Hyena

di honeysuckle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


Ore 22:43

 

Lane si guardò le mani. Sudavano, sudavano copiosamente. Tutto il palmo era bagnato, e le punte delle dita erano diventate fastidiosamente scivolose, tanto che dovette abbandonare la presa sulla penna, incapace di tenerla salda. La posò bruscamente sul quaderno, innervosito, e sfregò le mani nei jeans per asciugarle.

Sbuffò, sfregandosi piano le palpebre. Gli occhi bruciavano da morire anche sotto i suoi stessi polpastrelli, li sentiva tirare e prudere, stanchi e secchi, esattamente l’opposto delle sue mani.

Il suo stesso corpo stava iniziando a tradirlo.

 La concentrazione l'aveva spudoratamente abbandonato quella mattina e, benché si sforzasse di controllare l'emozione, ormai aveva preso coscienza del proprio fallimento. Da quando Jay gli aveva promesso di portarlo alla Cava non riusciva a pensare ad altro. Cominciò a giocherellare con la penna, senza staccare gli occhi dal foglio bianco che aveva davanti. Sentì lo stomaco ripiegarsi su se stesso tanto da fargli male e il cuore cominciare a battere veloce nel petto.

Mancava così poco.

Ed era tremendo.

Era tremendo non riuscire a pensare ad altro, e più ci pensava più sentiva l'ansia farsi strada nel suo cervello e martellargli nelle tempie. Era terrorizzato dalla sua stessa impazienza: non era mai stato alla Cava, né aveva mai avuto contatti con scrittori che la frequentavano. Tuttavia le storie giravano e inevitabilmente alcuni lavori uscivano da quell’oscuro raduno: a scuola era facile trovare diverse cose degli autori più popolari, ne circolavano costantemente copie sgualcite e lise che gli studenti si passavano in classe, in mensa e nel cortile; lui stesso aveva contribuito a questa condivisione, distribuendo il materiale che Jay gli aveva procurato durante le sue brevi e svogliate visite, dopo averlo letto meticolosamente da cima a fondo. Diventare un autore della Cava non era complicato: non era necessario possedere particolari requisiti, né conoscere qualcuno di interno al circolo. Questo lo sapeva, perché era una cosa che sapevano tutti. Così come sapeva che in ogni caso nessuno osava avvicinarsi alla Cava prima di averci pensato bene, perché l'aria che si respirava lì dentro era intrisa di pura e agghiacciante competitività.

Nessun nuovo scrittore era benvisto, aveva detto Jay.

«Ma tu sei così bravo, ne varrà la pena» aveva aggiunto poi, come se questo avesse potuto anche solo lontanamente ridurre la soggezione che Lane sentiva nei confronti di quel posto.

Improvvisamente suonò il campanello. Lane sussultò lievemente e si asciugò un’altra volta le mani sulle cosce, senza pensarci. Era arrivato il momento di alzarsi e uscire dalla bolla di malsano nervosismo in cui si era recluso tutto il giorno. Afferrò velocemente una maglietta bianca dall'armadio e la infilò, senza badare minimamente a ciò che faceva, si passò una mano tra i capelli per dar loro una parvenza di decenza, scostò per un secondo la porta dalla parete e prese la giacca. Scese rapidamente le scale, infilandola maldestramente, con i gomiti che sbattevano contro il corrimano. Lanciò un’occhiata allo specchio appeso alla parete di fronte, si sistemò brevemente il colletto e infine aprì la porta.

La prima cosa che Jay fece quando lo vide fu squadrarlo con disappunto. Lane gli restituì lo sguardo, soffermandosi sui suoi capelli incredibilmente spettinati e sulla sua maglietta, troppo larga per quel busto scheletrico.

Poi gettò la sigaretta e gli chiese dove avesse lasciato il quaderno e, senza aspettare che rispondesse, gli chiese i soldi per la benzina.

Lane non disse una parola. Si cacciò un paio di monete fuori dalla tasca e gliele mise in mano. Poi si diresse in silenzio verso il motorino parcheggiato poco distante, si sedette e si mise il casco.

Jay non era un grande frequentatore della Cava. Ci andava perché la sorella era amica di uno che stava sempre là a fare reading, e lui doveva accompagnarla ogni volta che voleva, perché gli pagava la benzina. Allison prendeva le copie gratuite dei lavori degli scrittori dalla Cava, le dava a Jay e lui senza nemmeno guardarle le passava a Lane.

«Non sembri molto uno scrittore vestito così»

Disse, infilandosi il casco a sua volta. Lane gli lanciò un'occhiata spazientita e alzò le spalle. Non voleva perdere tempo, né dare a Jay l’opportunità di fargli passare la voglia di andare.

«C'è Allison stasera? »

«Per fortuna no»

Lane si passò una mano tra i capelli e borbottò qualcosa.

«Che hai detto?» chiese Jay, vagamente irritato.

«Ho detto che senza Allison non ha senso andare»

«Okay, quindi non andiamo?»

Calò il silenzio. Jay accese il fanale del motorino e Lane si aggrappò alla sua giacca. Le sue mani scivolavano sul tessuto leggero.

«Hai le mani sudate» sbuffò Jay, prima di allacciarsi il casco e fare inversione nella via buia.

 

*

 

Arrivarono nel punto in cui iniziava il corridoio della Cava. Era un posto fuori mano, squallido e tetro, all'ingresso del bosco. Ad accoglierli all'entrata c'era un tappeto di siringhe vuote e opalescenti, che rilucevano debolmente alla luce della luna. Un terribile odore di fogna e spazzatura, mischiato a quello umido del muschio e del fango e delle foglie marce, contribuiva a rendere la situazione estremamente scoraggiante.

Jay calpestò le siringhe senza nemmeno guardarle e gli fece cenno di seguirlo. Lane lo osservò mentre spariva nel buco oscuro, incespicando sulle foglie secche, con una mano bianca contro la fredda pietra nera. Vide improvvisamente una fioca luce scintillare nella sua direzione e sentì una voce alquanto seccata bisbigliare un «ti sbrighi?». Sussultò brevemente e si accinse a seguire l'amico. Posò anche lui la mano sulla pietra: era umida e fredda.

«Se avessi saputo che non te ne fregava niente non ti avrei nemmeno chiesto di venire» disse Jay, tenendo alto il telefono per cercare di illuminare più strada possibile.

«Si che me ne frega» rispose sottovoce Lane. Respirava a malapena per il senso di claustrofobia che gli procurava il tunnel, terribilmente stretto, accentuato dal fastidio di non avere nessun punto di appiglio durante la discesa.

Poi all'improvviso iniziarono i gradini. E con essi alcuni dei primi graffiti. Lane osservò la parete, sorpreso. Il primo disegno che vide fu quello di un enorme gufo: era stato realizzato con una vernice bianca che luccicava debolmente nel buio del corridoio, così come tutti gli altri.

«È per questo che si chiama la Cava del Gufo?» chiese Lane quasi senza pensare, assorto nella contemplazione del gigantesco animale. Jay alzò le spalle.

«So solo che la parete di sinistra è per i disegni, mentre questa» disse, battendo piano il palmo sulla parete destra «è quella delle firme».

Lane lo fissò, incerto. Jay gli voltò le spalle e continuò ad avanzare.

Man mano che procedevano giù per i gradini cominciarono ad apparire anche delle scritte, come aveva detto il ragazzo. I nomi di coloro che avevano frequentato assiduamente la Cava per anni, che avevano ottenuto la loro porzione di gloria all'interno di quella losca bolla sotterranea e anche fuori, che avevano speso tutti i loro soldi e il loro tempo per investirli in qualcosa che avevano riconosciuto come il proprio futuro.

La vocazione più grande, pensò distrattamente, continuando a scendere lentamente i gradini senza smettere di guardare la parete delle firme, fremente di eccitazione. Vide alcuni nomi che conosceva e sentì uno strano, travolgente formicolio lungo le braccia. Sorrise lievemente, senza accorgersene.

«Lane!»

Si riscosse al suono della voce di Jay che lo chiamava, a venti metri da lui. Quasi si mise a correre. Man mano che si faceva più vicino sentiva delle voci concitate, delle risate, farsi sempre più chiare.

Qualche secondo dopo si trovò davanti ad un rettangolo luminoso, all'interno del quale spiccava la sua sagoma, con la schiena appoggiata alla parete.

Jay sorrise debolmente e gli tese la mano. Automaticamente portò la mano ai jeans per asciugarla prima di dargliela, e si sorprese nel trovarla secca come la sua gola. Deglutì nervosamente.

Nel momento in cui prese la mano di Jay per arrampicarsi fuori da quel buco infernale il suo cuore cominciò a battere all'impazzata.

È reale, esiste davvero e io ci sono dentro.

 

 

La prima cosa che notò è che c'era davvero molta gente.

Jay si stava trattenendo più del previsto vicino all'entrata per scambiare due parole con persone che lui non aveva mai visto in vita sua. Rideva apertamente, stringendo tra le dita una sigaretta. Poi, dopo averla agitata per un po’ a mezz’aria, se la ficcò tra le labbra e la accese con un solo fluido movimento, facendo scivolare un attimo dopo l'accendino in tasca. Si passò piano una mano tra i capelli, tirando una profonda boccata, e fece scivolare via il fumo grigio dalle labbra rosse che spiccavano in modo quasi innaturale sulla sua pelle pallida.

Vide che stava comprando qualcosa, gli stavano passando della roba e lui ringraziava con un gran sorriso, il meraviglioso gran sorriso sociale che gli invidiava da una vita.

Poi si girò e se ne andò verso Lane, che si rese conto di averlo fissato imbambolato tutto il tempo. Vide la sua sfavillante, bianchissima, migliore maschera morire molto rapidamente sulle sue labbra.

«Hai usato i miei soldi della benzina per comprarti la droga» disse Lane, infastidito, sfregandosi le mani che stavano ricominciando a bagnarsi. Jay gli sorrise, per davvero stavolta, e gli sfiorò lievemente una guancia.

«Non ho cenato oggi» disse, nel tono forzatamente ironico e leggero che Lane detestava.

Nell'udire quell'informazione il ragazzo roteò gli occhi e si scostò, troppo irritato e imbarazzato dalle circostanze per lasciarsi andare a simili gesti.

Jay per tutta risposta fece lampeggiare un sorriso vittorioso nella sua direzione, e senza lasciargli il tempo di replicare gli fece cenno di seguirlo.

Tutto questo è reale.

 

Si gettarono in mezzo al popolo della Cava.

 

 

*

 

La Cava era una vera e propria arena di pietra nera.

 

Non esisteva soffitto: il cielo era l'unica cosa che sovrastasse le sue altissime pareti, e non riusciva a distinguere il bordo della conca, che sembrava fondersi alla perfezione con il buio della notte. Alcuni alberi erano riusciti a mettere radici nel terreno irregolare e chiazzato di verde, troppo selvatico e trascurato per sembrare un vero prato, e lì si ergevano, nella loro imperturbabile esistenza, a metà tra lo spettacolare e tetro trionfo della natura e – Lane non sapeva più dove volgere lo sguardo perché c’era davvero troppo da guardare – la strabiliante manifestazione di umanità che sfavillava, letteralmente, davanti ai suoi ingenui occhi di spettatore.

Non esistevano spazi liberi: dovunque si voltasse, Lane vedeva luce e caos.

C'erano stand in legno dall’aria precaria, tappeti sporchi e consumati di tutti i colori, panche, tavoli, tende, bancarelle affollate e rumorose. In ogni angolo c'erano persone che parlavano, ridevano, discutevano, camminavano, correvano, litigavano, urlavano, compravano droga e altri interessanti gingilli e facevano casino. Niente aveva un senso, niente aveva un ordine o un criterio.

Centinaia di vecchie lanterne ad olio, di quelle che era convinto non esistessero più, erano sparse ovunque, con le loro fiamme calde e tremolanti, e gettavano ombre dorate e luminose su qualsiasi cosa, facendo luccicare le foglie degli alberi e i capelli dei ragazzi in maniera quasi romantica. Alcune erano state appese ai rami degli alberi, altre appoggiate alle superfici dei banconi, in mezzo ai fascicoli e ai fogli stampati di fresco, altre ancora erano stette nel pugno di giovani volenterosi, che sgusciavano come lucciole in mezzo alla folla, tenendole alte come per proteggerle.

Lane era in estasi. Si accorse di stare sorridendo apertamente solo quando Jay gli diede un colpetto sulla spalla, invitandolo ad avanzare nella calca.

«Tutto questo è folle» mormorò tra sé, sovrapponendo per un attimo la praticità alla meraviglia «prenderà fuoco qualcosa»

Inaspettatamente, Jay scrollò le spalle.

«Non ci sono prese di corrente qui» disse, alzando le sopracciglia «non possono fare altrimenti»

Lane gli lanciò un’occhiata di rimprovero.

«Questo lo so» disse, riportando lo sguardo sulla moltitudine brulicante, distinguendo appena i volti gli uni dagli altri e aggiunse «spero che almeno abbiano qualche estintore»

Jay scosse la testa, sorridendo appena.

«Smettila di pensare a queste stronzate e goditi l’atmosfera» gli disse, alzando appena la voce per sovrastare il chiasso «è il motivo per cui quelle fottute lanterne sono qui»

Lane lo seguì con lo sguardo mentre si accingeva ad avanzare ancora di più nel fiume frenetico di persone, consapevole di doverlo seguire.

«Jay!»

Si voltarono entrambi. Vide il volto di Jay accigliarsi improvvisamente.

Allison avanzava verso di loro, più sorridente che mai. I riflessi delle fiamme danzavano animatamente sui suoi ondeggianti capelli rossi, abbaglianti come fuoco contro il tessuto bianco del suo vestito – scelta strana, pensò Lane, che mai l’aveva vista abbigliata in quel modo – e i suoi occhi vagavano da un ragazzo all’altro, brillando sotto quella luce calda e gialla. Sembrava la personificazione della gioia.

«Ciao» disse Jay, atono. Nonostante le lanterne illuminassero anche il suo volto cereo, i suoi occhi rimasero scuri e freddi.

«Ciao Allison» disse Lane a voce bassa, lasciando che lei lo stringesse in un breve abbraccio.

«Jay mi ha detto che ti avrebbe portato ma non avevo idea che sareste venuti oggi» esclamò, evidentemente deliziata dalla presenza del ragazzo.

«Io invece non avevo idea che oggi ci saresti stata tu» ribatté Jay.

Allison lanciò un’occhiataccia al suo gemello, poi rivolse a Lane uno dei suoi sorrisi delicati e lo afferrò frettolosamente per il polso, cominciando a farsi largo tra le persone.

Non provò nemmeno a divincolarsi. Lanciò un’occhiata terrorizzata all’amico, lasciandosi trascinare attraverso le zolle di terra asciutta ed erbosa e i tappeti rovinati.

«Guarda che non ti posso riportare a casa stanotte» urlò Jay, che era rimasto qualche passo indietro rispetto a loro.

«Non fa niente» gridò la sorella di rimando, e poi aggiunse, abbassando il tono e rallentando il passo «almeno ti sei deciso a portarlo qui»

«In realtà era lui che non voleva venirci» rispose il ragazzo, palesemente sulla difensiva, raggiungendoli in pochi passi.

Lane era troppo impegnato a sentirsi a disagio per prestare attenzione alla discussione fra i due fratelli. Voleva andare ovunque e da nessuna parte. Una parte di lui era incredibilmente eccitata anche solo all'idea di avere i piedi poggiati sul suolo della Cava, l’altra invece stava letteralmente impazzendo per la presenza di così tanta gente, che lo urtava e lo spintonava e lo guardava come se fosse totalmente fuori posto lì, tra loro, anime elevate e atipiche. Gli tornarono in mente le parole che Jay gli aveva rivolto fuori da casa sua.

«Io sono di là con alcuni amici di scuola, se volete venire a fare due chiacchiere prima che cominci il reading»

Allison indicò un punto assolutamente indefinibile dell'arena e si allontanò in quella direzione, lasciandoli di nuovo soli.

«Mi spieghi perché non hai portato il tuo quaderno?» borbottò Jay, accendendosi un'altra sigaretta, dando a malapena segno di accorgersi della frenesia intorno a sé.

«Perché non mi andava»

«Sei un cretino»

Il ragazzo scrollò le spalle, liquidando l’insulto con apparente leggerezza.

«Non porterò mai niente qui, e tu lo sai»

Vide il suo volto accigliarsi impercettibilmente, per poi ritornare immediatamente al suo stato originario di noia e apparente apatia.

«Vedremo» borbottò solamente, affondando le mani nelle tasche. Lane non rispose.

Va bene così.

 

*

 

 

Lane era seduto per terra su un logoro tappeto marrone insieme ad Allison e ad altre quattro persone che non aveva mai visto in tutta la sua vita, proprio nel mezzo della Cava, mentre davvero un sacco di gambe camminavano noncuranti intorno a loro. Jay li aveva mollato per andare a farsi una canna da qualche parte in santa pace.

Supponeva che anche questi sconosciuti fossero più o meno della stessa età dei gemelli. Non avrebbe mai immaginato che l'amico di Allison che leggeva pubblicamente le sue poesie sul corpo femminile potesse avere ventitré anni.

«Lo so, per te è strano» disse il ragazzo, il primo scrittore della Cava che Lane avesse avuto il piacere – si fa per dire - di conoscere di persona «da come se ne parla in giro, la Cava sembra un posto per ragazzini, o comunque per persone che vanno ancora a scuola. Ma c'è qualcosa in questo ambiente che ti trattiene, mi capisci? Una volta che ci sei dentro, è per sempre»

Questo qua è completamente andato, pensò Lane, annuendo alle sue parole per far vedere che aveva capito. Nessuna delle storie che aveva sentito sulla Cava si poteva considerare positiva. Tutti dicevano che aveva il suo fascino e che avere successo là significava avere successo anche fuori, nella vita vera, come scrittori veri, ma ottenere un posto di rilievo, reale, concreto e intoccabile lì dentro richiedeva uno sforzo immane.

