Memento Mori

di CalvinCoolest
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ▪ acufene ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO PRIMO ▪ yanantin ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO SECONDO ▪ la vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO TERZO ▪ Piper vinceva tutte le gare di corsa del Distretto 11 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO QUARTO ▪ Caprice ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ▪ acufene ***


 
▪ Prologo ▪
Acufene

Il tempo, lei lo sapeva, scorreva sempre alla stessa velocità.
Il tempo, lei lo sapeva, era definito dal moto dei pianeti.
Il tempo, lei lo sapeva, non poteva essere né lento, né veloce.
Il tempo, lei lo sapeva, semplicemente era. Indipendente da lei, dai suoi affari o dai suoi interessi, il tempo scorreva, indifferente.
Eppure, quel giorno, il tempo si fermò. E poi, quando finalmente iniziò a scorrere, lo fece con infinita lentezza.
Futura emerse sulla pedana assieme a tutti gli altri. Assieme a tutti gli altri prese immediatamente a guardarsi intorno: quel che la circondava era uno spettacolo familiare, che aveva visto sui libri di scuola. Erano rovine, ma non rovine come quelle che erano rimaste nel Distretto 3 dai Giorni Bui; erano rovine di civiltà antiche.
Il terreno sembrava sabbioso. Il sole era cocente.
Il tempo scorreva. Scorreva, lento.
Alla sua destra, la ragazza del Distretto 2 guardava la Cornucopia con sguardo determinato.
Futura si voltò a sinistra. Vide il ragazzo del Distretto 10, che le ricambiava lo sguardo. Futura aveva parlato con lui una volta, nei giorni trascorsi a Capitol City: lui le aveva detto che nel Distretto 10 utilizzavano alcune tecnologie prodotte nel Distretto 3 per aiutare con l’allevamento.
Il ragazzo del Distretto 10 si chiamava Angus.
Il ragazzo del Distretto 10 la stava guardando.
Il ragazzo del Distretto 10, Futura lo poteva immaginare, era spaventato quanto lei.
Nonostante ciò, il ragazzo del Distretto 10 sorrise.
Futura vide con la coda dell’occhio che mancavano solo cinque secondi. Sapeva che la cosa migliore per lei era scappare. Poteva sperare che la ragazza del Distretto 2 non si interessasse allo zainetto che si trovava esattamente a metà nello spazio compreso tra le loro due pedane. Oppure poteva sperare di essere più veloce di Angus che non pareva molto agile.
Futura stava pensando a questo quando il ragazzo del Distretto 10 saltò giù dalla pedana. Mancava un secondo. L’esplosione la prese di sorpresa; le orecchie le ronzavano, il respiro le venne improvvisamente a mancare. Quando scoccò il gong, lo sentì a malapena.
Le orecchie continuavano a ronzarle. Nel Distretto 3, l’acufene era un problema diffuso e conosciuto. Ogni volta che si doveva lavorare con macchinari che producevano molto rumore, erano d’obbligo i tappi per le orecchie. Nell’Arena, certi lussi non erano concessi.
Il gong suonò. I tributi scesero dalle proprie pedane, chi correndo verso la Cornucopia, chi scappando via. Futura rimase immobile. Le ronzavano le orecchie.
Angus era saltato in aria. Prima di morire, Angus le aveva sorriso. Angus le aveva detto che nel distretto 10 utilizzavano macchinari provenienti dal distretto 3 per aiutare con l’allevamento.
Il gong era suonato e lei non si mosse. La ragazza del 2 scattò verso la Cornucopia.
Le orecchie le ronzavano.
Sua madre le aveva detto che a Capitol City avevano addirittura un rimedio per l’acufene. A Capitol City, l’acufene si prendeva quando si ascoltava la musica a volume troppo alto o non si mettevano i tappi per le orecchie quando si andava ai concerti.
Finalmente Futura scese dalla pedana.
Per un attimo temette di esplodere anche lei.
Le ronzavano le orecchie.
Vicino al cadavere di Angus c’era uno zainetto, era nero e piccolo. Futura si avvicinò per prenderlo, si chinò e lo raccolse, lentamente.
Le ronzavano le orecchie.
Futura realizzò che sarebbe morta quando, raccolto lo zaino, iniziò a correre davanti a lei, lontano dalla Cornucopia. Realizzò che per sopravvivere, avrebbe dovuto iniziare a correre quando l’avevano fatto tutti gli altri.
Pensò al Distretto 3. Ogni anno, al Distretto, le persone guardavano gli Hunger Games fino a quando entrambi i loro Tributi morivano. Ogni anno, al Distretto, arrivavano due bare di semplice legno e due lettere di condoglianze.
Ogni anno, al Distretto, tutti dicevano che, quell’anno, potevano sperare di avere un nuovo vincitore.
Futura fu uccisa da una freccia scagliata dalla ragazza del Distretto 2 e non sentì dolore.



Note: Secondo i miei calcoli, la 41esima edizione non dovrebbe essere occupata da nessun personaggio canon, e l'ho scelta per questo. In caso dovessi sbagliarmi, potrei spostarla, ma in ogni caso il numero sarà più o meno questo. Secondo i miei piani, la fanfiction dovrebbe spaziare un paio di punti di vista diversi e concludersi in circa quattordici capitoli. Il prologo è piuttosto breve, però anche se gli altri capitoli saranno un po' più lunghi sono tutti abbastanza succinti. Ho messo come rating il rating giallo perché per ora non ci sono descrizioni cruente, ma è possibile, anzi probabile, che in futuro diventi arancione. Non credo che arriverò al punto da farla a rating rosso, comunque. 







