliavano molto negli
atteggiamenti, ad esempio condividevano lo stesso modo di appoggiare il peso
sul piede destro quando pensavano a qualcosa
come in quel momento.
-Mi
dispiace ma un Salvator Rosa non si abbina a questa stanza- dichiarò la
ragazza.
Alberto
annuì distratto continuando a fissare il dipinto con intensità mentre Giuditta
continuò la sua affermazione - È pacchiano- e, questa volta, Alberto decise di
rispondere a tono- Salvator Rosa non è mai pacchiano-.
-Che
ne facciamo?- domandò Giuditta seriamente mentre Alberto le rivolse uno sguardo
sbarazzino e le domandò – Intendi … come facciamo a tenerlo? Bene, spostiamo i
tuoi libri porno-harmony da qualche altra parte e nella tua libreria mettiamo
una bella collezione di libri classici: così adattiamo l’ambiente al dipinto-.
Giuditta
arrossì violentemente e alzando un po’ troppo la voce dichiarò- Non leggo libri
porno-.
-Ma
certo che lo fai. Alla tua età avevo le riviste e le ragazzine hanno i
racconti. E’ normale-.
Giuditta
iniziò a negare e poi si difese definendo quello che leggeva come storie
d’amore a basso impegno intellettuale e Alberto rise di quell’aggressiva difesa
di Giuditta.
-Sarebbe
molto più facile se tu fossi un comune ladro. Potresti venderlo a qualche
riccone arabo! O un imprenditore asiatico- dichiarò Giuditta cambiando
repentinamente argomento.
-Sai
che è impossibile- disse Alberto assumendo un’espressione pensierosa.
-Rimandalo
indietro! Come al solito!Qual è il problema?- domandò la ragazza, la quale
aveva capito che la preoccupazione del padrino era ben maggiore di vendere o
tenere il dipinto e, infatti, Alberto si avvicinò al Salvator Rosa e sfiorando
delicatamente la cornice, infilò le mani sotto di esso sollevandolo, pronto a
trasportarlo da qualche altra parte.
-Non
è efficace Giuditta. Non sto ottenendo nulla-.
-Aumenti
il tuo rapporto di stima e affetto con la Michela scherzò a disagio Giuditta e
poi ,rendendosi conto dell’errore grammaticale, si corresse imbarazzata- Con
Michela-.
L’uomo
le sorrise debolmente mentre riportava il dipinto nel suo studio, Giuditta lo
seguì docilmente e poté scorgere la cassaforte aperta del dipinto: era costata
due giorni di lavoro, la Repubblica
Magna aveva un'ottima industria della sicurezza.
Quando
Alberto uscì dallo studio, guardò l’orario sul suo orologio da polso e ordinò
alla ragazza di andare a letto.
-Ma
sono solo le dieci e mezza- protestò Giuditta.
-Se
non dormi a sufficienza diventi brutta, non lo sai?- scherzò Alberto, - Domani
c’è scuola e devi essere riposata-
Giuditta
iniziò a protestare- Ci sono dei ragazzi a scuola che vanno con gli occhi gonfi
di sonno o chissà altro!-.
Alberto
alzò le spalle- Allora non ti mostrerò come ho aperto la cassaforte-.
A quella semplice affermazione, improvvisamente, la ragazza dichiarò d’aver
sonno: Giuditta non faceva i capricci perché era infantile, la verità era ben
peggiore le piaceva far polemica!Perciò Alberto la trattava sempre duramente,
perché se non lo fosse stato, chi lo sarebbe stato? La scuola, la
società? In un mondo ideale sì, ma nella realtà l’Educazione spettava ai
genitori e paradossalmente, pur essendo un ladro, Alberto aveva ben insegnato
il comportamento civile a Giuditta.
-Posso
sapere per lo meno, dove vai?- chiese la ragazza che apparve poco dopo
struccata e con enorme pigiama a strisce verdi (era del suo patrigno ma glie
l’aveva soffiato perché era più caldo dei suoi).
-Da
qualche mio amante- rispose serafico Alberto, mentre sul viso di Giuditta passò
un’espressione di chiara indignazione.
-Uomini
… anche se gay, siete poco seri-. Alberto le sorrise, con quel sorriso beffardo
che era il suo simbolo, e mentre giocherellava con le chiavi dell’auto, le
augurò la buona notte con un bacio sulla fronte.
Prima di uscire Alberto si era ovviamente camuffato nel suo alter ego Renzo
Rossi, un bell’uomo dai baffi, occhi scuri e con dei simpatici occhiali da
vista: Renzo Rossi era uno degli alter ego di Alberto ma era quello più
importante, era quello che gli permetteva di avere una vita da civile e
soprattutto la custodia di Giuditta. Nonostante che da
anni sia la polizia del Regno Padano e sia quella della Repubblica Magna erano
sulle sue tracce, nessuno aveva scoperto quell’alterego. Al garage l’uomo
mise in moto la sua automobile, pronto a mettersi in marcia pur non sapendo la
sua destinazione: non sarebbe stata un'idea malvagia chiamare effettivamente
qualche suo amante ma in quel momento non aveva nessuna voglia di relazionarsi
con qualcuno e per cui decise di andare al cinema.
Era da qualche tempo che non ci andava e sapeva che nelle sale stavano
proiettando un film storico che era stato acclamato sia dalla critica sia dal
pubblico. Alberto normalmente evitava di guardare i film storici, le sue
conoscenze lo rendeva uno spettatore difficile: la più piccola incongruenza
storica provocava in lui repulsione e disprezzo eppure decise di fare un
tentativo e uscì dal cinema inaspettatamente contento e ispirato.
Il film
parlava della guerra di successione americana e l’idea di unire uno stato
tramite una guerra era un argomento che toccava profondamente Alberto e si era
sentito stranamente nostalgico e ispirato dalle scene più belle del film girate
del Sud degli stati Uniti.
Sud... come l’Italia meridionale, il Mezzogiorno, e ora la Repubblica
Magna. Un territorio inospitale, non solo per lui, perché erano ben nove anni
che le frontiere fra il Regno Padano e Repubblica erano state chiuse. L’ultima
volta che era stato lì, era proprio alcuni mesi prima che chiudessero le
frontiere definitivamente e appena in tempo per sotterrare il suo mentore Lucia
Mazzoccolo. Alberto ricordava
ancora il traffico che aveva provocato il lungo corteo funebre del suo mentore
per la strada di Via stadera a Napoli e Lucia era stata sotterrata proprio nel
cimitero di Poggioreale. Era passato tanto tempo, troppo tempo ed era il
momento di andare a far visita al suo mentore.
Aeroporto di Malpensa 05 agosto
2013 05.15 P. M
- È
una pessima idea!- disse Giuditta, ancora una volta, mentre Alberto controllava
se i suoi documenti di viaggio erano in ordine.
-Giudi…
guarda com’è grande, l’aeroporto- rispose Alberto utilizzando il tono di voce
che usava quando la ragazza era più giovane, ma Giuditta spazientita gli tirò
via dalle mani i documenti.
-Giuditta…
- iniziò il rimprovero di Alberto per essere immediatamente interrotto.
-Papà
è una follia. Fammi venire almeno con te!- una sentita preoccupazione si
leggeva sul volto di Giuditta e Alberto sentì un moto d’affetto e tenerezza.
-Questo
sarebbe una follia. Gli stranieri non sono ben visti nella Repubblica Magna.
Non devo attirare l’attenzione -.
-Posso
usare una maschera!- Giuditta replicò- È più da folli fare un colpo nella tana
del lupo. Già ti vogliono ammazzare per la beffa del Salvator
Rosa e se ti scoprono, ti linceranno!-
Giuditta si riferiva a come Alberto avesse restituito il Salvator Rosa
alla fine: prima aveva rimandato la cornice e poi il dipinto era stato
ritrovato due settimane dopo, intatto, in una scatola nell’aeroporto di
Catania. I
repubblicani non l’avevano presa bene, sulla testa di Alberto erano aumentati i
mandati di cattura e poco ci mancava che mettessero un annuncio con la scritta
“ Vivo o Morto” come in un film di Sergio Leone. Alberto aveva
deciso d’infliggere una vera e propria umiliazione alla Repubblica: se ci fosse
riuscito, avrebbe potuto iniziare la guerra.
-Me la caverò. Approfitta
della mia assenza per fare delle feste favolose in casa- scherzò ma la ragazza
distrutta aveva abbassato lo sguardo e Alberto la cinse tra le sue braccia e le
disse dolcemente che sarebbe andato tutto nel verso giusto.
Giuditta aveva rialzato
la testa e con aria minacciosa dichiarò - Se ti succede qualcosa, vado giù e
scateno il 48!- usando un modo di dire assai popolare in passato, di cui era
stato proibito l’uso dopo la separazione, Alberto le accarezzò il viso come
ultimo saluto e poi si avviò al suo gate.
Roma, Palazzo del ministero dell'Interno della Repubblica Magna
05 agosto 2013 10.00 P. M
Michela Neri non aveva
paura e ,se l’avesse avuta il suo viso sarebbe rimasto inespressivo, però in
quel momento era un altro sentimento a essere in carica, l'irritazione: secondo
il suo parere il Ministro dell’Interno la stava facendo aspettare troppo. La
donna annoiata provò ad ammazzare il tempo studiando gli interni
dell’anticamera del Palazzo del Viminale ripetendo mentalmente la storia di
quell’edificio: un tempo era stato usato per il medesimo scopo dalla Repubblica
Italiana. Quando era avvenuta la scissione, la nuova politica pragmatica della
Repubblica Magna aveva optato di tenere i ruoli intatti delle sedi. L'idea
generale era che la Repubblica non avrebbe dimostrato la sua potenza spostando
qua e là gli uffici, già la rinnovata instaurazione di Roma come capitale era
un motivo di vanto per i Repubblicani poiché il Regno Lombardo si era dovuto
accontentare della meno antica e gloriosa Milano, per ragioni economiche a
discapito di città più antiche come Torino ad esempio.
Il palazzo del Vinimale era grandioso: i pavimenti di marmo e bellissime
murature riflettevano la luce del sole espandendola nell’edificio, come se
quest’ultima fosse attirata da un misterioso compagno. Michela non era
assolutamente toccata da quel gioco di luce, era insensibile a tutto ciò che
considerava superfluo. Mentre guardava, impassibile quei giochi di luce fu
annunciata dalla guardia-porte e poté finalmente entrare nell’ufficio del
Ministro e, quando entrò, non fu catturata dalla bellezza dell’ambiente ma
dagli sguardi delle persone in cui vi erano all'interno: il Ministro era in
compagnia del Generale. Il politico era un uomo dall’aspetto
giovanile, aveva dei limpidi occhi che gli donavano più l'aspetto di un artista
che quello di un uomo di potere, il viso era così fine che neanche i folti
baffi riuscivano a renderlo più adulto. Il Generale, dall'altra parte, era un
uomo cinquantenne dal viso virile e dalla splendida forma fisica, coerente alla
sua storia personale: siciliano di nascita, aveva studiato dall'accademia
Nautica di Napoli. Gli occhi del Generale erano così scuri da sembrare neri e
per questo motivo era molto difficile capire dove il suo sguardo impenetrabile
si dirigesse e, come accadeva ogni volta lo incrociava Michela riusciva a
provare l'indegno sentimento della preoccupazione, paura mai.
Michela notò che sia
Il Generale e sia il Ministro apparivano stanchi e ansiosi mentre li salutò militarmente
com’era di uso nella Repubblica.
-Benvenuta, Primo
maresciallo Neri- le disse cordialmente il Ministro ricambiando il saluto in un
modo frettoloso mentre il Generale ricambiò senza dire una parola, la donna
rimase in posizione d'attesa aspettando istruzioni.
-Il suo amico Alberto
Giordano ha annunciato il prossimo furto, immagino che lo sappia- chiese
retoricamente il Ministro.
-Sì, signore. Il ladro ha
avvisato che farà un colpo nel Museo di Capodimonte a Napoli. Ma, se permette,
non c’è molto da preoccuparsi-.
Il Ministro cambiò
espressione e commentò severamente- Come può a dire che non c’è molto da
preoccuparsi?Tutti i suoi furti sono riusciti: che cosa le fa pensare che non
possa costituire una minaccia per la bella e fortificata Napoli?-.Michela, per
nulla turbata dal cambio di tono del ministro, mantenne la sua posizione e
commentò sicura – Il biglietto diceva che avrebbe rubato ciò che è di più raro
e prezioso. In un museo in cui c’è un’intera galleria dedicata a oggetti rari,
non vuol dire nulla o tutto. La data del colpo coincide con l’arrivo di alcune
opere del Canova e questo potrebbe far supporre che l’obiettivo possa essere
tra quelle ma non lo è e credo che sia più importante setacciare la città
perché lui deve essere già nella Repubblica-.
-Impossibile!- disse il
Ministro risentito e cercò uno sguardo d’intesa nel Generale, il quale rimase
invece impassibile continuando a studiare il maresciallo.
Neri continuò, senza far
caso volutamente alla negazione - Alberto Giordano ha bisogno d’informazioni
per organizzarsi in un posto sconosciuto: ha mandato quel biglietto per
agitarci e per studiare l'organizzazione della difesa del museo così da vederne
i difetti e se daremmo più importanza alla mostra di Canova o al museo in
generale-.
- Quale crede sia il suo
obiettivo?- domandò il Generale con vivo interesse mentre il Ministro fissava
il Maresciallo con un’espressione mista a scetticismo e incredulità.
-Non è il Canova,
Generale. La statua più famosa esposta è alta circa tre metri e mezzo. È un
professionista ma non ha un complice, una statua così alta è impossibile da
rubare da soli. Penso, per quanto assurdo, che neanche lui sappia cosa rubare e
per questo il suo avviso è così generale. È solo, in una città sconosciuta e ha
bisogno di tempo per organizzarsi infatti il colpo è stato annunciato per il
prossimo mese. Possiamo provare a fortificare il museo ma ho un altro piano:
dobbiamo scoprire la sua identità e incastrarlo. Venire qua è stato un vero
azzardo e questo gli costerà caro-.
L’espressione del
Generale divenne confusa, - La sua identità è Alberto Giordano, che cosa
intende per identità?-.
-L’identità che usa per
vivere da civile, deve averne una e direi che la considera molto preziosa: non
improbabile pensare che possa avere una vita parallela con dei solidi affetti-,
spiegò Neri mentre i due uomini la guardavano interessati ma anche forse
preoccupati dal chiaro risentimento di Neri nei confronti di Giordano, ma il
maresciallo ignorò quelle espressioni per tornare a parlare del suo piano.
-Giordano ha molti alter
ego, di solito li usa una sola volta per fare i colpi, delle sorti d’identità
usa e getta che sono inutili da rintracciare. Ho deciso di trovare il suo alter
ego da civile e trovare che cosa difende così strenuamente per metterlo in
ginocchio-.
Il Generale domandò
scetticamente, - Se fosse vero ciò che dice sarebbe molto strano che la polizia
del Regno Padano non sia mai riuscita a trovare il suo alter ego da civile. Che
cosa le fa credere che lei e i suoi uomini possano trovarlo?-.
La donna disse senza
mezzi termini- Perché siamo migliori e pronti a sporcarci le mani-.
