Hyena di honeysuckle (/viewuser.php?uid=1064619)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 1 *** I ***
Ore 22:43
Lane si guardò le mani.
Sudavano, sudavano copiosamente.
Tutto il palmo era bagnato, e le punte delle dita erano diventate
fastidiosamente scivolose, tanto che dovette abbandonare la presa sulla
penna,
incapace di tenerla salda. La posò bruscamente sul quaderno,
innervosito, e
sfregò le mani nei jeans per asciugarle.
Sbuffò, sfregandosi piano
le palpebre. Gli occhi bruciavano
da morire anche sotto i suoi stessi polpastrelli, li sentiva tirare e
prudere,
stanchi e secchi, esattamente l’opposto delle sue mani.
Il suo stesso corpo stava iniziando a
tradirlo.
La
concentrazione
l'aveva spudoratamente abbandonato quella mattina e, benché
si sforzasse di
controllare l'emozione, ormai aveva preso coscienza del proprio
fallimento. Da
quando Jay gli aveva promesso di portarlo alla Cava non riusciva a
pensare ad
altro. Cominciò a giocherellare con la penna, senza staccare
gli occhi dal
foglio bianco che aveva davanti. Sentì lo stomaco ripiegarsi
su se stesso tanto
da fargli male e il cuore cominciare a battere veloce nel petto.
Mancava così poco.
Ed era tremendo.
Era tremendo non riuscire a pensare
ad altro, e più ci
pensava più sentiva l'ansia farsi strada nel suo cervello e
martellargli nelle
tempie. Era terrorizzato dalla sua stessa impazienza: non era mai stato
alla
Cava, né aveva mai avuto contatti con scrittori che la
frequentavano. Tuttavia
le storie giravano e inevitabilmente alcuni lavori uscivano da
quell’oscuro
raduno: a scuola era facile trovare diverse cose
degli autori più popolari, ne circolavano costantemente
copie sgualcite e lise
che gli studenti si passavano in classe, in mensa e nel cortile; lui
stesso
aveva contribuito a questa condivisione, distribuendo il materiale che
Jay gli
aveva procurato durante le sue brevi e svogliate visite, dopo averlo
letto
meticolosamente da cima a fondo. Diventare un autore della Cava non era
complicato: non era necessario possedere particolari requisiti,
né conoscere
qualcuno di interno al circolo. Questo lo sapeva, perché era
una cosa che sapevano
tutti. Così come sapeva che in ogni caso nessuno osava
avvicinarsi alla Cava
prima di averci pensato bene, perché l'aria che si respirava
lì dentro era
intrisa di pura e agghiacciante competitività.
Nessun nuovo scrittore era benvisto,
aveva detto Jay.
«Ma tu sei così
bravo, ne varrà la pena» aveva aggiunto poi,
come se questo avesse potuto anche solo lontanamente ridurre la
soggezione che
Lane sentiva nei confronti di quel posto.
Improvvisamente suonò il
campanello. Lane sussultò
lievemente e si asciugò un’altra volta le mani
sulle cosce, senza pensarci. Era
arrivato il momento di alzarsi e uscire dalla bolla di malsano
nervosismo in
cui si era recluso tutto il giorno. Afferrò velocemente una
maglietta bianca
dall'armadio e la infilò, senza badare minimamente a
ciò che faceva, si passò
una mano tra i capelli per dar loro una parvenza di decenza,
scostò per un
secondo la porta dalla parete e prese la giacca. Scese rapidamente le
scale,
infilandola maldestramente, con i gomiti che sbattevano contro il
corrimano.
Lanciò un’occhiata allo specchio appeso alla
parete di fronte, si sistemò
brevemente il colletto e infine aprì la porta.
La prima cosa che Jay fece quando lo
vide fu squadrarlo con
disappunto. Lane gli restituì lo sguardo, soffermandosi sui
suoi capelli
incredibilmente spettinati e sulla sua maglietta, troppo larga per quel
busto
scheletrico.
Poi gettò la sigaretta e
gli chiese dove avesse lasciato il
quaderno e, senza aspettare che rispondesse, gli chiese i soldi per la
benzina.
Lane non disse una parola. Si
cacciò un paio di monete fuori
dalla tasca e gliele mise in mano. Poi si diresse in silenzio verso il
motorino
parcheggiato poco distante, si sedette e si mise il casco.
Jay non era un grande frequentatore
della Cava. Ci andava
perché la sorella era amica di uno che stava sempre
là a fare reading, e lui
doveva accompagnarla ogni volta che voleva, perché gli
pagava la benzina.
Allison prendeva le copie gratuite dei lavori degli scrittori dalla
Cava, le
dava a Jay e lui senza nemmeno guardarle le passava a Lane.
«Non sembri molto uno
scrittore vestito così»
Disse, infilandosi il casco a sua
volta. Lane gli lanciò
un'occhiata spazientita e alzò le spalle. Non voleva perdere
tempo, né dare a
Jay l’opportunità di fargli passare la voglia di
andare.
«C'è Allison
stasera? »
«Per fortuna no»
Lane si passò una mano tra
i capelli e borbottò qualcosa.
«Che hai detto?»
chiese Jay, vagamente irritato.
«Ho detto che senza Allison
non ha senso andare»
«Okay, quindi non
andiamo?»
Calò il silenzio. Jay
accese il fanale del motorino e Lane
si aggrappò alla sua giacca. Le sue mani scivolavano sul
tessuto leggero.
«Hai le mani
sudate» sbuffò Jay, prima di allacciarsi il
casco e fare inversione nella via buia.
*
Arrivarono nel punto in cui iniziava
il corridoio della Cava.
Era un posto fuori mano, squallido e tetro, all'ingresso del bosco. Ad
accoglierli all'entrata c'era un tappeto di siringhe vuote e
opalescenti, che
rilucevano debolmente alla luce della luna. Un terribile odore di fogna
e
spazzatura, mischiato a quello umido del muschio e del fango e delle
foglie
marce, contribuiva a rendere la situazione estremamente scoraggiante.
Jay calpestò le siringhe
senza nemmeno guardarle e gli fece
cenno di seguirlo. Lane lo osservò mentre spariva nel buco
oscuro, incespicando
sulle foglie secche, con una mano bianca contro la fredda pietra nera.
Vide
improvvisamente una fioca luce scintillare nella sua direzione e
sentì una voce
alquanto seccata bisbigliare un «ti sbrighi?».
Sussultò brevemente e si accinse
a seguire l'amico. Posò anche lui la mano sulla pietra: era
umida e fredda.
«Se avessi saputo che non
te ne fregava niente non ti avrei
nemmeno chiesto di venire» disse Jay, tenendo alto il
telefono per cercare di
illuminare più strada possibile.
«Si che me ne
frega» rispose sottovoce Lane. Respirava a
malapena per il senso di claustrofobia che gli procurava il tunnel,
terribilmente stretto, accentuato dal fastidio di non avere nessun
punto di
appiglio durante la discesa.
Poi all'improvviso iniziarono i
gradini. E con essi alcuni
dei primi graffiti. Lane osservò la parete, sorpreso. Il
primo disegno che vide
fu quello di un enorme gufo: era stato realizzato con una vernice
bianca che
luccicava debolmente nel buio del corridoio, così come tutti
gli altri.
«È per questo
che si chiama la Cava del Gufo?» chiese Lane
quasi senza pensare, assorto nella contemplazione del gigantesco
animale. Jay
alzò le spalle.
«So solo che la parete di
sinistra è per i disegni, mentre
questa» disse, battendo piano il palmo sulla parete destra
«è quella delle
firme».
Lane lo fissò, incerto.
Jay gli voltò le spalle e continuò
ad avanzare.
Man mano che procedevano
giù per i gradini cominciarono ad
apparire anche delle scritte, come aveva detto il ragazzo. I nomi di
coloro che
avevano frequentato assiduamente la Cava per anni, che avevano ottenuto
la loro
porzione di gloria all'interno di quella losca bolla sotterranea e
anche fuori,
che avevano speso tutti i loro soldi e il loro tempo per investirli in
qualcosa
che avevano riconosciuto come il proprio futuro.
La vocazione
più
grande, pensò distrattamente, continuando a
scendere lentamente i gradini
senza smettere di guardare la parete delle firme, fremente di
eccitazione. Vide
alcuni nomi che conosceva e sentì uno strano, travolgente
formicolio lungo le
braccia. Sorrise lievemente, senza accorgersene.
«Lane!»
Si riscosse al suono della voce di
Jay che lo chiamava, a
venti metri da lui. Quasi si mise a correre. Man mano che si faceva
più vicino
sentiva delle voci concitate, delle risate, farsi sempre più
chiare.
Qualche secondo dopo si
trovò davanti ad un rettangolo
luminoso, all'interno del quale spiccava la sua sagoma, con la schiena
appoggiata
alla parete.
Jay sorrise debolmente e gli tese la
mano. Automaticamente
portò la mano ai jeans per asciugarla prima di dargliela, e
si sorprese nel
trovarla secca come la sua gola. Deglutì nervosamente.
Nel momento in cui prese la mano di
Jay per arrampicarsi
fuori da quel buco infernale il suo cuore cominciò a battere
all'impazzata.
È
reale, esiste
davvero e io ci sono dentro.
La prima cosa che notò
è che c'era davvero molta gente.
Jay si stava trattenendo
più del previsto vicino all'entrata
per scambiare due parole con persone che lui non aveva mai visto in
vita sua.
Rideva apertamente, stringendo tra le dita una sigaretta. Poi, dopo
averla
agitata per un po’ a mezz’aria, se la
ficcò tra le labbra e la accese con un
solo fluido movimento, facendo scivolare un attimo dopo l'accendino in
tasca.
Si passò piano una mano tra i capelli, tirando una profonda
boccata, e fece
scivolare via il fumo grigio dalle labbra rosse che spiccavano in modo
quasi
innaturale sulla sua pelle pallida.
Vide che stava comprando qualcosa,
gli stavano passando
della roba e lui ringraziava con un gran sorriso, il meraviglioso gran
sorriso
sociale che gli invidiava da una vita.
Poi si girò e se ne
andò verso Lane, che si rese conto di
averlo fissato imbambolato tutto il tempo. Vide la sua sfavillante,
bianchissima, migliore maschera morire molto rapidamente sulle sue
labbra.
«Hai usato i miei soldi
della benzina per comprarti la droga»
disse Lane, infastidito, sfregandosi le mani che stavano ricominciando
a
bagnarsi. Jay gli sorrise, per davvero stavolta, e gli
sfiorò lievemente una
guancia.
«Non ho cenato
oggi» disse, nel tono forzatamente ironico e
leggero che Lane detestava.
Nell'udire quell'informazione il
ragazzo roteò gli occhi e
si scostò, troppo irritato e imbarazzato dalle circostanze
per lasciarsi andare
a simili gesti.
Jay per tutta risposta fece
lampeggiare un sorriso
vittorioso nella sua direzione, e senza lasciargli il tempo di
replicare gli
fece cenno di seguirlo.
Tutto questo
è reale.
Si gettarono in mezzo al popolo della
Cava.
*
La Cava era una vera e propria arena
di pietra nera.
Non esisteva soffitto: il cielo era
l'unica cosa che
sovrastasse le sue altissime pareti, e non riusciva a distinguere il
bordo
della conca, che sembrava fondersi alla perfezione con il buio della
notte.
Alcuni alberi erano riusciti a mettere radici nel terreno irregolare e
chiazzato di verde, troppo selvatico e trascurato per sembrare un vero
prato, e
lì si ergevano, nella loro imperturbabile esistenza, a
metà tra lo spettacolare
e tetro trionfo della natura e – Lane non sapeva
più dove volgere lo sguardo perché
c’era davvero troppo da guardare – la strabiliante
manifestazione di umanità
che sfavillava, letteralmente, davanti ai suoi ingenui occhi di
spettatore.
Non esistevano spazi liberi: dovunque
si voltasse, Lane
vedeva luce e caos.
C'erano stand in legno
dall’aria precaria, tappeti sporchi e
consumati di tutti i colori, panche, tavoli, tende, bancarelle
affollate e
rumorose. In ogni angolo c'erano persone che parlavano, ridevano,
discutevano,
camminavano, correvano, litigavano, urlavano, compravano droga e altri
interessanti gingilli e facevano casino. Niente aveva un senso, niente
aveva un
ordine o un criterio.
Centinaia di vecchie lanterne ad
olio, di quelle che era
convinto non esistessero più, erano sparse ovunque, con le
loro fiamme calde e
tremolanti, e gettavano ombre dorate e luminose su qualsiasi cosa,
facendo
luccicare le foglie degli alberi e i capelli dei ragazzi in maniera
quasi
romantica. Alcune erano state appese ai rami degli alberi, altre
appoggiate
alle superfici dei banconi, in mezzo ai fascicoli e ai fogli stampati
di
fresco, altre ancora erano stette nel pugno di giovani volenterosi, che
sgusciavano come lucciole in mezzo alla folla, tenendole alte come per
proteggerle.
Lane era in estasi. Si accorse di
stare sorridendo
apertamente solo quando Jay gli diede un colpetto sulla spalla,
invitandolo ad
avanzare nella calca.
«Tutto questo è
folle» mormorò tra sé, sovrapponendo
per un
attimo la praticità alla meraviglia
«prenderà fuoco qualcosa»
Inaspettatamente, Jay
scrollò le spalle.
«Non ci sono prese di
corrente qui» disse, alzando le
sopracciglia «non possono fare altrimenti»
Lane gli lanciò
un’occhiata di rimprovero.
«Questo lo so»
disse, riportando lo sguardo sulla
moltitudine brulicante, distinguendo appena i volti gli uni dagli altri
e
aggiunse «spero che almeno abbiano qualche
estintore»
Jay scosse la testa, sorridendo
appena.
«Smettila di pensare a
queste stronzate e goditi l’atmosfera»
gli disse, alzando appena la voce per sovrastare il chiasso
«è il motivo per
cui quelle fottute lanterne sono qui»
Lane lo seguì con lo
sguardo mentre si accingeva ad avanzare
ancora di più nel fiume frenetico di persone, consapevole di
doverlo seguire.
«Jay!»
Si voltarono entrambi. Vide il volto
di Jay accigliarsi
improvvisamente.
Allison avanzava verso di loro,
più sorridente che mai. I
riflessi delle fiamme danzavano animatamente sui suoi ondeggianti
capelli
rossi, abbaglianti come fuoco contro il tessuto bianco del suo vestito
– scelta
strana, pensò Lane, che mai l’aveva vista
abbigliata in quel modo – e i suoi
occhi vagavano da un ragazzo all’altro, brillando sotto
quella luce calda e
gialla. Sembrava la personificazione della gioia.
«Ciao» disse Jay,
atono. Nonostante le lanterne
illuminassero anche il suo volto cereo, i suoi occhi rimasero scuri e
freddi.
«Ciao Allison»
disse Lane a voce bassa, lasciando che lei lo
stringesse in un breve abbraccio.
«Jay mi ha detto che ti
avrebbe portato ma non avevo idea
che sareste venuti oggi» esclamò, evidentemente
deliziata dalla presenza del
ragazzo.
«Io invece non avevo idea
che oggi ci saresti stata tu»
ribatté Jay.
Allison lanciò
un’occhiataccia al suo gemello, poi rivolse a
Lane uno dei suoi sorrisi delicati e lo afferrò
frettolosamente per il polso,
cominciando a farsi largo tra le persone.
Non provò nemmeno a
divincolarsi. Lanciò un’occhiata
terrorizzata all’amico, lasciandosi trascinare attraverso le
zolle di terra
asciutta ed erbosa e i tappeti rovinati.
«Guarda che non ti posso
riportare a casa stanotte» urlò
Jay, che era rimasto qualche passo indietro rispetto a loro.
«Non fa niente»
gridò la sorella di rimando, e poi aggiunse,
abbassando il tono e rallentando il passo «almeno ti sei
deciso a portarlo qui»
«In realtà era
lui che non voleva venirci» rispose il
ragazzo, palesemente sulla difensiva, raggiungendoli in pochi passi.
