Note: il titolo della storia si legge con una 'r' leggera,
alla giapponese, come nella parola 'volare'. Ma di sicuro si
dedurrà già alla fine di questa prima parte.
Autore: ellephedre
Disclaimer:
i
personaggi di
Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di
proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.
Roseto.
Soffiava il nome tra le labbra quando il sonno la abbandonava
e la sua
stanza si apriva al giardino, il trono di fiori ad attenderla per un
primo saluto.
Rosa di Terra e bais di Ichìan, truus di Contues e
flèon di Mriaase. I suoi preferiti. Indossava i colori del
roseto terrestre - verde intenso e rosso vivo - quando si sentiva come
una ragazza, il suo corpo un fusto di rami che ancora non aveva messo
radici, pronto a cercare gioia nel terreno più adatto.
Era come le rose terrestri: ritrosa a svelarsi, bella solo
quando
curata, da ammirare in segreto.
La Serenity dei momenti successivi al riposo era una donna
sola, in
pace con se stessa. Reclinava il capo sul letto di pensiero, godendosi
il vento che richiamava su se stessa, la brezza che si insinuava sotto
la veste accarezzandole il corpo.
Sorrideva, Serenity.
Vivevano con lei le rose che aveva fatto crescere tra lunghi
sforzi,
senza infondere loro potere: aveva rispettato la loro ferrea
volontà di esistere con regole che lei non poteva
distorcere. Permetteva loro di morire quando lo desideravano, e creava
un nuovo rapporto d'amore coi figli dei loro figli, boccioli che
nascevano, fiorivano e appassivano nel tempo di un soffio. Effimeri.
Aveva concesso il favore della morte a ogni fiore
alieno
che
risiedeva nel suo giardino, ma le rose erano speciali.
Il giallo sfrontato dei baisis la faceva ridere. Il blu
intenso dei
truusn la incantava. I flèonas la confondevano, fiori
bianchi che avevano scelto di privarsi del colore. Erano immacolati,
candidi, privi di esperienza. Li ammirava.
Ma le rose erano sempre state con lei, sin dal principio di
tutto. Un
dono
di suo padre, per insegnarle la caparbietà. Non
tutto può andare come vuoi tu. Le rose
sgargianti l'avevano vista crescere e cambiare. Davanti a loro, con
loro, era diventata una regina. Le rose, rose mie,
l'avevano osservata nel riposo mentre i periodi si susseguivano l'un
l'altro senza cambiamenti. L'avevano accompagnata discrete,
compagne tenaci, guardandola da fuori la sua stanza.
Non raccontava loro che era una sovrana amata. Lo sapevano.
Mentre
tagliava i loro rami, le mani sporche di terra, una volta aveva
sussurrato, 'Sono terminata'.
Si sentiva un fiore appassito quando apriva gli occhi e
ricordava che
l'attendevano momenti già vissuti, una vita sperimentata per
intero che si sarebbe ripetuta identica nel tempo, immutata.
Sono una regina vuota. Se la mia Luna sapesse?
Impossibile, pertanto lo nascondeva a chiunque. Presentandosi
oltre la
porta delle sue stanze, diveniva sua maestà eterna, ragione
e cuore, anima della Luna.
I suoi sudditi la amavano.
E io, pensava lei, vi
donerò
una principessa quando sarà arrivato il mio tempo. La
crescerò lontano da me, così che lei
conosca la gioia e creda nella follia dell'amore. Sarà una
regina che adorerete, una Luna di luce. Per morire
io andrò lontano da qui, col mio roseto.
Mi sdraierò ove il nostro Elios non giunge e mi
addormenterò in eterno felice, sul suolo della Luna che fui.
Aveva perso la ragione, si redarguiva poi, ancora immersa in
quel fiume
di pensieri. Si alzava, allontanandosi da tutto; rose, baisis, truusn,
vegetali
senza voce. Correva dai suoi sudditi a comportarsi da persona vera, a
udire risposte, a tentare di ascoltare parole e assorbire pensieri.
Quando il sonno la vinceva, nella solitudine agognata della sua camera,
si chiedeva perché non l'avesse già fatto.
Perché non si era già lasciata andare al cammino
del termine? Una nuova e giovane Serenity le avrebbe permesso di
andare, l'avrebbe sostituita in breve tempo.