Il Ministro guardò il Maresciallo scioccato, chi diamine credeva di essere
da potersi permettere un atteggiamento così arrogante con un suo diretto
superiore e nientedimeno con il capo della nazione che entrambi servivano? I
pensieri dell’uomo furono interrotti da un piccolo applauso del Generale e solo quel rumore
si sentì nella sala, il ministro era rimasto scioccato e in silenzio, basito da
quel gesto.
- Maresciallo Neri,
conosco i suoi meriti … ha catturato moltissimi criminali nazionali e
internazionali: immagino che possa sentirsi orgogliosa, ma Giordano è sempre
stato la sua disfatta: non dovrebbe avere un atteggiamento così arrogante-.
Michela Neri rimase nella
sua posizione ad ascoltare quella dichiarazione e immaginando il resto.
-Lei però ostenta una
grande sicurezza e per cui possiamo anche aumentare la posta in gioco-, il viso
del Generale divenne malizioso, non la malizia comune ai maschi che Neri ben
conosceva e tanto odiava.
-Se catturerà Alberto
Giordano lei diventerà Tenente-.
Il Ministro si turbò a
tale affermazione che quasi obiettò, ma il Generale lo bloccò e il Ministro
indietreggiò di qualche passo conciliante, il Generale aveva pieno potere su
tutti e chiunque nella Repubblica Magna, Michela invece rimase inespressiva
sentendo la sua l’ansia crescere …
-Se invece non catturerà
Giordano sarà degradata a … - il Generale prese volutamente tempo osservando
bene il Maresciallo per vederne le reazioni- Sergente maggiore. Siamo
d’accordo?-.
Non era una domanda, era
un ordine e Michela lo percepì e rispose- Affermativo, signore-. Il ministro guardò
il Generale e poi il Maresciallo, incapace di capire la strana alchimia e
tentativi di prevaricazione che avevano entrambi l'uno sull'altra.
-Ministro- il Generale
attirò la sua attenzione- Che tutto questo sia messo a verbale-ordinò
perentoriamente.
-Quanto a lei- disse
rivolgendosi a Michela- Può andare-.
Michela uscì con passi
decisi dalla stanza lasciando i due uomini soli,il Generale si sedette al posto
del ministro, costringendolo ad accomodarsi disagiatamente al lato opposto
della scrivania, sulla sedia più scomoda.
-Se ha delle domande, può
chiedermele-, chiarì il Generale mentre il ministro lo guardava confuso e
intimorito, il Generale si trattene a sbuffare, non capiva perché tutti i
ministri avevano paura di lui … preferiva a questo punto una persona come il
primo maresciallo: la sua arroganza era meno disturbante della codardia.
-Si fida del
Maresciallo?-
- È in gamba e la posta
in gioco è alta, non solamente per lei: la credibilità della Repubblica è in
pericolo, se quel ladruncolo riesce a rubare a casa nostra sarà come ammettere
la nostra incapacità e per riconquistare la nostra supremazia sulla penisola
saremmo costretti a dichiarare guerra al Regno. In pochissimo tempo ci
ritroveremmo l’UE e, se riesce a convincerlo, l’esercito ONU in casa. Se
facciamo però la guerra, quel Giordano avrà vinto: vuole riunificare la
penisola come fecero anni orsono gli americani tramite la Guerra di Successione
o i Prussiani con le terre germaniche -.
-Non è più il tempo di
guerre di questo tipo, Generale- obiettò il Ministro, per poi deglutire nervoso
agli acuti occhi del superiore.
- La guerra non cambia,
magari non si ridisegna una cartina geografica ma comunque controlleremo quelle
terre, le quali sono controllate dall’UE, che aspetta un nostro atto di forza
per denunciarci all’ONU. Noi non rispettiamo quelle ipocrite leggi che ha
l’Unione. Che cosa te ne fai della libertà se non puoi lavorare, essere
indipendente e dignitoso?-.
-Ma il Maresciallo,
signore, è … - iniziò il Ministro.
- … Una persona che non
crede nella Repubblica, ma è solo accecata dal suo desiderio di potere e
vendetta?Ho letto il suo profilo: da una persona del genere non può aspettarti
nulla che non sia per suo tornaconto, è fedele per calcolo, per questo più
facile da gestire. Non mi aspetterei da lei un tradimento o un’alleanza con
Giordano-. Il
Ministro fissò il Generale invidiandone la sicurezza: sembrava così certo, come
se considerasse il maresciallo Neri un pezzo di una scacchiera e che sapesse
quali mosse sfruttare per vincere quella partita in corso.
-Sì, signore- concordò
stancamente il Ministro sentendosi anche lui un pezzo di un gioco che non
conosceva.
Napoli, Cimitero di Poggioreale 11 agosto 2013 10.00
A. M
Alberto si era rasato i
capelli prima di andare a Napoli, sapeva che la maggior parte degli uomini
aveva quel tipo di acconciatura e rendeva sopportabile il caldo umido della
città. Stava camminando lungo le strade del cimitero di Poggioreale, alcune di
esse si legavano al tessuto urbano della città e per cui si doveva fare
attenzione alle automobili di passaggio.
Alberto rifletté, che dall’ultima volta che era stato lì, il cimitero non
era cambiato molto ma la città sì, era diventata fredda, efficiente e pronta a
opprimerti, aveva perso il carattere anarchico che la caratterizzava: Alberto
aveva notato che c’erano moltissimi militari in giro, soprattutto nelle
vicinanze delle Università dove se ne stavano lì con le loro divise nere e i
mitra imbracciati pronti a fermare qualsiasi indisciplina. Proprio in virtù
di questi cambiamenti, questa volta non aveva scelto come alterego l'identità di un
turista straniero ma aveva preferito fingere di essere un uomo proveniente
dall’Umbria in visita nella seconda città della Repubblica: i turisti oltre
confine erano benvenuti nello stato militare ma la popolazione locale non
avrebbe mai parlato apertamente della situazione interna con uno loro e Alberto
non era solo lì a fare il colpo, voleva raccogliere informazioni.
Quello che aveva visto e sentito non gli era piaciuto per niente e con
quei pensieri continuò a camminare, fino a quando trovò la sala in cui era
stata spostata la salma del suo mentore. Fin dai tempi della sua costruzione il
cimitero di Poggioreale era sempre stato sovrappopolato, per questo motivo i
morti erano trasportati molto velocemente dalla terra ai sarcofagi a muro per
guadagnare spazio.
Alberto avrebbe preferito trovarsi davanti a una lapide piuttosto che
salutare il suo mentore guardando scomodamente verso l’alto, ma, come le
avrebbe detto la stessa donna, “ Questo passa in convento”. Trovò il suo
sarcofago sopra altri tre e quando vide l’incisione “ Lucia Mazzoccolo nata 31
ottobre 1922 morta 2 giugno 2004” sentì un colpo a cuore. L’uomo si fece il
segno della croce e, assicurandosi che non ci fosse nessuno in ascolto, iniziò
a parlare a bassa voce.
-Ciao-, non ci ovviamente
nessuna risposta e Alberto continuò il suo monologo raccontandole di com’era
diventata la sua città, le disse dei soldati sempre presenti nei posti di
sapere e di circolazione d’idee (come le sedi universitarie, cinema, teatri) e
del clima angoscioso di prevaricazione che si avvertiva negli attimi di
silenzio.
All’apparenza tutto era diventato bello, pulito ma era chiaro che la
popolazione non avesse avuto nessun merito di quella trasformazione. La Repubblica era
efficiente, però la popolazione era stata ridotta a una chiara sottomissione di
un Signore: non era cambiato nulla, esistevano ancora il feudalismo nel cuore
del sud dell’Italia. La popolazione non era responsabile delle sue azioni e non
poteva lamentarsi delle azioni dei governanti che fornivano il lavoro per avere
sia il divertimento e il cibo, e la forca per punire chiunque si opponesse a
quella prigione dorata. La situazione poteva essere descritta come antico detto
popolare che recitava "Festa, farina e forca"
-Lucia … la ribellione,
la rabbia … hanno perso tutto. Sono consapevole che il nord non se la passa
meglio: appena la popolazione ha perso l’apparente superiorità si è chiusa in
se stessa ed è diventata ancora più individualista, ignora completamente il
significato di senso sociale.- sospirò Alberto.
-Forse non è una buona
idea unirla questa penisola, forse è veramente soltanto un’espressione
geografica-, commentò aspro mentre il
silenzio della cripta aumentava la sensazione di sconforto nel suo cuore,
sentiva la sua fede indebolirsi eppure ci credeva ancora in quella nazione e in
quel popolo che lui sentiva di appartenere.
-Farò un colpo al Museo
di Capodimonte. Quest’anno porteranno alcune opere del Canova da Roma, tra cui
l’Ercole e Lica della Galleria Nazionale d'Arte Moderna-, Alberto strinse le
spalle e commentò- M’interessava molto come opera, ma è troppo grande, circa
tre metri e mezzo-.
Sorrise al sarcofago, -
Probabilmente questo non ti avrebbe fermato però non ho più spazio in casa per
tenere delle opere d’inestimabile valore ad ammuffire e ormai il tuo negozio è
stato chiuso. Inoltre, se tornassi con
qualcos’altro, Giuditta mi ammazzerebbe: il suo caratteraccio peggiora ogni
anno che passa-. Sorridendo tentò di deporre nel vaso del sarcofago dei fiori
che aveva con sé, ma era troppo alto per lui, allora li lasciò a terra, facendo
il segno della croce, sussurrò- Addio-.
Alberto Giordano uscì con
le lacrime agli occhi in una città ostile.
Napoli, Bosco di Capodimonte 11 agosto 2013 11.00 A.
M.
Il museo di Capodimonte
si trovava nel maggior sito verde della città, il Bosco con l'ononimo nome e
quest’ultimo era un parco enorme per una città che era sempre immersa in un traffico
claustrofobico, esso comprendeva all’incirca 1.340 km² di vegetazione ed era
caratterizzato da grandi spazi aperti o piccoli boschetti adatti agli
imboscamenti delle coppie.
Alberto sentiva l’aria fresca arrivargli ai polmoni mentre camminava, era
già la seconda volta che veniva lì ma rimaneva entusiasta da quel vento
rinfrescante e da quella sensazione di calma assoluta nonostante la presenza
numerosa di persone: il parco era un ritrovo per turisti, studenti, che avevano
saltato la scuola, coppiette. Il ladro era lì per dare un senso visivo allo
studio dell’intero perimetro, studiato in precedenza nell’eventualità che
dovesse fuggire attraverso il bosco che, data la sua estensione, sarebbe stata
un’ottima alternativa per far perdere le proprie tracce, ad eccezione nei
grandi spaziali verdi e aperti: in quelli Alberto sarebbe stato un facile
bersaglio per una sparatoria.
L’uomo si sedette sotto una palma, che gli permetteva di studiare
comodamente l’entrata del museo respirando il suo profumo dolciastro.Il museo
di Capodimonte era immerso nel verde perché originariamente avrebbe dovuto
essere una cascina da caccia, ma quando il re Carlo Borbone ottenne la preziosa
Collezione Farnese, decise che la cascina sarebbe diventata un museo per
ospitarla e fu esposta la prima volta nel 1757.
La Collezione era stata ideata dal papa Paolo III, della famiglia laziale
Farnese, ed era composta di dipinti appartenenti al movimento del Rinascimento
emiliano e romano e da pitture fiamminghe raccolte nelle città di Parma e Roma. Non era ovviamente
l’unica collezione esposta al museo: la collezione dei Borgia, la galleria
d’arte napoletana e quella dell’ottocento avevano la possibilità di essere
apprezzate dal pubblico. Dopo aver riposato ed essersi dissetato sotto
la palma, Alberto decise che era il momento di visitare il museo.
Napoli, Museo di Capodimonte 11 agosto 2013 11.20 A. M
Il museo di Capodimonte
era una struttura a tre piani, appariva dall’alto come un grosso rettangolo con
tre insenature quadrate, il resto del perimetro creava lo spazio reale delle
sale. Il piano terra del Museo ospitava il gabinetto dei disegni e delle stampe
di vari artisti, manifesti e una parte della sezione dell’Ottocento: era
probabilmente uno dei piani meno apprezzati dai turisti, assieme a quello
dedicato all’arte moderna al terzo piano, nonostante che l'esposizione vantasse
anche dei disegni di autori come Carracci, Tintoretto e perfino di quelli
monumentali di Michelangelo e Raffaello. Alberto sapeva che gli schizzi
normalmente non riuscivano ad appassionare il pubblico, forse in parte convinto
dal luogo comune che un artista iniziasse il suo lavoro senza nessuna fase
preparatoria: generalmente qualcuno si fermava per buona educazione a quelli di
Michelangelo o Raffaello,ma non avrebbe dedicato più di mezz'ora a quella
collezione di duemilacinquecento fogli e venticinquemila stampe.
Le sale di quel piano erano spesso viste di sfuggita quasi come ci fosse
una maledizione, ad eccezione delle volte che ospitavano qualche mostra di
opere esterne, come il caso della mostra del Canova: in quel caso il piano era
stranamente pieno di visitatori. Alberto camminò a passo spedito in quelle
sale, soffermandosi soltanto a qualche disegno che attirava la sua attenzione o
curiosità,ma fu felice di poter salire al primo piano, che era sicuramente il
più ammirato.
Ospitava la collezione Farnese, gli appartamenti reali e la galleria delle
collezioni rare: Alberto decise di visitare il museo passando per gli
appartamenti reali, i quali erano stati tutti restaurati e permettevano di
rivivere pienamente la sensazione della vita della corte settecentesca
napoletana.
La sala da ballo era il più famoso e apprezzato locale di quei
appartamenti: aveva le pareti di colore azzurro e grandi motivi barocchi, il
pavimento di marmo ocra e bianco risplendeva nel suo motivo geometrico e le
grosse finestre avevano un tendaggio color crema, una sfumatura che dava alla
sala quel tocco di spensieratezza che ci aspettava dalla sua funzione. Nella
sala Alberto vide due ragazzine ballare nei modi più disparati lungo tutto lo
spazio, sorrise pensando Giuditta a casa intenta a fare chissà cosa, ma il
divertimento delle ragazzine durò poco: appena si avvicinarono troppo al
cordone che indicava la parte della sala non visitabile, una delle guardie le
sgridò pesantemente e, le due, rosse di vergogna, scapparono immediatamente nel
corridoio successivo.
La guardia esagitata tornò dal suo compagno tutto baldanzoso, come se
avesse fermato chissà quale crimine in corso, ma non ottenne dall’altro i
meriti che si aspettava, infatti, quest’ultimo lo guardò con un’aria di
sufficienza costringendolo a chinare la testa sconfitto. Alberto finse di mettere a fuoco la sala e li
fotografò: aveva osservato che in ogni sala c’era una coppia di guardie, una
più giovane e una più vecchia ma le altre erano sembrate più affiatate tra
loro, era sempre un bene trovare eventuali anelli deboli nella sicurezza del
museo.