Fortunati eletti, pensò di nuovo, cercando di ignorare il suo stomaco che si contorceva dolorosamente.

«Io so di persone che non hanno concluso niente qua dentro» disse Allison, bevendo un sorso dal suo bicchiere di birra, facendo scattare le sopracciglia in alto in modo eloquente «se Lane deve unirsi al giro tanto vale che sappia tutto»

Il suo amico si girò a guardarlo con interesse.

«Non avevo idea che scrivessi anche tu» disse, e Lane vide il suo sguardo mutare, farsi glaciale e allo stesso tempo più vivace.

«Si, a volte» rispose semplicemente. Non si stava affatto divertendo. Fece scorrere rapidamente lo sguardo sulla massa in movimento intorno a sé, sperando di individuare la figura familiare di Jay in qualche angolo remoto.

«Poesia o prosa?»

«Prosa»

«Ah» sospirò in tono annoiato «allora non è il mio campo, mi dispiace»

Poi si voltò verso Allison, guardandola con gli occhi carichi di consapevolezza, nei quali brillava una minuscola luce di volgarissimo biasimo.

«Comunque, gli inetti non ce la fanno mai» dichiarò, rispondendo evidentemente alla sua affermazione di poco prima.

Lane rimase muto come una tomba. Si sentiva terribilmente a disagio, aveva bisogno di allontanarsi da quel gruppetto male assortito e di andare a fare un giro rilassato tra gli stand, cercare qualcosa che davvero lo colpisse e portarselo a casa. D'altronde era lì principalmente per questo motivo. Ma non poteva scivolare via con una scusa e sputare in quel modo sull’aiuto di Allison, assolutamente no.

Aveva bisogno che Jay tornasse subito. Asciugò i palmi sul tappeto senza farsi vedere.

«Quanti anni hai, Lane?»

Gli chiese sempre lo stesso ragazzo, che nel frattempo aveva mandato giù qualcosa con la birra di Allison.

«Diciassette» rispose automaticamente.

Il tizio senza nome alzò le sopracciglia, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa Lane sentì la voce di Jay chiamarlo in lontananza.

Grazie a dio, pensò confusamente, sentendo il sollievo espandersi caldo e rassicurante nel suo petto.

Si alzò rapidamente, mormorò un «grazie a tutti per il vostro tempo» e, lanciando ad Allison un timido sguardo carico di sincera riconoscenza, corse via.

Non appena raggiunse Jay si accorse che non era solo. Stava parlando con una ragazza.

«Lane» disse, passando un braccio intorno alle sue spalle «lei è Sam, frequentavamo Chimica insieme. Sam è una che conosce bene questo posto, non come quel coglione là» indicò con la testa l'amico di sua sorella, con un’espressione di totale disgusto dipinta sul volto.

Sam ridacchiò e Lane sorrise piano.

Notò che era davvero graziosa. Lei gli porse la mano e lui la prese, approfittando di quell’attimo per osservare rapidamente il suo viso.

I suoi occhi grandi e scuri lo fissarono con gentile curiosità. Aveva le ciglia pulite e straordinariamente lunghe, e ne era assolutamente consapevole, ci avrebbe scommesso, visto il modo in cui le sbatteva quando si accorgeva che Jay la stava guardando.

La sua pelle era di un colore straordinario. Catturava la luce e riluceva, dorata e ipnotica, come se fosse fatta di chissà quale materiale prezioso, e il suo sorriso vi spiccava, inverosimilmente candido, perennemente stiracchiato sulle labbra carnose.

Lanciò un’occhiata di sottecchi a Jay. Sembrava completamente assorbito dalla sua ennesima sigaretta.

La ragazza si ravviò un ricciolo scuro dietro l’orecchio e cominciò a parlare come se venti secondi di conoscenza fossero stati sufficienti a metterla a proprio agio.

«Allora, te lo spiego in breve. La Cava è come un'arena da combattimento. In questo posto, come puoi vedere, ci vengono davvero tante persone. Ogni giorno. Alcuni sono interessati solamente a fumare, bere, ascoltare qualche stronzo che legge le sue poesie e a procurarsi qualche copia gratuita di un lavoro decente. Ma il vero pericolo della Cava sono gli altri scrittori. Mi è parso di capire che tu scrivi racconti, no? Ecco, se sei interessato a ritagliarti il tuo posto qui devi iniziare a capire già da adesso che non hai nessun nascondiglio e nessuna protezione. Nella Cava non ci sono regole. Non è una libreria abusiva né un teatro. La Cava è un trampolino di lancio, un ambiente letterario che può essere sia molto piacevole che molto spiacevole. Qua nessuno ti da soldi per niente, se vuoi qualcosa devi mettere tutto di tasca tua. La cosa bella della Cava è proprio questa: coloro che sono più motivati a spendere soldi per mettere in circolazione copie dei loro lavori sono i più bravi e vengono sempre apprezzati. Gli sfigati che non sono capaci di scrivere due parole di fila non durano niente qui, per questo ti consiglio di pensarci bene prima di lanciarti in una cosa simile. Poi devi sapere che gli stand sono per gli scrittori che lavorano in gruppo, quindi non metterti mai contro di loro, sono praticamente un branco di bestie selvagge. I tappeti sono i posti peggiori perché rischi sempre di essere calpestato e non riesci nemmeno a sentire la tua stessa voce. I posti migliori in assoluto sono i gazebo»

 

Indicò una fila di gazebo colorati, allineati sul lato dell'arena opposto al loro.

«Io di solito sto in quello viola»

Lane, che era rimasto ad ascoltare affascinato le parole della ragazza, annuì automaticamente e le chiese d'impulso:

«Tu scrivi?»

Jay spostò lo sguardo da lui a lei. Lei rise e si grattò la nuca, spostando i capelli sulla spalla.

«Ti pare che starei qui a dare consigli alla concorrenza se fossi stata una scrittrice con un gazebo?»

«Scusami, ho parlato senza pensare» borbottò Lane, mentre Jay soffiava fra i denti una breve risata canzonatoria.

«Non ti preoccupare. La scrittrice nel gazebo viola è una mia amica. A volte mi invita a fumare con lei. Se hai già letto qualcosa che proviene da qui allora forse ti è capitato per le mani qualcosa di suo. Si chiama Zoey, ma probabilmente la conosci come...»

«Hyena»

«Esatto»

Lane non riusciva a muovere un muscolo. Se ne stava lì, con gli occhi spalancati, a fissare Sam, mentre lei gli sorrideva con aria comprensiva e Jay lo guardava storto.

Era sicuro di sembrare un idiota. La portata della notizia l’aveva sopraffatto, il cuore aveva iniziato a sbatacchiargli nel petto come un uccello in gabbia e non riusciva – santo Dio, proprio non ci riusciva - a contenere la sua incredulità. Quella sensazione vibrante di entusiasmo, di emozione allo stato puro stava rapidamente prendendo il controllo del suo cervello, rendendolo consapevole del fatto che ciò che non aveva nemmeno osato sperare fino a un minuto prima stava per accadere davanti ai suoi occhi, proprio a lui.

«Tu mi stai dicendo» disse infine, passandosi una mano tra i capelli, senza sforzarsi di trattenere la sua goffa, estatica ammirazione «che conosci la scrittrice migliore di tutta la Cava?»

«Si, diciamo di si» rispose la ragazza, sorridendo lievemente alla vista della sua reazione.

Guardò Jay. A malapena si accorse di stare trattenendo il respiro.

«Vuoi conoscerla? Ti ci porto subito se vuoi» aggiunse, cercando di riconquistare l’attenzione di Jay con le sue maestose ciglia.

Vide l’amico roteare gli occhi, ma sapeva benissimo che anche lui era curioso di vedere la Hyena di cui parlavano tutti a scuola.

«È bella come nelle foto?» chiese Jay, scettico.

Sam scrollò le spalle, ma annuì.

«Come se il suo aspetto cambiasse qualcosa» borbottò Lane, mentre una mano invisibile gli stringeva convulsamente lo stomaco. Si sentiva un grandissimo idiota per aver reagito in quel modo incontrollato davanti ad una sua amica. Sentiva di stare sguazzando in una pozza di appiccicosa e ingenua curiosità, affondandovi inesorabilmente, ma non poteva fermarlo, non poteva fermarsi.

«Andiamo a conoscere l’élite di questo posto, allora» disse Jay, lanciando una breve occhiata eloquente a Lane «speriamo che non ci mangino»

Dalla bocca di Sam uscì un grazioso sbuffo divertito.

«Non sono affatto come ve li immaginate» disse, e un ultimo bianchissimo sorriso lampeggiò nella direzione di Jay. Poi la ragazza si voltò e cominciò a camminare in direzione dei gazebo.

La seguirono con lo sguardo per qualche istante.

«Ti sei accorto che stava cercando di sedurti tutto il tempo, vero? » borbottò Lane, cercando di non farsi sentire dalla diretta interessata.

Jay alzò le spalle.

«Andiamo, o rischiamo di perderci» disse semplicemente, afferrandogli il polso e tirandoselo dietro, prima di tuffarsi di nuovo in quella rumorosa mandria di anime.

 

Note autrice

Mi scuso per eventuali errori di battitura, è il primo progetto serio in cui mi cimento ed è molto importante per me, quindi ogni tipo di recensione (soprattutto critiche costruttive) è ben accetta anzi, vi prego, criticate tutto ciò che potete. Ci tengo a fare un buon lavoro e a migliorare come autrice, se qualsiasi dettaglio della storia risulta confuso o scritto male – sotto qualsiasi punto di vista – segnalatelo senza problemi. In ogni caso, spero che questo capitolo vi piaccia e che vi invogli a seguire la storia.

A presto, F.

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Capitolo 2
*** II ***


Ore 23.59

 

 

 

L’aria era irrespirabile.

Sentiva la gola bruciare. Un fuoco mostruoso, secco e devastante gli stava mangiando la carne dall’interno, raschiandola con le sue unghie laceranti e incorporee. Deglutì un paio di volte, cercando di scacciare la dolorosa sensazione di ruvidità, ma non aveva più saliva. Sentì un disperato bisogno di tossire crescere dentro la sua gabbia toracica ma non poteva, oh no, non poteva assolutamente. Non lì. In qualsiasi altro posto si, ma lì no.

 Nemmeno morto.

Faceva una fatica tremenda a respirare.

Non aveva più alcuna difesa. Sentiva le vie respiratorie asciutte quanto la gola. Si sforzò di inspirare ed espirare rapidamente, cercando, con la disperazione che gli stringeva il petto, di impedire al fumo di penetrare all’interno dei polmoni e soffocarlo.

Gli girava la testa.

L’ambiente era insopportabilmente buio, gli occhi gli prudevano con una ferocia tremenda. Tutto quel fumo secco, denso e appiccicoso gli dava la nausea. Era tutto troppo stretto, troppo chiuso, orribilmente opprimente.

Sentì la paura di svenire farsi strada nella sua mente.

Mio dio no, non adesso.

Non riusciva a vedere la schiena di Jay. Da quella nebbia spettrale sbucava solamente la sua mano, i cui contorni risaltavano incredibilmente nitidi contro il bianco nauseante che li circondava, che stringeva debolmente l’indice e il medio della sua mano sinistra. Stava cercando di concentrare tutta la sua attenzione su quel lieve contatto, tenendo lo sguardo fisso sulle sue dita, cercando con tutta la buona volontà rimastagli di non farle scivolare via.

Non era nemmeno sicuro di dove stessero andando, né tantomeno gli importava. Voleva uscire da lì più di ogni altra cosa al mondo. Si faceva trascinare passivamente, la testa annebbiata dalla mancanza di ossigeno. Stava trattenendo il respiro, non se n’era nemmeno accorto. Interruppe bruscamente l’apnea e prese una lunga boccata d’aria. Il fumo arido e disgustoso si espanse dolorosamente all’interno dei suoi polmoni. Sentì gli occhi inumidirsi nello sforzo di trattenere la tosse. Si passò una mano fra i capelli, tirandoli lievemente, cercando di mantenere la calma.

Vedeva le sagome nebulose delle altre persone, nere contro il candore dell’aria, che gli passavano accanto rapidamente. Procedevano molto più veloci di lui. E sentiva le loro voci, che parlavano e ridevano tutte insieme, rimbombare pesantemente nelle sue orecchie. Percepì un dolore acuto bucargli le tempie come uno spillo e diramarsi in tutto il cranio come una scossa.

Una ragazza sbatté inavvertitamente contro la sua spalla, costringendolo a fermarsi per un secondo. Il suo cuore accelerò improvvisamente la sua corsa nel momento in cui si rese conto di aver perso la mano di Jay. Le sue dita scivolose, rese ancora più deboli dalla confusione crescente e inesorabile, avevano lasciato la presa senza il suo consenso.

Il panico lo assalì rapidamente, morboso e schiacciante, diffondendosi nel suo petto come una nube tossica e mozzandogli il respiro. Lo stomaco si contrasse violentemente, provocandogli una nausea terribile. Incrociò le braccia sopra la pancia, cercando di schermirsi il più possibile dalle figure intorno a sé, e provò a fare un passo in avanti. Fu rispedito indietro da una spallata. Qualcuno gli pestò un piede. Voltò la testa a destra e a sinistra, senza pensarci, cercando qualcosa – qualcuno di familiare, mentre la sensazione di terrore serpeggiava, sottile e paralizzante, intorno al suo cuore impazzito.

Dio santo calmati non è successo niente non è niente smettila ce la puoi fare.

Sentiva i corpi delle altre persone orrendamente vicini. Sentiva il calore sporco e fastidioso che emanavano, sentiva braccia e fianchi e pance strofinarsi contro di lui e, Gesù santissimo, stava per morire soffocato, lo sapeva, ne era sicuro, l’apnea era l’unica cosa a cui si stava aggrappando, a cui poteva ancora aggrapparsi.

Non poteva respirare, non ci riusciva. L’odore della massa brulicante si mischiava a quello stagnante e pungente delle sigarette e dei bong. Decine di bocche stavano sputando nell’aria fiotti di fumo ripugnante e impalpabile, che arrivava al soffitto e tornava indietro, come una bestia confusa, espandendosi nei gazebo senza alcuna possibilità di fuga.

I suoi occhi pizzicavano, tentando inutilmente di salvare i suoi condotti lacrimali dalla disidratazione totale. La sua gola era così stretta che non riusciva più a deglutire, e la teneva serrata nel tentativo di trattenere la tosse che minacciava di uscire da un momento all’altro.

All’improvviso, in maniera talmente inaspettata che a malapena riuscì a realizzarlo, la faccia di Jay bucò la superficie di quella nauseante foschia , bianca come il gesso, decisamente infastidita. I suoi capelli rossi vi spiccavano in modo quasi violento. Per un unico, crudele momento credette di esserselo immaginato. Ma poi la faccia parlò e lui sentì un immediato sollievo diffondersi piacevolmente nel petto, come aria fresca, prendendo il posto del panico.

«Muoviti» disse solamente, a voce più alta del normale, cercando di sovrastare il rumore, prima che Lane potesse aprire bocca. Gli prese la mano con aria impaziente e si voltò, accingendosi a procedere.

Ma gli scivolò via, e ricadde debolmente contro il fianco di Lane, che solo in quel momento si rese conto quanto fossero gelide le sue mani. Chiuse il pugno automaticamente, infastidito.

Jay lo guardò in silenzio per un attimo. Poi gli afferrò più saldamente il braccio, e riprese a trascinarlo dietro di sé come se nulla fosse.

Man mano che procedevano gli occhi di Lane, sempre meno asciutti, riuscivano a distinguere più chiaramente l’ambiente in cui stavano camminando con così tanta fretta.

Non vedeva più quel tappeto di persone così fitto che a malapena si distinguevano l’una dall’altra.

Si rese conto di essere all’interno del corridoio dell’ultimo gazebo nel momento in cui urtò per sbaglio una delle pesanti tende che li separavano l’uno dall’altro. Aveva tenuto per tutto il tempo la testa bassa per evitare di inciampare nelle buche del terreno e di incrociare gli sguardi degli altri.

Si era limitato a provare a non perdere Jay, che a sua volta seguiva Sam, che sgusciava via tra la folla come uno scoiattolo.

Il gazebo erano stati messi l’uno di seguito all’altro per formare una sequenza continua, un’area riservata e discreta. Tuttavia ogni gazebo costituiva una stanza a sé, separato dagli altri da una parete di spesse tende logore. Era la cosa più vicina ad un edificio che ci fosse nella Cava.

Ogni gazebo è assegnato ad uno scrittore diverso.

«Siamo quasi arrivati» sentì dire a Jay, e la presa intorno al suo polso si fece leggermente più stretta.

Inciampò un paio di volte nelle pieghe dei tappeti che ricoprivano alla bell’e meglio quel che c’era da coprire, senza distinzioni tra sassi o fossi, mentre Jay continuava a trascinarlo, imperterrito, come se non si accorgesse di nulla. Aveva ripreso a fare piccoli respiri veloci, ma gli sembrava di inalare cenere ardente.

Improvvisamente si fermarono. Lane vide a malapena una tenda scostarsi bruscamente a un metro da lui. Un rettangolo di piacevole luce dorata si spalancò davanti a loro, e un secondo dopo cominciò a sentirsi decisamente meglio.

Batté le palpebre un paio di volte. Provò un sollievo molto simile alla gratitudine nel sentire che gli occhi si stavano idratando di nuovo: aveva una sincera paura che le lenti gli rimanessero incollate agli iridi. La penombra e tutto quel bianco opprimente avevano alterato le sue percezioni, e la luce improvvisa, così calda e gialla, gli aveva procurato una fitta acuta alla testa.

Inspirò a fondo, sinceramente contento di avere tutta quella benedetta aria pulita intorno a sé. Lo stimolo incontrollabile di tossire era scomparso, così come la costante e paralizzante sensazione di oppressione.

