The Man in The High Castle di _Joanna_ (/viewuser.php?uid=539983)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
1.1
Prologo
Londra, 12 ottobre 1998
Una leggera pioggia, gelida e pungente, sferzava il viso di Neville
Paciock che, avvolto in un pesante mantello marrone, camminava
lungo il sudicio marciapiede della Regent Street.
Un tempo, quella era stata la via più bella del quartiere, con i
suoi eleganti edifici, sedi di importanti società e ambasciate,
i suoi splendidi giardini ben tenuti, i suoi negozi raffinati e i suoi
pub esclusivi.
Ma la guerra aveva cambiato tutto.
Quando le atrocità erano cominciate, i ricchi abitanti del posto
avevano fatto le valigie e si erano rifugiati nelle loro case di
campagna, ben presto imitati dai negozianti che, in fretta e furia,
avevano tirato giù le saracinesche e avevano seguito i loro
facoltosi clienti nell'esilio.
Così abbandonati, i bei palazzi erano stati occupati da barboni
e criminali, e i negozi e i pub si erano trasformati in sordidi
ricettacoli.
Ma quel sacrificio, quella rinuncia, non erano serviti a nulla; la campagna, infatti, non era stata risparmiata.
La lunga mano nera del Signore Oscuro aveva raggiunto quei ricchi
signori e li aveva strangolati nei loro letti, laddove si erano creduti
al sicuro.
Neville aveva appena otto anni quando tutto era finito, ma ricordava
ancora perfettamente le parole di suo padre: “Oggi, la
libertà è morta” aveva detto, sfogliando quella che era
stata l'ultima edizione della Gazzetta del Profeta, e Neville,
crescendo, aveva compreso quanto questo fosse vero.
La pioggia crebbe d'intensità.
Neville scacciò via quei tristi pensieri dalla propria mente e
affrettò il passo; svoltò l'angolo e imbucò uno
stretto vicolo, invaso dall'immondizia.
E lì, tra quei cumuli maleodoranti, individuò quello che stava cercando.
Si guardò intorno, circospetto, quindi scese i pochi gradini,
fermandosi poi davanti a una piccola porta grigia; allungò la
mano stretta a pugno e bussò.
Un colpo, una pausa, due colpi, un'altra pausa, poi altri due colpi.
Per un po' non accadde nulla e Neville cominciò a temere di aver sbagliato la bussata.
Poi, finalmente, l'uscio venne schiuso e un vivido occhio azzurro fece
capolino nello spiraglio; quello guizzò rapido su di lui e
Neville si ritrovò a sorridere, impacciato.
L'altro uomo grugnì, quindi aprì la porta, quel tanto che bastava a farlo passare.
«Piantala di sorridere come un idiota» lo accolse poi, quando Neville gli sgusciò accanto.
«È un piacere vederti, Ab» replicò Neville, allegro.
«Sì, certo, come no» borbottò Ab, allontanandosi per ritornare alla sua postazione, dietro al bancone.
La Testa di Porco Rifondata, questo era il nome del locale, non era un
luogo particolarmente accogliente, ma, dopotutto, non lo era mai stato
neanche il pub originale.
Neville si guardò intorno; quella sera il locale non era
particolarmente affollato e così non ebbe difficoltà ad
individuare i suoi amici, Ron e Hermione, seduti sugli sgabelli davanti
al bancone.
«'Sera» salutò, avvicinandosi.
I due si voltarono.
«Dov'eri finito?» chiese Ron, brusco.
«Ciao Neville» lo salutò la ragazza, con un sorriso.
«Ho appena staccato» rispose Neville, prendendo posto su un
terzo sgabello, accanto all'amico, e liberandosi in fretta dal pesante
mantello.
«Ma Simpson non aveva detto che si trattava solo di qualche scartoffia?» chiese intanto Ron.
«Qualche scartoffia si è rivelata essere un mucchio di
scartoffie» rispose Neville, evasivo, e Ron parve accontentarsi
di quella spiegazione.
In realtà, anche volendo, Neville non avrebbe saputo essere
più preciso; lui si era, infatti, semplicemente limitato a fare
il proprio lavoro.
Quella sera, poco prima della fine del turno, Simpson, il suo capo al
Dipartimento Permessi e Licenze del Ministero della Magia, lo aveva
richiamato: un spessa pila di documenti era appena stata portata
giù dal Secondo Livello del Ministero, dove si trovavano gli
Uffici per l'Applicazione della Legge sulla Magia, nonché il
Quartier Generale dei Mangiamorte, e aveva urgente bisogno di essere
esaminata.
Non c'era nulla di strano, in effetti, poiché il suo lavoro, e
quello di Ron, consisteva nel compilare montagne di scartoffie, ma
Neville ancora non riusciva a scacciarsi di dosso l'idea che quel
particolare fascicolo, arrivato direttamente dai piani alti,
riguardasse qualcosa di importante e potenzialmente pericoloso.
Tuttavia, l'unica cosa che sapeva per certa era che il mago, a cui era
stata revocata la licenza per il suo giornale, doveva aver scritto
qualcosa che aveva infastidito il Ministero.
«Cosa ti porto?» chiese Ab in quel momento. Neville sussultò, riscuotendosi dai propri pensieri.
«Una camomilla, direi» scherzò Ron, notando la reazione dell'amico.
«Il solito» rispose Neville e Ab, scuotendo la testa, si apprestò a soddisfare la sua richiesta.
Il vecchio Ab non aveva mai avuto alcun senso dell'umorismo,
rifletté Neville, anche se lui proprio non riusciva a biasimarlo;
per quelli della sua generazione, infatti, la voglia di ridere era
stata soffocata dalle tragedie della guerra.
«Assurdo!» esclamò a un tratto Hermione; aveva
appena iniziato a sfogliare il giornale, il Corriere dell'Ibis e doveva
essersi imbattuta nell'ennesima brutta notizia.
«Che è successo stavolta?» chiese infatti Ron, stancamente.
«Hanno arrestato il vecchio Dedalus» rispose Hermione, senza staccare gli occhi dalla pagina.
«Dedalus?» domandò Neville, sorpreso «Dedalus Lux?»
«Secondo fonti ufficiali» lesse Hermione «l'anziano
Lux è stato trovato in possesso di alcuni volantini e altro
materiale di propaganda ribelle. Immediatamente allertati, i
Mangiamorte hanno disposto il fermo per Lux, che ora dovrà
difendersi dall'accusa di possesso e tentata divulgazione di materiale
illegale».
«Povero Dedalus, lo dicevo che prima o poi si sarebbe messo nei guai» commentò Ron, amareggiato.
«Non dice di quale materiale si tratta?» chiese Neville,
mandando giù il suo bicchierino di Whisky Incendiario.
«Parlano solo di generica propaganda ribelle» rispose Hermione, cupa.
«Probabilmente si tratterà di uno di quei soliti manifesti un po' volgari» osservò Ron.
In effetti, quel genere di cose andava parecchio di moda tra coloro che
ancora non si erano rassegnati alla vittoria del Signore Oscuro.
Generalmente, quei manifesti raffiguravano un qualche importante
funzionario del Ministero, dai tratti grottescamente deformati, o un
anonimo mago vestito da Mangiamorte e impegnato a fare qualcosa di poco
dignitoso.
Ad ogni modo, il Governo mal tollerava quel tipo di facezie, e chi
esagerava veniva spesso ospitato per qualche giorno in una delle
esclusive stanze due metri per due della Marshalsea.
Evidentemente, questa volta Lux doveva aver infastidito un pesce un po' troppo grosso.
«Bé, sarà meglio che vada» disse Hermione, infilandosi il cappotto.
Ron fece per protestare, ma la ragazza continuò «Ho un
mucchio di lavoro da fare e poi ho promesso a tua sorella che sarei
passata a salutarla».
«Oh, d'accordo» si arrese Ron.
Hermione gli sorrise, quindi gli schioccò un rapido bacio sulla guancia.
«Ci vediamo a casa» disse poi, «Ciao Neville» salutò e, in fretta, uscì dal locale.
Ron, rabbuiato, si appoggiò con i gomiti sul bancone.
«Bé, almeno tu hai qualcuno che ti aspetta» commentò Neville, indovinando i pensieri dell'amico.
Ron si lasciò sfuggire un mezzo sorriso.
«Potresti averlo anche tu, se non te stessi tutto il giorno a
parlare alle piante» osservò Ab, che era ricomparso
davanti a loro.
Neville si limitò a stringersi nelle spalle e ordinò di nuovo da bere per entrambi.
«Passami un po' quel giornale» disse poi, rivolto a Ron.
Lo sfogliò distrattamente, quindi lo richiuse per leggere i titoli in prima pagina.
Ovviamente, la notizia del giorno riguardava i grandi festeggiamenti
che si sarebbero tenuti, di lì a due settimane, per celebrare il quindicesimo anniversario della vittoria del Signore Oscuro.
Il 31 ottobre 1983, infatti, Bartemius Crouch, allora Ministro della
Magia, aveva firmato la resa, totale e incondizionata, davanti a
un'enorme platea esultante: dopo quasi dieci anni di guerra civile, il
Ministero aveva capitolato e il Signore Oscuro aveva trionfato.
La Resistenza aveva continuato a combattere, ma i suoi sforzi si erano
fatti via via sempre meno incisivi; i suoi leader erano stati stanati e
giustiziati, i suoi migliori guerrieri abbattuti e, adesso,
dell'orgogliosa Ribellione non restava altro che qualche sparuto gruppo
di maghi, troppo testardi per cedere, troppo deboli per rappresentare
una seria minaccia.
Il Signore Oscuro, invece, aveva rapidamente cementato il suo potere:
aveva nominato i suoi nuovi Ministri, fatto approvare nuove leggi e in
breve aveva instaurato il suo Regime dittatoriale su tutta
l'Inghilterra, e non solo.
Ora, infatti, ai vertici dei Ministeri della Magia dei vari Paesi,
c'erano uomini a lui fedeli o comunque a lui graditi, che perseguivano
la sua stessa politica repressiva e crudele.
E poi, c'erano i Babbani.
Quando la Comunità Magica era venuta allo scoperto, la maggior parte dei Babbani aveva stentato a crederci.
Ma gli orrori che i seguaci del Signore Oscuro avevano scatenato su di
loro erano stati la prova che non solo la Magia esisteva, ma anche che
aveva il potere, e la volontà, di sterminarli.
I Babbani avevano tentato di combattere, ma le loro armi si erano
rivelate inutili contro i maghi, le loro difese futili davanti ai
potenti incantesimi dei Mangiamorte.
E così, i Babbani erano stati umiliati, piegati, schiacciati.
I più fortunati erano stati uccisi durante i violenti attacchi e le spedizioni punitive dei Mangiamorte.
Tutti gli altri, invece, avevano conosciuto l'orrore della persecuzione, l'abominio dell'annientamento.
Non erano però stati un nemico facile da abbattere: infatti, dopo la firma della pace e l’instaurazione del regime, ci erano voluti altri cinque anni per sedare le rivolte, e il Signore Oscuro aveva dovuto imparare a proprie spese quanto fosse orgogliosa quella stirpe, a suo dire, inferiore.
Ma, come è evidente, coraggio e ardimento non potevano offrire alcuna protezione contro gli Anatemi letali.
La popolazione non magica era stata pesantemente decimata e, nell’ultimo anno di quella guerra sanguinosa e brutale, i Babbani avevano pagato duramente i loro sforzi per difendere ciò che restava della loro libertà; gli atti finali della guerra erano stati qualcosa di tremendo, inumano: tre diversi Primi Ministri erano stati assassinati, mentre una lunga serie di massacri era stata perpetrata in varie zone strategiche del Paese; intere famiglie erano state sterminate, trucidate e i loro corpi, esposti al pubblico come monito, erano divenuti oggetto di vilipendio da parte dei molti, troppi maghi che avevano accettato la tirannia.
Per un po’, anche a Ribellione sedata, i Mangiamorte avevano continuato a uccidere, ma, ben presto, la spietata caccia al Babbano si era trasformata
in una raffinata politica di contenimento e di lenta, ma inesorabile,
estinzione; sparsi per il Paese, infatti, i milioni di Babbani
sopravvissuti conducevano una misera esistenza nelle zone a loro
dedicate, nelle quali avevano tentato di ricostruire una sorta di
normalità.
Quanto ai maghi, anche per loro l'onnipresente Ministero aveva
pensato una politica appositamente dedicata; l'intera popolazione
magica, infatti, era stata censita, esaminata, classificata, modellata
secondo gli schemi accuratamente ideati e teorizzati dal Signore Oscuro.
Nella distorta visione del tiranno, il fior fiore della comunità
magica erano i Purosangue; essi godevano di tutti i diritti e i
privilegi riservati al loro sangue nobile, a patto che, naturalmente,
si adeguassero ai dettami del nuovo regime, cosa che, alla maggior
parte di loro, non creava alcun problema.
Poi venivano i Mezzosangue, suddivisi in base alla “genealogia
magica”, ovvero alla quantità di sangue Babbano che
scorreva nelle loro vene, e dunque la loro posizione era migliore o
peggiore a seconda della loro Purezza.
Dopo c'erano i Nati Babbani, i Sanguemarcio, coloro che erano nati in
famiglie Babbane e che non potevano vantare alcun antenato magico.
Inizialmente, erano stati oggetto di una brutale persecuzione e molti
avevano subito il medesimo, tragico destino dei loro concittadini
Babbani; anzi, a dire il vero, a loro era stato riservato un
trattamento ancora più crudele, come se il Signore Oscuro li
ritenesse assurdamente responsabili di aver “rubato” i
poteri dei maghi.
Ma poi qualcosa era cambiato.
