Orphans

di _Joanna_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


0.0

Introduzione



Era una notte buia e tempestosa.

Non dovrebbero iniziare così tutte le storie del terrore?
Già, perché questa è davvero una storia del terrore, un vero racconto dell’orrore, un tremendo resoconto degli eventi più spaventosi e raccapriccianti mai accaduti.
Questa è la storia di Tom Marvolo Riddle e a raccontarla non saranno gli studiosi di Storia della Magia, né i giornalisti del Profeta.
La storia la scrivono sempre i vincitori, mentre agli sconfitti viene dato a mala pena il beneficio del dubbio.
Io non sono una vincitrice, ma neanche una perdente.
Questa storia non è come le altre, perché sarò io a raccontarla.
Io, Ophelia Riddle, sorella gemella di chi, lo sapete già, no?
Non avete mai sentito parlare di me?
Comprensibile, ma ora, per una volta, lasciate che sia io a parlare.


* * *



1.1.1

Prologo




L’alba, quasi d’argento, era appena sorta e il sole invernale stentava non poco a fare capolino tra le nubi, spesse e bianche, per tentare di illuminare con i suoi freddi raggi l’ultimo giorno dell’anno.
Alla periferia della grande città di Londra, circondato da alti cancelli, un modesto edificio si erigeva grigio e silenzioso.
I passanti nemmeno lo notavano, troppo occupati nelle loro faccende quotidiane per badare a quella piccola costruzione, dimora degli esclusi, degli ultimi, dei più inutili e insignificanti membri della società inglese.
Quel luogo cupo e dimesso era, infatti, un orfanotrofio, un luogo squallido e tetro, dove una ventina di bambini aveva trovato accoglienza.
La maggior parte delle persone pensava che quegli istituti fossero uno spreco di denaro pubblico, ma credevano anche che fosse meglio rinchiudere lì gli orfani, piuttosto che lasciarli in giro per le strade, a mendicare e a rubare.
Se poi quei piccoli rifiuti della società non fossero proprio esistiti, sarebbe stato ancora meglio, ma il fatto di non averli tra i piedi ogni giorno era comunque qualcosa.
E così, la gente si limitava a ignorarne l'esistenza, come se davvero non esistessero, rendendo quel luogo una sorta di mondo a sé, appartato e sospeso nel tempo e nello spazio.
Bisognava però ammettere che gli ospiti di quel particolare istituto erano, tutto sommato, più fortunati degli altri: l'edificio era misero, la direttrice severa, il vitto essenziale, ma nel complesso gli orfani erano in buona salute e probabilmente conducevano un'esistenza migliore di quella che avrebbero avuto con le loro vere famiglie.
Ma non tutti la pensavano nello stesso modo.
Il sole, intanto, era riuscito finalmente a emergere, e gettava una luce bianca e opaca contro la facciata est dell'edificio, punteggiata da molte, piccole finestrelle.
Una di quelle era il pertugio sul mondo di una coppia di orfani piuttosto speciale, anche se nessuno sapeva ancora quanto.



* * *






Capitolo I






31 dicembre 1937




«Tom! Tom!»
Con la mia vocina timida e infantile ruppi il silenzio, disteso e totale, che regnava nella piccola stanza.
Nessuna risposta.
Nella penombra sonnacchiosa, che ancora recava gli ultimi, tenebrosi residui della notte, qualcosa si mosse.
Scostando eccitata i miei capelli, lunghi e arruffati, che mi coprivano il volto, mi rizzai a sedere sul letto.
«Tom! Tom, svegliati!» riprovai, a voce più alta.
Dall’altro lato della piccola camera, la sagoma minuta e scura, rannicchiata sul semplice letto di ferro, si agitò di nuovo tra le ombre.
Un mugolio, poi, con voce rasposa, ancora impastata dal sonno, finalmente Tom si destò «Che succede?» chiese.
«Tom, è il nostro compleanno!» esclamai, cacciando via le coperte e avvicinandomi al letto di mio fratello «Tanti auguri!» aggiunsi radiosa.
Tom mi rivolse uno sguardo appannato, ma io lo conoscevo abbastanza bene da sapere che non avrebbe mai ricambiato il mio entusiasmo.
In realtà, non lo faceva quasi mai: le cose che piacevano a me, di solito annoiavano lui, e le cose che esaltavano lui, spesso spaventavano me.
Era una cosa piuttosto strana, soprattutto dal momento che eravamo gemelli.
«Che ore sono?» chiese Tom, puntellandosi con i gomiti sul materasso per sollevarsi.
«Non lo so» risposi «Le otto più o meno»
Tom mi scoccò un’occhiata da “non-posso-credere-che-tu-mi-abbia-svegliato-alle-otto-per-uno-stupido-compleanno”.
Francamente, era un po’ inquietante, ma lo ignorai e corsi verso l’armadio per cambiarmi.
Tom, invece, si ributtò sul cuscino, ma ormai era completamente sveglio e presto si sarebbe alzato anche lui.
Venti minuti più tardi, infatti, eravamo entrambi completamente vestiti e così scendemmo al piano di sotto.
Subito, ci imbattemmo nella direttrice, la signora Cole, che era già in piedi e stava aiutando Martha ad apparecchiare la lunga tavola per la colazione.
«Ophelia, Tom, buon compleanno bambini!» esclamò la direttrice quando ci vide varcare la soglia del salone.
Le rivolsi un ampio sorriso, mentre Tom si limitò a un ghigno, infastidito da quello che lui doveva considerare una sgradevole ingerenza da parte della donna.
Prendemmo posto e, dopo pochi minuti, anche gli altri bambini dell’orfanotrofio cominciarono ad affluire nella sala.
Alcuni erano, come noi, già vestiti di tutto punto, altri, invece, indossavano ancora il pigiama.
Amanda King, una bambina di un anno più piccola di me, si avvicinò a noi.
Amanda era la mia migliore amica e anche lei era cresciuta nell'orfanotrofio.
I suoi genitori erano morti quando aveva solo pochi mesi; non aveva parenti, o comunque non aveva avuto nessuno che avesse potuto o voluto prendersi cura di lei, così era stata portata in orfanotrofio.
Era una bambina molto allegra ed ero abbastanza sicura che le piacesse Tom.
Mi fece gli auguri e mi consegnò il suo regalo, quindi si sporse timidamente verso Tom, che si limitò a ignorarla, con un espressione cupa sul volto ossuto, mentre continuava a rimestare il suo porridge con aria assente.
Alla fine, Amanda desistette e prese posto accanto a me.
«Hey Ophelia, buon compleanno!» esclamò Lewis, un ragazzino di dodici o tredici anni, nessuno lo sapeva con precisione; anche lui, dopo un timido sguardo verso Tom, cambiò idea e si sedette al proprio posto, all’estremità opposta della tavolata, accanto al suo migliore amico, Terence Young, un dodicenne grassottello.
Lui era l’unico ad avere ancora i genitori, che però erano molto poveri; dopo i primi quattro figli, era arrivato Terence, ma i suoi non avevano abbastanza denaro per mantenerlo, così lo avevano portato in orfanotrofio quando aveva quattro anni.
Ogni Natale, però, lo venivano a prendere e lo riportavano a casa, per festeggiare, e tre o quattro domeniche all'anno lo venivano a trovare.
La mattina dell'ultimo 25 dicembre, come sempre, i genitori di Terence erano venuti a prenderlo e, quando l'avevano riportato indietro, verso le sei di sera, il ragazzo teneva tra le grosse braccia un mucchio di regali, la maggior parte per lui da parte dei genitori, gli altri per i bambini dell’orfanotrofio.
Pareva, infatti, che suo padre avesse trovato un lavoro ben pagato nella vicina fabbrica di automobili, perciò tra qualche mese Terence avrebbe potuto finalmente fare ritorno definitivamente a casa dalla sua famiglia.
«Dove vai?» chiesi a Tom, che si era appena alzato di colpo.
Tom non rispose.
Trangugiai in fretta le ultime cucchiaiate del mio porridge, quindi mi affrettai a seguire mio fratello.
«Tom, che succede?» chiesi, quando finalmente riuscii a raggiungerlo.
Tom mi ignorò di nuovo, continuando a percorrere a passo spedito l’ultimo tratto del corridoio che portava alla nostra camera.
Quando anche io varcai la soglia, trovai Tom seduto sul sedile della finestra, lo sguardo perso verso l'orizzonte nebuloso e bianco, carico di neve.
Per un lungo momento restammo in silenzio.
«Come fa a piacerti questo posto?» chiese Tom, d’un tratto.
“Ci risiamo” pensai.
Avevamo spesso quel tipo di conversazioni: Tom detestava l’orfanotrofio, non aveva fatto amicizia con nessuno, ma la cosa non sembrava turbarlo particolarmente.
A dire la verità, la maggior parte dei bambini aveva sempre avuto paura di lui, perché a volte Tom faceva cose strane.
Ad essere ancora più sinceri, le cose che Tom faceva non erano semplicemente strane: erano decisamente inquietanti.
«Non mi piace, lo sai» risposi alla fine «Ma siamo qui e dobbiamo rimanerci ancora per un bel po', quindi, in un modo o nell’altro, dobbiamo cercare di trovarci qualcosa di bello»
Tom fece una smorfia alle parole “qualcosa di bello”, ma non commentò.
«Tom, lo so che…» dissi piano, ma lui mi interruppe.
«No, non lo sai invece!» esclamò Tom. Aveva le guance leggermente arrossate e i suoi occhi scintillavano sinistramente nella luce bianca e compatta del mattino.
Una minuscola lacrima sfuggì al suo controllo, ma sapevo che non si trattava di tristezza: era rabbia.
Mi avvicinai ancora di più a lui, quindi lo strinsi in un abbraccio.
Lui mi lasciò fare, ma sapevo bene che sarebbe durato per poco: Tom non amava il contatto fisico e men che meno sopportava di sentirsi debole e vulnerabile.
Dopo pochi istanti, infatti, Tom ritrovò il pieno controllo di sé e mi allontanò.
Decisi di accomodarmi accanto a lui; eravamo talmente piccoli e magri che ci stavamo entrambi sullo stretto davanzale.
Restammo di nuovo in silenzio, tacendo così le parole mai pronunciate, reprimendo gli impulsi mai esauditi.
Restammo in silenzio e lasciammo che fosse proprio il silenzio a parlare per noi.
Quel silenzio che, tra di noi, voleva dire tutto, che parlava di cose incredibili e di azioni impossibili da spiegare.
Il primo fiocco di neve cadde leggero e lento, posandosi dolcemente sul terreno brullo e freddo del cortile dell’orfanotrofio.
Ben presto, lo seguirono altri, bianchi e umidi e, in pochi minuti, ogni cosa venne coperta da una sottile e soffice coltre candida, in continua crescita.
Una figura avvolta in uno spesso mantello sgargiante comparve all’improvviso davanti al cancello.
Era un uomo, molto distinto anche se un po’ bizzarro, con una lunga barba rossiccia imperlata di minuscoli puntini bianchi.
Quello varcò l'inferriata, percorse il vialetto e salì i pochi gradini di pietra che conducevano al portone d'ingresso.
Scomparve alla vista, ma, poco dopo, dall’atrio giunse il suono del campanello e udimmo la voce della signora Cole che lo invitava ad entrare.
Tom ed io ci scambiammo uno sguardo perplesso.
Sarà il nuovo benefattore, pensai distrattamente; o forse si trattava di qualche zio o parente lontano che era venuto a fare visita a uno dei bambini.
Forse qualcuno sarebbe stato adottato e avrebbe iniziato il nuovo anno in una nuova casa.
Ma di certo non avrebbe voluto noi, pensai con amarezza. Nessuno aveva mai voluto noi.