Jay lo aveva lasciato. Si stava accendendo una sigaretta. Istintivamente si allontanò di un passo da lui.

Credeva che la schiera dei gazebo fosse finita, e invece no. Ad un paio di metri da quel corridoio infernale, illuminata da una quantità notevole di lanterne e tremolanti candele di cera bianca, si ergeva una struttura di ferro di modeste dimensioni, ricoperta – letteralmente ricoperta, pensò Lane – da un considerevole numero di tendaggi color melanzana. Tuttavia l’intero insieme era assolutamente differente da ciò che si erano lasciati alle spalle solo qualche secondo prima. La prima cosa che saltava agli occhi, infatti, era la totale scissione che esisteva tra quel gazebo e gli altri gazebo: erano come due mondi separati, completamente dissociati l’uno dall’altro.

Lane si concesse qualche altro secondo per osservarlo.

Le tende e i drappi erano sottili, leggeri e svolazzanti, sistemati intorno ai senza un ordine o uno scopo preciso al di fuori di quello decorativo.  

Non esistevano pareti. Poteva udire distintamente un animato chiacchiericcio provenire dall’interno, tuttavia quasi musicale, attutito e piacevole. Il pavimento era ricoperto da uno spesso tappeto verde, di estensione maggiore rispetto al gazebo, di un colore più scuro rispetto a quello delle fragili piantine che crescevano sul suolo della Cava, e vi si distinguevano chiaramente gli schizzi di cera pallida lasciati dalle candele.

Fece a malapena in tempo a notare i contorni sfumati delle sagome delle persone che si muovevano debolmente dietro il tessuto semitrasparente, quando sentì una mano posarsi sulla sua spalla e stringerla piano.

«Cosa c’è? Non vai? »

Gli arrivò subito alle narici l’odore sgradevole della sigaretta. Il naso gli  bruciò di nuovo. Girò la testa dall’altra parte.

«No» rispose, irritato «aspetto Sam».

Sentì le sue dita, tiepide e lisce, scivolare delicatamente sul mento, costringendolo con una leggera pressione a voltare il viso verso di lui. Non oppose resistenza e chiuse gli occhi, perché non lo toccava mai in quel modo.

La mano di Jay scese lungo il suo collo, sfiorandolo lievemente. L’odore era perfino più forte ora, ma non gli importava. Sapeva che lo stava guardando, le punte delle sue dita continuavano a muoversi lentamente, ritmicamente, su e giù lungo la sua pelle. Sentì la tensione scivolare via piano dal suo corpo.

«Te la sei cavata bene» sussurrò. Era più vicino di quanto non credesse.

Lane sbuffò piano e aprì gli occhi. Guardò per un secondo i suoi iridi castani, scintillanti alla luce delle deboli fiammelle, prima di voltare di nuovo la testa per osservare la bizzarra struttura nella sua interezza.

«Non tanto» sbuffò, chiudendo il pugno. Strinse le dita contro il palmo, per tentare di riscaldare almeno un po’ le mani, ancora umide per l’ansia di poco prima.

«Meglio del solito» ribatté Jay, abbandonando improvvisamente il contatto. Il suo sguardò guizzò su qualcosa alle spalle di Lane.

«Sbrigati»  gli disse semplicemente, prima di iniziare a camminare verso l’entrata, dalla quale Sam li stava vigorosamente invitando a raggiungerla.

 

 

*

 

 

Entrò subito dopo Jay, con lo sguardo fisso per terra. Aveva esaminato con eccessiva e insistente concentrazione il tappeto sin dal primo istante, e aveva continuato a contare le numerose e irregolari macchie scure che si allargavano sul tessuto verde finché non aveva rischiato di andare a sbattere contro la schiena di Jay, che si era fermato improvvisamente al centro del gazebo.

Lanciò una rapida occhiata oltre la sua spalla.

Vide due persone, due ragazze, nella porzione di spazio che l’angolazione nella quale si trovava gli permetteva di vedere. Una stava seduta su una poltrona di vimini marrone, con le gambe raccolte sotto il mento e i piedi poggiati sul cuscino consunto:  in una mano teneva una sigaretta ancora spenta, nell’altra il cellulare, e aveva un’aria così assorta che nemmeno alzò lo sguardo per guardare Sam, che nel frattempo aveva cominciato il giro di saluti. L’altra era seduta in modo scomposto su un divano viola scuro dall’aria lurida e terribilmente vecchia, con le gambe distese davanti a sé e un gran sorriso stampato in faccia. Un secondo dopo Sam comparve da dietro il collo di Jay e si chinò per darle un bacio.

Nessuna delle due era lei.

Le mani, che fino a quel momento gli avevano concesso una confortevole tregua, diventarono improvvisamente fredde. Prese a strofinarle piano fra loro, nel pallido tentativo di riattivare la circolazione, mentre il suo stomaco si ripiegava fastidiosamente su se stesso.

L’imminenza era insopportabile. La tensione era insopportabile.

Ma l’attesa, quella lo stava mangiando vivo.

Si passò una mano fra i capelli, prese un bel respiro e fece un piccolo passo di lato.

Nella porzione di gazebo che gli era rimasta nascosta fino a quel momento Lane vide un’altra poltrona, identica alla prima, sulla quale era seduto un ragazzo, e il lato sinistro del divano, occupato da una ragazza.

E il suo cuore impazzì definitivamente, perché era lei.

A qualche metro da lui, seduta con le gambe distese sui cuscini e la schiena appoggiata al bracciolo, con lo sguardo puntato su Sam, che le stava dicendo qualcosa a cui lui non prestò la minima attenzione, e una sigaretta sospesa a pochi centimetri dalle labbra rosse, sulle quali aleggiava un sorriso appena accennato, c’era lei.

Notò subito che era bassa. Le sue gambe non arrivavano a toccare e cosce dell’altra ragazza e le sue braccia pallide, che sbucavano dalle maniche troppo larghe della maglietta, erano spaventosamente magre.

Percepì un’ondata di doloroso calore avvolgergli la pancia, soffocando senza pietà l’ultima briciola di lucidità che ancora gli rimaneva. Tornò rapidamente a nascondersi dietro la schiena di Jay, con la gola che pulsava per l’agitazione. Continuò a sfregarsi nervosamente le mani una contro l’altra, senza successo.

Improvvisamente Jay fece un passo in avanti, tendendole la mano in un gesto di disinvolta cordialità, e Lane rimase completamente scoperto.

Trattenne il respiro, cercando di stroncare sul nascere il lampo di confuso terrore che era sicuro fosse ben visibile nei suoi occhi.

Vide distintamente lo sguardo del ragazzo alla sua sinistra posarsi su di lui e squadrarlo apertamente. Istintivamente inchiodò lo sguardo sulla nuca di Jay, sfregò impercettibilmente le mani sui pantaloni e attese che quel momento terribile scivolasse via, per lasciare il posto a ciò che fino ad un paio d’ore prima non aveva nemmeno osato ritenere possibile.

Ma non era più tanto sicuro di potercela fare.

Jay si spostò, scivolando rapidamente verso la ragazza che sedeva dall’altra parte del divano, e fece scoppiare la bolla di angoscia e indugio nella quale Lane aveva tentato di rannicchiarsi fino a quel momento.

Avanzò di un passo verso di lei.

I suoi enormi occhi azzurri rilucevano debolmente nella penombra, illuminati solo dalle fiamme tremolanti delle candele, e lo stavano fissando in maniera così intensa che dovette fare uno sforzo immenso per non cedere all’imbarazzo e distogliere immediatamente lo sguardo.

Sentiva la faccia bruciare.

Pensò, molto banalmente, che fosse davvero come nelle foto.

Anzi, sembrava che le foto non bastassero, non bastassero affatto a contenere tutto ciò che lei era.

C’era troppo, davvero troppo su cui soffermarsi e lui non aveva nemmeno la forza di osservarla apertamente per tre maledetti secondi.

Non poteva credere a ciò che gli stava davanti agli occhi. Non riusciva a concepire, nella sua mente da creatura ansiosamente ordinaria, il fatto di non aver preso in considerazione la valanga di cose che gli stava piombando addosso in quel momento, sommergendolo, soffocandolo, riempiendolo con una violenza spaventosa.

Non aveva più spazio, non c’era più spazio per i pensieri, non c’era più spazio per un cazzo, era stato tutto risucchiato, cancellato, brutalmente sostituito.

Esisteva un prima ed esisteva un dopo. Esisteva un modo in cui aveva inteso la vita prima, e il modo in cui, in quel momento, nella sua maldestra postura, davanti a quel divano poeticamente rovinato, sorpreso, confuso, disperatamente impacciato, aveva capito cosa la vita voleva da lui.

O almeno, ciò che non riusciva proprio a pensare di smettere di fare, era lasciarsi ingoiare dallo stato di entusiastica, turbolenta estasi nella quale era cascato, come un sasso nell’acqua, totalmente e incondizionatamente.

Notò che portava la frangia, che ruotava graziosamente il collo in piccoli gesti nervosi in modo tale da abbracciare con lo sguardo tutto il cerchio di persone, e che sopra di lei, proprio sopra la sua incredibile, bellissima testa, stava un bel riflettore.

Un riflettore che illuminava la sua figura come se lei fosse stata il sole e tutti gli altri, immersi in una cupa e densa ombra, stelle morte da milioni di anni.

I dettagli che coglieva erano come tanti pezzi di un unico, perfetto puzzle.

Le sue labbra, rese lucide e scure dal rossetto, si schiusero in un sorriso abbagliante. Ruotò il busto verso di lui, incrociò le gambe, spostò la sigaretta dalla mano destra alla sinistra e infine gliela tese.

«Ciao, sono Zoey, piacere» disse solamente.

Lane la strinse lievemente.

Mormorò un rauco e brevissimo “Lane” e ritirò frettolosamente la mano, ma i suoi occhi indugiarono su di lei ancora per qualche secondo. La osservò mentre aspirava una lunga boccata dalla sigaretta: l’ombra del sorriso di poco prima le aleggiava ancora sul viso, e non scomparve nemmeno quando soffiò via una sottile linea di fumo in direzione del suo petto.

Fu in quel momento che lo sguardo sfuggì al suo controllo e saettò via, per posarsi sulla figura di Jay, che lo fissava con le mani affondate nelle tasche, impassibile. Era in piedi affianco a Sam, che stava chiacchierando animatamente con le sue amiche, seduta sul bracciolo della poltrona di vimini.

Distolse lo sguardo e lo puntò a terra, avviandosi a testa bassa verso di lui. Quando lo raggiunse fece per superarlo, ma il ragazzo si spostò all’ultimo e lo urtò lievemente con la spalla, costringendolo a fermarsi.

«Ti sei accorto» sussurrò in maniera quasi impercettibile, scimmiottando le parole che lui stesso gli aveva rivolto poco prima «che non ha smesso un secondo di fissarti, vero?»

Lane percepì distintamente il suo cuore fare un salto nel petto e tremare dentro la gabbia toracica, tuttavia alzò le spalle e si passò una mano fra i capelli.

«Non significa niente» mormorò in risposta, lanciando una breve occhiata alla sua sinistra. Lei aveva le gambe strette contro il corpo e stava ascoltando con enorme interesse ciò che stava dicendo Sam, con gli occhi azzurri spalancati e le labbra distese in un sorriso distratto, appena accennato. I capelli liscissimi ondeggiavano lievemente ad ogni suo movimento.

Era ipnotica.

All’improvviso si chinò lievemente, allungando il braccio per prendere il posacenere, e il suo sguardo cadde su di lui. Lane fece in tempo a vedere i suoi occhi spostarsi dalla figura di Sam e inchiodarsi nei suoi, solo per un secondo, prima di interrompere bruscamente quel contatto, esattamente come aveva fatto qualche minuto prima, per fissare nuovamente il viso dell’amico, sul quale era stampato un mezzo sorriso canzonatorio.

 «Si infatti» disse Jay a bassa voce, alzando le sopracciglia «probabilmente si è accorta di quanto tu sia strano e socialmente incapace».

Lane alzò gli occhi al cielo e fece per ribattere, quando all’improvviso una voce chiara vibrò nell’aria, sovrastando tutte le altre.

«Ragazzi, qualcuno può portare delle sedie per Sam e gli altri?»

Era stata lei a parlare, ovviamente. Nessuno stava badando a loro, nemmeno Sam, che per la sorpresa si era alzata di scatto dal suo posto scomodo e improvvisato.

«Ci penso io» rispose il ragazzo che sedeva nell’altra poltrona di vimini. Lane lo guardò alzarsi e scomparire rapidamente dietro le tende leggere, che oscillavano debolmente, mosse dal vento. Portava una disordinata coda di cavallo e la barba lunga, ma era vestito in maniera tutt’altro che trasandata, come se quello non fosse il suo ambiente abituale e avesse necessità di fare una buona impressione.

Tornò qualche secondo dopo con un pesante tappeto arrotolato sulle spalle.

«C’era solo questo» disse, poggiando il suo carico a terra. Poi guardò per un secondo Lane, alzando le sopracciglia con aria irritata, e cominciò a srotolare in silenzio il misero sostituto delle sedie.

«Grazie Darren» disse lei, sorridendo nella sua direzione. Poi fece loro cenno di accomodarsi.

Jay, che era rimasto immobile per tutto il tempo con le braccia magre incrociate sul petto, fu il primo a muoversi. Rivolse un gran sorriso a Darren, uno dei suoi soliti sorrisi, si lasciò cadere sul tappeto e distese le gambe. Poi tirò fuori dalla tasca la carta argentata, le cartine e tutto il resto.

Lane voleva morire. Non aveva nessuna intenzione di stare seduto là, di fronte a lei, mentre Jay stava facendo di tutto per attirare l’attenzione. Infatti, nel momento stesso in cui il suo minuscolo pacchetto aveva mandato un debole bagliore alla luce delle lanterne, cinque paia di occhi si erano posati simultaneamente su di lui, e adesso erano in attesa.

Ma non poteva nemmeno restare in piedi come un idiota. Così si avviò nella direzione di quel triste spettacolo e si sedette affianco all’amico, incrociando le gambe, e cominciò a fissare insistentemente la superficie di quel tappeto polveroso e logoro, che era macchiata di cera esattamente come il resto del gazebo. Qualche secondo dopo Sam prese posto accanto a lui.

Vedeva con la coda dell’occhio le mani di Jay muoversi in modo rapido e fluido, con gesti esperti e sicuri. Sul gruppetto era calato un silenzio tombale. Quasi senza accorgersene, cominciò a grattare via con le unghie una goccia di cera incrostata.

Fu solo quando il ragazzo ebbe finito di fare ciò che stava facendo che la tensione nell’aria si smorzò con una rapidità quasi sorprendente. Nel momento in cui strinse tra le labbra la sua opera e l’accese, nessuno lo stava più guardando.

Lane invece rimase ad osservarlo accigliato mentre aspirava il primo tiro, vide le sue spalle irrigidirsi lievemente e rilassarsi subito dopo, i muscoli delle guance tendersi in modo impercettibile.

Soffiò via lentamente una nube di fumo denso e chiaro, poi si sporse leggermente in avanti e allungò due dita verso di lei, porgendole ciò che in quel momento rappresentava a tutti gli effetti un regalo, senza degnare Darren di uno sguardo.

Lane teneva gli occhi puntati sulla canna, sospesa a mezz’aria nello spazio che li separava, stretta nella mano bianca di Jay, con la punta già nera e i lati lucidi di saliva. Un secondo dopo lei allungò le gambe davanti a sé e avvicinò il busto il tanto che bastava per permetterle di prendere ciò che voleva.

La incastrò fra le labbra e la brace brillò debolmente nella penombra.

A quanto pare è stato un colpo di genio, si ritrovò a pensare, mentre l’ostilità sorda che sentiva verso Jay scivolava via dal suo corpo con la rapidità con cui era venuta.

Lei raddrizzò la schiena e si appoggiò di nuovo al cuscino del divano, accavallando le gambe. Fece un paio di tiri, senza staccare gli occhi da Jay, poi la passò distrattamente alla ragazza alla sua sinistra, che la afferrò immediatamente con l’indice e il pollice.

«Sam» disse all’improvviso «come mai ci hai portato facce nuove oggi?»

La ragazza, che fino ad un istante prima stava fissando il sottile oggetto passare sgraziatamente da una mano all’altra, si riscosse dall’annoiato torpore nel quale era sprofondata e la guardò con i suoi grandi occhi scuri.

«Sono amici, li ho incontrati poco fa» disse, alzando pacificamente le spalle.

Lane ormai stava giocherellando apertamente con un pezzo di cera grande quanto una moneta, staccato dal tappeto, e ascoltava. Perché era sicuro che prima o poi le parole che temeva di più sarebbero uscite dalla bocca della ragazza, e il panico gli avrebbe finalmente dato il colpo di grazia, schiacciandolo a terra come un insetto.

Si accorse di stare trattenendo il respiro, di nuovo.

«Venite spesso?»

Lane alzò lo sguardo, sorpreso. Lei si aspettava una risposta da lui, era chiaro, ma fu Jay a parlare.

Un’altra fitta di tiepida gratitudine lo pervase.

«No in realtà» disse «io solo ogni tanto, per Lane è la prima volta»

Eccolo, il momento. Stava arrivando, lo sentiva, ormai correva furiosamente verso di lui come un treno e lui non poteva evitarlo, perché era legato ai binari.

Lei alzò le sopracciglia con aria interrogativa.

«Come mai solo oggi?» chiese, fissando apertamente Lane.  Aveva incrociato le gambe e si teneva le caviglie con le mani, tamburellando distrattamente con le unghie sul tessuto dei jeans.

A quel punto accadde.

Sam sorrise brevemente e gli lanciò una rapida occhiata.

«Lane scrive» disse, sinceramente contenta di quella domanda. Poi fece il tiro che le spettava e gli porse il mozzicone, ormai morente.