Forse l'Oscuro Signore doveva aver capito che era impossibile sradicare
il gene magico latente nella popolazione Babbana, o forse era stato
persuaso che, dopotutto, anche i Sanguemarcio erano maghi e dunque la
loro vita doveva pure valere qualcosa.
E così, l’Ufficio per il Censimento e il Controllo dei Nati
Babbani aveva mutato linea d'azione; ora, infatti, non si limitava
più solo ad individuare i Nati Babbani, ma si occupava anche di
contenerne il “potenziale virale”.
I Nati Babbani, infatti, per via della loro condizione, dovevano
essere, nei fatti, impossibilitati a diffondere il loro sangue non
magico tra i maghi e, allo stesso modo, doveva altresì essere
impedito loro di spargere quella scintilla di magia all'interno
della comunità Babbana.
E l'unico modo per farlo era sterilizzarli. Tutti quanti.
Ai piedi di quella grottesca piramide sociale, poi, c'erano i
Maghinò, ovvero quelle persone che erano nate in una famiglia di
maghi, ma che non possedevano alcuna capacità magica.
Erano considerati alla stregua di intoccabili, e la loro condizione era
quasi peggiore di quella dei Babbani. Per il Ministero erano come degli
errori, degli abomini della specie magica, un fastidioso inciampo nella
sfrenata corsa alla perfezione della nobile stirpe dei maghi.
Anche per loro era stato istituito un comitato speciale, la Commissione per
la Salvaguardia della Stirpe Magica. Era situato nelle viscere
del Ministero, all'Undicesimo Livello, sotto il piano dedicato
all'Ufficio Misteri, ed era tristemente noto a tutti quello che
accadeva tra quelle mura bianche e asettiche: lì, infatti,
trascinati con la forza o condotti dalle loro stesse, nobili, famiglie
Purosangue, e anche molte Mezzosangue, i giovani Maghinò
andavano incontro a un destino tanto crudele quanto repentino.
Una squadra di Medimaghi, accuratamente selezionata e perfettamente
addestrata, trattava i Maghinò come meritavano: i più
deboli, i più fortunati, venivano eliminati con l'Anatema che
Uccide; gli altri, i discendenti di famiglie non molto importanti,
meglio ancora se ex ribelli perdonati, venivano invece condotti in
celle appositamente preparate, dove i Guaritori avevano modo di
approfondire le loro conoscenze, sperimentando su quegli sventurati
incantesimi e pozioni, nel tentativo, sostenevano loro, di curare
quella tremenda malattia.
Non serviva però un grande Veggente per immaginare quello che
davvero accadeva laggiù, in quei candidi cubicoli dove
Maghinò, ribelli e Babbani fungevano da cavie umane per i folli
esperimenti del viscido Raptor.
Dunque, in definitiva, quello era decisamente un mondo cupo e triste in
cui vivere, dove la speranza di un futuro diverso e migliore stava
cedendo rapidamente il passo a una tetra e desolata rassegnazione.
Neville ancora non poteva saperlo, ma la scintilla della rinascita era già stata appiccata.
* * *
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Capitolo 2 *** Capitolo I ***
2.2
L'aria della sera era fredda e pungente, ma almeno aveva smesso di piovere.
In uno dei molti vicoli del
quartiere di Camden Town, una figura minuta e solitaria si aggirava tra
le poche bancarelle ancora aperte. Una volta, quello era stato uno dei
mercati cittadini più grandi e famosi del Paese, ma, con il
passare degli anni, quello si era ridotto a qualche sparuto banchetto;
dopotutto, le merci ancora consentite erano poche e le licenze concesse
erano ancora meno.
Hermione Granger non avrebbe
desiderato di meglio che uno bel camino scoppiettante, una tazza di
cioccolata fumante e una pila di pratiche del lavoro aperta sulle
ginocchia.
Ma aveva promesso a Ginny che
sarebbe passata a trovarla e così, avvolta nel suo pesante
cappotto scuro, si affrettò a percorre l'ultimo tratto di
strada; sperava di potersi limitare a un saluto veloce, così da
avere il tempo di tornare a casa e lavorare per un'oretta, prima
dell'arrivo di Ron.
Superò un chioschetto di
alimentari, posto all'angolo tra la Inverness Street e la Alington
Road; imboccò quest'ultima, camminando a passo spedito, fino a
raggiungere il piccolo arco che segnalava l'ingresso della Early Mews,
null'altro che uno stretto vicolo cieco strangolato dagli alti palazzi
dai mattoni rossi.
Ginny viveva in uno di quei miseri
appartamenti, anche se la ragazza era riuscita a rendere quel tetro
ambiente decisamente accogliente.
Salì i pochi gradini che
conducevano al portone di ingresso; quello avrebbe dovuto essere
chiuso, ma la vecchia serratura era stata forzata anni prima e non era
mai stata sostituita.
Hermione spinse piano uno dei battenti, che cigolò sommessamente sui cardini.
L'atrio del palazzo era buio e
cupo, illuminato solo da un piccolo lampadario a petrolio appeso al
soffitto, che gettava tutt'intorno un debole e fumoso alone giallastro.
Salì le scale, anch'esse
invase dalle ombre e raggiunse il secondo piano. Lo stretto
pianerottolo era, come il vestibolo d'ingresso, tetro e scuro; ai due
capi del corridoio, c'erano due lanterne a gas, ma quella in fondo si
era esaurita da un pezzo; le pareti erano coperte da un'elegante
tappezzeria color amaranto, ora scollata in più punti,
intervallata da sei pesanti porte di legno, tre per lato.
L'appartamento di Ginny era l'ultimo sulla sinistra.
Hermione raggiunse la porta e bussò.
Dall'altra parte, si udirono dei
suoni strascicati, quindi un tonfo; allarmata, Hermione sollevò
il braccio per bussare di nuovo, mentre la mano destra si stringeva
meccanicamente intorno all'impugnatura della bacchetta.
In quel momento, la serratura scattò e l'uscio venne aperto di qualche centimetro.
La massa di capelli rosso fuoco
della sua amica fece capolino nella stretta fessura; l'interno
dell'appartamento, notò subito Hermione, era stranamente buio.
«Oh, Herm, sei tu» sospirò Ginny, sollevata, nascondendo in fretta la bacchetta nella tasca della giacca.
Tuttavia, la porta non venne scostata di un altro millimetro.
Hermione poteva vedere solo una
metà del volto dell'amica, che pareva tesa, quasi terrorizzata,
e questo, unito alle circostanze decisamente insolite, era abbastanza
per intuire che c'era qualcosa che non andava.
«Posso entrare?» chiese alla fine Hermione.
«Ehm» cominciò Ginny, incerta «Non credo sia il momento migliore».
«Ma-» fece per
replicare Hermione, ma l'amica la interruppe «Scusa, avrei dovuto
avvisarti, ma avevo dimenticato che saresti passata» disse
«Ho un po' da fare, ci vediamo domani, ok?» aggiunse, quasi
chiudendole la porta in faccia.
Hermione la bloccò con il palmo della mano; ora cominciava ad essere turbata anche lei. «Che succede, Ginny?»
«N-nulla» rispose l'altra, incerta «Ho solo delle cose da fare».
Hermione avrebbe voluto insistere,
ma l'amica riprese «Davvero, Herm, mi spiace» disse, questa
volta con un sorriso «Ma ho proprio da fare, facciamo un'altra
volta».
Hermione annuì e Ginny, con
un ultimo sorriso, la salutò, chiudendo di nuovo la porta,
facendo poi scattare almeno due serrature diverse.
Ancora perplessa, ma senza avere
ulteriori elementi per capire quello che stava accadendo, Hermione si
risolse a tornare sui propri passi; sicuramente doveva esserci una
spiegazione per lo strano comportamento di Ginny, e Hermione
sperò che l'amica non si fosse cacciata in qualche guaio.
Stava scendendo gli ultimi
gradini, quando vide due uomini fare il loro ingresso nell'atrio del
palazzo; erano avvolti in pesanti cappotti scuri e portavano entrambi
un grosso cappello floscio, tipico delle bande di Ghermidori, che da
anni infestavano le città inglesi.
Quelli, a capo chino, le passarono accanto, apprestandosi poi a salire le scale.
Hermione avanzò fino al
portone, quindi si fermò e, sospettosa, tese l'orecchio;
sentì i due uomini salire una rampa di scale, poi una seconda;
quindi si fermarono, borbottarono qualcosa tra loro, e ripresero a
camminare.
Hermione, tesa, ma determinata,
salì silenziosamente le scale, fino al secondo piano; si
accucciò poi tra i gradini, scrutando i due sconosciuti
attraverso la ringhiera del corrimano.
La penombra, in quella parte del
corridoio, era fitta, ma Hermione intuì ugualmente che i due
Ghermidori si erano fermati proprio davanti alla porta di Ginny.
Non bussarono; con un movimento
secco e preciso, uno dei due lanciò un incantesimo, quindi
l'altro afferrò la maniglia e spinse.
Dall'interno, un raggio rosso e intenso sfrecciò verso i due uomini, che si fecero scudo e irruppero nell'appartamento.
Hermione, terrorizzata, agguantò la propria bacchetta, quindi spiccò una corsa in avanti.
I rumori della lotta furiosa non
si fecero attendere; Hermione aveva quasi raggiunto l'ingresso, quando,
con un ultimo tonfo, cadde il silenzio.
Hermione si fermò,
angosciata, il braccio armato teso davanti a sé; un istante
dopo, un'ombra varcò la soglia.
«Che ci fai ancora qui?» urlò Ginny.
Hermione sollevata, abbassò la bacchetta.
L'interno dell'appartamento era ancora silenzioso, ma Hermione non sapeva che cosa ne fosse stato dei due Ghermidori.
«C-Cosa… ?»
fece infatti per chiedere, ma l'amica l'afferrò per un braccio,
strattonandola lontano. «Andiamo» la esortò poi,
impaziente, mettendosi a correre.
Hermione non ebbe altra scelta che seguirla.
Ginny la guidò giù
per le scale, quindi attraversò l'atrio, dirigendosi però
dalla pare opposta rispetto all'ingresso, fino a una piccola porta che
si apriva sul retro dell'edificio; sbucarono in un piccolo cortile,
sudicio e invaso dall'immondizia.
«Che sta succedendo?» domandò Hermione, ora più irritata che spaventata.
Ginny non rispose; si
guardò intorno, circospetta, quindi attraversò lo
spiazzo, fermandosi all'inizio di uno stretto e corto tunnel.
All'estremità opposta,
quello era chiuso da un piccolo cancello, tutto arrugginito, affacciato
direttamente sulla Arlington Road.
«Vieni» la incalzò Ginny, imboccando l'angusto passaggio.
Hermione la seguì, confusa.
Dopo qualche passo, la ragazza si
fermò di nuovo, a pochi centimetri dall'inferriata, quindi si
voltò verso di lei.
Le luci dei lampioni della strada
illuminavano il suo viso: non sembrava più spaventata come
prima, al contrario, ora Ginny esibiva un'espressione risoluta e il suo
sguardo era limpido e determinato.
«Herm»
bisbigliò piano, ma questa volta fu Hermione ad interromperla
«Si può sapere che cosa succede? Chi erano quegli uomini,
e perché ti hanno attaccata?»
«Mangiamorte» rispose
Ginny, sbrigativa, ignorando lo sguardo sconvolto dell'amica
«Volevano questo» aggiunse poi, estraendo dalla tasca della
giacca quello che a Hermione parve essere un giornale arrotolato.
Quindi lo tese in avanti; Hermione la fissò confusa.
«Prendilo tu» la incalzò Ginny.
«Che cos'è?» fu
tutto quello che riuscì a dire Hermione. Stava cominciando a
capire, anche se aveva il disperato bisogno di sentirsi dall'amica che
non si era davvero cacciata in quel guaio enorme.
«Una speranza» rispose Ginny, sorridendo «Una via di uscita» aggiunse.
Benché ancora perplessa, Hermione prese il giornale e lo infilò in tasca.
In quel momento, si udirono delle voci concitate e il rumore di passi in avvicinamento; i Mangiamorte si erano ripresi.
«Vai!» gridò Ginny, tirando il cancello e spingendo letteralmente Hermione all'esterno.
I due Mangiamorte spalancarono la piccola porta e si riversarono nel cortile «Eccola!» ringhiò uno dei due.
Hermione fece per tornare indietro, ma Ginny aveva già richiuso il cancello, agitando la bacchetta per sigillarlo.
«Gin-?!»
«Vai!» mormorò di nuovo l'amica, quindi si voltò per fronteggiare i suoi aggressori.
Hermione si slanciò di
lato, quindi si accucciò a terra, spalle al muro, incapace sia
di allontanarsi che di guardare quello che stava accadendo nel tunnel.
Udì gli schianti degli
incantesimi che si infrangevano sulle pareti del passaggio,
riecheggiando orrendamente, mentre le voci dei due Mangiamorte si
facevano sempre più vicine.
Poi accadde.
Hermione si sporse in avanti,
credendo assurdamente di poter aiutare la sua migliore amica, ed
assistette così alla più tremenda delle visioni.
All'imbocco del tunnel, uno dei
due uomini era caduto a terra e si divincolava furiosamente, costretto
nelle pesanti funi che lo stavano stritolando.
L'altro Mangiamorte superò
con un balzo il compagno, senza curarsi di aiutarlo, quindi, schivato
un incantesimo lanciato da Ginny, ruggì «Avada
Kedavra!»
Il letale lampo verde saettò nell'aria, generando un prodigioso riflesso smeraldino, luminoso come il sole.
Ginny venne colpita in pieno.
La forza dell'incantesimo la
scagliò con violenza contro il cancello, che tremò
furiosamente, quindi Ginny ricadde, esanime, sul sudicio pavimento di
mattoni.
Hermione si ritrasse di scatto, la mano premuta contro la bocca per soffocare un grido di disperazione e orrore.