* * *

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


2.22



Capitolo II

La Rivelazione






31 dicembre 1937


Un deciso bussare alla porta.
Nessuno bussava mai alla nostra porta e di certo non con tanta decisione.
Tom, che si era sdraiato sul suo letto, si rimise a sedere.
Io rimasi appollaiata sul sedile della finestra, lo sguardo fisso sulla porta che si stava aprendo.
La direttrice Cole entrò nella stanza; dietro di lei, c'era l'uomo che avevamo visto arrivare.
Era molto alto ed emanava un senso di sicurezza, ma anche di minaccia.
C'era qualcosa nel suo aspetto, un po' eccentrico, con quella lunga barba e la buffa veste color prugna, che mi rese sospettosa.
Era strano, ma, nel guardarlo, mi resi conto di quanto lui e Tom si somigliassero, con quella loro aria di superiorità, quell'aurea di un qualcosa, come di potere.
«Tom, Ophelia questi è il signor Sipiente… Mi scusi, Saliente» esordì la direttrice «È qui per parlare con voi di … bé ve lo dirà lui».
Scoccai un'occhiata preoccupata a mio fratello, mentre la signora Cole usciva dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
«Come state, Tom, Ophelia?» esordì lo sconosciuto, tendendoci la mano.
Tom aveva gli occhi socchiusi e lo sguardo indagatore.
Io esitai: non volevo sembrare scortese, ma, per mia abitudine, aspettavo sempre che fosse Tom a fare la prima mossa.
Alla fine, lui strinse la mano dell'uomo e così io lo imitai subito dopo.
«Io sono il professor Silente» si presentò quello, avvicinando la sedia al letto di Tom e facendomi segno di accomodarmi accanto a mio fratello.
Obbedii.
«Professore?» chiese intanto Tom, brusco «È come “dottore” vero?» continuò, sempre più sospettoso «Lei l’ha chiamata per farmi visitare?» disse sprezzante, indicando la porta dalla quale la signora Cole era appena uscita.
Era di nuovo arrabbiato, notai.
«No, no» rispose l'uomo, sorridendo.
«Non le credo» ribatté Tom, secco «Vuole farmi visitare, vero? Dica la verità!» ordinò. Tom era fatto così: lui voleva, lui pretendeva, lui otteneva, sempre.
Ma l'uomo, Silente, non sembrò affatto impressionato dalle parole di un undicenne.
«Chi è lei e che cosa vuole da noi?» intervenni io alla fine; anche io ero sempre più diffidente e non mi piaceva affatto quella situazione.
«Ve l’ho detto, sono il professor Silente e sono venuto a offrire a voi un posto a Hogwarts, la mia scuola» rispose l'uomo, calmo, e aggiunse «La vostra nuova scuola, se vorrete venire».
Prima che potessi di nuovo aprire bocca, Tom balzò giù dal letto.
Era furibondo.
«Non mi prenda in giro! Dal manicomio, ecco da dove viene lei, vero professore? Bé, io non ci vado, capito?» gridò.
«Certo che no!» concordai, raggiungendo Tom, che era indietreggiato e ora dava le spalle alla finestra «Tom non è malato, sono gli altri che si immaginano le cose!» esclamai convinta.
«Quella vecchia, è lei che dovrebbe essere ricoverata» continuò Tom «Io non ho mai fatto niente alla piccola Amy Benson o a Dennis Bishop e può anche andare a chiederglielo, glielo diranno!»
Ora era spaventato, capii.
Gli strinsi la mano, serrata a pugno; se quell'uomo era venuto lì, convinto di portarci via, per poi rinchiuderci in qualche strano centro dove pensavano di poterci esaminare, studiare, sezionare, bé, si sbagliava di grosso.
«Io non vengo dal manicomio» disse Silente, paziente «Sono un professore e se volete sedervi tranquilli, vi racconterò di Hogwarts. Ma se preferite non venire nella mia scuola nessuno vi costringerà».
«Vorrei solo che ci provassero» commentò Tom, beffardo, ma risoluto.
«Hogwarts» continuò Silente, facendo finta di non averlo sentito, «è una scuola per ragazzi con capacità speciali…»
«Io non sono pazzo!» protestò Tom.
«Lo so che non sei pazzo. E non lo è nemmeno tua sorella. Hogwarts non è una scuola per gente pazza. È una scuola di magia».
Silenzio.
Percepii le emozioni di mio fratello: adesso Tom era come bloccato, il volto inespressivo, ma i suoi occhi erano attenti e vigili e scrutavano quello strambo uomo, cercando di capire se e perché stava mentendo.
«Magia?» ripetei io alla fine, in un sussurro.
Tutto stava improvvisamente cominciando ad acquistare senso.
«Esatto, signorina Riddle» confermò Silente.
«È… è magia, quella che so fare?» chiese Tom, ritrovando la voce.
Anche lui, come me, cominciava a comprendere.
«Che sapete fare» lo corresse l'uomo «E dimmi, che cos'è che riuscite a fare?» aggiunse.
«Di tutto» esalò Tom, come frastornato, mentre un rossore eccitato, quasi febbricitante, gli saliva dal collo alle guance incavate.
Le immagini delle nostre imprese scorsero rapide nella mia mente e sapevo che lo stesso stava accadendo in quella di mio fratello.
E, ancora una volta, fu Tom a parlare per entrambi «Posso muovere le cose senza toccarle» cominciò ad elencare  «Faccio fare agli animali quello che voglio senza addestrarli, faccio capitare cose brutte a chi è cattivo con me. Posso ferirli, se voglio».
Gli tremavano le gambe, così lo afferrai per un braccio e lo aiutai a sedere di nuovo sul letto; Tom si accovacciò, le mani strette in grembo.
Io invece rimasi in piedi, senza sapere che cosa fare, che cosa dire.
Era vero, Tom ed io avevamo sempre fatto delle cose inspiegabili.
Ricordai la prima volta che era avvenuto qualcosa di strano.
Era successo tre anni prima; era notte e Tom non riusciva a dormire a causa di qualcosa che era accaduta quel pomeriggio.
A quell'epoca, quella era una novità per lui, così si era intrufolato nel mio letto.
Era sconvolto ed eccitato, proprio come in quel momento.
Mi aveva giurato di aver fatto appassire la pianta di gerani di Lucy White, una ragazzina che viveva all'orfanotrofio con noi.
L'aveva fatto arrabbiare e lui, per punirla, aveva deciso di intrufolarsi nella sua stanza per estirpare la piantina.
Non ce n'era stato bisogno.
Dopo essere entrato nella camera, si era avvicinato al vaso, appoggiato come sempre sul davanzale della finestra.
Ma, prima ancora di riuscire a fare un solo altro movimento, aveva notato le foglie non erano del solito verde brillante, ma scure e smunte, accartocciate, e i fiori rosa erano scomparsi, e ne era rimasto solo qualche rado petalo, ancora attaccato allo stelo, annerito, come bruciato.
Allora, non eravamo stati in grado di fornirci una spiegazione convincente che dimostrasse perché una pianta, un attimo prima viva e rigogliosa, era morta all'improvviso subito dopo.
Non c'era stata allora, ma adesso sì: era stata magia.
C'erano poi stati molti altri episodi simili, ogni volta più sconvolgenti, ma ciò mi aveva sorpresa maggiormente era stato quello che era accaduto a me, appena qualche mese prima.
Eravamo tornati da pochi giorni dalla breve gita al mare; Tom aveva fatto un'altra delle sue cose inquietanti e inspiegabili, e i ragazzi più grandi, quella volta, avevano deciso di fargliela pagare.
Ovviamente, non si sarebbero mai arrischiati ad affrontare mio fratello direttamente, così avevano deciso di prendere di mira me, perché sembravo essere l'unica persona di cui a Tom importasse qualcosa.
Si era trattato di uno scherzo innocente, per quanto un po' crudele, che però non aveva avuto gli esiti sperati.
Mi avevano teso una sorta di agguato, nel cortile: quando ero uscita all'aperto, dopo pranzo, quei ragazzi erano sbucati da dietro un cespuglio, e mi avevano lanciato addosso il contenuto di una grossa pirofila. Decine se non centinaia di insetti e altri piccoli, viscidi animaletti, di varie forme e colori, accuratamente catturati e conservati nei giorni precedenti, mi erano piombati in testa, infilandosi tra i miei capelli e dentro i vestiti.
Avevo urlato di terrore, ma, appena un istante più tardi, quegli insetti erano subito sgusciati via e si erano dispersi in fretta tra l'erba del prato.
Ricordavo ancora i volti dei ragazzi, che erano rimasti sbigottiti e delusi, incapaci, come me del resto, di spiegarsi quello che era successo.
Non ci avevano più riprovato, e così io avevo deciso di non fare parola dell'accaduto, un po' perché, appunto, non sapevo neppure io darmi una spiegazione, un po' perché non volevo che Tom si cacciasse in qualche altro guaio.
«Lo sapevo che eravamo diversi» sussurrò Tom alle proprie dita tremanti, facendomi riemergere dai ricordi.
«Lo sapevo che eravamo speciali. Ho sempre saputo che c’era qualcosa» continuò.
«Be’, avevi ragione» disse Silente, che non sorrideva più, ma osservava Tom con intensità «Tu sei un mago, Tom» affermò «Come tu» aggiunse, rivolgendosi a me «Tu sei una strega»
Fissai il professore attonita e incredula.
Anche Tom sollevò la testa e il suo volto era come trasfigurato: una selvaggia felicità era dipinta sul suo viso; i suoi tratti, finemente modellati, ora sembravano rozzi, la sua espressione quasi bestiale.
Avevo già visto quella metamorfosi, ma per la prima ne ebbi paura.
«Anche lei è un mago?» chiese Tom.
 «Sì, lo sono».
 «Lo dimostri» ordinò subito.
Silente sollevò le sopracciglia, evidentemente doveva essere esasperato dal comportamento di mio fratello.
«Se accettate di venire a Hogwarts…»
«Certo che accettiamo!» esclamò immediatamente Tom.
Non l'avevo mai visto tanto felice, anche se io non riuscivo proprio a esserlo.
«Aspetta un momento, Tom» dissi piano «Non possiamo, come facciamo a sapere-» cominciai, ma mio fratello mi interruppe e i suoi occhi mandavano lampi «Siamo diversi, il nostro posto non è qui!» esclamò «Vuoi davvero restare?» aggiunse, e il suo tono era a metà tra l'aggressivo e l'implorante.
«N-no, io-» balbettai, cercando di riflettere; stava accadendo tutto troppo in fretta.