 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** CAPITOLO PRIMO ▪ yanantin ***


 
▪ CAPITOLO PRIMO ▪
Yanantin

Gadge contò otto colpi di cannone, un bagno di sangue piuttosto misero.
La maggior parte dei Tributi, gli era parso, era immediatamente scappato il più lontano possibile dalla Cornucopia. Il suo mentore gli aveva dato come consiglio per sopravvivere proprio quello di stare il più lontano possibile dalla Cornucopia in ogni momento dei giochi, e immaginava che molti Tributi dei distretti meno ricchi avessero seguito la stessa tattica. Nonostante ciò, Gadge era riuscito ad aggiudicarsi uno zainetto, strappandolo dalle mani del ragazzo del Distretto 9. Il ragazzo del Distretto 9, poi, era stato ucciso dalla ragazza del Distretto 1.
Gadge, che non era mai stato particolarmente bravo nella corsa di resistenza, continuò a correre in direzione opposta alla Cornucopia fino a quando sentì che il respiro gli mancava. Poi, iniziò a camminare. Lo zainetto, che era piuttosto leggero, gli sembrava comunque fin troppo pesante da portare sulle spalle. Voleva fermarsi.
Continuò ad andare avanti.
Il suo mentore, Wyatt, gli aveva detto di sperare che i Favoriti si ammazzassero tra di loro, di trovare dell’acqua e di non allearsi con nessuno, neanche con la propria compagna di distretto. Gadge sapeva che Wyatt parlava per esperienza: lui aveva vinto proprio perché aveva pugnalato alle spalle la propria alleata, nonché compagna di distretto. Nel Distretto 3 non l’avevano ancora perdonato.
Anche per questo Gadge aveva tentato di tenersi lontano dalla propria compagna. Prima della Mietitura, non l’aveva mai vista, o se l’aveva vista non le aveva mai prestato attenzione. E l’avrebbe volentieri dimenticata come faceva con i Tributi di ogni anno se poi non fosse stato estratto anche il proprio nome.
Gadge continuava a camminare, e intanto si guardava intorno.
Non aveva mai prestato particolare attenzione alle lezioni di storia, a scuola, ma anche lui sapeva riconoscere delle rovine romane. Doveva ammettere che non era la propria arena ideale, ma a ben pensarci, nessun’arena era ideale per un tributo del Distretto 3.
Nel Distretto 3 sapevano solo scancherare con apparecchi elettronici, risolvere equazioni e lamentarsi del meteo. Ogni anno, i Tributi del Distretto 3 venivano uccisi da dei bruti muscolosi del Distretto 2 o infilzati dai tridenti di qualche pescatore assetato di sangue del Distretto 4.
Per quattro anni di fila, entrambi i Tributi del Distretto 3 erano morti nel bagno di sangue. Cinque anni prima aveva vinto Wyatt.
Gadge aveva diciotto anni, si ricordava bene circa dodici edizioni degli Hunger Games, e in una aveva vinto Wyatt. In tutte le altre faticava a ricordarsi di una volta in cui almeno un Tributo del Distretto 3 fosse arrivato almeno alla quinta giornata.
Meglio non pensarci.
Continuò a camminare, per quelle che gli sembrarono delle ore. Il terreno sabbioso gli sporcava le scarpe nere. Per un attimo valutò di spargersi i vestiti di terra per mimetizzarsi meglio, poi ricordò gli sguardi sconsolati dell’istruttore alla stazione di mimetizzazione durante l’addestramento e decise di evitare. Preferiva sembrare coraggioso e impavido, o forse stupido, e non mimetizzarsi affatto che mostrare a tutta Capitol City di non essere per niente capace di farlo e perdere ogni possibile sponsor. Aveva preso sette, un bel voto per un ragazzo di un distretto povero. Forse qualche capitolino a cui piacevano gli sfavoriti avrebbe scommesso su di lui.
Un’altra cosa che gli aveva detto Wyatt era di non contare sugli sponsor. Forse, Gadge si era detto, era perché Wyatt non aveva voglia di cercare di convincere le persone a scommettere su di lui. Forse era perché sapeva già che nessuno scommetteva sui Tributi del Distretto 3.
Meglio non pensarci.
Gadge si rendeva conto che, prima o poi, avrebbe dovuto fermarsi. Non c’era traccia di acqua da nessuna parte, e camminare sotto al sole cocente sicuramente non lo idratava. Si era promesso di non sperare nulla, perché la sorte non giocava a suo favore, ma sperò comunque di trovare almeno un goccio d’acqua nel suo minuscolo zaino.
Trovò riparo vicino a un muro, o almeno vi trovò ombra. Si sedette e appoggiò la schiena alla parete. Prese lo zaino e lo aprì.
Si era promesso di non sperare nulla ma comunque incrociò le dita.
Sbuffò. Nello zaino c’era solo una lattina, con sopra attaccata una corda sottile. Sull’etichetta c’era scritto che era una lattina di carne in scatola, ma non era possibile aprirla a causa della corda. Ricontrollò, ma nello zaino non trovò nient’altro.
Ottimo, si disse. Sarebbe stato davvero un peccato trovare qualcosa di utile.
Ripose la lattina nello zaino e lo richiuse. Sbuffò di nuovo.
Prese una pietra piuttosto grande dal terreno e si disse che, perlomeno, aguzzandola un po’ avrebbe potuto usarla come arma. O, addirittura, avrebbe potuto cercare di aprire il proprio barattolo e mangiare della carne.
Iniziò a sfregare la pietra contro l’orlo del muro, ma presto si fermò.
Gli sembrò di aver sentito dei passi.
La sua pietra non era ancora molto aguzza.
Sentì altri passi.
Era sicuro di non essere da solo. Scattò in piedi e si preparò a sbattere la pietra sulla testa di qualcuno — poteva fare del male anche se non era aguzza — e davanti a sé ritrovò il ragazzino del Distretto 5. Aveva tredici o quattordici anni ma ne dimostrava meno.
Gadge sentì la mano che gli tremava. Il ragazzino sembrava più spaventato di lui.
Per un po’, rimasero fermi così.
Gadge, senza il coraggio di uccidere un bambino a sassate.
Il ragazzino, senza il coraggio di scappare.
Alla fine Gadge abbassò il braccio.
Il ragazzino continuò a non muoversi.
Per un altro po’, rimasero immobili e in silenzio.
Alla fine, «mi chiamo Newton», parlò il ragazzino.
«Gadge».
«Sono del 5».
«Lo so».
«Forse… potremmo...» Il ragazzino era titubante, goffo e imbarazzato. Questo Gadge l’aveva visto anche nell’intervista, in cui si era mangiato le parole e probabilmente non aveva fatto una buona impressione. «Stare insieme, per un po?»
Wyatt gli aveva detto di non fare alleanze,  con nessuno, neanche con la propria compagna. Wyatt aveva ucciso la propria alleata di notte, mentre lei dormiva, mentre lei si fidava di lui.
Gadge non voleva uccidere Newton.
Gadge non voleva uccidere nessuno.
Gadge non voleva neanche morire.
«D’accordo» rispose, infine. «Per un po’».