Alberto s’incamminò in un'altra sala famosa, il Salottino di porcellana e
corrispondeva al numero cinquantadue. Il Salottino di porcellana era stato
commissionato da Maria Amalia di Sassonia ed era un ambiente in stile Rococò
interamente rivestito da lastre di porcellana bianca decorate ad altorilievo
con festoni e scenette ispirate al gusto orientale, in voga in quel periodo. Il
Salottino era famoso perché era stata una grande opera di manifattura della
Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte e rappresentava i contatti che
aveva il Regno napoletano con il lontano oriente, facendo presumerne la sua
potenza a quei tempi. Dopo aver dedicato qualche scatto al salotto, Alberto
iniziò a visitare la Collezione Farnese mentre avvicinandosi così sempre di più
al vero motivo della sua visita.
La collezione Farnese era molto vasta, i dipinti più famosi del primo
piano erano i seguenti: Danae e alcuni ritratti della famiglia Farnese di
Tiziano, la monumentale Crocifissione di Masaccio, il Trittico di Nicolò di
Tommaso, alcune tavole del Botticelli e la Trasfigurazione del Bellini. Il
dipinto di Tiziano “Danae” era uno dei preferiti di Alberto, si trovava nella
sala numero 11,non lontano dal suo vero obiettivo. Molte persone
ignoravano che il dipinto di Danae non era semplicemente una rappresentazione
dell’antico mito classico (in cui Giove invaghito di Danae, si trasformava in una pioggia
d’oro per penetrare nella stanza attraverso un pertugio nel tetto a
fecondarla). Il dipinto poteva essere considerato un ritratto erotico e anche
in certo senso satirico: la modella usata per Danae non era altro che una
favorita del cardinale e il suo viso era estremamente somigliante al soggetto
femminile di un altro dipinto “Fanciulla Farnese” (altra opera sempre esposta
nel museo) e la pioggia d’oro, tintinnante di monete, sembrava alludere alla
natura di cortigiana della donna. Alberto sorrise osservando il dipinto, in
tutti i secoli gli artisti avevano trovato sempre il modo di superare la
censura e talvolta anche di ridicolizzare chi gli dava da vivere.
Scattò qualche altra fotografia alle telecamere e silenziosamente si avviò
nella Galleria delle cose rare, che iniziava con la sala numero 13, essa
ospitava numerosi oggetti d’arte preziosi che probabilmente provenivano dalle
residenze private dei Farnesi e ,tra questi oggetti spiccava, il peculiare Cofanetto
Farnese.
Era in argento e rettangolare, le pareti erano impreziosite da
lapislazzuli, in cui erano incastrati sei ovali di cristallo di rocca, sopra
questi c’erano delle iscrizioni in latino e greco nominavano le scene
rappresentate lungo il cofanetto. Le gambe del monile erano dieci modiglioni
terminanti a zampa di leone e agli angoli vi erano quattro sfingi imponenti,
che sostenevano quattro statue della mitologia romana: Minerva, Marte, Diana e
Bacco. La forma del coperchio era di un frontone spezzato, fra le due parti si
ergeva una bella statuetta di Ercole seduto su uno scoglio brandendo una clava.
L’intero cimelio sembrava voler celebrare l’abilità dell’artigianato
dell’essere umano, era un pezzo raro e misterioso: il cofanetto non era mai
stato menzionato negli inventari del Palazzo Farnese e l’unica citazione della
sua esistenza era una menzione della Galleria Ducale di Parma nel 1708. Anche
l’uso era rimasto un mistero e gli studiosi presumevano che avesse lo scopo di
contenere libri, anzi che fosse stato realizzato per contenere il Libro d’Ore,
il più prezioso testo miniato posseduto dal Cardinale Alessandro.
Anche se non poteva toccarlo perché protetto da una tecca, Alberto già
pregustava la freddezza dell’argento nelle sue mani e la soddisfazione nel
rubare un oggetto così magnifico, raro e, soprattutto, che si trovava in uno
dei musei più prestigiosi della Repubblica. Fischiettando
Alberto scattò altre foto della sala e si avviò agli altri piani del museo per
studiare altre meravigliose opere, che avrebbero potuto essere un’interessante
scelta se avesse dovuto ricompiere nuovamente un furto in quel museo.
Al secondo piano erano presenti, nella cosiddetta “ Galleria Napoletana”,
dei dipinti dell'arte "caravaggesca" e i capolavori assoluti della
pittura napoletana che andavano dal XIII al XVIII secolo. Tra i dipinti più
noti c’era la Flagellazione di Cristo del Caravaggio. Era un dipinto di
notevole dimensione, rispetto alle antecedenti opere che l'artista aveva svolto
nel suo soggiorno napoletano, Caravaggio aveva dipinto una scena di tortura:
Gesù era tra due aguzzini, appoggiato a una colonna. Il dipinto era organizzato
proprio intorno a quella colonna su cui era legato Cristo e dove si disponevano
i due torturatori, uno dietro e l'altro sul lato. Il corpo di Cristo era
luminoso e sinuoso del suo dolore, tanto da contrastare i movimenti strozzati e
secchi di concentrazione dei suoi aguzzini: era un dipinto dove si avvertiva la
tensione fisica dei personaggi,soprattutto quella di Cristo torturato.
Alberto fissò un lungo attimo quel dipinto, affascinato dal gioco di luci
e contrasti domandandosi com’era possibile che, in una terra come l’Italia,
fossero nati dei geni di quel lignaggio. Era forse stato il senso di precarietà
divoratrice, esistente fin dai tempi della caduta dell’Impero Romano a far
nascere quei geni? Che continuavano a esistere in una terra così arida di
possibilità e opportunità? Lentamente Alberto ripose la sua macchina
fotografica nella custodia, come se fosse stato improvvisamente stanco … soltanto
lui soffriva per le sorti di quella terra?
Decise di visitare, senza impegno, anche il terzo piano del museo che
ospitava una galleria dell’ottocento napoletano, un'altra dedicata alla
fotografia e una sezione d'arte contemporanea: le opere più importanti erano
quelle dello scultore napoletano Vincenzo Gemito, morto tragicamente, con “‘O Pescatoriello” e di Andy Warhol, il fondatore e maggiore
esponente della Pop Art, con Vesuvius.
Il terzo piano subiva la stessa impopolarità del primo piano perché l’arte
moderna è sempre mal vista dalle persone comuni, considerata la morte dell’arte
e non la rappresentazione della propria generazione. Alberto non era
innamorato di quel genere, ma riusciva a riconoscere la follia che
rappresentava perfettamente il XXI secolo e per cui si concesse un po’ tempo
per ammirare quel piano così bistratto rimanendo affascinato dai colori scelti
per rappresentare il Vesuvio da Andy Warhol: erano eccentrici come lo era un
tempo quella città che il suo mentore aveva tanto amato. Alberto uscì
soddisfatto dal museo, ma non prima d'aver chiacchierato amorevolmente con la
commessa della biglietteria per ottenere più informazioni sull’attesissima
mostra di Canova.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Pregiudizi criminali
Capitolo 3
Gagliola, Quartiere Posillipo, Napoli 15 agosto 2013 07.00 A.M
La zona della Gagliola era l’angolo più strano della città di Napoli che si potesse visitare, era nascosta nei meandri del quartiere di Posillipo e sembrava un piccolo villaggio di mare celato in una grande città: quel luogo aveva qualcosa di nostalgico con le sue piccole casette basse e bianche e un' unica strada ,una grossa scala in pietra, che conduceva a una baia dal mare cristallino. Alberto ispirò forte l’aria sentendo l’odore salmastro del mare e guardò con simpatia un grosso gatto tigrato con una coda a tinta unita, che si dondolava al sole nei pressi di una casa con una porta blu, a ridosso delle scalinate. Il piemontese tentò d'avvicinarsi per accarezzare l'animale e questo lo guardò indispettito, quasi offeso da quella violazione della sua area personale, ma Alberto non demorse e continuò ad avvicinarsi finché il gatto s’ingobbiò sulle zampe e ringhiò minaccioso.
-Non è una buona idea stuzzicare Virgilio, all’improvviso si udì una voce e apparteneva al padrone di casa dalla porta blu: un uomo vicino ai sessanta, dal viso olivastro regolare e i capelli grigi ben curati, che indossava una semplice maglietta a mezze maniche e dei jeans scoloriti. Alberto gli sorrise e questo ricambiò invitandolo a entrare in casa e Virgilio sgattaiolò via evidentemente ancora più offeso.
-Lascialo stare, è viziato- dichiarò il proprietario del gatto e Alberto poté finalmente salutarlo come si deve.
-Signor Mauro de Santis… - iniziò a parlare nostalgicamente Alberto scoccando due baci in successione all'uomo, quest'ultimo lo istruì a chiamarlo solo Mauro e lo invitò a sedersi nel piccolo salottino di casa.
Non era una casa molto grande osservò Alberto: era un bilocale, spartano, luminoso e decisamente modesto per il valore attuale che possedeva.
-Mi piace questa zona di Napoli -, disse Alberto guardandosi attorno, come se fosse stato ancora fuori all’aperto- Ogni volta che la vedo, rimango colpito da quest’oasi peculiare: sembra di essere finiti in un piccolo villaggio di mare-.
-Già … peccato che una casa qui costa mezzo milione di dollari magna- disse caustico il signor Mauro e Alberto replicò -Considerò ciò come una lezione su come non giudicare un libro dalla copertina-.
-Può essere- affermò Mauro che prese dal tavolo del salotto un pacchetto di Marlboro e l’offrì con un gesto al suo ospite che rifiutò fermamente,con grande approvazione del primo.
-Fai bene. Sai che quella pazza di Lucia aveva cercato di farmi smettere quando siamo stati amanti?- domandò Mauro.
Alberto negò divertito con la testa, non aveva mai sentito questa storia dal suo mentore.
-Ovviamente non ci è riuscita. Lucia aveva ragione: l’unico modo di cambiare un uomo è dentro la culla o se è un babbeo... -.
Dopo una lunga e profonda occhiata ad Alberto, il Signor Mauro costatò con non poca ironia- Infatti è riuscita a cambiarti. Da saccente e disoccupato studioso di storia sei diventato uno dei criminali più ricercati al mondo-.
Alberto ridacchiò – Quindi Lucia è riuscita a cambiarmi perché ero giovane quando la incontrai o perché sono un babbeo?-
-A ventisei anni si è sia troppo giovani e sia troppo babbei-, rispose prontamente l’uomo più anziano mentre Alberto,seccato, alzò le spalle - Riuscirò mai ad avere l'ultima parola con te?- domandò leggermente irritato e Mauro ghignò vittorioso- No, piemontese. Quest’abilità è il miglior dono che Dio mi abbia mai fatto, se vorresti battermi in una conversazione, dovresti venderti l’anima al diavolo-.
-Non è un mio desiderio. In questo periodo ho già abbastanza diavoli per ogni capello che ho-. De Santis osservò i capelli rasati di Alberto - Con quei capelli qualcuno almeno l’avrai eliminato -.
Alberto non rise alla battuta, ma osservò l’altro che ispirò rumorosamente la sigaretta, appoggiò le braccia sulle ginocchia e domando con un tono di rimprovero, -Il museo di Capodimonte. Vuoi farti ammazzare!?- il suo acuto sguardo rendeva giustizia alla pericolosa situazione.
Alberto rimase calmo e con uno sguardo indifferente dichiarò di aver bisogno l'aiuto del vecchio amante di Lucia, i suoi occhi si spalancarono e l’uomo trattené il respiro per un attimo.
-Questa è bella! I tuoi colpi sono famosi proprio perché lavori da solo-.
-Qualche volta con un aiuto interno- specificò Alberto- Utilizzare come complice un ladro in prepensionamento è come utilizzare un fantasma: non si può parlare di complice-.
-Eppure dovresti sapere che non è un colpo interessante per me!-,tuonò Mauro e nervosamente spense la sigaretta, si alzò seccato dalla sedia e si aggirò per la stanza, lasciando un imbarazzato Alberto seduto.
-Vuoi ancora la tua adorata guerra?-,il volto di Mauro aveva un’espressione così seria che la sua pelle pareva si fosse trasformata in duro granito.
-Sai bene cosa voglio- disse docilmente Alberto preparandosi a un possibile rifiuto.
-L’unificazione... -,commentò sarcastico l’ex-ladro –Io sono tra quelli che sputano sulla vecchia bandiera a tre strisce-.
Un cipiglio di collera comparve sul volto di Alberto a sentire quelle parole, ma Mauro non parve voler venire incontro all'altro ladro e, infatti, gli ordinò -Non guardarmi così- si passò una mano tra i capelli, Mauro sembrava quasi esasperato da quell'argomento.
-Tu e Lucia l’avete sempre saputo che sono a favore della separazione. L’Italia meridionale ci è andata a guadagnare! Abbiamo dimostrato che l’unificazione del 1861 era stata una manna dal cielo solo per voi polentoni, che siete stati voi a distruggerci e ha costringerci alla fame, alla povertà e al beffeggio perenne-.
Mauro volse lo sguardo verso il vuoto ed emise un ringhio, un ricordo spiacevole aveva chiaramente occupato la sua mente.
-Terrone. Non mi sono mai sentito tale finché non stato al norde -.
Mauro rivolse il suo sguardo di dolorosa rabbia verso Alberto, - Non ho mai odiato tanto una parola-. Alberto fu costretto ad abbassare lo sguardo e delle infrenabili parole di scuse volevano uscire dalla sua bocca ma Mauro continuò a parlare.
-Ora non è più così, siamo più ricchi, più potenti e più efficienti di voi: le nostre vere doti sono uscite appena ci siamo liberati della piega dello stivale- la voce di Mauro era piena di orgoglio.
-Lo so- fu costretto ad ammettere sconfitto Alberto - So che la prima unificazione è stata un disastro e che l’Italia meridionale ha avuto dei vantaggi dalla separazione. Ma quanto durerà? Finché i potenti USA troveranno un modo di occupare il sud e l’UE allora troverà quello di occupare il nord. Allora ci mangeremmo le mani perché l’Italia tornerà a essere solo un’espressione geografica: non ci saranno più né la Repubblica Magna né il Regno Padano.-.Mauro si risedette ascoltando attentamente le parole di Alberto.
-L’unificazione che desidero è del tutto simile a quella avvenuta negli stati germanici nel 19° secolo: una totale sottomissione che con il tempo si è trasformata in unità. Voglio che la Repubblica Magna conquisti il Regno così avremmo una potente Repubblica militare che nessuno potrà sottomettere.
Mauro non disse nulla e Alberto si sporse verso di lui e parlò appassionatamente- Con questa separazione lo sai che siamo ridicoli e che nessuno prende sul serio entrambe le due parti. Il Regno padano sta lì a chiedere l’approvazione dell’Europa come un cane, mentre la Repubblica ha un’alleanza sempre in bilico con l’America. La vostra alleanza si basa su vostro petrolio e sugli accordi su di esso che evitano la concorrenza diretta con gli USA-. Questa volta Mauro guardò sbalordito Alberto e quest'ultimo rincarò la dose.
-So che potete utilizzarlo per uso interno, ma che non avete mai avuto il permesso dalle “ Sette Sorelle” di venderlo o formulare qualunque tipo d'accordo commerciale che non sia stato in precedenza approvato-.