Il Mangiamorte, ora libero dall'incantesimo, si rialzò con un grugnito e si avvicinò al compagno.
Senza dire una parola, i due assassini cominciarono a frugare nelle tasche del cappotto della loro vittima.
«Niente» disse poi uno
dei due; la sua voce era dura e aspra, il tono contrariato che non
tradiva alcuna compassione.
«Feccia ribelle» commentò l'altro, sputando poi a terra.
«Credi che ci fosse qualcun altro?» chiese il primo.
Il compagno si limitò a
grugnire di nuovo, quindi afferrò una delle sbarre del cancello
e prese a scuoterlo con forza. «È chiuso»
sentenziò alla fine.
«Deve averlo dato a quella ragazza che abbiamo visto nell'atrio».
«La troveremo» asserì l'altro, prima di lanciare l'incantesimo Levicorpus.
Il corpo di Ginny, ormai privo di vita, venne sollevato da terra, quindi i due uomini si allontanarono.
Hermione rimase immobile, anche dopo che i passi dei Mangiamorte si erano spenti in quel silenzio spettrale.
Aveva ricominciato a piovere, intanto, e le gocce ora cadevano spesse e pesanti, come se il cielo volesse piangere al suo posto.
Lentamente, Hermione si alzò e prese a camminare lungo il marciapiede deserto.
*
Hermione non avrebbe saputo spiegare come era tornata a casa.
Ricordava il tunnel, Ginny, le
urla dei Mangiamorte che si avvicinavano e, in un attimo concitato, tutto
finiva e lei si ritrovava seduta sulla sua morbida poltrona, un po'
sfondata, davanti al camino freddo di casa.
Nel mezzo, però, si era consumata una tragedia.
Ginny, la sua migliore amica, praticamente una sorella per lei, era stata uccisa da quei mostri.
Hermione chiuse gli occhi e le immagini tremende di quello che era accaduto le riaffiorarono alla mente.
Scosse la testa, come per tentare
di scacciare quella visione orrenda: il lampo verde, il boato
fragoroso, le voci sprezzanti e bestiali dei due Mangiamorte.
Poi ricordò il motivo per cui Ginny era morta, la ragione che l'aveva spinta a sacrificarsi.
Infilò la mano nella tasca
del cappotto ed estrasse il giornale, ancora strettamente arrotolato,
che la sua amica le aveva consegnato.
“Una speranza” le aveva spiegato, affidandole quel leggero rotolo di carta.
“Una via di uscita”.
Ma da cosa?
E come?
Come poteva un omicidio essere una speranza?
Con dita tremanti, sciolse il noto del sottile spago che teneva chiuso il giornale, quindi
lo srotolò, spianandone gli angoli.
La prima cosa che la colpì
fu il nome della testata, che campeggiava, grande e netto, in cima alla
prima pagina: la Gazzetta del Profeta.
Non era troppo insolito,
rifletté dopo; quello era stato per anni il nome del celebre
quotidiano dei maghi, prima che fosse ribattezzato nel Corriere
dell'Ibis.
Hermione non ne aveva mai visto
uno e non poteva non provare una certa emozione nel stringere adesso
tra le mani quel vecchio numero della Gazzetta.
Passò quindi a leggere il primo titolo e immediatamente comprese che c'era qualcosa che non quadrava.
“LA FINE DI COLUI CHE NON DEVE ESSERE NOMINATO”, così gridavano i primi, eleganti caratteri neri.
Metà della pagina era
occupata dalla fotografia di un ragazzo, con una gran massa di capelli
scuri e ribelli; malgrado il volto sporco e ferito, esibiva un sorriso
calmo, sereno, e i suoi occhi, cerchiati da un paio di occhiali
rotondi, erano luminosi e vitali.
Appena sopra la foto, in piccolo, il sommario recitava: “Harry Potter sconfigge ancora una volta l'Oscuro Signore”.
Hermione strizzò gli occhi, quindi rilesse il testo ancora e ancora.
Doveva esserci un errore, il Signore Oscuro non era mai stato sconfitto.
Guardò la data e il suo
già grande stupore si tramutò in assoluta
incredulità: il giornale era del 3 maggio 1998.
Hermione era piuttosto sicura che nulla del genere fosse accaduto appena cinque mesi prima.
Probabilmente, pensò poi,
doveva trattarsi di un giornale finto, redatto da qualche ribelle,
anche se proprio non riusciva ad intuire il senso di una propaganda
costruita in quel modo.
Le parole di Ginny continuavano a risuonarle in testa.
“Una speranza”.
Che genere di speranza poteva fornire un giornale palesemente falso, che esibiva notizie evidentemente impossibili?
Ginny era davvero morta per una pagliacciata del genere?
Hermione si rifiutava di crederlo,
ma era altresì impossibilitata a negare l'evidenza: il Signore
Oscuro regnava, forte e incontrastato, da ormai quindici anni.
Cominciò a sfogliare il giornale.
Ogni articolo era dedicato alla
caduta dell'Oscuro Signore: “La fine del Terrore”;
“Esercito di Voldemort sconfitto”; “Il Ragazzo che
è Sopravvissuto trionfa”.
E poi: “I Caduti della
Battaglia di Hogwarts non saranno mai dimenticati”;
“Shacklebolt nuovo Ministro?”; “Dirigenti del
Ministero sotto inchiesta”.
Più leggeva e più Hermione si sentiva invadere da una sorta di euforia.
L'Oscuro Signore era morto,
sconfitto per sempre, i Mangiamorte e i loro alleati erano stati
arrestati, la Resistenza aveva trionfato e aveva ripreso il controllo
del Ministero e di Hogwarts, ogni singola frase esprimeva quello che
era il sogno dei tanti oppressi dal regime di Voldemort.
Ma era tutta una menzogna, bellissima e crudele allo stesso tempo.
Hermione richiuse il giornale, quindi afferrò la sua bacchetta.
Doveva distruggerlo, si disse.
Quella sarebbe stata la cosa migliore per tutti.
* * *
|
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Capitolo 3 *** Capitolo II ***
3.3
Capitolo II
Wake up
Con uno schiocco sonoro, Ron si Materializzò in Westmoore
Street, nel distretto di New Charlton, a qualche isolato dal palazzo in
cui viveva insieme ad Hermione.
Aveva ricominciato a piovere, ma
il vento gelido si era fermato, così Ron aveva deciso di fare
una breve passeggiata, approfittando dell'occasione per fumarsi una
sigaretta; Hermione, infatti, non gli permetteva di accendere quei
“piccoli veleni puzzolenti” in casa.
Ron pensava che lei avesse ragione
a proposito dei danni provocati dal fumo, ma non aveva mai avuto la
fermezza necessaria per smettere.
Se il divieto del Ministero fosse
rimasto, probabilmente Ron ci avrebbe pensato due volte prima di
mettere in pericolo non solo la sua salute, ma anche la sua stessa
sicurezza per una manciata di sigarette acquistate sottobanco a sette
galeoni al pacchetto, ma, appunto, ormai quel divieto era stato
revocato, e i rischi, così come i prezzi, si erano notevolmente
abbassati.
Inizialmente, infatti, il
Ministero aveva messo al bando qualunque tipo di oggetto, bevanda,
alimento o tradizione di matrice Babbana; tuttavia, in breve, aveva
dovuto fare i conti con le abitudini radicate nella popolazione di
Mezzosangue e Nati Babbani, nonché con il fatto che molti maghi
erano disposti a tutto pur di concedersi alcuni di quei piccoli piaceri
proibiti.
E così, alcuni bandi erano
stati ritirati, con grande rammarico dei contrabbandieri e con,
al contrario, immensa felicità dei commercianti come Bagman e
Wilkes, che da allora si erano arricchiti a dismisura.
Anche questo fatto, l'idea che
acquistare quei prodotti non avrebbe fatto che arricchire certi
personaggi ambigui, era, tra gli altri, uno dei tanti motivi che
Hermione elencava per tentare di spiegargli quanto fumare fosse sciocco
e sbagliato.
Nel frattempo, Ron aveva raggiunto l'ingresso del palazzo doveva viveva.
In realtà, la sua casa si
trovava sotto l'edificio, in un seminterrato spazioso, quasi arioso,
nonostante la posizione infelice, ma non per questo Ron poteva dirsi
scontento.
Lui e Hermione si erano trasferiti
lì da pochi mesi, appena tre settimane dopo il diploma, e
avevano trasformato quel luogo un po' tetro in una sorta di antro
luminoso, dove finalmente avevano potuto vivere in libertà.
Per il resto del mondo, infatti,
ad eccezione di loro due, Neville, la famiglia di Ron e, probabilmente,
Ab, lui ed Hermione erano cugini.
Quella era stata una menzogna
necessaria a salvare la vita di Hermione, ma non aveva comunque
impedito loro di sviluppare un sentimento profondo l'uno per l'altra,
ben al di là del semplice affetto tra parenti.
Hermione aveva sette anni quando Ron l'aveva conosciuta;
era una bambina allegra, ricordava, e, già allora, molto sveglia
e determinata. Viveva con i suoi genitori, Babbani, a qualche isolato
dalla casa dei Weasley; la loro precedete residenza, la vecchia Tana,
null'altro che un barcollante edificio situato tra le colline della
campagna del Devon, era stata distrutta tre anni prima da un attacco
dei Mangiamorte e, dunque, la sua numerosa famiglia era stata costretta
a sfollare.
Si erano poi stabiliti in un
piccolo paesino poco fuori Londra e si erano ritrovati a vivere proprio
nella via parallela a quella di Hermione.
Ginny, la sorella di Ron, aveva
cinque anni all'epoca, ed era l'unica femmina della famiglia Weasley;
forse per questo motivo, o forse proprio perché era ancora
così piccola e bisognosa di un compagno di giochi spensierato
quanto lei, aveva in fretta fatto amicizia con Hermione, che era
diventata una sorta di seconda figlia per la madre di Ron.
Altrettanto rapidamente, poi, i
Granger, superate le prime diffidenze, erano divenuti ospiti fissi a
casa dei Weasley, ed erano stati infinitamente grati per il loro
supporto quando Hermione, a sorpresa, aveva cominciato a mostrare i
primi, inequivocabili, segni di magia.
Ma un giorno, proprio quando
l'infinita guerra del Signore Oscuro stava per volgere al termine, un
paio di Mangiamorte, con al seguito una squadra di Ghermidori, erano
piombati nel villaggio e avevano iniziato a rastrellare tutti gli
abitanti.
Hermione stava giocando con Ginny nel cortile di casa Weasley quando era iniziato.
Ron invece era nella sua camera:
si stava nascondendo da Fred e George, i suoi dispettosi fratelli
gemelli, più grandi di lui di un paio d'anni.
Inizialmente, quando aveva sentito
tutto quel trambusto, aveva infatti pensato che i due gemelli ne
avessero combinata un'altra delle loro.
Ma poi le urla, i gemiti, le
invocazioni si erano levati alti nel caldo pomeriggio estivo,
mischiandosi alle voci dure e aspre dei Ghermidori, che ruggivano
ordini e lanciavano incantesimi contro chi opponeva resistenza o, molto
più semplicemente, su chiunque avessero voglia, per il puro
gusto di fare del male.
Poi, si era sentito qualcuno bussare con violenza alla porta di casa.
Ron, timidamente, era sceso al piano di sotto, e si era fermato davanti all'ingresso, imitato dai suoi fratelli e da Hermione.
Il padre di Ron aveva intimato loro di restare indietro, quindi, lentamente, aveva aperto l'uscio di casa.
Due grossi Ghermidori stavano
ritti davanti soglia, bacchette alla mano, ed entrambi esibivano un
orrendo ghigno di feroce soddisfazione sul volto; una cosa era certa,
quei due si stavano divertendo un mondo.
«Documenti» aveva
ringhiato alla fine uno; il padre di Ron si era affrettato ad obbedire,
ostentando una sicurezza che di certo non poteva avere.
Il Ghermidore aveva dato
un'occhiata al primo certificato, quindi aveva fatto una specie di
grugnito di scherno, passando poi i documenti al compagno che, in
fretta, aveva scorso la sua lista.
«Tutto in regola» aveva sentenziato quello, poco dopo, riconsegnando i documenti al proprietario.
«Un momento» aveva
detto il primo, osservando con attenzione il mare di teste rosse alle
spalle del signor Weasley. «Sarà meglio perquisire la
casa» aveva deciso, ghignando, mettendo così in bella
mostra una fila di denti gialli e sporchi, rivoltanti.
«Come credete» aveva detto il padre di Ron, senza riuscire a nascondere una certa riluttanza.
A quel punto, però, si
erano udite delle grida: un gruppo di persone, piuttosto eterogeneo,
era stato trascinato per la strada; altri tre o quattro Ghermidori
stavano ruggendo degli ordini, soffocando brutalmente le suppliche e i
gemiti dei loro prigionieri.
E, tra quelli, c'erano anche i signori Granger.
Tutta la famiglia Weasley si era
subito riversata all'esterno, compresa Hermione, nonostante il padre di
Ron le avesse detto di non farlo.
«Mamma!» aveva poi esclamato Hermione, scattando in avanti, prima che qualcuno dei Weasley potesse fermarla.
Il Ghermidore che aveva controllato i loro documenti l'aveva acciuffata, cominciando poi a sbraitare ordini ai compagni.
Anche i genitori di Hermione si erano lanciati in avanti, cercando di sottrarre la figlia alla morsa dell'uomo.
«Lascia stare mia
figlia!» aveva poi esclamato la signora Granger, risoluta, come
solo una madre poteva esserlo in quelle circostanze così
disperate.
Il Ghermidore aveva sogghignato
orrendamente; se solo fosse stato un po' più forte, aveva
pensato Ron, gli avrebbe volentieri sfondato quel suo brutto muso a
furia di calci.