«Dobbiamo allontanarci un po’ perché passino gli hovercraft a prendere...» Topaz gesticolò a indicare i cadaveri intorno a loro. «Tutto questo».
Domitia annuì. “Tutto questo” erano otto cadaveri — non molti — di cui solo uno, una ragazzina che aveva a malapena cercato di scappare era opera sua. Hadrian aveva ucciso due Tributi, di questo era sicura. Un ragazzo, inoltre, si era suicidato. Quindi, se non si sbagliava, anche gli altri Favoriti avevano ucciso solo un Tributo, a meno che qualcuno non  ne avesse uccisi zero.
Sono calcoli stupidi, si disse. Però sapeva che fin dal bagno di sangue si vedevano i favoriti tra i Favoriti, quelli che uccidevano di più e che alla fine vincevano. Si promise di uccidere il primo Tributo in cui si sarebbero imbattuti, per arrivare pari a Hadrian.
Alla fine, sperava di non dover uccidere lei stessa Hadrian. Non era un suo grande amico, lo conosceva poco, però non voleva essere ricordata come quella che aveva ucciso il proprio compagno di distretto.
«Credo che la maggior parte sia andata di là». Ridley indicò in direzione Nord, dove il terreno si faceva più roccioso e, indubbiamente, più zeppo di nascondigli. «Quindi io e Misty stavamo pensando di andare lì».
“Io e Misty” era una cosa che era andata avanti per tutto l’addestramento. Domitia era sicura di non aver mai sentito parlare Misty da sola. Anche durante l’intervista, si era data un’aria da taciturna misteriosa, rispondendo a monosillabi. Ogni tanto vedeva Misty e Ridley che bisbigliavano, e poi, prontamente, Ridley se ne usciva con un “io e Misty”.
Domitia non sopportava né lui, né Misty. Si fidava di loro meno di quanto si fidasse degli altri Favoriti ed era certa che, alla prima occasione, si sarebbero organizzati per pugnalare gli altri alle spalle.
Quelli del Distretto 1, invece, erano meno affiatati. Il ragazzo se ne stava perlopiù in silenzio. La ragazza sembrava simpatica.
«Mi sembra una buona idea» disse Hadrian. «Cerchiamo di fare il più in fretta possibile, no?»
Tutti annuirono e si diressero verso Nord. Domitia sperava di non dover camminare troppo prima di trovare qualcuno. Se c’era una cosa che detestava fare era camminare, o correre, a lungo. Avrebbe preferito di gran lunga un bagno di sangue più esteso, ma la maggior parte dei Tributi preferiva scappare, intimorito dai Favoriti.
Non poteva biasimarli, quando la maggior parte dei Tributi era malnutrita, debole e spesso troppo giovane.
Appena si furono allontanati, iniziarono a scendere gli hovercraft, uno per ogni cadavere.
Improvvisamente, Domitia pensò a come ognuno di quegli hovercraft conteneva un corpo che presto sarebbe tornato a casa in una cassa di legno. E uno di quelli era lì per causa sua.
Da qualche parte, a Panem, una famiglia era in lutto per colpa sua.


«Ci sono degli insetti».
«Sì».
«E dove ci sono degli insetti c’è anche dell’acqua, no?»
Rudry aggrottò le sopracciglia. I loro mentori erano troppo storditi dalla morfamina per dare consigli veri e propri, quindi lui e Caprice avevano cercato di sviluppare una tattica da soli. La loro tattica consisteva nel trovare del cibo, dell’acqua e sperare di non morire.
All’addestramento, avevano passato i primi due giorni a studiare metodi di sopravvivenza, e a Rudry non era entrato in testa niente.
«Sì, credo di sì» disse. Anche lui ricordava di aver imparato qualcosa riguardo all’acqua e agli insetti, ma cosa di preciso non se lo ricordava.
Vide Caprice sorridere. «Ottimo» disse la ragazza. «Non sento niente quindi se è un fiume o un ruscello non sarà molto vicino, ma siamo sulla buona strada».
«Sono stanco morto». Rudry sbuffò. In mano aveva una lancia, che era riuscito ad ottenere perché un Favorito aveva cercato di tirargliela nella schiena mentre scappava dalla Cornucopia. Per sua fortuna, lo aveva mancato. Quindi era vivo e armato, ossia stava andando oltre ogni aspettativa sua, della propria famiglia e di tutta Panem.
«Si sta facendo buio» disse Caprice «ma dobbiamo trovare comunque l’acqua, no?»
«Tullius mi ha detto di non camminare mai quando sono stanco».
Caprice ridacchiò. «Seriamente?»
«Beh, lui i giochi li ha vinti».
Caprice non rispose.
Entrambi sapevano che una volta Tullius doveva essere stato un giovanotto piuttosto forte e in salute. Loro, però, l’avevano sempre visto come uno dei tanti involucri spinti dalla morfamina che abitavano il Distretto 6. Rudry sapeva che era meglio non parlare del problema di dipendenza da morfamina lì, in diretta nazionale. Sapeva che sarebbe potuto apparire come una critica alla capitale.
Continuarono a camminare in silenzio.
Rudry pensava a Tullius, e alla morfamina. Tutti i vincitori che conosceva o di cui aveva sentito parlare sembravano avere dei problemi o delle dipendenze. Si chiese se valesse la pena vincere, se poi bisognava diventare come Tullius.
Forse aveva fatto bene quel ragazzo a buttarsi dalla pedana.
Nel Distretto 6, poi, tutti conoscevano almeno una persona con un problema di morfamina. Rudry ne conosceva bene tre, e sapeva di altri cento. Ogni tanto, qualcuno moriva.
A distrarlo dai suoi problemi arrivò l’inno nazionale.
«Forse è davvero tardi» sussurrò Caprice.
Si fermarono entrambi e guardarono il cielo. Cielo, poi, che sapevano essere finto. Forse era meglio dire “soffitto”. Guardarono in alto e aspettarono i volti dei morti. Il primo fu quello della ragazza del Distretto 3. In totale, si arrivò a otto, di cui uno era il ragazzo del Distretto 10, morto suicida. Nel Distretto 12, erano morti entrambi i Tributi.
Rudry strinse i pugni, tenne la lancia ben salda nella mano destra.
«Fermiamoci qua» disse Caprice.
«E l’acqua?»
«Domani».
«Domani» ripeté Rudry, più per se stesso che per Caprice.
Un giorno, pensò, sarebbero brillati i loro due volti nel cielo.
 