-È un’informazione riservatissima … - commentò turbato Mauro-Mi sorprendo della tua capacità- e Alberto, soddisfatto da quelle parole, approfittò per continuare- ... Per tenervi questa alleanza avete dovuto far compromessi con l’America. Avete l’UE sul collo a causa della non considerazione dei diritti umani nella Repubblica:sarebbe già intervenuto l’ONU, se non fosse che in realtà l’ONU non è altro che l’America che tenete buona. Se malauguratamente saltasse quest’alleanza vi ritrovereste in guai seri-.
Mauro sorrideva teso, era rimasto piacevolmente colpito dall’acutezza di Alberto e lo lasciò continuare senza accennare a una qualunque tipo di obiezione.
- Se tutta l’Italia tornasse unita, come una repubblica meno rigida, potrebbe riavere l’appoggio dell’UE e non sarebbe costretta a cedere ai ricatti dell’America-.
Mauro si rialzò dalla sedia e porse la mano ad Alberto dicendogli, -Complimenti sei riuscito a battermi in una conversazione, senza venderti al diavolo-, Alberto ricambiò la stretta e commentò- Chi ti ha detto che non l’abbia fatto?-, contraddicendo ciò che aveva dichiarato poco prima. Il Signor Mauro scoppiò in una fragorosa risata e, appena ripeté parlare, commentò canzonatorio- Quanto onore, piemontese- e si sfregò energeticamente le mani e dichiarò- Ti aiuterò in onore di Lucia e perché forse mi hai convinto a non vederti come un tonto, ma prima un po’ di colazione è d’obbligo e poi parleremo della “faccenda”-.
Mauro finì tutta la sua discussione con un'altra espressiva stretta di mano e Alberto si sentì rasserenato di sapere di avere un alleato in quella città ostile. La colazione fu lauta e Alberto si convinse di essere ingrassato di un chilo soltanto con quella, ma quando sono offerte le specialità culinarie napoletane, sono difficili da rifiutare.
-Hai gradito?- domandò Mauro premuroso mentre Alberto riuscì appena a boccheggiare un sentito grazie, privo di qualsiasi eleganza e il padrone di casa soddisfatto preparò del caffè.
Mentre bevevano il caffè iniziarono a discutere della faccenda,Alberto gli espose tutto quello che aveva visto nel museo e che cosa gli interessava rubare, gli disse dei dubbi su un eventuale colpo e dei rischi di infiltrarsi come soldato.
-È una pessima idea. Non sono poliziotti, sono militari. Non si faranno mai fregare da un trucchetto del genere- aveva decretato il signor Mauro senza nessuna delicatezza- Non mi stupirebbe se ti facessero fare qualche rito militare per capire se sei un infiltrato-. Alberto concordò con l'ipotesi e iniziò a esporre anche i suoi dubbi su un eventuale colpo notturno.
-La sicurezza notturna … - iniziò il ladro piemontese-... è troppo sofisticata. Per questo l’ideale sarebbe fare il colpo proprio alla mattina della mostra, la sorveglianza sarà numerosa, ma almeno quei dannati sensori saranno programmati a essere meno sensibili, altrimenti con il pubblico vasto ,che ci sarà in sala, gli allarmi impazzirono per un non nulla-.
Mauro guardò l’altro dubbioso- Eppure la sorveglianza dei soldati ti dovrebbe fare più paura. Hai pensato di fare il colpo come quelli dell’urlo di Munch?-. Alberto cambiò posizione sulla sedia evidentemente infastidito dal pensiero- Entrare dentro armato e minacciare tutti ,come se fosse un furto della gioielleria? No, la mia reputazione ne risentirebbe e soprattutto, l’abbiamo già detto, le guardie del museo sono dei militari … non esiterebbero a far saltare il cervello a qualunque rapinatore-.
-Hanno il permesso d’avere il grilletto facile. Resta solo l'inganno ma la tua paura è di non riuscirci-.
-Soprattutto se c’è Michela Neri, sono sicuro che quell’arpia riesca ormai a percepire il mio odore come la bestia che è-, disse duramente Alberto.
Il signor Mauro non rispose, riprese da tavolinetto del suo salotto un’altra sigaretta e iniziò a fumare nuovamente, degli irregolari cerchi di fumo uscirono dalla sua bocca.
Alberto si alzò dalla sedia e si avvicinò alla finestra, da lì non c’era nessun bellissimo panorama, però udiva l’infrangersi delle onde del mare della baia appoggiando l’orecchio al vetro.
-E se … - iniziò assorto Mauro costringendo l’altro a voltarsi verso di lui.
-... se mettessimo in pericolo la gente in sala?- finì Mauro guardando Alberto con una strana espressione determinata ma dubbiosa allo stesso tempo -Cosa?- domandò Alberto confuso non riuscendo a capire.
- I soldati non sono forse obbligati a proteggere i civili prima di ogni altra cosa?- replicò Mauro, come se volesse in realtà affermare quello che diceva, e, a quelle parole ,Alberto si risedette ascoltando attentamente: forse stava riuscendo a intuire che cosa volesse suggerire l’amico.
-Se creassimo una condizione di pericolo tale, da costringere i soldati a tenere sotto controllo la folla, avremmo almeno un paio di minuti per rubare il tuo prezioso cofanetto-.
-Tipo una calamità naturale?- domandò Alberto.
-Niente di così difficile, magari un incendio che dici?-
Alberto rimase per un po’ in silenzio e poi parlò cautamente.
-Tra i pregiudizi che ho sentito sulla repubblica Magna, c'è ne uno che dice che siete tutti addestrati nel regime militare e quindi una folla di civili si comporterebbe sempre freddamente ed efficientemente-.
Mauro divertito fece una smorfia, -I civili sono civili, puoi addestrarli quanto vuoi ma la paura non è un’emozione che puoi eliminare. In una situazione di pericolo devono essere tenuti sotto controllo e sarò il compito di un paio di militari con il mitra.- Alberto sorrise sincero- L’idea mi piace ma è il momento di affinarla- ed entrambi uomini iniziarono a lavorare di buona lena.
Città del nord, 23 agosto 2013 4 PM
Giuditta si stava annoiando così tanto che avrebbe preferito essere a scuola a studiare le materie scolastiche che detestava di più, tutte ad eccezione della matematica. I suoi amici erano in vacanza mentre il suo patrigno era a Napoli a fare chissà cosa e non poteva nemmeno contattarlo perché le era sempre stato severamente proibito. Giuditta non comprendeva questa prudenza perché erano quasi cinque anni che viveva con Alberto, sotto le mentite spoglie di Renzo Rossi, e nessuno aveva mai sospettato di loro, come avrebbe potuto una semplice telefonata ammazza-tempo far saltare la loro copertura? La ragazza sbuffò e gironzolò per la casa vuota, non c’era nulla d’interessante da fare e dire che si era messa a curiosare nello studio del suo tutore! Fuori dalla finestra il sole illuminava la strada e faceva caldo, quel caldo afoso che era capace di abbattere anche un orso ma uscire per una passeggiata era una miglior prospettiva rispetto a quella di rimanere a oziare pigramente al chiuso.
Seppure annoiata anche dai gesti più semplici, la ragazza si vestì e uscì, aveva deciso di andare al lago per godersi la brezza e rimase lì per almeno un’ora a leggere uno dei suoi libri, che il patrigno aveva definito porno-harmony e forse non si sbagliava a definirli in quel modo ma Giuditta, fedele al suo genere, negava spesso con veemenza che ci fossero scene spinte in quello che leggeva. Quando ciò accadeva, il patrigno, con aria di sfida, ne prendeva uno e si metteva a decantare qualche parte osé e ,a quel punto, la ragazza specificava che i personaggi facevano l’amore ed era una cosa ben diversa da quello che si vedeva nei film porno: Giuditta amava avere sempre la risposta pronta.
Ci fu improvvisamente un colpo di brezza così forte che fece voltare le pagine del libro di Giuditta e la ragazza tentò di tenerle ferme con le dita guardandosi attorno, infastidita da quel cambiamento climatico indesiderato ma, ad un tratto, sentì freddo, diverso da quello che sentiva un corpo a un improvviso calo di temperatura ... qualcosa non andava
Giuditta si alzò guardandosi attorno attenta, uno degli insegnamenti più efficaci del suo patrigno era stato fidarsi sempre del proprio istinto. Alle donne è insegnato che basarsi sulle apparenze è negativo, ma a un uomo, invece, gli si concede di fidarsi delle proprie sensazioni: se un uomo e una donna incontrano per la prima volta qualcuno che al primo impatto non piace, l’uomo non concede il beneficio del dubbio e lo tiene lontano dalla sua vita, mentre la donna si costringe ad andare oltre le sue sensazioni e dare una possibilità a qualcuno che in futuro potrebbe farle del male.
Giuditta, fortunatamente, non era stata educata in quel modo e ascoltò le sue sensazioni e seguì il piano del patrigno: doveva raggiungere il rifugio della casa, dove vi era una stanza segreta per l’emergenza.
La ragazza s’incamminò con forzata tranquillità ma sentendosi vulnerabile e nervosa, iniziò a canticchiare sotto voce un vecchio inno, che se qualcuno l’avesse sentita sarebbe rimasto sconvolto che una ragazza così giovane lo conoscesse. Arrivò intatta a casa senza riuscire a rilassarsi, sentiva il suo cuore battere così forte d’aver la sensazione che si fosse bloccato in gola, non ebbe neanche il tempo di fare qualche passo dalla porta che sentì qualcuno bussare producendo dei rumori secchi e duri.
Giuditta trattenne il respiro e spiò attraverso lo spioncino, due uomini con la divisa verde del regno padano aspettavano fuori. La ragazza aprì la porta cautamente, lo spazio era appena sufficiente per intravedere la sua testa, e domandò ai due -Cosa succede signori agenti?-, le fu spiegato che stavano facendo il giro del quartiere per avvertire della presenza di un ladro travestito da poliziotto.
-Si ricordi signorina che noi della polizia agiamo sempre in coppia e questo è il nostro distintivo- dissero mostrando il loro ufficiale segno di riconoscimento: un uomo con lo spadone.
Cercando di rimanere calma e volendo, soprattutto, apparire non troppo sollevata Giuditta ringraziò i poliziotti della loro premura e chiuse la porta dietro di sé, ma ,improvvisamente, l'inconfondibile rumore del caricamento di una pistola si udì e Giuditta rimase pietrificata. C’era una donna davanti a lei, dalla bellezza sublime che ben conosceva perché tante volte l’aveva studiata in alcune foto con il patrigno, Michela Neri.
-Ciao Giuditta- disse la donna e la ragazzina non poté fare a meno di sorridere, era la prima volta che sentiva l’accento romanesco ed era divertente come quello che aveva sentito nei vecchi film italiani, però lo sguardo della donna le provocò un brivido di paura.
- Sei stata maledettamente brava- quasi sussurrò con un filo di voce Giuditta sincera, non aveva percepito la presenza di quella donna nella sua casa e s'insinuò immediatamente il dubbio che la visita pocanzi fosse parte di un buon piano congeniato da entrambe polizie.
Michela sorrise soddisfatta e, continuando a tenere la mira sulla ragazza, la invitò ad avvicinarsi, Giuditta, vulnerabile per la situazione, dové ubbidire e Michela iniziò a perquisirla: la giovane s’imbarazzò per il tocco così evasivo. Michela estrasse dalla giacca delle manette e legò i polsi della ragazza e Giuditta, a sentire quella strana e opprimente sensazione di freddo, manifestò il suo fastidio con gemito strozzato in gola. Gli occhi del Maresciallo divennero più freddi e la sua voce fu tagliente come un pezzo di vetro sulla fragile pelle umana- Abituati ragazzina-, Giuditta manifestò con un solo sguardo di disgusto tutto il disprezzo per quella donna, aveva ragione il suo patrigno a dire che era solo una bestia.
-Guarda che non mi ribello solo perché ho notato gli altri uomini nascosti della stanza-, dichiarò acida, mentre la bella Michela la guardava stupita, e incoraggiata da quell’espressione, la giovane continuò imprudentemente- Non mi fai mica paura!- . Lo schiaffo che Giuditta ricevette da Michela fu preciso e letale, era talmente forte che le bloccò il respiro per un attimo e poi si sentì essere strattonata per il colletto: il viso di Michela era vicinissimo e Giuditta poteva vedere i dettagli che non avrebbe mai potuto notare in foto, come l'affascinante riflesso argenteo negli occhi della donna.
-Vedo che hai la stessa lingua del tuo patrigno- Michela sorrideva ma la sua voce era asciutta e dura, -Ti farò passare la voglia di fare la spaccona- e così dicendo lasciò violentemente la presa sulla ragazza costringendola a indietreggiare su se stessa.
Michela continuò a tenere la pistola puntata su Giuditta, la quale vide degli uomini nascosti uscire dalle loro tane, come rassicurati dalla crudeltà del loro superiore. Quando li vide tutti, Giuditta confermò con orrore che era un complotto tra le due polizie perché erano presenti agenti con entrambe le divise. Ormai terrorizzata, la ragazzina domandò perché non le erano stati letti i suoi diritti, come aveva sempre visto fare nei film , e una risata agghiacciante uscì dalla carnosa bocca di Michela.
-Da questo momento sei sotto la giurisdizione della Repubblica Magna e noi non rispettiamo i trattati di Ginevra-. Gli occhi delle due donne s’incontrarono e, in quel momento, Giuditta capì che qualsiasi passo falso le avrebbe portato via la sua vita e probabilmente anche quella del patrigno.
Note dell'autrice
Dopo moltissimo tempo sono riusciuta a concludere questa storia, nelle prossime due settimane posterò ogni domenica i due capitoli finali. Ringrazio per la vostra pazienza, sto cercando di sistemare la formatazzione dei capitoli che se ne andata a farsi benedire appena ho utilizzato il programma NVU.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
senza formatazzione
Pregiudizi criminali
Capitolo 4
Napoli, Museo di Capodimonte 02 settembre 2013 09.00 A.M.
Il
museo di Capodimonte era illuminato da una meravigliosa luce autunnale,
la temperatura era calda e umida … l’arrivo del vero
freddo non avrebbe spaventato i napoletani fino alla metà
d’ottobre, Alberto sorrise a quella vista.
Questa volta
si era infiltrato nel museo nelle vesti di un semplice blogger, Ciro
D’aria, ed era pronto a scatenare l’inferno al comando di
Mauro, con cui comunicava tramite una trasmittente camuffata in un
apparecchio acustico, ciò non era l'unico aiuto ricevuto dal
ladro: Mauro negli scorsi mesi aveva lavorato come operario per
manutenzione della mostra a vantaggio di Alberto.
La mostra
era iniziata da mezz’ora ma c’era una folla che sembrava
infinita e aveva occupato tutto il piano terra del museo, i soldati
silenziosi controllavano la situazione mentre il direttore, che per
occasione aveva fornito la sua collaborazione come guida turistica,
stava radunando attorno a sé il gruppo delle persone interessate
a quel servizio.
La folla in
gran parte si radunò a una delle statue più celebri
dell’artista romano, Ercole e Lica, un enorme complesso
monumentale che rappresentava un episodio famoso del semidio: Ercole,
impazzito dal dolore procuratogli dalla tunica intrisa dal sangue
avvelenato del centauro Nesso, scaglia in aria il giovanissimo Lica,
che, ignaro, gliel'aveva consegnata su ordine di Deianira. Era
un’opera dal realismo potente che chiunque,nel vedere Ercole
afferrare il piede del povero Lica per scagliarlo in mare, si sentiva
dispiaciuto per il ragazzo e intimorito dalla forza del semidio:
Alberto guardò la statua con un’inquietante interesse,
aveva la consapevolezza che avrebbe potuto fare la fine di Lica.