A quel punto, però, la
madre di Ron aveva fatto una cosa tanto rischiosa quanto prodigiosa; si
era avvicinata ai Granger e aveva iniziato a urlare: «Feccia,
Babbana!» li aveva apostrofati «Quella è mia
nipote! Lasciatela!»
I poveri genitori di Hermione si erano guardati l'un l'altra, smarriti e spaventati.
«Lasciatela!» aveva
ripetuto la madre di Ron, al che quella di Hermione aveva stretto
ancora di più la figlia a sé, in un gesto di istintiva
protezione.
Nel frattempo, anche i due Mangiamorte erano sopraggiunti, e avevano preso ad osservare la scena con vivo interesse.
Il Ghermitore, che aveva ancora la
mano stretta attorno all'esile braccio di Hermione, aveva
guardato perplesso prima i Granger, poi la madre Ron, cercando di
decidere chi stava mentendo.
Alla fine, uno dei due Mangiamorte si era avvicinato e aveva chiesto «Questa qui è tua nipote?»
La madre di Ron aveva annuito con decisione. «È la figlia di mio fratello Gideon» aveva affermato.
L'altro Mangiamorte aveva estratto una specie di taccuino e aveva preso a scorrerlo.
«Qui non risulta che Gideon Prewett abbia una figlia» aveva poi sentenziato.
La madre di Ron non si era scomposta e aveva ribattuto «Questo perché non ha avuto il tempo di dichiararlo».
«Non importa, se qui non
risulta dobbiamo portarla via» aveva insistito quello; la signora
Weasley si era allora avvicinata all'altro Mangiamorte e aveva
mormorato, indicando i Granger «La madre è Babbana, e
quando ha saputo…» aveva detto, lasciando che il
Mangiamorte intuisse il resto.
«La bambina è una
strega?» aveva allora chiesto quello ed entrambi i genitori di
Ron avevano annuito prontamente.
Il Mangiamorte aveva corrugato la
fronte, pensieroso. «Molto bene» aveva approvato alla fine,
facendo poi un cenno al Ghermidore di liberare Hermione.
Il suo compagno, però, che
tratteneva per le braccia il signor Granger, aveva protestato «I
Weasley sono traditori del sangue, la loro parola non conta
nulla!»
«Siamo stati perdonati per questo» era intervenuto il padre Ron «Da Lucius Malfoy in persona!»
Di nuovo, il Mangiamorte si era accigliato.
«La bambina è una
Mezzosangue, può restare» aveva sentenziato poi, zittendo
il Ghermidore che aveva tentato di replicare di nuovo.
«Quanto a te» si era
poi rivolto alla signora Granger «Credevi di poter nascondere una
strega?» aveva chiesto «O volevate rubarle i poteri?»
aveva insinuato poi, squadrando astiosamente il padre di Hermione.
Quindi, minaccioso, si era avvicinato a lui, bacchetta in pugno, e gli
aveva lanciato contro un incantesimo; il signor Granger aveva
barcollato all'indietro, le mani premute contro il volto che,
rapidamente, si era riempito di grosse bolle rosse.
I Ghermidori erano scoppiati a ridere selvaggiamente, riprendendo poi a trascinare i prigionieri lungo la strada.
I genitori di Hermione non avevano
più protestato; Molly Weasley aveva portato via Hermione, al
sicuro, mentre i signori Granger erano stati stipati insieme agli altri
Babbani dentro una specie di grosso pullman viola, diretto
chissà dove.
Solamente molti mesi dopo il padre
di Ron si era arrischiato a cercare informazioni sui Granger: aveva
scoperto che erano stati portati in una delle molte città-ghetto
dove venivano confinati i Babbani. Non era di grande conforto, ma
sapere che almeno erano vivi, per quanto ridotti in miseria, era quanto
di meglio si potesse sperare.
Ron non sapeva quanto Hermione
soffrisse la mancanza dei suoi genitori, ma era certo del fatto che, se
si fosse trovato al suo posto, lui non avrebbe sopportato quella
lontananza forzata dalla sua famiglia.
Tuttavia, probabilmente, quella convinzione era dettata dal fatto che lui non era ancora diventato padre.
Era abbastanza sicuro, infatti,
che i genitori di Hermione avessero accettato quasi di buon grado quel
destino crudele, quella segregazione brutale e che avrebbero anche
pagato volentieri un prezzo ben più alto in cambio della
salvezza della loro unica figlia.
E anche Ron si sentiva grato: non
aveva la possibilità di dimostrare il suo amore per Hermione in
pubblico, ma quella rinuncia gli consentiva ancora di coltivare una
speranza.
Benché fosse ancora molto giovane, infatti, Ron aveva cominciato a fantasticare riguardo all'idea di avere dei figli.
Non ne aveva mai fatto parola ad
Hermione, anche perché lei non aveva mai dato cenni di voler
prendere la questione in considerazione, ma questo non doveva per forza
significare che anche lei non nutrisse lo stesso desiderio.
Anzi, sicuramente, Hermione, che
era infinitamente più pragmatica di lui, doveva essere
già giunta alla medesima conclusione a cui era arrivato anche
Ron: loro erano ancora molto giovani, avevano tutta la vita davanti, e
non dovevano avere fretta di agire, rischiando di attirarsi addosso le
attenzioni del Ministero, ancora impegnato a stanare ribelli e
traditori. Loro potevano ancora concedersi il lusso di aspettare, di
pazientare, finché quella pressione enorme e spaventosa non si
fosse attenuata e un giorno, finalmente, una volta che le circostanze
fossero state meno incerte e quella tensione si fosse distesa, quel
giorno, allora, lui ed Hermione avrebbero potuto cominciare a prendere
in seria considerazione l'idea di mettere su famiglia.
Sì, decisamente, essere
costretto a fingere che Hermione non fosse nulla di più che una
cugina per lui era un ben misero prezzo da pagare, in confronto alla
grande opportunità di poter ancora costruire una famiglia.
Con questo pensiero a scaldargli
l'anima, Ron prese l'ultimo tiro della sua sigaretta, spegnendo poi il
mozzicone sotto la scarpa.
Si scrollò un po' il
mantello, chiedendosi se non fosse il caso di lanciare su di sé
un incantesimo per scacciarsi di dosso l'odore di fumo; decise poi che,
con tutta quella pioggia, non ce n'era affatto bisogno, così
prese la sua chiave, la girò nella serratura ed entrò in
casa.
«Herm?» chiamò, scendendo i gradini.
La ragazza non rispose.
«Herm, ci sei?» chiese ancora, togliendosi il mantello.
Il seminterrato che costituiva la
loro casa era una sorta di open space: una grande stanza, infatti,
fungeva da cucina, salotto e camera da letto e i tre ambienti erano
separati da alcuni paraventi; in fondo a destra, un'unica porta
conduceva al bagno.
Non ebbe quindi difficoltà
ad individuare Hermione, che era seduta sulla sua poltrona,
completamente assorbita nelle lettura.
«Herm?» ripeté Ron, avvicinandosi.
Finalmente, la ragazza si riscosse.
«Oh» disse semplicemente, sollevando lo sguardo su di lui «Scusa non ti ho sentito» aggiunse.
Il suo tono era cupo, notò Ron, e aveva gli occhi gonfi, come se avesse passato le ultime ore a piangere.
«Va tutto bene?» chiese infatti lui, piegandosi sulle ginocchia davanti ad Hermione.
Per tutta risposta, la ragazza abbassò lo sguardo, scuotendo piano la testa.
«Herm» disse Ron, prendendo delicatamente le mani di Hermione tra le sue.
«Oh, Ron, mi dispiace»
esalò alla fine Hermione, con un filo di voce «Non so come
dirtelo» continuò.
Ron allungò una mano per
sfiorare il volto della ragazza «Va tutto bene, che cosa è
successo?» chiese di nuovo, confuso, e decisamente preoccupato,
ma deciso a restare calmo.
«Ginny» mormorò Hermione alla fine «M-mi dispiace tanto Ron».
«Che cosa è successo
con Ginny?» la incalzò, ma la ragazza non dava segni di
voler rispondere, come se temesse che parlare potesse rendere tutto il
suo turbamento, in qualche maniera, più vero e reale.
«L-lei»
singhiozzò alla fine «Ginny è… Ginny
è morta» disse poi, tutto d'un fiato, mentre le lacrime
tornavano a rigarle le guance.
Ron sconvolto, quasi barcollò all'indietro.
Artigliò il bracciolo della
poltrona, cercando di dare un senso alle parole che aveva appena udito.
«Sei sicura?» chiese alla fine, stupidamente.
Hermione annuì, senza però sollevare lo sguardo.
Ron scattò in piedi, mentre una miriade di emozioni si scatenava dentro di lui.
Non sapeva che cosa dire, che cosa pensare.
«Come…?» riuscì a dire alla fine.
Hermione non rispose subito; si
alzò, quindi si avvicinò a lui e finalmente si costrinse
a guardarlo negli occhi. «È stata uccisa» rispose
alla fine, con voce strozzata «Dai Mangiamorte».
«Cosa?!»
esclamò lui «Perché? … Cosa?»
ripeté, incapace di dare voce ai propri pensieri che si
affollavano confusi nella sua mente.
Che cosa aveva fatto Ginny per infastidire il Ministero a tal punto?
Poi, rifletté, spesso i
Mangiamorte non avevano bisogno di una ragione particolare; a volte
bastava uno sguardo rivolto alla persona sbagliata, o una frase detta
senza pensare.
«Mi ha dato questo»
continuò Hermione; si girò, quindi prese il fascicolo che
stava leggendo quando Ron era arrivato.
«Mi ha detto che era
importante» riprese la ragazza «E credo di aver capito
perché» aggiunse, consegnandogli quello che riconobbe
essere un giornale.
Ron lo prese e notò che
sembrava diverso dal solito; in breve comprese il perché: quello
non era un numero del Corriere dell'Ibis.
Perplesso, cominciò a scorrere la prima pagina.
“La fine del Signore
Oscuro” recitava il primo titolo, “Harry Potter sconfigge
ancora una volta l'Oscuro Signore”.
Non aveva alcun senso, pensò, e infatti chiese «Che roba è?»
«Un giornale» rispose Hermione.
«Questo lo vedo» ribatté lui, un po' brusco.
Hermione ignorò il suo tono
e aggiunse, con un sorriso «Parla della Resistenza che ha
sconfitto il Signore Oscuro».
Ron gettò un'altra occhiata
alla prima pagina, quindi obiettò, cauto, e un po' incerto
«Ma, Herm, la Resistenza non ha vinto».
«Questo lo so benissimo» replicò lei, asciutta.
Allora di che cosa stavano parlando?
Sotto lo sguardo attento della
ragazza, Ron cominciò a sfogliare il giornale, leggendo i titoli
degli articoli, senza però riuscire a darne un senso logico.
«Miseriaccia, Herm» esalò alla fine «Io lo so che cos'è questo».
«Che cos'è?» lo incalzò lei.
«È uno di quei giornali di quel matto di Lovegood».
«Lovegood?»
«Ne stavo parlando prima con
Neville» continuò Ron, sicuro, richiudendo il giornale e
fissando la foto del ragazzo con gli occhiali; aveva un aspetto
stranamente famigliare, anche se lui non riusciva a ricordare dove
l'avesse già visto. «Mi ha detto che proprio oggi gli
hanno revocato la licenza per la sua testata» riprese poi,
sollevando lo sguardo su Hermione, che ora sembrava pendere
letteralmente dalle sue labbra, avida di informazioni. «Pubblica
queste cose di propaganda ribelle» spiegò infine.
«Non è solo propaganda ribelle, è qualcosa di più» ribatté Hermione, convinta.
«Herm…»
cominciò allora lui «so che possono sembrare molto
convincenti, ma sono tutte notizie false».
«È se non fosse così?»
«So che sei sconvolta per
Ginny» replicò Ron, cauto «E nemmeno io vorrei
credere che sia morta per uno stupido pezzo di carta, ma-»
«Ron non si tratta solo di-» tentò di ribattere Hermione.
«Ma il Ministero ha dato ordine di distruggere questi giornali» concluse lui, cupo.
«Se sono solo degli stupidi
pezzi carta perché il Ministero vuole distruggerli?»
osservò Hermione, incrociando le braccia al petto.
«Perché sono illegali
ed è tradimento anche solo possederne uno» disse lui,
ragionevole, tentando di mantenere un tono calmo. «Domani
dobbiamo andare al Ministero» continuò poi, sempre
misurando le parole «dobbiamo denunciare la scomparsa di Ginny e
fare finta di non sapere niente, né della sua morte, né
tanto meno di questi giornali…»
«Ron….» tentò ancora Hermione.
«Se dovessero sospettare qualcosa uccideranno anche noi» insistette lui, ora in tono urgente.
«Non mi importa!» esclamò lei, piccata.
«Per la barba di Merlino, Herm!» sbottò Ron, incredulo e spaventato.
Hermione lo ignorò e
riprese «Ginny mi ha dato questo giornale, lei ci credeva ed
è morta per questo! Non posso semplicemente fingere di non aver
visto quei mostri ucciderla, non posso ignorare questa
verità!»
«Verità?»
esclamò Ron, sbigottito. «Herm, di solito sei tu la voce
della ragione, ma questo…» disse poi, calmo «Questo
è solo spazzatura».
«Non è
così!» ribatté Hermione; era agitata, quasi
euforica. «Guarda» lo incalzò, strappandogli il
giornale di mano e prendendo a sfogliarlo con foga. Trovò la
pagina che stava cercando, quindi la girò per lui.