Nota: Il termine "Yanantin" è di origine Quechua e indica un "dualismo complementare", ossia l'unione di energie opposte ma interdipendenti. 
 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO SECONDO ▪ la vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe ***


 
▪ CAPITOLO SECONDO ▪
La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe

«Chi è rimasto?»
Caprice camminava con leggerezza. Camminava come se fosse stata nel prato del Distretto 6 (prato grigio, spento, morto), come se intorno a sé non ci fosse un mondo artificiale di morte e dolore. Caprice camminava quasi sulle punte, a piccoli scatti.
«Vediamo… tutti i Favoriti...»
«Giusto, poi è morta quella del 3, ma non il ragazzo?»
Rudry camminava di fianco a lei ma i suoi passi erano pesanti. I suoi stivali lasciavano impronte ben visibili sul terreno. Inizialmente aveva pensato di cancellarle, ma come potevano fare? Da qualche parte dovevano pur camminare.
«Sì, e poi… quelli del 5 sono vivi entrambi, credo» rispose.
«Anche del 6».
«Direi di sì».
Caprice sorrise. «Ne sei proprio sicuro?» Poi iniziò a ridere.
No, pensò Rudry. Non per molto, in ogni caso.
Non disse nulla. Sorrise anche lui.
«La ragazza del 7 è morta» aggiunse Rudry.
L’aveva vista morire. Era nella pedana di fianco alla sua, ed era corsa verso un’ascia. Era stata rapida ma non intelligente. Aveva fatto giusto in tempo ad afferrare l’ascia prima di essere trafitta dalla spada del ragazzo del Distretto 1.
«Anche quella dell’8».
Rudry sospirò. Non aveva stretto amicizia con nessuno degli altri Tributi, gli era parsa una perdita di tempo, eppure pensava a quei morti come a dei vecchi amici, dei compagni stretti, che gli erano stati dati per tre giorni e subito tolti.
«Quello del 10» mormorò Rudry.
Un’esplosione colorata, un botto e quel ragazzo se n’era andato con il sorriso sulle labbra. Forse aveva fatto bene. Aveva fatto bene. Avrebbe dovuto farlo anche lui.
Avrebbero dovuto farlo tutti.
Cosa sarebbe successo, se l’avessero fatto tutti?
«Anche il ragazzo del 9, e dell’11» disse Caprice.
«Entrambi del 12» concluse Rudry.
In totale, otto. Rimanevano sedici Tributi, di cui sei Favoriti, due erano loro e otto erano nella loro stessa situazione. Se fosse stato un capitolino, Rudry avrebbe scommesso su Hadrian, il diciottenne del Distretto 2. Era forte, alto, bello e anche simpatico. Aveva preso un voto altissimo.
Rudry aveva preso quattro, meno di Caprice.
Caprice aveva preso cinque.
Neanche i suoi genitori gli avevano detto che aveva speranze di vincere. Lo avevano abbracciato, lo avevano accarezzato, e lo avevano salutato. Gli avevano detto addio, per sempre, poi erano andati a casa a piangere con le tapparelle chiuse e le luci spente.
E lui era andato a morire.
Rudry pensò che faceva ancora in tempo a controllare come moriva: poteva prendere la propria lancia e infilzarsela nel petto. Poteva fare quel che quel Favorito alla Cornucopia non era riuscito a fare. Poteva fare quel che aveva fatto il Ragazzo del Distretto 10.
Ma non sarebbe stato rapido. Una cosa aveva imparato, ai corsi di sopravvivenza: una ferita di lama da taglio può impiegare ore a ucciderti. Ore di agonia e sofferenza. Ore di urla e di implorazioni. Ore di tortura.
Il ragazzo del Distretto 10 era morto in fretta.
Rudry, ormai, poteva solo soffrire.
E quindi continuò a tenere la lancia stretta in mano, ben lontana dal proprio petto.
Sarebbe morto di sete.
Forse gli insetti non significavano veramente che c’era dell’acqua. O forse l’acqua era un corso sotterraneo, a cui non avevano accesso. Forse gli strateghi avevano messo degli insetti ma non dell’acqua, perché nell’Arena vigevano leggi diverse da quelle che governano il mondo naturale.
Sarebbe morto di fame.
Caprice aveva preso uno zainetto con due bottiglie di plastica (vuote) e della carne essiccata.
Sarebbe morto di caldo.
I suoi vestiti neri assorbivano tutti i raggi del sole. Era sicuro di essersi già scottato. Lui, come tutti al Distretto 6 era pallido e poco abituato alla luce del sole. Spendeva la maggior parte del suo tempo all’interno, e lavorava alla catena di montaggio in fabbrica.
Sarebbe morto.
Il pensiero di morire lo disturbava meno di quel che credeva. Forse non aveva ancora del tutto realizzato esattamente cosa gli sarebbe successo.
Lui e Caprice continuarono a camminare. Lui aveva la lancia, Caprice lo zainetto.
Lei camminava leggera e spensierata. Lui, ricurvo, lento, pesante e terrorizzato.
Caprice era sempre un passo più avanti di lui.
Caprice disse: «senti?»
«No» mormorò Rudry.
«Non senti?»
Lui scosse la testa. Lei borbottò qualcosa. Continuarono a camminare.
Poi sentì, in lontananza, il rumore dell’acqua che scorre.
«Lo sento» mormorò.
E tirò un sospiro di sollievo.


