Christmas Carols

di The Custodian ofthe Doors
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Traditions ***
Capitolo 2: *** Bad Christmas ***



Capitolo 1
*** Traditions ***



Christmas Carols.




 

Parte Prima.
Traditions.


 


 

- Ci sono cose che facciamo da quando siamo piccoli ma che non comprendiamo, quando i nostri genitori ci dicono “quando sarai grande lo capirai” e allora tu pensi che sei già grande e che non sei stupido e che puoi capire, ma non è così.
Ci sono cose che fai in automatico e poi, un giorno, per caso, malauguratamente, comprendi.


 


 


Se qualcuno gli avesse chiesto di descrivere uno scenario natalizio, sicuramente la prima cosa che gli sarebbe venuta in mente sarebbe stata la neve.
Era una distesa bianca che copriva i palazzi fumanti di New York City, che rimaneva in bilico sui fili del telefono, sciogliendosi e poi congelandosi subito dopo puntando verso il basso come decori vitrei di steli di ghiaccio. Il mondo senza suoni che avvolgeva tutto, che inghiottiva ogni singolo rumore tranne il crepitio croccante della neve alta e fresca schiacciata dagli scarponi dei viandanti.
Avrebbe pensato alle vetrine illuminate e addobbate con mille festoni, l'oro, il rosso, il verde, l'argento. Avrebbe pensato ai pini pieni di lampadine dalle forme più disparate, ai peluches vestiti di giubbette rosse e bianche, di cappellini da Babbo Natale. Avrebbe pensato alle decorazioni mastodontiche dei grandi magazzini, alla statua dorata illuminata dai fari potenti che si rifletteva sul ghiaccio compatto ma segnato dalle lame dei pattini alla Central Station. Le punte dei calzini umidicce malgrado non avessero toccato acqua, la sensazione strana di alzarsi su quelle fini linee di ferro, quella di scivolare sul suolo senza riuscire inizialmente a fermarsi, senza poter gestire la situazione, il tornare con i piedi a terra e sentirsi più bassi e stranamente stabili. Le mani congelate nonostante i guanti che stringevano un bicchiere di carta ricolmo di cioccolata bollente.
Si sarebbe dilungato a raccontare di come tutto il palacio si illuminasse a festa, come da ogni finestra pendevano fili di lucine di diversi colori, palline di plastica ormai ammaccate e sbiadite ma che venivano riesumate e poi meticolosamente rimesse al loro posto ogni 8 Dicembre e 6 Gennaio.
Sua madre chiamava qualcuno per lucidare i pavimenti di tutte le zone comuni, spesso poi anche di quelli di ogni appartamento, perché il Santo Natale tutto doveva brillare come una stella.
L'atrio veniva riempito di piante di stelle di Natale ed era del tutto inutile cercare di spiegare agli “adulti” che quei fiori non erano proprio natalizi.
Di certo si sarebbe ritrovato a ripensare a tutti gli alberi finti che lui, i suoi fratelli ed i suoi cugini erano costretti a trascinare in casa e piazzare ad ogni angolo opportuno scelto dalla matrona di turno, per poi esser chiamati per spostarlo qualora fosse arrivata un'altra donna a decidere che no, l'albero numero diciotto non poteva certo stare lì.
Gli sarebbe servito tempo per raccontare del piano d'attacco per cucinare che tutte le madri della famiglia concordavano agli inizi di Novembre, subito dopo la ricorrenza dei morti e dei santi. Probabilmente gli sarebbe servito ancora più tempo per spiegare la maniacale attenzione che veniva impiegata a casa sua per decidere la disposizione delle posate e delle “zone” per ogni fascia di invitati.
Le lunghe passeggiate, missioni esplorative, che tutti i nipoti dai quattordici ai trent'anni dovevano impiegare per trovare tutto ciò che serviva, con liste ben specifiche e suddivise.
La sua unica consolazione era che presto li avrebbe fatti anche lui quei benedetti trent'anni e quindi non sarebbe più stato compito suo andare a comprare i regali per le zie, gli zii, i cugini ed i nipotini, si sarebbe finalmente potuto fare i beneamati affari suoi e preoccuparsi solo dei suoi di regali.

Il Natale a casa Santiago era una cosa seria, serissima, che parlava di tradizioni antiche, feste religiose, riti da seguire e sberle in testa per chiunque avrebbe osato dire una parolaccia davanti a qualcuno: il giorno della nascita di Gesù Bambino nessuno doveva sporcarsi la bocca o le nonne gliel'avrebbero lavata con il sapone.
Raphael aveva assistito alla scena. Miguel ancora aveva i conati di vomito ogni volta che qualcuno comprava una saponetta alle rose.
Quell'anno poi sarebbe stato ancora più particolare visti gli invitati che sua madre aveva obbligato a presenziare alla festa.
Ci sarebbe stato da ridere, davvero tanto.

Raphael si strinse nel cappotto lungo e pesante che indossava. Era nero e con il bavero alto, suo zio Philipe gli diceva che era un vero cappotto da becchino. E lo zio era un becchino, quindi se non lo sapeva lui che indumenti indossava o erano adatti al suo lavoro non poteva saperlo nessun altro.
Stava girando per le strade senza una vera e propria meta, era arrivato sino a Central Parck e neanche se ne era reso conto. In verità voleva solo allontanarsi per un po' sia dall'Hotel che da casa sua, il parco gli ricordava momenti tranquilli e solitari e probabilmente i suoi piedi erano andati in automatico, se così poteva dirsi.
Gettò un'occhiata alla ringhiera che costeggiava una delle tantissime entrate al parco, dove la neve aveva coperto tutto di un manto spesso e così invitante che il ragazzo non poté biasimare i bambini che, oltre l'inferriata, prendevano la rincorsa per buttarsi di peso in quello strato compatto ma al contempo morbido di piccoli cristalli d'acqua.
Era ironico come una cosa così banale, che si trovava in presenza così massiccia nel loro mondo, e che ugualmente era così importante, potesse trasformarsi in qualcosa di così magico e perfetto.
Raphael amava la neve, più precisamente amava l'inverno, che si era ben presto guadagnato il posto di sua stagione preferita per via del freddo, del buio e della quantità di gente che preferiva rintanarsi nei locali invece di invadere le strade.
D'estate le persone popolavano le vie, sotto il Palacio si creava una comunità di matrone, comari e donne di ogni tipo che, sedute sulle loro sedie e sdraio portate dalle case, rimanevano fino a sera tarda a chiacchierare di ogni cosa, mentre gli uomini giocavano a carte ed i bambini correvano lungo le strade vuote, le macchine parcheggiate lungo i marciapiede come limitare di una carreggiata oltre la quale c'era il dominio dei genitori da una parte ed il loro mondo d'inventiva e giochi dall'altra. Gli adolescenti invece si nascondevano nei vicoli, alzando gli occhi al cielo quando qualche parente si rendeva conto di non vederli da troppo e li chiamava a gran voce, dando il via ad un infinito eco di genitori, nonni, zii e fratelli maggiori che facevano l'appello e ricordavano ai giovani che tanto lo sapevano dov'erano, facessero pochi scherzi.
Non si poteva dormire nel quartiere messicano quando era estate, non si poteva camminare per le vie senza che qualcuno ti riconoscesse, ti chiamasse e scambiasse con te le solite chiacchiere di circostanza che presto diventavano questioni di Stato su cui tutti potevano metter bocca.
L'inverno questo non succedeva.
Non c'era il silenzio del folto di Central Park, questo no, ma c'erano le macchine che procedevano a rilento, quelle accese da mezz'ora per far scaldare il motore, le strade poco trafficate ed i negozianti che spalavano via la neve accumulandola vicino ai tombini su cui poi andavano a buttare acqua bollente e sale per non farli congelare.
I bambini marinavano la scuola per la prima nevicata, neanche fosse una tradizione approvata e imposta. Giocavano tra un passante e l'altro, che magari era il vicino di casa, il dirimpettaio o tuo zio che tornava dal turno di notte; in ogni caso ogni adulto era autorizzato a dirgli di star attenti, di non correre che la neve sciolta è più infida di un serpente e di mirare bene e non prendere i viandanti.
Le vetrine dei negozi erano colorate e illuminate a festa, ogni volta che una palla di neve vi volava contro i bambini ridevano e scappavano, i garzoni erano costretti ad uscire fuori e pulire il vetro borbottando mentre i proprietari ridevano di quella marachella.
Le madri stavano ferme dietro le finestre chiuse e opache di brina, guardando con occhio critico i figli che si inzuppavano di neve e ridevano infilandosi quella poltiglia mezza sciolta nelle maglie e nei cappucci dei piumini. Aprivano i vetri solo per urlar loro di rientrare a casa, che stava cominciando a far troppo freddo, che la cena era pronta, che dovevano ancora finire i compiti.
Ma poi, la sera, scendeva il silenzio dei beati, dove nessuno osava più far un fiato, quando i giovani se ne andavano veloci per le strade stringendosi gli uni agli altri e non schiamazzando come facevano con i caldo.
Raphael lo apprezzava infinitamente, tutta quella calma, quell'ordine. E dire che c'era stato un tempo in cui le frizzanti giornate di primavera erano state le sue predilette, prima che un maledetto mostro decidesse di lavar via nell'acqua cremisi i peccati dei suoi nemici.
Ma non era quello il momento, il periodo, per far certi pensieri.
Alzò la testa verso il cielo, che con tutte le luci della città prendeva una strana colorazione che dal giallo dei lampioni sfumava nel blu della notte fredda, delle nuvole fitte e compatte.
Forse non doveva pensare al proprio rancore a Natale, ma sarebbe potuto entrare in una chiesa ed accendere un cero per suo padre, per tutti quei famigliari e quei compagni caduti nel corso della vita, vittime di cose più grandi di loro o di uno stupido proiettile vagante.
Si guardò attorno cercando di fare mente locale, quello non era proprio il suo quartiere, né famigliare né lavorativo, ma se non errava doveva esserci una chiesetta poco distante da lì, dopotutto la gente perbene dell'High Street non poteva non aver una chiesa in cui pregare e far vedere a tutti quali amorali buonisti fossero.
Si incamminò verso il folto delle case a schiera, quei piccoli palazzi di a mala pena quattro piani che ospitavano un unico nucleo famigliare, mentre il suo condominio di piani ne aveva nove e ospitava, letteralmente, tutta una famiglia, tutti i Santiago e acquisti.
Quando era piccolo Raphael si era spesso domandato cosa ci facesse la gente con quattro piani di casa solo per sé, ci organizzavano forse delle partite di calcio? Avevano la palestra? O magari ogni figlio aveva una camera tutta sua… Raphael aveva sempre condiviso la stanza con i gemelli, i fratelli minori, e solo ed esclusivamente perché ai maggiori serviva una stanza in cui stare tranquilli a studiare, se no màma non avrebbe mai preso una camera in più. Crescendo poi, mentre i suoi fratelli andavano al college o si prendevano il loro piccolo monolocale sempre nel palazzo, Raphael aveva cominciato a godere dello spazio che andava creandosi in casa, apprezzandolo così tanto da fargli prendere la solenne decisione che anche il suo Hotel sarebbe stato spazioso, immenso, quasi vuoto. Avrebbe potuto poi riempirlo di ogni genere di cosa, ma l'importante era che ci fosse abbastanza spazio per andarci in bici.
Certo, pensò sorridendo a tutte quelle porte abbellite di perfette ghirlande, probabilmente non avrebbe mai capito completamente quelle persone che nel lusso, nell'agio e nelle camere personali c'erano cresciuti, ma ugualmente quelle persone non avrebbero mai capito la bellezza che si nascondeva dietro ad una sala ingombra di troppa gente che portava un qualcosa per rendere le festività più belle, che cucinava fino allo sfinimento solo per vedere i volti gioiosi dei bambini ingozzarsi di ogni ben di Dio almeno una volta l'anno.
Era un buon compromesso alla fin fine. Seppur Raphael continuava a disprezzare il rumore e la calca.
Superò la 5th Avenue e continuò a camminare anche quando incontrò la grande chiesa dall'alta torre a cui tutto il quartiere faceva capo, non era quella la sua meta, ma la piccola chiesetta qualche isolato più in là, dove di solito non c'era molta gente e si poteva trovare tranquillità e serenità, un luogo in cui pregare senza sentirsi oppressi dai mormorii di tutti gli altri fedeli.
Forse Raphael stava ingigantendo la cosa, quello non era certo il suo quartiere, dove si potevano trovare centinaia di uomini e donne davvero devoti che pregavano ogni giorno, da quelle parti, nella New York bene, le persone andavano in chiesa solo per mantenere la loro immagine di bravi cristiani.
Un sorriso storto ed ironico gli piegò le labbra: se c'era un Dio da qualche parte, e Raphael era sicuro che esistesse anche se magari non era quello buono e misericordioso che tutti conoscevano, avrebbe servito il conto anche a quella gente. La falsità non sarebbe passata inosservata e neanche le visite di convenienza, specialmente nella casa del Signore.

La piccola chiesetta era proprio come la ricordava, forse giusto un po' più rovinata.
I piloni di cemento grezzo erano scrostati sugli angoli, un po' sbeccati forse dagli urti che avevano subito in tutti quegli anni. I sei gradini che rialzavano la struttura dall'asfalto erano anneriti e macchiati, la neve si accumulava nelle fughe del mattonato e negli angoli protetti dal gradino superiore. Il cancello e l'inferriata che proteggevano la proprietà della chiesa erano dello stesso colore nero-grigiastro del portone, dove l'unica nota lucida erano le maniglie toccate da così tante mani da averne reso liscio il materiale.
Raphael rimase per una manciata di minuti a fissare quella chiesetta, di medie dimensioni a ben pensare ma decisamente piccola se confrontata con quella principale. Si poggiò con le spalle alle barre di ferro e ammirò con un mezzo sorriso la cometa di led che luccicava accecante con pigra intermittenza. C'erano anche dei festoni sotto alla finestra degli alloggi, lo spirito natalizio aveva colpito anche quegli uomini di fede, dopotutto era pur sempre una lieta ricorrenza.
Con una leggera spinta si avviò verso il gradini, salendoli ad agio sino ad arrivare davanti al portone, spingendolo con una spalla e facendolo ruotare sui cardini.
La luce soffusa e calda delle candele si spandeva dalle file laterali, dove rastrelliere di metallo ospitavano decine e decine di piccoli lumi, alcuni accesi altri quasi consumati. Le luci elettriche erano spente fatta eccezione per quelle sotto l'altare e davanti al crocifisso, contornati entrambi da fiori freschi e rossi, tante stelle di natale con un vistoso nastro bianco e rosso, il logo di un'associazione che vendeva proprio quella pianta per raccogliere fondi per i senzatetto.
La navata centrare era piccola e forse una sposa con un vestito troppo vistoso non vi sarebbe passata comodamente, i banchi erano decisamente troppi per quello spazio eppure erano tutti usurati, come se ogni giorno venissero riempiti al massimo dai fedeli chiamati a raccolta.
Raphael sapeva che la presenza più massiccia era quella dei bambini, visto il doposcuola che la parrocchia offriva e anche i corsi per la catechesi, non gli era difficile infatti scorgere disegni abbozzati fatti con la punta della penna o con qualche gioco nascosto nelle tasche. Sfiorò quei solchi che rendevano così vissuto quel legno e sorrise senza rendersene conto: se fosse stato lui, o uno qualunque dei suoi fratelli e cugini, a rovinare così una panca, sua madre gliel'avrebbe fatta lucidare a mano finché non fosse tornata in perfetto stato. La gente lì era decisamente più permissiva ma, di nuovo, non credeva che tutti i frequentati fossero davvero interessati alla religione, molti di quei bambini obbligati a seguire la messa probabilmente erano lì solo per volere dei genitori. Una volta a settimana la domenica mattina, una preghiera veloce prima di portare tutti i piccoli ospiti della costruzione dietro alla chiesa, dove c'erano le ampie stanze in cui i bambini venivano tenuti finché i genitori o chi per loro non potevano venirli a prendere, e poi quelle fila tornavano silenziose e libere. Per lui e per chiunque avrebbe voluto pregare in pace.
Un rumore gli fece alzare la testa, togliendolo dai ricordi delle ore passate a leggere a turno un pezzo del vangelo o della bibbia, per vedere un ragazzino uscire di corsa da una porta laterale, la voce attutita di un adulto che gli diceva di non correre nella casa di Dio.
Subito dopo uscì un altro bambino ed il primo si voltò verso di lui per aspettarlo, un sorriso beffardo in volto e l'espressione vittoriosa. Non disse nulla, si limitò ad attendere che l'amico si intrufolasse tra le file di legno e poi scappò di nuovo via.
L'altro bambino borbottò qualcosa ma di punto in bianco si fermò, guardando con occhi sgranati Raphael come se non si fosse accorto di lui, come se a quell'ora nessuno sarebbe dovuto essere lì.

<< Mi scusi signore.>> disse il bambino arricciando il naso in un'espressione dispiaciuta.
Ma il giovane a mala pena s'accorse delle sue parole e del tono della sua voce. Mormorò un “fa niente” basso che fece riscappare via il bambino, lasciandolo solo con i suoi pensieri ed i suoi ricordi, un turbinio di immagini riaccese dal colore degli occhi di quel bambino, eventi di una vita prima che si collegarono con facilità, come se fossero scontati ed ovvi.
Possibile che non avesse mai realizzato la cosa sino ad ora?


 


 

Dicembre 2002.

La strada era imbrattata di bianco ed il vento tirava in modo impietoso, se fosse stato un po' più leggero lo avrebbe spinto via senza difficoltà, o almeno questo era quello che gli ripeteva il suo amico.
Di fianco a lui un ragazzo alto marciava con sicurezza verso una chiesetta nascosta tra i palazzi ben curati di quella zona d'élite della città. Teneva il cappuccio calato in testa ma Raphael riusciva comunque a scorgere qualche ciuffo biondo scappare da sotto il tessuto impermeabile. Aveva le mani ficcate intasca ed il ragazzo quasi sobbalzò quando una di queste si strinse attorno al suo braccio e lo tirò più vicino all'altro. Non l'aveva neanche visto muoversi tanto era concentrato sul dannato vento che lo colpiva in faccia senza gentilezza.

<< Rimani vicino a me, così ti copro un po'.>> gli disse con gentilezza, la voce morbida e musicale che veniva in parte inghiottita dal rumore del vento che si insinuava tra le case.
Raphael si strinse nelle spalle e poi un po' più vicino, ignorando la mano guantata scivolata sino al suo polso.
<< Sei solo di poco più alto di me, non è che mi copri così tanto.>> borbottò lui a testa bassa.
Il biondo rise ed annuì. << Concesso,
mon cher.>> poi tolse anche l'altra mano dalla tasca e la poggiò sul cancelletto della chiesa. << Forza, adesso entriamo al caldo.>>
Il ragazzo storse il naso. << Cosa dobbiamo fare in una chiesa? Ti avverto, non ho la minima intenzione- >>
<< Non dovremo sparare nella casa del Signore, tranquillo, siamo qui solo per una…
consulenza.>>
<< Da quanto gli uomini di fede hanno bisogno di noi?>> domandò Raphael guardingo, lasciando che l'altro gli aprisse anche il pesante portone.
<< Tutti prima o poi hanno bisogno di noi. Specie di
me.>> gli sorrise ancora e gli fece cenno d'entrare.

Raphael rimase fermo oltre la porta, scostandosi quel poco che serviva per far entrare il compagno e poi nascondendosi quasi dietro quelle file di banchi. Erano decisamente troppi per l'ambiente e anche un bel po' rovinati: ma quella non doveva essere una chiesetta vuota e poco frequentata?
Aggrottò le sopracciglia e fece un passo avanti, posando la mano sullo schienale di una panca e seguendo le linee incise da una qualche punta affilata.

<< I bambini dopo un po' si annoiano a seguire la messa o il sermone, spesso si mettono a scarabocchiare da qualche parte, spesso sui banchi.>>
Un uomo sulla quarantina era comparso vicino all'altare, Raphael si maledisse da solo per non aver fatto attenzione che ci fosse qualcuno in quella chiesa e dal sorriso del suo collega evidentemente lui se ne era accorto.
Si schiarì ugualmente la voce e lanciò un'occhiata fredda al prete. << Dalle mie parti fare una cosa del genere è inconcepibile.>> disse senza riuscire a nascondere quella nota di rispetto che sua madre gli aveva inculcato in testa verso ogni personaggio religioso.
L'uomo dovette rendersene conto perché annuì e poi fece un cenno verso di lui.
<< Non stento a crederlo.>> gli sorrise. Poi si rivolse all'altro. << È sempre un piacere rivederti e sono anche contento che tu abbia portato un nuovo amico.>>
Il biondo sorrise e strinse un braccio attorno alle spalle di Raphael. << Lui è Raphael Santiago, Padre Noah, non è proprio della mia famiglia, ma è un nuovo acquisto del Clan.>>
Il prete annuì. << Sotto l'ala di chi?>>
<< Dracula.>>
A sentir quel nome il volto dell'uomo si fece più duro, ma annuì una seconda volta. << Bene.>>
<< Non lo dica con quel tono.>> lo ammonì il ragazzo. << Sarà anche entrato tra le sue fila ma è stato affidato a me, è il mio uccellino per il momento.>>
Nel sentirsi apostrofare così Raphael si riscosse e cercò di tirare uno spintone all'altro che però non mollò la presa e anzi, lo strinse ancora di più a sé, posandogli un bacio sulla testa.
<<
Pierre!>> sibilò Raphael infastidito ed imbarazzato e allora il parroco sorrise di nuovo.
<< Allora per lui c'è ancora speranza.>>
<< La speranza è sempre l'ultima a morire, padre.>>
<< Sagge parole.>> convenne prendendo un profondo respiro. << Ma non siete qui per questo, giusto?>>
<< No, sono qui per ordine della mia famiglia, mi è stato detto che ha bisogno di noi.>>
Raphael dimenticò per un attimo la stretta del biondo ed il calore che ancora sentiva sulle guance dopo quello stupido bacio sui capelli e tornò immediatamente serio, scrutando con attenzione il prete e domandandosi perché un uomo di fede necessitasse dei servigi del Clan, nella fattispecie perché di quelli della famiglia dei
Sang vivant.
Padre Noah annuì cupo, sembrava non voler dir nulla, non su quell'argomento, e pensare che i preti avevano sempre così tanto da dire.
Pierre continuava tenerlo stretto a sé, attendendo con pazienza la decisione dell'uomo, un suo cenno.

<< Lui è coinvolto? >> si risolse a chiedere indicando Raphael che fece scattare lo sguardo dall'uno all'altro.
<< Se si sta chiedendo se sono una persona fidata- >> iniziò serio, ma Pierre lo stroncò sul nascere.
<< Lui è qui perché ci sono io.>> disse impassibile. << Non sarà un discorso semplice né veloce, Raphael rimarrà qui a controllare la sua chiesa, Padre Noah. Il compito è stato affidato a noi perché siamo la coppia migliore.>>
Le sue parole suonarono definitive quanto incoraggianti, il prete li scrutò con un sopracciglio alzato, per un attimo dimentico del suo problema. Puntò lo sguardo dritto in quello ceruleo di Pierre ma lui non batté ciglio, anzi, fece scivolare il braccio lungo la schiena di Raphael sino a raggiungere la sua mano e stringerla.
<< Non potevano capitarle persone migliori, mi creda.>>
Raphael si sentì incredibilmente a disagio, ritrovandosi a ricambiare quella stretta solo per aver conforto, per sentirsi dalla parte del giusto, così com'era giusto il calore che gli stava scaldando le dita in quella chiesa nascosta tra il lusso.
Avrebbe voluto alzare la testa e chiedergli se avesse qualche problema, senza specificare riguardo a cosa, ma aveva pure sempre davanti un uomo di chiesa e se la sua famiglia, tanto religiosa, aveva cercato in ogni modo di capirlo, di aiutarlo a sentirsi bene con sé stesso – quel poco che Raphael aveva concesso loro, sia di capire che di fare- questo non voleva dire che il resto del mondo l'avrebbe fatto. Questo non voleva dire che avrebbe mancato di rispetto ad una persona che rappresentava qualcosa di così importante e al contempo lontano ed effimero da lui.
Raphael era cresciuto come un vero cristiano ma suo padre e sua madre nella fattispecie lo avevano sempre messo in guardia su quanto ogni religione, ogni legge, ogni cosa, dovesse andare al passo con l'epoca ed i bisogno dei propri fedeli. Rispettare chi era portavoce di ciò in cui crediamo ma non permettere a quella persona di usare il nostro credo contro di noi. Accettare le regole ma capire quando queste erano metaforiche e quando no. Seguire i consigli del parroco ma finché non sfociavano in qualcosa che non potevamo tollerare.
La religione era un fatto di Stato in famiglia e anche a quell'età Raphael sentiva di non averla compresa pienamente.
Padre Noha spostò lo sguardo sul ragazzo e poi, inaspettatamente, gli sorrise.
<< Ci credo. >> disse solo prima di far cenno a Pierre di seguirlo. << Siediti pure dove vuoi, ragazzo, alla Casa del Signore tutti i posti sono liberi, per chiunque.>>
S'avviò verso la porta laterale vicino all'altare e lì sparì, probabilmente com'era comparso.
Pierre si voltò verso Raphael e gli prese il volto tra le mani, schiacciandogli le guance per fargli assumere una buffa espressione.
<< Pierre, smettila di fare il bambino, non è rispettoso qui.>> ringhiò Raphael cercando si sottrarsi a quel tocco.
<< Non è stato rispettoso neanche dubitare di noi.>>
<< Hai solo usato le parole sbagliate, è purf femfempe un uomo di fefe
Pieff!>>
Il biondo premette di più le mani ridacchiando, mentre l'altro lo spingeva via a suon di pungi sulle braccia. <<
Laffami!>> provò di nuovo.
<< Stai attento, non dovrebbe entrare nessuno, ma nel caso arrivasse qualcuno dei nostri o non dei nostri, mantieni la calma, vienimi a chiamare e alle brutte scappa.>>
<<
Fi e fi laffio qui da folo.>> borbottò arrendendosi.
<< Esatto, preferisco dovermi preoccupare solo di me che aver il terrore che facciano qualcosa a te.>> rispose lui senza vergogna.
Raphael sentì le guance scaldarsi e provò ad alzare gli occhi al cielo: chissà che faccia ridicola aveva in quel momento. E poi come poteva, quell'altro, dire certe cose con tutta tranquillità?
<<
Fei profio Franfefe.>> disse a bassa voce.
<< Come?>> sorrise Pierre.
<< Nuffa. Mi laffi?>>
<< Ti comporterai bene?>>
<< No, falirò full'alfere e fpaefò ai banfi.>>
<< Tanto sono già rovinati. Allora? Farai come ti ho chiesto?>>
<< Fu mi laffi?>> insistette il ragazzo.
Pierre allora ridacchiò, avvicinandosi per sfregare il naso gelato contro il suo.
Un brivido di ansia scivolò nello stomaco di Raphael, che fece scattare lo sguardo a destra e sinistra, cercando il prete che però non c'era, fermandosi a fissare gli occhi chiusi del Cristo in Croce.
<< Pieff… >> provò debolmente, ormai persino dimentico della stupida faccia a cui era costretto.
Le mani del giovane allentarono la loro presa, scivolando sulla sua mascella come una conca morbida e attirandolo verso di lui.
Fu solo un leggero bacio all'angolo della bocca, Raphael riuscì ad avvertire il calore di quelle labbra ed il freddo delle guance e del mento del biondo, poi chiuse gli occhi e attese solo che l'altro si allontanasse.
Deglutì un paio di volte, aprendo lentamente le palpebre solo per specchiarsi in quelle gemme cangianti d'azzurro.
<< Stai attento, promesso?>> gli chiese in un sussurro.
Raphael annuì. << Promesso.>> gracchiò senza voce.
<< Perfetto. Torno il prima possibile.>> se lo tirò di nuovo contro per dargli un altro bacio, questa volta sulla fronte, dopodiché seguì i passi del prete e scomparve oltre la porta laterale.

In quel momento, solo all'inizio della navata, Raphael si sentì più che mai come un peccatore in chiese. Aveva tante cose di cui pentirsi, alcune davvero terribili, altre stupide, ma si ritrovò seduto sull'ultima panca, con lo sguardo perso nei decori dell'altare, a domandarsi se anche essere felice fosse un peccato. Specie per uno come lui che di sentimenti ne provava pochissimi e spesso negativi.
In tutta la sua vita non era mai riuscito a trovare qualcuno a cui legarsi così tanto e così strettamente com'era successo con Pierre. Certo, aveva i suoi parenti che amava, ma quella non era una sua scelta, Raphael era nato da loro e tra di loro e l'affetto, il rispetto, l'amore che provava verso quelle persone era venuto alla luce assieme a lui, avevano tirato assieme il primo respiro e aperto per la prima volta gli occhi.
Raphael aveva visto l'amore nel volto di sua madre, lo ricordava nei tratti sbiaditi del volto di suo padre e lo scorgeva nascosto dal divertimento dietro i ghigni dei suoi fratelli, nelle spallate giocose mentre correvano per arrivare per primi sul divano o fuori in strada per giocare con la neve.
Amava in un modo strano e contorto Lily, quel demonietto con cui era suo malgrado cresciuto e con cui aveva stretto un sodalizio fraterno che non si sarebbe mai aspettato.
Provava affetto verso Catarina che sempre era pronta a medicare le sue ferite e a dargli supporto contro quel pazzo di Bane e in un qualche modo aveva finito per voler bene anche a lui.
C'era un sentimento forte e astratto che lo legava a Ragnor, fatto di rispetto, di fiducia, di una mano pronta a stringere la sua per tirarlo in piedi e di una sempre presente spada sguainata per difenderlo. Era una calamita che lo attirava e poi lo respingeva, un ballo di cui non aveva ancora imparato i passi ma che prevedeva solo la vicinanza dell'altro, non il contatto.
Poi era arrivato Pierre e tutto era cambiato: come Ragnor lo attirava ma con la forza della gravità. Lo aveva costretto a far combaciare le loro orbite senza un motivo apparente, gli aveva sorriso tra i suoi anelli e sbirciato oltre le sue lune. Pierre era qualcosa che non aveva mai provato, era il desiderio di quel contatto che non aveva mai tollerato e ricercato.
Con lui aveva capito che il ballo giusto fosse il valzer, che doveva posare una mano sulla sua e stringere l'altra al suo corpo, affidandosi alle sue braccia come Pierre si affidava a lui. Erano passi cadenzati, uno dopo l'altro, destra e sinistra, avanti ed indietro, girando in senso orario e poi antiorario ma senza curarsi di dove si stesse andando. Il valzer implicava giri concentrici, seguendo l'orbita che avevano deciso di condividere, o forse che si erano ritrovati a condividere. Ma non c'era bisogno di guardarsi attorno, bisognava solo guardarsi negli occhi e basta.
Dopotutto i pianeti seguono sempre lo stesso percorso no? Si avvicinano e si allontanano ma era sempre quella l'ellisse che percorrevano.
Forse un giorno l'emozione di muovere quei passi in sincronia sarebbe scomparsa, ma per ora Raphael voleva solo godersi il prossimo giro di giostra, sperando che questa non si fermasse mai.
Per tutta la vita si era sentito diverso dai suoi coetanei, dai cugini, dai fratelli, perché quello stimolo a cercare qualcuno da amare, quell'infatuazione dovuta solo da ormoni e stimoli celebrali lui non l'aveva mai avvertita, non ne sentiva la necessità e neanche gli veniva in mente. Che bisogno c'era di condividere l'etere con qualcuno? Che voglia si aveva di infilare la lingua nella bocca di un altro? Ma ci si rendeva conto dei germi, dell'alito o anche solo della stupidità ed inutilità della cosa?
Raphael se ne rendeva perfettamente conto, ma da quando aveva conosciuto Pierre tutte queste cose assurde avevano cominciato ad esercitare un certo fascino su di lui.
Alla fine dei conti però, per quanto tutto quello potesse imbarazzarlo, per quanto ancora gli facesse strano e non riuscisse a gestire la cosa, Raphael si reputò fortunato, dopo tutte le sventure il sole aveva deciso di sorgere anche nella sua vita.