Il direttore
del museo invitò il gruppo a seguirlo, docilmente Alberto si
accodò, esso attraversò le sale che Alberto aveva
studiato in precedenza e il ladro iniziò a scattare fotografie
per il suo “blog”. La mostra era apprezzata, tanto che
tutti i visitatori intessevano lusinghe al museo e il direttore era
soddisfatto dal successo, il suo umore era tale che, alla fine della
mostra del Canova, propose al gruppo di continuare la visita per le
altre sale e la folla accettò con entusiasmo, mentre Alberto
gettò un’occhiata nervosa alla coppia di soldati
dell’anticamera. La coppia era formata dal solito giovane e
veterano ed entrambi non sembravano contenti per il quel cambiamento di
programma, Alberto vide il più vecchio sussurrare qualcosa
all’orecchio del collega, il quale annuì e accennò
il saluto militare come per segno d’aver compreso.
In pochi minuti il giovane
soldato parlò al direttore e si unì al gruppo osservando
i presenti, senza accennare a un saluto e senza neanche sbattere, per
un attimo, le palpebre. A quella scena una goccia solitaria di sudore
scivolò al lato del viso di Alberto e quest'ultimo sentì
un brusio nell’orecchio -Il piano cambia?-, la voce di Mauro era
ridotta a un sussurro e Alberto cercò di sdrammatizzare, quel
soldato voleva soltanto dire che avrebbe avuto tre uomini alle calcagna
a tempo debito.
Mauro annuì preoccupato
mentre Alberto e il gruppo continuavano la loro visita al primo piano
seguendo l’ordine delle sale, il direttore continuava le sue
belle spiegazioni e il pubblico, come impazzito, continuava a scattare
foto a raffica al museo mentre il soldato si muoveva a distanza
tranquillo, come se fosse stato solo un visitatore più lento ed
era a poco meno di mezzo metro da Alberto.
Si
avvicinavano inesorabilmente alla sala 13, Alberto risentì un
brusio indistinto al suo orecchio e Mauro, chiaramente allarmato, gli
domandò -Sei sicuro di quello che fai? Quel tipo è troppo
vicino-. Alberto pensò che Mauro avesse ragione e iniziò
a studiare le persone davanti a sé per trovare un diversivo
finché la comitiva arrivò alla sala numero 13, a quel
punto il ladro piemontese disse sussurrò la parola in
codice “Russell Crowe” attraverso al suo auricolare.
Inconsapevole di quello che sarebbe successo da lì a poco, il
direttore, entusiasta del successo, continuava le sue spiegazioni e
nella sala numero 13 enfatizzò molto il mistero attorno gli
oggetti presenti, tra cui proprio quello del Cofanetto Farnese.
-... Questo cimelio possiamo
definirlo un oggetto-fantasma, è stato menzionato una sola volta
in un unico documento eppure, come potete vedere, esiste eccome, non
è un oggetto immaginario-
Un visitatore ne domando
l’uso e il direttore teatralmente rispose -Il suo scopo è
rimasto un mistero che speriamo un giorno di risolvere … -
Alberto
guardò in alto e un sottilissimo strato di fumo si stava
lentamente diffondendo con un movimento che assomigliava a una
pittoresca danza: andava come previsto e restava solo il soldato da
distrarre. Una vecchietta dalla maglia cobalto camminava a pochi passi
da lui, sorretta da un bastone del medesimo colore, una coincidenza che
forse faceva a caso suo.
-Non oserai farlo?-
domandò sbalordito Mauro mentre fissava incredulo la scena dal
suo PC, intuendo correttamente le intenzioni di Alberto.
-Lo faccio per l’Italia e
se siamo in queste condizioni, è colpa delle vecchie
generazioni- borbottò cinico Alberto e prese dalla sua giacca
una penna stilografica, la tenne vicina al petto e la puntò alla
base del bastone: una pallina minuscola uscì violentissima dalla
penna e colpì il bastone facendolo vacillare mentre, nel
frattempo, il fumo aveva raggiunto i dispositivi anti incendio.
L’anziana persa l’equilibro e cadde causando un momento di
confusione nell’intera sala, il soldato del gruppo si
avvicinò a soccorrerla e poi ,improvvisamente ,come si
risvegliasse il ruggito di mostro, gli antincendi iniziarono ad
annunciare violentemente la loro presenza.
Si
scatenò il panico, la gente iniziò a gridare e i soldati
in sala furono costretti a intervenire per calmarla persone mentre gli
antincendi cominciarono a benedire con la propria acqua stantia i
presenti.
Il soldato più anziano
cercò di calmare la folla con la classica frase- È tutto
sotto controllo- ma uno dei presenti obiettò,-Come fa a dirlo?
Questo fumo aumenta invece di diminuire!- e il soldato si guardò
attorno sbalordito, in pochi istanti e, non solo nella sala numero 13,
si era alzata una specie di nebbia che offuscava la vista e il soldato
intuì che qualcuno avesse utilizzato le caratteristiche del
ghiaccio secco per causare quell’effetto.
-Seguitemi e non
succederà nulla – ordinò mentre uno dei soldati
più giovani sentì un lievissimo fruscio in direzione
delle bacheche e, con il permesso tacito del superiore, corse a
controllare per scoprire con sgomento il cofanetto Farnese scomparso.
Nel panico
chiamò il superiore attraverso la trasmittente annunciando il
furto e fu incitato a iniziare subito le indagini perché il
ladro non poteva essere andato troppo lontano e il giovane soldato
riprese il suo sangue freddo cominciando a osservare l'ambiente,
dove poteva essere scappato il ladro? La nebbia che si era formata
offuscava la vista e il soldato decise di aprire le finestre, corse
verso la più grande e la spalancò sperando di poter
eliminare velocemente tutto quel denso fumo. La differenza di
temperatura tra quella interna del museo e quell’esterna era tale
che creò un potente risucchiò d'aria e liberò
l’ambiente, così da permettere al soldato di poter
osservare una presa d’aria, sopra la sua testa, abbastanza grande
da far passare un uomo di media corporatura.
Il soldato non sembrò convinto della scoperta per
l’ovvietà della scelta e non udiva nessun rumore estraneo,
ma decise comunque di comunicare quella pista al sistema centrale della
sicurezza del museo, nella speranza di poter controllare le condotte
dell’aria e di bloccare eventuali uscite eppure la risposta che
ricevé non fu quella sperata.
-Non possiamo, il protocollo dice che dobbiamo evacuare l’edificio in caso d’incendio-
-L’incendio è
fasullo, c’è stata una manomissione delle prese
d’aria per un furto- replicò il soldato duro e spazientito
-Mi dispiace ma la nostra
priorità è mettere a sicuro i civili in ogni caso-
replicò a sua volta il sistema centrale e il soldato scoraggiato
terminò la telefonata, si guardò attorno: il fumo
aveva creato confusione e le guardie erano state costrette a far
sloggiare i civili seguendo gli appositi percorsi, le uniche probabili
vie d’uscita osservabili erano le finestre ma ciò era
impossibile perché chiunque avrebbe notato un uomo arrampicarsi
sia sul lato esterno sia quello interno del cortile, eppure …
era l'unica possibile via di fuga, escludendo i condotti d'aria.
Il soldato si affacciò precipitosamente a entrambi lati
dell’edificio per controllare se ci fosse qualcuno chiamando i
suoi superiori e spiegò che il ladro probabilmente era riuscito
a fuggire semplicemente dalla finestra o ,forse, utilizzando i
condotti d'aria.
Mentre
succedeva tutto questo, il rumore degli allarmi distruggeva le orecchie
di Alberto che respirò profondamente creandosi un fugace attimo
di pace, poi indossò la maschera della sua tuta e si calò
dal lato del museo nascosto dall’ombra di un bel e fitto bosco.
La tuta che indossava l’aveva reso praticamente invisibile: era
un'innovazione militare, un capo formato da piccolissime fibre di vetro
che assumevano il colore dell'ambiente circostante e Alberto si era
trasformato in una macchia rossa,perfettamente camuffata, tra le tegole
del tetto del medesimo colore.
-Mauro, sei in posizione? – ,domandò e un brusio di riposta arrivò al suo orecchio.
-Distruggi la trasmittente- gli
ordinò- Saprai se sono vivo dai giornali- e detto ciò
distrusse nella mano il suo finto auricolare tenendo i resti per
sé.
Alberto scomparve nei boschi,
mentre Mauro travestito prendeva il suo ruolo come il blogger Ciro
D’aria che, insieme alla folla evacuata, sarebbe stato
interrogato e rilasciato per la mancanza di prove che l’avrebbe
reso pulito.
Città del nord, 08 settembre 2013 10.00 P.M.
Alberto, a costo di sentirsi un
po’ banale, era felice di essere tornato a casa tutto intero: gli
ultimi due giorni trascorsi erano stati pieni perché aveva
dovuto essere molto abile e scaltro per rientrare in patria.
Entrò in casa con il migliore degli umori ma, in un solo attimo,
tutto cambiò quando vide la sua casa messa a soqquadro e rimase
per un attimo fermo, sentendosi completamente violato e aggredito. Il
tappeto del corridoio era aggrovigliato su stesso come se fosse stato
trascinato dal passo di troppe persone incuranti e, sulla destra, dalla
porta della cucina faceva capolino una sedia rovesciata.
Alberto
richiuse gli occhi e respirò profondamente, quando li
riaprì non era più sbarrati dal terrore o dalla sorpresa,
erano penosi e afflitti e con grandi passi si diresse nella stanza
più importante della casa. Gli tremavano le mani mentre apriva
la camera della sua figliaccia e quando la trovò anche in essa
in disordine, si sentì angosciato nella profondità della
sua anima. L'odore penetrante di chiuso confermava dolorosamente le
paure di Alberto che aprì violentemente la finestra della
camera, cercando di scacciare quell’orribile odore di chiuso
insieme alla sua angoscia, mentre la rabbia offuscava lentamente lo
sguardo nei suoi occhi.
Lentamente
entrò nella cucina della sua casa, dove regnava il caos
più totale invece della tranquillità familiare, e dal
banco di lavoro prese il telefono, quello stesso telefono con cui
Giuditta avrebbe chiamato una pizzeria d’asporto, e compose il
numero del suo demonio personale - Dove è la mia Giudi?- disse
appena sentì di essere stato collegato, la sua voce sussurrante
tremava per la rabbia e sentì la sua odiata nemica ridere
silenziosamente.
-Non è mai carino
prendere il numero di una donna senza il suo permesso, dovresti
saperlo, nonostante tutto -, la voce di Michela non era mai stata
così dolce nei suoi confronti , Alberto la udiva picchiettare
ritmicamente con le dita su qualcosa e Alberto riusciva a immaginarla
con un’espressione trionfante.
-Mi complimento per la tua
capacità di scoprire l'ubicazione della mia casa... -
iniziò acido Alberto - Molto brava Michela ma dimmi dove
è?-
Michela, dall’altra parte
del telefonò, si alzò dalla sedia su cui era seduta e
sbatté la mano violentemente su un tavolo e disse con tono di
voce gentile ma fermo-La domanda giusta è che cosa voglio,
ladro-.
-Fammi parlare con lei- il tono
di Alberto assunse, senza volerlo, una sfumatura di autentica pena e
ormai chiaro che stava cedendo al peso della situazione.
-Le condizioni non sono a tuo
favore, ascoltami prima- ordinò perentoria la donna, un sorriso
di fredda soddisfazione comparve sulla sua bocca, e si ritrovò a
pensare che fosse un vero peccato a non aver lasciato delle telecamere
nella casa del ladro, avrebbe voluto tanto vedere spegnersi quel
sorriso ironico che l’aveva reso tanto famoso.
Alberto non provò neanche a replicare e
tacque un silenzio lungo e ricco di significato, che assumeva due
aspetti così diversi per le due persone coinvolte: la sconfitta
e la vittoria.
-Cosa vuoi?- domandò
Alberto avvilito e Michela ridacchiò, ben decisa a umiliarlo-
Non sono tua sorella, sono un ufficiale e come tale devi trattarmi-.
Alberto respirò a fondo, l’aveva sempre saputo che Michela
non fosse una rivale sportiva e che alla prima occasione si sarebbe
burlata di lui, era la dura legge dell’occhio per occhio a cui
credeva fermamente la donna.
-Maresciallo Neri che cosa
vuole in cambio di mia figlia?- la parola maresciallo si tinse del suo
disprezzo ma Michela non sembrò offendersi e infatti la sua voce
ritornò amabile, come era stata fin dall’inizio della
conversazione.
-Voglio tutto , tutto
ciò che io e miei uomini non abbiamo trovato: come avrai visto
ti abbiamo già anticipato del lavoro-
Alberto
gettò un'occhiata di disprezzo e irritazione a quel disordine,
che non aveva mai regnato sovrano in quella casa,e commentò
sarcasticamente -Avresti potuto far mettere ordine ai tuoi uomini, la
porta di casa non l'avete neanche scassinata-
-Quel dettaglio era parte del
progetto di farti avere un impatto più teatrale al tuo ritorno a
casa:certi cliché sono duri a morire- il divertimento di Michela
aumentava sempre di più,assieme alla frustrazione dell'uomo.
-Immagino che tu abbia ragione- commentò furioso Alberto, ormai esasperato- Che cosa altro vuoi?-
-Tra due giorni, alle undici
del mattino, consegnerai tutte le opere all’entrata della
città di Teano, una città che ho scelto in tuo onore, e
ovviamente vogliamo te: anzi io voglio te e dovresti sentirti onorato
perché difficilmente ho desiderato un uomo-.
-Sono talmente onorato che
piangerei- ogni minuto che passava metteva a dura prova il sangue
freddo di Alberto e il suo disgusto per quella donna aumentava.
-Posso parlare con la mia
figlioccia?- domandò infine con la voce piegata dall'angoscia ma
dall’altra parte del telefono si sentì un lungo e
prolungato silenzio e Alberto capì che quella era
l’ennesima vendetta della sua nemesi e abbassò il telefono
e pianse distrutto.
Teano, 10 settembre 2013 11 A.M.
Teano era un’antica
città che sorgeva sulle pendici del massiccio vulcanico di
Roccamonfina, nel territorio compreso tra la valle del fiume Savone e
quella del torrente Rio Messera, e le sue costruzioni in mattone
apparivano come parte delle insenature rocciose, l’intera
città appariva come una fortezza.
Un tempo era stata famosa per l'incontro
storico,avvenuto durante la seconda guerra d'indipendenza italiana, tra
il re piemontese Vittorio Emanuele e il generale Giuseppe Garibaldi,
dove quest' ultimo aveva consegnato metaforicamente e letteralmente il
Italia meridionale.
Il
maresciallo Neri era stata indubbiamente "amorevole"nella sua scelta:
la città apparteneva alla regione Campania ed era ben lontana
dal confine ma ad Alberto non importava fuggire,voleva salvare
sua figlia. L'incontro era stato fissato lungo la strada provinciale
della città, esattamente dove si trovava il cartello turistico
marrone che recitava "Teano", ed era stata bloccata per ragioni ignote
ai civili mentre gli attori di quel siparietto si preparavano a mettere
in scena uno spettacolo privato.