Ron lesse con poco interesse
l'articolo, che parlava della Battaglia di Hogwarts; c'era una grande
immagine animata, che occupava la metà centrale di entrambi i
fogli, e che mostrava una parte del castello ridotta in macerie, mentre
un gruppo di ragazzi, dall'aspetto stanco e sofferto, si stava
scambiando sguardi felici e soddisfatti
«Ho controllato»
proseguì Hermione «non è stata falsificata in
nessun modo, non c'è alcun incantesimo di simulazione, questa
foto è vera».
Ron osservò l'immagine con
attenzione; tuttavia, si disse, se Hermione stava dicendo il vero,
doveva comunque esserci un'altra spiegazione.
«Sarà stata scattata apposta» propose infatti, qualche istante dopo.
Hermione scosse la testa, decisa,
quindi voltò la pagina e riprese «E qui, leggi»
indicò «Fred Weasley» continuò, prima ancora
che Ron avesse il tempo di fare come gli era stato detto «Morto
in battaglia» spiegò «Perché scrivere una
cosa del genere? Tuo fratello è vivo!»
«E invece mia sorella è morta!» sbottò Ron, irritato.
Hermione parve vergognarsi, quindi
ripiegò il giornale, in silenzio; tutta la sua grinta
battagliera sembrava essersi dissolta.
«Hermione» disse poi
Ron, in tono conciliante «Ti supplico, non… non posso
perdere anche te» esalò alla fine, dando finalmente voce
alla sua più grande paura, che si era affacciata alla sua mente
non appena la ragazza aveva cominciato a fantasticare di battaglie mai
combattute e lieti fini mai scritti.
Hermione si avvicinò a lui e lo strinse con affetto tra le sue braccia.
Ron ricambiò, ma poi il suo
sguardo si posò sul tavolino accanto alla poltrona, dove erano
poggiati un libretto e un piccolo rettangolo di cartone.
«Che cos'è?» chiese, sciogliendosi dall'abbraccio.
Hermione seguì la traiettoria del suo sguardo, quindi rispose, incerta «N-niente».
Ron raggiunse il piccolo tavolo e prese il cartoncino.
“Hive Café” lesse rapidamente “Darklake View, Portsmouth”.
«Un biglietto da visita?» riconobbe poi, perplesso.
«Può darsi, forse ci è finito in mezzo» disse lei, disinvolta.
Ron le rivolse uno sguardo sospettoso, quindi prese il libro.
«Perché hai l'orario dei treni aperto alla pagina per Portsmouth?» chiese, in tono quasi accusatorio.
Hermione fece per rispondere, ma Ron continuò «Hermione…»
«Non-»
«Ti prego, dimmi che non stai pensando di andarci».
«Devo capire, Ron» ribatté lei, decisa.
«Non c'è niente da capire!» esclamò Ron, esasperato.
Hermione, risentita, fece di nuovo per protestare.
«Senti, ora è
tardi» disse lui, conciliante «Ci mettiamo a dormire e ne
riparliamo con calma domani mattina, va bene?»
Hermione si limitò ad annuire, sconfitta.
Ron l'abbracciò di nuovo, pregando in cuor suo che una buona notte di sonno potesse farla rinsavire.
* * *
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Capitolo 4 *** Capitolo III ***
4.4
A Sprout in the Wind
Birmimgham, 12 ottobre 1998
Draco Malfoy non si era mai sentito tanto nervoso ed eccitato allo stesso tempo.
Dopo anni di studio e di impegno costanti, finalmente avrebbe avuto la sua occasione per dimostrare il proprio valore.
Ma non c'era ancora nulla di deciso e quindi Draco non sapeva se e come quell'opportunità si sarebbe concretizzata.
Il suo mentore,
però, l'aveva rassicurato: «Presto renderai onore al tuo
impegno per l'Oscuro Signore» aveva detto, prima di chiudersi nel
suo ufficio insieme a un altro Mangiamorte, che Draco non conosceva.
O forse magari
sì, pensava, ma sarebbe comunque stato impossibile per lui
riconoscerlo con indosso la maschera; i fedeli seguaci del Signore
Oscuro, infatti, vestivano sempre l'uniforme completa dei Mangiamorte
quando dovevano occuparsi di faccende ufficiali, una precauzione,
questa, che Draco considerava affatto necessaria, ma che probabilmente
risaliva ancora ai tempi prima della guerra, quando, proprio grazie
all'assoluto anonimato, i Mangiamorte erano riusciti ad infiltrarsi tra
i ranghi del vecchio Ministero, distruggendolo così dall'interno.
Draco sospirò, inquieto.
Il suo maestro era
là dentro da quasi un'ora, intento a definire i dettagli della
missione, nella quale, gli aveva assicurato, Draco avrebbe avuto un
ruolo di primo piano.
Sarebbe stato il suo
primo incarico e tutta la sua futura carriera sarebbe probabilmente
dipesa dal suo esito. Tuttavia, Draco non era spaventato; al contrario,
la sua agitazione derivava dall'impazienza di mettersi alla prova e
tutto quello che desiderava in quel momento era fare irruzione
nell'ufficio ed esortare quel Mangiamorte a fare in fretta.
Naturalmente,
però, non era quello il modo giusto per iniziare e così
Draco si costrinse a rimanere seduto sulla poltrona, sforzandosi di
trovare interessante l'ultimo numero del Periodico del Pozionista.
Lo sfogliò
distrattamente, finché non si imbatté nella foto della
celebre Rita Skeeter, che pubblicizzava il suo ultimo romanzo “I
Segreti del Regime”.
“Quella donna
è ovunque” pensò tra sé Draco, voltando
pagina e ritrovandosi davanti un noioso articolo che spiegava come
sminuzzare correttamente il Fagiolo Sopoforoso.
Ritornò alla
pagina precedente e lesse il breve annuncio che accompagnava il
ritratto ammiccante della Skeeter “Siete pronti a conoscere i
segreti più oscuri e sordidi dei nostri governanti?”
sollecitava la prima frase, e Draco si ritrovò a leggerla con la
voce accattivante e provocatoria della donna. Sicuramente,
rifletté, quali che fossero quei segreti, quelli non potevano
essere neanche lontanamente oscuri, altrimenti il libro non avrebbe mai
superato la censura; molto più probabilmente si trattava solo di
qualche pettegolezzo, rimaneggiato e gonfiato ad arte dalla
giornalista, e che riguardava un qualche funzionario ministeriale di
basso livello, o magari un Capo Dipartimento divenuto sgradito.
La Skeeter, infatti,
aveva compreso in fretta che non avrebbe venduto neanche un solo
volantino se si fosse azzardata a dare fastidio a un qualche
personaggio di rilievo, e aveva capito ancora più rapidamente
che si sarebbe ritrovata in uno dei cubicoli dell'Undicesimo Livello se
avesse osato contestare la politica del Governo.
E così, senza
esitazioni, né scrupoli, si era allineata al pensiero di Regime,
conquistandosi la direzione del Corriere dell'Ibis e un posto in prima
fila ad ogni evento di rilievo.
Non era stata una sorpresa per Draco, infatti, ritrovarsela davanti durante la cerimonia della consegna dei diplomi.
Benché
infastidito, quel giorno era stato uno dei più belli della sua
vita, ed era stato troppo felice perché la presenza invadente
della giornalista potesse turbarlo.
Dopo sette lunghi anni,
infatti, finalmente Draco, come i suoi compagni, aveva terminato il suo
ciclo di studi, conseguendo gli esami finali e conquistandosi il pieno
diritto ad entrare nella Comunità Magica.
La solenne cerimonia si
era tenuta alla presenza del Signore Oscuro in persona, oltre che delle
famiglie dei ragazzi, di alcuni alti funzionari del Ministero e
dell'onnipresente Rita Skeeter.
Draco, in particolare,
era stato elogiato per il percorso intrapreso fino a quel momento e per
aver dimostrato di incarnare tutti i valori e i pregi auspicati dal
Regime.
Inoltre, l'articolo che
era uscito in prima pagina sul Corriere del giorno dopo, era stato una
vera e propria consacrazione della famiglia Malfoy e quella era
probabilmente stata l'unica volta in cui Draco aveva apprezzato il
lavoro della donna.
La Skeeter, infatti, non
aveva risparmiato complimenti e lodi per il “giovane e
promettente rampollo di una delle famiglie più Nobili e Pure
della nostra comunità”.
In effetti, quello era stato un momento importante, non solo per l'ego dei Malfoy, ma per tutto il Ministero.
I neo-diplomati,
infatti, appartenevano alla generazione nata durante la guerra ed erano
stati i primi a completare il nuovo ciclo di studi, accuratamente
predisposto dal Ministero e varato per la prima volta nel 1991, anno in
cui appunto Draco aveva iniziato il suo percorso a Hogwarts.
Un tempo, infatti, la
millenaria scuola di Magia aveva accolto tra i suoi studenti ragazzi
provenienti da ceti, e stirpi, diversi; dopo la firma della pace,
però, il Ministero aveva subito posto rimedio a quel grave
errore, ammettendo tra le mura della prestigiosa scuola solo i figli di
Purosangue e Mezzosangue. Ma la guerra, allora, era tutt'altro che
conclusa e, dunque, le ulteriori, necessarie, misure per rinnovare i
programmi scolastici e risollevare la fama di Hogwarts erano state
messe da parte.
Era stato solamente dopo
qualche anno, quando, finalmente, la Resistenza era stata piegata e il
Ministero aveva cominciato ad organizzare la nuova società
magica, che era nato il Dipartimento per l'Istruzione e la Formazione
Magica, che aveva ridefinito le politiche di ammissione, redatto i
nuovi programmi e riassegnato le cattedre.
Ora, infatti, ad
Hogwarts, venivano ammessi solo i figli di famiglie Purosangue e
Mezzosangue di comprovata lealtà, escludendo dunque i Nati
Babbani, i Traditori del Sangue, gli ex ribelli perdonati e,
ovviamente, tutti coloro che non appartenevano, interamente o in parte,
alla specie magica umana, ovvero licantropi, vampiri e ibridi. Per
questi ultimi era stata istituita una scuola speciale, situata
nell'Irlanda Nord, mentre i Nati Babbani e i figli dei traditori
avevano trovato accoglienza in una seconda scuola di magia, edificata
sulle macerie della vecchia università Babbana di Cambridge.
Le materie che venivano
insegnate in entrambi gli istituti erano le medesime ed erano anche
più o meno le stesse che avevano caratterizzato il percorso
curricolare della vecchia Hogwarts, ad eccezione di Babbanologia, che
era diventata obbligatoria, poiché la conoscenza delle
differenze tra Maghi e Babbani era ritenuta, ovviamente, di
fondamentale importanza, di Arti Oscure, che aveva sostituito la
vecchia Difesa contro le Arti Oscure, e di Storia della Magia, che,
oltre a non essere più insegnata dal vecchio fantasma
rimbambito, aveva subito una drastica riorganizzazione, con una
preferenza marcata verso la storia degli ultimi decenni.
Queste ultime due erano inoltre obbligatorie fino al settimo anno, mentre Babbanologia era facoltativa dal sesto.
In definitiva quindi,
dalle antiche mura Hogwarts avrebbe dovuto uscire una nuova generazione
di maghi, preparata e competente, finemente istruita e pronta a servire
e a proteggere il Nuovo Ordine dei Secoli, i cui eroi tanto avevano
faticato per riportare la nobile stirpe magica nella posizione che
aveva sempre meritato.
E Draco era il simbolo
di quella generazione, e il successo, o il fallimento, della sua
missione non avrebbe avuto ripercussioni solo sul suo futuro e su
quello della sua famiglia, ma anche sull'intero programma ideato dal
Ministero.
Un qualunque altro
ragazzo, come lui poco più che maggiorenne, si sarebbe sentito
oppresso dal peso di quella responsabilità, ma Draco non aveva
paura di fallire, ed era impaziente di dimostrare, a se stesso e agli
altri, le proprie capacità.
Aveva passato gli ultimi
mesi nei sobborghi di Birmingham, a infastidire i Nati Babbani, facendo
pratica di quello che aveva imparato sugli idioti ubriachi che si
lasciavano sfuggire qualche parola di troppo, ma adesso era arrivato il
momento, per lui, di combattere davvero.
Stava pensando a queste
cose, assaporando il gusto dolce e deciso del trionfo, che quasi non si
accorse che la porta dell'ufficio era stata aperta.
Scattò in piedi,
proprio nell'istante in cui il Mangiamorte mascherato varcava la
soglia; quello gli rivolse un rapido cenno con il capo, quindi si
avviò lungo il corridoio, scomparendo in fretta dentro
l'ascensore.
«Draco» lo chiamò James Potter, il suo mentore, comparendo davanti alla porta.
Draco si voltò;
un po' della sua esaltazione era svanita, ma fu comunque con passo
sicuro che seguì l'uomo di nuovo all'interno dello studio,
accomodandosi poi su una delle sedie davanti alla scrivania.
Per un po' rimasero entrambi in silenzio.
Draco si costrinse ad
assumere un'espressione calma e rilassata, tentando di non lasciar
trasparire tutto il nervosismo e l'aspettativa che nutriva in quel
momento.
Potter stava intanto
riordinato alcune carte, che poi raccolse insieme in un fascicolo;
quindi si sedette, le mani intrecciate sopra il faldone di documenti,
apparentemente immerso nei propri pensieri.
Draco si agitò sulla sedia, che scricchiolò debolmente, ma l'altro non parve notarlo.
«Come di certo
saprai» esordì poi quello, a un tratto «ci sono
ancora dei focolai di ribellione nel Paese».
Draco annuì prontamente.