Sarebbe stata la sua sconfitta.
Madre, padre. Mi mancate.
Non le avevano donato alcun fratello. Poteva essere il motivo
della sua
pazzia?
Sorrideva tra sé. L'universo era in disordine. Lei
e le
altre sovrane lo percepivano intensamente, lo temevano. Il bagliore del
caos si era infiltrato tra loro in forme semplici, eventi casuali
sparsi nelle ere.
Una Venere che si spegnava un periodo prima del tempo
stabilito. La
linea di
Plutone che tagliava ogni legame col mondo esterno. La ribellione su
Giove. La stirpe di Marte che entrava in lotta con se stessa. La Terra
che si annullava per propria volontà. Mercurio, Urano e
altri non avevano ancora dato segni di squilibrio o,
come accadeva a lei, li tenevano celati.
Nessuno ne aveva sentore, ma la Luna aveva una Regina che
desiderava
perire. Quale offesa maggiore per l'ordine del cosmo?
Serenity attendeva e osservava.
Provava piacere nel guardare le vite altrui, storie che si
compivano
serenamente. Non le invidiava, lasciava che le strappassero un sorriso
prima di addormentarsi, quando ormai era troppo stanca per pensare.
Cambiò tutto con la comparsa di una mano.
Una mano, tre dita nel suo amato roseto che lo afferrarono
ferendosi,
le spine che affondavano nella carne estranea fino a fiorire di sangue.
Serenity si levò dal suo giaciglio, volò
verso i
giardini. Il comando di una punizione si spense sulle sue labbra. Tra
il roseto e il baisien giaceva sul suolo duro un uomo con le vesti
lacerate, il volto deformato da una smorfia. Il dolore gli
strappò un grido rauco di sofferenza.
Chi sei?, gli ordinò lei.
La risposta la colpì alle gambe, un calcio contro
stinchi
che non avevano mai conosciuto colpo estraneo. Sgomenta, non
reagì.
"Àisanee riòndas."
Il ringhio da bestia le impose di mostrare la propria potenza.
Minacciò l'uomo con un'aura di forza, ma lui
gridò, trafitto.
"Àisanee riòndaas!"
L'estraneo
si strinse lo stomaco grondante di sangue, lacerato su un lato.
Lei gli impose immobilità e lui tornò a
urlare.
"Àisa Àisa Àisa..."
Parole biascicate che seppero di minaccia.
Inconcepibile.
Serenity esercitò l'autorità della
propria gola.
"Parli con
una sovrana, straniero."
Lui sputò a terra, striando di sangue marcio la
durezza del
marmo. "Riòndas!"
Lei decretò la propria pazienza esaurita.
Colpì
l'aria con una manata secca, trasferendo il colpo sulla nuca dell'uomo.
Lui perse i sensi.
Alieno.
Mantenne rigida la dimensione dei giardini prima di
portare
l'estraneo all'interno delle proprie stanze. Lui era entrato tramite un
varco spaziale di cui non si avvertiva più traccia.
Pericolo.
Come era riuscito quell'uomo ferito e privo di potere a fare
breccia
nell'area spaziale della Luna, nelle sue stanze? In
quale mondo esistevano ancora esseri umani nella cui essenza non
scorreva forza?
Ebbe le sue prime risposte quando iniziò a sanare
le ferite
di
lui: caparbie, quelle rifiutarono la guarigione. Potenti a loro modo,
le lacerazioni si opposero a tutto il suo potere e a qualunque
tentativo
di manipolazione di elementi umani e carne. Il sangue defluiva copioso
sulle lenzuola d'argento.
La rosa è morta, papà!
Attonita, si gettò sull'uomo e premette
con le mani
sulle ferite, strappandogli un lamento privo di coscienza.
Il potere non funzionava.
Infilò la mano dentro il corpo viscido di sangue e
caldo di
morte, trattenendo un conato. L'odore era nauseabondo.
E il suo potere non funzionava.
Non esisteva in tutto il loro sistema stellare un essere
più
potente di una Serenity.
Nell'universo non esiste una forza maggiore di
Serenity, noi
saremo...!