Che sottile ironia era che avesse deciso di farlo proprio nel momento in cui si era unito ad un Clan che venerava le tenebre e aborriva la luce.

Un cigolio basso lo portò a muoversi involontariamente verso l'entrata.
Gli pareva troppo bello che nessuno decidesse di entrare a pregare proprio quella sera. Per fortuna i preti non erano commessi, non dovevano presenziare costantemente dietro l'altare.
Una figura alta, vestita con un giaccone nero ed il cappuccio calato sul capo, entrò a testa bassa nella chiesa. In situazioni diverse Raphael si sarebbe rigirato e avrebbe finto di pregare, magari l'avrebbe fatto davvero perché fingere non stava bene e non era rispettoso verso Dio, ma un rumore metallico gli impedì di farlo.
Aggrottando le sopracciglia si rese conto che il suono proveniva dagli scarponi dell'ultimo arrivato, che erano pesanti e parevano aver un rinforzo in ferro sulla punta e sul tacco. Erano scarponi da combattimento, di quei modelli simili a quelli militari o delle forze dell'ordine.
Scrutò con attenzione la figura in cerca di armi, esaminando i pantaloni scuri e macchiati sulla coscia destra, le mani infilate a forza nelle tasche del giaccone, i ciuffi scuri che uscivano dal cappuccio che non era del piumino ma di una felpa che l'uomo, o comunque il giovane, portava sotto.
Era alto, certo più di lui, doveva stare sul metro e settantacinque, ma la posa curva della schiena e le spalle chiuse lo facevano sembrare più basso.
Aveva un'aria cupa ma non minacciosa, o meglio: Raphael intuì facilmente che non era qualcuno contro cui mettersi, anche se non sapeva in che modo e fino a quanto, ma in quel momento non aveva intenti bellicosi, sembrava più… sconfortato?
Non una sola luce riusciva ad illuminargli il volto, ma Raphael scorse comunque una lama bianca come la luna, il mento del giovane su cui una linea pallida e tirata rappresentava le sue labbra.
Labbra per altro macchiate di un alone rossastro.
Si rese conto solo in quel momento che l'unica macchia di colore in quell'individuo era la scia che sfumava sulla bocca e sotto il naso, il rivolo denso e pastoso che colava lento dalla narice sinistra.
Stava sanguinando, Raphael se ne intendeva di sangue, lo riconosceva subito, al volo, e si diede dello stupido per non essersi reso conto prima che ciò che sporcava la gamba dell'uomo era altro sangue, forse non suo visto che il pantalone non era lacerato e lui camminava bene.
Lo sconosciuto avanzò qualche passo incerto verso l'acqua santa, tirò una mano fuori dalla tasca e l'allungò verso il recipiente per fermarsi a pochi centimetri dalla superficie lucida che risplendeva delle candele della chiesa. Le sue mani erano grandi e lunghe, Raphael scorse dei calli e delle piccole ferite sulla punta delle dita ma la sua attenzione andò tutta sulle nocche scorticate.
L'altro chiuse la mano a pungo e la rificcò dentro la tasca.

Non voleva sporcare l'acqua?

Tornò verso il centro della chiesa e gli passò vicino per dirigersi verso i primi banchi. In quel momento Raphael riuscì a scorgere meglio il volto giovane, forse fin troppo giovane, di quell'individuo.
Sembrava avere la sua età e visto che lui era sempre sembrato più piccolo doveva esserlo anche quel ragazzo.
Raphael deglutì: se era davvero così significava che non poteva aver più di sedici anni, forse anche meno. Perché un ragazzo di quell'età, in quel quartiere, era ridotto così?
Aveva intravisto uno zigomo violaceo e pesto, un occhio socchiudo e l'altro nascosto oltre il profilo del naso dritto, delle sopracciglia folte e delle lunghe ciglia nere che sporgevano oltre la sella del naso.
Lo vide tirare le labbra in una smorfia appena accennata ma senza produrre alcun suono. L'angolo sinistro della bocca precipitò verso il basso e lì rimase, come il volto triste di un fumetto.
Se si fosse trovato nel suo quartiere non avrebbe fatto una piega, non si sarebbe stupito nel vedere un ragazzo della sua età entrare in chiesa ferito, anche a morte, per chiedere aiuto al parroco, ma quella era l'High Street, era la 5th Avenue, non c'erano bande che si tendevano agguati agli angoli dei palazzi popolari, non c'erano le sparatorie in strada ed il coprifuoco durante le faide. Lì vivevano avvocati e senatori, il Sindaco di New York City ed il Procuratore dello Stato stesso, le strade erano pulite e pattugliate, c'erano le ghirlande alle porte e le macchine di lusso parcheggiate nei garage privati. Che ci faceva uno come lui da quelle parti? Perché entrava in chiesa così conciato, con il rischio che qualcuno lo vedesse e allertasse la polizia?
Forse era anche lui in cerca del parroco, per avere un aiuto come succedeva nel suo quartiere. Forse era vittima di violenze casalinghe, o qualche figlio di papà l'aveva ridotto così perché poteva permettersi di fare tutto, tanto nessuno l'avrebbe toccato. Forse la chiesa era l'unico posto in cui sapeva che non l'avrebbero ferito ancora.
Forse nessuna di queste e lui stava ragionando troppo su uno sconosciuto che magari era un drogato ed era entrato lì dentro solo per scaldarsi un po'.
Qualunque fosse la verità quella situazione lo stava innervosendo, si sentiva a disagio, come se dovesse far qualcosa ma non sapesse cosa, giusto perché non gli bastava essersi fatto quasi baciare da un uomo in chiesa.
Dio… màma gli avrebbe lavato la bocca con il sapone…
Senza rendersene conto si ritrovò a battere il piede a terra impaziente, a tirar su con il naso un improvviso attacco di raffreddore che prima non aveva, all'erta come non mai. Fu proprio per questo che si rese conto che il giovane seduto verso le prime file si era alzato e stava tornando indietro.
Raphael finse di non vederlo, di essere concentrato su altro, quando quello si fermò proprio vicino a lui.
Con la sua migliore faccia da stronzo, quella che i suoi fratelli gli dicevano fosse estremamente sgradevole e che spingesse la gente a scappare a gambe levate, Raphael si voltò verso il ragazzo per dirgli di togliersi dai piedi, qualunque cosa volesse, ma rimase congelato da quello che si trovò davanti: Una mano bianchissima e affusolata, graffiata e scorticata, piena di calli sul palmo e sulle dita, era tesa verso di lui. Il polsino della felpa nera copriva a mala pena il polso del giovane, che con un sorriso tirato, storto ed incerto gli porgeva un pacchetto di fazzoletti.
Raphael sbatté un paio di volte le palpebre, facendo saettare lo sguardo dal giovane all'oggetto.
Il tempo che rimasero così in stallo bastò per far tremolare leggermente la mano del ragazzo e fargliela abbassare.

<< Scusa… non- pensavo solo che te ne servisse uno… >> disse con voce bassa ed imbarazzata.
Era il timbro tipico di chi aveva cambiato voce e ancora doveva abituarcisi, di quei ragazzini che stavano diventando adulti ed entravano in contrasto con loro stessi: volto da angelo e voce da uomo.
Era quasi dispiaciuta, Raphael non dubitò neanche per un momento che quelle scuse fossero sentite e che il ragazzo si stesse vergognando di non essersi fatto gli affari suoi.
Provò quasi un moto di compatimento per il giovane, subito scacciato dal suo caratteraccio e poi riaffiorato nel sentirsi in testa la voce di sua madre che lo rimproverava.
Dopotutto aveva circa la sua età, non c'era nulla di cui preoccuparsi, non era un moccioso fastidioso e neanche un adulto altrettanto fastidioso, lo aveva solo sentito tirar su con il naso ed aveva pensato che gli servisse un fazzoletto.
Si riscosse con un sospiro.
<< Grazie.>> disse mantenendo comunque la voce bassa.
Vide la mano fremere di nuovo, incerta se riallungare il pacchetto o meno, ma non gli diede tempo di pensarci su.
<< Solo, credo che servano più a te che a me. Ti sta sanguinando il naso.>>
Il ragazzo si portò istintivamente una mano al volto, alzandolo di poco e facendo scivolare via i capelli dalla fronte. La luce soffusa della chiesa si rifletté in modo quasi doloroso su quello zigomo pesto, sull'occhio che si stava gonfiando sempre più velocemente e sulla pelle di un pallore mortale. Quella macchia violenta che gli colorava il viso era terribile da osservare, Raphael sentì un sordo dolore di riflesso, augurandosi che il ragazzo avesse conciato ugualmente lo stronzo che gli aveva messo le mani addosso.
Certo, poteva anche essere lui lo stronzo e la sua vittima quella che aveva risposto facendogli l'occhio nero, ma quale colpevole si nasconde della casa del Signore dopo aver commesso una violenza? Quando era pienamente nel torto?
Non che questo fosse impossibile, Raphael ne aveva visti di Boss entrare rispettosi in chiesa, chinare il capo davanti alla Croce e baciare l'anello dei Vescovi, ma il ragazzino aveva un'aria così abbattuta e stanca, si era preoccupato di lui nonostante dovesse sentir molto dolore… non poteva esser altro che una vittima degli eventi. Eventi più grandi di lui probabilmente.
<< Chi ti ha fatto questo?>> gli chiese con voce ferma. Forse avevano la stessa età, forse qualcosa di più o di meno, ma Raphael si era sempre sentito più grande dei suoi anni e gli risultò facile e normale interpretare la parte dell'adulto in quella circostanza.
Vide il ragazzo abbassare di nuovo la testa, la mano che aveva portato al volto tornò verso la compagna torturando le abrasioni sulle nocche.
<< Ho avuto una discussione con qualcuno, nulla di grave.>> borbottò a bassa voce.
Raphael si concesse un ghigno interiore: sì, doveva essere come lui, uno di quei ragazzini abituati a prendersi le proprie responsabilità e anche quelle degli altri.
<< È stato tuo padre?>> gli chiese comunque, mantenendo all'esterno quell'aria seria che la situazione richiedeva.
Con un gesto repentino che non si sarebbe mai aspettato da lui, il ragazzo alzò il capo e lo fissò dritto negli occhi, senza paura e senza vergogna. C'era un fuoco vivo e ardente che splendeva dietro la barriera lucida dell'iride, una sicurezza che s'affiancava alla durezza, quasi all'indignazione e alla rabbia: non tollerava neanche l'insinuazione di una cosa del genere, neanche da un estraneo che lo vedeva entrare in chiesa sanguinante e malconcio.
Raphael non batté ciglio, mantenendo la calma come aveva imparato a fare in tutti quegli anni, specie in quegli ultimi in cui era finito al servizio di Dracula.
Calma e sangue freddo.
<< Allora sei qui per non farti vedere da lui.>> disse sicuro.
La fiamma battagliera che aveva visto in quegli occhi si affievolì, il giovane si rilassò un minimo ma rimase con le spalle contratte, chiuse al mondo .
<< Non approverebbero di certo.>> sussurrò.
Una goccia rossa e veloce scivolò sull'arco di cupido, saltando il labbro teso e gettandosi a terra prima che il ragazzo potesse mettervi sotto una mano per riprenderla.
Raphael avrebbe potuto giurare di aver sentito il rumore del sangue amplificato, uno schiaffo a mano aperta, la rassegnazione di qualcuno che non vuole confessare le sue pene e che preferisce nasconderle e occuparsene lontano dagli occhi degli altri. Forse per non essere sgridato, per non esser accusato di essere un debole o più banalmente per non far preoccupare nessuno, per non dare problemi ad altri.
Raphael allungò la mano per prendere il pacchetto di fazzoletti, ne estrasse uno e lo porse al ragazzo, che lo ringraziò con voce a mala pena udibile.
<< Anche qui nei quartieri alti ci sono i bulli?>> domandò con non-calanche, maledicendosi anche per la lingua lunga che si ritrovava quella sera. E pensare che lui era uno che stava sempre zitto e si faceva gli affari suoi…
L'altro si strinse nelle spalle. << Gli stupidi sono di tutte le razze e di ogni estrazione sociale, purtroppo. >> lo disse con amarezza mentre si tamponava il sangue fresco e cercava inutilmente di togliere quello secco.
<< Gliene hai ridate tante quante te ne hanno date?>>
Lo vide abbozzare un sorriso storto, incerto e triste come quello di prima, poi stringersi ancora nelle spalle curve. << Non ne sono sicuro, sono scappati troppo in fretta.>>

Plurale.
A Raphael non scappò né il modo rassegnato in cui l'aveva detto né il fatto che, evidentemente, era stato più di uno ad attaccarlo.
<< Alle scuole private non c'è qualcosa tipo regole ferree sulla violenza? O hai beccato gli unici intoccabili.>>
Quello sbuffò una risata nasale, per poi premersi di corsa il fazzoletto mezzo zuppo contro le narici. Raphael gli passò un altro fazzoletto.
<< Grazie. No, comunque, nessuno è intoccabile davvero, c'è sempre qualcuno con un parente o un amico più potente… >>
<< Ma ti hanno beccato fuori scuola.>> concluse.
<< Palestra. Gli spogliatoi sono un classico intramontabile.>> sospirò, << Ma forse non dovrei parlare di queste cose qui.>> disse leccandosi l'angolo della bocca, sporco di sangue.
<< Se non parli dei tuoi problemi qui, che è il luogo pensato apposta per parlare con Dio, dove vuoi farlo?>> . Dannazione, si sentiva un maledetto confessore, sua madre aveva ragione, aveva la stoffa per fare il prete.
Il ragazzo scosse la testa. << Siamo miliardi di persone, penso che Dio abbia di meglio da fare che preoccuparsi dei miei problemi, sono decisamente banali a confronto con il resto.>>
A quello Raphael non seppe rispondere, rimase in silenzio e così fece l'altro.
<< Devi imparare a difenderti allora.>> si risolse a dire. Non sapeva perché stesse insistendo, ma non poteva farne a meno, aveva come bisogno d'assicurarsi che una scena del genere non si sarebbe mai più verificata.
<< Lo so fare.
Io ne sono capace, gli altri no. >>
<< Hai difeso qualcuno?>> domandò sorpreso.
<< No, ho evitato di mandare qualcuno all'ospedale. L'ultima cosa che mi serve è essere etichettato come violento. Sono già abbastanza inquietante di mio.>> sbuffò in fine.
Raphael alzò un sopracciglio, divertito da quella confessione. << Ti sei fatto picchiare e non hai risposto perché se l'avresti fatto li avresti conciati ancora peggio?>>
<< Questa è la differenza tra chi tira un pugno per gusto e chi ha studiato per saperlo fare. Non posso mica abusare di una tecnica di combattimento contro dei cretini.>>
Se quel ragazzo l'avesse conosciuto avrebbe saputo che quegli sbuffi divertiti che si lasciò sfuggire erano una delle sue risate più aperte. Ma probabilmente lui lo trovò solo divertito dalla situazione.
<< Mi pare giusto, sei una persona estremamente corretta allora.>>
L'altro arrossì di botto, le guance cadaveriche si colorarono di un ben rosa denso e acceso, che non fece altro che far sogghignare di più Raphael ed imbarazzare il giovane, che farfugliò qualcosa senza senso e poi sospirò abbassando la testa.
<< Sei venuto qui per caso o per cercare Padre Noah?>> gli domandò quando si reputò soddisfatto di quei borbottii imbarazzai.
Il ragazzo fece una smorfia e sospirò. << Non sto molto simpatico a Padre Noah.>> confessò.
<< Perché?>> domandò di getto Raphael senza riuscire a contenersi. Sembrava un cazzo di moccioso quel giorno, ma rimaneva il fatto che fosse stupito: come poteva un prete non apprezzare un ragazzo che sapeva, a quanto diceva lui, combattere ma non lo faceva per evitare di ferire gli altri, perché non sarebbe stato uno scontro equo?>>
Il ragazzino deglutì ancora. << Lui...ugh… nulla, non apprezza le mie compagnie credo, tutto qui.>>
Come un fulmine a ciel sereno Raphael si ricordò di aver pensato di essere una persona fortunata tutto sommato. Poi ricordò anche lo sguardo che gli aveva lanciato Padre Noha quando Pierre aveva detto che erano la “coppia migliore”.
Quel ragazzo vestito tutto di nero, con il cappuccio ancora in testa ed i capelli scuri scompigliati sul visto, come se volesse nascondersi anche dalle vetrate colorate e dai banchi rovinati, come se cercasse di non farsi vedere, di fondersi con le ombre; che teneva le spalle chiuse e la schiena curva, la testa bassa e la voce altrettanto, quel ragazzo si vergognava ed aveva paura. Paura di tornare a case e far vedere ai suoi genitori come l'avevano conciato due deficienti o forse più, paura di vedere i loro volti preoccupati, di sentirsi chiedere cosa fosse successo, perché non si fosse difeso, perché l'avevano aggredito. Si vergognava di non aver reagito anche se sapeva di non averlo fatto per un valido motivo.
Non l'aveva corretto quando aveva parlato di scuole private, aveva lui stesso detto che c'era sempre gente più ricca e potente di te, e se nel suo quartiere i ragazzi venivano picchiati perché facevano parte della gang sbagliata, perché erano troppo deboli o per dare una lezione ai loro famigliari, perché avevano visto qualcosa che non dovevano vedere, tra la gente per bene i ragazzini venivano picchiati perché non erano come gli altri, perché non si conformava agli standard decisi dai più viziati e dai più ricchi. Quelli che non vestivano alla moda, che non avevano il cellulare o che non andavano in settimana bianca.
Raphael conosceva quella gente, Dio, conosceva Camille e Magnus, conosceva Lily e quegli schifosi viziati che erano la prole dei Chen, sapeva di cosa stava parlando, eppure aveva la sensazione che “lo standard” non raggiunto dal ragazzo fosse ben diverso.
<< Sei in chiesa. È la casa di Dio, sono tutti ben accetti, persino i peccatori, non è certo la simpatia che un prete ha verso di te che ti negherà l'accoglienza.>>
Il ragazzo lo guardò stralunato. Poi sorrise.
<< Grazie.>> i suoi occhi brillarono come quelle vetrate e quei mosaici da cui voleva nascondersi. Come gli ori che rifinivano l'altare, come le candele accese al limitare della sala, tra le colonne semibuie che parvero illuminarsi con quel minuscolo e timido sorriso che il giovane gli rivolse.
Raphael rimase a fissare imbambolato, per la seconda volta, le iridi cangianti del ragazzo, ripetendosi di nuovo di mantenere la calma e di non restare a bocca aperta davanti ad un colore così inteso che solo una volta aveva visto in vita sua. Poteva paragonare quegli occhi solo a quelli cerulei di Pierre, brillanti nella loro fredda e perfetta colorazione, come le pietre di una corona, di un diadema splendente, come un diamante colpito dalla luce attraverso cui si scruta il cielo.
In quella sera fredda e impietosa d'inverno, Raphael si ritrovò a pensare che se Pierre aveva gli occhi magnifici del cielo terso della primavera, quando i venti del nord ancora pulivano l'aria e scacciavano via le nuvole, quel ragazzo doveva essere il suo opposto.
Raphael non aveva mai visto il cielo stellato delle lande prive di luce artificiale, ne aveva visto delle foto sui libri di scuola, in tv o al cinema, quelle infinite distese di un blu così intenso da sembrare nero, puntinate di stelle e di scie colorate. Non le aveva mai viste dal vivo ma era certo, certissimo, che il cielo notturno, osservato in qualche luogo lontano dalla civiltà, magari su una vetta gelata o dal folto di un foresta vergine, sarebbe stato delle stesso, identico colore degli occhi di quel giovane.
Il ragazzo gli porse la mano, pulendosela prima sul jeans non macchiato, gli sorrise ancora in quel modo tentennante, timido ma sincero, accecante come i suoi occhi, e Raphael non poté far altro che stringergliela.
<< Prego, ma non ho fatto davvero niente.>>
<< Grazie ugualmente. Ma sono stato terribilmente maleducato, mi chiamo- >>


 

Presente.


 

<< Raphael?>>
A sentirsi chiamare il giovane si voltò verso quella voce.
Un uomo sulla cinquantina, vestito completamente di nero ma con una coccarda rossa appuntata sul cuore, lo fissava sorridendo.
<< Padre Noah.>> lo salutò di rimando facendo un cenno con la testa.
<< Che piacere rivederti, ragazzo mio, specie dopo così tanto tempo.>> disse il prete avvicinandosi per stringergli le mani.
<< Quasi cinque anni dall'ultima volta che sono venuto a farle visita. Mi scuserà, spero.>>
L'uomo annuì. << La casa del Signore è sempre aperta per tutti, si deve venire qui per aver conforto e stare in pace, non per riportare alla mente ricordi dolorosi.>> fece con aria più grave.
Raphael si strinse nelle spalle. << Non è successo nella vostra chiesa o non saremo qui a parlarne.>>
<< Vero, ma non puoi certo negare che ti riporti alla mente ricordi spiacevoli.>>
<< Solo malinconici, non è mai spiacevole ricordarlo.>> ammise con un sorriso mesto.
Padre Noah gli fece cenno di seguirlo, incamminandosi verso le prime file vuote delle panche.
<< Sei più andato a trovarlo?>>
<< Alla lapide onoraria che ha qui, sì, ma non dove riposa davvero. È troppo lontano, non posso allontanarmi neanche per un giorno da New York, figuriamoci di più.>>
<< Non è importante dove tu vada, potresti anche esser dall'altra parte del mondo, l'importante è- >>
<< Ricordarlo sempre nelle mie preghiere, sì Padre, lo so.>>
Si sedettero in silenzio, entrambi rivolti verso la Croce illuminata dai faretti.
<< Ero da queste parti per delle commissioni e ho pensato di venir ad accendere qualche candela per chi non c'è più.>> iniziò tranquillamente.
Parlare con il proprio confessore era una cosa che gli riusciva incredibilmente facile, forse perché lo faceva sin da piccolo, in ogni caso spesso si ritrovava più a suo agio a parlare con un prete, fosse anche uno sconosciuto, che con un amico, con qualcuno che conosceva.
<< Sono felice che tu abbia pensato a questa chiesa. Ce ne è una molto grande prima.>>
<< Non amo i posti potenzialmente affollati.>>
<< Quindi preferisci una chiesetta in cui sai esserci un doposcuola e dei scorsi di catechismo?>>
Raphael arricciò le labbra in un sorriso da gatto, << Forse devo solo espiare le mie colpe.>>
<< Allora dovresti andare a fare volontariato.>>
<< Padre, le ricordo che il suicidio è aberrato da Dio.>> disse fulminando l'uomo che invece rise.
<< Non essere così tragico, si sta avvicinando il giorno della nascita di Cristo, non pensare a cose negative.>>
<< Più facile a dirlo che ha farlo.>>
<< Le parole sono sempre più semplici delle azioni e se queste sono per noi fonte di ansia, imbarazzo o dolore in special modo. Per cosa sei venuto a punirti, Raphael? Vieni qui a pregare solo quando pensi di aver qualcosa da farti perdonare.>>
Raphael sospirò. << È stato un anno difficile. Stancante.>>
<< Oh, lo so, ho sentito. Ho letto i giornali più che altro.>> annuì il prete.
A quell'affermazione Raphael si voltò verso di lui, scrutandolo dritto negli occhi.
<< Padre Noah, ricordate la prima volta che sono entrato in questa chiesa.>>
L'uomo annuì. << Avrei preferito fosse per un altro motivo, ma è impossibile dimenticare per me.>>
<< Ricorda, quando voi- quando voi e Pierre siete tornati qui, se lo ricorda il ragazzo con cui stavo parlando?>>
Il prete rimase in silenzio, l'espressione sorpresa per quella domanda e poi grave per la realizzazione di cosa gli stesse chiedendo Raphael.
<< Anche questo per me sarebbe difficile da dimenticare. Se stai per chiedermi se è- >>
<< Si ricorda anche cosa mi disse di lui?>>
L'uomo sospirò ancora, sconfitto. << Che era un ragazzo molto caro, ma che non aveva ancora trovato la sua strada, che temevo che non l'avrebbe mai fatto e che si sarebbe perso, rimanendo nel buio in cui si ostinava a nascondersi. Che nessuno l'avrebbe mai potuto aiutare.>> chiuse un attimo gli occhi e poi li riaprì. << Beh, mi sbagliavo, semplicemente io non ero il pastore adatto per quell'agnello, anche se la cosa mi addolora perché mi fa sentire indegno di questo titolo, ho imparato a mie spese che non tutti necessitano delle stesse parole e delle stesse azioni. Purtroppo non sono il prete di tutti. Ma mi consola sapere che alla fine ha trovato qualcuno che riuscisse a guidarlo, ad aiutarlo, ad accettarlo.>> concluse.
<< Quindi lei lo sapeva.>> disse Raphael con voce asciutta.
<< Sono qui da quasi trent'anni, ho visto persone di tutti i tipi passare sotto i miei occhi, ho conosciuto e visto crescere bambini di ogni genere, anche lui fu mio alunno, mi sarebbe stato impossibile non notare il suo disagio ed il suo dolore. Non ho saputo come gestirlo, purtroppo, ho fatto il passo sbagliato.>>
<< Ma ha detto che ora ha trovato il suo pastore, no?>>
<< Sì, in una chiesa nel Bronx, ci crederesti mai? È nato e cresciuto nell'High Street e ha trovato la sua voce in uno dei quartieri più malfamati della città. Ma perché ti interessa tanto?>>
Raphael aveva ascoltato senza una specifica espressione in volto, rimanendo distaccato e concedendosi solo pochi sorrisi e qualche smorfia infastidita.
Almeno Padre Noah aveva ammesso d'aver sbagliato, era già un traguardo quello.
<< Il suo nome.>> disse solo ed il prete attese senza capire cosa volesse dire.
<< Lo hai dimenticato? Si era presentato quel giorno.>> gli chiese confuso.
<< No, vorrei sapere se lei sa il significato del suo nome.>>
Al silenzio dell'uomo Raphael riprese. << Deriva dal greco, il nome è composto da due parole che significano “protettore” e “uomo”, lo si può tradurre come “difensore degli uomini” e in altri modi molto più adatti ad un re o un condottiero. Volevo solo dirle che è il nome giusto per quel ragazzo.>>
Si alzò in piedi e si avvicinò alla rastrelliera per accendere quattro candele, mettendo decisamente troppe banconote nella cassetta delle offerte.
<< A che associazione vanno i ricavati delle stelle di Natale? >> chiese di punto in bianco, cambiando completamente discorso e stroncando sul nascere ogni possibile risposa o domanda del parroco.
<< Alla Nut Luck, si occupa dei senzatetto nei parchi. >> disse quello preso alla sprovvista.
<< Bene.>> Raphael si inginocchiò davanti alle candele e congiunse le mani per pregare a testa bassa, muovendo le labbra in una litania di strofe dette in spagnolo che sua nonna aveva insegnato a tutti i nipoti sin dalla tenera età.
Poi si rialzò e, avvicinatosi al prete, gli porse la mano, ricevendo una stretta tentennante ma calda.
<< Buon Natale, Padre Noah.>>


 


 


 


 


 

Anni addietro suo padre l'aveva portato al “cimitero latino”, uno spiazzo del cimitero comunale in cui di solito venivano seppelliti tutti coloro che avevano sangue messicano nelle vene, sangue latino ad onor del vero. C'erano delle zone dedicate ad ogni paese, ce n'era una che ospitava i Cubani, un'altra per i Brasiliani, ma alla fine le lapidi si mischiavano, i fornetti venivano impilati gli uni sugli altri senza badare alla nazionalità ma solo al legame che potevano aver avuto in vita tutti i defunti di quella stessa parete.
Raphael non aveva ancora nessuno seppellito lì, il che era decisamente una delle cose migliori che il bambino potesse pensare, l'idea che nessuno dei suoi cari fosse morto da quando erano arrivati dal Messico, quando i gemelli ancora non erano nati e quindi ben prima di lui, lo riempiva di sollievo.
Eppure c'era questa tradizione, una delle tante della sua famiglia, che diceva che a Natale si dovesse andare in chiesa a sentir la messa e prima al cimitero a trovare i defunti.
Loro non avevano nessuna lapide da visitare, nessuna foto da pulire dalla neve o fiori da cambiare, però nella zona più interna del cimitero latino vi era la grande statua di un angelo con le braccia aperte e la lunga veste che gli copriva il corpo. A Raphael aveva sempre un po' ricordato il grande Cristo di Rio, visto in mille foto, in tv, letto nei libri di scuola, e Elija ridacchiava sempre a quella sua innocente affermazione dicendogli che sì, probabilmente era ispirato proprio a lui, per ricordare a tutti i figli della grande America Latina che anche lì, al nord, avevano qualcuno che li proteggeva, qualcuno pronto ad accoglierli a braccia aperte.
Così andavano davanti all'angelo, con delle candele e dei fiori finti, perché a Dicembre New York City gelava e metter dei fiori veri significava farli rinsecchire e congelare in due minuti e non stava bene lasciare piante secche e brutte ai piedi di un angelo, specie se era per onorare i defunti.
L'angelo se ne stava in piedi su un grande basamento rettangolare, nel corso di tutti quegli anni le pietre lisce erano state inscritte dalla mano esperta di uno scalpellino con centinaia di nomi, persone che non erano lì, che erano morte lontano da casa, che non avevano più un corpo da piangere, che erano disperse e non potevano ancora esser dette morte. Il piccolo Raphael di sei anni si spingeva sulle punte dei piedi per leggere i nomi più in alto, voltandosi a chiedere a suo padre o ai suoi fratelli se quel Carlos Santiago fosse un parente loro, per sentirsi spesso ripetere che no, non erano parenti, o forse sì, non potevano saperlo perché “Santiago” era uno dei nomi più comuni nel loro vecchio paese.
A casa loro.
Raphael questo non lo capiva, non ci arrivava proprio: casa sua non era il Messico, non era la cittadina sperduta in cui si erano conosciuti i suoi genitori, quella in cui erano cresciuti, in cui erano sempre vissute le loro famiglie. Casa sua non aveva interminabili steppe aride rossicce come la terra dell'Arizzona, come il Gran Canyon, non si parlava solo spagnolo, non si moriva dal caldo tutto l'anno e non c'erano processioni e picnic nei cimiteri il giorno dei morti.
A casa sua faceva un freddo cane d'inverno, il colore prevalente era il grigio dei palazzi, il rosso cupo dei mattoni a vista, le centinaia di luci che provenivano dallo skyline di Manhattan. A casa sua si parlava spagnolo solo nel quartiere, nelle mura casalinghe, tra i vicoletti mentre si correva dietro agli amici, ma poi dovevi imparare bene l'inglese, dovevi saperlo parlare meglio dei tuoi genitori perché così un giorno nessuno avrebbe potuto dirti che eri un immigrato, che non eri davvero Americano, non avrebbero potuto dirti niente perché il tuo accento era più yankee della Statua della Libertà.
Alle volte Raphael si era domandato perché i suoi genitori fossero andati via da casa loro se poi la ricercavano in ogni angolo della Grande Mela, perché fossero arrivati a New York se poi cercavano di vivere come si viveva a Tetela. Perché fossero così attaccati a delle tradizioni vecchie e di un altro paese invece di vivere a pieno quelle del luogo in cui si trovavano.
Questo l'avrebbe capito con il tempo, certo, con la nostalgia che si impara a conoscere da adolescenti e poi da adulti, ma quando andava davanti all'Angelo assieme a suo padre ancora non ci riusciva, ancora non vedeva l'importanza di un luogo simbolico che gli potesse ricordare casa, che potesse ricordagli chi amava e ora non c'era più.