«Abbiamo ricevuto
notizie di alcune attività criminali nella zona sud di
Portsmouth» proseguì Potter «Pare che sia il covo di
uno dei vari capi della Resistenza, probabilmente si tratta dell'uomo
che gestisce tutte le piccole fazioni del sud-est inglese»
spiegò, aprendo il fascicolo. Prese uno dei documenti, quindi
glielo allungò, senza interrompere la sua illustrazione
«Sappiamo che deve incontrare un corriere di Londra, e sappiamo
che questo corriere deve consegnare un oggetto, di cui il Ministero
deve assolutamente entrare in possesso».
Draco intanto si era
sporto in avanti, per leggere il contenuto del documento; si trattava
di una sorta di scheda identificativa, riguardante un uomo dall'aspetto
patito e sofferto, all'incirca della stessa età del suo maestro,
segnalato come “soggetto ad alto rischio”.
«Quindi devo
prendere l'oggetto e arrestare questo… Lupin?» chiese,
rileggendo una seconda volta il nome dell'uomo; non l'aveva mai sentito
nominare, rifletté, e faceva davvero fatica ad immaginarselo,
così scarno ed emaciato, a capo di una pericolosa banda di
ribelli.
Potter non nascose una
smorfia di disappunto «No, non devi arrestarlo. Anzi, non devi
né avvicinarlo o insospettirlo in alcun modo»
ribatté, severo. «Non ci serve a nulla da morto, non per
il momento, almeno» aggiunse, davanti all'espressione perplessa,
e un po' imbarazzata, di Draco.
«Quindi che cosa devo fare?» chiese Draco.
«Devi andare a
Portsmouth e aspettare il corriere» disse Potter, in tono pratico,
riprendendo il documento e inserendolo di nuovo nel fascicolo insieme
agli altri.
Quindi aprì un
cassetto della scrivania e ne estrasse un altro foglio «Qui ci
sono tutte le informazioni che abbiamo raccolto nelle ultime
settimane» spiegò «Luoghi, date e orari degli
incontri» continuò, consegnandogli il documento
«Sappiamo che il corriere cambia ogni volta, ma quasi sempre si
tratta di un ragazzo, o una ragazza, giovane, più o meno della
tua età. Questa volta il Ministero aveva messo le mani su di lei
prima ancora che riuscisse a partire, ma, evidentemente, doveva avere
un complice ed è riuscita a consegnargli la sua merce prima
dell'arrivo dei Mangiamorte. Visto poi come si sono messe le cose, il
Ministero ha ragione di credere che si tratti di un qualche esponente
di spicco della Resistenza, ed è di vitale importanza
catturarlo».
Draco scorse rapidamente
il foglio. «Come sappiamo che il complice andrà da Lupin
proprio adesso?» chiese poi «Insomma, se sospettavano
già che avessimo tutte queste informazioni, probabilmente
penseranno che sia più prudente aspettare».
«Non lo
faranno» sentenziò il suo maestro «C'è un
altro corriere in arrivo da Liverpool. Sappiamo che Lupin ha il compito
di raccogliere entrambi i materiali e poi trasmetterli a qualcun altro,
probabilmente all'estero, e certamente la Resistenza sa che è
molto meglio continuare con il piano originario, piuttosto che
aspettare e rischiare che qualcun altro venga identificato».
«E se quest'altro corriere di Liverpool incontrasse quello di Londra prima di me?» obiettò ancora Draco.
«È quello
che spero, dal momento che sei tu il corriere di Liverpool» disse
Potter, con un ghigno «Abbiamo intercettato il ragazzo»
continuò «Tu prenderai il posto».
Draco non poté reprimere una smorfia delusa.
«Quindi
dovrò usare la Polisucco?» chiese poi, nervoso; cominciava
a vedere troppe falle in quel piano: per esempio come poteva fingersi
un membro della Resistenza, arrestare il ribelle e poi fuggire senza
insospettire Lupin?
Tuttavia, il suo maestro
sembrava perfettamente calmo e determinato. «No» rispose
infine, lievemente infastidito da tutte quelle domande
«Perché credi che abbia impedito a Rita Skeeter di
pubblicare le foto della cerimonia?» aggiunse poi, ammiccando
astutamente da dietro le lenti rotonde degli occhiali «Come ho
già detto, comunque, i corrieri cambiano sempre, perciò
è improbabile che si siano già incontrati».
Draco, però, continuava a non essere del tutto convinto.
«Di solito usano
dei nomi in codice, ma noi abbiamo fatto lo stesso delle
indagini» proseguì Potter, accennando al sottile fascicolo
«Qui troverai una scheda riassuntiva, con le generalità e
alcune altre informazioni sul ragazzo che abbiamo arrestato»
aggiunse «Spesso i giovani corrieri sono figli o parenti di
qualche ribelle, perciò, se qualcuno dovesse avere dei sospetti
e dovesse farti delle domande, potrai facilmente rispondere»
assicurò, consegnandogli gli incartamenti.
Draco li prese e cominciò a sfogliargli distrattamente.
«Nel fascicolo, inoltre, troverai il materiale che gli abbiamo sequestrato».
«Cosa, qui?» domandò Draco, sorpreso «Di che si tratta?»
«Non ti
riguarda» tagliò corto Potter «I corrieri non sono
tenuti a conoscere il contenuto della merce. Meno sanno, meno possono
confessare, se venissero catturati» spiegò.
«Tutto quello che
ti serve sapere è nel fascicolo» aggiunse ancora «La
busta sigillata è la merce che doveva essere consegnata.
Sarà la tua garanzia, se le cose dovessero mettersi male per te.
Trova il corriere da Londra, arrestalo e confisca il suo
materiale» ordinò. «Da questo momento tu sei Anthony
Goldstein e il tuo nome in codice è The Ship» concluse.
Il suo maestro sembrava aver pensato a tutto, ragionò Draco, dunque che motivo aveva lui di preoccuparsi?
«Partirai oggi
stesso» continuò Potter. «Di sotto troverai alcuni
vestiti» disse, alludendo alla stanza che di solito veniva usata
come deposito «Scegli qualcosa di appropriato» si
raccomandò poi «ricordati che devi impersonare un ribelle
squattrinato».
Draco annuì prontamente.
«Bene, direi che
è tutto» dichiarò Potter. «Se tutto va come
previsto, dovresti essere di ritorno fra tre giorni, con entrambe le
merci e il ribelle sotto custodia. Usa il treno per andare, ma ritorna
con la Materializzazione, non possiamo correre il rischio che il
corriere fugga o che qualcuno ti scopra. La tua copertura dovrà
rimanere intatta» ricapitolò. «Non serve che ti
dica» aggiunse poi «che se porterai a buon fine la missione
renderai un grande servizio al Signore Oscuro».
Di nuovo, Draco annuì.
«E renderai
orgoglioso tuo padre» aggiunse ancora Potter, al che Draco non
poté reprime una smorfia di disagio.
«Non ti
deluderò» ribatté lui, deciso, e questa volta fu il
suo maestro a lasciarsi sfuggire un ghigno infastidito, ma, allo stesso
tempo, i suoi occhi lasciarono trasparire un certo compiacimento.
«Kessah ylasto aaythsaass nalaaskemfee*» sibilò alla fine Potter.
«Kessah ylasto aaythsaass nalaaskemfee» ripeté Draco, congedandosi.
Uscito dall'ufficio,
però, decise di prendersi un momento, prima di infilarsi
nell'ascensore e raggiungere uno dei piani interrati.
Si avvicinò a una
delle grandi vetrate dell'edificio. La Rotunda, questo era il nome che
gli architetti Babbani avevano scelto per quell'enorme torre che
sovrastava la città, era una costruzione grande e, appunto,
rotonda, alta trenta piani, a cui si aggiungevano i dieci livelli
sotterranei.
Dopo la guerra, il
Ministero aveva ritenuto di lasciarla in piedi e così, in meno
di una notte, i maghi lo avevano ristrutturato ed ampliato, aggiungendo
sei livelli interrati e dieci piani; l'avevano ribattezzata The Wand,
per via della sua forma slanciata e circolare, davvero simile a una
bacchetta, e per il fatto che era stata scelta come sede dei numerosi
uffici governativi cittadini, impregnati, dunque, di magia, proprio
come il cuore di una bacchetta.
Draco si accostò
maggiormente alla grande finestra; da lassù, al trentatreesimo
piano della torre, si poteva godere di una vista magnifica della
città.
Birmingham era stata
quasi completamente ricostruita dopo l'avvento del Signore Oscuro: le
strade erano state ripulite, i Babbani erano stati confinati nelle
periferie e solo pochi edifici della città originale erano
rimasti in piedi, lasciati là a marcire come monito per tutti
gli oppositori del Nuovo Ordine.
Sì, decisamente
l'Oscuro Signore aveva portato pace e benessere in ogni parte del
Paese, laddove prima i Babbani avevano invece lasciato prosperare
criminalità e degrado.
Draco non poteva
sentirsi più orgoglioso di far parte di quel nuovo mondo e,
finalmente, stava per dare prova di essere degno di portare il nome
della Nobile e Pura famiglia Malfoy.
* * *
* Traslitterato dal serpentese e significa “l'unico sangue è (quello) puro”;
è una frase che viene usata dai seguaci di Voldemort come
formula di saluto e congedo (naturalmente, loro l'hanno semplicemente
imparata a memoria e non parlano certo serpentese).
In origine era una
uno slogan usato dai primi Mangiamorte, poi divenne una sorta di
“parola d'ordine” usata come conferma della propria
identità, e in seguito, solo con la definitiva vittoria di
Voldemort, è diventata un saluto.
Inoltre, consente ai
Mangiamorte di varcare una delle numerose barriere di protezione
attorno al covo del Signore Oscuro (altri scudi possono essere superati
solamente mostrando il Marchio Nero, cosicché sia impossibile
per chiunque avvicinare Voldemort, a meno che non si faccia parte della
sua cerchia ristretta).
N.A.
Salve a tutti!
Innanzitutto,
grazie a tutti coloro che stanno seguendo la mia storia e mi scuso per
la lunga attesa dell'aggiornamento, ahimè, gli esami tolgono
tempo, vitalità, venalità artistiche, vitalità,
creatività, vitalità… ho già detto
vitalità e voglia di vivere?
Alla prossima allora (spero non tra un mese!)
_Jo
|
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Capitolo 5 *** Capitolo IV ***
4....
The princess in the Hive
13 ottobre 1998
“Perdonami.”
Questo era tutto quello che
Hermione aveva avuto la forza di scrivere quella mattina, quando, poco
prima dell'alba, era uscita, diretta alla stazione del treno.
Aveva lasciato il biglietto
sul suo cuscino, accanto a Ron, che ancora dormiva, placido e ignaro;
quindi si era infilata il cappotto, aveva afferrato il piccolo borsone,
riempito in tutta fretta con alcuni vestiti puliti, la bacchetta, il
portafogli e il misterioso giornale di Ginny, ed era uscita di casa.
Ora stava aspettando il treno, uno dei pochi della giornata.
Infatti, da quando i maghi
avevano preso il potere, la rete ferroviaria era stata quasi del tutto
smantellata e treni, autobus e aerei erano caduti pressoché in
disuso; dopotutto, che bisogno c'era di mantenere quell'enorme
infrastruttura solo per una manciata di pendolari?
Con i Babbani impossibilitati
a muoversi liberamente per il Paese, i principali fruitori di quel
servizio rimasti erano contrabbandieri, Ghermidori e, in generale,
tutti quei maghi che preferivano muoversi nell'ombra.
Il Ministero, infatti,
esercitava un controllo costante tramite l'Ufficio del Trasporto
Magico: l'Autorità della Metropolvere concedeva le licenze e
monitorava i camini, e lo stesso faceva il Comitato per il controllo
delle Scope, mentre la Materializzazione era strettamente regolata
dall'apposito Centro che aveva il compito di tracciare ogni movimento
nelle aree sensibili. Per farlo, si serviva di una sorta di Scudo di
accesso, posto attorno a edifici e zone particolarmente rilevanti,
nonché alle grandi città inglesi, che lanciava un allarme
ogni qualvolta un mago si Materializzava all'interno dello Scudo:
immediatamente, un incantesimo anti-Materializzazione lo colpiva e una
coppia di Guardie compariva sul posto e richiedeva il Foglio di
Permesso; inutile dire quello che sarebbe successo al mago che ne era
sprovvisto.
Il treno, dunque, restava il mezzo più sicuro per spostarsi senza dare nell'occhio.
Un ometto basso e tarchiato,
avvolto in un pesante mantello di lana le passò accanto,
trafelato «Era solo uno Knarl» lo udì borbottare tra
sé, ma in un attimo lui l'aveva sorpassata e la sua voce, come
il suo proprietario, si perse ben presto nella nebbiolina grigiastra che
invadeva la banchina e i binari.
Hermione si strinse nel cappotto, controllando nervosamente l'orologio.
Quella mattina l'aria era gelida.
Aveva piovuto per tutta la
notte e la miriade di minuscole gocce di pioggia aveva ricoperto ogni
cosa con una sottile, opaca, patina ghiacciata.
L'operosa capitale inglese si era già svegliata da un pezzo, ma la stazione ferroviaria era silenziosa e quasi deserta.
In effetti, quel luogo sembrava essere un mondo a parte, sospeso nel tempo, anche se Hermione non avrebbe saputo dire quale.
Di certo, non poteva trattarsi di quello prima della guerra.
Allora lei era troppo piccola
per ricordare, ma era sicura che le stazioni fossero state un luogo
pieno di vita, di luci e di rumori, di voci concitate che rimbalzavano
da un pilone all'altro, di risate e di pianti, di gente che si salutava
prima di un lungo viaggio o che si abbracciava felice di essere tornata
a casa, di innamorati che si scambiavano un lungo, appassionato bacio,
prima di separarsi, di bambini vocianti, euforici e impazienti di
arrivare a destinazione.
Ma qualunque fosse stato lo
scenario di quei giorni lontani, ormai non era che un ricordo sbiadito
nelle menti dei più anziani.