«Cos’hai nello zainetto?»
Gadge aveva notato sin dal primo momento lo zaino nero di Newton, ma non aveva detto nulla. Aveva passato la notte a guardare il ragazzino e a non riuscire a dormire. Newton, d’altro canto, sembrava aver dormito senza alcuna preoccupazione — Gadge si disse, per un attimo, che avrebbe potuto rubargli lo zaino e scappare via, lasciarlo lì a dormire —, fidandosi ciecamente di lui.
Gadge aveva provato a dormire ma era riuscito solo a chiudere gli occhi e a pensare alla morte. Il far nulla gli faceva venire in mente il pensiero martellante di essere negli Hunger Games. Il fare qualcosa l’avrebbe ulteriormente disidratato.
«Non ho ancora guardato» rispose Newton. Si era appena svegliato ma sembrava ancora stanco.
«Hai dormito bene?»
Newton annuì.«Tu?»
«Sì» mentì Gadge. «Sorprendente, no?»
Newton si strinse nelle spalle. «Non so» disse, «credo sia normale essere stanchi in una situazione del genere, e finire con il dormire».  Poi prese lo zainetto e lo aprì. «Hai mai letto Robinson Crusoe?» chiese.
Gadge scosse la testa. Non era mai stato uno da grandi letture. Non ammise di non sapere cosa fosse Robinson Crusoe.
«Anche Robinson il giorno in cui naufraga dall’isola dorme bene, come un sasso».
Gadge non disse nulla. Continuò a guardare il ragazzino, che prese a frugare nello zaino.
«Ho dell’acqua».
Newton tirò fuori una bottiglietta di plastica.
«Quanta?»
«Poca».
Gadge sbuffò.
Newton sembrava meno preoccupato di lui. «Sarebbe noioso se morissimo di sete. Quindi sicuramente gli strateghi avranno preparato un modo per farci bere».
Gadge scosse la testa. «Ora che l’hai detto ci faranno crepare entrambi di sete».
Vide Newton impallidire.
Gadge era ancora appoggiato al muro. I suoi sforzi di affillare la pietra erano presto diventati vani. Era stanco, e assetato. Si sentiva la testa leggera.
Poi, Newton tirò fuori un piccolo coltello dallo zaino. Gadge continuava a pensare alla sua scatoletta di carne in scatola, impossibile da aprire. Non sembrava giusto che Newton trovasse acqua e una specie di arma (il coltellino, Gadge lo ammetteva, avrebbe difficilmente fatto danni a qualcuno) e lui una scatola inutile.
Newton mise a terra lo zaino ma tenne fuori la bottiglia piena di acqua. La aprì e ne prese un sorso. Poi la porse a Gadge.
Gadge, che implorava il cielo di portargli dell’acqua da ore, faticò a mandare giù il piccolo sorso che prese. Newton chiuse la bottiglia e la mise via, e Gadge sentì l’istinto di chiedere un altro sorso.
Non possiamo permettercelo, si disse.
Al distretto erano poveri, e a volte mancava il cibo, ma l’acqua la avevano sempre. Aveva sofferto la fame, il freddo, il caldo e la malattia, ma mai la sete.
«Allora non tutti gli zaini erano completamente inutili» mormorò Gadge. «Io ho trovato questa scatoletta impossibile da aprire».
Aprì lo zaino, tirò fuori la scatoletta e la fece vedere a Newton. Newton, che si era seduto su una colonna caduta, la prese in mano.
Gadge pensò che avrebbero potuto usare il coltellino di Newton per aprirla.
Newton la osservò per un attimo e poi decretò: «non è una scatoletta».
Gadge non rispose. La riprese e la rimise nello zaino.
«La corda è una miccia» spiegò Newton. «Credo sia una granata».
Gadge aprì la bocca per rispondere, ma non sapeva cosa dire. Una granata. In uno zaino così lontano dalla Cornucopia?
«Non hai niente per accendere un fuoco?» gli chiese Newton.
Gadge scosse la testa.
«Beh, allora non so come la userai. Ma è una granata».
«Una granata» ripeté Gadge.
«Già».
«Beh, si vede che a Capitol City è piaciuto che quel tipo abbia vinto con una bomba, l’anno scorso».
Newton si strinse nelle spalle.
«Poi, quel tipo» disse Gadge, «viene dal tuo distretto, no?»
Newton annuì. «Ma non è il mio mentore» aggiunse. «La mia mentore si chiama Ivette, ha vinto molti anni fa» disse, «lui fa da mentore alla mia compagna».
«Quindi mi stai dicendo che è un caso che nel Distretto 5 ci siano due appassionati di esplosivi?»
Newton accennò a un sorriso ma scosse la testa. «Non sono un appassionato» disse con fermezza. «Ho prestato attenzione all’addestramento».
«Touché».
Newton sorrise.
Gadge decise di alzarsi. Si sentiva stanco, affamato, ancora assetato ma sapeva di doversi muovere, a un certo punto. Erano ore che se ne stava lì, appoggiato al muro.
Si alzò, inizialmente sentendosi le gambe stanche e pesanti. Vedendolo, Newton si alzò a sua volta. Senza dire nulla al riguardo, ciascuno stringendo i propri zaini, iniziarono entrambi a camminare in direzione ovest.
Dopo che ebbero camminato per un po’, in totale silenzio, Gadge si ritrovò a dire: «senti, Newton?»
«Sì?»
«Quel Robin-come-si-chiama...»
«Robinson Crusoe».
«Sì, lui».
«Alla fine, come finisce il libro?»
«Perché?»
Gadge si strinse nelle spalle. «Così, per sapere» disse.
«Beh, alla fine… torna a casa».

 

Nota: Ero indeciso se includere o meno Robinson Crusoe in questo capitolo perché non so esattamente quanto della cultura passata sia rimasto a Panem, e in particolare nei distretti. Sappiamo, per esempio che è rimasta una certa influenza dalla cultura romana, ma da quel che ricordo Katniss non dice molto riguardo alla letteratura. Immagino che nei distretti, in particolare in quelli poveri, sia un hobby poco diffuso; ma pensandoci non mi sembrava assurdo che certi classici della letteratura siano rimasti anche a Panem, e quindi ho deciso di mantenere la citazione a Robinson Crusoe. 
 

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Capitolo 4
*** CAPITOLO TERZO ▪ Piper vinceva tutte le gare di corsa del Distretto 11 ***


 
▪ CAPITOLO TERZO▪
Piper vinceva tutte le gare di corsa del Distretto 11

 