Alberto era
arrivato dal Nord con un anonimo e piccolo camioncino color bianco, a
denti stretti s’imponeva di stare calmo perché una sua
qualsiasi sciocchezza sarebbe costata la vita di Giuditta.Due jeep
militari lo attendevano e in ognuna c'erano almeno cinque uomini, in
quella che appariva come la più pretenziosa agli occhi di
Alberto era guidata da una Michela trionfante e, ovviamente, armata
come il resto dei suoi uomini. Alberto fermò la vettura a una
decina di metri dalle due jeep e non accennò a uscirne: non
vedeva Giuditta e fissò la sua nemica, la quale lo
osservò per un lungo attimo e ,intuendo il suo freddo diniego,
accennò un segno a uno dei suoi uomini che malamente tirò
fuori Giuditta dalla parte inferiore del posto del passeggero.
Ad Alberto mancò il
respiro alla scena, Giuditta era stata praticamente tra le gambe di un
uomo per tutto il viaggio, quanta umiliazione aveva dovuto subire
durante il suo rapimento? L'ira voleva divenire padrona della sua mente
e delle sue azioni ma tentò di calmarsi intuendo che Michela
cercava di fargli saltare i nervi.
La donna
scrutava il suo avversario e gli gesticolò di scendere ma
Alberto la fissò con durezza, prese dalla sua tasca un cellulare
e in attimo nell'abitacolo del Maresciallo si sentì una suoneria
penetrante e la donna rispose. La voce di Alberto fu veloce e
lapidaria, -Non mi muovo da qui, finché non mi portate
Giuditta-,il maresciallo poteva guardare l’uomo mentre le diceva
quelle parole, i suoi occhi erano due cerchi di fuoco e la mascella
rimase rigida mentre l'uomo parlava.
-Ti ricordo che io a detto le
regole -,Michela dichiarò quelle parole fingendo di guardare
verso il finestrino, sentì un lungo e rabbioso sospiro da parte
di Alberto, osservandolo poté vedere il suo viso pieno di
sconforto per un attimo, per poi riprendere nuovamente la sua fermezza.
- Non uscirò da qui
finché non sarò sicuro che rispetterai la tua parte
dell’accordo- la voce di Alberto era ferma e dura ma ebbe un
attimo di smarrimento, quando vide negli occhi di Michela passare uno
sguardo divertito che la rendeva così temibile in quel momento.
Senza nessun
preavviso l’uomo che teneva prigioniera Giuditta aprì lo
sportello della jeep e la spinse a terra, Alberto preoccupato si
raggelò all'istante ma ,vedendo che l’uomo stava
trascinando Giuditta verso di lui, si sentì sollevato …
almeno non era stata sparata seduta stante. Il suo sollievo scomparve
quando vide uscire il Maresciallo con la pistola in vista e dirigersi
verso la ragazza a passo marziale e Giuditta guardò afflitta il
suo patrigno: i suoi occhi erano sanguinei,un vistoso livido le copriva
la guancia sinistra e la sua bocca era stata legata da una benda
così stretta da averle causato delle abrasioni agli angoli.
Senza pensarci due volte Alberto aprì la
portiera della vettura e uscì, sentì l’aria sulla
pelle e udì il suono inconfondibile di un caricamento d'armi: il
piemontese aprì la giacca e mostrò di non essere armato e
poi portò le mani in alto per dichiarare la sua
inoffensività.
Michela, ormai accanto a Giuditta, sorrideva con la
stessa espressione che doveva aver la Dea Calì quando riceveva
le sue vittime, con un gesto femminile invitò il ladro a farsi
avanti e appena l’uomo le fu vicino gli domandò quasi
curiosamente- Perché devi rendere tutto complicato?-
Alberto non
rispose, non sapeva che cosa dirle se non parole di disprezzo, che in
quel momento erano troppo pericolose da pronunciare perché la
vita di Giuditta era nelle mani di quella persona, docilmente si
lasciò ammanettare mentre Giuditta fu smanettata e si
lanciò ad abbracciare il patrigno. A quella ridotta distanza il
padrino le sussurrò di andare alla stazione ferroviaria di
Teano, dove un amico l'avrebbe riportata a casa, la ragazza avvilita
accennò, nonostante la benda, a una protesta quando si
sentì tirata dai capelli da Michela.
- Ho rispettato la mia parte
dell'accordo ... -tuonò la sua voce prepotente e, senza degnare
di nessuna attenzione al gemito di dolore di Giuditta, fissò
negli occhi Alberto.
- .... È il momento
della tua - e con quelle parole tirò nuovamente a sé la
giovane, che faceva un grande sforzo a non insultarla, mentre Alberto
con un groppo alla gola assisteva imponente alla scena, per quanto
ancora avrebbe visto la sua figlia maltrattata? Alberto parlò
con la stessa voce sconfitta di un torturato che cede al peso del
dolore e disse che nel camioncino c'erano le restanti opere.
Michela
guardò sospettosa il veicolo e tendendo la ragazza sotto tiro,
ordinò ai suoi uomini, tranne uno che andò con lei, di
controllare il piemontese mentre lei trascinava con sé la
ragazza fino al camioncino bianco. Alberto sudava freddo ma rimaneva in
un dignitoso e angoscioso silenzio mentre ascoltava l'orribile suono
che producevano le scarpe trascinate di Giuditta. Michela
spalancò violentemente la portiera del retro del camioncino e
per poco non rimase a bocca aperta: seppur ristretti in uno stretto
spazio c'erano i dipinti tanto ricercarti dalle due polizie della
penisola e l'accompagnatore del maresciallo li autenticò. Con un
sorriso divertito e ironico, la bella Michela si complimentò col
ladro - Sei un uomo che sa sfruttare gli spazi- Alberto sorrise
debolmente a quelle parole e anticipò il pensiero della donna
dichiarando- Il cofanetto è sul sedile anteriore del passeggero-
Alberto rimase a fissare la sua nemica mentre apriva la portiera ,
Michela gettò un'occhiata all'interno della vettura,
individuò una scatola di cartone e al suo interno trovò
il prezioso ninnolo avvolto in dei vecchi vestiti malconci.
La donna
scrutò quel manufatto a lungo e con sorriso di soddisfazione
stampato sulla bocca, che significa molto per lei ,tranne il sollievo
che non fosse andata perduta un'opera d'arte di quel valore, e si
avvicinò nuovamente al ladro tenendo ben stretta a sé la
sua figlioccia.
- Come mai era sul sedile?-
domandò, questa volta, con autentica curiosità e Alberto
le spiegò tranquillamente che, con tutta la fatica che aveva
fatto per ottenerlo, gli sembrava un capriccio legittimo tenerlo con
sé durante il viaggio della sua disfatta.
-Sei un uomo strano Alberto- commentò seccamente il maresciallo.
-Sono un estimatore dei piccoli
capricci nella vita, non si può dire altrettanto di te- rispose
per ripicca il ladro pentendosi amaramente della sua battuta, infatti,
la donna colpì in faccia Giuditta, un chiaro avvertimento a
tenere la bocca chiusa...
-Bene, portate il mio criminale
alla jeep-, ordinò Michela ai suoi uomini e questi si sbrigarono
a ubbidire, il rumore dei loro passi marziali si mischiò con gli
urli soffocati di Giuditta e, appena fu tutto pronto, la ragazza fu
spinta a terra e finalmente libera dalla stretta del maresciallo.
Giuditta
accennò ad alzarsi quando la voce autoritaria del maresciallo le
intimò di stare ferma e sparire, la giovane fin troppo
terrorizzata obbedì mentre con calde lacrime di rabbia le
rigavano il viso, aspettò di vedere le auto allontanarsi per
togliersi finalmente la benda dalla sua bocca e lasciare andare un urlo
stridulo d'angoscia, mentre nei suoi occhi rivedeva all'infinito la
scena del suo patrigno catturato.
Nota dell’autore:
Perdonate la formattazione
differente del terzo capitolo e eventuale ma NVU mi sta facendo
impazzire. Alla prossima domenica per l’ultimo capitolo ^-^
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5
Pregiudizi criminali
Capitolo 5
Carcere di Poggioreale, 15 settembre 2013 11 A.M.
Alberto
batteva ritmicamente un piede contro il muro della cella,
quest’era piccola ma né fredda e né umida e le
pareti erano di uno spiccato bianco candido, come se fossero state
ritinte di recente. Continuava a battere ritmicamente il piede perso
nei suoi pensieri e ,poco distante ,una guardia annoiata lo sorvegliava
svogliatamente mentre girava le pagine di un giornale.
Dalla sua
cella Alberto riusciva a vedere una sua foto in prima pagina e non
apparteneva di repertorio, di quelle che gli davano il fascino di un
ladro gentiluomo come Arsene Lupin, ma era ritratto di un carcerato che
tentava di esprimere una forzata di fierezza. Il piede continuava a
battere cullando i tristi pensieri di Alberto: non ce l'aveva fatta, la
missione di una vita era fallita e non era neanche riuscito a preparare
Giuditta come avrebbe sempre voluto. Avrebbe pianto se si fosse sentito
in grado di sopportare le probabili umiliazioni che sarebbero arrivate
appena qualcuno si fosse accorto del suo stato d'animo, non poteva
neanche mentire dicendo che provasse del dolore perché nessuno
era autorizzato a toccarlo per legge: la Repubblica Magna vietava
espressamente che un condannato a morte subisse torture, non c'era
nessuna logica in quella premura poiché il suo corpo sarebbe
stato presto martoriato dalle pallottole dei suoi boia.
Alberto
chiuse gli occhi stancamente quando udì il suo guardiano
scattare in piedi, il suo gesto fu talmente rumoroso che Alberto,
infastidito, fece una smorfia e riaprì gli occhi: il soldato era
in piedi e salutava militarmente qualcuno e una voce femminile gli
ordinò di lasciarla sola con il prigioniero. Incuriosito,
Alberto si sporse per confermare a chi appartenesse quella voce e non
fu poco stupito nel riconoscere la sagoma di Michela. La guardia se ne
andò lasciando il maresciallo e il ladro guardarsi negli occhi,
era la prima volta per Michela poterlo guardare così a lungo
senza che le fosse già fuggito e questo la rendeva
particolarmente felice, una felicità che sarebbe stata completa
una volta avvenuta la sua condanna. Anche per Alberto quella vicinanza
era sorprendente, conosceva bene il volto della sua nemica avendolo
memorizzato da anni attraverso fotografie, ma era tutta un'altra storia
vedere a quella distanza quel volto, che era così bello da poter
essere stato dipinto da Tiziano. Michela sembrava un angelo ma non
c'era nessun sentimento di misericordia nel suo volto... un angelo
della morte.
-Di che cosa vuoi parlare?-
domandò con finta allegria il piemontese mentre sul volto di
Michela comparve un’espressione d’autentica
curiosità.
- Parlarti e di cosa?- e, dopo
quella domanda così fuori tono per lei, specificò-Sono
venuta ad ammirare il mio lavoro- sorrise sornionamente mentre un
brivido di raccapriccio attraversò la schiena del ladro. Ci fu
attimo di silenzio Alberto rispose con laconico "capisco" e poi
alzandosi dalla brandina, in cui era stato seduto fino a quel momento,
si avvicinò alle sbarre e fissò Michela e le disse che
lui voleva invece parlarle: la donna reagì compostamente a
quella dichiarazione assumendo la posizione di riposo dei soldati e
altrettanto laconicamente accettò la richiesta.
-Sei soddisfatta?- le
domandò Alberto accusatore mentre il maresciallo lo
guardò per un attimo allibita, per poi scoppiare una risata
grassa e liberatoria.
-Alberto, spero che non ti sei
troppo impegnato a pensare per questa domanda perché conosci la
risposta-, dichiarò con finta accondiscendenza, il ladro sorrise
a quella reazione che aveva già previsto e combattuto
così tante volte nella sua mente.
-Ogni discorso ha bisogno di
un'introduzione Michela, per quanto stupida e ovvia possa essere. So
benissimo che sei soddisfatta, ma quello che non capisco è
perché impegnarsi in una causa a cui non si crede per niente...-
il ladro si avvicinò ancora di più alla donna e
sussurrò suadente -Perché entrambi sappiamo che non credi
alla Repubblica Magna e non sei entrata nell'esercito per servirla-.
Michela ascoltò tranquilla la dichiarazione del ladro, era
ancora nella posizione di riposo dei soldati, evidentemente la
posizione più rilassata che riuscisse ad assumere, e
guardò silenziosa e con interesse il volto del suo nemico, con
un freddo sorriso di circostanza.
- Sei una donna in gamba,
avresti potuto combattere per la mia causa ... con me addirittura-
Alberto pronunciò piano e scadendo bene tutte le parole e
aspettò con impazienza la risata denigratoria di Michela che
invece non arrivò; la donna lo guardò per la prima volta
con vago sentimento d'umanità che lo sorprese, eppure le parole
del maresciallo furono proprio come le aveva sempre immaginate.
- Non sono mai importanti le
cause ma che cosa puoi ottenere da esse e dalla tua avrei ottenuto una
cella, Alberto - enfatizzò le sue parole indicando le sbarre e a
quel gesto Alberto rispose con un’indifferente scrollata di
spalle.
- Con la mia ho ottenuto quello che è più importante a questo mondo, il Potere-
Troppo e
nulla voleva dire quella frase e, infatti, ci fu un silenzio
indescrivibile, Alberto si allontanò da Michela e la
osservò a distanza e poi , con la voce insinuante e
giocherellona che lo contraddistingueva, le domandò se avesse
diritto un ultimo desiderio.
- Ovvio, che cosa vuoi?-
rispose serena mentre il ladro continuava a fissarla intensamente, era
uno strano gioco di sguardi che qualche persona più ingenua
avrebbe potuto vederci l'intesa di due amanti ma non era così,
il gioco assomigliava all'istinto di un gatto di catturare una
lucertola e di molestarla e torturarla a proprio piacere.
- La tua storia o meglio sentirla pronunciata da te-.
- È noiosa, Alberto, e non ci troverai nulla da usare contro di me- fu la risposta tagliente di Michela.
- È il mio desiderio da
condannato a morte- specificò Alberto ridacchiando un po’,
aveva sempre pensato che la donna fosse un'egocentrica e invece la
trovava piuttosto riservata o inviperita da quella domanda così
personale.
Michela
sciolse la sua posizione e si appoggiò leggermente alle sbarre,
molti avrebbero considerato stupido e imprudente quel gesto ma lei non
aveva paura di Alberto e, in ogni caso, la sua preparazione fisica
l'avrebbe liberata da qualsiasi impiccio.
-Va bene, mettiti comodo-,
ordinò la donna con uno strano sorriso e Alberto e si sedette
tranquillo sulla brandina mentre la donna lo studiava con una strana
espressione, forse incuriosita da quella stupida curiosità che
era certa che il ladro già conoscesse.