Waterloo Station ora era un luogo tetro e silenzioso.
I pochi pendolari presenti se
ne stavano per conto proprio, alcuni parlottando tra sé come
aveva fatto l'uomo dello Knarl, i più aspettavano in silenzio,
con il cappuccio tirato in avanti, fin sopra gli occhi, la testa bassa
e l'aria nervosa.
Nessuno era venuto a dire loro arrivederci.
E non c'era da fidarsi di nessuno lì.
Hermione si strinse ancora di
più nel cappotto, se per ripararsi dal freddo o da quell'aria di
malsana insicurezza non era chiaro.
La voce gracchiante
dell'altoparlante squarciò quel silenzio quasi surreale,
annunciando l'arrivo del treno da Norwich diretto a Portsmouth.
Tremante, afferrò il piccolo borsone e mosse qualche passo in avanti.
Dopo qualche istante,
udì il penetrante fischio del treno che, sferragliando, fece il
suo ingresso nella stazione; in breve, quello si arrestò davanti
alla banchina, spalancando le consunte porte automatiche.
Hermione, incerta, salì a bordo; come aveva previsto, il treno era semivuoto.
A differenza dell'espresso
per Cambridge, che Hermione aveva preso per i sette anni precedenti,
quello era decisamente sporco: la lunga serie di vagoni scompagnati era
sporca e male illuminata, molti sedili erano stati divelti, e qua e
là erano stati sostituiti da altri completamente diversi. Alcuni
mostravano evidenti tracce di fatture e incantesimi, e c'erano macchie
di quello che sembrava sangue.
Hermione avanzò nel
corridoio squallido, attraversò alcune carrozze finché non ne
trovò una che aveva un aspetto un po' più confortevole:
la moquette era lisa, i sedili sporchi, ma i finestrini erano tutti
intatti e in generale non si sentiva quell'odore stagnante di putrido
che pervadeva gli altri scomparti. Scelse un posto in fondo,
sistemò il borsone sulla rastrelliera, mormorò
«Tergeo» per dare una ripulita e si sedette, mentre il
treno cominciava già a muoversi e a guadagnare rapidamente
velocità. Dopo pochi minuti, il cuore di Londra era scomparso, e
il profilo della campagna inglese iniziava a delinearsi nell'orizzonte
grigio e nebuloso.
*
Ron avrebbe capito, si
ripeté per la milionesima volta, mentre il treno rallentava ed
entrava sferragliando nella stazione finale.
Hermione si alzò,
scoprendo di avere le gambe intorpidite; le massaggiò
nervosamente, quindi si allungò a prendere il borsone.
Con un gran stridio e uno scossone finale, il treno si fermò.
La banchina della stazione di
Portsmouth era praticamente deserta. L'ometto tarchiato che aveva notato
alla partenza era il solo passeggero oltre a lei; gli altri dovevano
essere scesi nelle fermate intermedie.
Quello si incamminò
rapido verso sinistra e imboccò una scala che doveva portare a
uno dei sottopassaggi che si districavano sotto i binari.
La stazione di Portsmouth era spettrale e tetra come quella di Londra, ma l'aria era più mite.
Hermione slacciò la
cintura del cappotto e, con una mano in tasca stretta attorno alla
bacchetta, si diresse verso il sottopasso.
Non c'era traccia dell'uomo,
né di nessun altro, ma affrettò comunque il passo,
ansiosa di raggiungere la superficie.
Aveva studiato la mappa di
Portsmouth sul treno: il misterioso Hive Cafè si trovava nel
sobborgo di Southsea, alla periferia meridionale della città; per raggiungerlo avrebbe potuto
Materializzarsi, ma aveva deciso che sarebbe stato più prudente
prendere uno dei pullman che partivano ogni ora dalla vicina Coach
Station.
Non sarebbe arrivata prima di pomeriggio, ma era meglio non correre rischi.
Nello spiazzo principale, una lunga fila di autobus era disposta ordinatamente.
Poco distante, un mago alto e dinoccolato stava rannicchiato in un piccolo cubicolo, non più grande di una toilette.
Hermione attese pazientemente
che una strega bassa e robusta si allontanasse, seguita d'appresso dai
due figli, quindi domandò quale degli autobus portasse a
Southsea; quello, con un cenno pigro del braccio, indicò il
secondo pullman sulla destra, quindi tornò a concentrarsi su una
rivista che, a giudicare dalle immagini sulla copertina, doveva essere
piuttosto sconcia.
Hermione si affrettò
verso l'autobus indicato, che aveva già acceso il motore,
pagò le quattro falci per il biglietto e si avviò per il
breve corridoio alla ricerca di un posto isolato. C'erano una dozzina
di passeggeri oltre a lei, compresa la strega che aveva notato prima;
tutti viaggiavano da soli, a parte la donna con i due bambini che, ora
che poteva vederli da vicino, non le somigliavano affatto.
Il rombo del motore crebbe d'intensità, mentre le grosse ruote cominciavano a spingere lentamente l'autobus all'indietro.
Hermione prese posto due file dietro i bambini, posando il borsone sul sedile vuoto accanto.
«Un momento!»
Il grido, soffocato dal
rumore e dagli spessi finestrini era stato appena percettibile; il
pullman si fermò e la portiera anteriore venne aperta con un
cigolio.
Il ritardatario salì a
bordo, borbottò qualcosa all'autista e fece scivolare nella
cassetta alcune monete d'argento che tintinnarono allegramente.
Hermione si sporse leggermente di lato; un giovane alto e biondo camminava nel corridoio.
Aveva un'aria altera e un po'
spavalda, ma quando i loro sguardi si incrociarono, vide spuntare sul
suo volto affilato un sorrisetto malizioso; Hermione si ritrasse di
scatto, vagamente disgustata.
*
Draco si sentiva euforico. Il
viaggio in treno era stato scomodo, e il pullman non sembrava offrire
maggiori conforti, ma per il momento stava andando tutto liscio.
Nessuno gli aveva fatto
domande scomode; i pochi passeggeri sembravano troppo concentrati sulle
proprie faccende per preoccuparsi degli altri e questo era un bel
vantaggio per lui. Naturalmente, aveva già la risposta pronta
nel caso qualcuno gli avesse chiesto lo scopo del suo viaggio, ma se
poteva evitare di destare attenzioni sgradite, tanto meglio.
Si guardò attorno, ma
dopo una fugace occhiata iniziale, gli altri passeggeri erano tornati a
farsi gli affari propri; qualcuno leggeva il giornale, i più
tenevano lo sguardo basso e si lasciavano cullare dal morbido dondolio
del pullman.
In diagonale, una fila
più avanti, c'era la ragazza che Draco aveva notato prendendo
posto. Era piuttosto carina e per un attimo aveva avuto l'impulso di
sedersi accanto a lei; era bravo ad attaccar bottone con le fanciulle e
difficilmente impiegava più di qualche minuto per convincerle a
seguirlo in un posto un po' più appartato. I sedili in fondo
erano vuoti e dubitava che qualcuno dei passeggeri avrebbe badato a due
giovani intenti a scambiarsi effusioni. Tuttavia, aveva una missione da
portare a termine, e non poteva farsi distrarre dal primo bel faccino
incontrato.
Avrebbe festeggiato al suo ritorno; a Birmingham le belle ragazze non mancavano di certo, come aveva avuto modo di constatare.
Forse a suo padre non sarebbe
piaciuto sapere che Draco spendeva la maggior parte del suo tempo, e
dei suoi soldi, in pub e abiti di alta sartoria, ma se questa missione
fosse riuscita, lui sarebbe entrato di diritto nelle fila dei
Mangiamorte, e a quel punto avrebbe avuto diritto a una rendita
personale, della quale avrebbe potuto fare quello che preferiva.
La sera prima, aveva discusso anche di questo aspetto insieme al suo migliore amico.
Harry e Draco erano come
fratelli: compagni di scuola a Hogwarts, erano da subito diventati
inseparabili; inoltre James Potter, il padre di Harry, era uno dei
Mangiamorte più influenti, e Draco provava per lui un profondo e
sincero rispetto, oltre che a un grande ammirazione.
Ogni tanto lui e Harry
venivano bonariamente presi in giro dai loro amici per questo,
perché sembrava quasi che fosse Draco il figlio di James: non
era insolito, infatti, vederli parlottare durante gli eventi mondani, e
tutti quelli che gravitavano intorno a Harry nella speranza di
guadagnarsi favori e privilegi dal suo illustre padre, ben presto si
rendevano conto che, un giorno, il vero potere sarebbe stato tramandato
a Draco.
Tuttavia, questo non aveva mai fatto sorgere rivalità tra loro.
Harry si godeva la sua
posizione sicura e privilegiata, mentre Draco coltivava le sue
ambizioni; entrambi avrebbero ottenuto quello che desideravano e in un
futuro non lontano sarebbero diventati i maghi più illustri e
potenti del Paese, secondi solo al Signore Oscuro.
La prima, fondamentale fase di quel viaggio verso la vetta del potere era appena iniziata.
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Capitolo 6 *** Capitolo V ***
66
13 ottobre 1998
Harry detestava Piton.
Odiava i suoi modi sprezzanti, la sua aria di superiorità, la sua arroganza.
Ogni cosa di lui era sgradevole.
Severus Piton era stato il suo insegnante per sette, lunghi anni.
Già dal primo giorno, Harry
aveva dovuto sopportare le sue battutine svilenti durante le
interminabili ore di Pozioni. Il fatto che fosse figlio del famoso
James Potter non sembrava importagli, come se non temesse rappresaglie
da parte sua.
E purtroppo, aveva dovuto
constatare, aveva ragione: Piton era un Mangiamorte di alto rango,
quanto bastava perché il padre di Harry non si spingesse oltre
qualche commento minaccioso.
L'ultima lezione prima degli esami
era stata una specie di festa di diploma anticipata: non avrebbe più dovuto avere a che fare con
quell'untuoso, sgradevole mago.
Tuttavia, un paio di giorni prima,
era arrivata una lettera dal preside, il professor Lumacorno, che lo
invitava nel suo ufficio per discutere della sua futura carriera;
Piton, in qualità di suo vice, nonché direttore degli
allievi dell'ultimo anno, sarebbe stato presente.
Harry era seccato.
Quell'incontro era solo un
proforma: per i neodiplomati come lui era giunto il momento di
scegliere la strada da intraprendere, ma, naturalmente, suo padre gli
aveva già procurato un impiego al Ministero come vice-capo
sezione del Dipartimento Permessi e Licenze del Ministero.
Evidentemente, però, procedure e burocrazia andavano rispettate.
Harry pensava di recarsi a Hogwarts da solo ma, a sorpresa, sua madre aveva insistito per accompagnarlo.
Era una scocciatura, perché
certamente il preside avrebbe accolto calorosamente, e lungamente, la
moglie del famoso James Potter, il capo del Dipartimento di
Applicazione della legge sulla Magia, praticamente il Ministro in
seconda; Harry, invece, avrebbe preferito stare alla presenza di Piton
il meno possibile.
Sua madre, però, era stata
irremovibile, e ora Harry stava sfogando la sua frustrazione gettando
alla rinfusa i suoi abiti per la stanza, prendendosi tutto il tempo per
vestirsi con calma. Arrivare in ritardo all'appuntamento era il solo
mezzo che aveva per mostrare a Piton il suo disprezzo.
Con deliberata lentezza
studiò la sua immagine nello specchio e si diede un'ultima,
studiata arruffata ai capelli. Erano sempre stati folti e ribelli, ma
Harry non aveva mai tentato di domarli. Gli conferivano un'aria di
altera indolenza e, soprattutto, piacevano alle ragazze.
Quando ebbe terminato le scuse per attardarsi, decise di scendere in salotto, dove sicuramente sua madre lo stava aspettando.
«Te l'ho già spiegato, Margery, non puoi venire con noi»
Harry varcò la porta del salotto, dove Lily Potter era alle prese con l'ennesimo capriccio della sua sorellina minore.
«Ma perché?»
protestò Margery, pestando i piedi sul pavimento, le mani
strette a pugno. Era sempre stata molto testarda.
«Basta così» replicò sua madre, in tono conclusivo.
Per un attimo, madre e figlia si fronteggiarono.
Erano l'una la copia in miniatura dell'altra, come le persone non mancavano mai di notare.
Margery aveva ereditato i folti
capelli rossi e gli occhi verdi della madre, nonché il suo
stesso carattere forte e deciso.
Harry, invece, assomigliava
moltissimo a suo padre James, tranne che per gli occhi, che erano
uguali a quelli di Lily e di Margery.
Suo fratello Edward, di cinque anni più piccolo di Harry, invece, era in tutto e per tutto identico al padre.
Nel frattempo Margery doveva aver
capito che la questione era chiusa; con un'ultima occhiata piena di
frustrazione, voltò le spalle alla madre e uscì dalla
stanza in silenzio.
Lily sembrava molto turbata, ma si ricompose all'istante vedendo Harry entrare.
«Sei pronto?» gli chiese.
Harry annuì, avvicinandosi al camino ed entrambi presero una manciata di Polvere Volante.
Harry detestava quel modo di
viaggiare. Era rapido e sicuro, ma sporco; la cenere si insinuava
ovunque e spesso il calore era insopportabile.
Così, di mala grazia,
gettò la Polvere tra le fiamme e vi saltò dentro,
enunciando con chiarezza la sua destinazione; dopo parecchi vortici
smeraldini comparve nel camino dell'ufficio del preside.
Il professor Lumacorno era seduto
alla sua scrivania e all'altro capo c'era l'odioso Piton, un bozzolo
nero chino su una pila di documenti.
Il preside si alzò in fretta, tanto quanto lo permetteva la sua enorme mole.