Lane era troppo impegnato a sentirsi
a disagio per prestare
attenzione alla discussione fra i due fratelli. Voleva andare ovunque e
da
nessuna parte. Una parte di lui era incredibilmente eccitata anche solo
all'idea di avere i piedi poggiati sul suolo della Cava,
l’altra invece stava
letteralmente impazzendo per la presenza di così tanta
gente, che lo urtava e
lo spintonava e lo guardava come se fosse totalmente fuori posto
lì, tra loro,
anime elevate e atipiche. Gli tornarono in mente le parole che Jay gli
aveva
rivolto fuori da casa sua.
«Io sono di là
con alcuni amici di scuola, se volete venire
a fare due chiacchiere prima che cominci il reading»
Allison indicò un punto
assolutamente indefinibile
dell'arena e si allontanò in quella direzione, lasciandoli
di nuovo soli.
«Mi spieghi
perché non hai portato il tuo quaderno?»
borbottò
Jay, accendendosi un'altra sigaretta, dando a malapena segno di
accorgersi
della frenesia intorno a sé.
«Perché non mi
andava»
«Sei un cretino»
Il ragazzo scrollò le
spalle, liquidando l’insulto con
apparente leggerezza.
«Non porterò mai
niente qui, e tu lo sai»
Vide il suo volto accigliarsi
impercettibilmente, per poi
ritornare immediatamente al suo stato originario di noia e apparente
apatia.
«Vedremo»
borbottò solamente, affondando le mani nelle
tasche. Lane non rispose.
Va bene
così.
*
Lane era seduto per terra su un
logoro tappeto marrone
insieme ad Allison e ad altre quattro persone che non aveva mai visto
in tutta
la sua vita, proprio nel mezzo della Cava, mentre davvero un sacco di
gambe
camminavano noncuranti intorno a loro. Jay li aveva mollato per andare
a farsi
una canna da qualche parte in santa pace.
Supponeva che anche questi
sconosciuti fossero più o meno
della stessa età dei gemelli. Non avrebbe mai immaginato che
l'amico di Allison
che leggeva pubblicamente le sue poesie sul corpo femminile potesse
avere
ventitré anni.
«Lo so, per te è
strano» disse il ragazzo, il primo
scrittore della Cava che Lane avesse avuto il piacere – si fa
per dire - di
conoscere di persona «da come se ne parla in giro, la Cava
sembra un posto per
ragazzini, o comunque per persone che vanno ancora a scuola. Ma
c'è qualcosa in
questo ambiente che ti trattiene, mi capisci? Una volta che ci sei
dentro, è
per sempre»
Questo qua
è
completamente andato, pensò Lane, annuendo alle
sue parole per far vedere
che aveva capito. Nessuna delle storie che aveva sentito sulla Cava si
poteva
considerare positiva. Tutti dicevano che aveva il suo fascino e che
avere
successo là significava avere successo anche fuori, nella
vita vera, come
scrittori veri, ma ottenere un posto di rilievo, reale, concreto e
intoccabile
lì dentro richiedeva uno sforzo immane.
Fortunati
eletti,
pensò di nuovo, cercando di ignorare il suo stomaco che si
contorceva
dolorosamente.
«Io so di persone che non
hanno concluso niente qua dentro»
disse Allison, bevendo un sorso dal suo bicchiere di birra, facendo
scattare le
sopracciglia in alto in modo eloquente «se Lane deve unirsi
al giro tanto vale
che sappia tutto»
Il suo amico si girò a
guardarlo con interesse.
«Non avevo idea che
scrivessi anche tu» disse, e Lane vide
il suo sguardo mutare, farsi glaciale e allo stesso tempo
più vivace.
«Si, a volte»
rispose semplicemente. Non si stava affatto
divertendo. Fece scorrere rapidamente lo sguardo sulla massa in
movimento
intorno a sé, sperando di individuare la figura familiare di
Jay in qualche
angolo remoto.
«Poesia o prosa?»
«Prosa»
«Ah»
sospirò in tono annoiato «allora non è
il mio campo, mi
dispiace»
Poi si voltò verso
Allison, guardandola con gli occhi
carichi di consapevolezza, nei quali brillava una minuscola luce di
volgarissimo biasimo.
«Comunque, gli inetti non
ce la fanno mai» dichiarò,
rispondendo evidentemente alla sua affermazione di poco prima.
Lane rimase muto come una tomba. Si
sentiva terribilmente a
disagio, aveva bisogno di allontanarsi da quel gruppetto male assortito
e di
andare a fare un giro rilassato tra gli stand, cercare qualcosa che
davvero lo
colpisse e portarselo a casa. D'altronde era lì
principalmente per questo
motivo. Ma non poteva scivolare via con una scusa e sputare in quel
modo
sull’aiuto di Allison, assolutamente no.
Aveva bisogno che Jay tornasse
subito. Asciugò i palmi sul
tappeto senza farsi vedere.
«Quanti anni hai,
Lane?»
Gli chiese sempre lo stesso ragazzo,
che nel frattempo aveva
mandato giù qualcosa con la birra di Allison.
«Diciassette»
rispose automaticamente.
Il tizio senza nome alzò
le sopracciglia, ma prima che
potesse dire qualsiasi cosa Lane sentì la voce di Jay
chiamarlo in lontananza.
Grazie a dio,
pensò confusamente, sentendo il sollievo espandersi caldo e
rassicurante nel
suo petto.
Si alzò rapidamente,
mormorò un «grazie a tutti per il
vostro tempo» e, lanciando ad Allison un timido sguardo
carico di sincera
riconoscenza, corse via.
Non appena raggiunse Jay si accorse
che non era solo. Stava
parlando con una ragazza.
«Lane» disse,
passando un braccio intorno alle sue spalle «lei
è Sam, frequentavamo Chimica insieme. Sam è una
che conosce bene questo posto,
non come quel coglione là» indicò con
la testa l'amico di sua sorella, con
un’espressione di totale disgusto dipinta sul volto.
Sam ridacchiò e Lane
sorrise piano.
Notò che era davvero
graziosa. Lei gli porse la mano e lui
la prese, approfittando di quell’attimo per osservare
rapidamente il suo viso.
I suoi occhi grandi e scuri lo
fissarono con gentile
curiosità. Aveva le ciglia pulite e straordinariamente
lunghe, e ne era
assolutamente consapevole, ci avrebbe scommesso, visto il modo in cui
le
sbatteva quando si accorgeva che Jay la stava guardando.
La sua pelle era di un colore
straordinario. Catturava la
luce e riluceva, dorata e ipnotica, come se fosse fatta di
chissà quale
materiale prezioso, e il suo sorriso vi spiccava, inverosimilmente
candido,
perennemente stiracchiato sulle labbra carnose.
Lanciò
un’occhiata di sottecchi a Jay. Sembrava
completamente assorbito dalla sua ennesima sigaretta.
La ragazza si ravviò un
ricciolo scuro dietro l’orecchio e
cominciò a parlare come se venti secondi di conoscenza
fossero stati
sufficienti a metterla a proprio agio.
«Allora, te lo spiego in
breve. La Cava è come un'arena da
combattimento. In questo posto, come puoi vedere, ci vengono davvero
tante
persone. Ogni giorno. Alcuni sono interessati solamente a fumare, bere,
ascoltare qualche stronzo che legge le sue poesie e a procurarsi
qualche copia
gratuita di un lavoro decente. Ma il vero pericolo della Cava sono gli
altri
scrittori. Mi è parso di capire che tu scrivi racconti, no?
Ecco, se sei
interessato a ritagliarti il tuo posto qui devi iniziare a capire
già da adesso
che non hai nessun nascondiglio e nessuna protezione. Nella Cava non ci
sono
regole. Non è una libreria abusiva né un teatro.
La Cava è un trampolino di
lancio, un ambiente letterario che può essere sia molto
piacevole che molto
spiacevole. Qua nessuno ti da soldi per niente, se vuoi qualcosa devi
mettere
tutto di tasca tua. La cosa bella della Cava è proprio
questa: coloro che sono
più motivati a spendere soldi per mettere in circolazione
copie dei loro lavori
sono i più bravi e vengono sempre apprezzati. Gli sfigati
che non sono capaci
di scrivere due parole di fila non durano niente qui, per questo ti
consiglio
di pensarci bene prima di lanciarti in una cosa simile. Poi devi sapere
che gli
stand sono per gli scrittori che lavorano in gruppo, quindi non
metterti mai
contro di loro, sono praticamente un branco di bestie selvagge. I
tappeti sono
i posti peggiori perché rischi sempre di essere calpestato e
non riesci nemmeno
a sentire la tua stessa voce. I posti migliori in assoluto sono i
gazebo»
Indicò una fila di gazebo
colorati, allineati sul lato
dell'arena opposto al loro.
«Io di solito sto in quello
viola»
Lane, che era rimasto ad ascoltare
affascinato le parole
della ragazza, annuì automaticamente e le chiese d'impulso:
«Tu scrivi?»
Jay spostò lo sguardo da
lui a lei. Lei rise e si grattò la
nuca, spostando i capelli sulla spalla.
«Ti pare che starei qui a
dare consigli alla concorrenza se
fossi stata una scrittrice con un gazebo?»
«Scusami, ho parlato senza
pensare» borbottò Lane, mentre
Jay soffiava fra i denti una breve risata canzonatoria.
«Non ti preoccupare. La
scrittrice nel gazebo viola è una
mia amica. A volte mi invita a fumare con lei. Se hai già
letto qualcosa che
proviene da qui allora forse ti è capitato per le mani
qualcosa di suo. Si
chiama Zoey, ma probabilmente la conosci come...»
«Hyena»
«Esatto»
Lane non riusciva a muovere un
muscolo. Se ne stava lì, con
gli occhi spalancati, a fissare Sam, mentre lei gli sorrideva con aria
comprensiva e Jay lo guardava storto.
Era sicuro di sembrare un idiota. La
portata della notizia
l’aveva sopraffatto, il cuore aveva iniziato a sbatacchiargli
nel petto come un
uccello in gabbia e non riusciva – santo Dio, proprio non ci
riusciva - a
contenere la sua incredulità. Quella sensazione vibrante di
entusiasmo, di
emozione allo stato puro stava rapidamente prendendo il controllo del
suo
cervello, rendendolo consapevole del fatto che ciò che non
aveva nemmeno osato
sperare fino a un minuto prima stava per accadere davanti ai suoi
occhi,
proprio a lui.
«Tu mi stai
dicendo» disse infine, passandosi una mano tra i
capelli, senza sforzarsi di trattenere la sua goffa, estatica
ammirazione «che
conosci la scrittrice migliore di tutta la Cava?»
«Si, diciamo di
si» rispose la ragazza, sorridendo
lievemente alla vista della sua reazione.
Guardò Jay. A malapena si
accorse di stare trattenendo il
respiro.
«Vuoi conoscerla? Ti ci
porto subito se vuoi» aggiunse,
cercando di riconquistare l’attenzione di Jay con le sue
maestose ciglia.
Vide l’amico roteare gli
occhi, ma sapeva benissimo che
anche lui era curioso di vedere la Hyena di cui parlavano tutti a
scuola.
«È bella come
nelle foto?» chiese Jay, scettico.
Sam scrollò le spalle, ma
annuì.
«Come se il suo aspetto
cambiasse qualcosa» borbottò Lane,
mentre una mano invisibile gli stringeva convulsamente lo stomaco. Si
sentiva
un grandissimo idiota per aver reagito in quel modo incontrollato
davanti ad
una sua amica. Sentiva di stare sguazzando in una pozza di appiccicosa
e
ingenua curiosità, affondandovi inesorabilmente, ma non
poteva fermarlo, non
poteva fermarsi.
«Andiamo a conoscere
l’élite di questo posto, allora» disse
Jay, lanciando una breve occhiata eloquente a Lane «speriamo
che non ci mangino»
Dalla bocca di Sam uscì un
grazioso sbuffo divertito.
«Non sono affatto come ve
li immaginate» disse, e un ultimo
bianchissimo sorriso lampeggiò nella direzione di Jay. Poi
la ragazza si voltò
e cominciò a camminare in direzione dei gazebo.
La seguirono con lo sguardo per
qualche istante.
«Ti sei accorto che stava
cercando di sedurti tutto il
tempo, vero? » borbottò Lane, cercando di non
farsi sentire dalla diretta
interessata.
Jay alzò le spalle.
«Andiamo, o rischiamo di
perderci» disse semplicemente,
afferrandogli il polso e tirandoselo dietro, prima di tuffarsi di nuovo
in
quella rumorosa mandria di anime.
Note autrice
Mi scuso per eventuali errori di
battitura, è il primo
progetto serio in cui mi cimento ed è molto importante per
me, quindi ogni tipo
di recensione (soprattutto critiche costruttive) è ben
accetta anzi, vi prego,
criticate tutto ciò che potete. Ci tengo a fare un buon
lavoro e a migliorare
come autrice, se qualsiasi dettaglio della storia risulta confuso o
scritto
male – sotto qualsiasi punto di vista – segnalatelo
senza problemi. In ogni
caso, spero che questo capitolo vi piaccia e che vi invogli a seguire
la storia.
A presto, F.
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Capitolo 2 *** II ***
Ore 23.59
L’aria era irrespirabile.
Sentiva la gola bruciare. Un fuoco
mostruoso, secco e
devastante gli stava mangiando la carne dall’interno,
raschiandola con le sue
unghie laceranti e incorporee. Deglutì un paio di volte,
cercando di scacciare
la dolorosa sensazione di ruvidità, ma non aveva
più saliva. Sentì un disperato
bisogno di tossire crescere dentro la sua gabbia toracica ma non
poteva, oh no, non poteva
assolutamente. Non lì.
In qualsiasi altro posto si, ma lì no.
Nemmeno morto.
Faceva una fatica tremenda a
respirare.
Non aveva più alcuna
difesa. Sentiva le vie respiratorie
asciutte quanto la gola. Si sforzò di inspirare ed espirare
rapidamente,
cercando, con la disperazione che gli stringeva il petto, di impedire
al fumo
di penetrare all’interno dei polmoni e soffocarlo.
Gli girava la testa.
L’ambiente era
insopportabilmente buio, gli occhi gli prudevano
con una ferocia tremenda. Tutto quel fumo secco, denso e appiccicoso
gli dava la
nausea. Era tutto troppo stretto, troppo chiuso, orribilmente
opprimente.
Sentì la paura di svenire
farsi strada nella sua mente.
Mio dio no,
non
adesso.
Non riusciva a vedere la schiena di
Jay. Da quella nebbia
spettrale sbucava solamente la sua mano, i cui contorni risaltavano
incredibilmente nitidi contro il bianco nauseante che li circondava,
che
stringeva debolmente l’indice e il medio della sua mano
sinistra. Stava
cercando di concentrare tutta la sua attenzione su quel lieve contatto,
tenendo
lo sguardo fisso sulle sue dita, cercando con tutta la buona
volontà rimastagli
di non farle scivolare via.
Non era nemmeno sicuro di dove
stessero andando, né
tantomeno gli importava. Voleva uscire da lì più
di ogni altra cosa al mondo.
Si faceva trascinare passivamente, la testa annebbiata dalla mancanza
di ossigeno.
Stava trattenendo il respiro, non se n’era nemmeno accorto.
Interruppe
bruscamente l’apnea e prese una lunga boccata
d’aria. Il fumo arido e
disgustoso si espanse dolorosamente all’interno dei suoi
polmoni. Sentì gli
occhi inumidirsi nello sforzo di trattenere la tosse. Si
passò una mano fra i
capelli, tirandoli lievemente, cercando di mantenere la calma.
Vedeva le sagome nebulose delle altre
persone, nere contro
il candore dell’aria, che gli passavano accanto rapidamente.
Procedevano molto
più veloci di lui. E sentiva le loro voci, che parlavano e
ridevano tutte
insieme, rimbombare pesantemente nelle sue orecchie. Percepì
un dolore acuto
bucargli le tempie come uno spillo e diramarsi in tutto il cranio come
una
scossa.