Piper vinceva tutte le gare di corsa del Distretto 11.
Piper aveva quindici anni, ma le gambe lunghe e il corpo allenato.
Piper sapeva di essere in svantaggio. Piper sapeva che, da lei, nessuno si aspettava molto. 
Ma Piper era determinata. Piper aveva guardato tutti gli altri Tributi con attenzione e aveva concluso che nessuno di loro aveva meno paura di lei. Non quel belloccio del Distretto 2, non il ragazzo gigantesco del Distretto 3 e sicuramente non la bambina del Distretto 8.
Piper sapeva che i Tributi del Distretto 11 vincevano di rado. Ma Seeder era riuscita a vincere. Poteva vincere anche lei.
Quando suonò il gong, Piper corse via. Seeder le aveva detto di scappare e nascondersi.
Piper aveva quindici anni, ma le gambe lunghe e il corpo allenato.
Altri Tributi, più vecchi e grandi di lei erano anche più lenti.
Piper, quando correva, si sentiva libera.
Si sentiva il vento tra i capelli e sotto ai piedi, si sentiva le gambe stanche e doloranti ma la testa libera da ogni cattivo pensiero, si sentiva il fiato che le mancava ma nonostante tutto, ogni volta, riusciva ad andare avanti. E avanti. E avanti. 
Senza mai voltarsi indietro, Piper correva. Correva e correva e correva. Piper correva e raggiungeva sempre il traguardo. 
Quando suonò il gong, Piper corse via.
Corse via e continuò a correre e correre e correre. Si prefiggeva un traguardo, lo raggiungeva e se ne prefiggeva un altro.
Corse finché non fu notte e non suonò l’inno. E poi corse di nuovo finché non fu mattina.
Allora, Piper decise di riposarsi.
Aveva preso un sentiero roccioso dove le rovine si facevano più rade. Qua e là vedeva sbucare qualche grotta, posti in cui nascondersi. 
Piper trovò una grotta per sé, era piccola e stretta ma difficile da vedere. Ci si rannicchiò dentro e si addormentò.
Ogni giorno, al Distretto 11, Piper doveva svegliarsi presto. Doveva andare a scuola, o doveva lavorare, o doveva fare qualcos altro. La pigrizia non era contemplata ed era punita duramente.
Quel giorno, Piper dormì come non dormiva da quando era una bambina. Si svegliò solamente quando suonò l’inno nazionale, a indicare che era passato un secondo giorno. 
Nessun morto.
Dopo, Piper tornò nella propria grotta, a dormire. Pensò che muoversi di notte aveva poco senso. Nella sua grotta era ben nascosta, e il giorno dopo avrebbe trovato da bere e da mangiare.
Aveva sete, sì. Ma non c’era traccia di acqua. Dormendo soffriva meno la sete.
Nella propria grotta stava bene, si sentiva avvolta come da un abbraccio.
La pietra era dura, sì, ed era fredda, ma non le dispiaceva. Riusciva quasi a dimenticarsi di essere nell’Arena, lì. Stava rannicchiata nella sua grotta come, a casa, si rannicchiava sul davanzale della finestra durante le sere d’inverno. 
Piper si addormentò con questi pensieri e si svegliò con le risate e le chiacchierate dei Tributi che stavano passando. 
Si svegliò e improvvisamente ogni speranza di dimenticare l’arena, di tornare a pensare al Distretto 11 — così sporco, povero, crudele ma pur sempre casa — diventò vana. 
«Siete proprio sicuri di aver visto tanti venire di qua? Perché a me non sembra di ved—»
«Mi stai dando del bugiardo?»
«Non c’è bisogno di litigare, ragazzi...»
Piper sapeva che un gruppo di Tributi così numeroso poteva essere solo quello dei Favoriti, macchine da guerra allenatesi tutta la vita per andare in televisione ad uccidere altri ragazzi innocenti.
Piper era forte, nella corsa. Vinceva sempre, nella corsa. Aveva solo quindici anni ma le gambe lunghe e il corpo allenato.
Piper sapeva di avere poca scelta. Poteva starsene lì, ferma e zitta, e sperare che i Favoriti non la notassero, o poteva scattare fuori e sperare di riuscire a scappare. In entrambi i casi, le probabilità non giocavano a suo favore. 
Sentiva i passi che si avvicinavano.
«Forse l’arena è troppo grande…»
«Ce ne sono state di più grandi».
«Dico solo che con un’arena così grande è ovvio non trovare tanti Tributi».
«Non è particolarmente grande».
Piper decise di stare ferma. Non l’avrebbero vista, si disse. Aveva cercato di mascherare un po’ l’entrata della grotta. I Favoriti erano brutali, ma non sempre attenti. Non l’avrebbero vista. Non l’avrebbero vista. Non l’avrebbero vista.
Continuavano ad avvicinarsi. 
Piper decise di stare ferma perché, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto muoversi. La paura la terrorizzava. Il cuore le batteva troppo forte (ti prego, fa che non si senta), il respiro le mancava. 
Non l’avrebbero vista, si disse.
Non l’avrebbero vista.
«Controlliamo qua».
Stavano parlando della sua grotta.
L’avrebbero vista.
Piper sapeva di non poter battere da sola tutti Favoriti, o anche solo uno di essi. Era disarmata. Era affamata. Era disidratata. 
Piper scattò fuori dalla grotta e loro la notarono immediatamente. Poi, Piper iniziò a scappare.
Era veloce, Piper. La più veloce. Ma anche la più veloce tra le vittime non è veloce abbastanza da scappare dai predatori. E così, appena ebbe iniziato a correre, una freccia le colpì la spalla. 
Piper, per l’adrenalina, quasi non sentì dolore. Continuò a correre, e una freccia le colpì la gamba. Sentiva che il sangue le sgorgava dalle ferite e non riusciva più a muoversi bene.
Quando sei ferita, essere la più veloce del Distretto non serve a niente.
Il dolore iniziò a colpirla in quel momento, quando, rendendosi che non sarebbe più potuta scappare, cadde a terra. Dalle ferite sgorgava sangue, dagli occhi lacrime. Vi prego no, pensava, non voglio morire.
Il Distretto 11 era grigio, buio, triste, affamato, e casa sua. Al Distretto 11 l’aspettava suo fratello Heath. Al Distretto 11… 
Piper sentì qualcuno spostarle rudemente il corpo. Non sono ancora morta, pensò. Vi prego non voglio morire.
La ragazza del Distretto 2 tirò fuori un coltellaccio, il più grande che Piper avesse mai visto. 
«Non piangere» disse la ragazza con il coltello. Sembrava quasi dolce. 
Poi le ficcò il coltello nel cuore una, due, tre volte. 


Domitia vide la ragazza spegnersi dopo la seconda pugnalata. La terza la inflisse per sicurezza.
«Buon lavoro» le disse Hadrian, dandole una pacca sulla spalla. «Non credo avesse nulla, no?»
Jacinth guardò nella grotta da cui era sbucata e poi scosse la testa.
«Non abbiamo bisogno di nulla» borbottò Domitia.
Abbandonarono il cadavere della ragazza là dove l’avevano trovata e si misero presto di nuovo in cammino. Se sono tutti nascosti in queste grotte, si disse Domitia, non li troveremo mai. Nonostante ciò, continuò a camminare senza dire nulla.
Gli sponsor non avevano ancora mandato nulla a nessuno — era presto, non avevano bisogno di nulla — ma Domitia voleva essere certa che, quando avrebbero iniziato ad arrivare, sarebbero stati indirizzati a lei. Iniziare a lamentarsi non le sembrava la strategia adeguata.
Quindi continuò a camminare.
Domitia aveva visto spesso persone morire, in televisione. Aveva deciso che avrebbe partecipato agli Hunger Games quando aveva dodici anni: voleva che la sua famiglia potesse permettersi di mangiare ogni giorno il dessert e che tutti nel Distretto l’amassero. La morte era stata una presenza fissa, nella sua vita, e sapeva che per raggiungere i propri obiettivi avrebbe dovuto uccidere.
Eppure, non riusciva a non pensare a quella ragazzina, che piangeva e singhiozzava e si disperava, e a lei che, crudelmente, meccanicamente, senza motivo, la uccideva. Quando aveva ucciso quell’altra ragazza nel bagno di sangue, non si era sentita così, forse perché non l’aveva neanche vista in faccia. 
In quel momento, si sentiva di aver sbagliato. 
Non aveva reale motivo di partecipare agli Hunger Games, e ora il cuore le batteva forte, le mani le tremavano, aveva voglia di piangere e pensava solo a quella ragazzina tremante. Avrebbe potuto restare a casa e trascorrere una vita normale. 
Non sarebbe morta. Di quello era certa, aveva moltissime speranze di sopravvivere. 
Eppure riusciva a pensare solo a quella ragazzina, quella ragazzina senza speranze che comunque continuava a correre e lei che la inseguiva.
E le mani le tremavano.