«Harry, ragazzo mio,
benvenuto!» tuonò gioviale, facendo tremare i suoi grossi
baffi biondicci. «Un po' in ritardo, ma non importa»
puntualizzò, facendogli l'occhiolino e Harry pensò
l'avesse detto solo perché Piton doveva essersi lamentato fino a
un attimo prima. Questo era stato il suo preciso obiettivo,
pensò felice, gettando un'occhiata veloce
all'odiato insegnante che, invece,
era rimasto seduto; in quel momento, lui sollevò lo sguardo,
colmo di astio, quindi tornò a dedicarsi alle sue carte.
Harry uscì dal camino e, pochi istanti dopo, Lily Potter comparve al suo fianco.
Piton mise da parte i documenti e si alzò in piedi.
Non era cambiato da quando Harry
aveva avuto il dispiacere di conoscerlo per la prima volta; alto e
untuoso, indossava sempre la divisa dei Mangiamorte. A suo padre donava
un aspetto rigoroso e solenne, mentre Piton sembrava solo un
pipistrello gigante.
«Buongiorno, signora
Potter» salutò il preside, entusiasta, porgendole poi una
mano grassoccia, che quasi stritolò quella piccola e affusolata
di sua madre.
Piton salutò a sua volta,
limitandosi poi a un rigida e frettolosa stretta di mano. «Signor
Potter» aggiunse rivolto a lui, la bocca atteggiata in una
smorfia che Harry conosceva fin troppo bene. Non gli tese la mano, cosa
che non gli dispiacque affatto.
Il professor Lumacorno non se ne accorse.
«Accomodatevi» li
invitò, indicando le due poltroncine all'altro capo della
scrivania, una delle quali era stata occupata da Piton fino a un minuto
prima.
Erano soffici e un po' pacchiane, come il resto dell'ufficio del preside, arredato in maniera lussuosa, quasi ridondante.
Le pareti, una volta tappezzate
dei ritratti dei presidi del passato, ora erano occupate da mensole e
scaffali, ricolmi di libri pregiati, oggetti scintillanti e foto di
personalità illustri.
Quella più grande,
collocata in posizione privilegiata, ritraeva il Signore Oscuro,
che scrutava i presenti con i suoi intensi occhi rossastri.
Harry e sua madre presero posto,
mentre Piton faceva comparire un'altra sedia, molto semplice ed
essenziale e dall'aspetto duro e scomodo.
Piton non aveva mai amato gli agi, rifletté.
*
Lily si agitò nervosamente sulla poltrona di chintz, ma nessuno dei presenti parve notarla.
Piton, infatti, stava passando a
suo figlio un ultimo documento di firmare; Harry intinse di nuovo la
penna nel calamaio, scambiandosi un cenno di intesa con il professor
Karkaroff, che li aveva raggiunti pochi minuti dopo il loro arrivo.
Igor Karkaroff insegnava Arti
Oscure a Hogwarts, ed era il professore preferito di Harry. Non era un
mago di sorprendente abilità, ma era viscido e accattivante,
sempre pronto a favorire i suoi studenti prediletti, dispensandoli dai
compiti più noiosi e garantendo per loro quando violavano il
coprifuoco.
«Bene signor Potter, direi
che abbiamo finito» dichiarò il preside, allegro e Piton
prese a radunare i fogli firmati.
Harry si alzò subito, chiaramente grato di poter lasciare l'ufficio.
«Complimenti, Harry»
gli disse Karkaroff, battendogli una mano sulla spalla «Farai
carriera in un attimo» dichiarò compiaciuto.
Lily rimase seduta. O adesso o mai più, si disse.
«Vorrei scambiare due parole con il professor Piton, se possibile».
Il preside parve risentirsi, ma
poi tornò ai suoi soliti modi affabili «Naturalmente, come
desidera mia cara» disse, alzandosi «Puoi usare il mio
ufficio, Severus».
Piton lo ringraziò con un cenno del capo.
Harry le rivolse uno sguardo
perplesso «Va bene» disse infine, con noncuranza, quindi si
avviò verso la porta, con Karkaroff accanto, che aveva ancora la
mano posata sulla sua spalla, e Lumacorno che trotterellava dietro di
loro.
«È quasi ora di
pranzo, saranno tutti in Sala Grande, saranno felici di
rivederti» disse Karkaroff, in tono confidenziale, e il preside
gli fece eco «Oh certo, farò preparare qualcosa di
speciale dagli elfi domestici giù in cucina»
dichiarò entusiasta, chiudendosi la porta alle spalle.
Lily attese qualche istante, per assicurarsi che fossero fuori portata d'orecchio.
Era angosciata, ma Piton era la sua unica speranza ormai.
L'uomo la scrutava attentamente e
parve accorgersi del suo stato d'animo, perché chiese
«C'è qualcosa che non va?»
Lily non rispose. Abbassò
la testa, cercando di sfuggire allo sguardo minaccioso del Signore
Oscuro; era solo una foto, ma Lily non riusciva a scacciarsi di
dosso l'impressione di essere osservata da quei gelidi occhi rossi,
pronti a fulminarla non appena avesse dato voce ai suoi pensieri
pericolosi. Respirò profondamente, tentando di calmarsi e
trovare le parole giuste.
«Lavorare per il Ministero
può comportare qualche rischio, ma la sezione Licenze non opera
sul campo, non c'è motivo di preoccuparsi» riorese Piton,
ma Lily lo ascoltava a malapena. Mise su lo sguardo più
determinato che riuscì a trovare e, finalmente, esordì
«Non è di Harry che voglio parlare».
Piton annuì impercettibilmente, invitandola a proseguire.
«Si tratta di mia figlia, Margery»
Si fermò di nuovo.
Stava commettendo un errore? Poteva davvero fidarsi dell'uomo che aveva davanti?
Fu lui a riempire il silenzio.
«Dovrebbe compiere undici anni il prossimo anno, giusto?»
Lily si limitò ad annuire.
«Che io sappia, l'elenco dei
nuovi iscritti non è ancora arrivato» continuò
Piton «Ci sono ancora dei ritardi nelle comunicazioni, la lista
deve essere prima espurgata» aggiunse, alludendo ai Nati Babbani
che continuavano a spuntare nonostante le politiche ministeriali
«Ma naturalmente, sarete i primi ad essere contattati…
»
«Margery non verrà a Hogwarts» lo interruppe Lily.
Piton l'osservò confuso.
«Margery è una
bambina buona, dolce, gentile, ma-» le parole le si strozzarono
in gola; comprese solo in quel momento che non sarebbe mai riuscita a
pronunciarle.
Di nuovo, Piton la studiò
attentamente, trafiggendola con i suoi scaltri occhi neri «Credi
sia una Maganò?» le chiese.
Lily si sentì quasi
sollevata; lui aveva intuito la situazione con molta più
rapidità di quanto avesse osato sperare.
«Io lo so!» rispose
«James e io abbiamo provato di tutto» continuò; la
paura, l'urgenza di trovare una soluzione ora fungevano da
catalizzatore, scacciando la disperazione che l'aveva oppressa fino a
quel momento e dandole la forza di continuare a parlare.
«È stato inutile. James si è arreso, da mesi ormai
tratta Margery come se non esistesse».
Cadde di nuovo il silenzio, carico e teso.
«Mi dispiace»
commentò Piton alla fine «Non posso immaginare quello che
stai provando» aggiunse «Ma anche volendo, non posso
aiutarti, la legge è legge, lo sai».
Lily avvampò, furente
«È mia figlia!» esclamò, indignata «Non
posso lasciare che la prendano!»
«Lily» tentò lui, conciliante «Capisco… »
«No, tu non capisci!
È mia figlia!» ripeté. Si era alzata in piedi,
anche se non ricordava di averlo fatto, e ora guardava Piton dall'alto
in basso, cieca di rabbia.
«Tuo marito è uno
degli uomini più potenti del Paese» considerò lui
con semplicità, ma a Lily non sfuggì la sua smorfia
insofferente, come se ammetterlo gli costasse un tremendo sforzo
«Non può sottrarsi alle leggi che incarna lui stesso,
perderebbe ogni credibilità, la sua autorità verrebbe
meno, lo sai»
«Quelle leggi sono barbare!» protestò Lily.
«Prima non la pensavi
così» osservò lui, calmo, alzandosi però a
sua volta «Non hai mosso un dito quando il Ministero ha
cominciato a dare la caccia a Sanguemarcio e Babbani, hai voltato la
testa quando i Maghinò venivano usati come cavie. Dovresti
considerarti fortunata, vista la vostra posizione, per Margery
sarà una cosa rapida e discreta» disse, gelido.
Lily era sconvolta, ma Piton aveva
appena cominciato «Proprio tu, che a scuola mi accusavi di
frequentare cattive compagnie, di interessarmi troppo a maledizioni e
incantesimi oscuri. Mi hai disprezzato per questo, e ne avevi il
diritto, pensai. E poi che cosa hai fatto? Quando il tuo James si
è unito a quelle stesse brutte compagnie non hai avuto nulla da
obiettare, vero?» continuò, implacabile «Ha fatto
falsificare i tuoi documenti perché sfuggissi alle persecuzioni,
e poi ha iniziato a massacrare quelli come te. Ha mandato a morte i
suoi vecchi amici, trucidato Babbani e traditori, ma per te andava
bene!»
«Sei solo un'ipocrita» concluse, disgustato.
Era vero, aveva ragione, pensò Lily nel panico. Severus era stato la sua ultima possibilità.
«Ho avuto paura»
ammise; non voleva cercare giustificazioni, anche se quelle parole
suonavano terribilmente come una patetica scusa.
«Harry era appena nato,
dovevo proteggerlo. Non era rimasto più nessuno in grado di
fermare il Signore Oscuro, James e io abbiamo preso l'unica decisione
possibile per salvare la nostra famiglia. L'ho fatto per mio
figlio».
Si accorse di avere gli occhi
pieni di lacrime, la sua coscienza, che aveva messo a tacere per tanti
anni, ora minacciava di distruggerla.
Non aveva avuto scelta, si era ripetuta.
Silente era stato sconfitto,
privato dei suoi poteri, il Ministero ormai ridotto all'impotenza e la
Resistenza, per quanto caparbia, senza più una guida non aveva
avuto speranze di vincere contro l'esercito del Signore Oscuro.
Si erano arresi, ma nulla poteva giustificare le atrocità di cui si erano resi complici.
Aveva sacrificato i suoi stessi principi per amore di suo figlio e ora i morti le presentavano il conto.
Piton continuava a fissarla in silenzio, l'espressione indecifrabile.
«Il Signore Oscuro si
è preso tutto» riprese lei «Harry, l'hai visto,
freme alla prospettiva di servirlo e Edward… credo di aver
perduto anche lui. Ma Margery no, non posso, non voglio che mi porti
via la mia bambina!»
Severus non disse nulla.
Poi, lentamente, si avvicinò e, senza esitazione, la cinse in un abbraccio.
Lily, dapprima sorpresa, si abbandonò tra le sue braccia, ritrovandosi a piangere sulla spalla del suo vecchio amico.
«Ti aiuterò»
sussurrò Severus al suo orecchio e Lily lasciò che quelle
parole agissero come un balsamo sulla sua anima colpevole e ferita.
*
Ron non riusciva a credere di essere stato così ingenuo.
La mattina dopo la morte di Ginny, si era svegliato e aveva trovato il letto accanto a sé vuoto.
Non aveva neanche provato a chiamare Hermione; sapeva già che non era più in casa.
Gli aveva lasciato un biglietto
con scritto “perdonami”, che Ron aveva accartocciato con
rabbia e poi gettato sulle braci inerti della piccola stufa.
Avrebbe dovuto bruciarlo.
Aveva poi passato la mattinata
rimuginando sul da farsi. La sera prima aveva pensato di recarsi al
Ministero per denunciare la scomparsa di Ginny, ma la partenza di
Hermione aveva cambiato tutto. Avrebbe dovuto denunciare anche la sua
di scomparsa? Oppure avrebbe dovuto inventarsi una scusa per
giustificare la sua assenza? E se sì, quale?
Hermione non aveva parenti
lontani, a parte i genitori Babbani, di cui non aveva più avuto
notizie da quel pomeriggio di tanti anni prima. C'era la famiglia di
Ron, che ufficialmente era anche quella di Hermione, ma non voleva
coinvolgere i suoi fratelli più del dovuto.
Anche se, prima o poi, avrebbe dovuto mettersi in contatto con loro: presto si sarebbero accorti della strana assenza di Ginny.
Ma il Ministero era stato più veloce dei suoi ragionamenti frenetici.
Un paio di Guardie aveva bussato alla porta poco prima di pranzo, chiedendo di Ginny.
Ron aveva finto di non sapere
nulla di ciò che le era accaduto e aveva fornito loro
l'indirizzo della sorella; quelli se n'erano andati in fretta,
apparentemente soddisfatti.
Ma Ron sapeva che sarebbero tornati.
E infatti, in serata aveva visto
arrivare altri due uomini; non portavano la divisa dei Mangiamorte,
né mostravano alcun segno di riconoscimento, ma Ron sapeva che
erano sgherri del Ministero.
Avevano tenuto la casa sotto sorveglianza per ventiquattro ore, poi si erano allontanati.
Ron si era sentito sollevato.
Un altro errore di valutazione.
Erano tornati poche ore dopo, in
uniforme; avevano fatto irruzione nel seminterrato e l'avevano
perquisito, trovando il biglietto di Hermione.
Tanto era bastato per trarlo in arresto.
Era stato un idiota, si disse per l'ennesima volta.
«Bene bene, Weasley»
disse una voce, fredda e strascicata «Non hai perso tempo a
seguire le sventurate orme dei tuoi genitori, traditori del proprio
sangue» lo schernì.
«Portatelo nella stanza degli interrogatori».
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