Una ragazza sbatté
inavvertitamente contro la sua spalla,
costringendolo a fermarsi per un secondo. Il suo cuore
accelerò improvvisamente
la sua corsa nel momento in cui si rese conto di aver perso la mano di
Jay. Le
sue dita scivolose, rese ancora più deboli dalla confusione
crescente e inesorabile,
avevano lasciato la presa senza il suo consenso.
Il panico lo assalì
rapidamente, morboso e schiacciante,
diffondendosi nel suo petto come una nube tossica e mozzandogli il
respiro. Lo
stomaco si contrasse violentemente, provocandogli una nausea terribile.
Incrociò le braccia sopra la pancia, cercando di schermirsi
il più possibile dalle
figure intorno a sé, e provò a fare un passo in
avanti. Fu rispedito indietro
da una spallata. Qualcuno gli pestò un piede.
Voltò la testa a destra e a
sinistra, senza pensarci, cercando qualcosa – qualcuno di
familiare, mentre la
sensazione di terrore serpeggiava, sottile e paralizzante, intorno al
suo cuore
impazzito.
Dio santo
calmati non
è successo niente non è niente smettila ce la
puoi fare.
Sentiva i corpi delle altre persone
orrendamente vicini.
Sentiva il calore sporco e fastidioso che emanavano, sentiva braccia e
fianchi
e pance strofinarsi contro di lui e, Gesù
santissimo, stava per morire soffocato, lo sapeva, ne era
sicuro, l’apnea
era l’unica cosa a cui si stava aggrappando, a cui poteva
ancora aggrapparsi.
Non poteva respirare, non ci
riusciva. L’odore della massa
brulicante si mischiava a quello stagnante e pungente delle sigarette e
dei
bong. Decine di bocche stavano sputando nell’aria fiotti di
fumo ripugnante e
impalpabile, che arrivava al soffitto e tornava indietro, come una
bestia
confusa, espandendosi nei gazebo senza alcuna possibilità di
fuga.
I suoi occhi pizzicavano, tentando
inutilmente di salvare i
suoi condotti lacrimali dalla disidratazione totale. La sua gola era
così
stretta che non riusciva più a deglutire, e la teneva
serrata nel tentativo di
trattenere la tosse che minacciava di uscire da un momento
all’altro.
All’improvviso, in maniera
talmente inaspettata che a
malapena riuscì a realizzarlo, la faccia di Jay
bucò la superficie di quella
nauseante foschia , bianca come il gesso, decisamente infastidita. I
suoi
capelli rossi vi spiccavano in modo quasi violento. Per un unico,
crudele
momento credette di esserselo immaginato. Ma poi la faccia
parlò e lui sentì un
immediato sollievo diffondersi piacevolmente nel petto, come aria
fresca,
prendendo il posto del panico.
«Muoviti» disse
solamente, a voce più alta del normale,
cercando di sovrastare il rumore, prima che Lane potesse aprire bocca.
Gli
prese la mano con aria impaziente e si voltò, accingendosi a
procedere.
Ma gli scivolò via, e
ricadde debolmente contro il fianco di
Lane, che solo in quel momento si rese conto quanto fossero gelide le
sue mani.
Chiuse il pugno automaticamente, infastidito.
Jay lo guardò in silenzio
per un attimo. Poi gli afferrò più
saldamente il braccio, e riprese a trascinarlo dietro di sé
come se nulla fosse.
Man mano che procedevano gli occhi di
Lane, sempre meno
asciutti, riuscivano a distinguere più chiaramente
l’ambiente in cui stavano
camminando con così tanta fretta.
Non vedeva più quel
tappeto di persone così fitto che a
malapena si distinguevano l’una dall’altra.
Si rese conto di essere
all’interno del corridoio
dell’ultimo gazebo nel momento in cui urtò per
sbaglio una delle pesanti tende
che li separavano l’uno dall’altro. Aveva tenuto
per tutto il tempo la testa
bassa per evitare di inciampare nelle buche del terreno e di incrociare
gli
sguardi degli altri.
Si era limitato a provare a non
perdere Jay, che a sua volta
seguiva Sam, che sgusciava via tra la folla come uno scoiattolo.
Il gazebo erano stati messi
l’uno di seguito all’altro per
formare una sequenza continua, un’area riservata e discreta.
Tuttavia ogni
gazebo costituiva una stanza a sé, separato dagli altri da
una parete di spesse
tende logore. Era la cosa più vicina ad un edificio che ci
fosse nella Cava.
Ogni gazebo
è
assegnato ad uno scrittore diverso.
«Siamo quasi
arrivati» sentì dire a Jay, e la presa intorno
al suo polso si fece leggermente più stretta.
Inciampò un paio di volte
nelle pieghe dei tappeti che
ricoprivano alla bell’e meglio quel che c’era da
coprire, senza distinzioni tra
sassi o fossi, mentre Jay continuava a trascinarlo, imperterrito, come
se non
si accorgesse di nulla. Aveva ripreso a fare piccoli respiri veloci, ma
gli
sembrava di inalare cenere ardente.
Improvvisamente si fermarono. Lane
vide a malapena una tenda
scostarsi bruscamente a un metro da lui. Un rettangolo di piacevole
luce dorata
si spalancò davanti a loro, e un secondo dopo
cominciò a sentirsi decisamente
meglio.
Batté le palpebre un paio
di volte. Provò un sollievo molto
simile alla gratitudine nel sentire che gli occhi si stavano idratando
di
nuovo: aveva una sincera paura che le lenti gli rimanessero incollate
agli
iridi. La penombra e tutto quel bianco opprimente avevano alterato le
sue percezioni,
e la luce improvvisa, così calda e gialla, gli aveva
procurato una fitta acuta
alla testa.
Inspirò a fondo,
sinceramente contento di avere tutta quella
benedetta aria pulita intorno a sé. Lo stimolo
incontrollabile di tossire era
scomparso, così come la costante e paralizzante sensazione
di oppressione.
Jay lo aveva lasciato. Si stava
accendendo una sigaretta.
Istintivamente si allontanò di un passo da lui.
Credeva che la schiera dei gazebo
fosse finita, e invece no.
Ad un paio di metri da quel corridoio infernale, illuminata da una
quantità
notevole di lanterne e tremolanti candele di cera bianca, si ergeva una
struttura di ferro di modeste dimensioni, ricoperta – letteralmente ricoperta, pensò
Lane – da un considerevole numero di
tendaggi color melanzana. Tuttavia l’intero insieme era
assolutamente
differente da ciò che si erano lasciati alle spalle solo
qualche secondo prima.
La prima cosa che saltava agli occhi, infatti, era la totale scissione
che
esisteva tra quel gazebo e gli
altri
gazebo: erano come due mondi separati, completamente dissociati
l’uno
dall’altro.
Lane si concesse qualche altro
secondo per osservarlo.
Le tende e i drappi erano sottili,
leggeri e svolazzanti,
sistemati intorno ai senza un ordine o uno scopo preciso al di fuori di
quello
decorativo.
Non esistevano pareti. Poteva udire
distintamente un animato
chiacchiericcio provenire dall’interno, tuttavia quasi
musicale, attutito e
piacevole. Il pavimento era ricoperto da uno spesso tappeto verde, di
estensione maggiore rispetto al gazebo, di un colore più
scuro rispetto a
quello delle fragili piantine che crescevano sul suolo della Cava, e vi
si
distinguevano chiaramente gli schizzi di cera pallida lasciati dalle
candele.
Fece a malapena in tempo a notare i
contorni sfumati delle
sagome delle persone che si muovevano debolmente dietro il tessuto
semitrasparente, quando sentì una mano posarsi sulla sua
spalla e stringerla
piano.
«Cosa
c’è? Non vai? »
Gli arrivò subito alle
narici l’odore sgradevole della
sigaretta. Il naso gli bruciò
di nuovo.
Girò la testa dall’altra parte.
«No» rispose,
irritato «aspetto Sam».
Sentì le sue dita, tiepide
e lisce, scivolare delicatamente
sul mento, costringendolo con una leggera pressione a voltare il viso
verso di lui.
Non oppose resistenza e chiuse gli occhi, perché non lo
toccava mai in quel
modo.
La mano di Jay scese lungo il suo
collo, sfiorandolo
lievemente. L’odore era perfino più forte ora, ma
non gli importava. Sapeva che
lo stava guardando, le punte delle sue dita continuavano a muoversi
lentamente,
ritmicamente, su e giù lungo la sua pelle. Sentì
la tensione scivolare via
piano dal suo corpo.
«Te la sei cavata
bene» sussurrò. Era più vicino di
quanto
non credesse.
Lane sbuffò piano e
aprì gli occhi. Guardò per un secondo i
suoi iridi castani, scintillanti alla luce delle deboli fiammelle,
prima di
voltare di nuovo la testa per osservare la bizzarra struttura nella sua
interezza.
«Non tanto»
sbuffò, chiudendo il pugno. Strinse le dita
contro il palmo, per tentare di riscaldare almeno un po’ le
mani, ancora umide
per l’ansia di poco prima.
«Meglio del
solito» ribatté Jay, abbandonando
improvvisamente il contatto. Il suo sguardò
guizzò su qualcosa alle spalle di
Lane.
«Sbrigati» gli disse
semplicemente, prima di iniziare a camminare verso l’entrata,
dalla quale Sam
li stava vigorosamente invitando a raggiungerla.
*
Entrò subito dopo Jay, con
lo sguardo fisso per terra. Aveva
esaminato con eccessiva e insistente concentrazione il tappeto sin dal
primo istante,
e aveva continuato a contare le numerose e irregolari macchie scure che
si
allargavano sul tessuto verde finché non aveva rischiato di
andare a sbattere
contro la schiena di Jay, che si era fermato improvvisamente al centro
del
gazebo.
Lanciò una rapida occhiata
oltre la sua spalla.
Vide due persone, due ragazze, nella
porzione di spazio che
l’angolazione nella quale si trovava gli permetteva di
vedere. Una stava seduta
su una poltrona di vimini marrone, con le gambe raccolte sotto il mento
e i piedi
poggiati sul cuscino consunto: in
una
mano teneva una sigaretta ancora spenta, nell’altra il
cellulare, e aveva
un’aria così assorta che nemmeno alzò
lo sguardo per guardare Sam, che nel
frattempo aveva cominciato il giro di saluti. L’altra era
seduta in modo
scomposto su un divano viola scuro dall’aria lurida e
terribilmente vecchia,
con le gambe distese davanti a sé e un gran sorriso stampato
in faccia. Un
secondo dopo Sam comparve da dietro il collo di Jay e si
chinò per darle un
bacio.
Nessuna delle due era lei.
Le mani, che fino a quel momento gli
avevano concesso una
confortevole tregua, diventarono improvvisamente fredde. Prese a
strofinarle
piano fra loro, nel pallido tentativo di riattivare la circolazione,
mentre il
suo stomaco si ripiegava fastidiosamente su se stesso.
L’imminenza era
insopportabile. La tensione era
insopportabile.
Ma l’attesa, quella lo
stava mangiando vivo.
Si passò una mano fra i
capelli, prese un bel respiro e fece
un piccolo passo di lato.
Nella porzione di gazebo che gli era
rimasta nascosta fino a
quel momento Lane vide un’altra poltrona, identica alla
prima, sulla quale era
seduto un ragazzo, e il lato sinistro del divano, occupato da una
ragazza.
E il suo cuore impazzì
definitivamente, perché era lei.
A qualche metro da lui, seduta con le
gambe distese sui
cuscini e la schiena appoggiata al bracciolo, con lo sguardo puntato su
Sam,
che le stava dicendo qualcosa a cui lui non prestò la minima
attenzione, e una
sigaretta sospesa a pochi centimetri dalle labbra rosse, sulle quali
aleggiava
un sorriso appena accennato, c’era lei.
Notò subito che era bassa.
Le sue gambe non arrivavano a
toccare e cosce dell’altra ragazza e le sue braccia pallide,
che sbucavano
dalle maniche troppo larghe della maglietta, erano spaventosamente
magre.
Percepì
un’ondata di doloroso calore avvolgergli la pancia,
soffocando senza pietà l’ultima briciola di
lucidità che ancora gli rimaneva.
Tornò rapidamente a nascondersi dietro la schiena di Jay,
con la gola che
pulsava per l’agitazione. Continuò a sfregarsi
nervosamente le mani una contro
l’altra, senza successo.
Improvvisamente Jay fece un passo in
avanti, tendendole la
mano in un gesto di disinvolta cordialità, e Lane rimase
completamente
scoperto.
Trattenne il respiro, cercando di
stroncare sul nascere il
lampo di confuso terrore che era sicuro fosse ben visibile nei suoi
occhi.
Vide distintamente lo sguardo del
ragazzo alla sua sinistra
posarsi su di lui e squadrarlo apertamente. Istintivamente
inchiodò lo sguardo sulla
nuca di Jay, sfregò impercettibilmente le mani sui pantaloni
e attese che quel
momento terribile scivolasse via, per lasciare il posto a
ciò che fino ad un
paio d’ore prima non aveva nemmeno osato ritenere possibile.
Ma non era più tanto
sicuro di potercela fare.
Jay si spostò, scivolando
rapidamente verso la ragazza che
sedeva dall’altra parte del divano, e fece scoppiare la bolla
di angoscia e indugio
nella quale Lane aveva tentato di rannicchiarsi fino a quel momento.
Avanzò di un passo verso
di lei.
I suoi enormi occhi azzurri
rilucevano debolmente nella
penombra, illuminati solo dalle fiamme tremolanti delle candele, e lo
stavano
fissando in maniera così intensa che dovette fare uno sforzo
immenso per non
cedere all’imbarazzo e distogliere immediatamente lo sguardo.
Sentiva la faccia bruciare.
Pensò, molto banalmente,
che fosse davvero come nelle foto.
Anzi, sembrava che le foto non
bastassero, non bastassero
affatto a contenere tutto ciò che lei
era.
C’era troppo, davvero troppo
su cui soffermarsi e lui non aveva nemmeno la forza di osservarla
apertamente
per tre maledetti secondi.
Non poteva credere a ciò
che gli stava davanti agli occhi.
Non riusciva a concepire, nella sua mente da creatura ansiosamente
ordinaria, il
fatto di non aver preso in considerazione la valanga di cose
che gli stava piombando addosso in quel momento,
sommergendolo, soffocandolo, riempiendolo con una violenza spaventosa.
Non aveva più spazio, non
c’era più spazio per i pensieri,
non c’era più spazio per un cazzo, era stato tutto
risucchiato, cancellato,
brutalmente sostituito.
Esisteva un prima ed esisteva un
dopo. Esisteva un modo in
cui aveva inteso la vita prima, e il modo in cui, in quel momento,
nella sua
maldestra postura, davanti a quel divano poeticamente rovinato,
sorpreso,
confuso, disperatamente impacciato, aveva capito cosa la vita voleva da
lui.
O almeno, ciò che non
riusciva proprio a pensare di smettere
di fare, era lasciarsi ingoiare dallo stato di entusiastica, turbolenta
estasi nella
quale era cascato, come un sasso nell’acqua, totalmente e
incondizionatamente.
Notò che portava la
frangia, che ruotava graziosamente il
collo in piccoli gesti nervosi in modo tale da abbracciare con lo
sguardo tutto
il cerchio di persone, e che sopra di lei, proprio sopra la sua
incredibile,
bellissima testa, stava un bel riflettore.
Un riflettore che illuminava la sua
figura come se lei fosse
stata il sole e tutti gli altri, immersi in una cupa e densa ombra,
stelle
morte da milioni di anni.
I dettagli che coglieva erano come
tanti pezzi di un unico,
perfetto puzzle.
Le sue labbra, rese lucide e scure
dal rossetto, si
schiusero in un sorriso abbagliante. Ruotò il busto verso di
lui, incrociò le
gambe, spostò la sigaretta dalla mano destra alla sinistra e
infine gliela
tese.
«Ciao, sono Zoey,
piacere» disse solamente.