Farneticazioni che non avevano utilità. Fece
apparire
tra le mani pasta di chròs, gioco di un'infanzia
dimenticata. La modellò sui vasi di sangue di lui; le sue
dita scivolavano, il sangue non si fermava. Riuscì a
tamponare la lacerazione interna, le mani immerse in un corpo estraneo
che non pareva umano: fluidi, lezzo, consistenza di carne che non
conteneva in sé alcun potere. Dov'era un uomo in
tutto ciò?
Pulì la mano sulla mascella ruvida di lui, grumi di
porpora
brillante che coprirono peli biondi e corti, rigidi e fuori posto.
Alieno, un essere umano antico e superato.
Con la pasta di chròs terminò di
rammendare il
taglio netto sullo stomaco dell'estraneo. Come bende usò le
lenzuola
argentate che aveva confezionato con le sue stesse mani. Rovinate per
sempre.
Si tirò indietro e poté tornare in
piedi,
l'emergenza svanita.
Guardò le proprie vesti chiazzate, i capelli chiari
incrostati di sangue, il proprio volto in un riflesso.
Era sorpresa, colta alla sprovvista, disgustata.
Si sentì viva.
Si svegliò con occhi immobili, fissi su uno sguardo
d'odio.
Bulbi oculari rosati, rovinati, e iridi della tinta del cielo
spaziale,
laddove esso era immenso e privo di vita.
Le palpebre dell'uomo tremavano, egli sudava dalla fronte.
Aveva
ugualmente la forza di detestarla. "Riòndas"
sussurrò sprezzante, una
sfida che la invitò a cogliere.
Serenity si levò in piedi, attese un momento. Il
suo corpo
smaltì lentamente i ricordi del sonno.
"Straniero."
Tentando di ignorarla, lui si sdraiò sulla schiena
e
deglutì il dolore. La osservò e non disse nulla,
provò a stare fermo senza riuscirvi. Era scosso da brividi,
una caricatura di forza.
Infezione.
Per controllare, Serenity ordinò alle bende di
tagliarsi.
L'urlo rauco dell'uomo si trasformò in un attacco.
Saltò fuori dal letto, verso di lei. Cadde prima
di raggiungerla, toccando il suolo con un tonfo, il suo corpo
un peso morto. Il dolore lo privò dei sensi.
Serenity lo compatì per la sua miseria. Per il suo
ardore,
lo invidiò.
Il regno ebbe presto notizia delle nuove intenzioni
della
sovrana: una pausa, di
pace. Ella non desiderava essere disturbata.
La Luna affrontava la sua prima crisi da ere. Un uomo privo di
potere,
giunto da dimensioni e pianeti sconosciuti, penetrato nel mondo che
doveva essere la culla della rinascita. Serenity non commise l'errore
di sottovalutare la situazione, rimase a fianco del nemico. Lunaria
dopo lunaria, lo studiò.
Nel delirio della febbre osservò le urla
di lui, le
sue grida,
sempre le stesse parole. I tentativi di ribellione non avevano fine,
egli non desiderava costrizioni, era pronto a rischiare la morte pur di
opporsi.
Per sanare i suoi danni fisici, lei era tenuta ad aprire le
ferite e a
cambiare la pasta di chròs che impediva alla carne di
sfaldarsi. Tentare di unire le ossa testarde della mascella dello
straniero si era rivelato inutile: egli urlava e si agitava fino a
perdere conoscenza. Sovente era lui stesso a cercare l'oblio,
premendosi le mani nella lacerazione.
Nella sua folle determinazione, era caparbio e metodico:
odiava il
potere, lo disprezzava con tutto il suo essere. Ne percepiva l'alone,
ne aveva il sentore, e si dimenava per passare all'attacco, le labbra
morse fino a schizzare
sangue.
Come ne sei capace?
Serenity aveva smesso di porgli la domanda mentale. Serviva
solamente a
distruggere i pochi momenti di apparente tranquillità.
L'odio, aveva concluso tra sé. L'odio per il potere
permetteva all'uomo di respingere anche la potenza più
grande. Nel suo essere inerme, egli era forte in una maniera che le
risultava ignota, inquietante.
Quale pericolo saresti per la mia gente, se fossi
accompagnato
da tuoi simili?
"Riòndaas!"
Egli era monotono nelle sue proteste, deciso come se stesse
comunicando
lo
scopo della propria vita in una singola parola. La urlava per opporsi
alla sua forza ogni volta che lei tentava un tocco lenitivo di energia.