«D'accordo» mi arresi alla fine, e Tom mi rivolse uno dei suoi rari sorrisi sinceri.
«Molto bene» approvò Silente.
«Quindi, se anche lei è un mago, me lo dimostri» insistette Tom.
«Devi chiamarmi “professore” o “signore”» disse Silente, con una nota di ferma autorità nella voce calma e misurata.
Tom si irrigidì; lui detestava sottomettersi agli altri, specialmente quando questi non avevano fatto nulla per guadagnarsi il suo rispetto, impresa, questa, che non era mai riuscita a nessuno fino a quel momento.
Alla fine, con una cortesia che riconobbi come falsa, Tom disse «Mi scusi, signore. Volevo dire, la prego, professore, potrebbe mostrarmi…?»
Ero sicura che Silente si sarebbe rifiutato, ma ancora una volta quello strano professore mi sorprese; forse era abituato a trattare con ragazzini scettici e testardi.
Silente estrasse dalla tasca interna di quel suo bizzarro vestito un bastoncino di legno.
“Non può essere”, mi dissi, sbalordita: davvero le storie su Merlino, i maghi, le bacchette magiche e tutte quelle sciocchezze che venivano raccontate ai bambini erano vere?
Intanto, il professore aveva puntato quel suo bastoncino verso il nostro armadio, agitandolo debolmente, come se per lui quello fosse un gesto banale, ripetuto migliaia di volte.
All'improvviso, l'armadio prese fuoco.
Io lanciai un grido.
Tom balzò in piedi, spaventato, ma potevo vedere l'avidità nei suoi occhi.
E, insieme a quella, l'onnipresente rabbia.
Potevo capirlo questa volta: tutti i nostri averi si trovavano là dentro, e quell'uomo li stava riducendo in cenere.
Poi, così come erano divampante, le fiamme svanirono, lasciando il nostro armadio intatto.
«Dove posso trovarne una?» chiese Tom, mentre io rimanevo ancora ferma in piedi, scioccata e spaventata.
«Tutto a tempo debito» rispose Silente «Credo che ci sia qualcosa che cerca di uscire dal tuo armadio».
E infatti, udii provenire dall’interno un debole sbatacchiare.
Anche Tom era spaventato quanto me adesso.
«Apri» ordinò Silente.
Tom esitò, così fui io quella volta a farmi avanti.
Aprii l'anta dell'armadio e sullo scaffale più alto, tra i miseri abiti lisi di mio fratello, scorsi una scatoletta di latta, che tremava e vibrava come una trappola per topi.
Sentii lo sguardo di mio fratello puntato sulla mia nuca, ma decisi di ignorarlo.
Credevo di sapere che cosa c'era all'interno della scatola, ed ero sicura che lo sapesse anche il professore, che, infatti, mi chiese di aprirla.
«C’è qualcosa in quella scatola che non dovresti avere?» domandò Silente.
Mio fratello gli rivolse un lungo, limpido sguardo calcolatore, prima di ammettere che sì, lì dentro c'era decisamente qualcosa che non gli apparteneva.
Tom mi fece un cenno e io rovesciai sul letto il contenuto della piccola scatola, null'altro che uno yo-yo, un ditale d’argento e un’armonica a bocca arrugginita.
«Li restituirai ai loro proprietari con le tue scuse» ordinò Silente con calma, nascondendo la bacchetta «Saprò se questo è stato fatto o no. E ti avverto: il furto non è tollerato a Hogwarts».
Ero smarrita: come aveva fatto a sapere di quegli oggetti rubati? Mi domandai, ma Tom non parve nemmeno remotamente confuso. Continuava a fissare il professore, quindi, a mezza voce, mormorò «Sissignore».
«A Hogwarts,» continuò Silente «si insegna non solo a usare la magia, ma a controllarla. Tu, di sicuro inavvertitamente, hai usato i tuoi poteri in un modo che non viene né insegnato né ammesso nella nostra scuola. Non sei il primo e non sarai l’ultimo che consente alla propria magia di prendere il sopravvento: ma devi sapere che Hogwarts può espellere gli studenti, e che il Ministero della Magia punisce chi infrange la legge con severità ancora maggiore. Tutti i nuovi maghi devono accettare, entrando nel nostro mondo, di attenersi alle nostre leggi».
«Sissignore» ripeté Tom, inespressivo e in tono piatto e incolore. Detestava le regole e si era sempre sentito superiore agli altri. Probabilmente, considerai, stava già pensando a come infrangere quelle della scuola.
Dopo aver rimesso a posto la scatola, Tom si rivolse di nuovo a Silente «Non abbiamo denaro» dichiarò.
Aveva ragione, noi non avevamo niente.
«A questo si può porre rimedio» rassicurò Silente, estraendo da una delle sue numerose tasche un borsellino di pelle; il tintinnio delle monete risuonò argentino e invitante. «A Hogwarts esiste un fondo per aiutare chi ne ha bisogno a comprare libri e abiti. Forse dovrete accontentarvi di libri e altre cose di seconda mano, ma…»
«Dove si comprano questi libri?» lo interruppe Tom, prendendo la borsa con il denaro, senza ringraziare.
«A Diagon Alley» rispose Silente «Ho qui la vostra lista dei libri e del necessario per la scuola. Posso aiutarvi a trovare tutto…»
«Lei viene con noi?» chiese Tom, alzando lo sguardo da una grossa moneta d'oro, diversa da qualunque altra mi fosse mai capitato di vedere.
«Certo, se voi…»
«Non abbiamo bisogno di lei. Siamo abituati a fare le cose da soli, e io vado sempre in giro per Londra per conto mio».
Aveva ragione, pensai, era proprio così; e comunque, come Tom, avrei preferito perdermi per la città piuttosto che seguire quel professore.
Quella storia, poi, continuava a suonarmi troppo strana e non mi fidavo affatto di Silente.
«Come si arriva in questa Diagon Alley… signore?» aggiunse intanto mio fratello.
Silente incrociò il suo sguardo, come se stesse soppesando le parole.
Alla fine, decise di spiegarci come arrivare a un locale, il Paiolo Magico, e ci consegnò una busta ciascuno.
Presi la mia con dita tremanti e incerte, senza però trovare nulla da dire.
«Voi riuscirete a vederlo, anche se i Babbani, la gente non magica, non possono» disse Silente «Chiedete di Tom il barista. È facile da ricordare, ha il tuo stesso nome» proseguì, accennando a mio fratello.
Tom represse uno scatto irritato.
«Non ti piace il nome “Tom”?» chiese Silente, che aveva notato il fremito indolente di mio fratello.
«Ci sono un mucchio di Tom» borbottò lui. Poi fece una domanda che, non appena la udii, mi colpì molto, per il semplice fatto che a me, fino a quel momento, non era nemmeno passata per la mente.
«Nostro padre era un mago? Si chiamava anche lui Tom Riddle, mi hanno detto»
«Temo di non saperlo» rispose Silente.
«Nostra madre non può essere stata magica, se no non sarebbe morta» disse Tom, quindi aggiunse in fretta «Quando avremo preso tutta il necessario… quando veniamo a questa Hogwarts?»
«Tutti i dettagli sono sul secondo foglio di pergamena nella busta» replicò Silente «Partirete dalla stazione di King’s Cross il primo di settembre. C’è dentro anche un biglietto ferroviario».
Tom annuì pensieroso, mentre il professore si alzava; gli tese di nuovo la mano e questa volta lui la strinse senza esitazione.
Ancora una volta, io lo imitai.
«So parlare con i serpenti» disse a un tratto Tom.
Silente, che aveva già una mano sul pomello della porta, si voltò lentamente, con un'ombra di inquietudine nello sguardo aguzzo.
Mi irrigidii.
Quella particolare capacità, inizialmente, ci aveva reso entrambi orgogliosi; era sempre stato il nostro linguaggio segreto, un modo per comunicare tra noi, unico e incomprensibile per la signora Cole e gli altri bambini.
Ma poi avevamo scoperto che altre creature erano in grado di capirci, creature infide e viscide.
Capii che mio fratello aveva tralasciato fino a quel momento di citare quello stranissimo potere, deciso a far colpo, ma io non sapevo quanto quell'abilità fosse positiva.
Da un po' di tempo, infatti, io ne ero spaventata.
Silente si voltò verso di me.
«Diglielo Ophelia» mi incalzò Tom, e il suo sguardo brillava di una luce inquietante «Loro ci  trovano, ci sussurrano cose» continuò «È normale, questo, per un mago?»
Silente spostò di nuovo lo sguardo su Tom e i suoi occhi si fecero penetranti e intensi.
«È insolito» rispose alla fine «Ma non unico» aggiunse poi, con noncuranza.
Tom parve deluso.
«Ci rivediamo a Hogwarts. Tom, Ophelia» ci salutò Silente e finalmente si congedò.
Una volta rimasti di nuovo soli, pensai che fosse quello il momento più giusto per comunicare a Tom i miei dubbi.
«Credi che sia tutto vero, la magia, la scuola?» chiesi, timidamente.
«Certo, perché tu no?» ribatté mio fratello, con decisione.
«Non lo so, Tom, tu ti fidi di questo Silente?»
«No, ma non mi sserve fidarmi di lui per ssapere che è tutto vero» sibilò lui.
Aveva usato quel nostro strano linguaggio, riconobbi.
«Ma Tom…» tentai di protestare.
«Non c'è nesssun'altra sspiegazione» mi interruppe lui.
Quindi, con un semplice sguardo, ordinò allo yo-yo, che giaceva ancora immobile sul suo letto, a parecchi centimetri di distanza da lui, di ruzzolare giù.
Quello cadde sul duro pavimento con un piccolo tonfo e rotolò fino ai miei piedi.
«Credi che gli altri ssappiano fare una cossa cossì?» insistette.
Con un identico movimento degli occhi, rispedii lo yo-yo indietro.
Tom mi sorrise e io ricambiai, senza però riuscire a scacciare il mio turbamento.
«Vissto?»
«E sse quesssto fossse ssbagliato?» tentai di nuovo.
«Ssempre meglio che resstare qui» sentenziò Tom, quindi andò a sedersi accanto alla finestra, e prese l'orizzonte con intensità, come se pensasse di potervi intravedere qualcosa di nuovo, rispetto al grigio panorama cittadino.
Io mi sdraiai sul mio letto, ancora confusa e perplessa.
“Sono una strega” pensai, preoccupata.
“E le streghe sono cattive” mi dissi, rivolgendo uno sguardo a Tom, che mi dava le spalle.
Lui era sempre stato un po' cattivo, non potei fare a meno di considerare.
E dunque, questo significava che lo ero anche io?