Lane pensò che in quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per scambiare la sua esistenza con quella dell’inutile, puzzolente mozzicone, che per sua fortuna stava per abbandonare per sempre questo mondo. Nel momento in cui l’ultima sillaba uscì gioiosamente dalle labbra della ragazza si sentì invadere dal panico. Le mani ricominciarono a sudare. Strinse i pugni, cercando di mascherare il più possibile l’imbarazzo.

Per piacere, per piacere non adesso.

«Non posso» rispose atono, facendo un breve cenno con il capo in direzione della canna «devo guidare»

Jay alzò gli occhi al cielo. Poi si riprese ciò che era suo, ficcandoselo rapidamente fra le labbra.

«E cosa scrivi?»

La ragazza si stava sporgendo verso di lui, sinceramente interessata. Si sosteneva il mento con il pugno chiuso, il gomito appoggiato sulle ginocchia. Le sue sopracciglia ormai erano sparite sotto la frangia, ma i suoi occhi erano spalancati e lo stavano ingoiando intero.

Un serpente – il pensiero lo colpì in testa come una pietra – un sottile, silenzioso mexican black che sa di poterti mangiare, perché tu, stupido topo, non tenterai mai di mangiare lui.

Deglutì impercettibilmente.

«Niente di serio» disse piano, maledicendosi per il suono fastidiosamente rauco della sua voce.

«Ad esempio?» insisté lei, passandosi una mano fra i capelli scuri e scompigliandoli con grazia.

«Racconti, perlopiù» borbottò lui, mentre il suo autocontrollo scivolava via lentamente «nessun genere preciso»

Calò il silenzio per un paio di secondi, rotto solo dal rumore delle dita di Jay, che stavano facendo pigramente a pezzi una cartina.

Hyena lo stava fissando, ancora, in attesa. Non era soddisfatta.

«Ma» aggiunse Lane, appiattendosi nervosamente i capelli con la mano «non sono venuto qui per questo»

«E come mai sei venuto allora?»

Aveva inclinato lievemente la testa di lato e stava facendo scorrere distrattamente le unghie sulla nuca. Il volto era serio, concentrato.

«Solamente per guardare» mormorò lui, abbassando di nuovo la testa sul suo scivoloso pezzetto di cera.

Non vedeva l’ora che quella conversazione terminasse.

Mangiami e basta.

«Allora ti lascio una cosa» disse lei, e senza aspettare una risposta si alzò in piedi e fece rapidamente il giro del divano, per poi sparire dietro le tende fluttuanti.

Si accorse solo in quel momento che Jay lo stava osservando, impassibile. Gli lanciò un’occhiata di sbieco, ma prima che potesse dirgli qualsiasi cosa un leggero rumore di passi annunciò il ritorno della ragazza.

«Tieni» disse, porgendogli un sottile blocco di fogli di un bianco abbagliante, tenuti insieme da una morbida rilegatura di plastica.

Lane sentì il respiro mozzarglisi nel petto.

Si alzò in piedi e allungò il braccio per afferrarlo, facendo attenzione a non toccare la sua mano.

Nel primo foglio c’erano soltanto due parole.

La prima era il suo nome, nero su bianco, quello con cui si era fatta conoscere, quello che ormai tutti consideravano una sua proprietà.

La seconda era il titolo.

Nessuno si ricorda del re dei topi.

Quel fascicolo non era mai stato aperto.

Anche Jay si era alzato in piedi, e stava fissando con vaga curiosità l’oggetto che il suo amico non riusciva a smettere di fissare.

«È una raccolta» disse lei, tirando fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca posteriore dei jeans «ma è molto breve. Oggi non faccio nulla di che, devo solo distribuire la roba nuova».

La noncuranza con cui pronunciò quelle parole lo stupì, ma non disse nulla.

La ragazza guardò l’orologio con le sopracciglia aggrottate.

«Tra poco verranno a prenderle. Ho scritto su facebook  di passare all’una per chi fosse interessato, se vi va di rimanere…» disse, ed ebbe l’accortezza di girare la faccia per non soffiare il fumo in faccia a Lane.

In effetti, era molto vicina. Era davvero molto vicina e lui non se n’era minimamente accorto, completamente assorbito dalla contemplazione del nuovo tesoro che stringeva fra le mani.

Ma adesso se n’era accorto, si, e la stava guardando come un idiota mentre si sistemava i capelli da una parte e sbatteva delicatamente il dito sulla sigaretta per far cadere la cenere.

«No grazie» rispose frettolosamente Jay «oggi proprio non fa, però torniamo sabato prossimo se fai un reading. Vero Lane?» aggiunse, colpendolo di nascosto con il gomito.

«Certo» biascicò il ragazzo, riscuotendosi bruscamente dalle sue riflessioni.

«Va bene allora» disse lei, facendo indugiare lo sguardo un’ultima volta su di lui. Aveva ancora quello strano mezzo sorriso sulle labbra, non abbastanza sincero da farti sentire al sicuro ma abbastanza dolce da farti desiderare di vederlo sempre comparire sul suo viso, per te.

«È stato un piacere» aggiunse poi, alzando brevemente una mano nella loro direzione.

«Anche per noi» disse Jay, afferrando Lane per la spalla e spingendolo lievemente verso l’uscita del gazebo.

«Ciao» mormorò Lane, rauco. La vide fare un cenno di saluto con il capo, e poté giurare di aver visto qualcosa che prima non c’era nascere e morire nei suoi occhi, con la stessa rapidità di un lampo, prima che la sua snella figura sparisse definitivamente dalla sua vista.

 

 

*

 

 

«Allora» disse Jay, mettendosi a cavalcioni sul motorino, strascicando i piedi per disincastrarlo dal terreno irregolare «sei soddisfatto?»

Lane sbuffò, affondando le mani nelle tasche.

«Dammi le chiavi» disse, in un tono che lasciava trasparire la sua irritazione. Jay sorrise brevemente.

«Non c’è bisogno» rispose.

Lane lo fulminò con lo sguardo. Il plico era ancora stretto nella mano sinistra, premuto contro il suo fianco.

Gli tese la destra in silenzio.

Jay sbuffò di rimando, frugò per qualche secondo nella tasca della giacca e ne estrasse uno scarno mazzo tintinnante. Gliele lanciò senza una parola.

Lane le prese al volo e sospirò piano.

«È stato davvero imbarazzante» mormorò, mentre Jay scivolava all’indietro, puntellandosi con le ginocchia, lasciandogli lo spazio per sedersi.

Il ragazzo alzò le spalle e gli passò il casco.

«Non è andata tanto male, tutto sommato» disse, infilando a sua volta il suo e allacciando la cinghia sotto il mento.

Lane non rispose. Aprì il portaoggetti e vi gettò dentro il cellulare e il fascicolo, assorto. Contemplò per un secondo il candore delle pagine contro il buio, poi chiuse lo sportello con un colpo secco.

«Resti da me stanotte?» domandò, inforcando il motorino e facendo girare le chiavi nella fessura. Il fanale si accese, illuminando la distesa di foglie secche davanti a loro.

Sentì le braccia dell’amico circondargli la vita.

«Certo» rispose Jay, prima che il rumore del vecchio motore potesse coprire la sua voce.

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Capitolo 3
*** III ***


Ore 1.03

 

 

Lane fu il primo a scendere. Non appena si fermarono davanti alla casa, spense il motore con un movimento secco del polso e fece scivolare le gambe di lato, smontando dal sedile con una leggera spinta. Jay lo fissò mentre apriva rapidamente la lampo della tasca della giacca, vi infilava dentro la mano e un secondo dopo la ritirava stringendo un mazzo di chiavi, scintillanti sotto la luce pallida dei lampioni.

Le chiavi cozzarono tra loro, producendo un fastidioso tintinnio, quando il ragazzo si chinò per aprire la serratura del cancello.

Jay allungò le gambe, strisciando le suole delle scarpe sulla ghiaia, e appoggiò i gomiti al sedile. Rimase sdraiato mollemente in quella posizione a guardarlo, con la testa inclinata da un lato, finché la serratura non scattò come uno sparo nella notte.

«Andiamo» disse Lane, abbassando la maniglia cigolante e facendo scorrere piano il cancello su un lato.

Jay rimase un secondo a osservare i riflessi dorati della luce che guizzavano sui suoi capelli, prima di sollevarsi pigramente e afferrare il manubrio.

«Dove lo metto?» chiese, mentre l’amico spariva oltre l’ombra del cancello.

«Dove ti pare» rispose Lane. Il rumore attutito dei suoi passi si faceva sempre più lontano.

Jay sbuffò. Aspettò di vedere il tenue e caldo bagliore della lampadina espandersi nel piccolo e buio giardino, seguito dal prepotente rumore delle chiavi che sbattevano sul legno della porta, prima di cominciare a fare forza per disincastrare le ruote dalla scricchiolante distesa di pietrisco.

«Odio il tuo cortile» urlò, trascinando faticosamente il vecchio fardello oltre il cancello. Appena fu vicino al muro diede un calcio al cavalletto e lo infilò bruscamente fra le pietre.

Anche se gli dava le spalle, era certo che Lane avesse alzato gli occhi al cielo.

Infatti la sua risposta seccata non tardò ad arrivare.

«Muoviti, si gela» disse, mentre il fruscio morbido delle sue scarpe sul vialetto di cemento tradiva la sua impazienza.

Jay si voltò. La porta era aperta, le luci dentro la casa già accese. Lane era in piedi di fronte a lui, con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, e lo stava fissando.

Rimase a guardarlo solo per un secondo, poi si incamminò nella sua direzione.

 

 

*

 

 

Lane si passò stancamente le mani sul viso, indugiando per qualche secondo con i polpastrelli sulle palpebre stanche. I suoi occhi stavano chiedendo pietà, le lenti erano ormai completamente asciutte e irrimediabilmente appiccicate alle sue iridi sofferenti.

Sbatté un paio di volte le palpebre, senza successo, poi lanciò le chiavi sul tavolo.

Jay era in piedi, immobile come una statua, con la giacca abbottonata fino al collo, completamente assorbito dalla contemplazione dello schermo del suo cellulare. Il casco gli pendeva ancora dal braccio.

Lane distolse lo sguardo da lui e si sfilò la giacca con un movimento fluido, posandola  distrattamente sullo schienale della sedia più vicina.  Poi si voltò e si diresse verso la cucina.

«Hai fame?» chiese a Jay in tono noncurante, aprendo il frigo e lanciando una breve occhiata delusa agli scompartimenti semivuoti.

«No» urlò di rimando l’amico «tu?»

Lane sbuffò e richiuse il frigo.

«No» disse, passandosi una mano fra i capelli «sono troppo nervoso»

«Ancora per questa storia?»

La sua voce era molto più vicina ora. Si appoggiò sul bordo del tavolo, tamburellando debolmente con le unghie sulla superficie morbida della tovaglia, e si voltò a guardarlo.

La maglietta era decisamente troppo grande per il suo busto magro, e le braccia bianchissime, incrociate sul petto, spiccavano in modo abbagliante contro il tessuto nero. Era in piedi davanti a lui, appoggiato allo stipite della porta, e Lane sapeva perfettamente cosa stava per accadere.

«Lascia perdere» gli disse, spostando lo sguardo sulle sue scarpe.

«Non ha senso» continuò Jay, ignorandolo e tirando fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni «Fai sempre così. L’hai vista, ci hai parlato, è andato tutto bene e senz’altro si ricorderà di te. Non vedo perché debba sprecare energie»

«Mh mh» mormorò, esaminando con estrema attenzione i suoi lacci logori.

Lo stava fissando, lo sapeva. Alzò brevemente gli occhi: era immobile, con una sigaretta spenta sospesa a mezz’aria.

«Parlo sul serio» disse, infilandosela tra le labbra.

«Si, anche io parlavo sul serio quando ti ho detto di lasciar perdere» rispose Lane irritato, alzando bruscamente la testa e piantando gli occhi nei suoi. Poi il suo sguardo cadde sulla sigaretta.

«Ti dispiacerebbe metterla via?» sbuffò, indicandola con un cenno del mento.

Jay sorrise e alzò le sopracciglia.

«Perché? Tanto abbiamo ancora tre giorni» rispose.

Lane osservò le sue lunghe dita bianche muoversi rapide. Avvicinò l’accendino alla bocca, tenendolo con entrambe le mani, e fece scorrere il pollice destro sulla rotella. La fiamma scaturì con un sibilo. Aspirò e suo viso si distese completamente, mentre la brace della sigaretta brillava debolmente nella penombra. Sulla mano sinistra aveva due graffi, incredibilmente rossi contro la pelle pallida.

Soffiò il fumo in alto, lontano da lui. Poi si appoggiò con la schiena contro lo stipite, lanciandogli una breve occhiata nervosa. Si era accorto che non aveva smesso di guardarlo per un secondo.

Aveva le guance così incavate che le ossa sembravano sul punto di bucare la pelle. Le labbra e la punta del naso erano arrossate per il freddo, mentre i capelli gli cadevano sulla fronte in sottili ciuffi disordinati. Gli occhi erano chiusi, le ciglia, ridicolmente lunghe, proiettavano un’ombra leggera sui suoi zigomi bianchi.

Non distolse lo sguardo dal suo viso nemmeno quando ruppe la perfetta immobilità della sua posizione per portare la sigaretta alla bocca. I graffi guizzarono sotto la luce fioca della lampadina.

«Dovresti mangiare qualcosa» mormorò, mentre Jay si passava la mano libera fra i capelli, come per sistemarli. Incontrò il suo sguardo per un secondo, e lo distolse subito. Pareva non avere la forza di sostenerlo.

«No, non credo» rispose stancamente, colpendo piano il filtro per far cadere la cenere a terra.

Lane sbuffò.

«Sei incredibile» disse, alzandosi improvvisamente e aprendo il frigo  «non riesci nemmeno a tenere l’accendino con una mano sola».

«Sono stressato, tutto qui» disse debolmente Jay, mentre Lane tirava fuori una bottiglia d’acqua.

«Sei sempre stressato» disse bruscamente, sbattendo di malo modo due bicchieri sul tavolo. Svitò maldestramente il tappo alla bottiglia e vi versò un parte del contenuto.

«Questa volta è diverso»

«Ah si? E cosa è successo?»

Jay non rispose subito. Avanzò lentamente verso il tavolo, e senza una parola buttò la cicca ormai finita dentro quello che doveva essere il suo bicchiere. Poi sospirò e si appoggiò al tavolo, accanto a Lane.

«Mia madre» mormorò semplicemente, grattandosi nervosamente il dorso della mano sfregiata.

Nella piccola cucina calò il silenzio. Lane aprì la bocca, poi la richiuse, consapevole di non conoscere ancora le parole giuste da dire in quel momento. Sentì l’imbarazzo serpeggiare fra loro, posarsi sulla sua pelle, avvolgerlo come un serpente, invisibile ma incredibilmente pesante. Sentì anche dolore, genuino dispiacere, pulsare dentro il suo petto.

Si impose di reagire.

«Che cosa ha fatto?» chiese, avvicinandosi impercettibilmente.

«Ha deciso di tornare per Natale» disse Jay, in tono insofferente. Lo vide scrollare piano le spalle, come per liquidare la cosa, e girarsi a guardare la triste sigaretta grigiastra che si stava pian piano sciogliendo nell’acqua gelida. 

Sapeva che cercava solamente una scusa per far scivolare piano gli occhi su di lui, per cercare i suoi pensieri nel suo volto prima che nelle sue parole e prendersi la libertà di decidere se alzare lo scudo o tenerlo giù.

E Lane voleva davvero sembrare rassicurante e pratico e saldo ma nel momento in cui la parola “Natale” rotolò via dalle labbra di Jay e rimbalzò nella vuota, solida aria intorno a loro, percepì distintamente un rantolo di indignazione prendere forma nel suo petto, crescere e cominciare ad arrampicarsi su per la sua gola.

Lo ricacciò indietro appena in tempo.

«Quando l’hai saputo?»

«Un po’ di tempo fa» rispose Jay, senza smettere di sfregare rabbiosamente le unghie sui graffi, con lo sguardo perso nel vuoto.

«E perché non me l’hai detto subito?» disse Lane, con lo sguardo fisso sulla sua mano, che stava diventando sempre più rossa. Si accorse troppo tardi di aver usato un tono più duro di quanto non intendesse fare, ma Jay non diede segno di averci fatto caso.

«Perché…» cominciò, poi si interruppe scuotendo la testa. Incrociò le braccia sul petto e lo guardò negli occhi, come se avesse bisogno di un appiglio per continuare.

«Stavamo pensando ad altro in questi giorni, e poi dovevamo fare questa cosa. Non mi andava di rovinartela» disse semplicemente, scrollando le spalle.

Lane cominciò a giocherellare distrattamente con il suo bicchiere, osservando l’acqua al suo interno incresparsi e ruotare. Non aveva idea di cosa dire.

 «Sono giorni che fumo come un disperato» aggiunse Jay, sbuffando piano.

«Dovevi dirmelo subito» mormorò infine, passandosi una mano fra i capelli, cercando di soffocare la frustrazione. Posò il bicchiere sul tavolo «avrei potuto fare qualcosa per aiutarti» aggiunse.

Jay alzò le spalle.

«Non importa» disse, scostandosi dal tavolo. Fece un mezzo sorriso forzato, sollevando appena l’angolo della bocca.

«Ne abbiamo parlato anche troppo» disse, avanzando di un passo verso di lui. I suoi occhi scuri rilucevano debolmente, illuminati dal neon scadente della cucina. Sembravano offuscati. Aveva infilato le mani nelle tasche dei jeans, probabilmente per riuscire a tenerle ferme.

«In realtà» mormorò Lane, spostando lo sguardo sulle sue labbra «non ne abbiamo parlato affatto»

Sapeva cosa stava facendo Jay. Infatti, esattamente secondo le sue previsioni, vide l’amico alzare gli occhi al cielo e ridurre ulteriormente la distanza che li separava.

«Possiamo non farlo, almeno per stasera?» soffiò, passandosi la lingua sulle labbra secche. Sembravano una ferita sul suo viso di gesso.