Per non sentirlo più gridare, Serenity gli
coprìva la bocca con le lenzuola.
Veglia e sonno si ripeterono per entrambi in una sequenza
priva di
ordine, di nuovo e ancora.
Infine, mentre lui dormiva, lei decise di sollevare una
sua
palpebra.
Rosso e giallo erano colori svaniti in quell'occhio alieno.
Bulbo oculare bianco, iride blu, pupilla nera. Occhio in
salute.
Forse sopravviverai.
La prima parola che tentò di fargli comprendere fu
basilare,
semplice.
"Acqua."
Lo invitò a bere da un recipiente creato
appositamente per
lui: con la gola secca e le labbra screpolate, l'uomo si era
già rifiutato di bere dall'aria. Era fiero, nella sua
stupidità.
"Acqua" gli ripeté lei una seconda volta, quando di
nuovo lo
fece bere. E "acqua" fu ciò che disse lui in
seguito, quando
iniziò a rivolgersi a lei come ad un altro essere umano.
Dopo la prima comunicazione vi fu un lungo silenzio, un
periodo di
studio.
La febbre svanita, l'uomo osservava le pareti della stanza,
gli occhi
vacui. Sveglio, contemplava immobile il nulla.
Durante le prime lunarie la guardò poche volte,
senza
interesse. Lei non era importante per lui ed egli, concluse Serenity,
pareva innocuo.
Ma se ti rivelerai una
minaccia per il
mio popolo, ti ucciderò.
Coesistevano come due rose in un roseto, ognuno preoccupato di
esistere
senza accorgersi dell'altro.
La voce dello straniero la colse di sorpresa quando si fece
viva fuori
da urla, in un intero discorso.
"Ista ra mèias."
Voltandosi, Serenity lo trovò come morto, le
braccia
distese
lungo il
corpo, le palpebre socchiuse. Non guardava lei. Le sue parole erano
state un soffio di vento, leggere nel silenzio.
"Oidèsen mer... fìndare so."
Era una preghiera. Un'invocazione, un sussurro che chiedeva di
essere
ascoltato da una presenza invisibile. Egli si rivolgeva alle pareti
trasparenti, al cielo. Anelava la volta oscura dello spazio.
"Riòndas màighe." Il suo tono si
spezzò, riprese ad una nuova cadenza. "Àirami.
Àirami, àven."
Spezzato.
La conversazione proseguì lenta e dolorosa. Lei non
esisteva
in quella stanza.
Quando le parole smisero di defluirgli dalle labbra, l'uomo si
addormentò.
"Serenity" gli disse lei due risvegli dopo, certa di avergli
concesso
tempo a sufficienza per una ripresa adeguata. "Serenity"
ripeté, premendo due volte la mano
sul petto, il gesto che con cui aveva già
accompagnato il
proprio nome. Indicò lo straniero con grazia di sovrana, la
risposta un
ordine che non poteva essere disatteso.
Egli non si curò dei tempi imposti, la
studiò
come se fosse un'incombenza che lo affliggeva. "Reny" disse infine.
Annuì.
"Reny?" domandò lei, insistendo con la mano nella
sua
direzione.
Contrariato, egli la indicò con la testa, deciso.
"Reny."
Voltò il capo verso la luce, lontano da lei. Si
addormentò su quelle parole, vinto dalla stanchezza.
Aveva storpiato il suo nome, comprese Serenity. Di proposito,
ne fu
sicura.
Il silenzio proseguì senza sosta, ulteriori
tentativi di
contatto rimandati a tempi di maggiore sopportazione. Infine, come la
Terra che sorge all'orizzonte senza preavviso alcuno,
l'uomo focalizzò lo sguardo su di lei, le pupille che
diventavano scure con intento.
Serenity lavorava nel roseto, fuori dalla stanza, le pareti
aperte per
lasciar entrare suoni e aria.
"Reny."
Colta di sorpresa, meditò di mantenere il
silenzio.
"Serenity" lo corresse ugualmente, pulendosi le mani dalla terra.
"Reny" insistette lui, un cuscino dietro le spalle, seduto sul
letto
creato per ospitarlo.
"Serenity."