* * *



N.A.

Specifico che, come magari avrete notato, parte della conversazione tra Silente e i due Riddle è presa direttamente dal capitolo 13 (Il Riddle segreto) del Principe Mezzosangue.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


3.3



Capitolo III

Diagon Alley





18 febbraio 1938




Tom stava leggendo ormai da due ore.
Tra poco sarebbe stata ora di cena, ma non credevo che mio fratello avrebbe avuto voglia di mangiare.
Quel giorno eravamo stati a Diagon Alley.
Era un luogo davvero bizzarro, ma anche decisamente affascinante.
Ero felice che mio fratello avesse insisto tanto per andarci; gli avevo detto che avremmo avuto tutto il tempo per recarvici con comodo, visto che la scuola sarebbe iniziata tra più di sei mesi, ma Tom non aveva voluto sprecare altro tempo.
Avevamo già comperato tutti i libri e, ovviamente la bacchetta, ma saremmo comunque dovuti ritornare, per prendere l'occorrente per le pozioni, dal momento che il negoziante ci aveva raccomandato di acquistare ingredienti e prodotti freschi.
Era stata comunque una gita interessante e, a suo modo, già molto istruttiva.

*

Seguendo le precise indicazioni del professor Silente, raggiungemmo il Paiolo Magico e, una volta entrati, ci accorgemmo immediatamente di essere stati catapultati in un mondo a parte.
Decine di uomini e donne, dall'aspetto stravagante, affollavano il locale, qualcuno in piedi, molti seduti ai piccoli tavoli.
Sorseggiavano bevande dall'aspetto ordinario, anche se avrei potuto giurare di aver visto qualcosa di viscido e vivo muoversi sul fondo di uno dei bicchieri, ricolmo di un liquido ambrato.
Il proprietario, che si chiamava Tom, come aveva appunto detto il professor Silente, ci accolse gentilmente e ci mostrò il varco che si apriva sul muro del retrobottega e consentiva l'accesso a Diagon Alley.
Se il pub poteva passare per un luogo semplicemente bizzarro, non c'erano dubbi sul fatto che la via dei maghi fosse un posto davvero fuori dal comune.
Rimasi parecchio sorpresa nel constatare quanto le storie sulle streghe si avvicinassero alla realtà.
Pur non essendo un giorno particolarmente affollato, c'erano molti maghi e streghe che si aggiravano per i negozi, tutti vestiti con assurde tonache sgargianti e cappelli a punta; le botteghe poi, erano ricolme di oggetti curiosi e scoprii che davvero i maghi usavano le scope e i calderoni e facevano intrugli con uova di rana e occhi di salamandra!
Entrammo subito da Potage: Negozio di Calderoni, per acquistare, appunto, i calderoni, quindi ci recammo da Telescope per comprare gli strumenti necessari per Astronomia e infine, non senza un po' di fatica, scorgemmo il Negozio di Abiti Usati, dove prendemmo alcune divise standard per Hogwarts.
Lì vicino c'era anche una bottega piuttosto curiosa, chiamata Il Serraglio Stregato, che vendeva animali.
Proposi a Tom di entrarci, dal momento che sulla lettera da Hogwarts c'era scritto che era permesso agli studenti portare un animale a scuola, ma lui non ne volle sapere di sprecare le nostre già esigue falci, uno dei tagli della valuta dei maghi, per una “creatura inutile”, come la definì lui.
«Un gufo? non abbiamo nessuno a cui scrivere; un gatto? non fa niente di speciale; un rospo? a che diavolo ci può servire un rospo bavoso?» disse e, con queste parole, la questione venne chiusa.
A quel punto restavano da prendere solo due cose: gli ingredienti per Pozioni che, dietro consiglio dello Speziale, decidemmo di comprare in un secondo momento, e la bacchetta magica.
Entrammo così nel negozio di Ollivander, il più famoso costruttore di bacchette d'Inghilterra, a sentire lui.
Era un uomo un po' strano, quasi inquietante, con due piccoli occhi grigi e acuti, e i modi di fare precisi e scattanti.
«Buon pomeriggio» ci salutò, con un largo sorriso «Siete qui per acquistare la vostra prima bacchetta, suppongo».
«Esatto» rispose Tom, con la voce incrinata dall'eccitazione.
«Molto bene, molto bene, signor?»
«Riddle» rispose ancora una volta mio fratello «Tom Riddle, e lei è mia sorella Ophelia».
«Molto bene» ripeté Ollivander, afferrando la sua bacchetta; l'agitò in direzione di un piccolo metro a nastro, che subito si animò.
«Cominciamo con lei, signor Riddle» decise Ollivander e subito il metro fluttuò dolcemente nella sua direzione e iniziò a prendere le misure della vita e delle spalle di mio fratello.
Io osservavo la scena rapita, anche se confusa: non era un negozio di sartoria quello, dopotutto.
«Mano dominante?» chiese Ollivander.
«La destra» rispose Tom, e rapido il metro calcolò la misura del suo braccio destro.
Dopo qualche istante, il negoziante disse «Credo che possa bastare» e il metro subito si fermò, afflosciandosi poi inerte sul pavimento.
Ollivander esitò un istante, la fronte corrucciata, quindi si affrettò a raggiungere uno scaffale, da cui estrasse una lunga, sottile scatola di cartone; tornò davanti al bancone e tese in avanti il contenuto della scatola.
«Frassino, undici pollici e un quarto, nucleo di crine di unicorno» spiegò il negoziante, porgendo a Tom una bacchetta.
Tom la prese con dita leggermente tremanti, quindi, come a voler imitare il gesto dell'uomo, la puntò contro il metro.
Quello saltò in aria di scatto e sfrecciò contro una parete di scaffali, colpendola con violenza tale da far cadere alcune piccole scatole.
«Decisamente no» sentenziò Ollivader, riprendendo la bacchetta e affrettandosi a sceglierne un'altra, che diede il medesimo risultato, e poi un'altra ancora che, quando Tom l'agitò, per poco non mandò il metro a infrangersi contro il lampadario appeso al soffitto.
«Non si preoccupi, signor Riddle» disse Ollivader, giulivo «Ho sempre trovato la bacchetta giusta per ogni mago» assicurò «Sapete,» aggiunse «è la bacchetta a scegliere il mago e non il contrario».
Mio fratello fece una smorfia.
Di certo, pensai, Tom era convinto che la bacchetta dovesse essere solo uno strumento al suo servizio, e non poteva andargli a genio l'idea che invece fosse un misero bastoncino di legno a decidere per lui.
«Quindi le bacchette potenti scelgono i maghi potenti?» chiese Tom a un tratto, afferrando la quarta bacchetta.
«Non esistono bacchette forti e bacchette deboli, signor Riddle» spiegò Ollivander «Anche se mi rendo conto che per un profano possa sembrare così»
«Vedete, ogni bacchetta è composta da elementi di primissima qualità, ognuno dei quali, però, ha le sue peculiarità. La scelta avviene proprio in base all'affinità che la bacchetta ha con il mago o la strega, secondo la sua indole, le sue capacità e potenzialità» continuò «Per esempio, lei mi sembra un ragazzo ambizioso, tenace e combattivo, e il prugnolo è un legno che si sposa bene con queste caratteristiche. Viceversa, il sorbo dà il suo meglio con incantesimi protettivi e di difesa, e l'ontano non è adatto a maghi e streghe particolarmente ostinati, pertanto, se lei usasse una bacchetta di questo materiale, nonostante tutto il suo impegno, non sarebbe mai in grado di ottenere i medesimi risultati che invece avrebbe con una bacchetta fatta di prugnolo, o di sicomoro» spiegò.