Lane rimase immobile, seduto sul bordo del tavolo con le braccia incrociate. Spostò lo sguardo sulle sue pupille dilatate e gli rivolse una lunga, gelida occhiata.

«Non puoi fare sempre così, lo sai vero?» mormorò, consapevole di averlo in pugno. Andava fuori di testa quando non rispondeva alle sue attenzioni.

Lo vide vacillare per un secondo. Poi i suoi occhi ritornarono freddi e asciutti, e la sua mano corse a cercare il pacchetto nella tasca posteriore dei jeans. Si allontanò di un passo, poi di un altro, fino a toccare lo sportello del frigorifero con la schiena.

Lane sospirò.

«Allison lo sa?» chiese, immaginando già la risposta. Jay non diede segno di aver sentito: la sua attenzione era totalmente assorbita dalla nuova sigaretta. La teneva stretta, così stretta che non riusciva più a distinguere le labbra livide dalla sua pelle. La debole fiamma dell’accendino tremava, così come le sue mani.

Aspettò, senza muoversi. Non aveva intenzione di mollare.

«Rispondimi» disse semplicemente, mentre l’amico aspirava la prima boccata di fumo come se fosse aria fresca. Lo vide grattarsi piano la fronte, poi chiuse la mano e lasciò cadere il braccio lungo il corpo rigido.

«Certo che lo sa, me l’ha detto lei» rispose, senza guardarlo.

«Le hai detto che non vuoi vederla?»

Jay fece una smorfia.

«Lo sa benissimo che non voglio vederla»

«Non credo che lo sappia. Non ti obbligherebbe mai a farlo»

Lane sapeva di averlo spinto in un angolo, così come sapeva che era molto semplice intaccare la sua ostinata barricata di ghiaccio, se riusciva a coglierlo di sorpresa. Azzardò un passo verso di lui, abbandonando il suo posto sicuro.

«Non sei costretto a fare niente» aggiunse, cercando di assumere un tono più morbido.

Ma Jay continuava ad evitare il suo sguardo.

Era difficile capire quale mossa fosse quella giusta con lui.

Scosse rabbiosamente la mano per far cadere la cenere.

«Questo non è vero» ringhiò.

La sua voce aveva quella sfumatura rauca di chi cerca di impedirsi di soccombere alla frustrazione, di chi vuole arginare quel sordo e tremendo bisogno di esplodere.

«L’unico che ti costringe a farlo sei tu» sbuffò Lane, che nonostante la crescente apprensione non aveva intenzione di retrocedere «e non dovresti metterti in queste situazioni»

«Non capisci» il volto di Jay si stava trasformando sotto i suoi occhi  «non importa che cosa voglio, ci sono delle cose che…” si interruppe all’improvviso. Si portò una mano alla testa e si strinse i capelli, tirandoli leggermente. Respirò profondamente.

«Possiamo smettere di parlarne adesso?» disse, senza alzare gli occhi dal pavimento. La sigaretta era ormai finita, e tremava nella sua mano.

Lane alzò le spalle. Lo aveva spinto molto vicino al limite, e adesso era arrabbiato.

«Dammene una» disse, indicando con il mento la cicca morente.

Jay lo guardò in faccia per la prima volta da quando aveva subdolamente cercato di distrarlo, ma non disse nulla. Estrasse rapidamente il pacchetto dalla tasca e glielo lanciò. Poi si avvicinò al tavolo e buttò la sua nel bicchiere.

Lane tirò fuori l’accendino e una sigaretta, e l’accese con un solo, fluido movimento. Il sollievo fu immediato, così come il sapore pungente sulla lingua.

Aveva ancora le mani fredde.

Tenne lo sguardo puntato davanti a sé mentre fumava, pur essendo consapevole che Jay non gli staccava un secondo gli occhi di dosso. Per la prima volta in tutta la serata si sentiva esausto: la stanchezza gli era piombata addosso tutta insieme, percepiva il suo peso sulle spalle come un macigno.

Guardò la sigaretta nella sua mano accorciarsi sempre di più. Voleva spegnerla, gli girava già la testa, ma non voleva voltarsi. Il silenzio fra loro era opprimente.

Non fumava quasi mai, perché non lo trovava particolarmente piacevole e perché non ne aveva mai voglia. Ma era consapevole che, ancora una volta, era riuscito a cogliere Jay di sorpresa, e questo gli dava un certo vantaggio, oltre che una certa soddisfazione.

Lo sentì sospirare. Un attimo dopo, un rumore attutito di passi annunciò che aveva lasciato la stanza.

Lane si passò stancamente una mano tra i capelli, poi si sporse leggermente verso il bicchiere di Jay e spense quel che rimaneva della sigaretta nell’acqua torbida e piena di cenere.

Improvvisamente, un breve trillo si espanse nel silenzio cupo della piccola cucina e subito morì, lasciandosi dietro un sottile e vibrante eco. Lane si irrigidì per un secondo, spiazzato. Poi estrasse lentamente il cellulare dalla tasca.

La prima cosa che vide fu l’ora, e pensò che fosse molto più tardi di quanto non credesse.

Ma il suo sguardo, dopo quella banale constatazione, corse subito a cercare il motivo per il quale il suo telefono aveva risuonato come uno sparo nell’aria immobile, e il respiro gli si mozzò nel petto.

Una sottile, luccicante notifica campeggiava al centro dello schermo. Semplice, pulita, bianca contro lo sfondo scuro.

Recitava semplicemente: Zoey Kingsley ti ha inviato una richiesta di amicizia.

La fissò stupito, con gli occhi spalancati. La lesse una volta, e subito pensò ad un errore.

Ma restava lì, inequivocabile, trionfalmente vivida, e pareva lo fissasse di rimando, in attesa di essere aperta, quasi come una sfida.

La rilesse un numero spropositato di volte, con una dedizione quasi ridicola, ma pareva che quelle poche, fottutamente semplici parole rimbalzassero subdolamente contro le pareti del suo cranio, sfuggenti e sfocate, impedendogli di dare il comando necessario alle sue dita per sbloccare e accettare.

Fece appena in tempo a realizzare il significato di quelle parole, prima che un urlo soffocato giungesse dal salotto e lo strappasse via dallo stato di irrequieta trance nella quale era immerso.

«Hai intenzione di venire o no?»

Con il cuore che vibrava insistentemente nel petto, insofferente al suo pallido tentativo di calmarlo, Lane si costrinse a premere il pulsante per bloccare lo schermo e si ficcò di nuovo il cellulare in tasca. Prese un bel respiro, si concesse un breve sorriso liberatorio, e inforcò la porta.

 

*

 

«Stavo pensando»

Jay aprì le palpebre di un millimetro. Benché la voce di Lane fosse solo un bisbiglio, l’aveva udita perfettamente. Si mosse piano contro le sue gambe e si voltò il tanto necessario che gli serviva per far entrare il volto del ragazzo nel suo campo visivo. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé, ma non aveva spostato la mano dai suoi capelli.

Ritornò nella sua posizione iniziale e chiuse di nuovo gli occhi.

«A cosa?» mugugnò in risposta.

Lane non rispose subito. Jay sentiva il contatto tiepido delle sue dita spostarsi piano sulla sua fronte e ritornare indietro, seguendo distrattamente un percorso invisibile. Aspettò in silenzio, concentrandosi solo su quel movimento.

Era quasi riuscito a rilassarsi completamente quando udì un altro sussurro provenire dallo stesso punto imprecisato sopra di lui.

«Stavo pensando» ripeté Lane «che potrei esserci anch’io»

Fece una pausa. Sapeva che stava aspettando una sua reazione, ma Jay rimase immobile, in ascolto.

«Il giorno in cui tua madre arriverà» riprese. La mano non si muoveva più.

«Con te» aggiunse nervosamente qualche secondo dopo, ritirandola definitivamente. Il calore scomparve improvvisamente e la fredda sensazione di mancanza gli fece contrarre lo stomaco. Il suo viso si tese in una smorfia involontaria.

«Oppure no» si affrettò a dire Lane.

Era certo che non gli avesse tolto un secondo gli occhi di dosso.

Attese un altro secondo, poi sospirò brevemente.

«Va bene» mormorò, atono.

«Sei sicuro?»

Aprì le palpebre controvoglia, socchiudendole appena. La prima cosa che vide furono i suoi iridi, limpidi e preoccupati, che lo scrutavano dall’alto. Ma nel momento in cui i loro sguardi si incrociarono, Lane distolse rapidamente il suo e lo inchiodò di nuovo davanti a sé.

«Si» rispose Jay, tirandosi su e incrociando le gambe «mi sembra una buona idea» aggiunse.

La mano di Lane, che solo due minuti prima gli stava accarezzando i capelli, era abbandonata sulla sua stessa coscia e la stringeva nervosamente. La vide rilassarsi sotto il suo sguardo, ma l’altro braccio rimase avvolto intorno alla pancia, rigido.

Jay si avvicinò lentamente. Sapeva che, anche se cercava in tutti i modi di evitare di guardarlo, era attento ad ogni suo movimento.

«Puoi smettere di preoccuparti adesso» soffiò ad un centimetro dal suo orecchio.

Lane non disse nulla, ma Jay vide chiaramente che si stava sforzando per trattenere un sorriso.

«Non sono preoccupato» rispose, voltando di un millimetro la testa verso di lui e lanciandogli una breve occhiata nervosa.

«Meglio così» sussurrò Jay, facendo scivolare lentamente lo sguardo lungo il suo viso.

I suoi occhi erano così chiari da sembrare trasparenti. La luce proveniente dallo schermo del televisore proiettava dei riflessi bianchi e luminosi sulle sue guance, facendolo sembrare ancora più pallido.

 Notò che aveva spostato il braccio.

Si avvicinò ancora. Percepì il suo corpo irrigidirsi e rilassarsi, il respiro farsi più pesante. Gli occhi erano fissi sulle sue labbra, le ciglia quasi sfioravano gli zigomi.

Jay sorrise lievemente. Avvertiva la tensione dell’altro, la sentiva come se fosse stata sua.

In quel momento Lane spostò lo sguardo e piantò gli occhi nei suoi. Jay rimase immobile per un secondo, poi il suo sorriso si allargò, e improvvisamente raddrizzò la schiena.

Vide la confusione lampeggiare sul volto di Lane.

Si accasciò di nuovo sulle sue gambe, sistemandosi nella stessa posizione di poco prima, perfettamente consapevole della propria vittoria.

«Sei un idiota» mormorò il ragazzo, passandosi una mano sul viso.

«Te lo sei meritato» rispose, senza smettere di sorridere.

Lane sbuffò.

«Potresti passarmi il telefono? Dovrebbe essere sul tavolino» aggiunse con tono noncurante.

Lo sentì muoversi piano sotto la sua testa.

«Andiamo di sopra» mugugnò Lane, ignorando completamente la sua richiesta.

Jay non rispose. Chiuse gli occhi e lasciò che le sue parole galleggiassero nel silenzio teso ed elettrico della stanza, come bolle di sapone.

Era consapevole di avere la propria soddisfazione stampata in faccia.

Si tirò su lentamente e lo guardò in silenzio. Stava di nuovo evitando il suo sguardo, fissando con estremo interesse le figure che scorrevano rapidamente sullo schermo davanti a lui.

«Cosa?» disse, cercando di soffocare un sorrisetto compiaciuto.

Lane sospirò. Poi si voltò il tanto che bastava per scoccargli una breve occhiata esasperata.

Capì di aver vinto prima ancora di sentirgli pronunciare quelle parole, prima ancora perfino che schiudesse le labbra.

«Ho detto» mormorò «andiamo di sopra».

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Capitolo 4
*** IV ***


Ore 7:05

 

 

 

Fu la sensazione di gelida mancanza a strapparlo via dal torpore del sonno.

La soffocante consapevolezza della propria solitudine l’aveva svegliato nella stessa dolorosa maniera di tutte le altre volte, inconfondibile e debilitante. La delusione lo colpiva ogni volta subdolamente, insinuandosi dentro il suo stomaco e scacciando bruscamente il confortevole abbandono del sonno, costringendolo a cercare, a sperare che il calore che sentiva rapidamente svanire dalle lenzuola, dalle sue braccia e dal suo stesso corpo, fosse ancora lì, solo qualche centimetro più avanti, in un punto che ancora non poteva raggiungere.

Il letto era freddo.

Si sentiva quel freddo addosso, appiccicato alla pelle, e aveva paura di muoversi, perché tutto ciò che toccava era solo insopportabile vuoto. Tutto ciò che lo copriva, tutto ciò su cui giaceva, era fatto di ghiaccio.

Ma fu solo nel momento in cui il suo cervello tradusse l’assenza del familiare corpo tiepido che prima c’era e ora non c’è più in un disperato e maldestro impulso neuronale – poteva quasi sentirlo arrancare saltellando lungo i suoi assoni – che riuscì ad aprire gli occhi.

Una striscia di sole tagliava perfettamente a metà il soffitto, fastidiosamente bianca contro il grigio della penombra. Filtrava attraverso un sottile spiraglio che, schiacciato fra le tende scure della sua finestra, era stato sicuramente il frutto di una svista da parte sua la notte precedente.

Fu la prima cosa che vide.

Sentì una fitta acuta pulsargli nelle tempie. Si accorse che stava stringendo i denti.

Poi udì un fruscio.

Attese ancora un altro secondo. Aveva freddo. Il pensiero di abbandonare le lenzuola per tuffarsi repentinamente nell’aria ostile del mattino lo atterriva, ma sapeva di avere poco tempo. E il gelo era attaccato a lui, nauseante e insopportabile, fuori e dentro.

Così con uno sforzo che gli parve immenso sollevò la schiena dal materasso e si puntellò con i polsi, raddrizzandosi fino a mettersi seduto. L’unica cosa che ancora lo copriva scivolò via e si ammucchiò mollemente sul suo inguine, lasciandolo completamente esposto.

Sentì un brivido corrergli lungo le spalle, come un macabro abbraccio, e istintivamente incrociò le braccia sulla pancia.

«Non volevo svegliarti»

No, certo che no.

«Mi sarei dovuto svegliare comunque»

Non c’era nessuno dall’altra parte del letto. Jay era in piedi, a metà strada  tra lui e la porta, e si stava allacciando con la solita snervante fretta i pantaloni, che avvolgevano le sue gambe magre in una stretta soffocante.

«Che ore sono?» mormorò, mentre il gelo lo investiva come un’onda, mozzandogli il respiro, infilandosi tra le sue meningi e bloccando qualsiasi pensiero.

La fonte del gelo era lì, ad appena due metri di distanza.

Si portò le ginocchia al petto, circondandole con le braccia, in un vano tentativo di riscaldarsi.

«Le sette» rispose l’altro, senza guardarlo. Si inchinò per prendere qualcosa da terra, e il suo busto bianco scomparve per qualche secondo dalla sua vista.

Lane lo stava fissando, e non gli importava del fatto che Jay se ne accorgesse, o che si sentisse a disagio. Osservava ogni suo movimento, la stessa sequenza con la quale cercava gli indumenti che aveva perduto in qualche angolo della stanza e li indossava, compiendo gli stessi rapidi gesti nervosi che aveva avuto modo di vedere e di analizzare così tante volte.

Sentì la nausea crescere nello stomaco e arrampicarsi su per la sua gola.

«Avremo dormito sì e no quattro ore» borbottò, senza la reale intenzione di farsi udire dall’amico. Tuttavia lo vide scrollare le spalle. Il suo viso non tradiva nessuna emozione.

«Mio padre mi vuole a casa, lo sai» disse, infilandosi rapidamente la maglietta. Le sue braccia sgusciarono fuori dai buchi come pallide anguille.

Lane non rispose. Benché il suo intero corpo gli stesse urlando di alzarsi e prendere qualcosa – qualsiasi cosa – per porre finalmente fine a quel crudele quanto inutile assideramento, non aveva intenzione di muoversi di un centimetro.

Così rimase là, seduto, completamente nudo sotto il lenzuolo, ad aspettare il momento in cui il gelo avesse lasciato la stanza, attraversato il corridoio e sceso le scale, per poi chiudersi la porta d’ingresso alle spalle e abbandonare definitivamente la casa.

Lo osservava, lo osservava costantemente.

Jay era una persona strana.

Quell’affermazione suonava incredibilmente banale perfino dentro la sua stessa testa, Lane ne era consapevole, ma in quegli anni di conoscenza non era stato capace, benché avesse tentato quasi ogni giorno, di impedire a quella parola di frullargli nel cervello ogni volta che si soffermava, suo malgrado, a cercare di comprendere ciò che aveva davanti agli occhi.

Jay, nella sua apparenza, nei suoi modi, nei suoi gusti, nel suo comportamento e, benché Lane fosse convinto di non possedere ancora la presunzione per trarre la sua conclusione definitiva, nel suo animo, incarnava perfettamente la persona che, per quanto ci si sforzi di decifrarla e di avvicinarla a sé, cercando allo stesso tempo di avvicinarsi a lei, non cessa mai la sua costante, inesorabile fuga dall’empatia umana. Questo la porta ad essere irrimediabilmente etichettata come creatura di difficile comprensione e dunque, per usare un termine riassuntivo di un certo spessore, strana.

Quindi Jay, per la maggior parte della gente, era una persona strana.

 Lane scosse la testa. Si sentiva in imbarazzo. L’uso di quella parola lo faceva sentire in imbarazzo.

Così sillabò un “lo so” spicciolo e distratto, per assecondare il suo impellente desiderio di fuga. Odiava giustificarlo, e odiava il fatto che Jay riuscisse a sentirsi giustificato ogni santa volta.

Ma lui stava ancora morendo di freddo, e quel giorno più che mai si sentiva in colpa per aver pensato che ‘strano’ fosse un attributo sufficiente per descrivere la globalità dell’essenza di un essere umano.

Jay era difficile da capire.

Rimase a fissare il suo profilo magro per diversi secondi, in silenzio. La sua maglietta era scandalosamente larga, e lui non finiva mai di notarlo, così come non finiva mai di preoccuparsi, ma andava bene così.