Camminare per quel sentiero asfaltato gli procurava sempre una sensazione di nausea che cercava di ignorare, pensare a quanto facesse schifo la vita, quanto ogni singolo posto di quella città gli ricordasse suo padre, i suoi zii e cugini persi durante quegli anni, gli amici, Pierre e Ragnor, tutto ciò non lo aiutava minimamente. Checché ne dicesse sua madre la fede non leniva il suo dolore, la vendetta lo metteva a tacere per poco. Il ricordo ti uccideva lentamente giorno per giorno.
C'era stato un tempo in cui Raphael aveva amato davvero tanto il Natale, poi suo padre era morto, lui era cresciuto e andare al cimitero era diventato solo un puro atto di masochismo. Un tempo lo tediava e basta, era noioso anche se poi si divertiva con l'ingenuità che solo un bambino può avere, a leggere i nomi sulle lapidi e studiare i volti nelle foto.
Ora non gli piaceva più, ora quei volti, quei nomi, quelle date, lo risucchiavano solo in un vortice di nero e doloroso supplizio.
Avanzò dritto verso il settore latino senza curarsi minimamente di seguire la strada principale, ma tagliando per le viuzze laterali che costeggiavano quei tovaglioli d'erba costellati di lapidi di colori diversi. Già da lì poteva scorgere la testa dell'angelo, l'aureola di metallo levigato, unica macchia di colore su quella pietra grigia. Più avanzava e più la statua diventava grande, imponente, quasi minacciosa, ma Raphael le lanciò un'occhiata quasi di scuse, da lei sarebbe arrivato dopo.
La sua prima tappa era, come sempre, la tomba di suo padre, una pietra rettangolare con la sommità stondata al cui centro spiccava una croce e la foto ovale di un uomo di circa trentacinque anni. Era morto giovane suo padre, giovanissimo, forse perché si era innamorato giovane, si era sposato ed aveva avuto figli tanto presto. Guadalupe aveva appena dodici anni quando aveva conosciuto Elija, ne aveva diciassette quand'era rimasta incinta di José, venti quando era arrivato Cristiano, ventidue quando era rimasta incinta dei gemelli e aveva deciso, con il marito e tutta la sua famiglia, di cercare fortuna in America, perché il loro paese non poteva offrirgli null'altro se non violenza e sangue, in un periodo in cui la politica era questione di vita o di morte, dove le idee dovevano esser tenute segrete ed enunciate solo se seguivano la logica dei leader.
Con una nota di tristezza Raphael ricordò per l'ennesima volta che suo padre non era riuscito più a vedere il panorama che da ragazzino scorgeva dal tetto di casa sua, che la famiglia Santiago non c'era più tornata in Messico ma che ugualmente le loro idee, i loro principi, li avevano posti su un lato o sull'altro della barricata, di una qualunque barricata.
Sorrise a suo padre, un sorriso che non giunse agli occhi e neanche gli scaldò il volto, solo un semplice tendersi di muscoli facciali. Si sporse per spolverare via la neve dalla lapide ed alzò gli occhi al cielo quando scorse la pianta grassa posta vicino al basamento di pietra. Sua madre continuava a dire che se quelle piante resistevano al freddo del deserto potevano farlo anche alla neve. Raphael aveva rinunciato a discuterne e si limitava a chiedere al guardiano di mettere una protezione di plastica attorno al cuscinetto spinoso.

<< Feliz Navidad, papà. >>

Carezzò stancamente la foto del padre e provò ad accennare un altro sorriso, stringendosi poi nel cappotto scuro e abbassando la testa per pregare sommessamente per lui.
Rimase lì fermo a fissare il suo volto per un tempo indefinito, finché non cominciò ad avvertire il freddo penetrargli nelle ossa, solo a quel punto salutò un'ultima volta suo padre e poi se ne andò, strusciando i piedi sul terreno, portandosi via la neve e quei pochi sassolini che di tanto in tanto si trovavano per la strada.
Alzò la testa solo quando vide l'ombra dell'angelo, quando il vento si quietò un minimo scontrandosi con la veste petrosa. Il suo piedistallo era sempre lo stesso, lucido e levigato, ma inciso da molti più nomi, moltissimi di più rispetto a quanti ne ricordasse Raphael. La prima volta che l'aveva visto, la prima da che ne aveva memoria, solo la lastra frontale era scritta e neanche per intero ma circa per due terzi, ora invece erano ben due le lastre completamente scritte e la terza ospitava una decina di piccole e fitte righe, lettere che riportavano nomi e date, nulla di più, nulla di meno.
Raphael sorrise mesto all'angelo dal volto triste e poggiò la mano sulla pietra fredda, osservando da basso la scultura come se cercasse di scorgere il suo sguardo celato dietro le palpebre chiuse.
Anche lui era sempre lo stesso, con i suoi lineamenti morbidi ma decisi, pareva un fanciulletto bloccato per sempre nella sua pubertà, o una giovane donna di forse una ventina d'anni, il problema degli angeli era che non avevano sesso, ma Raphael le aveva sempre dato del “lei”.
Forse era per colpa della sua famiglia, perché lì chi ti consolava, chi ti abbracciava e si inginocchiava per pregare per i defunti, chi si faceva carico anche del tuo dolore per insegnarti a sopportarlo o per togliertene un po' dalle spalle erano sempre state le donne.
Quello sarebbe potuto essere il volto di sua madre da giovane, quando aveva pianto lacrime amare nell'abbandonare la sua città, quando si era riboccata le maniche e stretto i denti per non far vedere a suo marito quanto le faceva male aver lasciato indietro una vita intera, per non fargli pesare quel viaggio che avevano deciso di intraprendere di comune accordo per dare un futuro migliore ai loro figli, a lui.
Quella poteva essere sua madre, poteva essere sua nonna che li aveva salutati da lontano nascondendo le lacrime per non dar più tristezza a figlio e nuora. Poteva essere una delle sue zie, delle sue cugine, delle sue nipoti che non facevano gli stessi lavori “di fatica” degli uomini di casa ma che sopportavano molto di più, che li crescevano loro stessi quegli uomini mentre i loro andavano a rischiare la vita, a lavorare in nero, a far ciò che gli “americani” non volevano fare.
Raphael avrebbe potuto intavolare un discorso lunghissimo su come non fosse denigratorio per la parte femminile della sua famiglia rimanere a casa con i figli, perché principalmente non facevano solo quello ma riuscivano anche a trovare la forza per fare due lavori, aiutare la famiglia e tenere in piedi un condominio intero, e poi perché se lui, i suoi fratelli ed i suoi cugini erano potuti andare a scuola e all'università, se i suoi zii potevano uscire la mattina e tornare la sera sicuri che al resto della famiglia non sarebbe successo nulla in loro assenza, tutto questo, era merito delle sue donne.
Riflettendoci forse era proprio per via di modelli così forti che Raphael non era mai riuscito a trovare una donna che lo attirasse, che fosse all'altezza di tutte le altre che c'erano nella sua vita da sempre.
Inclinò la testa cercando una nuova angolazione per guardare l'angelo.
Quello poteva anche essere il volto della madre di Ragnor, quando lo guardava sofferente passare le estati a lavorare perché lei e suo marito non riuscivano a guadagnare abbastanza per permettersi l'accademia. Poteva essere il volto della madre di Magnus quando lo vedeva discutere con suo padre e far finta che la sua presenza altalenante non lo facesse soffrire. Poteva essere quello della madre di Catarina quando la ragazza le aveva detto che sarebbe diventata infermiera e che si sarebbe presa cura di lei. Poteva essere Catarina stessa, che guardava tutti loro con quell'aria malinconica di chi vorrebbe starti vicino ma non può entrare -non glielo avevano mai permesso- nel tuo stesso mondo.
Poteva anche essere Lily che fissava i suoi cugini, i suoi uomini, cercando di fare il massimo per essere alla loro altezza, per essere come loro, senza mai riuscirci del tutto.
C'erano centinaia di visi di donna, ma non solo, che si rincorrevano nella mente di Raphael al sol guardare quell'angelo. Gli faceva visita il volto pallido ed etereo di Camille e poi quello sereno ma triste di Pierre. C'era qualcosa che gli ricordava lo sguardo d'impotenza di suo fratello José, quando si schierava davanti a loro per proteggerli, conscio che comunque le avrebbe prese sia lui che Cristiano da quei teppistelli che si credevano più forti di loro solo perché nessun accento macchiava la loro voce. C'era la preoccupazione dei gemelli, che si guardavano le spalle a vicenda con la costante ansia di non esser abbastanza attenti, di non arrivare in tempo.
Se voltava di poco il capo vedeva la faccia falsamente calma e strafottente di Magnus, quella gentile di Ragnor che gli metteva una mano sulla spalla dicendogli che non doveva fingere di essere forte davanti a lui. Poteva vedere il volto di Malcom che sorrideva paterno a tutti loro malgrado avesse a mala pena undici anni quando era entrato nel mondo oscuro che tutti loro vivevano ogni giorno.
Stava per distogliere lo sguardo, troppe persone si stavano accavallando su un unico viso, quando la pietra congelata gli parve quasi bianca, diafana sotto le luci artificiali. Eppure il cappuccio dell'angelo gettava nere ombre sulla sua fronte, come ciuffi di capelli scompigliati, dandogli un'aria terribilmente famigliare.
Raphael sorrise mesto e scosse la testa: quel cretino aveva ragione, il detective pareva proprio un angelo inquisitore. O per lo meno somigliava parecchio a quello che vegliava il cimitero latino.
Fece qualche passo in direzione della statua e vi girò attorno, posando la mano sulla lastra liscia e fredda, apprezzando la sensazione della pietra intagliata sotto i polpastrelli.
Si fermò all'ultima lastra scritta, quella posteriore, per salutare un nome che lì vi era solo per merito onorario visto che il suo corpo si trovava in quello stesso cimitero.
L'incisione era fresca dell'anno passato e portava il nome di un uomo, un giovane uomo, che durante la vita era stato il suo ago della bilancia, quello della sua bussola.
Ragnor Fell lo aveva compreso ed accettato come pochi, pochissimi avevano saputo fare.
Non che Raphael non avesse persone che lo amassero e che lo accettassero per ciò che era, il problema non era lì, assolutamente: il problema era la comprensione.
Fin da quando si erano incontrati la prima volta, quella vera non quando si era fatto tutto il Queens a piedi per riportare indietro quel coglione di Magnus fino a Brooklin, Ragnor si era subito rapportato a lui con gentilezza e genuinità. Non c'era mai stata una volta in cui gli avesse fatto pesare i suoi anni in più, in cui avesse fatto “l'uomo della situazione”. Aveva rispettato i suoi silenzi, il bisogno di spazio. Aveva capito quando gli dessero fastidio i commenti sulla sua religione – quanto non riuscisse ad accettarli al tempo anche se capiva che fossero solo battute e anche come ancora faticava a tollerarli-, quanto fosse importante sua madre per lui ma che questo non lo rendeva automaticamente un mammone come Bane si ostinava a ripetere quando avevano quindici anni. Ragnor aveva sempre capito, aveva questa magnifica dote di saper scorgere tutti i lati di una persona e di riuscire ad accettarli senza la presunzione di cambiarli… una dote rara, davvero rara. Qualcosa che l'aveva fatto sentire al sicuro, protetto, capito ed accettato come solo Pierre prima di lui era riuscito a fare.
Glielo avevano chiesto tante volte cosa ci fosse stato tra lui e Ragnor, sentiva gli sguardi dei suoi amici sulla pelle quando arrivava una ricorrenza particolare o quando veniva nominato l'uomo, ma Raphael non cedeva, non cedeva mai e rimaneva in silenzio.
Cosa c'era stato tra loro due?
Spiegarlo sarebbe stato complicato, davvero troppo. Ad onor del vero ci sarebbe stato un modo veloce e diretto per farlo ma, come diceva sempre suo nonno, per far capir le cose bisogna che ad ascoltarci ci sia qualcuno che possa comprendere le nostre parole.
Lui ne aveva solo due di persone del genere, tre se voleva contare anche sua madre, ma né Lily né Camille gli erano mai andate a chiedere nulla.
La piccola, ora non più così piccola, Chen lo sapeva: in un modo o nell'altro avevano finito per crescere assieme, forse perché i loro fratelli si frequentavano, forse perché quel tornado cromaticamente accecante di Magnus aveva finito per travolgerli entrambi, rimaneva il fatto che a Lily era bastato guardarlo quando il suddetto Bane se ne era uscito con quella domanda scomoda, ed aveva capito tutto immediatamente.

C'era qualcosa tra te e Ragnor? Oh, capisco, lo so Raph, mi dispiace.

Non aveva aperto bocca eppure questo era quello che si era sentito rimbombare nella testa Raphael quando quegli occhi neri e gelidi l'avevano sfiorato.
Con Camille era stato il contrario, non c'erano state domande dirette ma risposte.
 

<< Dicono che in momenti come questi è essenziale aver vicino qualcuno che amiamo.>>
<< Mi stanno tutti con il fiato sul collo, ne ho anche troppe di persone amate attorno.>>
<< Almeno non sei solo.>>
<< Ragnor mi aiuto più degli altri.
>>
<< Bene.>>
<< Non è Pierre però.>>
<< Lo so, nessuno è Pierre.>>

 

E sì, lei era davvero l'unica che lo sapeva, malgrado avessero passato anni a litigarselo come bambini, facendosi dispetti stupidi, facendo saltare relazioni e accordi solo per allontanare il giovane dall'uno o dall'altra. Dio, avevano fatto così tante cazzate per quel ragazzo, Magnus al tempo glielo rinfacciava in continuazione, diceva che non poteva vederlo quel “biondastro” anche se poi in verità lo apprezzava. Perché era matematicamente impossibile che qualcuno odiasse Pierre, persino i suoi rivali lo adoravano.
Magnus lo adora. Catarina lo adorava. Ragnor lo adorava. Asmodeus lo adorava. Lily, sua madre, i suoi fratelli, il Clan. Camille.
 

Io. Io lo adoravo più di tutti. Lo adoravo come un fedele adora il suo Dio Sole.

Persino la morte amava follemente Pierre e alla fine era riuscita a prenderselo prima di tutti gli altri. Ma non prima di lui.
Era stato devastante perderlo, era stato come morire assieme a lui e lì Raphael aveva compreso come doveva essersi sentita sua madre e Guadalupe aveva capito lì quando suo figlio avesse amato quel ragazzo, rivedendo in lui lo stesso dolore struggente che l'aveva colpita quando quel poliziotto aveva bussato alla sua porta per dirle che suo marito era morto durante una sparatoria tra gang e che suo figlio era rimasto illeso. Solo che al tempo lei aveva avuto la gioia di poter riabbracciare un piccolo Raphael, traumatizzato sì, ma salvo. Raph non aveva avuto nulla per cui ringraziare.
Quel vortice nero era stato la sua vita per troppi mesi, giornate cupe e dense in cui nessuno riusciva ad entrare, a farsi spazio, dove l'oscurità era troppo densa e la puzza del sangue ancora impregnava ogni oggetto, ogni superficie. I suoi fratelli, la sua famiglia, i suoi amici, nessuno di loro era riuscito a metter la testa nella sua tana, finché un giorno Raphael non ne aveva potuto più di sentirli bussare alla porta ed aveva aperto la finestra per fuggire via. Lì, seduto proprio sulla scala antincendio aveva trovato Ragnor, che studiava Dio solo sapeva cosa per quale colpo e che ebbe anche la faccia tosta di sorprendersi nel ritrovarselo davanti.
Era andato lì a studiare perché sapeva che nessuno l'avrebbe disturbato, perché così nessuno sarebbe andato a scassinare la finestra di Raphael e lui avrebbe potuto continuare a star lì nascosto come più preferiva.

<< Io studio meglio, sai che mi piace l'aria aperta, in più così i tuoi cugini non possono decidere di entrarti in stanza dalle scale antincendio, perché ci sono io e mi disturberebbero, ma se al contempo dovesse servirti qualcosa io sono qui fuori, a due passi da te. Anche solo per sapere che sei solo ma non sei solo, semplice no?>>

Sì, semplice diceva lui, ed in effetti lo era. Lo era sempre stato con Ragnor, così come lo era sempre stato con Pierre. Ma non erano uguali, non lo sarebbero mai stati, mai e poi mai.
Doveva molto all'amico, a quell'anima forte e gentile che l'aveva stretto nel momento del bisogno ed andare a spiegare ad altri cosa li legasse, quale fosse il loro rapporto, cosa significassero quelle carezze che Rag gli posava in testa e quanto significasse per Raphael potersi poggiare a lui in un attimo di debolezza… questo sarebbe sempre stato impossibile da dire.
Perché Raphael doveva moltissimo a Ragnor, gli voleva un bene dell'anima, lo amava come amava la sua famiglia ma non era Pierre. Questo l'aveva sempre saputo lui e pure Ragnor stesso.
Andarlo a dire a Magnus, a Catarina, a Malcom… non avrebbe avuto senso.
Non per loro, non per lui.
Forse un giorno avrebbe incontrato qualcun altro pronto a comprenderlo, forse come Ragnor, mai come Pierre, ma per ora gli bastavano gli occhi d'ossidiana di Lily, lo sguardo di ghiaccio crepato di Camille e le occhiate comprensive e silenti di sua madre.
Il nome di Ragnor Fell era scritto con lo stesso stile stampato di tutti gli altri nomi, la sua data di nascita non era importante, quella della morte serviva a ricordare quanti giorni erano passati senza di lui.

<< Feliz Navidad a ti tabién, Rag.>>

Sarebbe passato anche a spolverare la sua tomba, ma il saluto vero e proprio sarebbe andato a farlo con Catarina e Magnus il 24 a pomeriggio, si erano messi d'accordo per quello e per andare a dar una pulita alla tomba dei genitori del loro amico, così come a quella della madre di Catarina. Sapevano tutti e tre che i custodi si prendevano cura di quelle lapidi con molta attenzione, la stessa che permetteva al cactus vicino alla lapide di suo padre di non morire congelato, peccato che invece del nome “Santiago” e del supporto tra latinos, ciò che spingeva quegli uomini a non lasciar mai una sola foglia sulle tombe di quei comuni cittadini americani senza né arte né parte era il terrore e la potenza dei Bane.
Che Asmodeus vegliasse sul sonno eterno del migliore amico e dei genitori dei migliori amici di suo figlio non era un mistero per nessuno, così come non lo era stato il funerale di Ragnor tutto pagato, la pompe funebri che aveva servito il Presidente, la bara di legno pregiato al cui interno era stata dipinta la notte stellata di Van Gogh. Nulla era stato un caso e Raphael l'aveva apprezzato sempre tantissimo, quasi più di quanto non facesse Magnus stesso, che vedeva quelle azioni come un mero tentativo di renderlo felice in ogni modo possibile immaginabile seppur non, banalmente, nel modo in cui Magnus avrebbe voluto: con la presenza di suo padre al proprio fianco.
Con un sorriso amaro si disse che tutti loro non si accontentavano mai di ciò che avevano, proprio come dei bambini, proprio come quando erano bambini.
Passò un'ultima volta la mano sul nome di Ragnor e gli dedicò un piccolo cenno del capo. Lasciò che le dita continuassero a rimanere in contatto con la pietra e tornò verso la parete di sinistra, piazzandocisi davanti per poi piegarsi sulle ginocchia.
Lì, nella fascia centrale, ben scritto come tutti quegli altri nomi, c'era quello della persona che più aveva amato al mondo.
Lui, Raphael Santiago, che amava. Questa sarebbe stata una battuta bella e buona che avrebbe fatto scoppiare a ridere tutti se fatta alla cena di Natale. Tutti tranne sua madre, Lily, Quinny e anche tutti coloro che sapevano. Avrebbero ridacchiato dandogli del cuore di pietra ma nulla di più, non avrebbero detto che fosse incapace di amare, solo che non vi riuscisse più e lì si sarebbero fermati.
Il suo sorriso divenne un po' più largo, si addolcì come la piega delle sue labbra, come il suo sguardo quando si posò su quell'ultimo brandello di ricordo che si ancorava materialmente a quel mondo infame, a quel purgatorio in cui erano tutti costretti a vivere, combattere e morire.
Se solo avesse potuto avrebbe scelto una grafia più morbida, come lo era la voce di Pierre, più raffinata come lo era la sua persona, più elegante come i suoi modi, più bella come lui. Ma non si poteva fare, sulla stele dell'Angelo dei Latinos tutti erano uguali, tutti venivano segnati per essere ricordati da chi li aveva amati e proprio come sarebbe successo davanti a Dio nessuno di loro avrebbe avuto un trattamento di riguardo, tutti sarebbero stati visti per quello che erano: anime amate e perdute per sempre a cui non era stato concesso di trovare un giaciglio in cui riposare per sempre.
Raphael chiuse gli occhi e poggiò la fronte contro quel nome che tanto stonava in mezzo a tutti quei suoni spagnoleggianti ma che certo non era l'unico “straniero” lì in mezzo. Oltre a Ragnor nella lastra successiva vi erano sparsi ovunque nomi locali, altri del lontano Est Europa, nomi Italiani e Greci, qualche nome arabo di un'anima che non avrebbe mai visto le stesse porte del paradiso che avrebbe visto loro, ma che ugualmente aveva avuto la forza, l'importanza e la motivazione più valida – spesso amore, rispetto, fratellanza, affetto- di esser segnata tra i loro amici, in memoria loro e di ciò che aveva fatto, perché troppo distante era il suo corpo da coloro che aveva chiamato famiglia.
C'erano nomi di ogni tipo, sparsi tra quelli latini, e Raphael ne era felice a modo suo, anche se quello di Pierre era l'unico francese lì in mezzo.

<< È arrivato un altro Natale, non so se potrò sopportarlo.>>
Rimase in silenzio come in attesa di una risposta che sapeva non sarebbe mai arrivata.
<< Non ho molta voglia di festeggiare, come ogni anno, ma me la farò venire, màma non apprezzerebbe. Accende sempre una candela anche per te. Mio cugino Daniél è andato in Europa e màma gli ha chiesto di andarti a trovare. Poveraccio, era in Portogallo, si è dovuto fare un viaggio extra ma a màma nessuno dice di no, lo sai.>> Sospirò, il freddo cominciava di nuovo ad entrargli sottopelle, doveva muoversi un po' per scaldarsi ma non gli andava di interrompere l'unico contatto che poteva aver con lui, seppur fittizio ed effimero.
<< Sono andato a trovare papà, come mi dicevi sempre di fare. Hai ragione, più passa il tempo e più è facile, se continuo a farlo con costanza magari migliorerà sino a diventare quasi piacevole. No, non lo sarà mai, è ovvio. Anche da morto mi stimoli a dire cose senza senso, grazie davvero Pii. >> Sorrise al solo pronunciare quel soprannome stupido e così personale. Chi altri chiamava con qualche nomignolo del genere? Solo i suoi nipoti forse e solo perché avevano gli stessi nomi di tanti altri parenti e quello era l'unico modo per distinguerli.
<< Mi manchi.>> soffiò fuori piano.
Aprì gli occhi e li puntò sul suo nome, che vedeva sfocato per via della vicinanza alla lastra. Avrebbe quasi voluto posarvi un bacio, ma Raphael non era una persona così romantica, aveva già esternato fin troppo i suoi sentimenti con quella sterile ed inutile chiacchierata alla pietra, non aveva intenzione d'entrare in contatto con tutto lo sporco ed i germi che potevano esserci lì sopra. E che avesse rovinato il momento sentimentale con quel pensiero 'fanculo, Pierre era morto, non c'era più, l'aveva lasciato solo, senza nessuno, senza di lui. Gli mancava così tanto…
Si tirò indietro e sospirò pesantemente, il suo volto piatto ed inespressivo come la fredda pietra su cui si era appena poggiato, a cui aveva parlato neanche fosse tesoriera delle spoglie mortali di quell'anima che era stata tanto affine alla sua, che era stata la sua anima gemella forse ma che ormai era persa per sempre.
Si ricompose con gesti secchi, mettendo in ordine pieghe immaginarie che non c'erano sul suo giaccone scuro e posando un'ultima volta, per quell'anno, la mano sul nome di Pierre.

<< Lo mismo te deseo, mi àngel.>>

Poi si voltò e tornò sui suoi passi, l'ultimo saluto fu all'altro angelo, quello di pietra che proteggeva e manteneva il ricordo di quell'altro suo fratello, così bello da esser reclamato tra i cieli prima che fosse giunta la sua ora.
Raphael non aveva mai sentito così tanto freddo come quando il suo sole si era spento.



<< È un bel giorno per morire. È proprio un bel giorno per morire.>>



Non c'erano più state giornate così belle nella sua vita.


 























 

Salve e buon Natale in ritardo. Buon anno anche e pure buona Befana.
Questa storia doveva arrivare un po' prima di oggi ma purtroppo per me sono sfigato da morire, a questo proposito vorrei ricordare a tutti di votarmi come persona più sfortunata dell'anno, davvero, sono classificato su piano mondiale, da non crederci. Alla premiazione terrò un discorso commovente come una vera reginetta di bellezza, votate per Bis, Bis Mr Sfiga 2018.
Lasciando da parte il mio becero sarcasmo, questo è un estratto della storia di Raphael, che forse non si era capito abbastanza bene ma è uno dei miei personaggi preferiti, nonché un oc di importanza rilevante nel secondo atto di questa storia un po' lunga ed un po' articolata.
Come avrete notato, o forse no non lo so, io personalmente ste cose me scordo sempre de controllalle quando apro una storia, spero che voi siate più attenti di me, questa è una raccolta, ovvero saranno storie tutte scollegate tra loro, più o meno.
Ogni capitolo sarà dedicato ad un personaggio e ad un momento della sua storia personale, quindi se qualcuno avesse preferenze sul prossimo protagonista non ha che da chiedere.
Si ringrazia il gentile pubblico per l'attenzione e alla prossima gente.
Yo.
TCotD.

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Capitolo 2
*** Bad Christmas ***



Christmas Carol.

 
 

Parte Seconda.
Bad Christmas.



-Un Disastroso Natale: come rovinare la Vigilia e tutte le feste a venire provocando silenzi pesanti, imbarazzanti, dolorosi e soffocanti per mesi rendendo casa e vita un invivibile inferno in terra.
Saggio e argomentazioni a cura di Alexander Gideon Lightwood.

 


Dicembre 2005.