Lane la strinse lievemente.
Mormorò un rauco e
brevissimo “Lane” e ritirò
frettolosamente la mano, ma i suoi occhi indugiarono su di lei ancora
per
qualche secondo. La osservò mentre aspirava una lunga
boccata dalla sigaretta:
l’ombra del sorriso di poco prima le aleggiava ancora sul
viso, e non scomparve
nemmeno quando soffiò via una sottile linea di fumo in
direzione del suo petto.
Fu in quel momento che lo sguardo
sfuggì al suo controllo e
saettò via, per posarsi sulla figura di Jay, che lo fissava
con le mani
affondate nelle tasche, impassibile. Era in piedi affianco a Sam, che
stava
chiacchierando animatamente con le sue amiche, seduta sul bracciolo
della
poltrona di vimini.
Distolse lo sguardo e lo
puntò a terra, avviandosi a testa
bassa verso di lui. Quando lo raggiunse fece per superarlo, ma il
ragazzo si
spostò all’ultimo e lo urtò lievemente
con la spalla, costringendolo a
fermarsi.
«Ti sei accorto»
sussurrò in maniera quasi impercettibile,
scimmiottando le parole che lui stesso gli aveva rivolto poco prima
«che non ha
smesso un secondo di fissarti, vero?»
Lane percepì distintamente
il suo cuore fare un salto nel
petto e tremare dentro la gabbia toracica, tuttavia alzò le
spalle e si passò
una mano fra i capelli.
«Non significa
niente» mormorò in risposta, lanciando una
breve occhiata alla sua sinistra. Lei aveva le gambe strette contro il
corpo e
stava ascoltando con enorme interesse ciò che stava dicendo
Sam, con gli occhi
azzurri spalancati e le labbra distese in un sorriso distratto, appena
accennato. I capelli liscissimi ondeggiavano lievemente ad ogni suo
movimento.
Era ipnotica.
All’improvviso si
chinò lievemente, allungando il braccio
per prendere il posacenere, e il suo sguardo cadde su di lui. Lane fece
in
tempo a vedere i suoi occhi spostarsi dalla figura di Sam e inchiodarsi
nei
suoi, solo per un secondo, prima di interrompere bruscamente quel
contatto,
esattamente come aveva fatto qualche minuto prima, per fissare
nuovamente il
viso dell’amico, sul quale era stampato un mezzo sorriso
canzonatorio.
«Si
infatti» disse
Jay a bassa voce, alzando le sopracciglia «probabilmente si
è accorta di quanto
tu sia strano e socialmente incapace».
Lane alzò gli occhi al
cielo e fece per ribattere, quando
all’improvviso una voce chiara vibrò
nell’aria, sovrastando tutte le altre.
«Ragazzi, qualcuno
può portare delle sedie per Sam e gli
altri?»
Era stata lei a parlare, ovviamente.
Nessuno stava badando a
loro, nemmeno Sam, che per la sorpresa si era alzata di scatto dal suo
posto
scomodo e improvvisato.
«Ci penso io»
rispose il ragazzo che sedeva nell’altra
poltrona di vimini. Lane lo guardò alzarsi e scomparire
rapidamente dietro le
tende leggere, che oscillavano debolmente, mosse dal vento. Portava una
disordinata coda di cavallo e la barba lunga, ma era vestito in maniera
tutt’altro che trasandata, come se quello non fosse il suo
ambiente abituale e
avesse necessità di fare una buona impressione.
Tornò qualche secondo dopo
con un pesante tappeto arrotolato
sulle spalle.
«C’era solo
questo» disse, poggiando il suo carico a terra.
Poi guardò per un secondo Lane, alzando le sopracciglia con
aria irritata, e
cominciò a srotolare in silenzio il misero sostituto delle
sedie.
«Grazie Darren»
disse lei, sorridendo nella sua direzione.
Poi fece loro cenno di accomodarsi.
Jay, che era rimasto immobile per
tutto il tempo con le
braccia magre incrociate sul petto, fu il primo a muoversi. Rivolse un
gran
sorriso a Darren, uno dei suoi soliti sorrisi, si lasciò
cadere sul tappeto e
distese le gambe. Poi tirò fuori dalla tasca la carta
argentata, le cartine e
tutto il resto.
Lane voleva morire. Non aveva nessuna
intenzione di stare
seduto là, di fronte a lei, mentre Jay stava facendo di
tutto per attirare
l’attenzione. Infatti, nel momento stesso in cui il suo
minuscolo pacchetto
aveva mandato un debole bagliore alla luce delle lanterne, cinque paia
di occhi
si erano posati simultaneamente su di lui, e adesso erano in attesa.
Ma non poteva nemmeno restare in
piedi come un idiota. Così
si avviò nella direzione di quel triste spettacolo e si
sedette affianco
all’amico, incrociando le gambe, e cominciò a
fissare insistentemente la
superficie di quel tappeto polveroso e logoro, che era macchiata di
cera
esattamente come il resto del gazebo. Qualche secondo dopo Sam prese
posto
accanto a lui.
Vedeva con la coda
dell’occhio le mani di Jay muoversi in
modo rapido e fluido, con gesti esperti e sicuri. Sul gruppetto era
calato un
silenzio tombale. Quasi senza accorgersene, cominciò a
grattare via con le
unghie una goccia di cera incrostata.
Fu solo quando il ragazzo ebbe finito
di fare ciò che stava
facendo che la tensione nell’aria si smorzò con
una rapidità quasi
sorprendente. Nel momento in cui strinse tra le labbra la sua opera e
l’accese,
nessuno lo stava più guardando.
Lane invece rimase ad osservarlo
accigliato mentre aspirava
il primo tiro, vide le sue spalle irrigidirsi lievemente e rilassarsi
subito
dopo, i muscoli delle guance tendersi in modo impercettibile.
Soffiò via lentamente una
nube di fumo denso e chiaro, poi
si sporse leggermente in avanti e allungò due dita verso di
lei, porgendole ciò
che in quel momento rappresentava a tutti gli effetti un regalo, senza
degnare
Darren di uno sguardo.
Lane teneva gli occhi puntati sulla
canna, sospesa a
mezz’aria nello spazio che li separava, stretta nella mano
bianca di Jay, con
la punta già nera e i lati lucidi di saliva. Un secondo dopo
lei allungò le
gambe davanti a sé e avvicinò il busto il tanto
che bastava per permetterle di prendere
ciò che voleva.
La incastrò fra le labbra
e la brace brillò debolmente nella
penombra.
A quanto
pare è stato
un colpo di genio, si ritrovò a pensare, mentre
l’ostilità sorda che
sentiva verso Jay scivolava via dal suo corpo con la
rapidità con cui era
venuta.
Lei
raddrizzò la
schiena e si appoggiò di nuovo al cuscino del divano,
accavallando le gambe.
Fece un paio di tiri, senza staccare gli occhi da Jay, poi la
passò
distrattamente alla ragazza alla sua sinistra, che la
afferrò immediatamente
con l’indice e il pollice.
«Sam» disse
all’improvviso «come mai ci hai portato facce
nuove oggi?»
La ragazza, che fino ad un istante
prima stava fissando il
sottile oggetto passare sgraziatamente da una mano all’altra,
si riscosse
dall’annoiato torpore nel quale era sprofondata e la
guardò con i suoi grandi
occhi scuri.
«Sono amici, li ho
incontrati poco fa» disse, alzando
pacificamente le spalle.
Lane ormai stava giocherellando
apertamente con un pezzo di
cera grande quanto una moneta, staccato dal tappeto, e ascoltava.
Perché era
sicuro che prima o poi le parole che temeva di più sarebbero
uscite dalla bocca
della ragazza, e il panico gli avrebbe finalmente dato il colpo di
grazia,
schiacciandolo a terra come un insetto.
Si accorse di stare trattenendo il
respiro, di nuovo.
«Venite spesso?»
Lane alzò lo sguardo,
sorpreso. Lei si aspettava una
risposta da lui, era chiaro, ma fu Jay a parlare.
Un’altra fitta di tiepida
gratitudine lo pervase.
«No in
realtà» disse «io solo ogni tanto, per
Lane è la
prima volta»
Eccolo, il momento. Stava arrivando,
lo sentiva, ormai
correva furiosamente verso di lui come un treno e lui non poteva
evitarlo,
perché era legato ai binari.
Lei alzò le sopracciglia
con aria interrogativa.
«Come mai solo
oggi?» chiese, fissando apertamente
Lane. Aveva
incrociato le gambe e si
teneva le caviglie con le mani, tamburellando distrattamente con le
unghie sul
tessuto dei jeans.
A quel punto accadde.
Sam sorrise brevemente e gli
lanciò una rapida occhiata.
«Lane scrive»
disse, sinceramente contenta di quella
domanda. Poi fece il tiro che le spettava e gli porse il mozzicone,
ormai
morente.
Lane pensò che in quel
momento avrebbe dato qualsiasi cosa
per scambiare la sua esistenza con quella dell’inutile,
puzzolente mozzicone,
che per sua fortuna stava per abbandonare per sempre questo mondo. Nel
momento
in cui l’ultima sillaba uscì gioiosamente dalle
labbra della ragazza si sentì
invadere dal panico. Le mani ricominciarono a sudare. Strinse i pugni,
cercando
di mascherare il più possibile l’imbarazzo.
Per piacere,
per
piacere non adesso.
«Non posso»
rispose atono, facendo un breve cenno con il
capo in direzione della canna «devo guidare»
Jay alzò gli occhi al
cielo. Poi si riprese ciò che era suo,
ficcandoselo rapidamente fra le labbra.
«E cosa scrivi?»
La ragazza si stava sporgendo verso
di lui, sinceramente
interessata. Si sosteneva il mento con il pugno chiuso, il gomito
appoggiato
sulle ginocchia. Le sue sopracciglia ormai erano sparite sotto la
frangia, ma i
suoi occhi erano spalancati e lo stavano ingoiando intero.
Un serpente
– il
pensiero lo colpì in testa come una pietra – un sottile, silenzioso mexican black che sa di
poterti mangiare, perché
tu, stupido topo, non tenterai mai di mangiare lui.
Deglutì impercettibilmente.
«Niente di serio»
disse piano, maledicendosi per il suono
fastidiosamente rauco della sua voce.
«Ad esempio?»
insisté lei, passandosi una mano fra i capelli
scuri e scompigliandoli con grazia.
«Racconti,
perlopiù» borbottò lui, mentre il suo
autocontrollo
scivolava via lentamente «nessun genere preciso»
Calò il silenzio per un
paio di secondi, rotto solo dal
rumore delle dita di Jay, che stavano facendo pigramente a pezzi una
cartina.
Hyena lo stava fissando, ancora, in
attesa. Non era
soddisfatta.
«Ma» aggiunse
Lane, appiattendosi nervosamente i capelli con
la mano «non sono venuto qui per questo»
«E come mai sei venuto
allora?»
Aveva inclinato lievemente la testa
di lato e stava facendo
scorrere distrattamente le unghie sulla nuca. Il volto era serio,
concentrato.
«Solamente per
guardare» mormorò lui, abbassando di nuovo la
testa sul suo scivoloso pezzetto di cera.
Non vedeva l’ora che quella
conversazione terminasse.
Mangiami e
basta.
«Allora ti lascio una
cosa» disse lei, e senza aspettare una
risposta si alzò in piedi e fece rapidamente il giro del
divano, per poi
sparire dietro le tende fluttuanti.
Si accorse solo in quel momento che
Jay lo stava osservando,
impassibile. Gli lanciò un’occhiata di sbieco, ma
prima che potesse dirgli
qualsiasi cosa un leggero rumore di passi annunciò il
ritorno della ragazza.
«Tieni» disse,
porgendogli un sottile blocco di fogli di un
bianco abbagliante, tenuti insieme da una morbida rilegatura di
plastica.
Lane sentì il respiro
mozzarglisi nel petto.
Si alzò in piedi e
allungò il braccio per afferrarlo,
facendo attenzione a non toccare la sua mano.
Nel primo foglio c’erano
soltanto due parole.
La prima era il suo nome, nero su
bianco, quello con cui si
era fatta conoscere, quello che ormai tutti consideravano una sua
proprietà.
La seconda era il titolo.
Nessuno si
ricorda del
re dei topi.
Quel fascicolo non era mai stato
aperto.
Anche Jay si era alzato in piedi, e
stava fissando con vaga
curiosità l’oggetto che il suo amico non riusciva
a smettere di fissare.
«È una
raccolta» disse lei, tirando fuori un pacchetto di
sigarette dalla tasca posteriore dei jeans «ma è
molto breve. Oggi non faccio
nulla di che, devo solo distribuire la roba nuova».
La noncuranza con cui
pronunciò quelle parole lo stupì, ma
non disse nulla.
La ragazza guardò
l’orologio con le sopracciglia aggrottate.
«Tra poco verranno a
prenderle. Ho scritto su facebook
di passare all’una per chi fosse interessato,
se vi va di rimanere…» disse, ed ebbe
l’accortezza di girare la faccia per non
soffiare il fumo in faccia a Lane.
In effetti, era molto vicina. Era
davvero molto vicina e lui
non se n’era minimamente accorto, completamente assorbito
dalla contemplazione
del nuovo tesoro che stringeva fra le mani.
Ma adesso se n’era accorto,
si, e la stava guardando come un
idiota mentre si sistemava i
capelli da una parte e sbatteva delicatamente il dito sulla sigaretta
per far
cadere la cenere.
«No grazie»
rispose frettolosamente Jay «oggi proprio non fa,
però torniamo sabato prossimo se fai un reading. Vero
Lane?» aggiunse,
colpendolo di nascosto con il gomito.
«Certo»
biascicò il ragazzo, riscuotendosi bruscamente dalle
sue riflessioni.
«Va bene allora»
disse lei, facendo indugiare lo sguardo un’ultima
volta su di lui. Aveva ancora quello strano mezzo sorriso sulle labbra,
non
abbastanza sincero da farti sentire al sicuro ma abbastanza dolce da
farti
desiderare di vederlo sempre comparire sul suo viso, per te.
«È stato un
piacere» aggiunse poi, alzando brevemente una
mano nella loro direzione.
«Anche per noi»
disse Jay, afferrando Lane per la spalla e
spingendolo lievemente verso l’uscita del gazebo.
«Ciao»
mormorò Lane, rauco. La vide fare un cenno di saluto
con il capo, e poté giurare di aver visto qualcosa
che prima non c’era nascere e morire nei suoi occhi, con la
stessa rapidità di
un lampo, prima che la sua snella figura sparisse definitivamente dalla
sua
vista.
*
«Allora» disse
Jay, mettendosi a cavalcioni sul motorino,
strascicando i piedi per disincastrarlo dal terreno irregolare
«sei
soddisfatto?»
Lane sbuffò, affondando le
mani nelle tasche.
«Dammi le chiavi»
disse, in un tono che lasciava trasparire
la sua irritazione. Jay sorrise brevemente.
«Non
c’è bisogno» rispose.
Lane lo fulminò con lo
sguardo. Il plico era ancora stretto
nella mano sinistra, premuto contro il suo fianco.
Gli tese la destra in silenzio.
Jay sbuffò di rimando,
frugò per qualche secondo nella tasca
della giacca e ne estrasse uno scarno mazzo tintinnante. Gliele
lanciò senza
una parola.
Lane le prese al volo e
sospirò piano.
«È stato davvero
imbarazzante» mormorò, mentre Jay scivolava
all’indietro, puntellandosi con le ginocchia, lasciandogli lo
spazio per
sedersi.
Il ragazzo alzò le spalle
e gli passò il casco.
«Non è andata
tanto male, tutto sommato» disse, infilando a
sua volta il suo e allacciando la cinghia sotto il mento.
Lane non rispose. Aprì il
portaoggetti e vi gettò dentro il
cellulare e il fascicolo, assorto. Contemplò per un secondo
il candore delle
pagine contro il buio, poi chiuse lo sportello con un colpo secco.