«Tutto okay?»
Rudry annuì. Non stava mentendo: si sentiva davvero okay. Avevano trovato dell’acqua e non c’era nessuno visibile in lontananza. Sapeva di non avere speranza di vincere, ma sentiva una certa tranquillità. Era lì, con Caprice. Avevano l’acqua. Era tutto okay.
«Sei sicuro che si possa bere l’acqua così?»
«Così come?»
«Dico… senza purificarla, o niente del genere?»
Rudry si strinse nelle spalle. «Ormai l’abbiamo bevuta, no?»
Caprice gli sorrise. «Già» mormorò. «Speriamo di non morire».
«Speriamo di no».
Caprice andò a sedersi di fianco a lui. L’arena era quasi bella. Anzi, lo era. Per due ragazzi cresciuti tra le fabbriche del Distretto 6, tutta quella natura anche se finta… era bellissima. Rudry pensò che se doveva proprio morire da qualche parte, tanto valeva che fosse lì.
«Sai, Rudry...»
«Sì?»
«Stavo pensando che se non fosse per gli Hunger Games, non saremmo mai stati veramente amici».
«Sì».
Prima della Mietituta, Rudry conosceva Caprice solo di vista. Lei era di un anno più piccola e viveva dall’altra parte del Distretto, quindi avevano poche ragioni per conoscersi. 
«C’è un lato positivo in tutto» mormorò. 
Vide che Caprice stava per rispondergli. Poi, sentì che qualunque cosa stesse per dirgli si trasformò in un urlo.
Solo in quel momento vide l’enorme serpente che stava strisciando fuori dal fiume.


Nota: Scusate l'immenso ritardo nel pubblicare questo capitolo. Sono stato molto impegnato.
 

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Capitolo 5
*** CAPITOLO QUARTO ▪ Caprice ***