 
La vita fa schifo, il mondo ti odia e la maggiore parte delle volte la cosa migliore da fare è fingere che tutto vada bene ed ignorare ciò che ti accade.
Regole base per la sopravvivenza quando tua madre decide tutto della tua vita perché sei sempre stato un bambino ubbidiente e hai sempre cercato di accontentarla, finendo di conseguenza con il rinunciare all'atto pratico a tutto quello che desideravi perché “non era quello che ci si aspettava da te” e perciò sia mai che tu faccia qualcosa di sbagliato che ehi! Non fa del male a nessuno ma non è quello che tua madre voleva per te, quindi nulla, accettalo e sta zitto.
Aggiungere aggravante se poi, poco poco, lei ha già deciso con chi dovrai fidanzarti, quando farete sesso per la prima volta, come le chiederai di sposarti, dove vi sposerete e quando e quanti figli avrete prima o dopo che tu sia diventato un avvocato di successo che, guarda tu il caso beffardo, non vuoi diventare.
Aggiungere aggravante se, mannaggia, guarda che peccato, che disdetta, il caso, i disegni del Fato, il karma, l’allineamento delle stelle, Nostradamus, il volo degli uccelli, la sfera di cristallo, il calcolo probabilistico, non ci voleva proprio, ops, sei gay.
Gay da far schifo. Ricorda che hai rischiato di morire disidratato davanti a quella foto di quell'attore in mutante, e ricordati pure che ti ha girato la testa e sei quasi svenuto la prima volta che il tuo ragazzo ti ha fatto un pompino. E ricordati anche che ti ha letteralmente dovuto chiudere la bocca la prima volta che lo hai visto nudo. E che non dovresti pensare al tuo ragazzo nudo, che ti fa un lavoretto con i fiocchi mentre tua madre ti parla della borsa di studio per il college per andare a far giurisprudenza. Non sarebbe molto carina come cosa.
Ma poi, in tutto ciò, come ci sei arrivato a tutto quel ben di Dio che ti stai immaginando?
Per l'amore del cielo Alexander! Ben di Dio! Davvero? Sei serio? Non lo vedi da quanto? Cinque giorni? È solo andato a prendere sua nonna fuori città, vi rivedrete per il ventisei, su, su, non sbavare così in questo momento. Dio, che imbarazzo, per fortuna non ci sono Jace o Izzy in giro o avrebbero già capito tutto.
Cosa stavamo dicendo prima? Ah, sì, vero:
Regole base per sopravvivere se tua madre ti organizza la vita perché crede di poterlo fare perché sei sempre stato fin troppo ubbidiente da bambino e perché non pensa che tu possa voler qualcosa di diverso da quello che vuole lei e che magari l'idea di diventare avvocato, avere una ragazza e farci roba ti disgusta in modo terribile.
Ecco, ora invece che l'acquolina in bocca hai la nausea, magnifico, davvero maturo da parte tua. No, per favore, smettila di pensare alle ragazze! E che cazzo, ma come fa Jace? Davvero, le donne sanguinano ininterrottamente cinque giorni -minimo- al mese ogni mese dell'anno e sopravvivono, provano dolori atroci e sopravvivono, generano vita, la espellono da un buco che eddai! Riesce a dilatarsi fino a dieci centimetri e poi tornano come prima e tanti cari saluti e se volessero potrebbero anche rifare tutto da capo e spesso lo fanno! Come può non far impressione? Va bene tutto, madre natura e cose così, però no. Non sono umane, le donne sono di un'altra razza, per questo si chiamano donne, no?
Okay, suonerebbe terribilmente sessista fuori dalla sua testa ma ringraziando il cielo lui capisce il senso dei suoi stessi discorsi e può non reputarsi sessista e misogino.
Rimane il fatto che non si fida di un organo come la vagina, no, non lo fa, si riempie di sangue, ha emorragie spontanee in pratica, si fa colonizzare dalla vita e Alec è convintissimo che la razza umana sia il problema principale della razza umana e del mondo stesso, quindi è completamente contrario alla riproduzione. Ecco, l'ha detto, è contrario alla riproduzione!
Se è così quindi, perché sua madre crede che un giorno lui vorrà aver un figlio, ma soprattutto, perché crede che lui, un giorno, metterà spontaneamente qualcosa di sé dentro quell'organo di satana che lo ha malauguratamente generato?
Questa sembra ancora più terribile della cosa del sessismo, Dio, oggi non ne azzecca una.
Oggi poi? È tipo da tutta la sua vita che non ne azzecca una, poi i suoi fratelli gli chiedono perché è così chiuso e che problema ha.
Volete una lista? Avete tipo un paio di giorni da sprecare? Se andasse da uno psicologo quello dopo un po' scoppierebbe a piangergli davanti, scapperebbe, si butterebbe dalla finestra o forse, se fosse abbastanza professionale e con i nervi abbastanza saldi, gli direbbe che lui non tratta casi clinici neurologici come il suo.
E tanti cari saluti, la ringraziamo per aver scelto il nostro studio per capire se ha dei problemi e se non è normale, il nostro responso è: no, non è normale, ma già è nato in una famiglia perfetta, perché oltre che avere dei bellissimi complessi d'inferiorità, esser timido da far schifo, non aver nessuna cazzo di dote particolare che possa distinguerla dalla massa, non diventa anche gay e fotte allegramente tutti i sogni dei suoi genitori e la piccolissima, infinitesimale possibilità di avere una vita normale e felice? Ci pensi su, signor Lightwood, magari scopre che ci sono anche altri modi per peggiorare la situazione. Com'era?

Potrebbe andare peggio.”
“Come?”
“Potrebbe piovere.”
- inizia a piovere-
Cit.


E dopo questa amabile citazione arrivederci e grazie. Siete ufficialmente pazzo.
Se solo normalmente, in pubblico, con le altre persone, avesse anche solo la metà, no, anzi, un decimo della fottuta parlantina da flusso di coscienza che ha in mente, probabilmente sarebbe la persone più spigliata della famiglia. Il che è tutto dire. Ma ovviamente dobbiamo anche essere dei dannatissimi timidi repressi taciturni che mettono paura alla gente solo a guardarla, magnifico.
Questa cosa che passa dal darsi dell' “io” al singolare al darsi del “noi” come se stesse parlando con qualcun altro nella sua testa non è bello, non è salutare crede, probabilmente lo fanno tutti, si dicono “dobbiamo” perché intendono loro e il loro corpo, dove loro sono la coscienza ed il loro corpo il loro corpo e quindi dicono che “loro devono” fare qualcosa e cose così e come diamine pretende sua madre che vada a fare giurisprudenza se odia parlare con ogni forma di essere vivente umano se non poche pochissime persone sulla faccia del pianeta, si impiccia da solo, salata gli argomenti, si perde, non sa di che cazzo stava parlando ma come c'è arrivato qui lo vorrebbe proprio sapere.
Ugh, la sua coscienza fa schifo al cazzo quasi come il nuovo amico dei suoi fratelli.
E sta usando decisamente troppe parolacce.
Ma tanto è nella sua testa e nessuno lo sente.
Ma perché sta pensando a queste cose? Come c'è arrivato a ricordare tutti i difetti infiniti che ha? Che poi, tecnicamente, se sono infiniti lui non li può mica contare tutti, giusto? Giusto.
Quindi nulla, non saprà mai quanto fa schifo in totale ma il semplice fatto di aver così tanti difetti da non poterli elencare tutti in vita rende l'idea del disagio profondo in cui vive. E ha solo diciotto anni, pensa che farà a venti, si suiciderà probabilmente o almeno ci proverà ma visto che non è bravo in nulla non lo sarà neanche in quello e quindi si parlerà di tentato suicidio ma non  di avvenuto.
Chissà se anche agli altri dà fastidio parlare con il tempo verbale sbagliato nella propria testa, o cominciare con il presente, poi passare alla terza persona al futuro e poi alla singola al passato. Spera proprio di non dover affrontare altri esami di grammatica come faceva alle medie. Era bravo in quello però, se la cavava a lettere.
Alexander mise i piatti sul tavolo già coperto dalla tovaglia e sospirò pesantemente. Era a mala pena il pomeriggio del 24 dicembre e lui già stava uscendo fuori di testa, solo due giorni di vacanza e già stava impazzendo.
Sua madre continuava a parlare, di cosa di preciso non avrebbe saputo dirlo, c'entrava la borsa di studio per il college, per giurisprudenza, e alcuni dei figli dei suoi colleghi che andavano proprio a quello stesso istituto. Harvard? Stava parlando di quello? Ma era lontano, dio santo, voleva spedirlo a Boston? Ma come c'erano arrivati?

«I Branwell tesoro, ti ricordi? Hanno una figlia.» disse Maryse trafficando con le pentole.
Alec avrebbe solo voluto spararsi sinceramente, ricordarsi di Lydia che era brava in tutto e capace di mandarti a gambe all'aria con un singolo colpo non era proprio la sua idea perfetta di Natale. Anche se lui, lungo per terra, non ce l'aveva mai mandato. Forse perché era alto quasi venti centimetri più di lei o forse perché la sua massa muscolare era decisamente più sviluppata di quella della ragazza. Tutti quegli anni di nuoto e di tiro con l'arco gli avevano dato una bella potenza nelle braccia, del torso e nelle gambe. Un po' ovunque in effetti.
«Ricordi, Alexander?» insistette la donna.
«Sì mamma.» rispose monocorde, svogliato e per nulla felice di quella conversazione.
Da quando aveva compiuto gli anni, quei fatidici diciotto che non erano l'età giusta per bere ma erano comunque un traguardo importante, sua madre aveva iniziato a parlargli di futuro e non nel banale modo che faceva da tutta la vita, spingendolo verso la sua stessa carriera, assolutamente no: Maryse aveva cominciato a parlargli di relazioni, di uscire con qualche ragazza, di conoscere le figlie dei suoi colleghi, degli amici.
Tirava costantemente in ballo Jace: “Perché non esci con qualche compagna come tuo fratello? Non devi essere timido Alexander, sei un bel ragazzo, hai una bella presenza, sei educato e colto, se solo parlassi un po' di più, se ti esponessi. Alle ragazze piacciono i “tenebrosi” ma poi voglio scoprire cosa c'è sotto, dai a qualcuno l'opportunità di farlo. Non ti dico di cambiare una ragazza al giorno come fa tuo fratello, quello no, Jace ha fin troppo charme per i miei gusti, specie sotto questo punto di vista, ma potresti fare uno sforzo. Perché non chiedi ad Isabelle di farti conoscere qualche sua amica? Perché non esci con i tuoi fratelli? Izzy ha delle conoscenze molto graziose. Dovresti provare a fare un po' come i tuoi fratelli.”
Sì Alexander, perché non fai come Jace, lui è perfetto, non lo vedi? È bello, è carismatico, ha tanti amici, è popolare, ammirato, il più figo della scuola che tutti desiderano aver vicino anche solo per un secondo, che cambia una ragazza la giorno e che ha anche il cazzo di charme! Oh, o magari puoi fare come Izzy, che si circonda di amicizie frivole e graziose, magari puoi chiedere a tua sorella di presentarti una ragazzina di quattro anni più piccola di te da farti e poi lasciare, non è il sogno della tua vita quello di sbatterti una quattordicenne e poi andarti a vantare con i tuoi amici strafighi?
Oh, aspetta, quali amici? Ah, ma sì mamma, non te lo ricordi che ne ho? Quelli che mi domandi sempre “ma sono davvero tuoi amici”? No, me lo sogno, li pago ad ore per fingere di avere una vita sociale.
Dio santo, il Natale gli faceva davvero male, o forse era sua madre che parlava di relazione a fargli male, più la seconda, decisamente.
Ad essere onesti Alec si stava domandando come, quando e perché fosse rimasto incastrato in quella situazione.
Sfruttando un momento di pausa nella sua parlantina da avvocato implacabile, e memore anche delle sue continue raccomandazioni sul fatto che “un avvocato va fermato quando riprende fiato, perché prima o poi tutti devono farlo”, Alec si affrettò ad interromperla.
«Gli altri dove sono?» chiese senza alzare la testa dal tavolo dove stava mettendo in ordine i tovaglioli con attenzione maniacale.
Jace sarebbe stato fiero di lui dall'alto del suo disturbo ossessivo-compulsivo per la pulizia e l'ordine.
«Jace ed Isabelle sono a scambiarsi i regali con i loro amici, i figli dei colleghi di tuo padre. Perché non sei andato anche tu con loro?»

Magari tipo perché non ho niente da spartire con quella rompicoglioni di una nana rossa che non capisce un cazzo e ancor meno con quel deficiente balbuziente affetto da logorrea che non riesce a mettere due parole sensate in fila senza passare da un cazzo di discorso all'altro?
Dio… davvero Alexander, questo natale stai facendo schifo, l'ultima volta che hai detto tutte queste parolacce una dopo l'altra è stata- niente, qualche giorno fa, paragone inutile.


Fece un respiro profondo cercando un modo carino ed educato per dire a sua madre che quei due gli stavano sul cazzo più del 99% della gente che orbitava attorno ai suoi fratelli, che per altro erano dei vili traditori infami che l'avevano lasciato da solo con la madre alla mercé dei suoi attacchi sul futuro roseo che avrebbe avuto da avvocato. E per cosa poi? Per andare a scambiarsi i regali con quella piattola  e con il quattrocchi, magnifico, davvero dei fratelli esemplari, e lui che li aveva sempre protetti da tutto e tutti, anche quando non se lo meritavano.
Gettò un'occhiata alla tasca della sua felpa nera, dove sapeva riposare il suo telefono, e sospirò pesantemente: l'avrebbe rivisto a breve, solo un paio di giorni, poteva resistere.
Alle brutte poteva scappare da Seth o da Piper. O dai fratelli Jonson, anche quella era un'idea, Lil Mama non l'avrebbe fatto andar via da quella casa per giorni per presentarlo a tutto il vicinato.
«Sono amici loro mamma, non miei, sarebbe stato stupido presentarmi ad uno scambio di regali quando io non ne ho fatto neanche uno e loro sicuramente non l'hanno fatto a me.» le fece notare alla fine.
«I doni non sono importanti, sarebbe stato un modo per uscire un po' di casa e fare amicizia. Clary e Simon sono dei bravi ragazzi, con delle buone famiglie alle spalle. Per di più Simon ha una sorella maggiore, Rachel, che dovrebbe avere la tua stessa età.»
Ed ecco dove voleva andare a parare, magnifico, non si smentiva mai.
«Mamma, ho degli amici miei, non vedo il motivo per cui dovrei intromettermi tra quelli dei miei fratelli minori.» disse con tono più pesante, calcando la voce su quel “miei” e “minori”, giusto per ricordarle che anche lui aveva degli amici, che non era un disadattato come lei credeva che fosse, che non voleva avere amici così più piccoli di lui – come i suoi fratelli dannazione, gli bastavano già Carla e quegli altri due impiastri- e che era davvero uno schifo che sua madre gli dicesse, seppur indirettamente, che lo credeva uno sfigato senza amicizie e senza alcuna speranza a tal punto da dovergli organizzare la vita sentimentale.

Che per altro ma, la mia vita sentimentale va alla grande, grazie. Non ho bisogno che mi presenti le figlie dei tuoi colleghi perché ne ho già abbastanza di amiche femmine e non ne voglio altre, sono già impegnative quelle e una sorella, basta. Quanto alla mia dolce metà non ti devi neanche preoccupare che la metta incinta, non è magnifico?
Oh, e se poi ti azzardi a tirare in ballo la mia vita sessuale, beh, su quel punto potrei dirti un bel po' di cose che non ti piacerebbero per niente.
Ugh, Seth ha ragione, sto diventando troppo animoso.


Il fatto che Seth avesse detto “animoso” poi era solo un modo per nascondere e dimenticare che Howard gli avesse dato del “depresso da sesso”.
La frase precisa, decisamente più volgare, era stata: «Eddai bello, so due giorni che è partito e già stai in astinenza da cazzo? Ma ce l'ha d'oro?».
La risposta piccata, imbarazzata, arrabbiata e poco matura di Alec era stata invece: «No, ma lo sa usare decisamente bene.»
E qui il discorso era stato chiuso da Sabrina che, scoppiata a ridere, era caduta dal divano.
Grazie a tutti, per aver assistito al primo magnifico attacco d'isteria di Alexander Lightwood, se volete all'uscita dalla sala troverete della t-shirt commemorative. Buona giornata.
Ma finivano tutti in delle situazioni di merda così o solo lui aveva questo magnifico dono? Avrebbe dovuto indagare un po', sì, così si sarebbe tenuto impegnato. Magari poteva basarci la sua tesi di laurea in giurisprudenza che non avrebbe mai preso: “Studio delle percentuali delle grandissime situazioni di merda in cui si trova la gente e che potrebbero sembrar niente ma poi portare addirittura a implicazioni legali”. Anche questo un saggio a cura di Alexander Lightwood.
Se non avesse trovato uno straccio di lavoro avrebbe sempre potuto fare lo scrittore satirico. O il giornalista. Dio, sua madre odiava i giornalisti, sarebbe diventata pazza se avesse scelto quella carriera.
Ma no, per quanto l'idea fosse estremamente intrigante non avrebbe speso la sua vita a fare un lavoro del cazzo come il giornalista, a New York City poi, solo per far venire i capelli bianchi a sua madre prima del dovuto.
Anche se poi si sarebbe potuta fare una tinta.
Però così non avrebbe mai potuto sfoggiare una graduale tendenza al grigio sino a sfumare al bianco.
Ma soprattutto, per l'ennesima volta in quei… dieci? Quindici minuti? Come cazzo c'era arrivato a parlare della possibile tinta di sua madre?
E che diamine le stava dicendo?

«Certo, capisco che ti possa imbarazzare un po' uscire con dei ragazzi più piccoli.»
Quattro mamma, quattro fottutissimi anni di meno. Si che mi imbarazza, grazie.
«Ma i tuoi amici-»
Ho sentito della titubanza su “tuoi amici” madre, non puoi nascondermelo, è inutile che ti schiarisci la voce.
«- non li hai mai invitati a casa, non li ho mai conosciuti.»
Alexander si morse la lingua, per impedirsi di uscirsene con un bel “Fatti una domanda e datti una risposta, madre, secondo te perché non ho portato i miei amici qui a farsi esaminare, essere trattati fin troppo bene e poi, in privato, darti la possibilità di criticarli in modo aspro e deciso?”.
Animoso. Animoso, Alec, sei davvero schifosamente animoso.
Alzò gli occhi al cielo senza farsi vedere, sia mai che le avrebbe dato un motivo in più per dirgli come doveva comportarsi e cosa “non stava bene” fare.

 «Quindi questo implica che non esistano?»

… Cazzo, l'aveva detto ad alta voce?

Maryse si fermò di colpo, congelata da quella domanda fin troppo sincera e fin troppo sarcastica. Alec non poté vedere il moto di sensi di colpa che le animò lo sguardo, ma sentì perfettamente quello schiarirsi la voce tipico di quando era imbarazzata, o peggio: presa in fallo.
«Ma cosa vai dicendo?» chiese evasiva, così falsa che forse persino Jace e Isabelle se ne sarebbero accorti.
Un brivido di rabbia, proveniente dritto da quell'animosità che si stava accumulando in lui, gli fece stringere i pugni e piegare con gesti secchi l'ultimo tovagliolo. La dannata tavola era pronta, aveva adempiuto ai suoi doveri, ora poteva anche andarsene a 'fanculo ovunque volesse, no? Visto che non aveva amici la cosa più logica da fare era chiudersi in camera e dondolare in un angolo buio finché quei due raggi di sole dei suoi fratelli, che avevano amici, uscivano, avevano relazioni e tutte quelle puttanate lì, non sarebbero tornati a casa per mostrargli come un adolescente deve vivere la sua vita. Perché ovviamente anche Izzy e Jace non perdevano occasione per farglielo notare, per cercare di spiegargli come si fa ad essere felici.

Ho una vita sessuale attiva come la tua Jace ed una romantica decisamente migliore di tutte le tue e quelle di Iz messe assieme. Andate al diavolo, grazie, buon Natale e felice anno nuovo.

Era a tanto così dal fare un atto di pure ribellione e sparare nell'home theater di casa Dick in a box a tutto volume, cazzo se non l'avrebbe fatto! Poi voleva vedere se sua madre lo reputava ancora così diverso dai suoi coetanei!
Con un moto di stizza ancora più grande, alimentato dai suoi stessi pessimistici pensieri, Alec si ficcò le mani in tasca, stringendo il telefono come fosse un'ancora di
salvezza e marciò fuori dal salone.

«Nulla mamma, impressione sbagliata.»
Con quelle parole si congedò freddamente e Maryse, per una volta, non ebbe nulla da replicare.


 
La sua camera non era proprio in una posizione ottimale, troppo vicina alle scale, troppo accerchiata da tutti i suoi fratelli e troppo lontana dal bagno. Jace ci metteva un secondo a caracollare lì dentro ed occuparlo per ore per farsi bello, Izzy era troppo rumorosa e strepitante perché Alec potesse imporsi e dirle che sta aspettando da un'ora che quell'altro se ne vada e di Max aveva semplicemente pena. Forse era per questo che suo padre stava cercando di convincere la moglie a fare un altro bagno al secondo piano, ma ciò implicava sempre che qualcuno avrebbe dovuto cedere un po' di spazio della propria camera per assecondare le tubature e, oh!, ma tu guarda il caso, i più vicini erano proprio quei rompi palle dei suoi fratelli di mezzo e nessuno dei due voleva privarsi di tre metri di camera. La cosa che lo innervosiva di più era che, sicuramente, se ci fossero stati lui e Max vicino al dannato bagno, Iz e Jace li avrebbero obbligati ad accettare la cosa.
Si massaggiò la fronte innervosito, quella giornata stava tirando fuori tanto di quell'astio che si covava in petto che ormai attaccava a testa bassa anche i suoi adorati fratellini. E sì, erano adorati, gli voleva un bene dell'anima, avrebbe fatto – faceva – di tutto per loro ma- ma era inutile negarlo, negli ultimi tempi Alec stava provando ancora più gelosia nei loro confronti.
Alec non era stupido, sapeva che lì dentro tutti avevano un peso enorme sulle spalle: due genitori fin troppo facoltosi e importanti, la scuola privata più costosa della Mela… poi c'era lui, che per colpa di quel carattere troppo buono ed educato si era visto porre, da tutta la vita, un’asticella da superare, delle cose da fare per forza per rendere fieri i suoi, per essere il bambino perfetto e permettere a Maryse di dire a tutti quanto ciò fosse vero, per permettere a Robert di mostrare i suoi trofei. Era stato lui stesso un trofeo e lo era ancora, un trofeo che doveva costantemente dimostrare di essere tale.
Per lui erano state le aspettative dei genitori, era stata la figura perfettamente pulita e lucida che gli era stata cucita addosso, che doveva rispettare a tutti i costi: non piangere, non urlare, dì sempre sì, dì no a tutto quello che la società non accetta, fai quello che ti dice mamma, fai l'uomo proprio come papà. Era pesante, terribilmente pesante e opprimente dover essere tutto, tutto, ma non quello che eri davvero.
Per i suoi fratelli era stato leggermente diverso, per loro l'asticella da superare non erano stati i genitori e le loro aspettative, era stato Alexander stesso.
Alec doveva avere voti impeccabili, Jace doveva averne come quelli di Alec se non migliori, ma a quel punto Alec non poteva essere da meno di suo fratello e quindi doveva aumentare anche i suoi. All'equazione si era presto aggiunta Izzy e la sua mente maledettamente matematica, che superava l'ossessione alla precisione di Jace ma non riusciva ad oltrepassare la sua stessa testarda propensione a far tutto e farlo subito, non superava la lungimiranza di Alec e la sua capacità di leggere le cose tra le righe, di vedere collegamenti storici, d'azione, d'intenzione lì dove erano più nascosti e invisibili.
Le conoscenze attente, l'occhio da falco di Alec, il modo in cui riusciva ad imparare le lingue, a comprendere meglio i popoli malgrado schivasse le persone.
La cocciutaggine di Jace, il suo non arrendersi mai, la precisione nel fare ogni cosa, nel farla al meglio anche a costo di sputarci sangue sopra, la sua instancabile forza.
La mente logica e matematica di Izzy,  la memoria incredibile, la velocità dei suoi ragionamenti, dei calcoli, il modo in cui capiva tutto la prima volta che le veniva spiegato.
Si erano ritrovati in competizione senza neanche rendersene conto, ognuno animato dalla necessità di reggere i ritmi degli altri.
La prima volta che Max aveva resettato il pc di Alec per poterci caricare sopra un programma più veloce che gli permettesse di giocare meglio ai videogiochi tutti e tre i fratelli maggiori avrebbero voluto piangere.
O almeno Alec avrebbe voluto. Perché lui la tecnologica la usava, era stato costretto ad imparare a far al meglio anche tutte quelle cose, ma essere un genio dell'elettronica non faceva per lui e viveva spesso nell'ansia del giorno in cui sua madre se ne sarebbe uscita con un: “«Tuo fratello è così bravo con i computer, perché non provi a fare lo stesso?»”.
Con un sospiro pesante Alec entrò in camera, si chiuse la porta alle spalle ed alzò il braccio per recuperare il pacchetto di sigarette nascosto dietro all'infisso di legno.
Constatò con un moto di sollievo che era quasi pieno e lo infilò nella tasca della felpa gigantesca che aveva indosso. Non era della sua taglia, non lo era neanche lontanamente, ma così nascondeva quel corpo lungo e pallido che si ritrovava. Certo, non riusciva a nascondere le spallone che gli erano venute, ma andava bene anche così.
Si mosse silenzioso come un'ombra per la stanza, mettendosi i pesanti anfibi con il carrarmato rovinato dal troppo uso e la punta rinforzata in metallo, uno di quegli acquisti che aveva fatto con caparbietà, conscio delle occhiatacce che gli avrebbe rifilato sua madre ma che, sorprendentemente, non erano state poi così insistenti come aveva creduto. Quel giorno suo padre aveva lanciato uno sguardo intenso e carico di parole incomprensibili a Maryse e la donna, ancora più sorprendentemente, aveva borbottato qualche altra protesta ma poi si era zittita.
La zip laterale era ormai scolorita, la placcatura metallica aveva decine e decine di graffi, la superficie ormai era completamente rovinata ma Alec non li voleva cambiare, per nessun motivo al mondo. Li aveva da anni ormai, aveva fatto cambiare la suola, la punta, aveva lui stesso cambiato i lacci e lucidato la pelle, erano parte di lui ormai. Per una qualche assurda grazia del destino i suoi piedi avevano smesso di crescere a quindici anni. Fino ai quattordici era sembrato un dannato clown con quei piedoni enormi, ma poi, piano piano, la sua altezza già notevole era aumentata sino a creare una sorta di armonia di proporzioni con quelle due zattere che si ritrovava. Jace aveva smesso di dirgli che sembravano due sci, ma forse aveva smesso perché uno di quegli sci se lo era ritrovato piantato in mezzo alla schiena.
Stretti i lacci e infilato il giaccone di pelle Alec lo chiuse fino al collo, alzando il cappuccio della felpa, infilando poi il portafoglio in tasca e attaccando la catena al passante dei pantaloni.
Sprofondò di nuovo le mani nelle tasche, prese il telefono e scorse veloce i messaggi con Seth, indugiando per un attimo sulla freccia in basso e resistendo alle tentazione di aprire l'ultimo messaggio di Nate. 
Per un attimo pensò anche di accendere il pc e controllare la chat di MSN, ma sarebbe stato tutto inutile: l'appuntamento era quel pomeriggio, “appena possibile”, al Nascosto, quindi non gli rimaneva che uscire, prendere la metro e arrivare a destinazione.
Con il suo solito passo da fantasma Alexander scese le scale, ricordandosi come suo padre rimproverasse sempre gli altri per il casino che facevano loro.
 
«Com'è possibile che vostro fratello, con gli anfibi e le catene, non si riesca a sentire, e voi, in ciabatte o scalzi, facciate tremare casa?»

Domanda del tutto lecita per altro.
Percorse tutto il corridoio, lanciando uno sguardo fuori dalle grandi vetrate che davano sul patio e osservando la neve che già si era posata su tutto il giardino. Ignorò la porta che dava sul salone, quella che dava sul salotto e pure la porta della cucina che si intravedeva da lì. Sentiva sua madre chiacchierare con qualcuno, forse al telefono, e la poca voglia che aveva di andarla ad informare che stava uscendo svanì completamente: se poco poco parlava con la madre di Lidia c'era rischio che gli combinasse un appuntamento lì su due piedi. Decise che il rumore della porta che si chiudeva sarebbe bastato.
L'aria fredda di dicembre era un toccasana per il suo nervosismo e per la sua rabbia repressa. Forse Dawson aveva ragione, era in astinenza e tutta quella pressione da parte di sua madre non lo stava minimamente aiutando.
Non appena fu abbastanza lontano dalla vai di casa tirò fuori il pacchetto delle sigarette e se ne accese una con un gesto consumato. Si fermò per un attimo, il marciapiede deserto di una viuzza secondaria fu l'unico spettatore dell'espressione di pura estasi che gli distese i lineamenti quando espirò il fumo dal naso. Era sciocco e assolutamente deleterio, ma ormai per lui le sigarette erano un simbolo di libertà, di tranquillità. Se aveva una sigaretta tra le dita significava che non era in casa, che era lontano da tutti i problemi e dall'Alec fittizio che tutti conoscevano, che idolatravano e criticavano in egual misura. Il suono dell'accendino che scatta, la scintilla della fiammella, quell'infinitesimale crepitio della carta e l'odore del tabacco arso. Tutto quello era libertà, tutto quello era Alec, solo e semplicemente Alec.
Con un sigaretta tra le dita lui era l'Alec che guardava tutti male senza doversi giustificare, era quello burbero che non capita al volo le battute ma che quando lo faceva se non gli piacevano, ti rifilava un pungo su una spalla e ti mandava lungo per terra. Era l'Alec a cui non potevi rompere le palle, quello che se ti diceva no era così punto e basta. Che poteva starsene incurvato senza che nessuno gli dicesse nulla, che non doveva “togliersi quel brutto muso dalla faccia”, che poteva battere i piedi e dire che non gli andava, che poteva buttarsi su uno dei divanetti del Nascosto e mandare tutti a 'fanculo mentre mangiava il quarto piatto di pancake alle sette di sera. Era l'Alec che sorrideva inebetito quando Nate lo guardava con quella dolce, dolcissima piega sulle labbra, che avvicinava piano la testa alla sua, che gli sfiorava il naso con il suo, che lo baciava piano, lentamente, a fondo, senza paura, senza rimorsi, libero e amato. Libero di amare.
Chiuse gli occhi e strinse la sigaretta tra pollice e indice, girandola verso il palmo della mano e nascondendo il tizzone dal vento freddo ed umido che stava tirando in quel momento.
Dio santissimo, era così difficile da capire? Lui voleva solo potersi comportare come sentiva, come voleva, com'era.
Prese un'altra boccata, aspirò il più possibile e costrinse il fumo nei polmoni finché non sentì la necessità di respirare. Non era una sensazione così estranea, non era così diversa da come si sentiva ogni volta che sua madre cominciava a subissarlo di tutte le sue aspettative. Gli mancava l'aria, il petto era pieno di una sostanza estranea che non faceva altro che indebolirlo, portarlo sull'orlo delle lacrime e della crisi respiratoria. A quel punto l'unica cosa da fare era smettere di trattenere il fiato e soffiare fuori tutto ciò che gli opprimeva il cuore. Spesso però si sentiva come se una volta sputato il fumo ciò che riusciva ad entrare nei suoi polmoni fosse acqua densa e velenosa.
Alec se ne era reso conto poco a poco: non erano le sigarette quelle che stavano indebolendo la sua capacità di respirare, di tenere la testa sotto il pelo dell'acqua per un'altra bracciata, un'altra vasca, ciò che lo stava avvelenando era la sua stessa famiglia.
Sperava solo di essere ancora in tempo per prendere l'antidoto.
Sperava solo che ne esistesse uno.