«Resti da me
stanotte?» domandò, inforcando il motorino e
facendo girare le chiavi nella fessura. Il fanale si accese,
illuminando la
distesa di foglie secche davanti a loro.
Sentì le braccia
dell’amico circondargli la vita.
«Certo» rispose
Jay, prima che il rumore del vecchio motore
potesse coprire la sua voce.
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Capitolo 3 *** III ***
Ore 1.03
Lane fu il primo a scendere. Non
appena si fermarono davanti
alla casa, spense il motore con un movimento secco del polso e fece
scivolare
le gambe di lato, smontando dal sedile con una leggera spinta. Jay lo
fissò
mentre apriva rapidamente la lampo della tasca della giacca, vi
infilava dentro
la mano e un secondo dopo la ritirava stringendo un mazzo di chiavi,
scintillanti sotto la luce pallida dei lampioni.
Le chiavi cozzarono tra loro,
producendo un fastidioso
tintinnio, quando il ragazzo si chinò per aprire la
serratura del cancello.
Jay allungò le gambe,
strisciando le suole delle scarpe
sulla ghiaia, e appoggiò i gomiti al sedile. Rimase sdraiato
mollemente in
quella posizione a guardarlo, con la testa inclinata da un lato,
finché la
serratura non scattò come uno sparo nella notte.
«Andiamo» disse
Lane, abbassando la maniglia cigolante e
facendo scorrere piano il cancello su un lato.
Jay rimase un secondo a osservare i
riflessi dorati della
luce che guizzavano sui suoi capelli, prima di sollevarsi pigramente e
afferrare il manubrio.
«Dove lo metto?»
chiese, mentre l’amico spariva oltre
l’ombra del cancello.
«Dove ti pare»
rispose Lane. Il rumore attutito dei suoi
passi si faceva sempre più lontano.
Jay sbuffò.
Aspettò di vedere il tenue e caldo bagliore
della lampadina espandersi nel piccolo e buio giardino, seguito dal
prepotente
rumore delle chiavi che sbattevano sul legno della porta, prima di
cominciare a
fare forza per disincastrare le ruote dalla scricchiolante distesa di
pietrisco.
«Odio il tuo
cortile» urlò, trascinando faticosamente il
vecchio
fardello oltre il cancello. Appena fu vicino al muro diede un calcio al
cavalletto e lo infilò bruscamente fra le pietre.
Anche se gli dava le spalle, era
certo che Lane avesse
alzato gli occhi al cielo.
Infatti la sua risposta seccata non
tardò ad arrivare.
«Muoviti, si
gela» disse, mentre il fruscio morbido delle
sue scarpe sul vialetto di cemento tradiva la sua impazienza.
Jay si voltò. La porta era
aperta, le luci dentro la casa
già accese. Lane era in piedi di fronte a lui, con le mani
affondate nelle
tasche dei pantaloni, e lo stava fissando.
Rimase a guardarlo solo per un
secondo, poi si incamminò
nella sua direzione.
*
Lane si passò stancamente
le mani sul viso, indugiando per
qualche secondo con i polpastrelli sulle palpebre stanche. I suoi occhi
stavano
chiedendo pietà, le lenti erano ormai completamente asciutte
e
irrimediabilmente appiccicate alle sue iridi sofferenti.
Sbatté un paio di volte le
palpebre, senza successo, poi
lanciò le chiavi sul tavolo.
Jay era in piedi, immobile come una
statua, con la giacca
abbottonata fino al collo, completamente assorbito dalla contemplazione
dello
schermo del suo cellulare. Il casco gli pendeva ancora dal braccio.
Lane distolse lo sguardo da lui e si
sfilò la giacca con un
movimento fluido, posandola
distrattamente sullo schienale della sedia più
vicina. Poi si
voltò e si diresse verso la cucina.
«Hai fame?»
chiese a Jay in tono noncurante, aprendo il
frigo e lanciando una breve occhiata delusa agli scompartimenti
semivuoti.
«No»
urlò di rimando l’amico «tu?»
Lane sbuffò e richiuse il
frigo.
«No» disse,
passandosi una mano fra i capelli «sono troppo
nervoso»
«Ancora per questa
storia?»
La sua voce era molto più
vicina ora. Si appoggiò sul bordo
del tavolo, tamburellando debolmente con le unghie sulla superficie
morbida
della tovaglia, e si voltò a guardarlo.
La maglietta era decisamente troppo
grande per il suo busto
magro, e le braccia bianchissime, incrociate sul petto, spiccavano in
modo
abbagliante contro il tessuto nero. Era in piedi davanti a lui,
appoggiato allo
stipite della porta, e Lane sapeva perfettamente cosa stava per
accadere.
«Lascia perdere»
gli disse, spostando lo sguardo sulle sue
scarpe.
«Non ha senso»
continuò Jay, ignorandolo e tirando fuori il
pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni «Fai sempre
così. L’hai vista,
ci hai parlato, è andato tutto bene e senz’altro
si ricorderà di te. Non vedo
perché debba sprecare energie»
«Mh mh»
mormorò, esaminando con estrema attenzione i suoi
lacci logori.
Lo stava fissando, lo sapeva.
Alzò brevemente gli occhi: era
immobile, con una sigaretta spenta sospesa a mezz’aria.
«Parlo sul serio»
disse, infilandosela tra le labbra.
«Si, anche io parlavo sul
serio quando ti ho detto di
lasciar perdere» rispose Lane irritato, alzando bruscamente
la testa e
piantando gli occhi nei suoi. Poi il suo sguardo cadde sulla sigaretta.
«Ti dispiacerebbe metterla
via?» sbuffò, indicandola con un
cenno del mento.
Jay sorrise e alzò le
sopracciglia.
«Perché? Tanto
abbiamo ancora tre giorni» rispose.
Lane osservò le sue lunghe
dita bianche muoversi rapide.
Avvicinò l’accendino alla bocca, tenendolo con
entrambe le mani, e fece
scorrere il pollice destro sulla rotella. La fiamma scaturì
con un sibilo.
Aspirò e suo viso si distese completamente, mentre la brace
della sigaretta
brillava debolmente nella penombra. Sulla mano sinistra aveva due
graffi,
incredibilmente rossi contro la pelle pallida.
Soffiò il fumo in alto,
lontano da lui. Poi si appoggiò con
la schiena contro lo stipite, lanciandogli una breve occhiata nervosa.
Si era
accorto che non aveva smesso di guardarlo per un secondo.
Aveva le guance così
incavate che le ossa sembravano sul punto
di bucare la pelle. Le labbra e la punta del naso erano arrossate per
il
freddo, mentre i capelli gli cadevano sulla fronte in sottili ciuffi
disordinati. Gli occhi erano chiusi, le ciglia, ridicolmente lunghe,
proiettavano un’ombra leggera sui suoi zigomi bianchi.
Non distolse lo sguardo dal suo viso
nemmeno quando ruppe la
perfetta immobilità della sua posizione per portare la
sigaretta alla bocca. I
graffi guizzarono sotto la luce fioca della lampadina.
«Dovresti mangiare
qualcosa» mormorò, mentre Jay si passava
la mano libera fra i capelli, come per sistemarli. Incontrò
il suo sguardo per
un secondo, e lo distolse subito. Pareva non avere la forza di
sostenerlo.
«No, non credo»
rispose stancamente, colpendo piano il
filtro per far cadere la cenere a terra.
Lane sbuffò.
«Sei incredibile»
disse, alzandosi improvvisamente e aprendo
il frigo «non
riesci nemmeno a tenere
l’accendino con una mano sola».
«Sono stressato, tutto
qui» disse debolmente Jay, mentre
Lane tirava fuori una bottiglia d’acqua.
«Sei sempre
stressato» disse bruscamente, sbattendo di malo
modo due bicchieri sul tavolo. Svitò maldestramente il tappo
alla bottiglia e
vi versò un parte del contenuto.
«Questa volta è
diverso»
«Ah si? E cosa è
successo?»
Jay non rispose subito.
Avanzò lentamente verso il tavolo, e
senza una parola buttò la cicca ormai finita dentro quello
che doveva essere il
suo bicchiere. Poi sospirò e si appoggiò al
tavolo, accanto a Lane.
«Mia madre»
mormorò semplicemente, grattandosi nervosamente
il dorso della mano sfregiata.
Nella piccola cucina calò
il silenzio. Lane aprì la bocca,
poi la richiuse, consapevole di non conoscere ancora le parole giuste
da dire
in quel momento. Sentì l’imbarazzo serpeggiare fra
loro, posarsi sulla sua
pelle, avvolgerlo come un serpente, invisibile ma incredibilmente
pesante.
Sentì anche dolore, genuino dispiacere, pulsare dentro il
suo petto.
Si impose di reagire.
«Che cosa ha
fatto?» chiese, avvicinandosi
impercettibilmente.
«Ha deciso di tornare per
Natale» disse Jay, in tono
insofferente. Lo vide scrollare piano le spalle, come per liquidare la
cosa, e girarsi
a guardare la triste sigaretta grigiastra che si stava pian piano
sciogliendo
nell’acqua gelida.
Sapeva che cercava solamente una
scusa per far scivolare
piano gli occhi su di lui, per cercare i suoi pensieri nel suo volto
prima che
nelle sue parole e prendersi la libertà di decidere se
alzare lo scudo o
tenerlo giù.
E Lane voleva davvero sembrare
rassicurante e pratico e saldo ma
nel momento in cui la parola
“Natale” rotolò via dalle labbra di Jay
e rimbalzò nella vuota, solida aria
intorno a loro, percepì distintamente un rantolo di
indignazione prendere forma
nel suo petto, crescere e cominciare ad arrampicarsi su per la sua gola.
Lo ricacciò indietro
appena in tempo.
«Quando l’hai
saputo?»
«Un po’ di tempo
fa» rispose Jay, senza smettere di sfregare
rabbiosamente le unghie sui graffi, con lo sguardo perso nel vuoto.
«E perché non me
l’hai detto subito?» disse Lane, con lo
sguardo fisso sulla sua mano, che stava diventando sempre
più rossa. Si accorse
troppo tardi di aver usato un tono più duro di quanto non
intendesse fare, ma
Jay non diede segno di averci fatto caso.
«Perché…»
cominciò, poi si interruppe scuotendo la testa.
Incrociò le braccia sul petto e lo guardò negli
occhi, come se avesse bisogno
di un appiglio per continuare.
«Stavamo pensando ad altro
in questi giorni, e poi dovevamo
fare questa cosa. Non mi andava di rovinartela» disse
semplicemente, scrollando
le spalle.
Lane cominciò a
giocherellare distrattamente con il suo
bicchiere, osservando l’acqua al suo interno incresparsi e
ruotare. Non aveva
idea di cosa dire.
«Sono
giorni che fumo
come un disperato» aggiunse Jay, sbuffando piano.
«Dovevi dirmelo
subito» mormorò infine, passandosi una mano
fra i capelli, cercando di soffocare la frustrazione. Posò
il bicchiere sul
tavolo «avrei potuto fare qualcosa per aiutarti»
aggiunse.
Jay alzò le spalle.
«Non importa»
disse, scostandosi dal tavolo. Fece un mezzo
sorriso forzato, sollevando appena l’angolo della bocca.
«Ne abbiamo parlato anche
troppo» disse, avanzando di un
passo verso di lui. I suoi occhi scuri rilucevano debolmente,
illuminati dal
neon scadente della cucina. Sembravano offuscati. Aveva infilato le
mani nelle
tasche dei jeans, probabilmente per riuscire a tenerle ferme.
«In
realtà» mormorò Lane, spostando lo
sguardo sulle sue
labbra «non ne abbiamo parlato affatto»
Sapeva cosa stava facendo Jay.
Infatti, esattamente secondo
le sue previsioni, vide l’amico alzare gli occhi al cielo e
ridurre
ulteriormente la distanza che li separava.
«Possiamo non farlo, almeno
per stasera?» soffiò, passandosi
la lingua sulle labbra secche. Sembravano una ferita sul suo viso di
gesso.
Lane rimase immobile, seduto sul
bordo del tavolo con le
braccia incrociate. Spostò lo sguardo sulle sue pupille
dilatate e gli rivolse
una lunga, gelida occhiata.
«Non puoi fare sempre
così, lo sai vero?» mormorò,
consapevole di averlo in pugno. Andava fuori di testa quando non
rispondeva
alle sue attenzioni.
Lo vide vacillare per un secondo. Poi
i suoi occhi ritornarono
freddi e asciutti, e la sua mano corse a cercare il pacchetto nella
tasca
posteriore dei jeans. Si allontanò di un passo, poi di un
altro, fino a toccare
lo sportello del frigorifero con la schiena.
Lane sospirò.
«Allison lo sa?»
chiese, immaginando già la risposta. Jay
non diede segno di aver sentito: la sua attenzione era totalmente
assorbita
dalla nuova sigaretta. La teneva stretta, così stretta che
non riusciva più a
distinguere le labbra livide dalla sua pelle. La debole fiamma
dell’accendino
tremava, così come le sue mani.
Aspettò, senza muoversi.
Non aveva intenzione di mollare.
«Rispondimi»
disse semplicemente, mentre l’amico aspirava la
prima boccata di fumo come se fosse aria fresca. Lo vide grattarsi
piano la
fronte, poi chiuse la mano e lasciò cadere il braccio lungo
il corpo rigido.
«Certo che lo sa, me
l’ha detto lei» rispose, senza
guardarlo.
«Le hai detto che non vuoi
vederla?»
Jay fece una smorfia.
«Lo sa benissimo che non
voglio vederla»
«Non credo che lo sappia.
Non ti obbligherebbe mai a farlo»
Lane sapeva di averlo spinto in un
angolo, così come sapeva
che era molto semplice intaccare la sua ostinata barricata di ghiaccio,
se
riusciva a coglierlo di sorpresa. Azzardò un passo verso di
lui, abbandonando
il suo posto sicuro.
«Non sei costretto a fare
niente» aggiunse, cercando di assumere
un tono più morbido.
Ma Jay continuava ad evitare il suo
sguardo.
Era difficile capire quale mossa
fosse quella giusta con
lui.
Scosse rabbiosamente la mano per far
cadere la cenere.
«Questo non è
vero» ringhiò.
La sua voce aveva quella sfumatura
rauca di chi cerca di
impedirsi di soccombere alla frustrazione, di chi vuole arginare quel
sordo e
tremendo bisogno di esplodere.
«L’unico che ti
costringe a farlo sei tu» sbuffò Lane, che
nonostante la crescente apprensione non aveva intenzione di retrocedere
«e non
dovresti metterti in queste situazioni»
«Non capisci» il
volto di Jay si stava trasformando sotto i
suoi occhi «non
importa che cosa voglio, ci sono
delle cose che…” si
interruppe all’improvviso. Si portò una mano alla
testa e si strinse i capelli,
tirandoli leggermente. Respirò profondamente.
«Possiamo smettere di
parlarne adesso?» disse, senza alzare
gli occhi dal pavimento. La sigaretta era ormai finita, e tremava nella
sua
mano.
Lane alzò le spalle. Lo
aveva spinto molto vicino al limite,
e adesso era arrabbiato.
«Dammene una»
disse, indicando con il mento la cicca
morente.
Jay lo guardò in faccia
per la prima volta da quando aveva
subdolamente cercato di distrarlo, ma non disse nulla. Estrasse
rapidamente il
pacchetto dalla tasca e glielo lanciò. Poi si
avvicinò al tavolo e buttò la sua
nel bicchiere.
Lane tirò fuori
l’accendino e una sigaretta, e l’accese con
un solo, fluido movimento. Il sollievo fu immediato, così
come il sapore pungente
sulla lingua.
Aveva ancora le mani fredde.
Tenne lo sguardo puntato davanti a
sé mentre fumava, pur
essendo consapevole che Jay non gli staccava un secondo gli occhi di
dosso. Per
la prima volta in tutta la serata si sentiva esausto: la stanchezza gli
era
piombata addosso tutta insieme, percepiva il suo peso sulle spalle come
un
macigno.