Tom annuì, pensieroso, ma per me tutto quello non aveva molto senso.
Negli sport,  pensai, era sempre l'abilità dell'atleta a fare la differenza: uno poteva usare la migliore mazza da croquet, o montare il cavallo più agile e robusto, o guidare la monoposto più veloce, ma era sempre l'atleta, appunto, che determinava il successo della gara.
«Mmm, no non ci siamo» stava intanto dicendo Ollivander.
Tom non era neanche riuscito ad agitare la bacchetta, che l'uomo gliel'aveva subito strappata di mano.
«Provi questa» disse il negoziante, porgendogli una quinta bacchetta.
«Legno di tasso, rigida, 13 pollici e mezzo, nucleo di piuma di fenice» spiegò.
Tom la prese e subito i suoi occhi si allargarono e il suo viso assunse un'espressione deliziata ed euforica.
«Eccellente!» esclamò Ollivander, estasiato «Lei e questa bacchetta siete fatti l'uno per l'altra» decretò.
Tom riconsegnò la bacchetta a Ollivader che la incartò rapidamente.
«Ora veniamo a lei, signorina Riddle» disse l'uomo e ordinò al metro di compiere le medesime misurazioni su di me.
Ero impaziente, ma anche un po' preoccupata.
Non esistevano bacchette deboli, aveva detto Ollivander, ma avevo comunque paura di venire scelta da una fatta di qualche materiale comune, banale, che mostrasse la mia indole decisamente meno determinata e sicura rispetto a quella di Tom.
«Abete, dieci pollici e tre quarti, nucleo di crine di unicorno» descrisse il negoziante, porgendomi la prima bacchetta da provare.
Imitai quello che aveva fatto Tom e puntai la bacchetta sul metro che però, a parte un leggero tremito, rimase immobile.
«No» sentenziò Ollivander, tuffandosi poi sotto il bancone e riemergendone qualche istante più tardi con un'altra bacchetta «Larice, dieci pollici, nucleo di crine di unicorno»
Ancora una volta, quando l'agitai, non accadde nulla.
Cominciavo a sentirmi umiliata e per questo evitai accuratamente di guardare mio fratello.
«Melo, nucleo di corda di cuore di drago, undici pollici e un quarto» continuò Ollivander, ma di nuovo non successe niente.
«Non si preoccupi, signorina Riddle» esclamò Ollivander, sereno, prendendo una quarta bacchetta.
«Noce nero, nucleo di corda di cuore di drago, dodici pollici e tre quarti».
La presi, anzi l'agguantai, quasi con rabbia e, prima ancora che potessi agitarla, sentii una sorta di calore risalire dalla mano al gomito, lungo tutto il braccio e fin dentro le ossa.
Fu una sensazione meravigliosa, rassicurante, magica, nel vero e più pieno senso della parola.
«Ci siamo!» approvò Ollivander, compiaciuto.
Sollevai finalmente lo sguardo e vidi Tom sorridermi.
Pagammo le nostre nuove, costose bacchette e uscimmo dalla bottega.
Era ancora presto, così decidemmo di fare un giro per Diagon Alley e scoprimmo che lì vicino c'era anche un'altra via, dall'aria piuttosto cupa e sinistra, chiamata Notturn Alley.
Tom era tentato di dare un'occhiata, ma io lo convinsi che quello non era un posto adatto a due undicenni.
Verso le quattro, comunque, cominciava a fare freddo, così ci incamminammo per tornare all'orfanotrofio e, una volta arrivati, Tom si immerse subito nella lettura di uno dei libri che avevamo comprato.
Ora era arrivato all'ultimo capitolo di Storia di Hogwarts; non era un testo scolastico, ma mio fratello non aveva potuto fare meno di acquistarlo.
La voce di Martha giunse dal fondo delle scale: la cena era pronta.
Non sprecai tempo a chiamare mio fratello, perché sapevo già che non sarebbe venuto.
Quando raggiunsi la sala da pranzo, scorsi Amanda che mi faceva segno di avvicinarmi.
Nelle ultime settimane non eravamo state spesso insieme.
Da quando avevo ricevuto la lettera di ammissione a Hogwarts, mi sentivo un'estranea in quel posto; dopotutto, pensavo, per i prossimi anni avrei passato lì solo le vacanze estive, e poi, non avevo ancora idea di che cosa avrei raccontato per giustificarmi.
La signora Cole aveva detto a tutti che Tom e io saremmo andati a studiare in una scuola-convitto fuori Londra e i più erano sembrati sollevati dalla notizia.
Naturalmente, Amanda non era stata dello stesso avviso, e da giorni cercava di intercettarmi per farsi dire qualcosa di più.
Presi posto accanto a lei e, come previsto, dopo qualche chiacchiera di circostanza, Amanda mi fece la domanda che da giorni le premeva chiedermi: «Allora andrete davvero a studiare in una scuola lontano da qui?»
Io aspettai un momento prima di rispondere, ripensando alla lettera da Hogwarts, che specificava di non fare parola della scuola e del mondo magico di cui faceva parte.
Annuii debolmente, ma sapevo che ad Amanda non sarebbe bastato e, infatti, lei continuò «Ma è per tuo fratello? Sì, insomma, si tratta di una scuola speciale o - »
La interruppi subito,  un po' brusca.
Avrei voluto urlare che Tom non era pazzo, che era speciale, in un modo che nessuno avrebbe mai potuto eguagliare, e che un giorno sarebbe diventato una persona importante e autorevole.
Ma non potevo farlo, neanche con Amanda, e così mi morsi la lingua.
Non che mi andasse a genio l'idea di mentirle, però.
«No, non proprio, non come pensano tutti» cominciai «È una scuola speciale per ragazzi molto intelligenti e c'è un fondo per aiutare quelli come noi».
Amanda annuì pensierosa, dicendo più a se stessa «Quindi siete delle specie di geni… È strano però, non ne ho mai sentito parlare».
«Perché non è in Inghilterra» dissi subito io «La scuola, intendo, non è in Inghilterra. Per questo non la conosci» precisai.
Amanda annuì di nuovo, quindi riprendemmo entrambe a mangiare e a parlare come sempre.
Finita la cena, decisi di tornare subito in camera mia.
Ero un po' preoccupata per Tom, e non volevo lasciarlo da solo per troppo tempo.
Lo trovai ancora seduto sul letto, con un libro aperto sulle ginocchia e la bacchetta levata.
«Tom, che stai facendo, sei impazzito!» sussurrai, richiudendomi in fretta la porta alle spalle.
«Non possiamo praticare la magia qui, il professor Silente è stato molto chiaro sull'argomento» lo ammonii, agguantando il libro.
Tom mi sibilò contro, ma non me ne preoccupai e ripresi «Dici sempre che detesti questo posto e proprio adesso che abbiamo la possibilità di lasciarlo per sempre, vuoi gettare tutto al vento facendo una cosa così stupida?»
«Finché non mettiamo piede a Hogwartss non ssiamo ssoggetti alle ssue regole» rispose mio fratello serafico «Guarda qui» continuò, prendendo un altro libro e aprendolo con precisione, indicandomi un paragrafo intitolato “La Magia Involontaria”
Perplessa, feci come mi diceva e lessi il breve testo:

Spesso capita che giovani maghi e streghe producano semplici incantesimi senza la volontà di farli. In questi casi si parla appunto di Magia Involontaria, dal momento che chi compie questi incantesimi non ha ancora il controllo su di essi e sulla propria magia, che si manifesta soprattutto in circostanze di particolare emotività.
Una volta ricevuta un'istruzione magica di livello base, i giovani maghi imparano a controllare la loro magia, anche se talvolta può capitare che anche gli adulti producano incantesimi involontari, sia a causa di un turbamento inteso, sia per semplice inabilità.
Generalmente, gli episodi di magia involontaria sono molto utili per verificare le capacità magiche dei bambini.


«Tom,» iniziai con calma «Qui parla di magia involontaria, tu hai in mano una bacchetta, è assolutamente volontario quello che stai facendo».
«Vai avanti a leggere» mi incalzò lui, in tono autoritario.

La Legge Magica stabilisce chiaramente che non è ammesso eseguire incantesimi alla presenza di Babbani, pena la distruzione della bacchetta. Per quanto riguarda i minori, è altresì chiaramente specificato dal regolamento del Ministero e di Hogwarts che ogni forma di magia è severamente vietata al di fuori delle mura della scuola e dai territori di sua competenza, pena l'espulsione dalla stessa. Ciò detto, dal momento che i giovani maghi non sono quasi mai in grado di controllare la propria magia, questi provvedimenti non li riguardano fino a quando non avranno completato il loro primo anno di istruzione.


Finii di leggere e, quando alzai lo sguardo, trovai mio fratello raggiante, la stessa gioia mostruosa e avida che lo coglieva ogni volta che stava per compiere qualcosa di poco accettabile.
«È un po' tirato per i capelli» sentenziai alla fine «Insomma, come puoi essere certo che il professor Silente non lo verrà a sapere e- »
«Inssomma, Lia» sbottò lui, il suo ghigno ora lievemente incrinato «Non può farci niente! Ma sse tu ssei troppo fifona…»
«D'accordo, d'accordo» cedetti alla fine.
Tom, di nuovo raggiante, si rimise all'opera e io, ormai rassegnata, lo lasciai fare.
«Questo a che cosa serve?» chiesi.
«A far levitare gli oggetti, potrebbe esssere utile» spiegò lui, quindi puntò la bacchetta contro la pila dei libri ed esclamò «Wingardium Leviosa!»
Nulla.
Tom riprovò ancora e ancora, ma ottenne sempre lo stesso risultato.
«Prova con questo» gli suggerii «Sembra più facile».
C'era una piccola incrinatura sul vetro della nostra finestra, così Tom puntò la bacchetta in quella direzione e ordinò «Reparo!»
Di nuovo, non accadde niente.
«Forse ci vuole un po' più di determinazione» ragionai ad alta voce.
Mi alzai e presi la divisa di scuola di mio fratello; nonostante non fosse nulla di speciale, nient'altro che una semplice tunica nera, più larga di due taglie, con il blasone di Hogwarts sul petto, sapevo che per Tom significava già molto: era un simbolo della sua unicità, la carta di ingresso nella nuova scuola.
La presi delicatamente tra le mani, poi, con un gesto rapido e deciso, diedi un strattone e la lacerai.
«Che cossa hai fatto!» il ringhio sibilante di Tom mi entrò fin nelle ossa.
«Ssei arrabbiato ora?» gli chiesi.
«Certo-che-lo-ssono.»
«Vuoi aggiusstarla? Allora fallo» lo esortai.
Con l'odio dipinto sul viso, Tom riprovò l'incantesimo.
Sentii la stoffa fremere tra le mie dita e in un attimo lo squarcio sparì, senza lasciare traccia di cuciture o rammendi, come se non ci fosse mai stato.
«Hai vissto?» esclamai gioiosa e decisamente sollevata; non ero poi così sicura che avrebbe funzionato.
«Direi che per sstassera è abbasstanza, andiamo a dormire» proposi.
Ma Tom era troppo euforico per darmi retta e, mentre i miei occhi si chiudevano, lo sentii bisbigliare nel buio.
Una luce flebile, ma di un biancore perfetto illuminò per poco la stanza e sentii mio fratello esultare.
Stava facendo progressi.


* * *



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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


4.4



Capitolo IV

Hogwarts





1 settembre 1938



I mesi erano passati veloci e tranquilli.
I gelidi artigli dell'inverno avevano ceduto il passo al tiepido abbraccio della primavera; i fiori erano sbocciati, riempiendo l'aria dei loro profumi, colorando il grigio e cupo cortile dell'orfanotrofio di mille sfumature di verde, di rosa e di giallo.
Le giornate si erano fatte più lunghe e il sole più caldo, talmente caldo da ardere l'erba tenera dei prati e far scoppiare i frutti troppo maturi rimasti sugli alberi.
Londra si era rapidamente svuotata, ma le fabbriche erano rimaste in funzione; i fumi neri e densi delle ciminiere avevano ammorbato la torrida e tremula aria estiva e, lungo il Tamigi, centinaia di persone avevano cercato un po' di frescura tra quelle acque livide e sporche.
Noi dell'orfanotrofio eravamo andati due giorni in campagna, vicino a un lago.
Non era stato particolarmente divertente, anche se il sollievo di essere finalmente evasi dall'opprimente calura urbana era stato palpabile.
E ora, dopo tutti quei mesi, il momento era finalmente arrivato.
La nostra vita, dopo oltre undici anni di piatta e monotona normalità, stava finalmente iniziando.