 
Il Nascosto era un localetto senza arte né parte visto da fuori, con le vetrine colorate come una cattedrale pacchiana e infantile e la porta di legno verde pastello. La signora Dott aveva blaterato qualcosa sul fatto che volesse farla rosa, ma Alec aveva cercato di non ascoltarla, ben consapevole che se le avesse prestato attenzione l’indomani si sarebbe ritrovato con un pennello ed una latta di vernice rosa a dipingere un dannata pota di legno che aveva visto decisamente giorni migliori.
Un po’ come la sua proprietaria per altro.
Quanti anni poteva avere la cara vecchia Dott? Aveva, che so, frequentato la scuola con Lincoln? Con Franklin? Uno dei due, non rammentava ora. Ma era vecchia, dannazione se non lo era e non era neanche cambiata di una virgola in quegli anni che la conosceva! La spiegazione più logica era che possedesse la pietra filosofale, ma Alec non ne aveva ancora le prove e poi, come se non bastasse, lui e Seth stavano ancora decidendo se una volta trovata l’avrebbero usata per vederla sul mercato mondiale o su quello nero. Il secondo era decisamente più remunerativo e malgrado ora Alexander non se la passasse di certo male aveva bisogno di accumulare denaro per quando avrebbe finalmente detto ai suoi che era gay e loro l’avrebbero cacciato di casa a calci.
Spinse la porta con la spalla, senza tirar fuori le mani dalle tasche, e ascoltò con una smorfia la campanella trillare per la sua entrata.
Non c’erano molti clienti, giusto qualcuno fermatosi per prender qualcosa di caldo prima di correre in giro a far le ultime compere. C’era una donna seduta al bancone con una tazza di tè fumante tra le mani ed una moltitudine di pacchetti sgargianti attorno allo sgabello alto, due giovani che discutevano animatamente se andare sulla street o in qualche centro commerciale, e poi c’era il suo tavolo.
Sospirò abbassandosi il cappuccio e passando la mano tra i capelli, scompigliandoli un poco e lasciando che ricadessero sulla fronte facendo da tenda tra i suoi occhi ed il mondo circostante.
Non c’era ancora nessuno dei ragazzi, ma era abbastanza normale, era la Vigilia, erano tutti a casa ad aiutare le famiglie con gli ultimi preparativi. Almeno loro se lo godevano, il Natale.
Alec non voleva essere critico o suonare invidioso nei confronti dei suoi amici, sapeva che anche loro avevano dei problemi, come tutti nel dannatissimo mondo: i genitori di Sabrina si erano separati due anni prima, Piper non riusciva quasi mai a passare le feste con suo padre, costantemente a lavoro soprattutto durante le feste. Poi c’era Dawson, bloccato con la nuova moglie di suo nonno, che odiava, e Chris e Carla che invece cercavano di godersi ogni attimo possibile con la loro di nonna, consci che non le restasse troppo tempo. Forse chi se la passava meglio era Seth, figlio unico straviziato dai genitori che avevano fatto carte false per poterlo avere e Howard che a parte il cenone palloso con tutti i parenti venuti da ogni angolo d’America poteva sempre contare su cugini e zii folli.
Malgrado non volesse suonare come tale, un po’ invidioso Alec lo era. Nessuno di loro doveva nascondere alla propria famiglia nulla di più di qualche sigaretta e un po’ d’erba. Non venivano pressati nello stesso modo in cui faceva sua madre con lui, costantemente sotto la lente, a paragone con sé stessa e suo padre o con i suoi fratelli. Si sentiva come un moccioso a pensare queste cose, ma davvero, Alec avrebbe pagato per essere un po’ più normale, più libero, più come voleva la gente. Per poter esser lasciato in pace.
Si sedette al suo solito posto con sguardo assente, perso nei continui rimproveri e nelle stupide lamentele che si susseguivano senza sosta nella sua mente. Era già di cattivo umore, gli ci mancava solo di peggiorare le cose da solo.
«Giornata pesante, caro?»
Alec alzò lo sguardo, scuotendo il capo quel tanto necessario a fargli veder meglio il volto rugoso e polveroso della Signora Dott, con quei spessi fondi di bottiglia che le ingigantivano gli occhi facendola sembrare un insetto fin troppo operoso.
Il ragazzo si sforzò di sorridere, quel suo classico quanto mal riuscito tendere di labbra storto e insicuro.
«È solo Natala.» disse con semplicità.
Lei annuì. «C’è troppa gente a casa? Già invasa?» continuò posizionando una tovaglietta gialla davanti a lui, spargendo brillantini per tutto il tavolo.
«Saremo soli… il ché è anche peggio, ad essere onesti.» masticò a mezza voce. Poi sospirò. «Tra un po’ arrivano anche gli altri, posso avere il solito intanto?» domandò con un’espressione quasi di scuse.
La vecchietta annuì con vigore, scuotendosi da dosso tutta la polvere, o forse la cipria, e sorridendo felice.
«Ah, Alexander! Non ti smentisci mai! Anche alla vigilia hai la forza di fare colazione! E scommetto che mangerai anche tantissimo sta sera! Eh, i giovani, voi maschi per esser precisi, mangiate così tanto, siete dei pozzi senza fondo.» annuì ancora, sistemando anche altre tovagliette piene di brillantini colorati, fermandosi dai suoi sproloqui su quanto cibo potesse ingerire un adolescente maschio solo per guardare Alec con aria assorta e chiedergli: «Siete tutti-tutti? O i bambini stanno a casa?»
Alec non poté far a meno di arricciare le labbra in un sorrisetto – storto – divertito.
«Siamo solo noi “grandi”.»
«Quindi altre sei!» trillò anziana signora, poi ricominciò a parlare di qualcosa d’impreciso, perdendosi pezzi di discorso mentre portava bicchieri colorati, posate e piattini.
La Signora Dott era appena sparita oltre il bancone, per preparare la cioccolata calda, quando il campanello trillò ancora ed un ragazzo infagottato dalla testa ai piedi entrò nel localetto rimanendo impalato davanti alla porta. Gli occhi scuri e lucidi si fissarono subito su Alexander ed il moro gli restituì uno sguardo quasi divertito, il sopracciglio si alzò con fare interrogativo.
«Perché hai solo la giacca di pelle quando fuori nevica? Perché io ho un freddo del cazzo e tu invece sembri rimasto a settembre?» domandò sfregandosi le mani e raggiungendo Alec al loro solito posto. «Salve Signora Dott, buona Natale!» gridò attraverso la sciarpa girandosi verso la donna.
«Buon Natale a te caro! Oh, buon dio! E chi sei? Così coperto non ti si riconosce per niente!»
Il ragazzo rimase interdetto, voltando solo il capo verso l’amico, come a chiedergli conferma che quella fosse una domanda seria e non una presa in giro.
Alec si strinse nelle spalle e poi scosse la testa. «Ne abbiamo uno solo nero.» disse ad alta voce e la Signora Dott si aprì in un sorriso raggiante.
«CARLA!»
Christopher alzò gli occhi al cielo, serrando le labbra per non imprecare, non a Natale, sua mamma non glielo avrebbe mai perdonato.
«So che sono bello, ma non sono mia sorella, Signora Dott.» borbottò togliendosi il cappello e la sciarpa. «Perché mi scambia sempre per mia sorella?» domandò poi rivolto ad Alec, un sibilo appena percettibile e decisamente offeso.
«Forse dovrebbe essere tua sorella a chiederselo, non credi?» rispose lui ironico.
Chris lo fissò un una smorfia. «Hai litigato con tua madre, vero?» replicò a bruciapelo, finendo di spogliarsi per poi sedersi al posto a capotavola, vicino ad Alec. «Sei così stronzo solo quando litighi con lei, o quando parli con Howard e Dawson, ma io non sono nessuno dei due, quindi hai decisamente litigato con tua madre.»
Alexander avrebbe voluto mentire, dire che non era vero, che non aveva litigato con nessuno e che lui non era stronzo. E veramente non aveva litigato con nessuno, quella era stata palesemente una discussione a senso unico, quasi un cazzo di monologo, non la si poteva certo definire “litigata”, proprio no. Però che era stronzo non poteva negarlo. Oh beh, si sarebbe accontentato di farlo solo con la prima parte.
«Non ho litigato con nessuno.» rispose burbero.
«A parte con il mondo intero.»
«Non ho litigato con mia madre.» insistette.
Chris alzò le sopracciglia in due archetti perfetti. Alec ancora non si capacitava di come potesse aver così tanti capelli ma le sopracciglia così rade. Lanciò anche uno sguardo al ricci schiacciati dal berretto e si domandò se dopo le feste Piper non avrebbe dovuto ritagliarglieli.
«Mi stai dicendo che non ti ha neanche fatto parlare? Diamine, Xander, ti sta tormentando ancora con la storia di giurisprudenza? Devi dirgli che non vuoi andarci, ti sta rovinando la vita.» disse apprensivo, guardando l’amico con preoccupazione.
Alec sospirò e annuì. «Fosse solo quello il problema. Vuole che esca con Lydia Branwell.»
A quello Christopher spalancò gli occhi. «Lydia della squadra di lacrosse? Quella terzo anno?»
Il moro annuì ancora. «Non me l’ha detto esplicitamente…»
«Ma ti ha chiesto se la conosci e che farà anche lei il tuo stesso indirizzo? Che poi tu non farai, per altro.» precisò subito l’amico.
«Mi sta torturando. Continua a ripetermi che i suoi colleghi hanno tante figlie carine ed intelligenti.»
«Beh, almeno non ti ha chiesto di nuovo perché non ti fai presentare qualcuno da Izzy-» si bloccò. «ma ti ha chiesto perché non fai come Jace?» chiese incerto.
«Mi ha chiesto perché non sono andato con loro a scambiarmi i regali con lilliput e Logorrea Lewis.»
«Magari perché sono appena dell’età giusto per essere chiamati liceali?»
«Glielo spieghi tu?» domandò sarcastico, poi si schiaffò una mano in fronte, improvvisamente illuminato da un ricordo. «Oh! Ma che sbadato! Prima dovresti riuscire a dimostrarle che esisti e che non sei un attore pagato per fingere d’essere mio amico.» continuò con più acredine.
Chris gli sorrise. «Continuo a trovare ammirevole da parte tua sopportare tutte le critiche e le insinuazioni di tua madre piuttosto che presentarci e farci fare il terzo grado. Significa che tieni più a noi che alla tua salute mentale.» allungò una mano per stringere la spalla di Alec e lui alzò gli occhi al cielo.
«Ovviamente. Sarebbe sciocco cercare di proteggere qualcosa che non ho mai avuto.»
«Stiamo parlando del tuo senso dell’umorismo?»
Una ragazzetta chiusa in un piumino azzurro sorrise ad entrambi avvicinandosi al tavolo. Si tolse il giacchetto appendendolo alla sedia, abbassandosi per dare un bacio a Chris e poi sporgendosi per darne uno ad Alec.
Sabrina si lasciò cadere stanca al suo posto, sbuffando via la frangia rossa. «Perché in tal caso, sappi che hai quello nero, di umorismo, non quello normale, quindi qualcosa da difendere ci sarebbe.»
«Stiamo parlando della sua salute mentale.» la corresse Chris giocherellando con la tovaglietta verde.
«Allora no, non c’è. Hai litigato con tua madre?» chiese ancora, come se fosse una cosa normale.
Alec storse il naso.
«Oh, non ti ha neanche lasciato parlare…»
«Perché siete tutti così sicuri di questa cosa?» domandò esasperato prima che il trillo del campanello richiamasse la loro attenzione.
Dalla porta entrarono, o almeno tentarono di farlo tutti assieme, un ragazzo biondo, facilmente identificabile come Dawson, e un ragazzo castano, forse Seth, forse Howard, non si capiva troppo visto quanto la sciarpa coprisse il suo viso.
«E che cazzo! E levati dalle palle!»
Howard, decisamente lui.
Mentre i due continuavano a strattonarsi a vicenda, da dietro di loro spuntò qualcosa di molto simile ad un berretto rosso. Qualche attimo dopo erano entrambi stesi a terra, spinti violentemente da una ragazzetta piuttosto innervosita.
Piper sbuffò, superando gli amici che la fissavano male ed ignorando il resto dei clienti che li guardavano esterrefatti.
Si volse verso gli altri. «Oh, siete già arrivati, manca solo Seth?» domandò con nonchalance abbracciando l’amica e sfregando la mano guantata sulla testa di Chris. Si fermò per osservare con occhio critico i capelli e poi annuì. «Dopo le feste te li devo ritagliare.»
«Mamma te ne sarebbe grata, credo stia prendendo accordi con il parroco per farti santa.» gli sorrise il ragazzo passandosi anche lui la mano tra i capelli.
Piper gli sorrise, gli occhi nocciola che brillavano soddisfatti ma non appena si fermarono sulla zazzera scura di Alexander la sua espressione mutò immediatamente.
«Che ti hanno fatto? Tua madre ti ha di nuovo tormentato con la storia di giurisprudenza? Ma non può lasciarti in pace almeno a Natale?» si tolse il cappotto con gesti stizziti, sedendosi di fianco ad Alec e posandogli una mano sul braccio strinse leggermente.
«Vuoi venire al cenone da me? C’è zio Bart, appena tornato dal suo viaggio in Luisiana con la sua nuova fiamma. O le sue nuove fiamme, non è che ho capito troppo.» Howard si sedette al suo posto affianco a Sabrina, allungandosi per salutare Chris e per battere anche un colpo sulla spalla dell’altro. Dietro di lui Dawson si stava sistemando la felpa, guardandolo anche lui con apprensione.
«O puoi venire a far supporto morale a me, la stronza quest’anno ha voluto fare una cazzo di cena a tema. Siamo a Natale, che tema vuoi oltre a questo?»
Alexander guardò i suoi amici senza riuscire a trattenere un sorriso, qualcosa di ancora storto e tremolante ma decisamente più aperto e sicuro.
«Apprezzo molto, ma non credo che i miei me lo permetterebbero.» ammise abbassando il capo.
«Possiamo venire noi da te, che dici? Andiamo Xander, dammi una scusa per scappare di casa, ho sentito Andy qualche ora fa, pure per lui si prospetta un cenone del cazzo, salvaci tutti uomo.» provò Dawson sporgendosi sul tavolo. Si bloccò un attimo aggrottando le sopracciglia quando si rese conto d’essere rimasto appiccicato alla tovaglietta viola ruvida di brillantini. «Ma che cazzo- ?»
«Cioccolata!» La Signora Dott arrivò traballando nelle sue scarpette rosse, anche queste piene di brillantini, terribilmente simili a quelle che Doroty rubò alla strega. «Oh, ma non siete ancora tutti! Dov’è finito il ricciolino?» domandò guardandosi attorno come se potesse esserselo perso da qualche parte.
Piper le sorrise. «Sta arrivando Signora Dott, lasci pure qui la sua tazza.»
La donna annuì poggiando il vassoio merlettato su quello scempio di lustrini che era diventato il tavolo, «Va bene cara, ma vado a prendergli un coperchio!»
Quando si fu allontanata Howard guardò la tazza incriminata con sospetto. «Chi cazzo ce li ha i coperchi per i bicchieri?»
«Dott, evidentemente.» mormorò dietro ad un sorriso plastico Sabrina, allungando la mano per prendere un piccolo coperchietto da teiera dalle mani rugose della donna. «Grazie.»
Rimasti di nuovo soli, ci fu un attimo di silenzio in cui tutti e sei rimestarono le loro cioccolate, spiluccando un po’ di panna o aggiungendo zucchero dalla zuccheriera sbeccata.
Chris sospirò. «Se le cose si mettono male, a cena, puoi sempre venire da me, lo sai sì?» disse piano, lanciando uno sguardo all’amico.
Alexander annuì. Sì, sapeva di poter scappare da uno qualunque di loro.
«E ricordati che alle brutte Georgina è la più vicina, sta a casa di sua zia questo natale, un paio di traverse dopo casa tua.» continuò l’altro.
«E Andy si prepara davvero a passare un Natale del cazzo, ma se tu gli facessi un’improvvisata avrebbe una scusa per uscire e poi potreste andare a prendere Georgina e andare da Chris e Carla. Così prendi tutti i bambini e non li fai andare in giro da soli.» aggiunse Howard.
«Devo venire a prendere anche te o il servizio taxi lo faccio solo per loro?» domandò sarcastico Alec, poi fece una smorfia. «Lo sapete che non posso.»
«E se veniamo davvero tutti a farti una sorpresa fuori casa? Dopo cena, quindi un po’ dovrai soffrire pure te, ma così i tuoi non romperanno le palle. Ti suoniamo e diciamo che andiamo- andiamo in chiesa! Chris, i tuoi cuginetti sono nel coro, no? Diciamo che andiamo lì, a sentirli.» propose Sabrina.
«E ci venite davvero, che mamma poi se la prende a male.» precisò Chris annuendo.
«Non credo mi faranno uscire di casa per andare a vedere il concerto natalizio della chiesa di uno dei miei amici immaginari.» sputò con astio ed una buona dose di rancore.
Il silenzio che ne seguì fu denso e pesante come lo era sempre quando si parlava di certi argomenti. Ognuno di loro aveva dei tabù che portavano una nube scura sulle loro teste e per Alec questi erano principalmente due: le aspettative che tutti avevano su di lui e il fatto che fosse gay.
Se con la seconda, una volta superato il grandissimo momento d’imbarazzo e di sensi di colpa che aveva preso tutti, specie Howard e Dawson che per quanto non fossero omofobi non si era mai soffermati a pensare quanto anche solo una stupida battuta detta con leggerezza potesse ferire, si riusciva a parlarne con un po’ più di serenità, sul fronte dell’ “Alec perfetto”, era ancora difficile anche solo farvi cenno.
Alexander era una bella persona: era gentile, era educato, attento. Non era un genio, questo no, ma sapeva studiare e sapeva imparare le cose, sapeva vedere come agiva la gente, intuire quale sarebbe stata la direzione della massa. Ma era anche un ragazzino di diciotto anni che aveva vissuto costantemente sotto la luce di un riflettore che non aveva chiesto, costretto ad imparare le battute di un personaggio per cui non si era mai proposto. E malgrado i suoi amici gli avessero ripetuto spesso di mandare tutto al diavolo, di smetterla di uccidersi per assecondare i desideri altrui, malgrado Alec desse loro completamente ragione, non ci riusciva. Alec non riusciva a dire di no a sua madre – a meno che quella non fosse la risposta che la donna si aspettava di sentire – non riusciva ad imporsi, non poteva far a meno di sopportare a denti stretti e capo basso per poi esplodere con loro.
Era così stupido, davvero così stupido. Si sfogava, abbaiava il suo rancore, il mal umore, l’odio che stava covando ormai da anni per alcune delle cose che per i suoi erano più importanti. Si arrabbiava, sparava rispostacce, sputava acido e sembrava sul punto di ribellarsi ad ogni autorità costituita all’urlo di A.C.A.B. ma- ma poi non faceva nulla. Arrivava a casa, guardava sua madre negli occhi e si sgonfiava. Gli mancava il fiato, gli sfuggivano le parole di mente, gli si impastava la lingua e non poteva far altro che abbassare il capo e annuire come il figlio perfetto che era.
Tutti sapevano quanto quella situazione fosse assurda. Alexander in primis lo sapeva e se ci fosse stato qualcun altro al posto suo l’avrebbe spronato ad alzare la testa
ma- ma –

C’è sempre quel cazzo di ‘ma’ a bloccare tutto, a rovinarmi la vita.

«Lo sai che non ce ne fotte un cazzo di quello che pensa tua madre, vero? Sarà pure il procuratore della fottuta città, ma non ci impedirà di venirti a salvare il culo se ne avrai bisogno.» Howard richiamò la sua attenzione guardandolo dritto negli occhi, i suoi marroni contro quelli blu di Alec. «E poi saremo i fottuti amici immaginare più fighi del paese.» sorrise raggiante.
Alexander chiuse un attimo gli occhi cercando di non sorridere, inutilmente, ma fu salvato dall’uscita della Signora Dott dalla cucina, con uno dei suoi vassoio più grandi stracarichi di cibo, e dalla porta d’ingresso che si aprì facendo entrare un nuovo cliente.
Il ragazzo portava un lungo giaccone beige, il cappuccio tirato sulla testa era contornato da un pellicciotto vaporoso che copriva in parte il volto arrossato del suo proprietario. Ma tra tutto quel pelo e quelle guance chiazzate dal freddo brillavano un paio d’occhi scuri e caldi che nessuno di loro avrebbe potuto non riconoscere.
Seth rimase un attimo a bearsi del calore dell’impianto di condizionamento, abbassandosi il cappuccio e sospirando sollevato. Sorrise con calore alla Signora Dott, prendendole il vassoio dalle mani, sicuro che fosse per i suoi amici.
«Ci penso io miss!» trillò allegro, poi guardò il suo tavolo ed il sorriso s’allargò ancora di più.
«Togliti di lì Pip! Quello è il mio di posto! Mi fate un po’ di spazio? Che faccio, metto subito i piatti o lascio il vassoio intero?» domandò avvicinandosi.
«Poggia qui.» gli disse Chris aiutandolo a sistemare i piatti su cui erano impilate piccole torrette di pancake.
Una volta serviti tutti e finalmente raggiunto il suo posto, tra Piper alla sua sinistra e Alec alla destra, il ragazzo si sporse verso quest’ultimo e l’abbracciò come nessuno di loro osava mai fare se non in rare occasioni.
Non era un segreto per nessuno che Seth fosse l’unico autorizzato a comportarsi praticamente come faceva Jace. Non che gli altri non potessero toccarlo o altro, ma c’era sempre un po’ d’imbarazzo, di indecisione nei movimenti degli altri ragazzi. Era tutto cominciato quando si erano conosciuti, quando erano a mala pena dei liceali degni di questo nome e troppo contatto, manifestare troppo affetto, non era forte, era qualcosa che facevano i bambini, non i ragazzini di quattordici anni, né tanto meno quelli di quindici. Quando poi a sedici Alec aveva preso il coraggio a due mani e detto loro che era gay, la cosa era quasi peggiorata. Durante i primi mesi Howard e Dawson lo guardavano sempre spaventati, come se sfiorarlo avrebbe potuto metterlo a disagio, avrebbe potuto esser troppo. Gli piacevano i ragazzi, quindi saltargli addosso, abbracciarlo, stargli troppo vicino, non sarebbe potuto esser inopportuno come se lo avessero fatto con una ragazza? Chris invece aveva passato quei mesi nella più totale apprensione di non farlo sentire abbastanza apprezzato o troppo soffocato. Piper e Sabrina, malgrado fossero state molto più tranquille, avevano cercato di mostrargli il loro supporto forse nel modo sbagliato: avevano iniziato a coinvolgerlo di più nelle loro discussione tra ragazze, a far apprezzamenti sui loro compagni, a chiedergli cosa ne pensasse, quale fosse il suo tipo. Qualcosa che l’Alec di sedici anni, che stava passando forse il periodo più nero della sua adolescenza, non aveva intenzione di indagare.
L’unico che non aveva cambiato minimamente il suo modo di fare, che al massimo aveva smesso di chiedergli se quella ragazza o quell’altra gli piacessero, era Seth.
Seth l’aveva guardato dritto negli occhi, gli aveva chiesto scusa per non essersene accorto, per essersi comportato da cretino certe volte. Gli aveva chiesto se potesse perdonarlo per averlo soffocato con la storia delle ragazze e che aveva quasi rischiato di fargli baciare una tipa solo per aiutarlo a rimorchiarne un’altra e poi, beh, poi
basta.

“Almeno non mi rubi tutte quelle più belle!”

Quindi sì, Seth era l’unico che fin dall’inizio l’aveva sempre abbracciato e che avrebbe continuato a farlo fino alla fine dei loro giorni, probabilmente.
Era il suo migliore amico.
«Che facciaccia, Xander, problemi a casa?» domandò con la guancia premuta sulla sua spalla.
Alec annuì. «Mamma e l’università.»
«Cerca di incastrarlo con Lidia dell’undicesima.» aggiunse Chris prendendo un sorso di cioccolata.
«Oddio, scherzi? Quella tipa fa paura!» esclamò Dawson sgranando gli occhi. «Manda la gente col culo a terra in un nonnulla!»
«Stessa cosa che ho detto io.»
«Stessa cosa che abbiamo pensato tutti.» borbottò Alec.
Seth arricciò il naso infastidito anche solo all’idea. «Perché oggi ha rotto così tanto? Non dirmi che i tuoi fratelli se la sono data a gambe levate e t’hanno lasciato solo con lei a preparare casa.»
Il modo teso in cui Alec sollevò una cucchiaiata di panna per poi ficcarsela in bocca a forza, forse per non dover rispondere, fu piuttosto eloquente.
«Che figli di puttana.» inveì Howard. «Vaffanculo, la prossima volta che mi ritrovo tuo fratello davanti in campo lo mando io lungo per terra. E non devi rompere il cazzo che non devo essere troppo duro con lui, se l’è cercata sta volta!»
Sabrina annuì. «Se non lo spedisci dritto contro il muro o il palo del canestro entro io in campo per farlo. E tua sorella deve stare attenta alle finestre sotto cui camminerà d’ora in poi.»
«Su, non siate così esagerati.» intervenne Piper, «Basterà non coprirli le spalle la prossima volta che faranno una cazzata. Nessuno di noi.» sottolineò poi guardando l’amico.
Alexander sospirò. «Sono andati a scambiarsi i regali con i loro amici. Mamma ha avuto anche la faccia tosta di chiedermi perché non ero andato con loro.»
«Tipo perché non sei la loro cazzo di babysitter.»
«E neanche il loro autista.»
Alec accennò un sorriso, anche se era dei suoi fratelli che si stava parlando, e lui non tollerava mai che si dicesse qualcosa di cattivo su di loro, in quel momento la cosa gli stava facendo quasi piacere. Non che godesse dell’idea di Howard che prendeva a spallate Jace o di Sabrina che lanciava roba dalle finestre per centrare Izzy, questo no. Ma sapere che i suoi amici condividevano la sua rabbia, la sua indignazione e anche una leggera voglia di vendetta lo rincuorava. Non era solo neanche in questo.
Prese un respiro profondo mentre Piper provava a calmare i piani diabolici contro i suoi fratelli, e si passò una mano tra i capelli prima di sentire qualcosa pungolargli il braccio.
Chris gli sorrise mettendogli altri pancake nel piatto e indicandogli lo sciroppo d’acero vicino a lui, facendogli cenno di rimetterlo sulla pila. Alla sua sinistra Seth stava togliendo un po’ della sua panna dalla cioccolata per metterla nella tazza di Alec.
Senza neanche rendersene conto, dopo aver messo altro burro sul suo piatto, Howard si sporse per rimetterlo anche a lui. Sabrina distribuiva fazzoletti a tutti controbattendo che scivolare per le scale poteva come non poteva essere pericoloso. Dawson bofonchiava concorde allungandosi per passare lo zucchero a Chris senza che questo glielo avesse chiesto.
C’era sintonia, c’era sempre stata tra di loro, un qualcosa fatto di piccoli gesti, spesso inconsapevoli, spesso imbarazzati. Avevano impiegato qualche mese per incastrarsi tutti per bene, riunendo quei piccoli gruppi che già si conoscevano per farli interagire gli uni con gli altri, per trovare il ritmo che non avevano mai più perso in quei quattro anni.
Alexander si trovò a sorridere, a farlo con gentilezza, con affetto. Forse quello sarebbe stato un pessimo Natale, ma per il momento poteva chiudere gli occhi e fingere che non fosse così, che fosse solo l’ennesimo pomeriggio passato a mangiare e chiacchierare, a far rumore in quel localetto piccolo e sconclusionato.
Poteva immaginare che tutto andasse bene, anche solo per un minuto.




 
 

Nella tesi su come rovinarsi la vita, quella che avrebbe scritto per il dottorato di giurisprudenza che non avrebbe mai perso, Alec avrebbe dovuto citare davvero poche fonti:
- la sua vita;
- il karma (che è una puttana per chi fosse interessato a saperlo);
-la sfiga (che a differenza della sua amica fortuna ci vede benissimo e ha deciso che deve rompere i coglioni proprio a me);
- la sua capacità innata di fare esattamente ciò che è peggio per sé.

E per altri incredibili suggerimenti per come rovinarvi la vita vi consigliamo di rimanere collegati qui su Casa Lightwood, dove ci sono tutti i presupposti per un dramma con possibili peggioramenti in tragedia. È prevista una leggera schiarita per la consegna dei regali e poi tempesta per il momento dello zabaione e del vin brûlé. Non rimanete in casa se non costretti e riparatevi attentamente.
Alec serrò le labbra mentre si legava lo stupido papillon rosso al collo della stupida camicia bianca che sua madre l’aveva costretto a mettere.

«Solo perché non abbiamo ospiti non vuol dire che vi possiate vestire da barboni

E questo era completamente indirizzato a lui visto che i suoi fratelli erano stati benedetti dal dio dello stile quando erano nati. Come le principesse delle favole i suoi amati fratellini erano stati graziati dai doni di tre fate benevole che gli aveva regalato stile, fascino e spigliatezza. E poi c’era lui, le sue di fate erano evidentemente sbronze, acide o stronze e basta e avevano deciso che quel piccolo bambino pallido e moro fosse proprio perfetto per ricevere una dose extra di inquietudine (interna ed esterna perché sia mai che ci andiamo leggeri), mal umore e caratteraccio.
Grazie per i doni gentili fatine, vi prego, incontriamoci dal vivo, così posso dimostrare la mia gratitudine perdendo per sempre la patente dopo avervi messo sotto ed esser ripassato sui vostri cadaveri svariate volte.
Perché il dannato papillon doveva essere di un rosso così brillante? Era stata senza dubbio Izzy a sceglierlo, non c’era neanche da pensarci, a lei il rosso stava bene dopotutto, non la faceva sembrare appena uscita da un incontro di boxe. No, assolutamente no, sei solo tu quello che con colori come il rosso o il viola addosso sembri un livido che cammina, ma a lei e Jace stanno benissimo, figurarsi se c’hanno pensato a te. Se sta bene a loro starà bene anche a te.
Dio santissimo, quanta acredine.
Il dannato nodo non voleva venire, non voleva farsi. Con un moto di stizza Alec se lo tolse dal collo con violenza e lo lanciò dall’altra parte della stanza, serrando i pugni e stringendo i denti.
Si può odiare così tanto uno stupido pezzo di stoffa?
Doveva calmarsi, questo lo sapeva. Fare respiri profondi e contare fino a dieci o tutte quelle puttanate che si dicevano di solio in quei casi.
La verità è che avrebbe preferito saltare il cenone, le stupide chiacchiere, gli stupidi regali e le altre stupide chiacchiere. Voleva solo sotterrarsi nel suo letto e non riuscirne finché quelle feste non fossero passate.
Guardò l’orologio: erano appena le sette e mezza.
Non voleva crederci, la serata non era neanche iniziata e lui già voleva scappare.
Si lasciò cadere sul letto, le braccia aperte e gli occhi chiusi, cercando di ignorare la musica natalizia che proveniva dal piano inferiore e quella che invece arrivava dritta dal bagno, dove Izzy e Jace stavano per una volta condividendo il loro prezioso spazio vitale in favore di reciproco aiuto per essere “bellissimi anche a Natale come lo siamo sempre”.
Mh, nella sua inesistente tesi avrebbe dovuto inserire anche un paragrafo su quanto le semplici affermazione della gente che ti circonda possano aiutarti a peggiorare la situazione anche se non era loro intento farlo. Ma forse più che un paragrafo la questione meritava proprio una tesi a parte, una branca, un’appendice, qualcosa che desse davvero spazio agli esperti come lui di dire la loro e spiegare bene il fenomeno. Oh, ma guarda, sembrava proprio la specializzazione perfetta per il suo futuro inesistente da avvocato! Avvocato Lightwood, specializzato in cause da mezza parola piazzata male nel momento peggiore alla persone meno indicata con la precisione di un cazzo di meteorite che cade sulla terra e spazza via i dinosauri che di certo erano meglio degli umani e non avrebbero fatto tutti i danni che abbiamo fatto noi e erano pure più fighi.
Tesi di dottorato ritrovabile sulle principali piattaforme, gli sarebbe valsa una candidatura al Nobel per la fottuta pace.
Con un grugnito soddisfatto, trovare nomi per le sue inesistenti tesi di laurea era sempre soddisfacente, cercò con lo sguardo il suo telefono, trovandolo sul comodino. Si allungò per prenderlo e inevitabilmente tutta la rabbia ed il nervosismo che aveva accumulato fino a quel momento scomparvero. Sorrise.
 