Guardò la sigaretta nella
sua mano accorciarsi sempre di
più. Voleva spegnerla, gli girava già la testa,
ma non voleva voltarsi. Il
silenzio fra loro era opprimente.
Non fumava quasi mai,
perché non lo trovava particolarmente
piacevole e perché non ne aveva mai voglia. Ma era
consapevole che, ancora una
volta, era riuscito a cogliere Jay di sorpresa, e questo gli dava un
certo
vantaggio, oltre che una certa soddisfazione.
Lo sentì sospirare. Un
attimo dopo, un rumore attutito di
passi annunciò che aveva lasciato la stanza.
Lane si passò stancamente
una mano tra i capelli, poi si
sporse leggermente verso il bicchiere di Jay e spense quel che rimaneva
della
sigaretta nell’acqua torbida e piena di cenere.
Improvvisamente, un breve trillo si
espanse nel silenzio cupo
della piccola cucina e subito morì, lasciandosi dietro un
sottile e vibrante
eco. Lane si irrigidì per un secondo, spiazzato. Poi
estrasse lentamente il
cellulare dalla tasca.
La prima cosa che vide fu
l’ora, e pensò che fosse molto più
tardi di quanto non credesse.
Ma il suo sguardo, dopo quella banale
constatazione, corse
subito a cercare il motivo per il quale il suo telefono aveva risuonato
come
uno sparo nell’aria immobile, e il respiro gli si
mozzò nel petto.
Una sottile, luccicante notifica
campeggiava al centro dello
schermo. Semplice, pulita, bianca contro lo sfondo scuro.
Recitava semplicemente: Zoey
Kingsley ti ha inviato una richiesta di amicizia.
La fissò stupito, con gli
occhi spalancati. La lesse una
volta, e subito pensò ad un errore.
Ma restava lì,
inequivocabile, trionfalmente vivida, e
pareva lo fissasse di rimando, in attesa di essere aperta, quasi come
una
sfida.
La rilesse un numero spropositato di
volte, con una
dedizione quasi ridicola, ma pareva che quelle poche, fottutamente
semplici
parole rimbalzassero subdolamente contro le pareti del suo cranio,
sfuggenti e
sfocate, impedendogli di dare il comando necessario alle sue dita per
sbloccare
e accettare.
Fece appena in tempo a realizzare il
significato di quelle
parole, prima che un urlo soffocato giungesse dal salotto e lo
strappasse via
dallo stato di irrequieta trance nella quale era immerso.
«Hai intenzione di venire o
no?»
Con il cuore che vibrava
insistentemente nel petto, insofferente
al suo pallido tentativo di calmarlo, Lane si costrinse a premere il
pulsante
per bloccare lo schermo e si ficcò di nuovo il cellulare in
tasca. Prese un bel
respiro, si concesse un breve sorriso liberatorio, e inforcò
la porta.
*
«Stavo pensando»
Jay aprì le palpebre di un
millimetro. Benché la voce di
Lane fosse solo un bisbiglio, l’aveva udita perfettamente. Si
mosse piano
contro le sue gambe e si voltò il tanto necessario che gli
serviva per far
entrare il volto del ragazzo nel suo campo visivo. Teneva lo sguardo
fisso
davanti a sé, ma non aveva spostato la mano dai suoi capelli.
Ritornò nella sua
posizione iniziale e chiuse di nuovo gli
occhi.
«A cosa?»
mugugnò in risposta.
Lane non rispose subito. Jay sentiva
il contatto tiepido delle
sue dita spostarsi piano sulla sua fronte e ritornare indietro,
seguendo
distrattamente un percorso invisibile. Aspettò in silenzio,
concentrandosi solo
su quel movimento.
Era quasi riuscito a rilassarsi
completamente quando udì un
altro sussurro provenire dallo stesso punto imprecisato sopra di lui.
«Stavo pensando»
ripeté Lane «che potrei esserci
anch’io»
Fece una pausa. Sapeva che stava
aspettando una sua
reazione, ma Jay rimase immobile, in ascolto.
«Il giorno in cui tua madre
arriverà» riprese. La mano non
si muoveva più.
«Con te» aggiunse
nervosamente qualche secondo dopo,
ritirandola definitivamente. Il calore scomparve improvvisamente e la
fredda
sensazione di mancanza gli fece contrarre lo stomaco. Il suo viso si
tese in
una smorfia involontaria.
«Oppure no» si
affrettò a dire Lane.
Era certo che non gli avesse tolto un
secondo gli occhi di
dosso.
Attese un altro secondo, poi
sospirò brevemente.
«Va bene»
mormorò, atono.
«Sei sicuro?»
Aprì le palpebre
controvoglia, socchiudendole appena. La
prima cosa che vide furono i suoi iridi, limpidi e preoccupati, che lo
scrutavano dall’alto. Ma nel momento in cui i loro sguardi si
incrociarono,
Lane distolse rapidamente il suo e lo inchiodò di nuovo
davanti a sé.
«Si» rispose Jay,
tirandosi su e incrociando le gambe «mi
sembra una buona idea» aggiunse.
La mano di Lane, che solo due minuti
prima gli stava
accarezzando i capelli, era abbandonata sulla sua stessa coscia e la
stringeva nervosamente.
La vide rilassarsi sotto il suo sguardo, ma l’altro braccio
rimase avvolto
intorno alla pancia, rigido.
Jay si avvicinò
lentamente. Sapeva che, anche se cercava in
tutti i modi di evitare di guardarlo, era attento ad ogni suo movimento.
«Puoi smettere di
preoccuparti adesso» soffiò ad un
centimetro dal suo orecchio.
Lane non disse nulla, ma Jay vide
chiaramente che si stava
sforzando per trattenere un sorriso.
«Non sono
preoccupato» rispose, voltando di un millimetro la
testa verso di lui e lanciandogli una breve occhiata nervosa.
«Meglio
così» sussurrò Jay, facendo scivolare
lentamente lo
sguardo lungo il suo viso.
I suoi occhi erano così
chiari da sembrare trasparenti. La
luce proveniente dallo schermo del televisore proiettava dei riflessi
bianchi e
luminosi sulle sue guance, facendolo sembrare ancora più
pallido.
Notò
che aveva
spostato il braccio.
Si avvicinò ancora.
Percepì il suo corpo irrigidirsi e
rilassarsi, il respiro farsi più pesante. Gli occhi erano
fissi sulle sue
labbra, le ciglia quasi sfioravano gli zigomi.
Jay sorrise lievemente. Avvertiva la
tensione dell’altro, la
sentiva come se fosse stata sua.
In quel momento Lane
spostò lo sguardo e piantò gli occhi
nei suoi. Jay rimase immobile per un secondo, poi il suo sorriso si
allargò, e
improvvisamente raddrizzò la schiena.
Vide la confusione lampeggiare sul
volto di Lane.
Si accasciò di nuovo sulle
sue gambe, sistemandosi nella
stessa posizione di poco prima, perfettamente consapevole della propria
vittoria.
«Sei un idiota»
mormorò il ragazzo, passandosi una mano sul
viso.
«Te lo sei
meritato» rispose, senza smettere di sorridere.
Lane sbuffò.
«Potresti passarmi il
telefono? Dovrebbe essere sul tavolino»
aggiunse con tono noncurante.
Lo sentì muoversi piano
sotto la sua testa.
«Andiamo di
sopra» mugugnò Lane, ignorando completamente la
sua richiesta.
Jay non rispose. Chiuse gli occhi e
lasciò che le sue parole
galleggiassero nel silenzio teso ed elettrico della stanza, come bolle
di
sapone.
Era consapevole di avere la propria
soddisfazione stampata
in faccia.
Si tirò su lentamente e lo
guardò in silenzio. Stava di
nuovo evitando il suo sguardo, fissando con estremo interesse le figure
che
scorrevano rapidamente sullo schermo davanti a lui.
«Cosa?» disse,
cercando di soffocare un sorrisetto
compiaciuto.
Lane sospirò. Poi si
voltò il tanto che bastava per
scoccargli una breve occhiata esasperata.
Capì di aver vinto prima
ancora di sentirgli pronunciare
quelle parole, prima ancora perfino che schiudesse le labbra.
«Ho detto»
mormorò «andiamo di sopra».
|
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Capitolo 4 *** IV ***
Ore 7:05
Fu la sensazione di gelida mancanza a
strapparlo via dal
torpore del sonno.
La soffocante consapevolezza della
propria solitudine
l’aveva svegliato nella stessa dolorosa maniera di tutte le
altre volte, inconfondibile
e debilitante. La delusione lo colpiva ogni volta subdolamente,
insinuandosi
dentro il suo stomaco e scacciando bruscamente il confortevole
abbandono del
sonno, costringendolo a cercare, a sperare che il calore che sentiva
rapidamente svanire dalle lenzuola, dalle sue braccia e dal suo stesso
corpo,
fosse ancora lì, solo qualche centimetro più
avanti, in un punto che ancora non
poteva raggiungere.
Il letto era freddo.
Si sentiva quel freddo addosso,
appiccicato alla pelle, e
aveva paura di muoversi, perché tutto ciò che
toccava era solo insopportabile
vuoto. Tutto ciò che lo copriva, tutto ciò su cui
giaceva, era fatto di
ghiaccio.
Ma fu solo nel momento in cui il suo
cervello tradusse
l’assenza del familiare corpo tiepido che prima
c’era e ora non c’è più in
un disperato e maldestro impulso neuronale –
poteva quasi sentirlo arrancare saltellando lungo i suoi assoni
– che riuscì ad
aprire gli occhi.
Una striscia di sole tagliava
perfettamente a metà il
soffitto, fastidiosamente bianca contro il grigio della penombra.
Filtrava attraverso
un sottile spiraglio che, schiacciato fra le tende scure della sua
finestra,
era stato sicuramente il frutto di una svista da parte sua la notte
precedente.
Fu la prima cosa che vide.
Sentì una fitta acuta
pulsargli nelle tempie. Si accorse che
stava stringendo i denti.
Poi udì un fruscio.
Attese ancora un altro secondo. Aveva
freddo. Il pensiero di
abbandonare le lenzuola per tuffarsi repentinamente nell’aria
ostile del
mattino lo atterriva, ma sapeva di avere poco tempo. E il gelo era
attaccato a
lui, nauseante e insopportabile, fuori e dentro.
Così con uno sforzo che
gli parve immenso sollevò la schiena
dal materasso e si puntellò con i polsi, raddrizzandosi fino
a mettersi seduto.
L’unica cosa che ancora lo copriva scivolò via e
si ammucchiò mollemente sul
suo inguine, lasciandolo completamente esposto.
Sentì un brivido corrergli
lungo le spalle, come un macabro
abbraccio, e istintivamente incrociò le braccia sulla pancia.
«Non volevo
svegliarti»
No, certo
che no.
«Mi sarei dovuto svegliare
comunque»
Non c’era nessuno
dall’altra parte del letto. Jay era in
piedi, a metà strada tra
lui e la porta,
e si stava allacciando con la solita snervante fretta i pantaloni, che
avvolgevano le sue gambe magre in una stretta soffocante.
«Che ore sono?»
mormorò, mentre il gelo lo investiva come
un’onda, mozzandogli il respiro, infilandosi tra le sue
meningi e bloccando
qualsiasi pensiero.
La fonte del gelo era lì,
ad appena due metri di distanza.
Si portò le ginocchia al
petto, circondandole con le
braccia, in un vano tentativo di riscaldarsi.
«Le sette»
rispose l’altro, senza guardarlo. Si inchinò per
prendere qualcosa da terra, e il suo busto bianco scomparve per qualche
secondo
dalla sua vista.
Lane lo stava fissando, e non gli
importava del fatto che
Jay se ne accorgesse, o che si sentisse a disagio. Osservava ogni suo
movimento,
la stessa sequenza con la quale cercava gli indumenti che aveva perduto
in
qualche angolo della stanza e li indossava, compiendo gli stessi rapidi
gesti
nervosi che aveva avuto modo di vedere e di analizzare così
tante volte.
Sentì la nausea crescere
nello stomaco e arrampicarsi su per
la sua gola.
«Avremo dormito
sì e no quattro ore» borbottò, senza la
reale intenzione di farsi udire dall’amico. Tuttavia lo vide
scrollare le spalle.
Il suo viso non tradiva nessuna emozione.
«Mio padre mi vuole a casa,
lo sai» disse, infilandosi
rapidamente la maglietta. Le sue braccia sgusciarono fuori dai buchi
come
pallide anguille.
Lane non rispose. Benché
il suo intero corpo gli stesse
urlando di alzarsi e prendere qualcosa – qualsiasi
cosa – per porre finalmente fine a quel crudele
quanto inutile
assideramento, non aveva intenzione di muoversi di un centimetro.
Così rimase là,
seduto, completamente nudo sotto il
lenzuolo, ad aspettare il momento in cui il gelo avesse lasciato la
stanza,
attraversato il corridoio e sceso le scale, per poi chiudersi la porta
d’ingresso alle spalle e abbandonare definitivamente la casa.
Lo osservava, lo osservava
costantemente.
Jay era una persona strana.
Quell’affermazione suonava
incredibilmente banale perfino
dentro la sua stessa testa, Lane ne era consapevole, ma in quegli anni
di
conoscenza non era stato capace, benché avesse tentato quasi
ogni giorno, di impedire
a quella parola di frullargli nel cervello ogni volta che si
soffermava, suo
malgrado, a cercare di comprendere ciò che aveva davanti
agli occhi.
Jay, nella sua apparenza, nei suoi
modi, nei suoi gusti, nel
suo comportamento e, benché Lane fosse convinto di non
possedere ancora la
presunzione per trarre la sua conclusione definitiva, nel suo animo,
incarnava
perfettamente la persona che, per quanto ci si sforzi di decifrarla e
di
avvicinarla a sé, cercando allo stesso tempo di avvicinarsi
a lei, non cessa
mai la sua costante, inesorabile fuga dall’empatia umana.
Questo la porta ad
essere irrimediabilmente etichettata come creatura di difficile
comprensione e
dunque, per usare un termine riassuntivo di un certo spessore, strana.
Quindi Jay, per la maggior parte
della gente, era una
persona strana.
Lane
scosse la testa.
Si sentiva in imbarazzo. L’uso di quella parola lo faceva
sentire in imbarazzo.
Così sillabò un
“lo so” spicciolo e distratto, per
assecondare il suo impellente desiderio di fuga. Odiava giustificarlo,
e odiava
il fatto che Jay riuscisse a sentirsi giustificato ogni santa volta.
Ma lui stava ancora morendo di
freddo, e quel giorno più che
mai si sentiva in colpa per aver pensato che
‘strano’ fosse un attributo
sufficiente per descrivere la globalità
dell’essenza di un essere umano.
Jay era difficile da capire.
Rimase a fissare il suo profilo magro
per diversi secondi,
in silenzio. La sua maglietta era scandalosamente larga, e lui non
finiva mai
di notarlo, così come non finiva mai di preoccuparsi, ma
andava bene così.
I loro taciti accordi erano ormai
saldamente ancorati al
terreno del loro rapporto. C’erano confini precisi,
c’era un equilibro che non
doveva essere alterato, c’erano delle volte in cui era lecito
chiedere aiuto ed
altre in cui ognuno pensava a se stesso.
Va bene
così, pensava
Lane, continuando a restare aggrappato alle sue ginocchia, tentando di
rubare
calore al suo stesso corpo, mentre sotto i suoi occhi quella
contraddizione
umana continuava a vestirsi, ostentando noncuranza. Stavano entrambi
aspettando
la stessa cosa.
Sapeva che Jay non vedeva
l’ora di ristabilire l’equilibrio.
Probabilmente Jay nemmeno sapeva il motivo del suo doloroso bisogno di andare via, di sentirsi di nuovo da solo
con se stesso e di liberarsi del contatto umano che aveva ricevuto in
dosi così
massicce nelle ore passate.
Lane sapeva che c’era un
equilibrio, Lane osservava Jay da
anni e lo conosceva.