Erano da poco passate le sei del mattino, ma io ero già completamente sveglia.
Non che avessi dormito granché quella notte, visto ciò che mi avrebbe atteso nelle prossime ore.
Ero nervosa, ma anche eccitata.
Dopo mesi di riflessioni, di congetture, di timori, finalmente era arrivato il giorno di lasciare quel posto.
Avevo una strana sensazione, come di nostalgia.
Non avrei osato farne parola con Tom, perché sapevo che non solo non avrebbe condiviso, ma nemmeno approvato.
Dopotutto, però, quella era la nostra casa da sempre e mi dispiaceva lasciare Amanda, mentendole per giunta.
La cosa positiva era che quello avrebbe potuto essere un nuovo inizio per noi, specialmente per mio fratello.
Nonostante Tom, da quando aveva saputo della sua vera natura, fosse stato più tranquillo e si fosse comportato normalmente con gli altri bambini, restituendo tutti gli oggetti che aveva rubato, proprio come gli aveva detto di fare il professor Silente, non c'era stata più alcuna speranza per lui di stringere un qualche rapporto di amicizia. Quindi, forse, nella nuova scuola, dove nessuno ci conosceva o aveva motivo di temere o di diffidare di lui, forse lì Tom sarebbe riuscito a farsi qualche amico.
E anche io, naturalmente.
Sì, mi dissi, sarebbe stato un nuovo inizio; finalmente avremmo incontrato ragazzi come noi e avremmo vissuto in un luogo adatto a noi, circondati da persone che ci capivano, autoritarie, certo, ma competenti e capaci, proprio come il professor Silente.
Mentre riflettevo su queste cose, sentii Tom rigirarsi nel letto. Anche lui era sveglio da un po' e sicuramente aveva riposato ben poco.
«Tom?» lo chiamai, esitante.
«Dimmi» mi rispose lui, con voce perfettamente chiara e limpida.
«Ssei agitato?» gli chiesi in un sibilo quasi simile a un soffio.
Lui non mi rispose subito.
Poi, quasi come se pronunciare quel monosillabo gli costasse una tremenda fatica, disse «Ssì».
«Anche io» mi affrettai ad ammettere.
«Potremmo,» cominciò Tom, ma si interruppe. Io attesi paziente e, dopo un po', mio fratello continuò «Potremmo già andare alla sstazione?»
«Credo di ssì» risposi io.
Sentii mio fratello alzarsi di scatto e mettersi a sedere sul letto; quella volta fu lui a trascinarmi con il suo entusiasmo.
Il sole era già alto nel cielo quando finimmo di vestirci.
Avevamo ricontrollato i nostri bauli, accertandoci di aver preso tutto, quindi li avevamo trasportati di sotto.
La signora Cole era già lì ad aspettarci.
Con lei c'erano sono Colin Smith e Brian Cox, già vestiti di tutto punto, dato che anche loro quel giorno avrebbero iniziato la scuola, Babbana, si intende.
Terence Smith, che non era il fratello di Colin, doveva già essere uscito, visto che lavorava come garzone da un panettiere.
Alla fine, la sua famiglia non era venuta a prenderlo, anche se aveva promesso di farlo almeno una mezza dozzina di volte.
«Siete tutti pronti?» chiese la signora Cole e noi quattro annuimmo.
«Molto bene, allora voi due» disse, indicando i due ragazzini Babbani «Andrete con Martha, mentre voi,» continuò, rivolgendosi a mio fratello e a me «Sarete accompagnati a Londra dal signor Peterson»
«Non ci serve una balia» commentò Tom, acido.
«Avete così tanti bagagli, credo che-»
«Andiamo da soli» decise Tom, interrompendo la signora Cole, che sembrava piuttosto irritata.
Colin e Brian osservarono lo scambio in silenzio, ma con evidente interesse.
La signora Cole mi guardò, ma, con un cenno, io le feci capire che concordavo con mio fratello, così a lei non restò altro da dire che «Molto bene, buon viaggio allora».
«Addio» salutai, mentre mio fratello aveva già varcato l'ingresso e stava percorrendo il vialetto che portava al cancello.
Mi affrettai a seguirlo e in breve prendemmo a camminare per le vie polverose della periferia di Londra.
Era una bella giornata, mite e serena.
Ben presto, ci trovammo nel mezzo della folla che, come ogni mattina, si avviava alle proprie faccende.
Raggiungemmo la stazione della metropolitana di Whitechapel e da lì, in poco meno di un'ora scendemmo nelle vicinanze di King's Cross, precisamente a London St Pancras. Erano da poco passate le nove, così decidemmo di prendercela con comodo.
Percorremmo il breve tragitto e, proprio di fronte alla stazione, scorgemmo un piccolo caffè, gremito di pendolari che trangugiavano uova e pancetta prima di prendere il treno. Con un po' di fatica riuscimmo a conquistarci un minuscolo tavolino nell'angolo più estremo del locale.
Dopo pochi minuti, una cameriera dall'aria nervosa ci raggiunse e prese le nostre ordinazioni.
Né mio fratello, né io avevamo fame, così chiedemmo solo due tazze di the.
Tom estrasse dalla tasca gli ultimi penny Babbani che ci rimanevano; in fondo, dove stavamo andando, quelli non ci sarebbero serviti.
Restammo a lungo in silenzio e alla fine fu Tom a parlare per primo.
«Ssarà grandiosso» affermò.
Il suo viso affilato, così simile al mio, non era mai stato tanto tirato; era talmente felice da star male.
Io annuii e mi sentii estremamente fortunata ad avere lui.
Se fossi stata da sola, ragionai, probabilmente non avrei mai accettato l'offerta del professor Silente.
Di nuovo, rimanemmo in silenzio, quel silenzio che tra noi non era mai pesante o ingombrante.
Dopo un po', senza che nessuno dei due avesse detto niente, ci alzammo all'unisono: era ora di andare.
Uscimmo dal caffè, con al seguito i nostri bauli, che caricammo su grossi carrelli.
Non ero mai stata a King's Cross.
Non era una delle stazioni più grandi di Londra, anche se a me sembrava comunque immensa.
Tom tirò fuori il suo biglietto.
«Binario 9 e ¾ » lesse pensieroso.
Nella lettera, il professor Silente ci aveva avvertiti che non avremmo trovato alcun cartello con quel numero; il binario, infatti, era invisibile ai Babbani e per raggiungerlo bisognava oltrepassare la barriera che stava tra i binari nove e dieci.
«Quindi, ci passsiamo in mezzo?» chiese Tom.
Io mi limitai a stringermi nelle spalle; era mio fratello quello che sapeva tutto di magia.
«Facciamo di corssa» propose e aggiunse, percependo il mio nervosismo «Vado prima io e tu sseguimi ssubito».
Io gli sorrisi, riconoscente per il suo coraggio.
«Andiamo» sibilò lui in un sussurro, prima di lanciarsi contro il solido muro di mattoni che, proprio come per magia, lo lasciò passare.
Io strinsi più forte la presa sul carrello e spiccai una corsa.
Un attimo prima di scontrarmi contro la compatta barriera, chiusi gli occhi; quando li riaprii, King's Cross era sparita, e al suo posto c'era un unico, lungo binario fumoso.
Una locomotiva rossa sbuffava vapore biancastro, invadendo tutta la banchina.
Appeso a un pilone, accanto all'orologio che segnava le 10 e 25, c'era una grossa targa che indicava il numero del binario: 9 e ¾.
Tom mi venne incontro sorridendo.
«Ssaliamo?» mi chiese e io annuii.
Percorremmo il binario, non particolarmente affollato e scegliemmo uno dei vagoni di coda.
Ci impiegammo parecchio a caricare i nostri bauli sul treno e a trasportarli fino a uno scompartimento, infilandoli poi nelle rastrelliere.
Quando terminammo la faticosa operazione, la banchina era ormai gremita di persone.
Il treno si riempì velocemente e, poco dopo, la porta del nostro scompartimento venne aperta.
«Dico solo che sarebbe un vero peccato, Randolph» stava dicendo una ragazza, molto bella, con lunghi capelli neri e profondi occhi scuri.
«Se lo dici tu» rispose il ragazzo chiamato Randolph, prima di accomodarsi sul sedile accanto a mio fratello. Altri due ragazzi, probabilmente della nostra stessa età, lo imitarono, mentre la ragazza fece un gesto di saluto con la mano e scomparve nel corridoio.
«Nervoso, Lestrange?» chiese uno.
Aveva i capelli biondi, lunghi fino alle spalle e una voce particolare, strascicata, come annoiata.
Il ragazzo Lestrange lo ignorò, mentre gli altri due si lasciarono sfuggire una risatina di scherno.
Nessuno di loro sembrava essersi accorto della nostra presenza.
Osservai Tom e rimasi sorpresa nel constatare che non vi era traccia di fastidio sul suo volto; stava studiando i nuovi arrivati con interesse, con lo stesso cipiglio avido che assumeva quando notava qualcosa di potenzialmente utile.
Uno dei ragazzi, quello con la voce strascicata, si accorse dello sguardo insistente di mio fratello su di sé e, subito dopo, anche gli altri due ci prestarono attenzione.
«E voi sareste?» chiese, con lo stesso tono annoiato di prima.
«Tom Riddle e lei è mia sorella Ophelia» rispose mio fratello.
«Riddle?» ripeté quello chiamato Lestrange «Non mi pare di conoscere nessun Riddle» «Saranno Babbani» commentò l'altro che, fino a quel momento, non aveva ancora parlato.
Il tono con cui aveva detto “Babbani” mi fece capire che per lui quella parola era un insulto, ma, evidentemente, non gli importava di offenderci dicendolo davanti a noi.
Vidi Tom reprimere un moto di rabbia.
Cominciamo bene, pensai tra me.
«Non saprei, siamo orfani» rispose Tom dopo qualche secondo.
«Capisco, mi dispiace» disse il biondo, senza però una nota di dispiacere in quella sua voce monotona e quasi atona.
Sentii il fischio del treno che, subito dopo, iniziò a muoversi.
Ma ora, tutta l'eccitazione della partenza era svanita.
«Ci siamo finalmente» disse il ragazzo ancora sconosciuto e un ghigno gli distorse i lineamenti già non proprio gradevoli.
Il biondo intanto si era alzato in piedi per prendere il suo baule, dal quale estrasse una scacchiera.
Mio fratello e io non impiegammo molto a capire che quelli non erano scacchi normali: i pezzi, infatti, si muovevano da soli e, quando il Cavallo di Lestrange fece per mangiare un Pedone, quello davvero galoppò alla carica, distruggendo il mal capitato avversario.