  • Nate
Appena rientrato! Nonna non è stata zitta un attimo, abituato come sono a te che stai sempre zitto mi è venuto il mal di testa in due minuti netti.


Scosse la testa divertito e si sbrigò a rispondere.

 
  • Alec
Potevi dirle che guidare così tanto ti aveva stancato e chiederle di stare un po’ zitta.
E non sto sempre zitto.

 
  • Nate
Tu diresti a tua nonna di stare zitta?
No, ogni tanto parli. In quei casi poi è difficile farti stare zitto.

 
Come va? Ti sta dando il tormento?

 
Alec sospirò.

 
  • Alec
Tu non hai Phoebe Lightwood come nonna. Neanche un giudice le direbbe di stare zitta. Mamma dice che durante una sua deposizione, una volta, l’avvocato della difesa ha provato ad interromperla e lei lo ha guardato malissimo, dicendogli che era un maleducato e che se voleva sapere qualcosa da lei doveva mettersi in testa di comportarsi in modo quanto meno decente.
Se ne era capace. Se no di tacere e far parlare lei.
 
  • Nate
Non hai risposto alla mia domanda.
 
  • Alec
Mi hai chiesto se direi mai a mia nonna di stare zitta. Ti ho detto che io non ho proprio la nonna ideale per fare un raffronto.
 
  • Nate
Ti sta dando ancora il tormento. Ho capito.
Senti, nonna chiacchiera un botto, ma sarebbe felice di incontrarti, stai simpatico ai miei e pure a mia sorella, dopo cena vuoi venire qui? Ti passo a prendere.

 
Per quanto la proposta suonasse allettante, così come lo erano stati i piani di fuga dei suoi amici, Alec sapeva di non potersela dare a gambe levate non appena fossero stati tolti i piatti da tavola. Era Natale, i suoi pretendevano che lo passassero assieme e non a zonzo con gli amici.

Specie se credono che tu non ne abbia.

Storse il naso.
 
  • Alec
Sembra bello, ma posso resistere.
 
  • Nate
Si, ma se non ce la fai mi chiami, va bene? O chiami i ragazzi.
Freddy abita vicino a te, puoi andare da lui e ti veniamo a prendere lì.
Ci sono solo i fratelli di suo padre a cena, ma è tutta gente molto alla mano, sarebbero capaci di proporti di dormire lì da loro, sappilo.

 
  • Alec
Grazie. C’è anche Georgina da queste parti.
Dawson dice che anche Andy ha un natale del cazzo in programma.

 
  • Nate
Allora salviamo il piccolo Andy prima. Puoi usarla come scusa: ho un amico che sta passando un brutto natale, vado a tirarlo su di morale.
 
Se solo fosse stato così semplice scappare di lì…
 
  • Alec
Ci penserò, grazie.
 
  • Nate
Quando vuoi, lo sai Xander.
È troppo se ti mando un cuore?
<3
 
Alexander rise divertito, tirandosi a sedere e scompigliandosi i capelli con la mano libera. Era così stupido, non era proprio da loro quel genere di cose, ma ogni tanto ci stava davvero bene.
Rimase con il pollice sollevato sulla tastiera, mordendosi la guancia cercando di raccogliere un minimo di coraggio.

Beh, tanto non ti può vedere in faccia.
 
  • Alec
<3
 
Uscì dai messaggi e si infilò in telefono in tasca. Con uno slancio si alzò dal letto e prese un bel respiro profondo, lanciando uno sguardo al pezzo di stoffa rosso brillante che giaceva ancora a terra.
Lo fissò per un attimo e poi gli voltò le spalle infilandosi il maglione, un piccolo moto di ribellione ad animargli il cuore.
Col cazzo che se lo sarebbe messo quel coso.
 
 

-Un Disastroso Natale: come rovinare la Vigilia e tutte le feste a venire provocando silenzi pesanti, imbarazzanti, dolorosi e soffocanti per mesi rendendo casa e vita un invivibile inferno in terra.

- Cosa serve:
Per prima cosa è necessario trovarsi nell’atmosfera giusta.
Se siete neofiti dei “Disastrosi Natali”, vi consigliamo di fare un primo tentativo in un ambito privato e più ristretto. Ricordate, la pratica rende perfetti e se la prima volta non dovesse sembrare terribile, imbarazzante e deprimente come volevate non dovete scoraggiarvi. La prossima volta andrà peggio.
Servono quindi una deliziosa serata natalizia, scegliete voi se preferite la vigilia o Natale stesso, un ambiente famigliare (o amicale) ben conosciuto (ricordate, più conoscete le persone coinvolte nella vostra personale tragedia, più loro conoscono voi e hanno grandi aspettative sul vostro conto, più sarà rovinosa la caduta!) e, cosa
più importante: una miccia.
La miccia è estremamente importante, è il centro di tutto quello che accadrà di qui in avanti. Scegliete anche voi tra la vasta lista di argomenti che vi mettono a disagio! Scegliete se puntare sul personale, sull’aspetto fisico, su quello intellettuale o caratteriale, sui sogni e le aspettative di una vita o sulle vostre vittorie e guardate i vostri conoscenti accanirsi su una di queste e distruggervi la vita!
Oh, ma qui siamo professionisti, qui siamo esperti! Perciò perché non proporvi il miglior scenario di tutti? Signore e signori, gentili ospiti qui presenti, per oggi abbiamo deciso di fare all in! Abbiamo deciso di fare le cose in grande! Di superare tutti gli standard e le precedenti imbarazzantissime e dolorose conversazione! Abbiamo deciso di accendere tutte le micce in una volta sola. Vedrete che fuochi d’artificio!
O per lo meno quanto in alto possa schizzare la bile di qualcuno senza che chi gli stia accanto se ne renda conto. Abbiamo anche l’aggravante del cibo pesante che ti fa risalire tutto e che ti spinge ancora di più a volerti vomitare l’anima, ma che gioia!
Che poi, perché alle feste si debba necessariamente mangiare così tanta roba è un segreto tramandato da generazioni che a lui, purtroppo, non era stato ancora confidato. Ma che problema c’era? Più cibo s’infilava in bocca meno doveva rispondere a sua madre che gli ripeteva ancora, per l’ennesima volta le stesse identiche cose.
Perché non era andato con i suoi fratelli se poi sarebbe uscito lo stesso di casa? Dov’era andato? Oh, giusto, dai suoi “amici”, magnifico, davvero- no, no mamma, nessuno ha visto tuo figlio parlare da solo come un pazzo a Central Park, nessuno potrà venirti a dire che ha assistito a questa magnifica scena e spettegolare con gli altri a proposito. Ma perché non chiedeva a quei due traditori che cazzo avevano fatto con la piattola e il topo? Sicuramente avrebbero avuto qualcosa di molto divertente da raccontare, senza dubbio, la loro vita sociale era così interessante per dio!
Perché lui non ne aveva una, no, quindi anche quella che i due principi di casa intratteneva con Milhouse e Telespalla Bob doveva essere assolutamente interessante, qualcosa da cui prendere spunto ed ispirazione.
Cazzo… somigliavano davvero a Milhouse e Telespalla Bob.
Peccato che la nana rossa non fosse interessante neanche la metà del serial killer. Col cazzo che sarebbe mai riuscita ad uccidere Bart lei. Non che Telespalla ci fosse riuscito alla fine, eh, però quella non ci si sarebbe neanche avvicinata, ecco.


«… in ogni caso, sarebbe stato carino se avessi accompagnato i tuoi fratelli, le feste sono sempre un ottimo momento per stringere amicizie, siamo tutti più propensi a farlo.»

Non il mio cuore tre taglie più piccolo donna.

«Non abbiamo mica bisogno che Alec ci scorti in giro.» sbuffò Jace indignato. «Siamo abbastanza grandi per guidare ma non per andare a scambiarci due stupidi regali con Clary e lo sfigato?»
A sentir quel soprannome Alec ghignò internamente: principiante.
«Non chiamare Simon così, poverino!» lo riprese Izzy.
«Ma andiamo, è oggettivamente uno sfigato!»
«Jace, non mi piace che parli così della gente.» s’intromise Robert con voce quieta, continuando a mangiare tranquillamente.
Maryse annuì alle parole del marito. «Esatto, è maleducato. E poi è tuo amico.»
Jace alzò gli occhi al cielo. «Più di Iz che mio.»

«Beh, allora potresti stringere un po’ il vostro rapporto. E Alec potrebbe iniziarne uno invece.»

Ecco, di nuovo, ogni volta che riusciva ad allontanarsi del discorso lo ritirava in ballo.
Alec digrignò i denti. «Sono amici loro mamma, non devono essere anche necessariamente amici miei.»
«Ma non lo sai finché non gli dai una possibilità.»
Alec s’infilò una forchettata di insalata in bocca, espirando dal naso e masticando con violenza. Deglutì. «Al momento non ho alcun interesse nel farmi dei nuovi amici.» disse secco, forse se l’avesse messa così sua madre si sarebbe calmata.
Ma quando mai aveva ragione lui?
Maryse storse il naso, palesemente insoddisfatta. «Hai diciotto anni Alexander, devi iniziare ad ampliare i tuoi orizzonti. Quando sarai al college conoscerai sicuramente gente nuova, ma è bene anche aver qualche amicizia fuori dall’ambito universitario, qualcuno da cui andare per staccare la spina e non ritrovarsi a parlare sempre delle solite cose.» rispose sicura.
Dietro la frangia scura che gli copriva parzialmente gli occhi Alec sperò che il suo sguardo assassino non si notasse troppo.
«In questo caso è una vara fortuna che né Howard né Seth vogliano continuare gli studi finito il liceo. Andrò da loro se avrò bisogno di staccare la spina, mamma, grazie per avermelo suggerito.» cercò di usare il suo miglior tono da politicamente corretto, ma dallo sguardo che gli lanciarono Izzy e Max, seduti davanti a lui a tavola, capì di non esserci riuscito quanto avrebbe voluto.
Non provò neanche a guardare sua madre, sperando che cambiasse discorso o che andasse a prendere qualcosa che si era scordata in cucina. Cercò quel qualcosa e si rese conto che il vassoio con le patate era finito. Con discrezione diede un leggero calcio a Jace, che lo guardò subito con la coda dell’occhio, e gli indicò vagamente il recipiente.
Fortunatamente, Jace annuì. «Ma, ci sono altre patate al forno? O sono rimaste solo quelle fritte per il viziatello?» domandò a voce alta.
Max, di fronte a lui, gonfiò le guance indignato. «Non chiamarmi in quel modo!»
«Ma sei viziato, Maxy, cosa vuoi farci? Siamo stati noi a farlo!» continuò Izzy scompigliandogli i capelli.
Maryse alzò gli occhi al cielo. «Non toccatevi i capelli mentre siete a tavola, possibile che ve lo debba ancora ripetere? No, Jace, le altre sono nel forno e no- non ti alzare da tavola, c’è il dolce sul tavolo e non voglio che sparisca qualche decorazione prima del dovuto.» la donna fece un cenno veloce al secondogenito, togliendosi il tovagliolo dalla gambe e andando in cucina.
Non appena ebbe voltato le spalle al tavolo i quattro fratelli si scambiarono uno sguardo d’intesa, Max alzò le sopracciglia capendo cosa avessero fatto gli altri e annuì, prima di fermarsi e girarsi lentamente verso il padre.
Robert, seduto con la schiena dritta e le spalle rilassate sorrise gentilmente al più piccolo, cercando d’intercettare poi lo sguardo del maggiore per incoraggiarlo a sopportare quelle fastidiose quanto certe domande che la moglie, ritornata a tavola, avrebbe continuato a fargli.

«Alle volte non mi capacito ancora di quanto possiate mangiare, e dire che dopo diciott’anni dovrei esserci abituata.» sospirò Maryse tornando in sala e poggiando una seconda teglia al posto della prima ormai vuota.
«È che cucini bene, ma’, non sei felice?» sorrise Jace con quel suo solito fare disinvolto e quasi vanitoso. «E poi siamo io e Alec che mangiamo uno svario, Iz vuole fare la modella.» prese in giro la sorella.
Isabelle lo guardò per nulla colpita. «Non ho bisogno di fare diete io e poi, anche se fosse, cosa ci sarebbe di male? Hai qualcosa contro le modelle?
«Assolutamente no, sono una delle mie categorie preferite. A patto che siano indossatrici d’intimo.» ammiccò guardando il padre. Robert sospirò sorridendo rassegnato.
«Perché solo quelle che l’intimo? Non lo portano tutte?» domandò Max con la bocca piena.
«Ci sono varie tipologie di modelle, che indossano cose diverse. Quando Jace dice “indossatrici d’intimo” intende le modelle sfilano sulla passerella per fare vedere una nuova collezione di completini.» lo istruì Izzy con fare serio.
«Tipo le mutande? Davvero?» continuò il bambino confuso.
La ragazza annuì. «Certo! Ci sono mutante e mutante! Un po’ come i vestiti, no? Ci sono quelli che compri ad un negozietto e che di certo non sono stati indossati da una modella, e poi ci sono quelli fatti dai grandi stilisti, che invece vengono presentati in passerella.»
Max sembrò poco convinto, ma annuì. «Mh. E che differenza c’è? Perché solo quelle che sfilano in mutande?»
«Per il loro fisico!» sorrise Jace.
«In che senso?»
«Perché di solito loro hanno due-»
«Perché le modelle d’intimo sono più formose, mentre le altre sono molto magre. Gli uomini tendono a preferire le prime alle seconde, probabilmente crescendo anche tu lo farai.» stroncando Jace sul nascere, con le mani bloccate a mezz’aria per mimare una certa consistenza di seno, Alec sorrise gentilmente al fratellino, spiegandogli nel modo più veloce e semplice possibile il punto.
«Oh, anche a voi quindi?> chiese sorpreso Max guardando il fratello maggiore ed il padre.
Robert annuì piano. «Personalmente le donne troppo magre, come le modelle d’alta moda, mi sembrano quasi malate. Tu trovi bella una persona a cui si possono vedere le ossa?»
Max scosse la testa. «Anche secondo te, Alec?»
Il diretto interessato lo guardò preso in contropiede. Si schiarì la gola. «Io non ho molte preferenze. Non sempre le persone sono così magre per loro scelta, può succedere come dice papà, che siano malate o non mangino in modo corretto. In ogni caso, non credo che l’aspetto sia molto importante.» concluse asciugandosi la bocca prima di prendere un sorso d’acqua.
A quelle parole Maryse sorrise annuendo, ma purtroppo per Alec quelle parole tanto gradite non erano state anche abbastanza – sicure.
«Vuoi dirmi che non hai neanche un tipo ideale, Alexander?» domandò continuando a sorridere.
Alec la guardò per un attimo smarrito, poi scosse la testa. «No, non ne ho. Credo sia più importante concentrarsi sul carattere di una persona, l’aspetto è secondario.» spiegò vago.
«Oh, senza ombra di dubbio ma, per esempio, tuo fratello ha sempre preferito ragazze con i capelli chiari. Questo non vuol dire che non guardi al loro carattere.»
Izzy soffocò malamente una risatina. «Infatti guarda più al contenuto del reggiseno.»
«Ehi! Anche le gambe sono importanti!» si giustificò ghignando l’altro.
«Cosa c’è di così importante nelle gambe?» chiese Max con una smorfia.
«Nulla, lascia stare.» borbottò Robert cercando di non guardare sua moglie.
Maryse lanciò un’occhiataccia ai mezzani ma cercò di ignorarli. «Quindi? Bionde, more? Rosse?»

Dio non voglia! Un altro Telespalla Bob come lo reggo?

Alec provò a sorridere, riuscendo solo in una smorfia storta. «No, non mi interessa.»
«Ma ti sarà pur successo di ritrovarti a guardare più un tipo di ragazza rispetto ad un'altra. Su, Alexander, non fare il timido ora.»
«Davvero mamma, non mi capita e basta. Non ho preferenze.» disse piano.
«Allora a livello caratteriale?» provò ancora.
«Divertente e allegra, non troppo seria!» saltò su Jace allungando il piede sotto il tavolo per colpire Izzy, «Un po’ come Lisa della tua classe.»
«Ehi! Non dire queste cose di Lisa!»
«A proposito di Lise e Lydie.» Maryse alzò la voce per parlar sopra ai figli e farli tacere, Alec chiuse gli occhi e pregò che non fosse vero.
«Ne stavamo parlando questo pomeriggio mentre preparavamo la tavola, ricordi Alec?»
E chi se lo poteva scordare? Neanche volendo ci sarebbe riuscito.
«Pensa che quest’estate frequenterà dei corsi formativi per giurisprudenza.» disse alzando le sopracciglia con fare eloquente. «Sono degli ottimi corsi, potresti iscrivertici anche tu, avresti anche qualcuno che già conosci con cui andarci. Potreste stringere amicizia, è una così cara ragazza.»
«Non credo di-»
«C’è anche la figlia di Michelle Bale, te la ricordi? Lei ha un anno in più di te, beh, a mala pena dieci mesi in effetti, ma si è già iscritta al college, potresti chiederle qualche informazione, è una ragazza molto gentile e disponibile, sono sicura che sarebbe felice di farti da tutor in previsione dell’esame d’ammissione.»
«Non ho neanche finito il liceo-» provò Alec con poca convinzione.
«Siamo già alla fine dell’anno però, devi iniziare a pensare al tuo futuro, alle lettere per l’università. Harvard continua ad essere la migliore, lo sai, e parecchi figli dei miei colleghi sono o saranno presto iscritti lì. Ricordi i figli degli Smith? Judith, la maggiore, ha la tua stessa età, frequenterà economia ma gli edifici sono vicini, potresti incontrarla per pranzare assieme o per studiare.»
«Mamma, non mi hanno preso, è inutile fare programmi a lungo termine quando no-»
«Non dire sciocchezze, non ti hanno preso solo perché non ti sei ancora deciso a mandare quelle domande. Diglielo anche tu Robert.»
L’uomo annuì. «Se è quello che vorrà fare, sono sicuro che riuscirà ad entrare.»
«Certo che lo farà. Quindi, hai già ben due persone che conosci.»
Alexander chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. «Sono felice che ti preoccupi per me, mamma, ma non pensi che prima dovrei chiudere con il liceo e poi pensare a queste cose?»
«Non hai più molto tempo per farlo, devi scegliere ora cosa vuoi fare della tua vita e voglio solo il meglio per i miei figli, quindi Harward.»
«Si trova in un altro Stato.» le fece notare sfinito.
«Per questo è importante che tu conosca già qualcuno. Lidia arriverà dopo un anno, ma Judith, come ti ho detto, inizierà con te e Coleen Bale sarà all’anno prima del tuo.»
«Potresti iniziare con il presentargli qualche figlio dei nostri amici.» propose Robert piano per esser soprastato completamente dal secondogenito.
«Ehi! Perché a lui proponi solo ragazze e a me dici che dovrei invitare qui più amici?» Jace si sporse sul tavolo, un po’ indignato, un po’ nel tentativo, palesemente inutile, di distogliere l’attenzione dal fratello.
«Perché tu ne hai già fin troppo attorno, Alec non ci ha mai presentato nessuno.»
«Ho diciotto anni da appena tre mesi, credevo che si dovesse presentare qualcuno quando si è sicuri di volerci passare la vita o cose simili.» replicò alzando il capo, piccato da quell’ennesimo sottolineare che lui di persone – amici nella fattispecie – non ne aveva mai invitate a casa. A farsi analizzare sotto la lente dell’implacabile avvocato Trueblood.
«Io ho conosciuto tuo padre a quest’età. Dico solo che dovresti iniziare a fare lo stesso anche tu.» la risposta di sua madre fu piccata tanto quanto la sua, gettando tutti i presupposti per una magnifica litigata di Natale.
Gli altri fratelli si voltarono a cercare l’aiuto del padre che, rigido sulla sua sedia, teneva lo sguardo fisso su Alec. Un curioso strato di sudore freddo a coprirgli la fronte.
«Maryse… Alexander non è un bambino e siamo tutti diversi, se in questo momento non ha alcun interesse anche solo nel cercare una relazione- di qualunque tipo essa sia,» precisò veloce prima che uno dei due potesse replicare, «è una sua scelta, non nostra.»
La donna non lo guardò neanche, troppo intenta a fissare il figlio dritto negli occhi.
«Non sto dicendo che debba iniziare una relazione stabile e duratura con qualcuno, dico solo che è un bel ragazzo e che sta sprecando anni preziosi di spensieratezza in questo modo.»

Oh, quindi è questo il problema? Che non vado in giro a sbattermi chiunque e quindi non mi godo la vita? Cazzo mamma, siamo ridotti a questo? I ragazzi devono fare esperienza e divertirsi e le ragazze devono aspettare il grande amore?

«Non è che arrivato a diciannove anni avrò finito la mia vita.»
«No, ma ti dovrai occupare di studiare e passare gli esami con voti alti, iniziare una relazione nel mezzo del college non è una buona idea perché porta via tempo e forze. Se invece tu conoscessi qualcuno prima di entrare a giurisprudenza, qualcuno che come te ha appena iniziato o che inizierà e conosce quindi le fatiche a cui sta andando incontro sarà tutto più semplice. Nessuna ragazza che si lamenta del fatto che non le dedichi abbastanza tempo e nessuna fase della luna di miele o come la chiamate voi ora.» continuò dura.
«Ma magari non ho programmato di avere una relazione in futuro, o magari non ho programmato di interessarmi a qualcuno a comando solo perché tu pensi sia una buona idea.» ringhiò Alec.
Max serrò gli occhi, mentre Izzy si portò una mano alla bocca e Jace fissò allibito il fratello.
Maryse lo guardò con lo sguardo di fuoco per le grandi occasioni, come quella in cui Isabelle aveva deciso di partecipare ad un concorso senza dirle nulla o quando Jace mandato al diavolo una sicura vittori per fare a pugni con uno dell’altra squadra.
«Sei un bel ragazzo, Alexander, se solo la smettessi di scansare le persone potresti avere decine di amici proprio come-»
«Come chi? Come i miei fratelli? Oh, sì, potrei davvero circondarmi di amicizie frivole e destinate a finire con la fine della scuola, perché non c’ho pensato?» sbottò sarcastico, senza però abbassare lo sguardo, sfidando apertamente sua madre a contraddirlo.
«Non puoi rimanere per sempre chiuso in casa! Devi imparare a socializzare Alec, a trattare con le persone e stringere legami. È importante avere legami solidi e duraturi, specialmente in una carriera come la nostra.»
«Come la tua, mamma. Io sono ancora al liceo ricordi? E se non lo avessi notato, non sto tutto il giorno chiuso a casa. Ho degli amici, ho dei legami, so socializzare, solo perché non lo faccio con le persone con cui tu mi dici di farlo non vuol dire che io sia solo.»
La donna assottigliò lo sguardo, scuro come quello di Izzy ma freddo come quello d’Alexander.
«Amici che apparentemente non vuoi presentarmi e che, da quello che hai detto prima, non frequenteranno il college.» replicò all’attacco, come il buon avvocato che era.
«Howard e Seth non continueranno gli studi, e so che la cosa può sconvolgerti ma non ho solo due amici, siamo un gruppo abbastanza grande in effetti e la maggior parte di loro ha già mandato la richiesta d’ammissione a qualche college.»
«Non ne hai mai portato neanche uno qui, però. E so per certo Alexander che quando qualcuno evita di fare qualcosa è perché non è convinto, non si fida, non vuole rischiare.»
Oh, era vero, era maledettamente vero. Alec non si fidava a portare i ragazzi a casa, non si fidava ad invitare nessuno di loro, non era minimamente convinto che quella potesse essere una buona idea, non voleva rischiare il finimondo.
Non voleva rischiare di far soffrire i suoi amici, di vederli mortificati, giudicati. Non voleva che sua madre guardasse con occhio critico Seth, che era sempre di buon umore e credeva stupidamente che tutti i genitori fossero come i suoi. Non voleva che giudicasse il padre di Piper, che passava più tempo in viaggio che con la sua famiglia quando lei invece si era sempre impegnata per esserci per loro in ogni singolo istante della loro vita. Non voleva che scambiasse i carattere buono e gentile di Chris per quello di una persona senza spina dorsale, per qualcuno di sottomesso e debole. Non voleva che guardasse Sabrina dall’alto della sua perfetta adolescenza e criticasse il modo in cui era cresciuta, in cui stava crescendo, praticamente da sola, con le sue sole forze e le sue sole esperienze. Non voleva che guardasse Howard e pensasse che fosse solo un bulletto viziato che stava mandando al diavolo il lavoro di famiglia e tutte le aspettative che i suoi avevano su di lui per fare una cosa “banale” come skateare. Che vedesse in Dawson il perfetto prototipo di figlio di papà che non era.
Alec aveva paura non del fatto che i suoi amici non fossero all’altezza dei suoi genitori, ma che questi, nello specifico sua madre, potesse demolirli e farli soffrire come faceva con lui ogni volta che gli diceva che quella cosa non era bella come credeva, che quello sport non l’avrebbe portato da nessuna parte, che era sciocco pensare a come doveva essere fare il biologo perché tanto lui non lo sarebbe mai diventato.
Alec guardò sua madre con qualcosa di pericolosamente simile all’odio, senza battere ciglio, nello stesso modo in cui, anni dopo, avrebbe fatto crollare centinaia di criminali e qualche decina di colleghi.
«Certo che non mi fido, non voglio rischiare la loro amicizia solo perché non rientrano nella tabella perfetta dei perfetti amici del figlio perfetto.» mormorò in un ringhio basso che arrivò ugualmente alle orecchie di sua madre.
Se uno sguardo avesse potuto uccidere Alec avrebbe rischiato grosso quella sera. Maryse lo guardò come se le avesse appena sputato in faccia, come se l’avesse insultata. Le aveva detto palesemente che non portava amici a casa perché non voleva che lei rovinasse la loro amicizia, ma sotto, scritto a chiare lettere, perfettamente udibile, c’era altro, c’era un “come tutto il resto a cui tengo” che nessuno disse ma che tutti sentirono.
Lo guardò ancora freddamente, la sua bella faccia da avvocato famelico scolpita nella roccia.
«Mi stai quindi dicendo che le amicizie che sei riuscito a farti non sono buone amicizie? Non ti abbiamo insegnato nulla in questi anni? Come distinguere una brava persona da uno scansafatiche?» insinuò malevola.
Ma dannazione, sarebbe finito il mondo prima che Alec le avrebbe permesso di dire qualcosa del genere sui suoi amici.
«Le mie amicizie sono perfette per me, mamma. Sono i migliori amici che avrei mai potuto desiderare.» ringhiò con più forza.
«Ma non hai il coraggio di presentarceli, quindi sai che hanno qualcosa di sbagliato.» continuò lei logica.
Alec si morse la guancia con forza, non doveva cedere, non doveva fare il suo gioco. Maryse puntava a farlo arrabbiare, a fargli dire una parola fuori posto per poter aver ancora ragione su di lui.
«Maryse…» chiamò debolmente Robert, cercando di farle capire quanto quel discorso stesse degenerando.
«Sei un ragazzo intelligente Alexander, sei sveglio, brillante, educato e di bell’aspetto. Hai diciotto anni ormai, quest’anno finirai il liceo e andrai al college, studierai giurisprudenza che è di certo una delle materie più difficili a cui applicarsi, se non ti senti a tuo agio a far entrare i tuoi amici in ogni parte della tua vita forse è il caso che tu li cambi. Potrei presentarti decine di ottimi ragazzi con cui poter progettare un futuro, qualcuno di cui non ti vergogneresti a portare qui. Dovrai concentrarti sullo studio, guardare avanti, circondarti di persone alla tua altezza. Devi crescere e prepararti per ciò che ti aspetta, prendere in mano la tua vita e non continuare a nasconderti come fai ora.»
Oh, nascondersi? Dio santo, Maryse non aveva la più pallida idea di quanta ragione avesse, di quanto Alec nascondesse dentro il suo armadio, nei cassetti, sotto il letto. Se solo per un momento avesse smesso di guadare al suo programma di perfezione e si fosse soffermata un attimo di più sulla soglia della sua camera avrebbe potuto percepire l’olezzo disgustoso della carne in putrefazione, di tutti quei cadaveri ancora freschi che Alec cercava disperatamente di far sparire, chiudendo ogni anta e spalancando le finestre per far cambiare aria.
Ma lei non lo vedeva, non lo sentiva. Vedeva solo quanto Alec sarebbe potuto diventare perfetto, quanto tutte le sue caratteristiche l’avrebbero potuto portare tranquillamente a ciò che lei sognava.
Un figlio bello ed intelligente, sveglio e brillante. Che sarebbe andato al college a studiare giurisprudenza. Che doveva smetterla di fare il moccioso e guardare al futuro che lei aveva già deciso per lui.
Quindi voleva questo? Voleva che Alec facesse la persona adulta e prendesse in mano la sua vita?
Cazzo mamma, me lo hai chiesto tu, chi sono io per rifiutarmi d’obbedirti?
«Prepararmi a ciò che mi aspetta?» domandò quindi con improvvisa e ritrovata calma.
Maryse lo guardò con attenzione, un vago luccichio di sorpresa a brillargli negli occhi come invece non stava brillando in quelli dei suoi fratelli.
Jace allungò lentamente la mano per stringerla sulla coscia del fratello, guardando Izzy senza sapere, per una volta, cosa fare. Isabelle invece faceva scattare lo sguardo dal maggiore, al secondo a suo padre, in cerca d’aiuto.
Robert rimase zitto, gli occhi blu, solitamente quasi opachi, sembravano accesi di una luce che nessuno dei suoi figli sapeva comprendere.
«Esattamente, come ti ho sempre detto.» rispose sicura Maryse.
Alec annuì. «Perfetto, farò come mi hai detto allora.»
A quelle parole i suoi fratelli si voltarono in sincrono a guardarlo allibiti.
Sua madre invece parve sospettosa, fiutando già qualcosa di sbagliato in quella risposta o in quelle a venire.
«Mi comporterò da persona adulta e come tale t’informo che non ho la minima intenzione di conoscere nessuno dei figli dei tuoi colleghi. Ho diciotto anni ormai, non ho bisogno che sia mia madre a trovarmi degli amici. Ne ho già di miei e mi vanno più che bene.» concluse senza batter ciglio. Sotto il tavolo Jace poteva sentire i muscoli della gamba rigidi e tesi sotto la sua mano.
«Questo non è un comportamento maturo.» gli fece notare sua madre.
«Perché? Perché non è maturo scegliersi degli amici da sé o perché non è ciò che vuoi tu?» domandò con un leggero tremito nella voce.
«Perché non sono amicizie che ti saranno utili.» rispose con tono duro la donna.
«E da quando le amicizie si fanno solo per esser utili? Da quando in quai si sceglie di chi essere amico solo perché in futuro quella persona potrà aiutarti in qualcosa? So che mi reputi incapace di stringere amicizie e forse anche di comprendere le più basilari interazioni umane, ma a me pare proprio che questa volta non sia io quello in fallo.»
Maryse lo fulminò con lo sguardo, la cena dimenticata sul tavolo, ormai fredda.
«Ti sembra così assurdo che io voglia il meglio per te? Che voglia che tu abbia degli amici degni di questo nome?» replicò seguendo lo stesso tono del figlio.
«Ma cosa ti fa credere che i miei amici non siano degni di questo nome?» Alec contrasse la mascella, stringendo i denti nel tentativo di non alzare troppo la voce come invece stava iniziando a fare.
«Perché non li conosco Alec, perché non mi parli mai tanto di loro, non so chi siano! Non li ho mai visti e non so se sono adatti per te!»
«Ma certo!» rise sarcastico. «Jace può portarsi a casa la squadra di football, composta da una manica di deficienti che credono di poter far tutto quello che vogliono perché i loro genitori hanno soldi sufficienti per pagare il debito pubblico della Serbia, Izzy si può circondare di cheerleader che non si interessano a null’altro che a loro stesse, e queste sono amicizie degne dei miei fratelli, ma visto che io i miei amici non li faccio mai venire qui, allora non sai se vanno bene per me. Logico, come ho fatto a non pensarci.»
«Alexander, ti avverto non mi piace il tuo tono.»
«Ho torto? Mi sto sbagliando?» la sfidò.
«Sì, ti sbagli. So con chi escono i tuoi fratelli, so che molti sono ragazzini viziati, ma conosco i loro volti, i loro genitori. Dei tuoi amici conosco a mala pena i loro nomi e da quello che mi hai raccontato non sono adatti a te, al tuo futuro.»
«Al mio futuro? Quale futuro mamma? Quello che Io non ho ancora deciso? Chi sarebbe un amico ideale allora? Eh? Nel tuo piano perfetto per la mia vita, chi sarebbe degno di questo tuo magnifico figlio perfetto che però non si comporta in modo giusto?» chiese quasi stremato.
Sua madre non si fece cogliere impreparata. «Lidia per esempio.» citò subito.
Alec digrignò ancora i denti, era sicuro che alla fine di quella sera li avrebbe avuti devastati.
«La conosco appena di vista, non ho nulla in comune con lei, come puoi dire che sia adatta me?»
«Farete la stessa università, avete molti interessi in comune, se solo ti decidessi anche solo a chiederle di studiare assieme-»
«Faremo la stessa università, come ho potuto dimenticarlo! Lo sai che è un anno più piccola di me? Che senso ha chiedere a qua-»
«Potreste fare amicizia.»
«Non mi interessa fare amicizia con lei!»
«Voi ragazzi siete tutti uguali, non siete capaci di parlare con una ragazza normalmente. Se non inizi da qualche parte non troverai mai una fidanzata.» l’accusò Maryse senza pietà.
«Forse perché non la voglio?»
«Dici così solo perché sei timido, perché sei tutto il giorno in casa o con quei tuoi amici. Devi iniziare a conoscere gente nuova e Lydia è un ottimo punto d’in-»
«Non voglio conoscere Lydia! Né lei né nessun’altra delle figlie dei tuoi amici!» disse con maggiore convinzione, quel minimo di calma ritrovata in precedenza completamente bruciata dal botta e risposta che stava avendo con sua madre.
«Non capisco perché ti ostini così tanto! Sono ragazze fantastiche, potresti facilmente trovare il tuo tipo in una di loro.» continuò imperterrita sua madre, senza perdere un colpo.
«Nessuna di loro è il mio tipo!»
«Come fai a saperlo? Non vuoi neanche conoscerle!»
«Lo so e basta! Mi conosco, so cosa mi piace e cosa no!» la guardò ad occhi sgranati, incredulo.
«Non dire sciocchezze Alexander, non puoi saperlo se non hai mai avuto una fidanzata!»
«Mamma, non-voglio-una-fidanzata!» scandì con rabbia.
Maryse alzò gli occhi al cielo e con questi le mani, come a chieder la forza a qualcuno. «Ma perché no-»


«Perché sono gay!»