Capiva perché gli altri lo
consideravano una persona strana,
e lui stesso condivideva la visione di corrispondenza quasi perfetta
tra quell’aggettivo
e il modo in cui Jay si relazionava col mondo, l’aveva
accettato.
Ma lui non era il mondo, e
c’erano delle regole, c’erano dei
confini e c’erano degli istinti che andavano rispettati,
perché se gli altri non
si erano sforzati di capirlo, lui l’aveva fatto, e riteneva
di esserci
riuscito.
Perciò, benché
ormai fosse sicuro di essere diventato un
ammasso di brividi e pensieri sconnessi, lo guardò mentre
andava via, senza
battere ciglio, ed ascoltò il suo ‘ci
vediamo’ con un mattone di disperazione
nella pancia, lottando contro il desiderio di lasciarsi andare alla
rabbia
sorda e costringendosi a restare immobile, inerme nel freddo della
mattina, per
riuscire ad essere freddo anche lui.
Chiuse gli occhi. Si concesse di
respirare.
Non era accaduto nulla che non avesse
previsto, niente che
non rientrasse nei loro normali comportamenti.
Va bene
così,
pensò di nuovo, strappandosi un’unghia con i
denti. Un fastidioso dolore
familiare pulsò nella carne viva appena esposta, facendolo
pentire
immediatamente della sua azione.
Sbuffò senza preoccuparsi
di rompere il silenzio spettrale della
stanza e finalmente si alzò dal letto, cercando con una
certa fretta la
maglietta sul pavimento.
Non riusciva, per quanto avesse
tentato, a trasformare
questi risvegli in un’abitudine.
La mancanza, suo malgrado, gli
lasciava sempre la stessa
sensazione sulla pelle, e ogni volta lui l’assorbiva con
diligenza, come se
fosse la prima, e vi si abbandonava mollemente, senza uno sforzo per
contrastarla, senza la speranza di poterla combattere.
Si passò una mano fra i
capelli e si infilò rapidamente i
pochi indumenti che era riuscito a raccattare. Godé per un
attimo del sollievo
provocato dal conforto del tessuto sul suo corpo intirizzito, per
dirigersi poi
alla ricerca del suo cellulare, abbandonato in qualche angolo della
camera
nella fretta della notte precedente.
Sbuffò di nuovo, quando lo
trovò coperto dai propri jeans,
arrotolati di malagrazia sulla moquette.
Premette il tasto di accensione, e lo
schermo si illuminò,
provocandogli una fitta agli occhi. Si accorse di aver dormito con le
lenti a
contatto.
Non c’erano messaggi da sua
madre, né da suo padre. Sentì
una piacevole quanto fuori luogo sensazione di sollievo espandersi nel
suo
petto ed evaporare un attimo dopo.
La notifica era ancora lì.
Zoey
Kingsley ti ha
inviato una richiesta di amicizia.
Smise di respirare. Tratteneva sempre
il respiro per cercare
di bloccare l’avanzata dell’ansia, ma il vortice di
paralizzante angoscia che
aveva nello stomaco gli faceva martellare il sangue nel cervello,
impedendogli
di pensare.
Sentiva le mani gelide, le dita che
stringevano il telefono
stavano diventando insensibili.
Si appoggiò al bordo del
letto. Aveva decisamente dimenticato
quel dettaglio della serata – santo
dio,
come aveva fatto a dimenticare quel dettaglio? – e
la realtà era piombata
su di lui come una cascata di sassi.
Sblocca il
telefono,
idiota, si disse. Le sue dita rimasero immobili.
Improvvisamente, sotto il suo sguardo
pietrificato, apparve
un’altra notifica.
Un messaggio da Jay, che recitava
semplicemente: hai dimenticato il fascicolo
nel motorino.
Fece scorrere l’indice
sullo schermo, cancellandolo immediatamente
con un gesto nervoso.
Poi sospirò e, consapevole
di non essere fisicamente in
grado di reggere ancora l’attesa, sbloccò il
telefono.
*
Non riusciva a tenere gli occhi
aperti.
Adesso li
chiudo,
si ripeteva, appoggiando tutto il peso della propria testa al polso
piegato, ad
intervalli di trenta secondi.
Non si era mai addormentato in classe
in tutta la sua vita,
ma questa volta sentiva di esserci fatalmente vicino. Teneva la matita
incastrata
fra l’indice e il medio, e muoveva piano le dita per farla
sbattere sulla
superficie del banco: il rumore era sufficientemente molesto da
riuscire a
tenerlo sveglio e distrarlo dalla triste prospettiva del lento scorrere
dei
minuti, e allo stesso tempo abbastanza flebile da non disturbare la
solida e inarrestabile
monotonia della voce della professoressa.
Si passò la mano libera
fra i capelli, tirandoli
leggermente. Tentare di procurarsi dolore per non scivolare nel sonno
come un cretino
era la sua ultima spiaggia.
Spostò lo sguardo sulla
ragazza seduta nel banco accanto al
suo e la osservò per un attimo, mentre la punta della sua
penna scorreva
morbidamente sul foglio che aveva davanti, e l’altra
estremità volteggiava in
aria ad un centimetro dal suo naso. Tutti gli altri sembravano
incredibilmente concentrati
e tutti incredibilmente uguali.
Era ammirevole il modo in cui
compivano tutti lo stesso
gesto, ognuno per sé, ognuno nel proprio isolato microcosmo,
con una
coordinazione spaventosa e quasi innaturale. Ognuna di quelle giovani
schiene
era diligentemente china sul proprio quaderno, mentre il suo
proprietario si
dedicava a ciò che anni di pubblica istruzione e di fardelli
di obblighi e
aspettative gli avevano imposto come una necessità
imprescindibile.
Lane riteneva che l’ascolto
prolungato di una lezione che
consisteva prettamente nell’analisi – troppo
superficiale per risultare
remotamente interessante alle sue orecchie ma troppo complessa per
essere
seguita senza inclinazioni suicide o generico desiderio di morte
– di fenomeni
fisici assolutamente non rilevanti, rappresentati da banali quanto poco
impressionanti formule matematiche, fosse esattamente la
materializzazione del suo
inferno personale.
Era in grado di capire che non fosse
necessariamente una
cosa brutta. Era consapevole che quella stessa aspettativa che
schiacciava i
suoi compagni contro i propri banchi come un collettivo, perpetuo
macigno, al
quale apparentemente non vi era scampo, fosse in qualche modo anche
parte della
sua vita. Ma la propria aspettativa, quella che lo spingeva come un
impulso
sconosciuto a dedicarsi a ciò in cui riteneva fosse lecito
impiegare le proprie
energie, si riversava, immensa e mostruosa, in altro.
Perciò, ogni santa volta
che si trovava in quella classe,
con quelle persone talmente interessate alle parole della professoressa
da
concedersi a malapena di respirare, gli veniva una nausea della vita
morbosa e
paralizzante che raramente provava in altre occasioni.
Ma, nonostante il sonno, era ancora
capace di impedirsi di
fare qualcosa di orribilmente sconsiderato, come addormentarsi in
classe.
Perciò sospirò
e si appoggiò al muro con una spalla,
cercando di sparire completamente dietro la testa della ragazza seduta
proprio
davanti alla cattedra.
«Sei in questa classe da
due anni e non ti ho mai visto
interessato a niente»
Lane si voltò di scatto,
ringraziando mentalmente il
proprietario di quella voce per averlo strappato via dalla sua
miserabile condizione.
«Non sopporto la sua
voce» sussurrò in risposta, alzando
brevemente le spalle e lanciando un’occhiata al viso
corrucciato del ragazzo.
«E allora perché
continui a iscriverti a questo corso?» gli
domandò, con un breve sospiro di biasimo.
Lane non rispose subito. Fece vagare
timidamente lo sguardo
sulla sua faccia larga e bianca, sulle sopracciglia quasi trasparenti e
le
lentiggini rade ma incredibilmente scure contro la sua pelle. Erano
concentrate
tutte sul naso, come se fossero state gettate tutte insieme come
coriandoli da
una mano particolarmente maldestra.
Su di lui stonavano tanto quanto a
Jay stavano bene.
Ma a Lane non dispiaceva Jeff, e
perdonava le sue domande
scomode perché sapeva che lui non le considerava tali.
Sospirò, senza
più preoccuparsi delle conseguenze del suo inevitabile
auto sabotaggio, e si passò una mano fra i capelli, cercando
di dilatare il più
possibile i secondi che lo separavano dal limite universale entro il
quale era
socialmente accettabile fornire una risposta.
«Per una questione di
praticità, credo» mormorò infine,
girando di nuovo la testa per fare finta di controllare la
professoressa. Il
ronzio spiacevole e ininterrotto che le usciva dalla bocca dimostrava
il suo
totale disinteresse nei confronti del loro scambio di battute.
Jeff si accigliò ancora di
più, ma dalla sua espressione non
trapelava ostilità, solo un lieve, lievissimo inquadramento
preimpostato che lo
portava automaticamente a desumere che Lane stava dalla parte sbagliata
della
ragione umana.
«Sinceramente non ho
capito» asserì, cominciando a
mordicchiare il tappo della penna.
Alla vista di quel gesto Lane si
portò automaticamente una
mano alla bocca.
«È
che» mugugnò, staccando di netto
un’unghia con i denti «voglio
tenermi aperte diverse porte»
Era consapevole di quanto fosse
carente la sua spiegazione,
eppure lo vide alzare le spalle in un gesto di velata disapprovazione.
«Per me non ha
senso» disse, in un tono talmente sincero da
sembrare quasi scortese «tu non vuoi stare qui»
«Però devo
starci» borbottò Lane, sentendosi scivolare via
rapidamente dalla bolla di agio che si era costruita fra loro nel corso
degli
anni.
Non avevano mai parlato molto, non
avevano mai varcato il
ben delineato confine che separa una situazione di conoscenza e
superficiale
apprezzamento reciproco da una vera e propria condizione di empatia e
confidenza. Sapevano di essere alleati, non avevano bisogno
l’uno dell’altro al
di fuori del corso. Ma in quel momento, un momento che Lane giudicava
davvero
poco opportuno per fare una mossa del genere, Jeff stava
deliberatamente
alterando quell’equilibrio, consolidato e confortevole, che
lui credeva fosse
frutto della volontà di entrambi.
Le domande scomode andavano bene,
finché Jeff si
accontentava delle sue risposte vaghe.
Sorprendentemente, le spalle del
ragazzo si rilassarono, e
si esibì in un sospiro che assomigliava ad una
manifestazione di pura
solidarietà.
«Mi dispiace per
te» disse semplicemente, guardandolo dritto
in faccia.
«Si, beh»
mugugnò, abbassando lo sguardo sul quaderno fitto
di appunti del ragazzo «non importa, va bene
così»
Si stampò in faccia un
impacciato sorriso, il desiderio di
terminare la conversazione che spingeva disperatamente contro le pareti
della
sua scatola cranica.
Lo vide scrollare leggermente le
spalle.
Lane riteneva di aver carpito una
quantità considerevole di informazioni
su Jeff nel corso di quegli anni di blanda e cordiale conoscenza.
Conoscenza,
per non dire osservazione. E fino al momento in cui si trovava a vivere
quell’imbarazzante dialogo, aveva sempre custodito, dentro di
sé, la
rassegnazione alle scarse manifestazioni d’intelletto e di
sensibilità
dell’unica persona con la quale fosse riuscito a stabilire un
contatto in
quella classe aliena.
Eppure.
Eppure Jeff disse, nel tono
più pacato che avesse mai
sentito uscire dalla sua bocca:
«Forse dovresti cominciare
a chiedere ai tuoi genitori di
lasciare che ti iscriva a corsi che ti piacciono»
Rimase spiazzato. Assolutamente
pietrificato.
«Come?»
sussurrò, mentre il nervosismo cominciava a
traboccare dal vaso di Pandora che aveva al posto del cervello,
invadendo,
fluido e inarrestabile, ogni centimetro del suo corpo.
Ed eccoli.
I tonfi del suo cuore erano fuori
controllo. Si impose di
non accelerare il respiro.
«Mi hai sentito»
rispose Jeff, e un secondo dopo il suono
peggiore che avesse mai sentito invase l’aula.
Era sicuro che quella campana gli
avesse bucato i timpani.
«Ci vediamo»
aggiunse atono il largo ragazzo, che nel
frattempo aveva raccolto e buttato dentro lo zaino tutta la sua roba.
Si alzò
rapidamente e fece per andarsene.
«Aspetta» quasi
gridò Lane, senza effettivamente
preoccuparsi dell’ansia che trapelava dalla sua voce.
Ma Jeff era già sgusciato
tra le impazienti e rumorose
figure dei loro compagni, con la borsa che gli sbatacchiava sulle
spalle
massicce ad ogni passo.
Deve essere così che ci si
sente, quando si rompe la quarta
parete.
Questo pensò, quando
l’angoscia lo riempì completamente,
chiudendogli la gola e bussandogli freneticamente nel petto.
Lo stesso sentimento che
precedentemente gli stringeva la
testa come un anello di ferro, facendogli desiderare di chiudere tutto,
in quel
momento lo stava scuotendo come una scarica, e gli stava dicendo di
corrergli
dietro.
Così, quando
oltrepassò la porta, sfregandosi contro braccia
e schiene e capelli, con il fiato corto e l’imbarazzo che
martellava nelle
orecchie, e la sua mano raggiunse il braccio di Jeff, capì
che per sfondare la
sua maledetta porta il ragazzo vi aveva semplicemente appoggiato una
mano.
Si piazzò davanti a lui,
illudendosi di potergli impedire di
passare oltre il suo esile corpo.
«Io frequento corsi che mi
piacciono» si ritrovò a dire,
stupidamente. Si sentì straordinariamente ridicolo.
Jeff scosse la testa. Stava
lentamente perdendo quell’aria
da tappezzeria, da pezzo d’arredamento, che gli aveva sempre
attribuito e
improvvisamente una genuina voglia di lasciar perdere qualsiasi
tentativo di
richiudere la porta gli balenò nella testa, calda e
invitante.
«Non è quello
che ho detto. Ho detto che potresti evitarti
questa tortura»
Fece una smorfia, tirando la bocca in
un’espressione di
disgusto.
«Per me è una
tortura il corso di letteratura, ma devo
andarci perché è obbligatorio»
Gli stava già volgendo le
spalle un’altra volta.
«Siamo all’ultimo
anno, Lane»
A malapena udibile, sopra il
frastuono denso di adolescenza
e indisciplina che regnava nel corridoio, ma fu come ricevere un
mattone sulla
pancia.
Un bel calcio fra lo sterno e lo
stomaco.
Trattenne il respiro, mentre sentiva
il dolore ramificarsi e
germogliare, come un parassita velenoso, dentro il suo debole groviglio
di
emozioni.
Jeff gli voltò le spalle e
se ne andò per la sua strada, con
un’ultima occhiata intrisa di compassione.
E poi accadde.
Vide prima i suoi capelli.
Ci mise meno di un battito di ciglia
a realizzare che
esattamente due cose assolutamente improbabili erano avvenute ad una
distanza
ridicolmente breve l’una dall’altra, e credette
davvero che le gambe l’avrebbero
abbandonato, cedendo come burro sotto la pressione.
Assolutamente
improbabile.
Talmente improbabile che non aveva
nemmeno ritenuto
opportuno prendere in considerazione una simile eventualità.
Scandalosamente
imprevedibile, ai limiti del tradimento.
Stava avanzando. Stava avanzando,
circondata da una
ondeggiante coltre di angeli custodi, sui quali lei spiccava senza
sforzo,
forse senza nemmeno una reale intenzione, e si stava avvicinando sempre
di più.
Pareva che sfavillasse.
Tutto di lei sembrava essere stato
posto lì, sulla sua
persona, per brillare e farla brillare in ogni istante.
Il modo in cui si voltava verso uno
degli infiniti satelliti
che la circondavano – saranno stati quattro o cinque, ma non
aveva alcun senso rivolgere
lo sguardo verso di loro per contarli – il modo in cui
sorrideva, perfino il
modo in cui camminava era impossibile da ignorare.