La partita andò avanti per qualche minuto, entrambi i giocatori concentrati, immersi in un profondo silenzio, rotto all'improvviso da Lestrange, che disse «Hai barato, Abe» protestò, quando la Regina avversaria mise sotto scacco il suo Re.
Il ragazzo biondo, Abe, scoppiò a ridere e Lestrange scagliò con forza la scacchiera per terra, rompendola.
«Era un regalo di mio padre» lo informò il biondo «Mi devi una scacchiera nuova».
Con mia enorme sorpresa, Tom si rivolse ad Abe e, con voce tranquilla, asserì «Non credo».
Quindi, estratta la bacchetta, con voce sicura ordinò «Reparo» e la scacchiera, un attimo prima tranciata a metà, ritornò perfettamente integra.
«Wow!» mormorò Lestrange.
Anche gli altri due erano visibilmente impressionati.
«Sai fare altri incantesimi?» chiese il biondo; il suo tono era sempre strascicato, ma si distingueva una nota di autentico interesse nella sua domanda.
«Qualcuno» rispose Tom, con noncuranza.
«Io sono Randolph Lestrange» si presentò uno, e anche gli altri due lo imitarono, rivelandosi come Abraxas Malfoy e Antonin Dolohov.
«Spero finiate con noi a Serpeverde» disse Randolph, dopo averci chiesto di ripetergli i nostri nomi.
«Non c'è Casa più nobile a Hogwarts» concordò Abraxas.
«I Tassorosso sono semplicemente inutili» continuò Randolph «Credo mi ucciderei se finissi in quella casa».
«O in Corvonero» aggiunse Antonin, con un ghigno.
«Mia zia era Corvonero» ribatté Abraxas, infastidito.
«Comunque la peggiore sarebbe Grifondoro, la mia famiglia mi farebbe diseredare» riprese Raldolph, scatenando mormorii di assenso negli altri due.
Io ascoltavo in silenzio, chiedendomi che cosa sarebbe accaduto se fossimo finiti in una di quelle case tanto disprezzate.
Comunque, ben presto, cambiammo argomento e passammo il resto del viaggio a parlare di Quidditch, lo sport dei maghi, e delle attività che avremmo iniziato a Hogwarts.
L'antipatia iniziale era completamente svanita e, quando le ombre del crepuscolo si insinuarono fin dentro il nostro scompartimento, l'aria che si respirava era di assoluta cordialità e reciproco rispetto.
A un tratto, un ragazzo, di circa quindici o sedici anni, bussò al nostro scomparto e ci informò che mancavano poco meno di venti minuti all'arrivo.
Seguimmo il consiglio di Abe e indossammo le nostre divise scolastiche; io, naturalmente, preferii cambiarmi in bagno.
Il treno cominciò a rallentare e finalmente si arrestò.
Quando raggiungemmo il binario, l'aria notturna, notevolmente più fredda rispetto a quella della mattina, mi punse il viso, lievemente arrossato per l'eccitazione.
Ci siamo davvero, pensai emozionata.
«Primo anno, da questa parte» chiamò una voce.
«Di qua» disse Randolph e tutti e quattro ci affrettammo a seguirlo, radunandoci poi intorno all'uomo che continuava a chiamare i ritardatari; aveva circa sessant'anni, o forse molti di più, considerando quello che aveva detto Abe, ovvero che i maghi vivevano più a lungo dei Babbani e dimostravano sempre qualche anno di meno.
Poco dopo, ci mettemmo in cammino e raggiungemmo la riva di un lago, dalle acque nere e limpide, sulle quali si specchiava, maestoso, il castello di Hogwarts.
Là accanto, ormeggiate ad un piccolo molo, ci attendevano alcune barche, da tre o quattro posti al massimo.
Tom, Abraxas ed io salimmo insieme a un altro ragazzo, dall'aria un po' smunta e spaurita, mentre e Randolph e Antonin si imbarcarono insieme a due ragazzine, molto simili tra loro, che sfoggiavano ciascuna un'elaborata treccia bionda.
L'attraversamento non durò molto e, in breve, ci ritrovammo in quella che assomigliava a una galleria, leggermente in salita, probabilmente scavata nel cuore stesso del colle su cui sorgeva il castello.
Finalmente, approdammo e salimmo alcuni umidi scalini di pietra, sbucando poi in un ampio parco.
Da lì, sempre seguendo la guida dell'anziano mago, raggiungemmo il grande portone d'ingresso del castello e in fretta sciamammo tutti all'interno.
Ad accoglierci, c'era il più grande atrio che io avessi visto; era immenso, quasi minaccioso nelle sue proporzioni decisamente esagerate, semplicemente troppo per una ragazzina di undici anni.
Seguimmo la nostra guida fino a una scalinata di marmo, finemente lavorata, e venimmo condotti in una piccola stanza, dove ci venne chiesto di aspettare.
Poco dopo, niente meno che il professor Silente ci venne incontro e ci informò che lo Smistamento avrebbe avuto luogo tra poco.
Elencò poi i nomi e le caratteristiche delle quattro Case di Hogwarts, ma Tom ed io sapevamo già tutto grazie ai nostri nuovi amici.
Quindi, lo seguimmo fuori dalla stanza, lungo un corridoio, fino ad un grande portale di bronzo che si spalancò per noi.
La Sala Grande, con il suo alto soffitto incantato, era semplicemente maestosa, molto più strabiliante di quanto avrei mai potuto immaginarla solo leggendo il libro “Storia di Hogwarts”.
Centinaia di studenti, seduti intorno a quattro lunghi tavoli, ci osservarono curiosi mentre percorremmo quella che mi sembrò essere la navata centrale di una cattedrale, fino in fondo, dove, a un altro tavolo, disposto orizzontalmente, come un altare, erano gentilmente accomodati gli insegnanti e il Preside.
Alle loro spalle, una grande vetrata istoriata si affacciava sulle tenebre.
Ci disponemmo in fila davanti alla scolaresca, riuniti attorno a uno sgabello su cui giaceva un vecchio cappello di stoffa scura.
«Ora chiamerò ciascuno di voi» ci informò Silente «Quando sentirete il vostro nome, verrete avanti e prenderete posto su questo sgabello. Io vi porrò il Cappello Parlante sulla testa e verrete così smistati nelle vostre Case. Ma prima, la parola al nostro saggio Cappello» concluse, con un luccichio divertito nei limpidi occhi azzurri.
Per un attimo, non accadde niente, poi, all'improvviso, il Cappello si animò e, da uno squarcio, come una bocca, con voce squillante, quello iniziò a cantare.
«Un applauso per il nostro ottimo Cappello» esclamò Silente, quando il copricapo terminò la sua canzone, decisamente banale, e tornò ad essere silenzioso e inerte.
«Anderson, Micheal» chiamò Silente.
Il ragazzino che era con noi sulla barca si fece avanti, titubante.
Silente gli calcò il Cappello sulla testa e quello, troppo largo, gli calò ben al di sotto delle orecchie, coprendogli gli occhi.
Dopo qualche istante, lo squarcio nella stoffa si spalancò di nuovo e il Cappello esclamò «CORVONERO!»
Dal tavolo della Casa nominata si sollevarono applausi e grida di esultanza, che si quietarono non appena il professor Silente chiamò il secondo nome «Avery, Jerald» che poco dopo viene smistato in Serpeverde.
Il professore continuò a scorrere a lista e, dopo un altro paio di nomi, Antonin venne chiamato e subito assegnato a Sepreverde; lo stesso accadde per Randolph e, dopo un Tassorosso e due Grifondoro, per Abraxas.
Finalmente, arrivammo alla R e, dopo «Richardson, Claire» smistata in Tassorosso, Silente chiamò «Riddle, Ophelia».
Con passo incerto, raggiunsi lo sgabello e il Cappello mi venne gentilmente posato sul capo, finendomi poi davanti agli occhi.
Improvvisamente, tutti i suoni e le luci della Sala scomparvero e una vocetta si insinuò nella mia mente; apparteneva al Cappello Parlante, capii subito dopo.
«Mmm,» lo sentii mormorare «Difficile, davvero difficile».
«Perché difficile?» mi chiesi, preoccupata, e il Cappello sembrò percepire la mia domanda, come se l'avessi pronunciata ad alta voce.
«Non preoccuparti, cara» mi rassicurò «Capita a volte, ma riesco sempre a collocare tutti al proprio posto. Dunque vediamo … C'è talento, questo lo vedo, ma anche una forte insicurezza. Forse Tassorosso, dove il tuo impegno sarebbe premiato, anche se … » «Non voglio finire tra i Tassorosso!» esclamai nella mia mente, memore delle parole di Randolph, che aveva definito quella Casa “inutile”.
«Non dovresti farti influenzare dalle opinioni degli altri, sai?» mi suggerì il Cappello, al che percepii le mie guance tingersi di rosso.
«Ma forse non sarebbe la scelta più giusta… Sicuramente, Corvonero ti aiuterebbe a coltivare la tua individualità… Mmm»
Potevo cogliere i pensieri frenetici del Cappello, mentre anche io riflettevo: tutti quelli con cui avevamo fatto amicizia erano tra i Serpeverde e sembravano forti, sicuri di sé.
Esattamente come Tom, mi ritrovai a considerare.
Un pensiero, che fino a quel momento non mi aveva neppure sfiorata, mi folgorò all'istante e un panico crescente minacciò di farmi perdere totalmente il controllo.
«Non voglio essere divisa da Tom, non posso!» urlai nella mia mente, interrompendo i ragionamenti del Cappello.
«Ma potrebbe essere un bene, non credi?» mi chiese lui, ma io protestai con convinzione.
«Mmm, sì, certo, noto una certa ambizione… Rimango della mia idea, però; Corvonero potrebbe essere il posto più indicato per te» dichiarò infine il copricapo «Ma, dopotutto, non posso non tener conto di quello che mi hai detto, o del tuo desiderio di emergere, né della tua determinazione inaspettata, che troverebbero una facile collocazione in … » considerò, prima di gridare ad alta voce «SERPEVERDE!»
Il Cappello mi venne tolto dalla testa e vidi il tavolo di Serpeverde esplodere in applausi; Abe, Randolph e Antonin erano fra quelli che battevano le mani con più intensità.
«Riddle, Tom» chiamò Silente, mentre io mi accomodavo al tavolo della mia nuova Casa. Mio fratello, al contrario di me, avanzò con sicurezza e, dopo neanche un minuto, il Cappello ruggì di nuovo «SERPEVERDE!»
Un nuovo tumulto di applausi e grida di benvenuto si levò dal nostro tavolo e finalmente tutti i timori svanirono dalla mia mente.
“Siamo insieme, di nuovo e per sempre”, pensai, sollevata.
Fu solo dopo qualche anno, però, quando il nostro legame, già intenso, si rafforzò ancora di più, che Tom mi confessò quello che il Cappello Parlante gli aveva sussurrato quella sera.


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