 
Il silenzio sembrò espandersi come una nuvola d’inchiostro dentro l’acqua. Aveva una consistenza, doveva averla per forza, ma era anche così impalpabile allo stesso tempo.
Ad Alec parve quasi che il tempo si dilatasse allo stesso modo in cui si dilatarono le pupille negli occhi di sua madre, come sgranò gli occhi. Come Jace strinse la presa sulla sua gamba. Come Izzy strinse quella sulla tovaglia e Max sul bordo della sedia.
I suoi occhi blu, freddi come la pietra congelata, ardevano in un falò di sentimenti che s’accavallavano gli uni sugli altri.
C’era rabbia, ce ne era davvero tanta, tutta rivolta verso quella donna che non lo capiva, che non aveva mai neanche provato a farlo. Ce n’era rivolta ai suoi fratelli, che non avevano fatto nulla per cercare di intervenire in quello stupido dibattito, per cercare di aiutarlo, di distrarre Maryse ed erano rimasti a guardare in silenzio. Ce n’era anche per suo padre, che non aveva fermato sua moglie, che c’aveva provato a mala pena, senza troppa convinzione, non aveva avuto la forza di intromettersi ed imporsi come invece faceva sempre quando si trattava dei loro interessi, della scuola, dello sport. Che non l’aveva salvato. Ma al contempo, verso di lui, c’era anche tanta, troppa speranza, un rivolo di vento caldo in mezzo alla bufera. Roberto avrebbe dovuto capirlo, avrebbe dovuto tendergli la mano e forse, forse l’avrebbe fatto, forse quella speranza non era vana. Ma non poteva rimanere lì ad aspettare.
Alec si era reso perfettamente conto di ciò che aveva detto, di quale cazzata immane avesse appena fatto. Avrebbe potuto inventarsi una balla, urlare che lui una ragazza ce l’aveva già e che non voleva incontrarne un’altra. Avrebbe potuto confessarle che fumava, che tante volte era tornato a casa tardi per nascondere lividi e ferite guadagnate durante risse in cui lui non c’entrava effettivamente nulla, ma in cui la gente lo tirava perché era troppo educato, perché era troppo alto, troppo cupo, perché non era abbastanza figo per stare al mondo ma neanche abbastanza sottomesso per essere ignorato. Avrebbe anche potuto dirle quanto il suo caratteraccio lo stesse uccidendo, dirle che se sembrava uno zombie depresso era perché cercava inutilmente di essere all’altezza di quell’immagine perfetta che lei gli aveva cucito addosso senza chiedergli il permesso, senza domandargli se gli stesse bene, se la sentisse stretta, se fosse quello che voleva davvero. Che lo stava sommergendo con sogni che non erano suoi, che lo voleva avvocato come lei, come suo fratello, ma che Alec non voleva, non voleva fare il fottuto college, non voleva diventare avvocato. Avrebbe potuto urlarle che lui gli avvocati li odiava, perché usavano la legge, che avrebbe dovuto difendere tutti, per i loro comodi, che se la rigiravano come volevano, che salvavano chi non doveva essere salvato. Quanto li odiava gli avvocati, quanto odiava il modo in cui non ti facevano parlare, in cui ti spingevano dove volevano loro a forza di domande incalzanti e serrate, senza sentire davvero le tue risposte. Alec avrebbe potuto dirle quanto cazzo era brutto il suo lavoro e quanto avrebbe preferito farsi amputare un braccio piuttosto che seguire le sue orme, essere un altro mostro in questo mondo di merda a parare il culo agli stronzi come gli amici di Jace e Izzy, come quei figli di puttana che lo deridevano, che provavano a picchiarlo perché lui era stato educato a sopportare tutto come un fottuto martire perché era giusto così, perché loro avevano deciso che lui doveva essere così. Che era colpa sua, era tutta, completamente, assolutamente colpa sua.
Avrebbe potuto urlarle che aveva iniziato a odiarla perché sapeva, Alec lo sapeva, che Maryse non voleva davvero lui come figlio ma voleva solo una bambola.
Avrebbe potuto dire di tutto, ma aveva detto che era gay.
Aveva appena detto a sua madre che era gay mentre lei gli parlava di trovarsi una ragazza.

Alexander rimase a fissare le iridi scure di sua madre, dilatate dall’incredulità.
Non riusciva a chiudere gli occhi, a serrare le palpebre. Avrebbe tanto voluto farlo, chiudere gli occhi e non vedere più il volto sgomento di Maryse, ma non ci riusciva. Come qualcuno che non riesce a distogliere lo sguardo da una scena scabrosa, da un incidente che sai che sta per compiersi, che sarà sanguinolento e terribile. Come un cervo che non si sposta davanti ai fari che si avvicinano sempre di più.
Alec sentì i polmoni dilatarsi assieme al tempo, per poi collassare su sé stessi e stringersi, accartocciarsi come faceva sempre lui con i suoi pacchetti di sigarette.
Non si può distogliere lo sguardo dalla violenza di un incidente, ma si può sempre scappare ed Alec si ritrovò improvvisamente in piedi, senza sapere quando si fosse alzato, quando Jace avesse spostato la mano dalla sua coscia al suo polso.
Il moro continuò a fissare sua madre, silenzioso come lo era lei, senza parole, senza fiato, senza voce, senza forza.
Si sentiva male. Tutto ciò che desiderava era correre in bagno e vomitare tutto quello che aveva ingerito a quella maledetta cena, tutti i pancake che aveva mangiato al Nascosto, la panna extra che Seth si toglieva sempre dal suo bicchiere per darla a lui, perché sapeva che era un ingordo senza fine. Poteva quasi sentire anche il fumo delle tre sigarette che aveva fumato quel pomeriggio risalirgli l’esofago e lo sapeva, Alec sapeva che era impossibile, che non poteva vomitare fumo ma dio- dio santissimo era così vicino a vomitarsi l’anima che non dubitava di poter vomitare anche quello.
Il suono della sedia che traballava, spostata malamente, fu l’unico che riempì la sala.
Alexander non faceva rumore quando camminava, anche se portava i suoi anfibi, anche se portava stupide scarpe eleganti come in quel momento.
Non salì le scale però, per quanto volesse seppellirsi sotto le coperte e morire lì dentro non voleva poi dover ripassare davanti a tutti, non voleva rischiare che Maryse, ripresasi dallo shock salisse in camera sua, che entrasse anche, che sentisse finalmente l’odore di marcio che vedesse le tracce di sangue ancora sul pavimento, non voleva rimanere nella sua stessa casa. Marciò verso l’anticamera, prese il cappotto ed uscì il più velocemente possibile.
Il freddo di dicembre lo colpì dritto in viso, insinuandosi sotto il maglione scuro e la camicia candida, Alec non si fermò ad abbottonarsi, non si fermò proprio. Scese i gradini in fretta, quasi caracollando giù dall’ultimo, scivolando con la suola liscia sul mattonato ghiacciato. Spalancò il cancelletto e non si preoccupò di richiuderlo, l’eco del metallo che sbatteva prima contro la ringhiera e poi contro il battente.
Si ritrovò per le trade deserte della quinta strada, la testa bassa, lo sguardo perso sul marciapiede mezzo coperto di neve sciolta e sporca. Non sapeva cosa fare, dove andare. Le voci dei suoi amici, di tutti i piani che avevano fatto quel pomeriggio, si rincorrevano nella sua testa senza posa, ma Alec non riusciva a dar loro un senso, ad afferrare le parole.
Il vento s’alzò piano, si accorse che gli tremavano le mani solo quando provò a infilarle nelle tasche. Si fermò.
Portò lentamente le mani davanti al volto, trovandole bianche e secche in contrasto con le nocche rosse. Tremavano così tanto che quasi vibravano, notò senza alcuna emozione. Non sentiva neanche il freddo, non sentiva neanche le dita, o le braccia, o le gambe, o il suo intero corpo.
Gli ci volle un po’ per notare che c’era qualcos’altro che vibrava ed era il suo telefono, abbandonato nella tasca anteriore dei pantaloni.
Doveva prenderlo? Doveva vedere chi lo stava chiamando? Sicuramente dovevano esserci messaggi di Jace e Izzy, chiamate senza risposta, magari anche qualcuna di suo padre e- e se ce ne fossero state anche di Maryse? No, questo era impossibile, sua madre non l’avrebbe mai chiamato dopo una litigata del genere, probabilmente non gli avrebbe proprio rivolto più la parola.
Un sorriso amaro gli piegò le labbra: sarebbe dovuto esser lui quello a rifiutarsi di parlare con lei, era stata la donna a rovinare tutto, a sommergerlo con tutte le sue parole, con tutte le sue aspettative e i suoi ordini. Perché doveva sempre fare così, perché doveva sempre correggerlo? Non andava bene com’era? Cosa c’era di sbagliato? Perché Izzy e Jace e Max andavano bene così com’erano e lui no? Era così palese che ci fosse una falla in lui? Che gli mancasse un pezzo, che non fosse come tutti gli altri? Che sua madre l’avesse sempre saputo e avesse cercato di correggerlo?
No.
No, no, no, cazzo. No. No. Non c’era nulla di sbagliato in lui, non c’erano falle, non c’era nulla da correggere. Non era una fottuta bambola, non era un burattino, non era un dannato programma, una causa, un caso, non lo poteva gestire come voleva, fargli fare ciò che lei voleva. Non era un oggetto, neanche un cane da ammaestrare. Era una persona, era un essere umano e voleva, doveva, fare le sue scelte da sé.
E se sua madre non avesse voluto far parte della sua vita così come se la sarebbe scelta, beh- allora sarebbe stato affar suo. Se fosse rimasto da solo dopo quelle parole… non gli interessava! No, cazzo, non gli interessava! Basta. Aveva sofferto troppo per troppo tempo e non voleva più farlo.
Perché non poteva essere felice anche lui una volta tanto?
Con un moto di rabbia Alec alzò la testa, serrando i pungi: Maryse gli aveva detto che non poteva rimanere nascosto per tutta la vita, no? Beh, doveva essere soddisfatta di lui allora, era appena uscito da uno dei nascondigli più sicuri della sua fottuta esistenza.
Sorpresa mamma! Sono saltato fuori dall’armadio, non sei felice?
Andasse a ‘fanculo, lei e tutto il suo cazzo di programma di vita.
E sì, stava dicendo decisamente troppe parolacce ma chi poteva vederlo? Chi poteva sentirlo nella sua testa? Chi poteva dirgli che si stava comportando male? Solo lui, solo sé stesso e solo se si fosse sentito in colpa per qualcosa. Ma Alexander aveva deciso che non si sarebbe più sentito in colpa per niente.
Prese un respiro profondo e poi un altro, cercando di calmare la rabbia cocente che gli animava il petto, scaldandolo in mezzo al freddo dell’inverno. Non gliene fregava più niente, non sarebbe tornato in quella casa prima che ne fosse uscita la donna e se sua madre non l’avesse più voluto in casa allora- allora si sarebbe fatto prendere tutta la sua roba dai ragazzi – perché almeno questo glielo dovevano – e sarebbe andato a stare per un po’ da Seth. Cazzo! Seth era una vita che gli chiedeva di passare una settimana o due da lui, di fargli compagnia per fingere d’avere un fratello e non essere l’unico adolescente dell’intera famiglia. E poi c’era Sabrina, lei era quasi sempre sola a casa, se anche fosse rimasto da lei per un anno interno nessuno se ne sarebbe accorto. Sarebbe potuto andare da Chris e Carla e Lil Mama l’avrebbe adottato. Così come la madre di Piper sarebbe stata più che felice di ospitarlo per un po’. Dawson diceva sempre che da quando suo fratello era partito per il college si annoiava da solo e Howard chiedeva sempre a loro aiuto per tenere a bada i suoi fratellini. Ne aveva di case in cui andare a rifugiarsi, ne avrebbe avuto almeno per un anno e tanto sarebbe bastato per cercarsi un lavoro e cominciare a mettere i soldi da parte e- e cazzo! Sarebbe persino potuto andare da sua nonna! O da-
Nate.
Il respiro gli si bloccò in gola.
Nate. Doveva chiamare Nate. Doveva dirgli che tutti i loro piani, tutti i progetti su come dire ai suoi che era gay e che stavano insieme erano appena andati a farsi fottere. Dirgli che da quel momento in poi, se qualcuno li avesse visti assieme e l’avesse riferito a sua madre lei avrebbe subito potuto pensare che stessero insieme. E non che ci fosse qualcosa di sbagliato, ma ne avevano parlato, Nate gli aveva ripetuto sempre quanto questa cosa dovesse essere una sua scelta, dovesse farlo sentire a suo agio. Dirlo prima agli amici più stretti, che già lo sapevano. Poi ai suoi fratelli, che lo sapevano quasi tutti, Max ancora no e poi- poi ai suoi genitori. Prima suo padre, poi sua madre.
Cazzo, aveva mandato tutto al diavolo, aveva di nuovo rovinato tutto. Come sempre, come ogni fottutissima volta.
Alec riprese a camminare lentamente, la rabbia che si mischiava al disprezzo per sé, per ogni sua azione, ogni suo passo falso. C’era così tanta amarezza in lui, così tanto sconforto che non si rese conto neanche del rumore di passi che si faceva sempre più intenso.
D’improvviso una figura alta gli si parò davanti, un giovane dalla pelle mulatta, gli occhi scuri ed il naso largo. Le labbra carnose erano aperte per far entrare più aria possibile, e soffiarono via un sospiro di sollievo quando lo videro.

«Xander!»

La voce potente e rombante di Freddy Cooper rimbombò per tutta la strada. A quel richiamo Alec non poté far a meno d’alzare il capo e fissare quasi senza vederlo il migliore amico del suo ragazzo.
Freddy si girò a mala pena verso una delle strade vicine, agitando il braccio come a voler far cenno a qualcuno di avvicinarsi. Poco dopo una seconda figura si avvicinò correndo e Alec non ebbe problemi a riconoscere nella ragazzina mora, che teneva stretta in una mano la sua sciarpa e nell’altra il telefono, Georgina.
La ragazza si sgonfiò come un palloncino quando lo vide, il respiro pesante come quello dell’altro ragazzo, si portò il telefono all’orecchio e riprendendo aria ansimò:
«L’abbiamo trovato. Sì, sì, è qui davanti a noi. No, sta bene… circa… ha- non ha una bella cera-» mormorò in fine.
Alec si domandò che diamine ci facesse una ragazzina di quattordici anni in giro da sola alle undici di sera della vigilia di Natale, chi le aveva dato il permesso d’uscire? Che fosse andato Freddy a prenderla per portarla a- a cercare lui?
Il moro batté le palpebre, gli sembrava quasi di sentirsi i bulbi oculari congelati, era possibile?
Osservò Freddy avvicinarglisi preoccupato, allungando piano una mano verso di lui, come si fa con gli animali selvatici.
«Xander? Ehi, ci sei bello? Vieni, togliamoci da qui in mezzo alla strada, che dici?» domandò posandogli in fine la mano sulla spalla e tirandoselo leggermente contro. Gli si mise di fianco, passandogli un braccio attorno e sfregando poi piano contro il giaccone ancora aperto.
«Dovresti chiudertelo, ti ghiacci così.» parlava piano, con gentilezza e con tranquillità, esattamente come si fa con gli animali. Era ridotto così male da sembrare un animaletto spaventato?
Georgina intanto li aveva raggiunti, i suoi occhi sembravano così scuri sotto i lampioni che Alec quasi si dimenticò che in realtà erano azzurri. Aveva le guance chiazzate di rosso e anche il suo giaccone era aperto. Forse perché aveva corso? Avevano corso tutti e due a cercarlo?
Come un fulmine a ciel sereno Alec si ricordò che i due ragazzi erano quelli che gli abitavano più vicino o che sarebbero stati nelle vicinanze per quel Natale. Erano i primi da cui poteva andare a nascondersi se le cose si fossero messe male, ma il motivo per cui se li era ritrovati davanti era lontano anni luce da quello per cui avrebbe dovuto chieder asilo politico all’inizio della serata.
Georgina gli sorrise tirata. «Ehi, Xander. Ci hai fatto prendere un colpo, lo sai? Mi è arrivato un messaggio da tua sorella e poi uno da Carla e da Seth. Siamo corsi fuori più velocemente possibile, mamma quasi non mi lasciava andare, le ho dovuto dire che era un’emergenza e che c’era anche Freddy.» disse cercando di distrarlo probabilmente. «Pensa che volevano uscire anche lei e papà a cercarti, mi ha detto che dovevo chiamarla appena ti avessi trovato.»
Alec annuì leggermente: quindi anche i genitori di Georgina sapevano che era corso via di casa? Che cosa gli aveva detto la ragazza? Che cosa le aveva scritto Isabelle? Alle volte si dimenticava che erano dello stesso anno…
Freddy dovette intuire qualcosa perché strinse di più la presa e lanciò uno sguardo d’intesa all’altra.
«Forse dovresti chiamarli allora. Ti riportiamo a casa e gli dici che Xander sta bene, okay?» le suggerì implicitamente. «Non ti devi preoccupare,» continuò poi rivolto a lui, «Gli ha detto solo che hai avuto un brutto litigio su tua madre sul college e che sei uscito di tutta fretta di casa. Jace ha chiamato Seth, lui ha chiamato Nate e penso anche gli altri e Nate ha chiesto a me di venirti incontro.»
Alec annuì ancora, vagamente sollevato: almeno non c’era un’intera famiglia che sapeva del suo coming out a sorpresa. Che lo sapessero Georgina e Freddy non era un problema, ma che lo sapessero i loro genitori cominciava a mettergli ansia, un’ansia che non si era reso conto di provare fino a quel momento.
Aveva davvero fatto coming out alla cena di Natale? Aveva davvero sganciato una bomba del genere solo per far smettere sua madre di tormentarlo con la stupida storia delle relazioni prima del college?
Beh, pensò estemporaneo, almeno i suoi fratelli avevano avuto la decenza di chiamare qualcuno dei suoi amici per dirgli che si era appena fottuto la vita.
«Vengo con voi poi, ovunque andate.» esclamò Georgina con il telefono premuto sull’orecchio.
Freddy scosse il capo. «No, ho detto ai tuoi che ti avrei riportato a casa non appena avremmo trovato Xander. Ci sono io con lui, tra poco arriveranno anche i ragazzi, hai quattordici anni, vatti a godere il Natale, qui ci pensiamo noi.» disse serio.
La ragazzina non ebbe il tempo di replicare, sua madre rispose al telefono con voce preoccupata, chiedendogli se avessero trovato il suo amico e come stesse. Alec sentì la voce della donna chiamarlo “quel povero ragazzo” e si ricordò che era una professoressa del liceo e che doveva averne visti a bizzeffe di ragazzi costretti a continuare gli studi finita scuola. Forse non lo stava giudicando troppo.
L’ascoltò vagamente chiedere alla figlia dove sarebbe andato, se c’era qualche altro amico con lui e poi, alla sua risposta affermativa, chiederle di tornare a casa. Non di corsa, non nell’immediato, ma non appena si fosse assicurata che la situazione fosse stabile. E Alec non poté darle torto, non si sentì minimamente infastidito dal fatto che la donna rivolesse la figlia al sicuro vicino a lei, anzi, era sorpreso che l’avesse lasciata andare.
Davanti agli occhi dispiaciuti e contrariati di Georgina Freddy scosse il capo e rispose ad alta voce, per farsi sentire anche dall’altra parte, che l’avrebbero riaccompagnata subito, ringraziando anche la donna della pazienza avuta.
Smise di ascoltare, domandandosi se sua madre l’avrebbe mai lasciato andare a cercare un amico che aveva “litigato” con i suoi genitori alla vigilia e si disse che no, probabilmente non l’avrebbe fatto, l’avrebbe guardato con disappunto spiegandogli come quello fosse un problema dei parenti del suo amico e non suo. Ma Alec si disse anche se in quel caso sarebbe probabilmente uscito lo stesso, conscio della punizione che l’avrebbe atteso al rientro a casa ma completamente convinto delle sue azioni.
Non ci volle molto per arrivare sotto casa della zia di Georgina. La ragazza lo guardò ancora con quello sguardo triste, come se le dispiacesse lasciarlo solo, non poter far di più che cercarlo e constatare che non fosse caduto in un attacco di panico con i fiocchi. Le sorrise piano, senza gioia e senza forza, mormorando appena un “grazie”. Quando il portone si richiuse dietro di lei, già attaccata al telefono, probabilmente per scrivere a Carla ciò che era successo, Alec lasciò andare un respiro tremulo che non si era accorto di aver trattenuto fino a quel momento.
Freddy lo guardò preoccupato, avvicinandosi per allacciargli lui stesso il giaccone, cercò di sorridere.
«Sai, di solito lo faccio con i miei cuginetti e i miei fratelli, Picke riesce a chiudercisi anche le mani nelle zip.» provò a distrarlo.
Non ci riuscì minimamente. «Con chi era al telefono Georgina?» domandò parlando per la prima volta da quando si erano incontrati.
Il ragazzo fece una smorfia ma provò comunque a scherzare. «Non l’hai sentita la voce isterica di Seth? Credevo che fosse arrivata anche sulla costa Ovest.»
«Chi lo sa?» soffiò ignorando quel gentile ma inutile commento.
Freddy sospirò. «Tua sorella ha chiamato Georgina,» ripeté, «Tuo fratello Seth, Seth Nate e Nate me. Poi sono uscito di casa, sono venuto a prendere lei e siamo corsi a cercarti. Non ho più guardato il telefono ma scommetto che Seth ha chiamato tutti i tuoi amici e che avrai il cellulare intasato di chiamate loro e pure di Nate stesso. Potrebbero essercene un paio anche dei ragazzi.» disse intendendo il loro gruppo d’amici.
Oh, bene. Quindi questo significava che tutta la gente coinvolta poteva potenzialmente sapere il vero motivo per cui se l’era data a gambe levate. Non c’era speranza che Seth non avesse detto nulla e gli amici di Nate- beh, erano amici di Nate, erano gente a posto, che sapeva però quanto potesse essere difficile dire una cosa del genere ai propri genitori, quanto il mondo potesse far schifo visto che proprio uno di loro era gay.

«Ehi?» lo richiamò gentilmente Freddy. «Senti, dovresti proprio chiamarlo Nate, stava morendo dalla paura, letteralmente. Provava a dissimulare ma lo sentivo pure al telefono.»
Alec non ne aveva dubbi, Freddy e Nate erano come lui e Seth solo dall’asilo, erano migliori amici per la vita o qualunque altra cazzata diceva sempre quel cretino dei suo ragazzo per farlo ridere, mentre quell’altro fingeva di piangere per l’emozione della confessione.
Così come lui capiva quando Seth fingeva di star bene, di aver tutto sotto controllo, così Freddy capiva quando Nate fingeva e se diceva che doveva chiamarlo, allora doveva farlo.
Solo che non voleva.

«Ho mandato tutto a puttane…» mormorò. «Come glielo dico?»
Freddy gli strinse una spalla, «Non hai mandato niente a puttane. Hai litigato con tua madre che ti ha rotto troppo il cazzo. Ti ha portato all’esasperazione e sei scoppiato. È normale, nessuno avrebbe sopportato per tutto questo tempo come hai fatto tu. Se credi che Nate possa essere arrabbiato-»
«Gli ho rotto le palle così tanto con la storia di come dirlo ai miei e poi ho rovinato tutto.» parlò più a sé stesso che all’altro.
Il giovane sospirò. «Facciamo così: mandagli un messaggio, digli che stia bene e che stiamo arrivando. Okay? Così poi ne potete parlare faccia a faccia.»
Alec alzò la testa. «Dove?»
«Fitzrohy?» disse quasi lo stesse domandando a lui. «Quello che skaeta. Cenava a casa dalla nonna ma casa sua è libera e pare quella più vicina di tutti. Dai, andiamo, ho la macchina qui vicino.»
Il ragazzo lo guardò iniziare ad incamminarsi e poi fermarsi a guardarlo, chiedendogli silenziosamente se ci fossero problemi.
Alec batté le palpebre senza riuscire a parlare, deglutì e ci provò di nuovo.
«Grazie per aver mollato tutto a Natale per venire a recuperare uno come me.» disse infine, le labbra tirate in una piega dura.
Freddy accennò un ghigno divertito e scosse la testa. «Uno come te? Queste cose non si fanno per “un tipo come”, si fanno per gli amici e guarda caso sono il migliore amico del tuo uomo e, se permetti, dopo un anno e spicci direi che sono anche amico tuo. Hai fatto prendere un colpo a una quindicina di persone, ma posso assicurarti che saremo venuti tutti a salvarti il culo. Per di più-» aggiunse allargando il ghigno, «mi hai dato una scusa per scappare dalla tombola, credo di doverti una medaglia e la vita.»
Senza volerlo Alec sorrise.



Casa di Howard non era troppo distante, avevano percorso le strade in silenzio, mentre Alec scriveva, cancellava e riscriveva un messaggio per Nate e poi per gli altri, evitando accuratamente quelli dei suoi fratelli e le chiamate perse di suo padre.
Non appena mise piede fuori dall’auto venne letteralmente travolto da un tornado biondo e senza riuscire a fermarsi Alec si ritrovò a ricambiare l’abbraccio spacca ossa di Dawson, che di solito non era un tipo troppo affettuoso ma che in quel momento lo stava stringendo come se ne andasse della sua stessa vita, come se stesse cercando di tenere insieme tutti i pezzi in cui Alec si era sgretolato.
Dietro di lui, pallido e con gli occhi castani sgranati, Andy lo aspettava tremante, sembrando ancora più piccolo di quanto non fosse avvolto nel piumino blu. Si sfregava le mani guantate e tentennava, dondolando sulle punte dei piedi. Anche lui non era un tipo troppo affettuoso e fisico, ma soprattutto per via della sua timidezza. Andy era sempre stato il più piccolo, ovunque andasse, ovunque si trovasse e malgrado si conoscessero ormai da due anni aveva ancora parecchi problemi a relazionarsi con loro “grandi” in modo del tutto sciolto e spigliato, come faceva invece con Georgina e Carla. Nonostante ciò Alec sapeva quanto fosse sensibile e attento nei loro confronti e non appena incrociò il suo sguardo allungò una mano verso di lui, in un invito silenzioso a raggiungerlo.
Andy si avvicinò lentamente, stringendo la sua mano e poi abbracciandolo piano quando Dawson lo lasciò andare.