- La bellezza è un'arma
a doppio taglio, soprattutto in una donna. Ti mette in posizione
strana, gli uomini ti adorano ma non ti considerano nient'altro che un
premio da mostrare in giro mentre le donne ti detestano perché
esiste l'istintiva competizione animale per cui l'accompagnamento con
il maschio è la cosa più importante del mondo. La
dignità, l'amicizia, la sorellanza sono concetti sconosciuti
alla maggior parte delle donne e quando vedono un maschio, appetibile o
meno, sono concetti inesistenti. Una donna bella è sfortunata
perché, se è intelligente, è condannata a una vita
fatta di lotte contro i pregiudizi di essere solo una bella bambola per
gli uomini o una puttana, in qualsiasi caso, per le donne. Ho passato
un'intera vita a subire tentativi di molestie o molestie vere proprie
dagli uomini e merda dalle donne.- Alberto rimase in silenzio
scioccato, era incredibile come Michela fosse distaccata mentre parlava
di sé, anche se utilizzava un linguaggio colorito.
- Ai suoi inizi la Repubblica
Magna doveva mostrare di essere più efficiente e moderna del
regno Padano. Era risaputo che i dati ufficiale della Repubblica
Italiana parlavano di maggior disoccupazione femminile nel sud
dell’Italia, dando enfasi al pregiudizio che le donne del sud
fossero più remissive e per cui preferissero rimanere a casa ad
accudire ai figli, queste statistiche ignoravano fattori come il lavoro
a nero o che, logisticamente, fosse più conveniente, dato la
mancanza di asili nido, che le donne si occupassero dell'educazione dei
figli poiché uno stipendio era sufficiente alla dignità
economica di una famiglia. La Repubblica iniziò ad aprire i
concorsi a ambedue sessi con pari opportunità: per legge i
concorrenti dovevano essere metà uomini e metà donne
però una volta entrati, soprattutto nell'esercito, dovevi
dimostrare di esser in grado di fare qualunque lavoro senza nessun
favoritismo e senza trattare le donne come se fossero delle
handicappate, incapaci di ottenere un lavoro se non aiutate dal Papino
Stato. Fu l'inizio della meritocrazia perfetta. Quando indossai per la
prima volta la divisa dell'esercito non ero più la bella donna
da odiare ma un rappresentante ufficiale che poteva distruggerti-
spiegò concisa Michela mentre un sorriso freddo appariva sul suo
volto- E ho scoperto che il Potere mi piaceva-.
Alberto la guardò tubato
e replicò con enfasi- Sei pazza a credere che il potere sia
tutto e che farà la tua felicità!-
- Il Potere è tutto e ne
sei ossessionato anche tu. Non negarlo!-ordinò la donna
fissandolo con un’espressione di condiscendenza, - Amavi farmi
sentire in tuo potere, di poter rubar qualunque cosa e umiliarmi ogni
volta! Ami pensare di poter cambiare le sorti di questo territorio
però non sei nessuno Alberto. Nessuno è così
importante da poter permettersi di credere che un suo contributo possa
cambiare il mondo: perché credere a degli ideali quando non
potremmo mai ottenerli? Meglio vivere la propria vita con egoismo,
è un atteggiamento che dà molti più risultati-.
- Ma questo non ci rende degli
esseri pensanti, così nemmeno gli animali ragionano
-puntualizzò Alberto sentendosi confuso, lui non aveva dedicato
la sua vita al Potere ,credeva a un'ideale e aveva provato a fare il
possibile per renderlo reale. Era vero che nessuno valeva qualcosa in
questo mondo, però non era forse come decidiamo di vivere la
nostra vita che ci rende almeno esseri passivi o attivi nella storia
dell'umanità? Avere dei sogni e tentare di realizzarli non era
quello che rendeva gli esseri umani tali? Un uomo molto saggio una
volta disse " I have a dream" e a quella frase Alberto ci credeva. Era
anche vero che forse si era divertito a umiliare quella donna, ma
Alberto non aveva mai pensato di sé come una persona buona: era
un uomo con degli obiettivi che intendeva raggiungerli, una persona con
degli ideali non coincide sempre con un eroe.
- Forse mi sottovaluti Michela,
pensi che sia un’intellettuale pieno di sé che vuole
educare la gente, ma sono una persona pratica, uno storico, se te ne
fossi dimenticata, e ci sono solo due cose che possono cambiare un
popolo: una rivoluzione e una guerra, fai caso che entrambe pretendono
sangue-.
- Non ti spaventa, che una volta ottenuto la tua adorata guerra, non cambierà nulla? Sacrificheresti delle vite-.
Alberto guardò negli
occhi la sua nemica e sorrise dolcemente- Sacrificherò anche la
mia, quando scoppierà la guerra parteciperò-. Michela lo
guardò per un attimo con un'espressione attonita e poi,
lentamente, iniziò a ridere piano per poi scoppiare in una
risata fragorosa e ,con la voce ancora ridente, disse sarcasticamente -
Avevo ragione a definirti un terrorista, sei un kamikaze! Il peggiore
della tua specie-.
Alberto
sorrideva tranquillo e non affatto ferito della reazione della donna,
lei aveva rinunciato agli ideali e alla fiducia dell'umanità
mentre lui credeva in entrambe le cose, ciò lo faceva sentire
vivo e un essere umano ancora capace di sognare e non di
sopravvivere come un animale. Non erano uguali, per niente, erano i due
lati di una generazione privata degli ideali con due modi differenti di
affrontare quella perdita, nessuno dei due lati poteva definirsi quello
giusto perché entrambi erano chiusi nelle proprie convinzioni e
guidati da estremismi: Alberto era per il suo credo e l'avrebbe seguito.
Capirono che non avevano
più nulla da dirsi e rimasero in silenzio, Michela e Alberto si
guardarono con accondiscendenza e lei si allontanò dalla cella,
non senza dimenticare di dire al ladro delle sprezzanti parole- Buona
notte Alberto, spero che la passerai tranquilla perché
sarà tra le ultime -.
Alberto rispose cinico-
Passerò qualche notte qui però... preparati alla tua
prossima umiliazione-. Lo sguardo di Michela s’indurì e
una risata cattiva uscì dalla sua bocca- Alberto , sei un uomo
morto e lo sai- e lo fissò un'ultima volta e poi uscì,
poco dopo un’altra guardia tornò a sorvegliarlo e aveva lo
sguardo attento e vigile di un'aquila. Alberto iniziò a
fischiettare una melodia triste con occhi determinati, Michela e suoi
non lo stavano sottovalutando ma non si preoccupavano di chi lui aveva
attorno, e questo sarebbe stata la loro rovina.
C'era un
gran fermento nella città di Napoli, il più famoso
criminale della penisola era stato catturato e attendeva la sua
condanna nel carcere di Poggioreale, sembrava che tutti fossero
d'accordo ad augurare il peggio al ladro e qualcuno ricordava con
battute spiritose di poco spirito sulla poca distanza tra il
carcere e il cimitero.
L'esecuzione era stata
programmata dopo pochi giorni dalla cattura e si era in attesa
dell'arrivo di uno spettabile dignitario del norde, così
ironicamente chiamato, e, addirittura ,dello stesso Generale, ma erano
in molti a credere che quella notizia fosse fasulla e che fosse stata
messa in giro da qualcuno un po' toccato di testa. Quel clima di
pettegolezzo e gioia non era stato il riflesso dell'umore di Michela:
per lei quei giorni erano stati d'angoscia e di doveri ed era stata
contattata dal Generale, molto soddisfatto di lei ma ,finché
Alberto Giordano non fosse stato dichiarato morto da un medico legale,
lei non avrebbe avuto quello che le spettava. Le dichiarazioni
sospettose del Generale avevano scosso il duro e insensibile cuore di
Michela ... la paura, quel sentimento che credeva d'aver dimenticato
l'aveva presa di spalle in un agguato: se Alberto scappava, lei avrebbe
perso tutto e per questo aumentò la sorveglianza.
Carcere di Poggioreale 16 settembre 2013 10 P.M.
Alberto chiese come ultimo
pasto della polenta e le guardie storsero il naso alla sua richiesta ma
acconsentirono, in un secondo Alberto li sentì dire, in dialetto
napoletano che lui aveva imparato dalla sua protettrice, che era un
polentone ignorante in cucina. Alberto rise al commento, avevano
ragione loro a dire che non capiva nulla di cucina , era sempre stato
un uomo dai gusti semplici, a volte grossolani, sul cibo.
-Va bu’, andiamo a far
preparare questa polenta- fu l'ennesimo commento ironico, detto per
provocare il ladro il quale sorrise pazientemente innervosendo la
guardia spiritosa, che si allontanò a grandi passi mentre
l’altra rimaneva accanto alla cella.
La polenta
fu portata dopo almeno due ore, a quasi mezzanotte e Alberto era
rimasto in silenzio tutto tempo aspettando il suo ultimo pasto, che gli
fu consegnato violentemente e fu incitato a mangiare velocemente.
-Oltre il danno, la beffa: se
mi dovessero condannare a morte preferire di notte- commentò la
guardia che aveva portato la polenta al collega che si limitò a
tenere sott’occhio il prigioniero.
-Come sei silenzioso Ciro - sbottò la guardia improvvisamente- Cosa è ?Hai litigato con tua moglie?-
Ciro rispose che era
così e per questo era un po’ distratto, Alberto si
limitò a osservava i due con interesse e in silenzio,
soprattutto Ciro.
-Sì, sarà ma non
puoi farti buttare giù da lei -,Ciro annuì ancora
più enigmatico e Alberto ebbe l’intuizione che ci fosse
qualcosa che non andava . La guardia chiacchierona si voltò a
fare lo stronzetto con lui e Alberto si godette la scena.
Ciro fu
molto rapido nei movimenti, si spostò dietro il collega e con un
movimento simultaneo gli bloccò bocca e gli applicò una
presa sul collo: Alberto vide gli occhi stupiti della guardia e poi
perdere la luce della coscienza, Ciro tenne a sé la guardia e
aprì la cella del detenuto. Il ladro lo guardò colpito
mentre la guardia gli sussurrava e lo ammanettava a sé - Fai il
pazzo, chiedi di un prete-.
Alberto non se lo fece ripetere
due volte, con la massima potenza nella sua voce iniziò a urlare
che voleva un prete e Ciro lo trascinò fuori dalla cella,
tenendo ancora tra le braccia l’altra guardia rispondendo a
eventuali reclami in dialetto napoletano.
- Che sfaccima, fallo stare
zitto- lo invitò ,senza tanti preamboli, una guardia che era
dalla parte opposta del lungo corridoio e poi guardando Ciro
domandò perché il collega fosse tra le sua braccia.
-Perché non tengo un
culo! Questo qui fa il pazzo e Rocco si è sentito male- a
quell'affermazione l’altro secondino gli ripose di farsi benedire
da un prete ricchione e se volesse il suo aiuto mentre Alberto
continuava a mormorare e a lanciare improvvisamente strilli , Ciro lo
colpì in volto.
L’altra guardia lo avvisò che si sarebbe messo nei guai se
sarebbe comparso un livido sul condannato a morte ma Ciro sminuì
la raccomandazione e iniziò a camminare con quel groviglio
formato da una guardia svenuta e un pazzo piemontese: il quadretto era
inquietante. Indispettito dal comportamento di Ciro, l'altra guardia
preferì non aiutarlo più perché non voleva essere
accusato di aver maltrattato il prigioniero e lasciò a
sbrigarsela da solo..
Appena
Alberto e Ciro furono lontani dalla zona delle celle il primo
mormorò sottovoce - Mauro?-, Ciro, o meglio Mauro, sorrise e
disse che aveva un piano e se andava tutto bene non avrebbero fatto la
fine di un fuoco d’artificio illegale. Mauro portò Alberto
in una piccola stanzetta e gli disse di rubare velocemente i vestiti
della guardia e di seguirlo senza fiatare, Alberto fu rapido e con la
coda dell’occhio studiava la stanzetta, soddisfatto della
situazione: Mauro era proprio stato un complice della sua maestra.
Nonostante ciò Alberto era nervoso perché non erano stati
in molti a essere in grado di fuggire dal carcere di Poggioreale,
perché si trovava in piena città e diventare invisibili
era complicato, per cui, per quanto fiducioso in Mauro, si domandava
quale fosse il piano.
La guardia
svenuta fu ammanettata mani e piedi, con una stretta benda a cucirgli
la bocca e Alberto, con un sospiro indignato, sistemò la pistola
di servizio, affrettandosi a seguire Mauro quando fu invitato a
muoversi.
-Che cosa hai intenzione di
fare, non crederai che camuffati così, riusciremmo a scappare?-
domandò legittimante Alberto e Mauro, gli rivolse un sorriso
complice continuando a camminare speditamente verso il basamento.
Alberto era confuso, non potevano di certo scavalcare il grande muro di
pietra attorno al carcere ma andare verso la fredda terra sembrava solo
voler anticipare la loro fine.
Arrivarono
davanti a un muro scarno e freddo, Mauro lo tastò a lungo e con
una mano pulì una piccola zona in cui apparì una fessura
simile a una toppa di una porta, Alberto stava di guardia domandandosi
dove diamine fossero finiti. Quella cosa che assomigliava alla toppa di
una porta si rivelò essere tale e Mauro con le mani portò
allo scoperto il perimetro di una piccola porta e iniziò a
trafficare con la serratura con gli attrezzi del mestiere, estratti
dalla sua giacca da secondino finché la forzò: la piccola
porta si aprì e mostrò un corridoio scavato nella terra.
-Muoviti!- esortò il
ladro più anziano e Alberto lo seguì chiudendo la porta
dietro di sé e rendendola inutilizzabile per gli inseguitori,
che prima o poi sarebbero spuntati.
Mauro iniziò a
illuminare il percorso davanti a sé con una piccola torcia, era
talmente buio che Alberto fu costretto a mettere un braccio sulla sua
spalla per non cadere e gli chiese delle spiegazioni.
- La ditta che costruì
questo carcere si chiamava “Cacciapuoti fu Salvatore”-,il
nome era talmente altisonante che Alberto si sentì costretto a
sdrammatizzarlo con una risata.
-C’è una leggenda
attorno a questo carcere, si dice che fu progettato in modo da essere
inespugnabile e che il costruttore fosse così fiero da
vantarsene costantemente finché, un giorno, suo figlio
finì dentro-. Mauro continuò percependo la confusione di
Alberto.
-Però c’è
un’altra leggenda, meno conosciuta, si dice che il carcere sia
collegato con una scuola dei dintorni e posso confermarti che è
vera- Mauro indicò il lungo corridoio scavato nella terra.
Alberto
guardò intorno a sé, respirò forte e una
sensazione di freddo arrivò ai polmoni, notò che Mauro
riusciva a camminare abbastanza spedito come se avesse fatto quel
percorso tante volte ma quest'ultimo confutò la teoria di
Alberto.
-No, l’ho fatto una sola
volta quando ero bambino e come altri ricordi belli della mia infanzia,
ne ho fatto particolare tesoro. A sentire parlare d’infanzia
Alberto s’incuriosì e domandò di dirgli di
più.
-Hai mai sentito parlare del
terremoto dell’ottanta?- rispose con una domanda Mauro che
continuava a camminare così spedito che Alberto tendeva a
perdere la presa sulla sua spalla.
-Ne ho sentito parlare-.