I loro taciti accordi erano ormai saldamente ancorati al terreno del loro rapporto. C’erano confini precisi, c’era un equilibro che non doveva essere alterato, c’erano delle volte in cui era lecito chiedere aiuto ed altre in cui ognuno pensava a se stesso.

Va bene così, pensava Lane, continuando a restare aggrappato alle sue ginocchia, tentando di rubare calore al suo stesso corpo, mentre sotto i suoi occhi quella contraddizione umana continuava a vestirsi, ostentando noncuranza. Stavano entrambi aspettando la stessa cosa.

Sapeva che Jay non vedeva l’ora di ristabilire l’equilibrio. Probabilmente Jay nemmeno sapeva il motivo del suo doloroso bisogno di andare via, di sentirsi di nuovo da solo con se stesso e di liberarsi del contatto umano che aveva ricevuto in dosi così massicce nelle ore passate.

Lane sapeva che c’era un equilibrio, Lane osservava Jay da anni e lo conosceva.

Capiva perché gli altri lo consideravano una persona strana, e lui stesso condivideva la visione di corrispondenza quasi perfetta tra quell’aggettivo e il modo in cui Jay si relazionava col mondo, l’aveva accettato.

Ma lui non era il mondo, e c’erano delle regole, c’erano dei confini e c’erano degli istinti che andavano rispettati, perché se gli altri non si erano sforzati di capirlo, lui l’aveva fatto, e riteneva di esserci riuscito.

Perciò, benché ormai fosse sicuro di essere diventato un ammasso di brividi e pensieri sconnessi, lo guardò mentre andava via, senza battere ciglio, ed ascoltò il suo ‘ci vediamo’ con un mattone di disperazione nella pancia, lottando contro il desiderio di lasciarsi andare alla rabbia sorda e costringendosi a restare immobile, inerme nel freddo della mattina, per riuscire ad essere freddo anche lui.

Chiuse gli occhi. Si concesse di respirare.

Non era accaduto nulla che non avesse previsto, niente che non rientrasse nei loro normali comportamenti.

Va bene così, pensò di nuovo, strappandosi un’unghia con i denti. Un fastidioso dolore familiare pulsò nella carne viva appena esposta, facendolo pentire immediatamente della sua azione.

Sbuffò senza preoccuparsi di rompere il silenzio spettrale della stanza e finalmente si alzò dal letto, cercando con una certa fretta la maglietta sul pavimento.

Non riusciva, per quanto avesse tentato, a trasformare questi risvegli in un’abitudine.

La mancanza, suo malgrado, gli lasciava sempre la stessa sensazione sulla pelle, e ogni volta lui l’assorbiva con diligenza, come se fosse la prima, e vi si abbandonava mollemente, senza uno sforzo per contrastarla, senza la speranza di poterla combattere.

Si passò una mano fra i capelli e si infilò rapidamente i pochi indumenti che era riuscito a raccattare. Godé per un attimo del sollievo provocato dal conforto del tessuto sul suo corpo intirizzito, per dirigersi poi alla ricerca del suo cellulare, abbandonato in qualche angolo della camera nella fretta della notte precedente.

Sbuffò di nuovo, quando lo trovò coperto dai propri jeans, arrotolati di malagrazia sulla moquette.

Premette il tasto di accensione, e lo schermo si illuminò, provocandogli una fitta agli occhi. Si accorse di aver dormito con le lenti a contatto.

Non c’erano messaggi da sua madre, né da suo padre. Sentì una piacevole quanto fuori luogo sensazione di sollievo espandersi nel suo petto ed evaporare un attimo dopo.

La notifica era ancora lì.

Zoey Kingsley ti ha inviato una richiesta di amicizia.

Smise di respirare. Tratteneva sempre il respiro per cercare di bloccare l’avanzata dell’ansia, ma il vortice di paralizzante angoscia che aveva nello stomaco gli faceva martellare il sangue nel cervello, impedendogli di pensare.

Sentiva le mani gelide, le dita che stringevano il telefono stavano diventando insensibili.

Si appoggiò al bordo del letto. Aveva decisamente dimenticato quel dettaglio della serata – santo dio, come aveva fatto a dimenticare quel dettaglio? – e la realtà era piombata su di lui come una cascata di sassi.

Sblocca il telefono, idiota, si disse. Le sue dita rimasero immobili.

Improvvisamente, sotto il suo sguardo pietrificato, apparve un’altra notifica.

Un messaggio da Jay, che recitava semplicemente: hai dimenticato il fascicolo nel motorino.

Fece scorrere l’indice sullo schermo, cancellandolo immediatamente con un gesto nervoso.

Poi sospirò e, consapevole di non essere fisicamente in grado di reggere ancora l’attesa, sbloccò il telefono.

 

*

 

Non riusciva a tenere gli occhi aperti.

Adesso li chiudo, si ripeteva, appoggiando tutto il peso della propria testa al polso piegato, ad intervalli di trenta secondi.

Non si era mai addormentato in classe in tutta la sua vita, ma questa volta sentiva di esserci fatalmente vicino. Teneva la matita incastrata fra l’indice e il medio, e muoveva piano le dita per farla sbattere sulla superficie del banco: il rumore era sufficientemente molesto da riuscire a tenerlo sveglio e distrarlo dalla triste prospettiva del lento scorrere dei minuti, e allo stesso tempo abbastanza flebile da non disturbare la solida e inarrestabile monotonia della voce della professoressa.

Si passò la mano libera fra i capelli, tirandoli leggermente. Tentare di procurarsi dolore per non scivolare nel sonno come un cretino era la sua ultima spiaggia.

Spostò lo sguardo sulla ragazza seduta nel banco accanto al suo e la osservò per un attimo, mentre la punta della sua penna scorreva morbidamente sul foglio che aveva davanti, e l’altra estremità volteggiava in aria ad un centimetro dal suo naso. Tutti gli altri sembravano incredibilmente concentrati e tutti incredibilmente uguali.

Era ammirevole il modo in cui compivano tutti lo stesso gesto, ognuno per sé, ognuno nel proprio isolato microcosmo, con una coordinazione spaventosa e quasi innaturale. Ognuna di quelle giovani schiene era diligentemente china sul proprio quaderno, mentre il suo proprietario si dedicava a ciò che anni di pubblica istruzione e di fardelli di obblighi e aspettative gli avevano imposto come una necessità imprescindibile.

Lane riteneva che l’ascolto prolungato di una lezione che consisteva prettamente nell’analisi – troppo superficiale per risultare remotamente interessante alle sue orecchie ma troppo complessa per essere seguita senza inclinazioni suicide o generico desiderio di morte – di fenomeni fisici assolutamente non rilevanti, rappresentati da banali quanto poco impressionanti formule matematiche, fosse esattamente la materializzazione del suo inferno personale.

Era in grado di capire che non fosse necessariamente una cosa brutta. Era consapevole che quella stessa aspettativa che schiacciava i suoi compagni contro i propri banchi come un collettivo, perpetuo macigno, al quale apparentemente non vi era scampo, fosse in qualche modo anche parte della sua vita. Ma la propria aspettativa, quella che lo spingeva come un impulso sconosciuto a dedicarsi a ciò in cui riteneva fosse lecito impiegare le proprie energie, si riversava, immensa e mostruosa, in altro.

Perciò, ogni santa volta che si trovava in quella classe, con quelle persone talmente interessate alle parole della professoressa da concedersi a malapena di respirare, gli veniva una nausea della vita morbosa e paralizzante che raramente provava in altre occasioni.

Ma, nonostante il sonno, era ancora capace di impedirsi di fare qualcosa di orribilmente sconsiderato, come addormentarsi in classe.

Perciò sospirò e si appoggiò al muro con una spalla, cercando di sparire completamente dietro la testa della ragazza seduta proprio davanti alla cattedra.

«Sei in questa classe da due anni e non ti ho mai visto interessato a niente»

Lane si voltò di scatto, ringraziando mentalmente il proprietario di quella voce per averlo strappato via dalla sua miserabile condizione.

«Non sopporto la sua voce» sussurrò in risposta, alzando brevemente le spalle e lanciando un’occhiata al viso corrucciato del ragazzo.

«E allora perché continui a iscriverti a questo corso?» gli domandò, con un breve sospiro di biasimo.

Lane non rispose subito. Fece vagare timidamente lo sguardo sulla sua faccia larga e bianca, sulle sopracciglia quasi trasparenti e le lentiggini rade ma incredibilmente scure contro la sua pelle. Erano concentrate tutte sul naso, come se fossero state gettate tutte insieme come coriandoli da una mano particolarmente maldestra.

Su di lui stonavano tanto quanto a Jay stavano bene.

Ma a Lane non dispiaceva Jeff, e perdonava le sue domande scomode perché sapeva che lui non le considerava tali.

Sospirò, senza più preoccuparsi delle conseguenze del suo inevitabile auto sabotaggio, e si passò una mano fra i capelli, cercando di dilatare il più possibile i secondi che lo separavano dal limite universale entro il quale era socialmente accettabile fornire una risposta.

«Per una questione di praticità, credo» mormorò infine, girando di nuovo la testa per fare finta di controllare la professoressa. Il ronzio spiacevole e ininterrotto che le usciva dalla bocca dimostrava il suo totale disinteresse nei confronti del loro scambio di battute.

Jeff si accigliò ancora di più, ma dalla sua espressione non trapelava ostilità, solo un lieve, lievissimo inquadramento preimpostato che lo portava automaticamente a desumere che Lane stava dalla parte sbagliata della ragione umana.

«Sinceramente non ho capito» asserì, cominciando a mordicchiare il tappo della penna.

Alla vista di quel gesto Lane si portò automaticamente una mano alla bocca.

«È che» mugugnò, staccando di netto un’unghia con i denti «voglio tenermi aperte diverse porte»

Era consapevole di quanto fosse carente la sua spiegazione, eppure lo vide alzare le spalle in un gesto di velata disapprovazione.

«Per me non ha senso» disse, in un tono talmente sincero da sembrare quasi scortese «tu non vuoi stare qui»

«Però devo starci» borbottò Lane, sentendosi scivolare via rapidamente dalla bolla di agio che si era costruita fra loro nel corso degli anni.

Non avevano mai parlato molto, non avevano mai varcato il ben delineato confine che separa una situazione di conoscenza e superficiale apprezzamento reciproco da una vera e propria condizione di empatia e confidenza. Sapevano di essere alleati, non avevano bisogno l’uno dell’altro al di fuori del corso. Ma in quel momento, un momento che Lane giudicava davvero poco opportuno per fare una mossa del genere, Jeff stava deliberatamente alterando quell’equilibrio, consolidato e confortevole, che lui credeva fosse frutto della volontà di entrambi.

Le domande scomode andavano bene, finché Jeff si accontentava delle sue risposte vaghe.

Sorprendentemente, le spalle del ragazzo si rilassarono, e si esibì in un sospiro che assomigliava ad una manifestazione di pura solidarietà.

«Mi dispiace per te» disse semplicemente, guardandolo dritto in faccia.

«Si, beh» mugugnò, abbassando lo sguardo sul quaderno fitto di appunti del ragazzo «non importa, va bene così»

Si stampò in faccia un impacciato sorriso, il desiderio di terminare la conversazione che spingeva disperatamente contro le pareti della sua scatola cranica.

Lo vide scrollare leggermente le spalle.

Lane riteneva di aver carpito una quantità considerevole di informazioni su Jeff nel corso di quegli anni di blanda e cordiale conoscenza. Conoscenza, per non dire osservazione. E fino al momento in cui si trovava a vivere quell’imbarazzante dialogo, aveva sempre custodito, dentro di sé, la rassegnazione alle scarse manifestazioni d’intelletto e di sensibilità dell’unica persona con la quale fosse riuscito a stabilire un contatto in quella classe aliena.

Eppure.

Eppure Jeff disse, nel tono più pacato che avesse mai sentito uscire dalla sua bocca:

«Forse dovresti cominciare a chiedere ai tuoi genitori di lasciare che ti iscriva a corsi che ti piacciono»

Rimase spiazzato. Assolutamente pietrificato.

«Come?» sussurrò, mentre il nervosismo cominciava a traboccare dal vaso di Pandora che aveva al posto del cervello, invadendo, fluido e inarrestabile, ogni centimetro del suo corpo.

Ed eccoli.

I tonfi del suo cuore erano fuori controllo. Si impose di non accelerare il respiro.

«Mi hai sentito» rispose Jeff, e un secondo dopo il suono peggiore che avesse mai sentito invase l’aula.

Era sicuro che quella campana gli avesse bucato i timpani.

«Ci vediamo» aggiunse atono il largo ragazzo, che nel frattempo aveva raccolto e buttato dentro lo zaino tutta la sua roba. Si alzò rapidamente e fece per andarsene.

«Aspetta» quasi gridò Lane, senza effettivamente preoccuparsi dell’ansia che trapelava dalla sua voce.

Ma Jeff era già sgusciato tra le impazienti e rumorose figure dei loro compagni, con la borsa che gli sbatacchiava sulle spalle massicce ad ogni passo.

 

Deve essere così che ci si sente, quando si rompe la quarta parete.

Questo pensò, quando l’angoscia lo riempì completamente, chiudendogli la gola e bussandogli freneticamente nel petto.

Lo stesso sentimento che precedentemente gli stringeva la testa come un anello di ferro, facendogli desiderare di chiudere tutto, in quel momento lo stava scuotendo come una scarica, e gli stava dicendo di corrergli dietro.

Così, quando oltrepassò la porta, sfregandosi contro braccia e schiene e capelli, con il fiato corto e l’imbarazzo che martellava nelle orecchie, e la sua mano raggiunse il braccio di Jeff, capì che per sfondare la sua maledetta porta il ragazzo vi aveva semplicemente appoggiato una mano.

Si piazzò davanti a lui, illudendosi di potergli impedire di passare oltre il suo esile corpo.

«Io frequento corsi che mi piacciono» si ritrovò a dire, stupidamente. Si sentì straordinariamente ridicolo.

Jeff scosse la testa. Stava lentamente perdendo quell’aria da tappezzeria, da pezzo d’arredamento, che gli aveva sempre attribuito e improvvisamente una genuina voglia di lasciar perdere qualsiasi tentativo di richiudere la porta gli balenò nella testa, calda e invitante.

«Non è quello che ho detto. Ho detto che potresti evitarti questa tortura»

Fece una smorfia, tirando la bocca in un’espressione di disgusto.

«Per me è una tortura il corso di letteratura, ma devo andarci perché è obbligatorio»

Gli stava già volgendo le spalle un’altra volta.

«Siamo all’ultimo anno, Lane»

A malapena udibile, sopra il frastuono denso di adolescenza e indisciplina che regnava nel corridoio, ma fu come ricevere un mattone sulla pancia.

Un bel calcio fra lo sterno e lo stomaco.

Trattenne il respiro, mentre sentiva il dolore ramificarsi e germogliare, come un parassita velenoso, dentro il suo debole groviglio di emozioni.

Jeff gli voltò le spalle e se ne andò per la sua strada, con un’ultima occhiata intrisa di compassione.

E poi accadde.

Vide prima i suoi capelli.

Ci mise meno di un battito di ciglia a realizzare che esattamente due cose assolutamente improbabili erano avvenute ad una distanza ridicolmente breve l’una dall’altra, e credette davvero che le gambe l’avrebbero abbandonato, cedendo come burro sotto la pressione.

Assolutamente improbabile.

Talmente improbabile che non aveva nemmeno ritenuto opportuno prendere in considerazione una simile eventualità. Scandalosamente imprevedibile, ai limiti del tradimento.

Stava avanzando. Stava avanzando, circondata da una ondeggiante coltre di angeli custodi, sui quali lei spiccava senza sforzo, forse senza nemmeno una reale intenzione, e si stava avvicinando sempre di più.

Pareva che sfavillasse.

Tutto di lei sembrava essere stato posto lì, sulla sua persona, per brillare e farla brillare in ogni istante.

Il modo in cui si voltava verso uno degli infiniti satelliti che la circondavano – saranno stati quattro o cinque, ma non aveva alcun senso rivolgere lo sguardo verso di loro per contarli – il modo in cui sorrideva, perfino il modo in cui camminava era impossibile da ignorare.

Era impossibile non notarla. Era impossibile guardarla e non apprezzarla.

E lui era là fermo come un emerito idiota, in mezzo al fiume di gente che scemava rapidamente, sferzato dal richiamo insistente della campana, e si sentiva come se i barlumi di essenza che lei lasciava trapelare da ogni gesto, in ogni secondo, oscurassero completamente tutto ciò che lui aveva mai avuto la pretesa di essere, in tutta la sua mera esistenza.

Si sentiva come se poterla osservare fosse una ragione sufficiente per continuare a stare al mondo, come se la contemplazione assoluta e adorante fosse il premio che gli era stato assegnato, la fortuna di una vita intera.

Si riscosse solamente quando si accorse che rischiava seriamente di essere visto.

La folla si era divisa. Era giunto quell’affascinante momento in cui la massa cessa di essere tale, mentre si sgretola contro le pareti e si trasforma, e ognuno diventa nuovamente un individuo, ognuno raggiunge il suo armadietto e si ritaglia un breve, brevissimo pezzetto di pacifica solitudine prima di essere trascinato ancora, inesorabilmente, nella maledizione della collettività, impetuosa e anonima.

Così si mosse nella direzione opposta alla sua, cercando di scivolare discretamente vicino al muro.

Gli restava davvero poco tempo. Dieci metri, solo dieci metri più avanti c’era il suo armadietto.