"Reny." Alla decisione finale
egli accompagnò
l'ombra di
un'espressione che Serenity faticò a riconoscere: bocca
piegata all'insù, appena. Un sorriso, nascosto in una nuvola
dura e gialla di peluria che non cessava di crescere.
Lei accarezzò un fiore tra le dita. "Rosa." Ne
tagliò il gambo, la lanciò sul letto. L'uomo ne
seguì il percorso con lo sguardo. Rimase a fissare i petali
rossi che si erano sparsi sulle lenzuola.
"Rosa" ripeté Serenity.
Lui prese in mano il fiore. "Rosa." Cercò la
puntura di una
spina sulle dita e lacerò a fondo la carne del pollice.
Soddisfatto, lasciò cadere il fiore di lato, al suolo.
Scivolò sul cuscino fino a sdraiarsi e, ancora una volta,
dormì.
Le loro conversazioni non conobbero più fine.
I discorsi di lui erano brevi monologhi di accusa, pronunciati
a voce
bassa, perentoria. Non la temeva o, come credeva Serenity, la temeva
abbastanza da tentare di proposito di provocarla: cercava la fine, ma
non per mano propria. Quando la sua testardaggine lo spossava delle
poche energie che aveva in corpo, lui le poneva domande che non
cercavano
una risposta.
"Reny. Àivudros
sà?"
"Da dove sei venuto?" ribatteva lei.
Lui la guardava. "Sàntrsel sa."
Quando parlavano l'uno con l'altra, parlavano solo
con se
stessi.
Acquisire i rudimenti del linguaggio dello
straniero non fu complesso
per lei,
sovrana dalle infinite conoscenze.
"Àisanee sà?"
Con due sole parole si guadagnò
un'occhiata rapida e
lacerante. L'uomo rese gli occhi due fessure violente. Infine, decise
che lei non era degna della sua attenzione e guardò altrove.
Quale insolenza.
"Riòndas sà?" insistette lei,
premendo sulla
parola odiosa e odiata.
"Sèprits."
"Io stessa preferisco il mio idioma al tuo. Ma
prima o poi parleremo,
straniero, e stabiliremo la sorte che ti attende."
La fierezza della disposizione non
incontrò timore di
rimando, ma solo sprezzante divertimento, l'ombra di un sentimento
più forte.
"Sèprits."
"Se non hai niente da dire, fa' silenzio."
"Sèprits" fu l'ordine di lui.
Inaccettabile.
"Fa' silenzio!" La propria voce, acuta sul finale,
le riempì
le orecchie. Non urlava da...
Lui era scattato a sedere. "Sèprits"
sibilò, una
smorfia di dolore e insofferenza a minacciarla.
Pretendevano l'uno dall'altra il medesimo mutismo,
capì lei.
Lo comprese lui stesso e la tensione
abbandonò le sue
membra. Emise un sussurro. "Sèprits, Reny."
Fu un'implorazione.
Serenity lasciò la camera.
Quando tornò, trovò lo spazio
delle sue stanze
differente, svuotato del corpo che aveva abitato perennemente il
giaciglio di cura.
Lo straniero era in piedi, il braccio avvolto
attorno al suo stesso
corpo, a
coprirlo un groviglio di lenzuola.
Respirava piano, a fatica, fermo a pochi passi dai
giardini.
Serenity lo raggiunse e passò oltre,
verso l'esterno. "Puoi
uscire." Indicò la vegetazione.
Lo sguardo dell'uomo si posò sulle rose,
sui truusn e sui
candidi flèonas. Contemplò i colori come fossero
vita per i suoi occhi. Ne fu sazio e indietreggiò
lentamente, incerto sulle gambe.
Tornò a letto. La sua prima, timida
escursione
terminò così.
Lloygan. Un nuovo fiore lillà di rara
eleganza, dono di un
pretendente alla sua mano. Altro caos: quell'uomo non era altro che un
sovrano del suo stesso sistema stellare. Inoltre... Ti
illudi, ma non è necessario
che tu lo sappia.
Gli attendenti di palazzo avevano lasciato il
regalo fuori dalle sue
stanze. I petali delicati avevano recato con sé
l'accompagnamento di parole succinte e poetiche, impegno sprecato per
conquistarla.