 
▪ CAPITOLO QUARTO ▪
Caprice
Nel Distretto 6 c’erano pochi tipi di animali. Perlopiù, c’erano molti insetti. Qualche volta si vedeva una lucertola. Un paio di persone avevano gatti o cani domestici.
Il serpente era l’animale più grosso che Rudry avesse mai visto. Era nero, viscido e procedeva verso di loro strisciando lentamente. 
A un certo punto Caprice aveva smesso di urlare. Rudry non era certo di non aver urlato anche lui. Non sentiva di riuscire a dire o fare nulla. Di fianco a lui, Caprice sembrava paralizzata.
Il serpente continuava ad avanzare.
Rudry non era certo che esistessero davvero serpenti così grandi in natura. Aveva visto dei serpenti in fotografia e gli sembravano tutti più piccoli. Se non più corti, perlomeno meno larghi. Meno scuri, con occhi meno gialli. 
Il serpente continuava ad avanzare.
A quel punto, Caprice sembrò sbloccarsi. Dei due, lei era quella che tendeva ad avere le idee migliori. Rudry non era un capitano, preferiva adeguarsi e seguire gli altri. «Non è molto veloce» mormorò Caprice. «Dobbiamo correre via e non ci prenderà».
Il serpente continuava ad avanzare.
Rudry si ritrovò istintivamente a indietreggiare lentamente. Aveva ancora la lancia in mano, nella mano destra. In tre giorni di allenamento, era riuscito a dedicare un paio di ore al combattimento con scarsi risultati. «Sì» sussurrò, «sì, gli strateghi vogliono solo farci andare via dall’acqua».
Il serpente continuava ad avanzare.
Rudry e Caprice continuarono ad indietreggiare, lenti. «Okay», disse Caprice. «Okay, al mio tre corriamo».
Rudry annuì.
Il serpente era sempre più vicino. 
«Uno...»
Rudry non aveva mai sentito il proprio cuore battere così forte.
«Due...»
Il suo respiro era accelerato. Non era sicuro di potersi muovere.
«Tre! Andiamo!»
E così, scattarono entrambi. 
Correre con una lancia era meno pratico di quanto potesse immaginarsi. Era comunque più veloce di Caprice, ma non voleva rallentare.
Passò forse un secondo, forse di meno, forse di più, poi sentirono il rumore frusciante dietro di loro. Uno scatto rapido. Il serpente gli era di nuovo dietro.
Oh no, fu l’unica cosa che riuscì a pensare Rudry. Oh no, non è veramente lento.
Sapeva che Caprice aveva avuto quella stessa realizzazione. Sapeva anche che gli strateghi potevano controllare i movimenti dei loro animali meccanici, un fatto a cui nessuno dei due aveva pensato.
Il serpente era lento apposta.
Continuò a correre. Il terreno era sabbioso e sporco. Era leggermente scivoloso. Non cadere, non cadere, non cadere, non cadere.
Sentiva che Caprice era leggermente dietro di lui. Sentiva il suo respiro affannato.
E ancora dietro, sentiva il movimento strisciante del serpente, o forse se lo stava solo immaginando. I serpenti fanno rumore? Forse, si disse, forse stavano correndo per nulla. Forse si erano davvero lasciati il serpente dietro presso il fiume. 
Poi sentì il rumore strisciante un’altra volta. L’esclamazione di sorpresa di Caprice. L’esclamazione di dolore di Caprice.
Ci mise un attimo a capire. 
Si voltò per trovare il serpente che iniziava ad avvolgersi intorno alla sua compagna a terra. No, no, no, no, no, no. 
Nuovamente, fu immobile.
Incrociò lo sguardo di Caprice, ma gli parve che lei non riuscisse a vederlo, non veramente. 
Rudry sapeva che quella era la sua occasione. Poteva scappare, non voltarsi indietro e sopravvivere un’altra notte. Morire il giorno dopo o quello dopo ancora.
Aveva la lancia stretta in mano.
Caprice mugolava di dolore. Era un rumore insopportabile, stridulo. E il serpente… se non fosse stato un serpente, Rudry avrebbe detto che stava ghignando. 
Poteva correre, sopravvivere.
Decise di attaccare.
L’animale era completamente avvolto intorno a Caprice. Colpirlo avrebbe quasi certamente ferito la ragazza più dell’animale. Rudry afferrò la coda del serpente.
(Mio Dio, cosa sto facendo?)
Era più pesante di quanto si aspettasse. Viscido. Si sforzò di tenerlo stretto e provo a srotolarlo.
(Ti prego, ti prego, funziona).
Appoggiò la lancia a terra per usare entrambe le mani. Cominciò a srotolare. Si ritrovò a pensare che il serpente stringeva meno forte di quanto immaginasse. Il serpente, forse rendendosi conto di quello che stava succedendo, morse Caprice sul collo.
Più srotolava, più Rudry iniziava a pensare che il serpente fosse infinito. E anche se non aveva una stretta molto forte non sembrava comunque che ci fosse modo di fargli staccare i denti da Caprice. 
A un certo punto, Rudry si ritrovò con il serpente quasi completamente tra le braccia. Riusciva a vedere chiaramente i lividi e le ferite che aveva lasciato sul corpo di Caprice. E il morso ancora forte sul suo collo.
«No, no, non può finire così» mormorò. Non sapeva se Caprice fosse viva o morta.
Non può essere morta, si disse. Non è suonato il cannone.
Rudry lasciò il serpente.
Con sua sorpresa, non ricominciò immediatamente ad arrotolarsi sulla sua vittima. 
Rudry afferrò la lancia.
La tenne stretta, con la mano vicino alla punta. Con l’altra mano, cercò di prendere il collo del serpente e tenerlo fermo. Quello si muoveva con convulsioni e scatti. 
Un respiro profondo.
Poi tentò di perforarlo.
Pugnalare qualcuno sembra molto più facile di quello che non è in realtà. Rudry non riuscì al primo colpo a perforare la pelle del serpente. Neanche al secondo. Al terzo sembrò fare qualche danno.
Al quarto colpo, la sua mano tremò e finì quasi per colpire Caprice. No, no, no, non può andare così.
Un altro respiro profondo.
Al quinto colpo, riuscì a perforare il collo del serpente. Poi, estrasse la lancia dalla ferita. Gli arrivò del sangue gelido in faccia. 
Un altro colpo, nello stesso punto. E di nuovo, e di nuovo, e di nuovo.
A un certo punto, fu soddisfatto della morte del serpente.
«Caprice?»
Nessuna risposta.
«Caprice, ti prego, non morire...»
Rudry non era mai stato uno che piangeva tanto ma in quel momento non riusciva a fermare le lacrime. «Caprice...» mormorò di nuovo. Lei non rispose ma Rudry notò che stava ancora respirando con difficoltà. 
Okay, si disse. Okay. Cercò di sollevarla. Quando le toccò il braccio, lei emise un gemito di dolore.
«Scusa» sussurrò. «Ma dobbiamo andarcene».
Caprice scosse la testa con un movimento quasi impercettibile.
«Non possiamo stare qua e basta».
«No...» mormorò Caprice prima di un colpo di tosse. «No… fa male...»
«Lo so, ma...»
«Fa male...»
Ogni parola sembrava costarle fatica e dolore. 
«Voglio tornare a casa, Rudry...»
«Appunto per questo dobbiamo andarcene ora».
Di nuovo, Caprice scosse la testa. «Voglio tornare a casa».
«Forza, vieni, dai» disse Rudry. Cercò di avere un tono incoraggiante, ma riuscì a malapena a trovare la voce per parlare. «Poi… poi possiamo andare a casa. Dai». 
Cercò di sollevarla perché rimanesse in piedi. Poi l’avrebbe aiutata lui a camminare. Poteva funzionare, si disse.
Ma lei resistette.
«Non riesco a muovermi».
«Okay… okay, ti porto io, tu tieni la lancia».
«No, Rudry...»
In quel momento, anche Caprice iniziò a piangere. Rudry riuscì solo a pensare che dovevano sembrare uno spettacolo patetico alla gente di tutta Panem. Lei che piangeva a dirotto e lui che piangeva ancora di più. Rudry pensò di dirle qualcosa, qualcosa di incoraggiante. Un discorso infervorante che l’avrebbe riportata in sesto.
Provò ad aprire bocca per parlare ma si sentiva la gola bloccata. Aveva ancora una stretta allo stomaco da quando aveva visto il serpente per la prima volta e si sentiva stranamente consapevole di ogni suo respiro. Non riusciva a parlare.
«Rudry, non… non andartene...»
«No...»
Poi rimasero entrambi in silenzio. Un silenzio relativo, riempito dal suono di un occasionale singhiozzo o dal rumore di uno dei due che tirava su con il naso. Rudry era inginocchiato di fianco a Clarisse sdraiata. Le accarezzava i capelli e non sapeva se fosse per calmare lei o se stesso. 
Caprice chiuse gli occhi.
«Ciao, Rudry» sussurrò. 
Poi si spense.
Rudry rimase lì, accanto a lei per un po’. Sapeva che avrebbe dovuto provare tristezza o rabbia o frustrazione. Avrebbe dovuto reagire in un qualche modo. Eppure dentro a lui sentiva solo un vuoto. Un attimo prima, Caprice era vita. Un attimo dopo era morta.
Forse, se Rudry avesse provato ad attaccare il serpente immediatamente, non sarebbe successo nulla. Forse, se Rudry fosse intervenito prima, l’avrebbe salvata. 
In cuor suo aveva sempre saputo che almeno uno di loro due sarebbe dovuto morire, e probabilmente sarebbero stati entrambi. Ma aveva sempre immaginato che lui sarebbe morto per primo. Lei ricordava tutto quello che aveva imparato all’addestramento, era più abile in quasi tutto. L’unica cosa in cui Rudry era migliore era la corsa.
Ciao, Caprice, pensò. Non disse nulla. Smise di accarezzarle i capelli, prese le proprie e cose e quelle della compagna e se ne andò.
Ormai non riusciva neanche più a piangere.
 
 

Nota: Non credo ci sia niente da specificare. Il capitolo è abbastanza breve (non che gli altri siano lunghi) ma mi sembrava che fosse più appropriato racchiudere solo gli eventi narrati piuttosto che aggiungere gli altri punti di vista. 

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