Era sul lato giusto, doveva solo usare sapientemente i corpi delle poche persone rimaste, ma era semplice, l’aveva fatto così tante volte, era semplice e lui aveva bisogno di nascondersi, un bisogno disperato, perché Jay non c’era, nessuno poteva aiutarlo, e lo uccideva il pensiero di incontrarla là da solo mentre lei era con tutta quella gente - oh mio dio - tutta quella gente che non conosceva e sembravano tutti ben vestiti e bellissimi e si muovevano nel modo giusto e ridevano nel modo giusto e oh mio dio le svolazzavano intorno come tante belle farfalle intorno a una lanterna e lei in tutto questo continuava a brillare e ad attrarli a sé, perché se loro erano bellissimi e felici e giusti, lei era un’altra cosa, lei li superava tutti, lei era impossibile.

Da concepire, da non guardare.

Il segreto è distogliere lo sguardo, fai finta di fare altro, ti prego non fissarla non fissarla non fissarla.

Mancavano cinque metri.

Non pensava nemmeno più all’armadietto.

Una fitta acuta di consapevolezza lo colpì alla nuca.

Il telefono.

Si ficcò una mano in tasca, cercando disperatamente di lottare contro il tessuto appiccicoso della giacca.

Sbloccò lo schermo con una velocità imbarazzante, aggrappandosi all’oggetto con le dita gelide e scivolose, costringendo tutta la sua traballante attenzione a concentrarsi su di esso.

Ma nell’attimo in cui la sua figura curva e goffa incrociò lo sciame volteggiante di esseri impeccabili – sembravano davvero tanti, perché erano così tanti? –e la soggezione era giunta al suo massimo, non riuscì a impedirsi di far scattare lo sguardo, un’ultima volta, sull’ape regina.

E nell’attimo esatto in cui la sua occhiata si era conclusa, nel momento in cui i suoi occhi erano scivolati via da lei, in cui il suo unico ponte era stato tagliato e l’adorazione moriva nel suo ultimo spasmo, nel momento – il rassicurante, doloroso momento – in cui aveva creduto di essere al sicuro, lo sentì.

Il suo sguardo aveva un peso, e lui se n’era accorto la prima volta.

La prima volta che l’aveva guardato si era reso conto di essere solamente una piccola, mediocre carica sonda. Che ogni sua azione, ogni cosa che lei faceva pesava su di lui e osservare non era mai troppo perché tutto era straordinariamente importante, tutto doveva essere osservato, perdersi in quel campo magnetico era come affogare nel miele.

Ma poi lui aveva sentito su di sé il colpo, come uno schiaffo, del movimento dei suoi occhi, e aveva capito che forse il suo campo magnetico non era poi così insignificante, che poteva alterare oltre ad essere alterato.

Ma gli esseri umani non sono calamite, tutti gli sguardi hanno un peso e questo sguardo è troppo pesante.

«Lane!»

Troppo vicina per essere ignorata.

Lo sguardo schiacciava, la voce inchiodava. Obblighi, costrizioni, prigioni astratte. L’imbarazzo di sgusciare via contro l’imbarazzo di rimanere.

Uno sguardo andava bene, era spaventoso ma non paralizzante. Era un gesto sufficientemente intimo da poter passare inosservato, l’unico che poteva sentirne il peso era lui. Lo sguardo non era un problema.

Ma la voce, che diceva il suo nome, era un taglio netto ad ogni via di fuga.

Rimase sospeso nell’aria come una macabra piuma per un secondo, uno soltanto. Si concesse un ultimo attimo di libero respiro, prima di voltarsi nel modo più fluido che gli riuscì e portare di nuovo lo sguardo su di lei, in modo così timido che sentì il fastidio verso se stesso artigliargli lo stomaco.

Ti prego smettila di fissarmi.

«Ciao»

La sua voce era piatta, arrocchita dall’ansia, la gola secca. Voleva cercare di inumidirla in qualche modo ma non poteva permettersi di fare rumori superflui, non poteva dare motivo a quella gente – tutta quella fottuta gente – di credere che fosse solo un ragazzino maldestro e disgustoso.

E si, sapeva che il suo corteo lo stava esaminando attraverso un velo di noia e sarcasmo ma il suo sguardo da solo pesava come quello di tutta la scuola. Non riusciva a capire come fosse possibile.

Perciò fece l’unica cosa che il suo difettoso istinto di sopravvivenza gli stava disperatamente suggerendo di fare, l’unica cosa che potesse ancora permettergli di evitare la discesa nell’abisso di frenetica angoscia intorno al quale stava sconsideratamente ballando.

Abbassò gli occhi. Poi li fece correre fino agli armadietti in fondo al corridoio, violentemente rossi contro la parete bianca, per tornare, in una taratura di tempo perfetta, quasi nella stessa posizione di prima, indirizzati esattamente per incollarsi ai capelli corti e straordinariamente poco interessanti di un giovane di belle speranze proprio dietro di lei.

Che non smetteva di fissarlo.

«Allora, stasera ti trovo?»

Si ripeteva che era impossibile, assolutamente impossibile aggiungere altra soggezione a quella che già sentiva, eppure la consapevolezza di essere passato da carica sonda a puntaspilli si stava rapidamente facendo strada nel suo cervello. Era solamente una palla di stoffa e gommapiuma che lei stava ripetutamente infilzando con una subdola e crudele serie di affondi, mentre pescava dalla sua immensa faretra  infinite armi, e lui non aveva alcuna difesa contro nessuna di queste.

E la parte peggiore, pensò in un delirio di nausea e impotenza, è che non se ne accorge.

«Dove?»

Guadagnare tempo era l’opzione di emergenza.

Davanti ad un avversario che ha tutte le carte in regola per batterti, perché tu nemmeno hai tirato fuori il tuo mazzo – o forse effettivamente non ne possiedi uno, davanti a qualcuno che non ti permette di giocare pulito, che ha già scelto le tue mosse e ti ha incastrato fra due fuochi, hai due possibilità.

Stare muto come una tomba o strappare il copione e fare la figura dell’idiota.

Infatti lei alzò un sopracciglio. La luce di candida curiosità che le danzava negli occhi era scivolata via, lasciando solo un po’ di scura impazienza.

«Alla Cava» disse semplicemente, affondando le mani nelle tasche della camicia.

Notò che era una strana camicia. A strisce bianche e nere, molto cupa.

Registrò a malapena la sua risposta. Ormai stava prendendo l’abitudine di cercare di spingersi il più vicino possibile al limite del silenzio concesso dopo l’ultima battuta di una conversazione.

«Oh» la sua voce suonava roca perfino nelle esclamazioni santo dio «non credo, devo studiare»

Si azzardò a dare un colpetto di tosse, solo perché aveva paura di strozzarsi con la frase successiva.

Il suo sguardo guizzò sulle facce del piccolo esercito. Parevano davvero annoiate.

Un moto di disagio lo scosse come un conato.

Poi lei rise. Lei rise di lui, in modo breve e leggero, senza rimprovero ma con un pizzico di riconoscibilissima disapprovazione, e si rese conto di essere davvero fottuto.

«Oh ma dai, è venerdì» la risata non era ancora fuggita dalle sue labbra mentre pronunciava quelle parole «e poi sono curiosa di sapere che cosa ne pensi del fascicolo che ti ho dato»

Era al centro di un cerchio di fuoco. Un agnello sacrificale, niente di meno.

Sapeva che ci sarebbe riuscita, si era messo in guardia sin dall’inizio ma la strada di emergenza era sempre quella verso cui correva, come una stupida preda spaventata, ogni volta che vedeva la sconfitta avanzare con la sua falce ben alzata, pronta a tagliargli le gambe.

E adesso non c’erano due fuochi, non c’era una scelta meno terrificante dell’altra. C’era solo un bell’anello fiammeggiante che ardeva e ardeva e aspettava solamente che lui ci si buttasse a capofitto, in un maestoso e spontaneo annullamento di arbitrio.

Sapeva di aver perso nel momento stesso in cui aveva notato i suoi capelli in mezzo alla fauna scolastica del cambio dell’ora. Sapeva che avrebbe perso ogni santa volta, perché il suo mazzo non valeva assolutamente niente in confronto al suo.

Perciò quando finalmente mormorò un “d’accordo, verrò” e fece in modo di imprimere per sempre nella sua mente il breve e autentico sorriso che la ragazza gli aveva dedicato, tutto quello che sentì fu un impasto di dolciastra rassegnazione – che scacciava di malo modo il pressante disagio per andare a riempirne il posto ormai vuoto – e di vago autodisprezzo.

Osservò silenziosamente lei e la sua carovana – erano solamente cinque persone in effetti – proseguire il proprio cammino nella stessa direzione di poco prima.

Raggiunse il suo armadietto in pochi passi. Percepiva i residui della tensione evaporare dal suo corpo, un senso di pesantezza e di tranquillità tanto rara da sembrare innaturale posarsi sulle proprie spalle e schiacciarlo a terra, ma era una pressione piacevole, quasi liberatoria, era la pressione calda e rassicurante che arriva dopo l’affanno della fuga.

Un’urgenza premeva, lieve ma insistente, contro un lato della sua testa esausta. Era un tamburellare senza contenuto, per una cosa che prima aveva un nome e ora non più.

Con un sospiro tirò fuori il telefono dalla tasca e sbloccò lo schermo.

C’era un messaggio da Jay. Diceva semplicemente:

Hai da fare stasera?

Il tamburellare divenne un allarme, l’urgenza un ricordo.

Sono curiosa di sapere cosa ne pensi del fascicolo che ti ho dato.

Il fascicolo era ancora da Jay.

Con le dita ancora deboli e scivolose, soffocando il principio di ansia che minacciava di divampare nuovamente, digitò una breve risposta per l’amico.

Poi si strofinò gli occhi con i palmi delle mani, inspirò profondamente un’ultima volta e cominciò a camminare in direzione della sua classe.

 

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Capitolo 5
*** V ***


Ore 19.45

 

 

«Sto perdendo la pazienza»

Sbuffò nella maniera meno rumorosa che gli riuscì, e si portò senza pensare le dita alle palpebre, strofinandole con forza eccessiva. Sentì i bulbi oculari pulsare in risposta.

«Almeno mi stai ascoltando?»

Alzò gli occhi. Jay lo stava fissando. Il suo viso era contratto, le labbra quasi bianche, strette nello sforzo di trattenere l’esasperazione. Era sicuro di non poter ballare sugli argini della sua collera ancora per molto.

«Scusa» borbottò frettolosamente, cercando di apparire almeno lievemente contrito.

L’amico si esibì in uno sbuffo molto meno silenzioso del suo e si portò due dita alla base del naso, come per cercare di trattenere l’impulso di tirargli uno schiaffo.

Se uno sguardo potesse uccidere sarei già morto.

«Okay, ricominciamo. Hai capito cosa è una mole?»

«No» mugugnò Lane, affondando mestamente il viso nei palmi aperti, rinunciando improvvisamente al proposito di non mostrare apertamente la sua divampante disperazione.

«Dio santo» sbottò Jay, cominciando a frugare distrattamente nella tasca posteriore dei jeans «te l’ho ripetuto almeno tre volte, te l’ho scritto davanti agli occhi»

«Senti» ribatté bruscamente Lane, scostando le mani da viso e fissandolo con il cipiglio più risoluto che riuscì tirare fuori «questa roba è impossibile»

«No che non lo è» sentenziò Jay, piccato «semplicemente non hai voglia di starmi a sentire»

Fece per alzarsi, ma Lane fu più veloce. Intercettò il suo braccio e lo costrinse a tornare giù, tirandolo brevemente per il lembo della manica.

«Ti pago» disse solamente. L’unica cosa che gli venne in mente. Vide passare un lampo di irritazione passare negli occhi dell’amico, ma non mollò la presa.

«Per favore» aggiunse, in tono pateticamente supplichevole, mentre Jay si divincolava per liberarsi «sono nella merda. Non ci capisco niente e se non imparo tutte queste formule entro lunedì sono fottuto»

«Forse dovevi pensarci prima di metterti a fissare il vuoto» replicò Jay acido, sfilando rabbiosamente una sigaretta dal pacchetto ammaccato «e di lasciarti circa tre anni di programma arretrato. Come fai a non sapere cos’è una mole? Sei all’ultimo anno»

«Credo di averlo saputo, tanto tempo fa» borbottò Lane, abbassando lo sguardo sulla vasta distesa di quaderni aperti intorno alle sue gambe, ricoperti dalla scrittura fitta e disordinata di Jay. Si portò le ginocchia al petto e le circondò con le braccia.

«Beh non puoi nemmeno pensare di calcolare la concentrazione di una soluzione se non sai cosa cazzo è una mole» disse Jay, soffiando via nell’aria fredda la prima boccata di fumo «e oltretutto, io avevo dei programmi per stasera»

Lane cercò di coprirsi quanto più possibile le mani con le maniche del maglione, sfondate dall’assidua usura degli ultimi anni, e lanciò all’amico un’occhiata remissiva.

«So che sono un coglione» disse stupidamente, rendendosi conto un secondo dopo di quanto suonasse ridicola quella frase. Il suo naso stava cominciando a diventare gelido. Se lo sfregò con il dorso della mano, consapevole che non avrebbe sortito nessun effetto.

Jay non rispose. Gli fece cenno di spostare alcuni dei quaderni, poi si sedette a un metro da lui, con le gambe incrociate.

«Non capisco perché ti ostini a voler finire tutto oggi» mormorò.

«Domenica è Halloween» rispose Lane, scrollando brevemente le spalle quando Jay alzò gli occhi al cielo.

«Sei l’unica persona sulla faccia della terra a cui non piace Halloween, lo sai vero?» aggiunse, sollevando le sopracciglia. Vide un ghigno canzonatorio allargarsi sul viso dell’amico e subito ritrarsi, come se non fosse mai esistito.

«Ne abbiamo già parlato» replicò, lanciandogli un’occhiata di sbieco. Sapeva che stava cercando di non dargliela vinta.

«Io continuo a non capire» lo punzecchiò Lane, strisciando sulle piastrelle ghiacciate della terrazza fino a trovarsi talmente vicino che i loro gomiti si sfioravano. Incrociò le gambe e appoggiò il palmi sul pavimento. Riusciva a vedere il tramonto e non gli importava più nulla del compito.

«È una festa cretina» decretò Jay, spegnendo distrattamente la sigaretta nel bel mezzo di una mattonella. Un po’ di cenere volò sulle pagine ancora aperte, quasi brillanti nella penombra del crepuscolo.

Un cerchietto nero di fuliggine spiccava contro il rosa del pavimento.

Rimasero in silenzio per qualche secondo, godendosi lo spettacolo dolcemente ordinario del sole che muore nello spasimo dei suoi ultimi colori, succhiando via la vita dal mondo e trascinandola oltre il bordo.

Il freddo stava aumentando, si insinuava dentro i jeans e pungeva gli occhi come un insetto crudele.

«Comunque grazie» disse infine Lane, quando il crepuscolo aveva ormai preso possesso del cielo e non c’era più luce per leggere. Distese le gambe e lasciò il tempo a Jay per assimilare le sue parole.

Ma non ottenne nessuna confusa risposta. L’altro si limitò a fissarlo con un’espressione interrogativa, la schiena curva e le spalle tese come unico segno di attesa. Si rigirava il mozzicone triste e arancione tra le dita livide, rese ancora più pallide dal contrasto con i polsini neri della vecchia giacca.

«Per non essere andato a morire in un fosso con i tuoi amici drogati» aggiunse, alzando le sopracciglia. Il suo tono era carico di sarcasmo, ma sapeva che Jay aveva capito che non stava scherzando.

Infatti sorrise.

Brutta testa di cazzo.

«Di niente» sogghignò nella sua solita maniera irritante, senza smettere di guardarlo come se non volesse perdersi nessun dettaglio della sua espressione «altrimenti chi ti salverebbe il culo in Chimica ogni volta?»

«Jeff è bravo quanto te» borbottò Lane, tirando ancora più giù le maniche del maglione senza una reale necessità. Non era vero, non era neanche lontanamente vicino alla realtà.

Vide un lampo maligno passargli negli occhi.

Le sue labbra erano secche, spaccate dal freddo.

«Non credere che ci caschi, stronzetto» il suo tono era immensamente divertito; se la disapprovazione di Lane gli aveva restituito un po’ di buonumore, adesso era schizzato alle stelle «non conosci nessuno più bravo di me»

Lane appoggiò il mento sul palmo della mano, lanciandogli un’occhiata carica di sconforto.

«Rimani comunque un pessimo insegnante» sospirò «insulti soltanto me oppure sei così con tutti i tuoi alunni?»

«Considerando il fatto che loro mi pagano, non posso permettermi certe libertà»

Sogghignava. Era visibilmente compiaciuto, oltre che ostentatamente sarcastico.

«E poi se dessi dell’idiota a Marylou McHale probabilmente si metterebbe a piangere»

Si alzò in piedi, sfregandosi le mani per riscaldarle.

Si muoveva in continuazione.

Fece un mezzo giro su se stesso, voltandosi per lanciare un’occhiata al punto in cui solo due minuti prima l’arancione si espandeva, incorporeo e ardente, come una macchia maldestramente diluita. Poi si infilò le mani nelle tasche e cominciò a passeggiare avanti e indietro, strisciando i piedi contro le piastrelle di terracotta, come assorto nella contemplazione di qualcosa di ignoto, schiacciato tra la sua scatola cranica e il pavimento.

Riluceva nel crepuscolo violetto come uno spettro.

Si concesse di respirare, per un istante, la notte nascente. Era ancora troppo chiara, troppo debole, ma ormai presente, inesorabile, in discesa verso la smaniosa frenesia che prende le anime e le ribalta e distrugge il loro stesso proposito di esistenza. La stessa che spinge gli animali a prendere ciò che gli appartiene di diritto, la stessa che pare dire, in un modo inspiegabilmente intenso, giusto, quasi violento: ecco, prendetela, esiste per voi.

La stessa che vedeva scuotere il corpo di Jay, incastrato fra l’orlo del mondo e l’ebbrezza della follia delle infinite possibilità che porta il buio. Poteva quasi sentire concretamente la cupa malinconia della quotidianità scivolargli tra le dita, diluirsi in maniera sorprendente nell’eccitazione morbosa di essere vivi ed essere al mondo.