Ma il fiore le era gradito. Nelle sue stanze
private poteva
rendergli omaggio senza alimentare speranze inesistenti. Lo
portò con sé fin nei giardini, posandolo sulla
pavimentazione di marmo che circondava le aiuole adorate su cui aveva
lavorato con cura. Con le braccia ormai alte, sollevate per creare uno
squarcio preciso nelle ampie lastre quadrate, si interruppe.
Dall'interno della camera lo sguardo dello
straniero era fisso su di
lei, pronto ad odiarla.
Serenity osservò la durezza lucente del
marmo e
unì le labbra fino a sentirsi senza bocca, muta per la
frustrazione.
Attorno alle aiuole il marmo era modellato in
piccoli pezzi separati,
in rilievo, come aveva voluto lei stessa. Ne individuò uno e
affondò le mani nel terreno, incastrando le unghie sotto la
sua superficie. Tirò con tutta la forza che aveva. Quando
mollò la presa, ricadde all'indietro, nessun potere a
fermare il colpo.
La accettò come una sfida.
Col tacco della scarpa, pestò il marmo nel punto di
giuntura,
più e più volte. La prima crepa la fece sentire
vittoriosa.
Servirono sudore, muscoli e strumenti impropri per
separare quel
singolo pezzo di materiale, a sua volta nient'altro che uno strumento
per
attaccare le lastre in cui lei desiderava creare la sua nuova aiuola.
Con la Terra ormai tramontata all'orizzonte,
Serenity
percepì accanto
a sé una presenza. Scelse di non gratificarla con lo sguardo
desiderato.
"Reny."
Lei continuò col proprio lavoro. Il marmo
rotto le feriva il
palmo
se tentava colpi dall'alto, perciò aveva ritenuto
più saggio
procedere con un'incisione paziente e continua delle lastre sui punti
di unione, per allargare crepe finissime. Sarebbero occorse decine di
lunarie per terminare l'opera.
Il sudore cominciò a scivolarle dalla
fronte. Ancora
non era rimasta sola.
Prese le lunghe code che continuavano a
intralciarla nel suo lavoro e
le annodò strette sulla testa. Percepì un suono
di divertimento che le impose di distrarsi e guardare lo straniero.
Come osava lui?
Ma egli non stava ridendo di lei. Sorrideva esausto
della
situazione e fissava le sue dita che stringevano maldestre il
pezzo di marmo.
"Reny" ripeté. Sollevò una
mano nella sua
direzione, stabilendo un collegamento tra lei e il nome, quindi la
portò al proprio petto.
"Sian."
Annuì e premette le dita su di
sé.
"Sian."
CONTINUA
NdA: sarà una storia in due parti. La
seconda parte - su cui
fantastico da tanto tanto tempo - meritava più spazio e
attenzione.
Ci tengo a ringraziare Tomoyo_Daidoji per l'idea di
questa fanfic.
Tempo fa (più di un anno fa, incredibile), all'interno delle
richieste per la raccolta Imagining, mi buttò giù
l'idea di scrivere una storia basata sulla canzone di Franco Battiato,
'La cura'. Ho conosciuto questa canzone tramite lei e l'idea di questa
storia è nata dal testo, più precisamente da
questi passaggi:
Ti
proteggerò
[...] dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via.
Dalle ingiustizie e
dagli inganni del tuo tempo, [...]
Ti solleverò
dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore, dalle ossessioni delle tue manie.
Supererò le
correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare.
E guarirai da tutte le
malattie, perché sei un essere speciale, ed io,
avrò cura di te.
[...]
Ti porterò
soprattutto il silenzio e la pazienza.
Percorreremo assieme le
vie che portano all'essenza.
[...]
Conosco le leggi del
mondo, e te ne farò dono.
[..]
TI salverò da
ogni malinconia,
perché sei un
essere speciale ed io avrò cura di te...
Quell' essere
speciale
mi colpì molto a suo tempo. Sian, l'uomo che ho presentato
in questa storia, è decisamente un essere speciale. Di lui
capirete tutto - quasi - nella parte finale della storia.
Il testo della canzone, nei passaggi che ho
riportato, delinea
l'essenza della storia che voglio raccontare.
Grazie per aver letto, spero che mi farete sapere cosa ne
pensate della
storia.
ellephedre