«Dawson mi è venuto a prendere. È vero che vi avevo chiesto un diversivo per farmi scappare, ma non volevo nulla di così tragico.» provò a scherzare, la voce camuffata dietro la sua sciarpa e la spalla di Alec contro cui teneva premuto il volto.
Alexander sorrise triste. «Scusa, mi è sfuggita un po’ di mano, il prossimo anno ci inventiamo qualcosa di più semplice.»
Non voleva che un ragazzino così piccolo si preoccupasse così tanto per lui. Alec era il più grande, era un fratello maggiore, non era capace di lasciar tutto il peso sulle spalle degli altri. Non voleva che qualcun altro stesse male come stava lui, di riflesso alle sue emozioni. Il problema era suo, era lui che aveva sfanculato la sua intera vita per colpa delle famose domande implacabili del Procuratore di New York City.

«Entriamo dentro?» domandò Andy sciogliendo l’abbraccio.
Freddy, dietro di loro, annuì. «Chi è arrivato?» chiese rivolto a Dawson.
«Noi siamo qui da un paio di minuti, volevamo aspettarvi e non siamo saliti. C’è sicuro Howard, forse Sabrina. Piper è andata da Seth e Chris li sta passando a prendere.» il suo telefono squillò e il ragazzo l’estrasse velocemente per leggere il messaggio. «Stanno quasi a scuola, ora arrivano. Cazzo però, con sta sera avremmo tutti una bolletta del telefono della madonna.» sorrise poi rivolto all’amico.
Alec fece una smorfia, conscio della mole del traffico di messaggistica che solo loro sei dovevano essersi scambiati.
«Dei miei?» continuò il più grande.
Alexander non aveva avuto il coraggio di chiedergli se Nate fosse arrivato e non seppe se esser o meno grado a Freddy per averlo chiesto al posto suo.
Fu Andy però a rispondere. «Ha chiamato poco fa Nate, diceva che Tom era appena arrivato sotto casa sua e che sarebbero stati qui a momenti.»
Magnifico, aveva anche strappato Tom dal primo Natale di sua nipote, come poteva peggiorare la situazione?
Thomas era il terzo membro del loro più ristretto gruppo d’amici, quello più rumoroso e confusionario, ma anche probabilmente quello che si preoccupava di più per tutto. Non gli sembrò minimamente strano che avesse mollato tutto per andare a prendere Nate e portarlo da lui, anche perché era sicuro che in una situazione del genere l’altro non si fidasse minimamente a guidare da sé.
«Va bene, allora andiamo, su. Xander ha camminato per non so quanto col giaccone aperto, mi sorprendo che non stia ancora starnutendo come un moccioso.» disse Freddy poggiandogli una mano sulla schiena e spingendolo gentilmente verso il portone del grande palazzo.

Quando arrivarono al piano giusto la porta di casa era già aperta, la zazzera aranciata di Sabrina spiccava sulla soglia, le braccia strette attorno alla vita, a chiudere il golfino verde che le arrivava al ginocchio. Aveva gli occhi lucidi, Alec lo notò subito, si mordicchiava il labbro e non appena lo vide uscire dall’ascensore gli si precipitò contro esattamente come aveva fatto Dawson poco prima.

«Dio Xander! Ci hai spaventati a morte! Non sapevamo dove fossi, se stessi bene. Lo so che non avresti fatto cazzate, ma quando ti succede qualcosa stacchi il cervello e-»
«E potevi essere finito ovunque, cazzo. Ho perso cinque anni di vita quando quel coglione di Seth ha chiamato e ne ho persi altri cinque quando ho capito che cazzo fosso successo.» Howard uscì sul pianerottolo per andargli incontro, stringendolo assieme all’amica e chiudendolo in una presa ferrea.
Alec fece per rispondergli ma il citofono suonò con prepotenza un trillo prolungato seguito subito dopo da un altro, un altro ancora e poi uno lunghissimo finché Howard, bestemmiando a pieni polmoni, non andò ad aprire senza neanche controllare chi fosse. Lo sapevano già tutti ed Alec ebbe appena il tempo di entrare in casa, spogliarsi e prendere un ennesimo respiro pesante, che il rumore di qualcuno che correva per le scale invase tutto il palazzo. Dopo neanche un minuto un affannato e mal vestito Seth apparve sulla porta ancora aperta, quasi lanciandosi contro di lui senza guardare in faccia nessun altro.

«Stai bene?» gli chiese con sguardo terrorizzato, così spaventato che Alec si ritrovò ad abbracciarlo lui stesso per cercare di calmarlo.
Seth gli strinse le braccia attorno alla vita, premendogli il volto contro il torace anche se la posizione era scomoda, lasciando che Alec gli avvolgesse le spalle e poggiasse la testa contro la sua.
«Sono stato meglio…» mormorò.
«Mi hai fatto prendere un colpo! Jace mi ha chiamato quasi in lacrime, sono sicuro che stesse a tanto così dal piangere, e mi ha detto che era successo un casino! Ha detto che tua madre aveva fatto la stronza come al solito ma che sta volta non t’eri tenuto e che le avevi risposto male e poi le avevi tipo urlato in faccia che eri gay e eri uscito di casa e loro volevano seguirti ma lei gli ha detto di rimanere lì e poi tuo padre gli ha detto di chiamare uno di noi-»

Papà. Ovvio che c’abbia pensato lui a dire ai ragazzi di avvertire i miei amici. Di avvertire qualcuno da cui mi sarei potuto nascondere.

«Mi dispiace, non volevo rovinarvi il Natale…non è niente di importante, tanto.» disse con amarezza.
«Non dire cazzate! Certo che è importante! Si è comportata di merda, a Natale! Proprio come dici tu. Cristo Xander, non sai che spavento mi sono preso. Non mi rispondevi e lo sapevo che stavi con la testa a ‘fanculo come sempre, ma ho comunque infartato. Quando Nate mi ha detto che aveva sentito Freddy so quasi svenuto.» asserì con drammaticità, ma Alec non dubitò che potesse esser vero.
Poco dopo anche Chris e Piper arrivarono, la ragazza scalza e con un paio di scarpe dal tacco fino strette in mano.
Non gli dissero gran ché, non chiesero spiegazioni, non gli domandarono cosa avesse detto sua madre per farlo esplodere a quel modo. Lo strinsero solo, lo abbracciarono tutti, ricordandogli che erano lì, che non era una tragedia o la fine del mondo anche se, forse, neanche loro ci credevano veramente.
Si sedettero sul divano, non abbastanza grande per ospitarli tutti, ed Alec si concesse di studiarli per bene, trovando i suoi amici vestiti a festa ma con sguardi gravi e pensierosi.
Non era la fine del mondo.
Non era la fine della sua vita.
Probabilmente la fine del suo rapporto con sua madre, ma non di quello con i suoi fratelli e forse neanche di quello con suo padre… Robert avrebbe dovuto capirlo, accettarlo…gli aveva sempre raccontato di Michael, senza nascondere nulla, con orgoglio, con affetto… avrebbe fatto lo stesso anche con lui, no? Avrebbe parlato con Maryse e- perché era così importante che sua madre capisse? Al diavolo! Non doveva continuare a sperare che Robert le parlasse e le facesse aprire gli occhi, le facesse accettare la cosa. Non doveva sperare in niente da suo padre se non il suo supporto, neanche la sua benedizione. E che cazzo, non aveva bisogno della benedizione di nessuno!
Senza rendersene conto Alec strinse la mano di Piper, ancora saldamente intrecciata alla sua, attirando l’attenzione della ragazza che alzò il capo dalla sua spalla per guardarlo con una nota preoccupata nello sguardo.
Non disse nulla però, questo era uno di grandi pregi di Piper, non parlava mai se non ce n’era bisogno, specie in situazioni come quelle. Era brava ad ascoltare, era brava a capire cosa volesse la gente anche se non parlava, anche se le loro richieste erano assurde e sconclusionate. Mosse però la gamba, colpendo la spalla di Howard, seduto sul tappeto sotto i loro piedi. Lui la guardò e ad un cenno della giovane scosse Chris, vicino a lui, che chiamò Sabrina che allungò una mano verso Dawson, che diede una gomitata ad Andy che avvertì Seth.
Il ragazzo, che aveva osservato dall’altro lato di Alec tutta la trafila, alzò un sopracciglio guardando scettico tutti gli altri, un silenzioso “ma davvero?” lampeggiò nei suoi occhi, che alzò prontamente al cielo quando ricevette sorrisi di scuse e smorfie di chi, palesemente, non sapeva cosa fare.
Alec sbuffò.
«Sono stupido, non cieco.» borbottò mentre l’amico gli si poggiava meglio contro.
«Non sei neanche stupido.» precisò Piper. «Noi però siamo preoccupati. Vorremmo aiutarti ma non sappiamo come.» disse senza vergogna.
Il ragazzo sbuffò ancora. «Qualcuno di voi ha una macchina del tempo? Torno indietro e mi prendo a calci da solo, non dovrete neanche essere voi a farlo.»
Dawson allungò il collo all’indietro, poggiando la testa contro il bordo divano.
«Senza offesa bello, ma se avessi una macchina del tempo la userei per tornare indietro e vincere tutte le scommesse sportive del mondo. Diventerei ricco da far schifo e potrei andarmene dove cazzo mi pare.»
«Come se ora non avessi soldi, eh?» lo rimbeccò Sabrina.
«Andate tutti nella scuola privata più costosa della città, mi sa che i soldi non mancano a nessuno qui.» sorrise Freddy, seduto sulla poltrona vicino a loro. Ai borbottii più o meno imbarazzati di tutti il ragazzo scoppiò a ridere. «Non sentitevi in colpa, non lo è nascere ricchi, è solo fortuna.
«È una fregatura se i soldi non li puoi usare come ti pare.» precisò Howard.
«Credimi, lo è molto di più non averne. Siamo fortunati.» poi si rivolse direttamente ad Alec. «Sono quasi arrivati, Tom ha parcheggiato in culo alla luna come sempre.»
Alec abbozzò un sorriso. «Odia i parcheggi a “s”.» annuì conscio dell’avversione del ragazzo per i marciapiede su cui saliva puntualmente con almeno una ruota. «Non c’è fretta, non è che devo tornare a casa…» sputò poi sarcastico.
Chris batté le mani. «Ed ecco che torna il cinico Xander!»
«Ciao uomo, c’eri mancato.» sorrise Seth dandogli un pugno sulla gamba.
Alec alzò gli occhi al cielo infastidito neanche la metà di quanto volesse sembrare.
«Non è la prima volta che litigo con mia madre, sarà più incazzata perché ho fatto sbattere il cancello e mi sono alzato da tavola prima del dovuto che per quello che le ho detto.» disse quasi cercasse di convincersi da solo, di ignorare il problema principale.
«Buono, quindi lo stato di quasi completa dissociazione in cui ti ho trovato era dovuto alla mancanza del dolce o al cancelletto?» domandò Freddy stando al gioco.
L’altro lo guardò male. «Non studiavi geologia te?»
«Questo non significa che non conosca parole come “dissociazione”. Oh, ma guarda che faccia contrariata! Quindi Nate l’ha presa davvero da te st’abitudine del cazzo, Tom gliela rimprovera di continuo.»
«Dice che può esserci soltanto un moccioso alla volta e che quello è lui?»
Piper gli diede uno schiaffo secco sul braccio. «Alexander, solo perché sei di cattivo umore non vuol dire che tu debba sfogarti sugli altri.»
Freddy scoppiò a ridere e persino Alec si concesse un mezzo sorriso storto. «Oh, no no, ha ragione. Tom può essere un moccioso molto più di quanto non lo sia un vero ragazzino. Nate è solo troppo buono per prenderlo a sberle. Di solito ci penso io.» poi ammiccò verso il moro. «Dovremmo farglielo incontrare, che dici?»
Alec annuì. «Andrebbero d’amore e d’accordo.» rispose ironico.

La tensione si era leggermente allentata quando Nate e Tom arrivarono finalmente all’appartamento.
Il primo ad entrare fu un ragazzo dalla pelle quasi dorata, gli occhi grandi e allungati non nascondevano minimamente quella metà di sangue asiatico che gli aveva regalato sua madre. I capelli scuri erano umidicci e coperti da tanti piccoli puntini bianchi. Scosse la testa come un cane e fece una smorfia.

«Ha pure ricominciato a nevicare, porca puttana.»

Thomas si spostò dalla porta mormorando un basso “con permesso” e allungandosi subito per stringere la mano all’amico, salutando poi da lontano tutti gli altri. Fissò lo sguardo su Alec e sospirò.
«Cazzo Xander, sembri più pallido del solito ma anche incredibilmente rosso, ha senso?»
Il giovane provò a sorridergli senza troppo successo, spostando con improvvisa e rinnovata ansia gli occhi sull’ultimo arrivato.
Il ragazzo che lo fissava, lanciando il berretto e la sciarpa sulla prima superficie disponibile, aveva la stessa faccia preoccupata che aveva visto a tutti i suoi amici, ma c’era una scintilla diversa che illuminava gli occhi verdi.
Nel tempo in cui Nate raggiunse il divano, senza dire una parola, gli altri si erano alzati da terra e gli avevano fatto spazio. Alec non dovette neanche far finta di tirarsi su, il ragazzo poggiò un ginocchio sul sofà e si abbassò per stringerselo al petto, posandogli un bacio sulla testa e chiudendo gli occhi.
«Scusa se c’ho messo tanto.» gli mormorò tra i capelli, la voce bassa e dolce.
Improvvisamente Alec sentì un magone allargarglisi nel petto. Tutta l’ansia e la paura che non credeva di avere o che credeva di aver contenuto fino a quel momento risalì a galla e con orrore si rese conto d’avere gli occhi lucidi.
Deglutì. «Scusa, io- ho mandato tutto a puttane.» disse piano.
Nate scosse il capo prendendo il posto che Piper aveva appena lasciato, gli si sedette vicino, costringendolo quasi a sdraiarglisi contro. L’abbracciò stretto, continuando a lasciargli piccoli baci sul capo, sulla fronte, senza però costringerlo ad alzare la testa e mostrargli il volto.
Alexander chiuse gli occhi, li serrò fortissimo così come fece con la presa sul suo ragazzo.
«Va tutto bene. Devi solo calmarti tu e deve calmarsi lei. È tua madre quella in torto, non tu. Sei maggiorenne, hai diciotto anni, non può scegliere per la tua vita. È una donna intelligente però, capirà presto che è stata lei a sbagliare.»
«Le ho risposto malissimo.»
«Si vede che se lo meritava perché tu non rispondi mai male ai tuoi genitori.» replicò prontamente, come se stesse consolando un bambino che temeva la reazione della sua famiglia per una qualche stupida ed inutile lite a scuola.
Alec non vide gli altri andarsene in cucina, lasciarli soli sul divano a parlare a bassa voce, a cercare e dare conforto l’uno all’altro.
«Potevo dirle di tutto e le ho detto che sono gay.» buttò fuori con voce tremante.
Nate lo strinse ancora di più e Alec si domandò se avrebbe potuto continuare a farlo in eterno o se sarebbe arrivato il punto in cui l’avrebbe soffocato, in cui l’avrebbe spezzato in due dalla troppa pressione. In quel momento non gli sembrava un brutto modo per morire.
«Le hai detto una cosa vera su di te. Potevi dirglielo in altri modi? Sì, senza ombra di dubbio, ma hai sopportato un botto, è normale che tu sia scoppiato nel momento meno opportuno e nel modo meno opportuno.» poi si fermò un attimo. «Al diavolo, non c’è un modo inopportuno per dirlo. È come se ti dicessi che odio il cioccolato e ti ho mentito fino ad ora solo perché tutti invece lo amano e non volevo essere da meno, è stupido, no? Che c’è di male nel non amare il cioccolato?»
Alec alzò di colpo la testa. «Odi il cioccolato?» chiese allarmato.
Nate lo guardò con palese disappunto, le labbra arricciate in una smorfia quasi comica.
«Serio Xan?»
«Hai detto che è come se-»  
«Sì, lo so cosa ho detto, ma era un esempio e- no! Per l’amor del cielo, non odio il cioccolato! Ma tu mi molleresti solo per questo?» lo sfidò alzando un sopracciglio.
Alec batté le palpebre confuso, poi, lentamente, scosse la testa.
L’altro gli sorrise e gli diede un bacio sulla fronte. «Esatto. Non si odia qualcuno solo perché ti ha nascosto per anni che non gli piace qualcosa. E lo so che i gusti alimentari non sono minimamente paragonabili all’orientamento sessuale, ma non c’è nulla di male. Non facciamo nulla di male Xander, non c’è nulla di cui tu ti debba vergognare se non per le stesse cose per cui si vergognato, o almeno dovrebbero, i tuoi fratelli. Ti devi vergognare per essere stato beccato a limonare con il tuo ragazzo davanti alla porta di casa o in macchina, perché stavate spalmati sul letto e qualcuno è entrato senza bussare.> disse ammiccando alla loro posizione. Alexander non poté non sbuffare una mezza risata, Nate gli sorrise con più dolcezza. «Arriverà un giorno non cui fare coming out, in qualunque gusto e orientamento, non farà più scalpore. In cui nessuno ci guarderà più con sospetto o con curiosità e non ci chiederanno come facciamo, com’è possibile.»
«Chi è l’uomo e chi la donna della coppia.» borbottò Alec.
Nate annuì. «Arriverà quel giorno, purtroppo però non saremo noi a nascerci, non cresceremo pensando che non ci sia nulla di male nell’essere gay o lesbica, nell’essere bisessuale o asessuale. Però possiamo comunque vivere e farci forza a vicenda, possiamo combattere ora per normalizzare questa cosa così assurda e far in modo che, in futuro, nessun Alexander litighi con sua madre la sera della vigilia perché lei vuole costringerlo a conoscere ragazze mentre lui ha già un ragazzo
Il moro storse il naso, sfregando il volto contro il petto del compagno. «Mi sono rotto il cazzo d’esser sempre io quello che deve lottare per far si che gli altri poi non debbano passare la stessa cosa.»
«Lo so, lo so che è brutto ma- pensa all’amico di tuo padre. Noi siamo nel ventunesimo secolo ma lui ha scoperto d’essere gay negli anni ottanta. Pensa quanto debba esser stata dura per lui e quanto invece lo sia di meno per te. Pensa che ogni giorno migliorerà un po’.» provò a convincerlo.
«Come fai ad esserne così sicuro?» lo sfidò.
Il ragazzo gli sorrise ancora, i capelli castani parevano quasi ramati sotto le luci calde del salotto.
«Perché ho amici fidati, una famiglia alle spalle e pure un fidanzato. Per quanto timido, scontroso e- come diceva Willi Wonka? Borbottone?»
Alec si issò sulle ginocchia per potergli dare un pungo, ma Nate l’afferrò al volo e se lo ritirò contro, abbracciandolo.
«Mi dispiace che tu ci sia dovuto passare a questo modo. E mi dispiace anche che tua madre non abbia avuto la stessa reazione della mia. Ma ricordati che hai me e i ragazzi. Oh, e che sta notte dormi a casa mia.» precisò in fine.
Alexander avrebbe voluto protestare, avrebbe voluto dirgli che non ce n’era bisogno, forse perché sapeva che se fosse successo il contrario lui non sarebbe stato libero di ospitarlo a casa sua, di stargli vicino come Nate riusciva a fare. Si sentiva in colpa, così maledettamente in torto, torto marcio per tutto. Era in momenti come quelli che Alec si rendeva conto, si ricordava, che nella coppia era lui il più piccolo, che Nate aveva due anni in più di lui e che- che si sentivano tutti in quel caso. Nate aveva vent’anni ed era perfettamente in grado di gestire una crisi, una bomba armata ma non ancora completamente esplosa, com’era lui in quel momento.
Si sentiva così piccolo, malgrado il suo metro e ottanta abbondante, malgrado le sue spallone da nuotatore e i bicipiti gonfi e le gambe muscolose. Si sentiva così piccolo e così impotente.
Un pizzicorio fastidioso gli pungolò gli occhi.
Non meritava tutta la gentilezza e il supporto di Nate. Non meritava tutta l’apprensione dei suoi amici che avevano mollato in tronco i loro parenti la notte di Natale per stare vicino a lui, per stringerlo anche solo una volta e dirgli che sarebbe andato tutto bene, che loro erano lì con lui, per lui.
Cosa aveva fatto Alec per tutti gli altri? Perché loro gli erano vicini e non si lamentavano mai di nulla? Non le vedevano tutte le crepe che si portava addosso, tutte quelle che sua madre invece vedeva così bene cercava da una vita di colmare? Non lo vedevano che era inutile? Che quando sarebbe tornato a casa nulla sarebbe cambiato? Che non dovevano perdere tempo con lui in quel modo?
Serrò la mascella, abbassando il capo e puntando la fronte contro lo sterno di Nate. Che cazzo ci faceva una promessa della programmazione con una persona scialba come lui? Con qualcuno che non era neanche capace di dire a sua madre che non voleva fare il college? Che non voleva essere un avvocato ma fare qualcosa di utile per tutti, non solo per chi aveva abbastanza soldi per poterselo permettere? Che voleva rendersi- utile davvero.
Non c’aveva mai pensato seriamente, questo era davvero il colmo, stretto nell’abbraccio del suo ragazzo Alec realizzò che aveva sempre saputo di non voler fare l’avvocato ma che non aveva mai vagliato un’altra opzione perché nel suo cervello lui non era abbastanza per fare nulla. Non era capace di prendere decisione da sé, di essere autonomo. Come poteva esserlo se per tutta la vita era stata sua madre a scegliere per lui? Come poteva se il massimo della sua decisione era stata tra due opzioni date da Maryse? Se i suoi unici colpi di matto erano sempre stati nascosti alla perfezione? Nascosti come il locale in cui si rifugiava ogni volta che aveva bisogno di riprendere fiato, come le sue amicizie, tenute gelosamente lontane dalla sua famiglia che potrebbe distruggerle, da Maryse che potrebbe disapprovarle fino a costringerlo ad abbandonarle, da Robert che potrebbe dimostrarsi completamente disinteressato a loro come al capriccio di un bambino, da Jace e Izzy, così brillanti, così accecanti in confronto all’ombra scura che era lui che chiunque l’avrebbe abbandonato per inseguire il sole e tutte le stelle.
Con orrore si rese conto che uno dei motivi per cui non aveva mai presentato i ragazzi ai suoi fratelli era che temeva che loro potessero lasciarlo per i più piccoli.
Aveva paura di sua madre, di suo padre e anche dei suoi fratellini.
Aveva paura di tutto.
Aveva paura di rimanere solo e aveva appena innescato il primo meccanismo per dare il via al suo personale incubo, una vallata vuota e buia in cui nessuno sarebbe mai riuscito a trovarlo, in cui nessuno si sarebbe mai immerso per cercarlo, dove non sarebbe mai arrivata la luce e l’unico modo che Alec avrebbe avuto per riemergerne sarebbe stato seguendo la strada rigida che sua madre aveva segnato per lui. Sarebbe potuto tornare a veder le stelle così, ma a prezzo della sua stessa vita, della sua stessa personalità, di sé.
Perché? Perché stava pensando a quelle cose in quel momento? Perché tutto ciò che c’era di brutto e catastrofico nella sua mente stava tornando a galla proprio adesso?
Alec prese un respiro tremante, cercando di regolarizzare l’afflusso irrisorio d’aria nei suoi polmoni. Ci mise un po’ per rendersi conto che Nate l’aveva tirato a sedere, che lo fissava dritto negli occhi e gli ripeteva di respirare, di seguire lui.

«Xander? Xander? Ehi? È qualcosa che ho detto? È colpa mia? Non ci pensare. Scusa, scusa non volevo peggiorare la situazione.» disse cercando di mantenere un tono di voce calmo e basso, forse anche per non allarmare gli altri.
Per quanto si mostrasse sicuro e forte Nate era comunque quello che aveva chiamato uno dei suoi migliori amici per farsi andare a prendere, perché non si fidava di guidare, non quando era così teso, così spaventato. Spaventato da quali potessero essere le condizioni del suo ragazzo, che non potesse aiutarlo in alcun modo, neanche a calmarsi. Credeva sempre che fosse colpa sua, che avesse fatto qualcosa di male lui. In questo, si somigliavano tantissimo.
Alec scosse la testa.
«Ho fatto un casino. Non riuscirò più a rimettere a posto le cose.»
«Non c’è nulla da mettere a posto.»
«Non so cosa fare dopo, non so cosa fare.» ripeté senza senso.
Nate lo guardò preoccupato, gli prese il volto tra le mani e lo portò a poggiare la fronte contro la sua.
«Respira.» disse solo. «Respira. Ci sono io qui.»
«Non dovresti. È una perdita di tempo-»
«Tu non sei una perdita di tempo. E cosa fare dopo ci penseremo domani.»
«Le potevo dire che non volevo fare il college ma le ho detto che ero gay perché era l’unica cosa sicura, perché se mi avesse chiesto cosa volevo fare non avrei saputo cosa dirle.» continuò andando sempre più nel panico.
«Le hai detto che sei gay perché è la verità e perché ti ha rotto il cazzo con la storia delle ragazze, non perché sei un coniglio. Perché non lo sei, okay? Ringraziando il cielo non ti dovrò mai venire a recuperare sul tetto di una baita mentre stai per tuffarti in tre metri di neve in costume da bagno per colpa di una stupida sfida, ma questo non significa che tu non abbia le palle per fare qualunque cosa. E poi lo sai cosa vuoi fare, hai sempre detto che ti piacerebbe esser d’aiuto alla gente.»
«Mi avrebbe detto che un avvocato lo è!» gli fece notare alzando un poco la voce e cercando di allontanarsi da lui. Non glielo permise.
«Non è la stessa cosa, non è come- che so, il vigile del fuoco, la guardia costiera, il poliziotto.»
«Se facessi il poliziotto mi direbbero che sono entrato solo grazie a papà-»
«E tu gli dimostreresti il contrario, cazzo! Xander, non sei un deficiente, non sei stupido, puoi fare letteralmente il cazzo che vuoi. Tranne lo psicologo, quello no, ti prego, finiresti per prendere a schiaffi chiunque.» sorrise e poi allentò la presa sul suo viso. «Ascolta, ora sei solo spaventato da tutto quello che è successo e ti stanno venendo in mente sempre più problemi, sempre più cose che ti spaventano tanto quanto ti spaventava dire a tua madre che sei gay. Perché possiamo concordare tutti che il problema è lei e non tuo padre?» domandò retorico.
«Papà sarebbe un po’ ipocrita in effetti…» concesse lui
Nate annuì. «Ora devi solo smaltire la strizza. Ci sono nove ragazzi vestiti a festa di là, uno è anche un cuoco più che discreto qualcuno mi ha detto.» ammiccò facendogli l’occhiolino. «Non ti sto dicendo che non dovremmo pensarci e che non dovremmo preoccuparci di cosa fare, perché non è così. Ti sto dicendo solo di staccare la spina e goderti il Natale con noi. Ci rilassiamo, facciamo festa e ci scolliamo di dosso un po’ d’ansia. Sta sera dormi da me, i miei già lo sanno e nonna dice che non vede l’ora di conoscerti. Domani quando ci svegliamo ne riparliamo, mi racconti com’è andata e magari chiami, non dico tuo padre, ma Jace, okay? Possiamo affrontare di tutto Alec. Ci sono io, ci sono i ragazzi. Hai noi. Non sei solo, non sei inutile e non sei da aggiustare, va bene?»
Lo guardò dritto negli occhi, preoccupazione e affetto mischiati in un cocktail letale ma così dolce da far quasi male.
Non era solo. Nate aveva parlato sempre e solo al plurale e questo gli accese una piccola luce nel petto.
Forse nella valle oscura in cui sarebbe disceso prima o poi avrebbe sempre potuto far affidamento anche su quella fiammella.

Una torcia nel buio.

Annuì piano, cercando di sorridere.
L’ansia non se n’era andata, la paura era ancora ben ancorata con le unghie e con i denti al suo stomaco. Il dolore, la delusione, il senso di tradimento, era tutto lì, tutto a premere assordante contro le orecchie, ad urlare ferito quanto fosse difficile vivere, quanto fosse difficile stare al mondo così, sentendosi inutile, sentendosi insufficiente.
Quando Nate si sporse in avanti e gli poggiò un bacio delicato sulle labbra però, Alec sentì i polmoni riempirsi d’aria, di ossigeno puro.
Non c’era nulla di sbagliato in quello, non c’era nulla da correggere.
Si lasciò andare lentamente, affidandosi alle mani fini ma forti del ragazzo, passandogli le braccia attorno al collo e stringendolo a sé. Non erano soliti baciarsi in luoghi in cui qualcuno avrebbe potuto vederli, in cui i loro amici anche avrebbero potuto vederli. Era un problema tutto di Alec, perché Nate aveva smesso di domandarsi se fosse troppo, se gli altri si sentissero a disagio. Ma in quel momento un ruggito di puro orgoglio e feroce ribellione gli risalì la gola, e Alec mandò tutto al diavolo, mandò tutto a farsi fottere perché tanto era già andata così, aveva già detto la cosa peggiore nel modo peggiore, ora voleva solo godersi la luce del sole a cui era scappato per così tanto tempo, lasciandosi alle spalle la puzza di muffa e polvere del suo lugubre nascondiglio.
Premette il torace contro quello di Nate e respirò a pieni polmoni.
Forse aveva perso tutto o forse no.
Forse il suo cuore non era cresciuto di tre taglie, ma Alec decise che da quel giorno avrebbe smesso di affamarlo.


Il Natale più brutto della sua vita gli aveva appena regalato una luce di speranza, una fiamma di rivalsa.
Forse Alec non era ancora la persona che sarebbe voluto diventare, forse non era ancora completo, forse non aveva ancora trovato la sua via.
Sullo specchio non vi era ancora alcuna immagine, era solo un vetro trasparente che non rifletteva nulla, ma nel buio pesto ed opprimente del suo piccolo mondo, un timido raggio si era infilato tra le piastre sigillate dell’armatura che lo difendeva strenuamente da tutta la vita.
C’era una crepa nel cielo, nel suo cielo, ma la luce che vi filtrava in mezzo non era più incolore, lentamente si stava tingendo di tutte le sfumature del creato.


Sarebbe arrivato il giorno in cui Alec avrebbe dovuto aggiustarlo, quel frammento di cielo, ma per ora, per la prima volta, decise di lasciar aperto uno spiraglio e permettere al sé che doveva ancora venire di respirare e godere del calore che quelle anime strette attorno a lui emanavano.



Nel buio una singola fiammella bruciava sempre più forte.
Finalmente poteva iniziare a respirare. A farlo davvero.













Un piccolo regalo di Natale in ritardo.
Auguri da Alec e dalla peggiore vigilia della sua vita.

 

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