Così come poteva sentire l’urgenza e la cadenza ritmica del tempo, della sabbia della clessidra che pendeva sulla sua testa, della corsa furiosa degli attimi di attesa misurati in sfumature del cielo, carichi, ma allo stesso tempo volgarmente vuoti.

Poi Jay alzò lo sguardo. Si accorse in quel momento che non aveva fretta di andarsene: nei suoi occhi si distingueva ancora chiaramente quella scintilla di morbida ironia che Lane aveva imparato ad associare al momento in cui la sua docilità arrivava all’apice e la serratura scattava.

Una sola notte non basta per un solo giorno.

Gravitava intorno al punto in cui era seduto come un satellite, infagottato nella sua giacca troppo pesante, e Lane sapeva che voleva che si alzasse.

Non voleva smettere di guardarlo.

Ma non voleva nemmeno lasciarlo completamente solo nella neonata gioia selvaggia del venerdì sera, così disse la prima cosa che gli venne in mente.

«A breve comincerà a fare troppo freddo per venire quassù a studiare»

Lo vide abbozzare un sorriso. Ma morì subito, nemmeno il tempo di prendere forma come si deve.

La tristezza pulsò , sorda e assopita, sotto la sua pelle intirizzita.

Il lutto per l’eccitazione perduta gli bloccò il respiro per un attimo.

«Non mi hai ancora risposto» lo sentì mormorare.

Sospirò, mentre Jay sosteneva il suo sguardo con crescente aspettativa. La punta acuta della sua tensione interrogativa gli bucava le pupille, lo spingeva nella direzione che voleva, lo faceva ballare con la minaccia di graffiarlo.

Era un momento troppo prezioso per andare perduto così.

Sapeva che non avrebbe mai lasciato perdere. Non aveva vie di fuga.

«Ti devo chiedere un favore» azzardò, concentrando improvvisamente tutta la sua attenzione su un filo sporgente del maglione.

Poté quasi percepire il corpo di Jay irrigidirsi impercettibilmente, il suo sguardo farsi più acuto.

«È importante» continuò. Non aveva bisogno di guardarlo per sapere di aver fatto brutalmente a pezzi ciò che rimaneva della gioia leggera di poco prima.

«Ti ascolto» fu tutto ciò che si sentì dire in risposta.

Parla, stupido ragazzo.

Inspirò piano.

«L’ho incontrata, stamattina» cominciò, deglutendo nervosamente. Gli occhi di Jay gli stavano praticamente bucando il cranio.

«A scuola» si affrettò ad aggiungere.

«E quindi?»

La sua voce suonò pericolosamente interrogativa, con una sfumatura indistinta di irritazione e impazienza.

Dirà di no, lo sai che dirà di no.

«Mi ha chiesto di tornare stasera»

Non aveva il coraggio di guardarlo. Non aveva neanche il coraggio di incassare il rifiuto, ma rimase in ascolto, svuotato e nervoso, vibrante di attesa e morbosa speranza.

Lo scudo di gomma si stava tendendo rapidamente, correndo a coprire i quattro angoli della sua figura, morbido e accondiscendente ma pronto a rigettare la delusione che si stava accumulando sassi e mattoni dall’altra parte. La parte del giudice, la parte di chi aveva l’ultima parola.

Diametralmente opposta alla sua.

Sentì a malapena un indistinto borbottio scivolare attraverso la sua parete di  trepidante rassegnazione, bucare l’incertezza, far esplodere la bolla.

«Cosa?» mormorò spaesato; il rumore del suo stesso sangue gli ronzava nelle orecchie, sordo e ringhiante.

«Ho detto che va bene»

Lo sentiva, poteva sentirlo chiaramente, le parole avevano percorso tutto il filo invisibile che collegava i loro occhi, luccicanti e languidi sotto la nitida luna di fine mese, e l’avevano raggiunto, avvolgendo il suo cranio come dolci spire mortali.

Aveva visto le sue labbra muoversi, debolmente illuminate dalla luce grossolana dei lampioni, due tocchi, sulla v e sulla b, poi di nuovo immobili. Silenzioso, statuario, bianco come un lenzuolo contro il cielo nero.

Come se non avesse mai parlato.

E’ fatta.

«Sei sicuro? Anche stasera?»

Dimmi di si. Fammi questo regalo.

«Si»

Il sollievo si stava espandendo nel suo petto con una rapidità sorprendente. Sapeva che il suo canale di comunicazione con l’esterno era irrimediabilmente ostruito dalla gioia tiepida e pulsante che lo investiva, tutta insieme, come oro fuso, morbida e fluida. Sapeva di non poter dire niente, assolutamente niente, che non fossero parole stillate direttamente dal suo cuore, niente che non fosse costruito con i pezzi del maestoso torpore che andava crescendogli sotto la pelle. Gli pareva di essere ubriaco e lucido insieme. Volgare, volgarissimo giubilo, la cosa più preziosa che gli avesse mai potuto offrire.

E sicuramente Jay se n’era accorto.

Perché sorrise, guardando quella che immaginò fosse la luce della follia nei suoi occhi opachi, e sbuffò dal naso, subdolamente, riconoscendo il suo contrappasso, la fetta di torta che poteva prendersi prima che il soffitto gli cadesse in testa.

«Però promettimi una cosa»

Lane poté fisicamente sentire la sua coscienza staccarglisi dall’anima e mettersi a ballare sulla sua testa.

Tutto quello che vuoi.

«Cosa?»

Inutile, completamente inutile. Sapevano entrambi che era già un si.

Sorrideva, non poteva essere mai un no quando sorrideva.

Jay lo conosceva come la strada di casa.

Inghiottì a vuoto, cercando di dare sollievo alla sua gola secca. Il naso bruciava per il freddo e lui continuava a sorridere.

«Possiamo stare qui la notte di Halloween? Da soli, senza teste di cazzo in mezzo»

Fece una pausa, evidentemente indeciso se aggiungere qualcosa o no. Poi scrollò le spalle e parve giungere ad un compromesso con se stesso.

«Posso pensare io all’erba, se vuoi»

«Va bene, certo»

Rotolarono fuori, spontanee e calde. Jay non poteva non aver visto la luce che lui sentiva bruciare così insistentemente nelle pupille, selvaggia e cocente.

Doveva per forza averla vista.

L’aveva accesa lui.

Lo sai che puoi chiedermi quello che vuoi.

 

*

 

«Hai letto il fascicolo?»

Strisciò piano la punta di plastica della scarpa in mezzo alle foglie morte, gingillandosi con il terriccio umido del bosco come per cercare qualcosa.

Il buio era denso, quasi liquido. Le sagome degli alberi vi si scioglievano come sale nell’acqua, corpi reali e solidi persi nell’oscurità dell’esistenza notturna, spettatori e partecipanti.

Dentro e fuori.

Dentro o fuori.

Inspirò profondamente.

«Con quale faccia sarei venuto se non avessi letto il fascicolo?»

Jay alzò le spalle. Vide uno dei suoi soliti mezzi ghigni farsi largo sulla sua faccia.

«Così è questo che fai, al posto di prepararti per il test di Chimica?»

Alla debole luce della torcia i suoi occhi parevano inesistenti, mangiati dalle spesse ombre scure che il ponte del naso disegnava sulla pelle quasi luccicante della faccia.

La sua dura faccia bianca, tirata e rigida come quella della gente che non dorme, che non ride e che non mangia.

Toccò a lui scrollare le spalle.

«Ci ho messo solamente due ore»

«Bugiardo»

Non gli offrì il suo aiuto quando si accinse ad avvolgere faticosamente la catena intorno ai raggi della ruota anteriore. Rimase a guardarlo trafficare e sbuffare, mentre la maglietta bianca s’increspava sul suo busto stretto e le vene si gonfiavano, spettrali e diafane, sulle sue mani.

Non gli rispose.

Jay non cercava scuse da lui e l’inutilità di ribadire un concetto fasullo e artificioso pulsava nitida nel suo cervello.

«Sei sicuro di volerlo lasciare qui?»

Il suo piede incontrò qualcosa che non aveva la stessa consistenza della terra morbida di fine ottobre e dei sassi scivolosi coperti di muschio. Delicata plastica dura. Fece una leggera pressione del ginocchio, affondando con tutto il peso della gamba sulla suola spessa.

L’oggettino scricchiolò appena e sprofondò ancora di più nella mistura di morte autunnale che si estendeva tutta intorno a loro.

«Perché? A chi verrebbe mai in mente di rubare un catorcio del genere?» ribatté Jay, pulendosi rapidamente le mani sui jeans scuri.

«Proprio perché è un catorcio dovresti preoccuparti»

La punta scavava. Il nervoso cresceva.

Aveva definitivamente perso la siringa.

Ingoiata dalla fanghiglia.

Si lasciò andare ad un sospiro frustrato.

«E invece non mi preoccupo»

Lo vide abbassare lo sguardo.

Una contrazione improvvisa del viso. Un velo, l’ennesimo, sugli occhi troppo lucidi, troppo inquieti, due maledetti buchi nel cranio.

«La smetti di giocare con le siringhe?» sbottò.

«Non sei tu quello che non si preoccupa?» ribatté bruscamente, cominciando a frugare di nuovo tra le foglie con la punta. Scalciò con forza un sasso dal terreno, che rotolò via con un lieve tonfo.

Ma non lo guardò, perché sapeva che lui aveva già inchiodato lo sguardo su di lui.

E poteva sentire la palla di sputo velenoso lievitare e crescere nel petto di Jay, avvicinarsi pericolosamente al confine del suo autocontrollo fino a sfiorarlo, quasi sfidandolo a lasciarlo andare, a scagliarlo contro di lui.

Udì il suono del suo respiro, lento e pesante, la sua figura solida, divisa fra bianco e nero, monolitica, davanti a sé, insieme minaccia e compagna.

Bella cazzata, bravo.

«Sei proprio un coglione»

Tutto ciò che gli dedicò. Una punta di denso rancore diluita dentro una frase che gli aveva sentito pronunciare così tante volte, con così tanti toni diversi.

«Lasciami in pace, non riesco a pensare a niente in questo momento» borbottò. Riusciva a malapena a distinguere i deboli bagliori argentati dei raggi delle ruote dallo spesso muro del buio.

Inspirò piano l’aria fredda e umida della notte.

«Ho l’ansia»

Avvertiva il pericolo nel silenzio di Jay più che nelle sue grida, nella sua imperiosa staticità più che nei suoi gesti smaniosi.

La sua condanna si avvicinava.

C’era sempre un prezzo da pagare.

Eccola, sta arrivando. Non ha capito nemmeno stavolta.

E così un «fanculo» riecheggiò nella cassa armonica che era diventato lo spazio di cui loro erano gli estremi, la porzione di bosco e siringhe e natura morta che delimitavano con le loro ingombranti, eppure insignificanti esistenze.

Si udì appena, nella vastità del silenzio notturno.

Ma ruppe gli argini della diga che conteneva tutta la sua frustrazione.

«Cedevo che volessi venire, se mi avessi detto subito che  avevi cambiato idea mi sarei risparmiato la rottura di coglioni di arrivare fino a qui»

Questa volta le parole erano alte, nasali.

Stonavano con la quiete granitica del bosco, la minavano così come stavano facendo con lui.

Sentì l’umiliazione pizzicare ed espandersi nella gabbia toracica come acido.

«Infatti è così»

Lo strazio di quelle tre parole pesava come una pastiglia troppo grossa sulla lingua. La sentiva ingessata, lenta, compressa contro la gola. Voleva controbattere, ma continuava a tenerla ferma.

Più in fondo possibile, si disse, così non puoi vomitare.

«Ah si? E allora perché ti lagni ogni volta che ti porto nei posti in cui tu decidi di andare?»

«Lo sai che non funziona così»

Stava mormorando. Non doveva mormorare, era consapevole di non doverlo fare, perciò si schiarì rapidamente la gola.

«Lo sai che non funziona così» ripeté più forte, prendendosi un attimo – solo uno - per lanciare un’occhiata al suo volto.

Era ancora immobile, fisso nella fredda rigidità del disprezzo che si dilatava attorno a lui come una pozza di catrame.

L’aveva raggiunto, lo stava avvolgendo.

Se mi fermo è finita.

«No che non lo so»

Poteva quasi vederlo stringere gli occhi, immaginarlo mentre si preparava la facciata da impermeabile stronzo che tirava fuori ogni volta che doveva demolire qualche povero idiota.

«Non lo so perché non è possibile che tutte le volte che usciamo tu faccia questa scenetta»

Gli pareva che il suo intero corpo fosse diventato un ammasso di angoscia convulsa e umiliazione.

Stava cuocendo nei suoi stessi vestiti.

Desiderò potersi liberare di quel fardello di carne e sangue e ossa che gli pesava, dio santo, gli pesava così tanto sostenere e rianimare quando tutto ciò che voleva fare cazzo tutto ciò a cui riusciva a pensare era andare via.

Desiderò essere un’altra persona.

Desiderò essere un’altra persona per smettere di sentire la vergogna scavargli l’esofago, mangiandogli ogni cellula, ogni residuo di pace come la corda strappa via all’impiccato, secondo dopo secondo, tutti gli appigli alla vita che gli restano.

L’accusa di Jay gli penzolava sulla testa come un foglio di condanna.

Si sentiva strangolato.

«Non è colpa mia»

Non piangere.

«Lo sai che ci sono dei momenti in cui succede e altri in cui invece sto bene»

No, non lo sa. Lo sai solo tu.

«No cazzo, non lo so»

Si stava frugando freneticamente nelle tasche, alla spasmodica ricerca del pacchetto di sigarette.

Il suo stomaco si contrasse in un moto di irrazionale disgusto.

Non vomitare.

«Non lo so perché non ha senso»

Le parole strascicate, la sigaretta stretta fra le labbra.

Un sibilo, una fiamma.

Se sento l’odore vomito.

«Credi che io riesca a spiegarmelo?»

No dio santo non piangere smettila devi controllarti controllati cazzo.

«Io so solo che voglio uscire, voglio fare ciò che è meglio per me» provò a respirare profondamente; sentì i polmoni dilatarsi e il cuore tremargli dolorosamente nel petto «ma poi quando esco davvero mi sembra che sia tutto sbagliato e voglio solo tornare a casa. Mi blocco completamente»

Inghiottì un groppo di saliva. Lo sentì raschiare senza pietà le pareti della sua gola, tentare di aggrapparsi al tessuto secco, tentare di strozzarlo.

Se muoio almeno non devo decidere.

«Lo sapevo che non dovevo darti retta»

Ammazzami. Prendimi a calci.

«No, io voglio andarci»

«Smetti di dirmi cazzate»

Sentiva il rumore del suo respiro sopra ogni altro. Sentiva il ritmo singhiozzante e affannato  dell’aria che entrava e usciva dal suo petto, prima fresca e poi tiepida.

Entrava e usciva.

Entrava e usciva.

Non sto morendo.

«Voglio andarci» ripeté, quasi bisbigliando. Jay fece per dire qualcosa, ma lo precedette.

«Se oggi vado, le prossime volte andrà sempre meglio»

«Sarebbe già dovuta andare meglio allora»

La brace della sigaretta brillava come una lucciola a un metro dal suo naso.

Scosse la testa nel buio.

«Non funziona così»

«Non funziona mai così» poteva quasi vederlo alzare gli occhi al cielo «prendi una decisione e basta, che mi sono stufato di farti da autista per poi sentirmi dire queste cazzate»

«Nessuno ti ha costretto»

Bella stronzata.

«Si, lo so»

Tutta la frustrazione era stata risucchiata via dalla sua voce. Il tono lapidario con cui pronunciò quelle poche sillabe, dure e crudeli, fu come una spinta sull’orlo del burrone.

Sto cadendo.

Erano entrambi immobili.

Ora muoio.

La sigaretta si struggeva nella mano di Jay, dimenticata, abbandonata al suo suicidio involontario.

Se se ne va muoio.

Si strinse le braccia intorno al corpo, in un patetico tentativo di impedirsi di tremare.

Morirò. Me lo sento. Vomiterò e morirò.

«Accompagnami solo oggi»

Il dolore prese una forma. L’imbarazzo gli punse gli occhi. Un miserabile principio di lacrime gli offuscò la vista, il pallore del viso di Jay divenne solo una chiazza bianca in mezzo ai tronchi neri.

«Per favore. Non te lo chiederò più»

Una sola volta. Una sola volta ancora mi basterà. Ce la farò, posso vivere senza.

Il doloroso calore della stanchezza che assale gli sconfitti gli avvolse lo stomaco.

I sensi di colpa gli tiravano gli angoli degli occhi, gli martellavano nelle tempie, gli stringevano il cranio in una morsa che non sapeva sciogliere.

«Per favore, aiutami»

Forse lo vide. Il sussulto, la corsa frenetica dei suoi neuroni, il fiume di empatia in cui nemmeno sperava più. Qualcosa attraversò il corpo immobile davanti a lui.

Forse.

Lo vide passarsi una mano sul viso, visibilmente combattuto.

«Va bene»

La diga tornò su. Un po’ di acqua calda e appiccicosa gli si staccò dalle ciglia.

La sentì cadere e perdersi tra le foglie.

«Ma è l’ultima volta che ti faccio un favore»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note autrice

Mi scuso per l’attesa, so di essere pessima. Ultimamente sono stata risucchiata da un vortice di avvenimenti che mi hanno portato via molto tempo ed energie (soprattutto l’università) quindi purtroppo  ho avuto poche occasioni di dedicarmi alla storia. Questo capitolo non è andato esattamente come avevo previsto, ma credo di essere abbastanza soddisfatta di come è venuto fuori, soprattutto perché l’evoluzione del personaggio di Lane mi sta particolarmente a cuore quindi ci tengo a fornire una rappresentazione chiara e – per quanto possibile – emozionante dei suoi sentimenti e del suo disturbo.

Per qualsiasi cosa (insulti o dubbi o manifestazioni di gioia) mi trovate su twitter sotto il nick @ loveleesnake

F.

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