-Allora non esisteva la
Repubblica Magna, Napoli era la città emblema dell'inefficienza
dello Stato della Repubblica Italiana. Quando successe, come al solito
, furono promessi mari e monti … tutti sarebbero tornati quanto
prima a casa ,ma ovviamente non fu così. Le persone vissero per
molto tempo nelle scuole che non erano crollate, tra cui io con
la mia famiglia-.
Alberto pensò a quella
mostruosa scena, dei civili costretti a vivere come degli affollati in
uno spazio come quello di una scuola. La vecchia Repubblica Italiana ne
aveva di peccati d’inefficienza ma la peggiore era
l'incapacità di reagire alle calamità naturali.
-Mentre vivevo
nell’istituto Tecnico Leonardo da Vinci venni a sapere di questa
leggenda. La scuola avrebbe dovuta essere collegata al carcere: indagai
e scoprii che i sotterranei della scuola portavano effettivamente al
basamento del carcere-.
Con un sorriso allegro, Mauro
si voltò a guardare Alberto e disse- Oggi stiamo percorrendo
questo collegamento e dubito fortemente che qualcun altro lo conosca-.
Rimassero in silenzio, forse a
causa del peso del racconto, e nonostante la dichiarazione della
segretezza del luogo entrambi i ladri erano ben concentrati a percepire
ogni rumore che fosse estraneo a loro passi.
-Fai attenzione, ci sono dei
gradini- ammonì Mauro che iniziò a salire lentamente
delle scale in pietra, permettendo a Alberto di attanagliarsi al suo
braccio, la torcia aveva una luce troppo debole che permettesse a due
di camminare spediti.
Quando
iniziarono a percorre le scale, di appena ventina di gradini, si
iniziò a percepire una traccia di aria fresca sotto il
penetrante odore d'umido che li aveva accompagnati fino in quel
momento. Prima d’uscire definitivamente dalla galleria, Mauro si
liberò della giacca della divisa e disse ad Alberto di fare
altrettanto per rendere anonimo il loro abbigliamento. I due si
trovarono in un cortile deserto e davanti a loro si ergeva
l’edificio della scuola, un esempio di architettura imperiale
fascista circondata da un uno spesso muro. Alberto sorpreso da quel
particolare, si dimenticò di respirare l’aria fresca di
cui era stato privato in quei giorni, e domandò a Mauro- Questa
scuola è un carcere per caso? Come mai il muro, hanno paura che
gli studenti fuggano?-.
-Credimi, se vedessi i ceffi
che girano qui potresti capire l’uso delle mura-. Alberto si
voltò, erano usciti da una specie di guardiola per nulla
nascosta, com’era possibile che nessun studente avesse avuto la
curiosità di esplorarla?Mauro lo condusse al portone principale,
che era in legno, e lo aprì con una chiave universale
evitando di far rumore.
-È rischioso, ma se
proviamo a scavalcare i muri della scuola ci vedranno le guardie dal
carcere. Distiamo da lì solo a trecentocinquanta metri e il
carcere ha un'altezza superiore.-
Alberto per
la prima volta capì che l’arte dell’arrangiarsi
rendeva i napoletani pazzi, forse addirittura più sprezzanti del
pericolo di quello che si credeva. Mauro chiuse scherzosamente la porta
della scuola dicendo- Ciao, ciao. Casettina mia-. La loro fuga non era
ovviamente finita lì. La scuola si trovava in una strada
chiamata Via Foggia e di fronte a essa c’erano una serie di
palazzotti in cui abitavano persone. Mauro condusse Alberto alla sua
auto che si trovava in una traversa a destra della scuola. L'auto di
Mauro era una vecchia Fiat che aveva addirittura la targa bianca e non
ancora quella gialla voluta dall’Unione Europa. Alberto sorrise
involontariamente a vederla, era da secoli che non vedeva un’auto
italiana e sembrò che anche Mauro, per un attimo, ricambiasse la
sua nostalgia con il suo sguardo pensieroso, Alberto aprì la
bocca per dire qualcosa ma fu fermato dall’amico con dura
occhiata.
-Non ringraziarmi ancora, fallo quando sarai al sicuro-.
Eppure Alberto non riuscì a star zitto e domandò della sua Giuditta.
-Sta bene, l’ho
recuperata in quel posto dimenticato da Dio dove hai fatto lo scambio
con quella stronza. Per fortuna che mi hai avvertito-, Alberto
lasciò andare un sospiro di sollievo, era così
preoccupato per Giuditta che pensava di morire per quello, piuttosto
che per la scarica di pallottole che avrebbe dovuto ricevere la mattina
di quel giorno. Mauro gli disse che lo stava portando al porto,
lì avrebbe avuto un passaggio da una nave merce diretta per
Cagliari. Alberto ricordava vagamente il porto napoletano, sapeva che
era uno dei più importanti d'Europa, occupava l’insenatura
naturale più a nord del Golfo di Napoli e s'estendeva per alcuni
chilometri dal centro della città verso la sua parte orientale.
Mauro guidava veloce e il
paesaggio scorreva davanti agli occhi di Alberto come i fotogrammi di
una pizza cinematografica: attraversarono l’ex piazza Garibaldi,
la piazza che ospitava la stazione ferroviaria e, un tempo, la statua
del suddetto eroe: era stata distrutta e sostituta con una costruzione
rettangolare che mostrava delle pubblicità. Alberto si
sentì disgustato, come si poteva cancellare con quello sfregio
il periodo del Risorgimento? Guardò infastidito la strada
formata dai san pietrini per non guardare la mancata raffigurazione del
glorioso eroe dei due mondi. Nonostante che fosse passato del tempo,
Alberto la ricordava la statua, rappresentava l’eroe con uno
sguardo basso, vigile e paterno sulla città come volesse
difenderla.
Mauro percepì il
malumore del piemontese, ma non disse nulla e attraversò uno dei
rami dell’incrocio della piazza per percorrere Via Marina, era il
modo più veloce di raggiungere il porto.
Via Marina
era una delle poche strade che poteva essere considerata larga in
città ed era quasi un rettilineo per tutta la sua lunghezza e
Mauro poté accelerare drasticamente, passarono davanti
rapidamente vicino a due torri diroccate che facevano parte della
chiesa della Madonna del Carmine, una chiesa molto antica e la cui
santa era molto venerata dal popolo napoletano. Infine l’auto
imboccò la strada via Agostino Depretis, che nonostante fosse
nominata come un politico del periodo del post risorgimento, non era
stato reputato importante cambiare il nome:Alberto immaginò che
fosse stato molto più facile e significativo distruggere un
simbolo come Garibaldi che l’ennesimo politico corrotto.
La via
Agostino Depretis sbucava dietro il castello Maschio Angioino , il
ladro piemontese riconobbe uno dei più importanti simboli della
città: un enorme castello dall’aspetto squadrato di colore
ocra che maestoso si imponeva sulla città. Iniziò a
scorgere le banchine del porto e rimase sorpreso che non gli fosse
rimasto impresso nella memoria, un particolare importante come quello
che stava vedendo: il porto di Napoli si trovava a ridosso della
città, le banchine e le navi sembravano parte del marciapiede e
l’enorme piazzale, occupato da un grande parcheggio
all’aperto, aumentava quella sensazione d’apertura quasi
come volesse mostrare l’apertura al mondo della città.
Eppure Alberto sapeva che i napoletani potevano essere incredibilmente
freddi e austeri se era necessario.
Davanti al parcheggio, vi era
una costruzione dall’architettura tipica del fascismo, che
fungeva da stazione marittima, in cui le persone potevano attendere
l’orario d'imbarco. Quanto sarebbe piaciuto ad Alberto osservare
i particolari di quella struttura! Ma quando Mauro frenò
l’auto, fu consapevole che non c’era tempo per simili
sciocchezze e che per lui Napoli sarebbe stata zona proibita per
parecchio tempo. Sempre se fosse riuscito a sopravvivere grazie a
quella fuga di cui non sapeva nessun dettaglio,costretto a fidarsi
completamente della capacità di qualcun altro.
Mauro
consegnò ad Alberto una busta per lettere contenente frusciante
denaro in euro, che scricchiolò tra le dita di Alberto, e una
piccola pistola, inutile tra le sue mani , che il ladro nascose in una
scarpa.
-Mi sono accordato già
con il capitano, ma possono essere molto avari-, spiegò Mauro
mentre consegnava l’ultima cosa: una maschera che Albero
indossò con il suo aiuto. Con una stretta di mano e un sorriso e
i due si salutarono, Alberto attraversò il piazzale
prudentemente e raggiungesse la banchina, dove una nave merci
dall’aspetto vissuto attendeva che la sirena desse il via libera
per abbandonare del porto.
Il capitano stava attendendo
l’ospite, era un uomo dall’aspetto piacente che
scoccò una lunga occhiata a Alberto e senza neanche aprire la
bocca, con un gesto imperioso si fece consegnare la busta contente il
denaro.
-Ti chiamerò Tonio-,
disse perentorio e Alberto non protestò , sperò solo,
guardando dietro di sé mentre saliva sulla nave il porto vuoto e
spettrale, che Mauro avesse scelto un avaro onesto e di non essere il
consegnato alla polizia padana, una volta arrivato a Cagliari.
Sperò di poter riabbracciare Giuditta ancora una volta.
Carcere di Poggioreale, 16 Settembre 2013 11 A.M.
La fuga di Alberto
Giordano aveva fatto molto discutere: il mattino seguente
l’intera popolazione mormorava, ma se il popolo parlava,
dall’altra parte, chi aveva il potere prendeva decisioni. Michela
Neri era mortificata, delusa, sconfitta e il suo disprezzo per Alberto
era stato sostituito momentaneamente da quello per se stessa. Si
trovava in una della base militari della città e partecipava
alla riunione più difficile di tutta la sua vita.
Il
Generale,seduto, la fissava con occhi severi e implacabili, accanto a
lui c’era il Ministro degli Esteri, l'uomo che Michela aveva
incontrato durante il caso di Varese. Era ferma nella sua ostinata
posizione di riposo in cui si sentiva più protetta, ben sapeva
che la sua carriera sarebbe terminata a lì a poco.
-Primo Maresciallo Neri-, disse
il Generale con voce inflessile- Avevamo un accordo-, mentre i suoi
occhi si posavano sulle spalle del soldato, Michela Neri
tentennò ma strappò dalla distintivo e consegnò il
suo grado nelle mani del Generale, che continuava a fissarla
implacabile e commentò quasi dispiaciuto.
-Sembrava così sicura-, e Michela Neri mantenne il suo sguardo, ma a che cosa serviva?
-È congedata Sergente
Maggiore Neri- quest’ultima chiuse la porta dietro di sé,
lasciando il Generale e il Ministro in un silenzio che durò solo
pochi instanti, per essere interrotto dalla preoccupazione tangibile di
quest'ultimo.
-Che cosa faremmo Generale?-
domandò e questo non rispose, si alzò e osservò il
paesaggio dalla finestra dalla stanza. Vide dall'alto l’ex
maresciallo camminare caparbiamente eretta per la sua strada e
pensò che quell'atteggiamento era la risposta.
- Sanciremo un ultimatum, se non ci consegnano Alberto Giordano ci sarà la guerra-
- Prima di ciò, la metto
in contatto anche con il Presidente americano?- domandò un
po’ timoroso il Ministro degli esteri e il suo capo annuì.
Doveva essere sicuro d’aver come alleato l’America,
convincere l'intero mondo che quella fosse una missione
antiterroristica importante e necessaria, altrimenti l’Europa
avrebbe tentato di occupare la penisola e il Generale non aveva nessuna
intenzione di farla diventare,per l’ennesima volta
,un’espressione geografica. La repubblica Magna doveva
sopravvivere.
5 Gennaio 2014 Benighton 2 P.M.
Erano passati quattro mesi
di grande fermento politico che avevano attanagliato il cuore di
Giuditta, costretta a vivere non più nella sua bella casetta con
il suo amorevole patrigno ma da un amico di famiglia in Inghilterra.
Giuditta leggeva i giornali,
ogni singola notizia faceva presagire l’inizio della guerra. I
primi mesi c’era stato un gran polverone sulla fuga di Alberto
Giordano con teorie piuttosto fantasiose, se si considerava che in
realtà una volta in Sardegna il ladro si fosse semplicemente
imbarcato per la Spagna per incontrarsi infine con la figliaccia
lì.
L’incontro aveva ridotto alle lacrime entrambi, Giuditta aveva
sempre saputo che prima o poi il momento dell'addio sarebbe
arrivato,Alberto avrebbe continuato a inseguire la sua strada non
curandosi di quello che avrebbe dovuto lasciare dietro di sé.
L'aveva abbracciata a lungo mentre le chiedeva di fare la brava e di
perdonarlo d’averla trascinata in quell’assurda storia
mentre lei lo rassicurava- Senza di te, a quest’ora starei
morendo per qualche malattia sessuale. Ti devo tanto però ce
l'ho con te! Perché preferisci l'Italia a me-, aveva dichiarato
, rossa in viso per quella imbarazzante e infantile dichiarazione ma il
patrigno le aveva baciato la fronte e accarezzato i capelli e,
cullandola dolcemente tra braccia, le disse-Sono un pessimo padre
però spero di tornare per poter aggiustare le cose-.
Giuditta
aveva tirato su con il naso incapace di smettere di piangere mentre
già con il cuore pregava che il suo patrigno tornasse vivo e
adesso, dopo quei quattro mesi dal loro ultimo incontro, pregava ancora
con tutta se stessa. La guerra scoppiò dopo che i vari tentativi
di rappacificamento fallirono e ogni possibilità di pace
scartata per sempre: Alberto Giordano era pronto a combattere per un
ideale cui aveva dedicato un'intera vita.
2 Giugno 2023 Roma 10 A.M.
Dieci anni erano passati e
con non poco rancore Michela Neri pensava che Alberto Giordano aveva
vinto:la penisola italiana era stata unificata dal ferro e fuoco della
Repubblica Magna. La guerra era durata all'incirca due anni ed era
stata brutale,la stessa Michela aveva subito la sua potenza e portava
segni visibili che avevano sfigurato in parte la sua bellezza, forse
l'unica cosa positiva che le era capitata in quei anni, in cui con la
reputazione danneggiata non aveva potuto avanzare granché nella
scala militare. Come le pesava quell’insulso grado di sergente
maggiore capo, per ovvi motivi ma soprattutto perché non le
permetteva di sapere che fine avesse fatto Alberto Giordano e lei
sperava con tutta se stessa che fosse stato ucciso dopo mille torture.
Portava
rancore, nonostante che l'unificazione aveva dimostrato la sua
validità perché lentamente il Governo della Repubblica
Magna stava perdendo il suo carattere militare a favore di uno
più civile. Michela, con disappunto, pensava che Giordano non
era mai stato l'unico pazzo che voleva quella penisola unificata: muti
per troppo tempo le persone favorevoli avevano trovato il modo di fare
qualcosa per quella nazione, anche una minuscola cosa. Si domandava
quando avrebbero infine richiamato quella strana terra" Italia" e
sperava che Giordano fosse morto così da essere incapace di
gioire della vittoria della sua lunga missione.
Nota dell'autore: Salve a tutti.E' finirà la storia di Alberto,
fatemi sapere che ne pensate qui su efp oppure ne discutiamo insieme
sulla mia pagina facebook!
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