Era impossibile non notarla. Era
impossibile guardarla e non
apprezzarla.
E lui era là fermo come un
emerito idiota, in mezzo al fiume
di gente che scemava rapidamente, sferzato dal richiamo insistente
della
campana, e si sentiva come se i barlumi di essenza che lei lasciava
trapelare
da ogni gesto, in ogni secondo, oscurassero completamente tutto
ciò che lui
aveva mai avuto la pretesa di essere, in tutta la sua mera esistenza.
Si sentiva come se poterla osservare
fosse una ragione
sufficiente per continuare a stare al mondo, come se la contemplazione
assoluta
e adorante fosse il premio che gli era stato assegnato, la fortuna di
una vita
intera.
Si riscosse solamente quando si
accorse che rischiava
seriamente di essere visto.
La folla si era divisa. Era giunto
quell’affascinante
momento in cui la massa cessa di essere tale, mentre si sgretola contro
le
pareti e si trasforma, e ognuno diventa nuovamente un individuo, ognuno
raggiunge il suo armadietto e si ritaglia un breve, brevissimo pezzetto
di pacifica
solitudine prima di essere trascinato ancora, inesorabilmente, nella
maledizione
della collettività, impetuosa e anonima.
Così si mosse nella
direzione opposta alla sua, cercando di scivolare
discretamente vicino al muro.
Gli restava davvero poco tempo. Dieci
metri, solo dieci
metri più avanti c’era il suo armadietto.
Era sul lato giusto, doveva solo
usare sapientemente i corpi
delle poche persone rimaste, ma era semplice, l’aveva fatto
così tante volte,
era semplice e lui aveva bisogno di nascondersi, un bisogno disperato,
perché Jay
non c’era, nessuno poteva aiutarlo, e lo uccideva il pensiero
di incontrarla là
da solo mentre lei era con tutta quella
gente - oh mio dio - tutta quella gente che non conosceva e
sembravano
tutti ben vestiti e bellissimi e si muovevano nel modo giusto e
ridevano nel
modo giusto e oh mio dio le
svolazzavano intorno come tante belle farfalle intorno a una lanterna e
lei in
tutto questo continuava a brillare e ad attrarli a sé,
perché se loro erano
bellissimi e felici e giusti, lei era un’altra cosa, lei li
superava tutti, lei
era impossibile.
Da concepire, da non guardare.
Il segreto
è
distogliere lo sguardo, fai finta di
fare
altro, ti prego non fissarla non fissarla non fissarla.
Mancavano cinque metri.
Non pensava nemmeno più
all’armadietto.
Una fitta acuta di consapevolezza lo
colpì alla nuca.
Il telefono.
Si ficcò una mano in
tasca, cercando disperatamente di
lottare contro il tessuto appiccicoso della giacca.
Sbloccò lo schermo con una
velocità imbarazzante,
aggrappandosi all’oggetto con le dita gelide e scivolose,
costringendo tutta la
sua traballante attenzione a concentrarsi su di esso.
Ma nell’attimo in cui la
sua figura curva e goffa incrociò
lo sciame volteggiante di esseri impeccabili – sembravano
davvero tanti, perché erano così tanti?
–e la soggezione
era giunta al suo massimo, non riuscì a impedirsi di far
scattare lo sguardo,
un’ultima volta, sull’ape regina.
E nell’attimo esatto in cui
la sua occhiata si era conclusa,
nel momento in cui i suoi occhi erano scivolati via da lei, in cui il
suo unico
ponte era stato tagliato e l’adorazione moriva nel suo ultimo
spasmo, nel
momento – il rassicurante, doloroso momento – in
cui aveva creduto di essere al
sicuro, lo sentì.
Il suo sguardo aveva un peso, e lui
se n’era accorto la
prima volta.
La prima volta che l’aveva
guardato si era reso conto di
essere solamente una piccola, mediocre carica sonda. Che ogni sua
azione, ogni cosa che lei faceva
pesava su di lui e
osservare non era mai troppo perché tutto era
straordinariamente importante,
tutto doveva essere osservato, perdersi in quel campo magnetico era
come
affogare nel miele.
Ma poi lui aveva sentito su di
sé il colpo, come uno
schiaffo, del movimento dei suoi occhi, e aveva capito che forse il suo
campo
magnetico non era poi così insignificante, che poteva
alterare oltre ad essere
alterato.
Ma gli
esseri umani
non sono calamite, tutti gli sguardi hanno un peso e questo sguardo
è troppo
pesante.
«Lane!»
Troppo vicina per essere ignorata.
Lo sguardo schiacciava, la voce
inchiodava. Obblighi, costrizioni,
prigioni astratte. L’imbarazzo di sgusciare via contro
l’imbarazzo di rimanere.
Uno sguardo andava bene, era
spaventoso ma non paralizzante.
Era un gesto sufficientemente intimo da poter passare inosservato,
l’unico che
poteva sentirne il peso era lui. Lo sguardo non era un problema.
Ma la voce, che diceva il
suo nome, era un taglio netto ad ogni via di fuga.
Rimase sospeso nell’aria
come una macabra piuma per un secondo,
uno soltanto. Si concesse un ultimo attimo di libero respiro, prima di
voltarsi
nel modo più fluido che gli riuscì e portare di
nuovo lo sguardo su di lei, in
modo così timido che sentì il fastidio verso se
stesso artigliargli lo stomaco.
Ti prego
smettila di
fissarmi.
«Ciao»
La sua voce era piatta, arrocchita
dall’ansia, la gola
secca. Voleva cercare di inumidirla in qualche modo ma non poteva
permettersi
di fare rumori superflui, non poteva dare motivo a quella gente
– tutta quella
fottuta gente – di credere che fosse solo un ragazzino
maldestro e disgustoso.
E si, sapeva che il suo corteo lo
stava esaminando
attraverso un velo di noia e sarcasmo ma il suo
sguardo da solo pesava come quello di tutta la scuola. Non riusciva a
capire
come fosse possibile.
Perciò fece
l’unica cosa che il suo difettoso istinto di
sopravvivenza gli stava disperatamente suggerendo di fare,
l’unica cosa che
potesse ancora permettergli di evitare la discesa nell’abisso
di frenetica
angoscia intorno al quale stava sconsideratamente ballando.
Abbassò gli occhi. Poi li
fece correre fino agli armadietti
in fondo al corridoio, violentemente rossi contro la parete bianca, per
tornare, in una taratura di tempo perfetta, quasi nella stessa
posizione di
prima, indirizzati esattamente per incollarsi ai capelli corti e
straordinariamente poco interessanti di un giovane di belle speranze
proprio
dietro di lei.
Che non smetteva di fissarlo.
«Allora, stasera ti
trovo?»
Si ripeteva che era impossibile,
assolutamente impossibile
aggiungere altra soggezione a quella che già sentiva, eppure
la consapevolezza
di essere passato da carica sonda a puntaspilli si stava rapidamente
facendo
strada nel suo cervello. Era solamente una palla di stoffa e gommapiuma
che lei stava ripetutamente
infilzando con
una subdola e crudele serie di affondi, mentre pescava dalla sua
immensa
faretra infinite
armi, e lui non aveva
alcuna difesa contro nessuna di queste.
E la parte
peggiore,
pensò in un delirio di nausea e impotenza, è
che non se ne accorge.
«Dove?»
Guadagnare tempo era
l’opzione di emergenza.
Davanti ad un avversario che ha tutte
le carte in regola per
batterti, perché tu nemmeno hai tirato fuori il tuo mazzo
– o forse
effettivamente non ne possiedi uno, davanti a qualcuno che non ti
permette di giocare
pulito, che ha già scelto le tue mosse e ti ha incastrato
fra due fuochi, hai
due possibilità.
Stare muto come una tomba o strappare
il copione e fare la
figura dell’idiota.
Infatti lei alzò un
sopracciglio. La luce di candida
curiosità che le danzava negli occhi era scivolata via,
lasciando solo un po’
di scura impazienza.
«Alla Cava» disse
semplicemente, affondando le mani nelle
tasche della camicia.
Notò che era una strana
camicia. A strisce bianche e nere,
molto cupa.
Registrò a malapena la sua
risposta. Ormai stava prendendo
l’abitudine di cercare di spingersi il più vicino
possibile al limite del
silenzio concesso dopo l’ultima battuta di una conversazione.
«Oh» la sua voce
suonava roca perfino nelle esclamazioni santo
dio «non credo, devo studiare»
Si azzardò a dare un
colpetto di tosse, solo perché aveva
paura di strozzarsi con la frase successiva.
Il suo sguardo guizzò
sulle facce del piccolo esercito. Parevano
davvero annoiate.
Un moto di disagio lo scosse come un
conato.
Poi lei rise. Lei rise di lui, in
modo breve e leggero,
senza rimprovero ma con un pizzico di riconoscibilissima
disapprovazione, e si
rese conto di essere davvero fottuto.
«Oh ma dai, è
venerdì» la risata non era ancora fuggita
dalle sue labbra mentre pronunciava quelle parole «e poi sono
curiosa di sapere
che cosa ne pensi del fascicolo che ti ho dato»
Era al centro di un cerchio di fuoco.
Un agnello
sacrificale, niente di meno.
Sapeva che ci sarebbe riuscita, si
era messo in guardia sin
dall’inizio ma la strada di emergenza era sempre quella verso
cui correva, come
una stupida preda spaventata, ogni volta che vedeva la sconfitta
avanzare con
la sua falce ben alzata, pronta a tagliargli le gambe.
E adesso non c’erano due
fuochi, non c’era una scelta meno
terrificante dell’altra. C’era solo un
bell’anello fiammeggiante che ardeva e
ardeva e aspettava solamente che lui ci si buttasse a capofitto, in un
maestoso
e spontaneo annullamento di arbitrio.
Sapeva di aver perso nel momento
stesso in cui aveva notato
i suoi capelli in mezzo alla fauna scolastica del cambio
dell’ora. Sapeva che
avrebbe perso ogni santa volta, perché il suo mazzo non
valeva assolutamente
niente in confronto al suo.
Perciò quando finalmente
mormorò un “d’accordo,
verrò” e
fece in modo di imprimere per sempre nella sua mente il breve e
autentico
sorriso che la ragazza gli aveva dedicato, tutto quello che
sentì fu un impasto
di dolciastra rassegnazione – che scacciava di malo modo il
pressante disagio
per andare a riempirne il posto ormai vuoto – e di vago
autodisprezzo.
Osservò silenziosamente
lei e la sua carovana – erano
solamente cinque persone in effetti – proseguire il proprio
cammino nella
stessa direzione di poco prima.
Raggiunse il suo armadietto in pochi
passi. Percepiva i
residui della tensione evaporare dal suo corpo, un senso di pesantezza
e di tranquillità
tanto rara da sembrare innaturale posarsi sulle proprie spalle e
schiacciarlo a
terra, ma era una pressione piacevole, quasi liberatoria, era la
pressione
calda e rassicurante che arriva dopo l’affanno della fuga.
Un’urgenza premeva, lieve
ma insistente, contro un lato
della sua testa esausta. Era un tamburellare senza contenuto, per una
cosa che
prima aveva un nome e ora non più.
Con un sospiro tirò fuori
il telefono dalla tasca e sbloccò lo
schermo.
C’era un messaggio da Jay.
Diceva semplicemente:
Hai da fare
stasera?
Il tamburellare divenne un allarme,
l’urgenza un ricordo.
Sono curiosa
di sapere
cosa ne pensi del fascicolo che ti ho dato.
Il fascicolo era ancora da Jay.
Con le dita ancora deboli e
scivolose, soffocando il
principio di ansia che minacciava di divampare nuovamente,
digitò una breve
risposta per l’amico.
Poi si strofinò gli occhi
con i palmi delle mani, inspirò
profondamente un’ultima volta e cominciò a
camminare in direzione della sua
classe.
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Capitolo 5 *** V ***
Ore 19.45
«Sto perdendo la
pazienza»
Sbuffò nella maniera meno
rumorosa che gli riuscì, e si
portò senza pensare le dita alle palpebre, strofinandole con
forza eccessiva.
Sentì i bulbi oculari pulsare in risposta.
«Almeno mi stai
ascoltando?»
Alzò gli occhi. Jay lo
stava fissando. Il suo viso era
contratto, le labbra quasi bianche, strette nello sforzo di trattenere
l’esasperazione. Era sicuro di non poter ballare sugli argini
della sua collera
ancora per molto.
«Scusa»
borbottò frettolosamente, cercando di apparire
almeno lievemente contrito.
L’amico si esibì
in uno sbuffo molto meno silenzioso del suo
e si portò due dita alla base del naso, come per cercare di
trattenere
l’impulso di tirargli uno schiaffo.
Se uno
sguardo potesse
uccidere sarei già morto.
«Okay, ricominciamo. Hai
capito cosa è una mole?»
«No»
mugugnò Lane, affondando mestamente il viso nei palmi
aperti, rinunciando improvvisamente al proposito di non mostrare
apertamente la
sua divampante disperazione.
«Dio santo»
sbottò Jay, cominciando a frugare distrattamente
nella tasca posteriore dei jeans «te l’ho ripetuto
almeno tre volte, te l’ho
scritto davanti agli occhi»
«Senti»
ribatté bruscamente Lane, scostando le mani da viso
e fissandolo con il cipiglio più risoluto che
riuscì tirare fuori «questa roba
è impossibile»
«No che non lo
è» sentenziò Jay, piccato
«semplicemente non
hai voglia di starmi a sentire»
Fece per alzarsi, ma Lane fu
più veloce. Intercettò il suo
braccio e lo costrinse a tornare giù, tirandolo brevemente
per il lembo della
manica.
«Ti pago» disse
solamente. L’unica cosa che gli venne in
mente. Vide passare un lampo di irritazione passare negli occhi
dell’amico, ma
non mollò la presa.
«Per favore»
aggiunse, in tono pateticamente supplichevole,
mentre Jay si divincolava per liberarsi «sono nella merda.
Non ci capisco
niente e se non imparo tutte queste formule entro lunedì
sono fottuto»
«Forse dovevi pensarci
prima di metterti a fissare il vuoto»
replicò Jay acido, sfilando rabbiosamente una sigaretta dal
pacchetto ammaccato
«e di lasciarti circa tre anni di programma arretrato. Come
fai a non sapere
cos’è una mole? Sei all’ultimo
anno»
«Credo di averlo saputo,
tanto tempo fa» borbottò Lane,
abbassando lo sguardo sulla vasta distesa di quaderni aperti intorno
alle sue
gambe, ricoperti dalla scrittura fitta e disordinata di Jay. Si
portò le
ginocchia al petto e le circondò con le braccia.
«Beh non puoi nemmeno
pensare di calcolare la concentrazione
di una soluzione se non sai cosa cazzo è una mole»
disse Jay, soffiando via
nell’aria fredda la prima boccata di fumo «e
oltretutto, io avevo dei programmi
per stasera»
Lane cercò di coprirsi
quanto più possibile le mani con le
maniche del maglione, sfondate dall’assidua usura degli
ultimi anni, e lanciò
all’amico un’occhiata remissiva.
«So che sono un
coglione» disse stupidamente, rendendosi
conto un secondo dopo di quanto suonasse ridicola quella frase. Il suo
naso
stava cominciando a diventare gelido. Se lo sfregò con il
dorso della mano,
consapevole che non avrebbe sortito nessun effetto.
Jay non rispose. Gli fece cenno di
spostare alcuni dei
quaderni, poi si sedette a un metro da lui, con le gambe incrociate.
«Non capisco
perché ti ostini a voler finire tutto oggi»
mormorò.
«Domenica è
Halloween» rispose Lane, scrollando brevemente
le spalle quando Jay alzò gli occhi al cielo.
«Sei l’unica
persona sulla faccia della terra a cui non
piace Halloween, lo sai vero?» aggiunse, sollevando le
sopracciglia. Vide un
ghigno canzonatorio allargarsi sul viso dell’amico e subito
ritrarsi, come se
non fosse mai esistito.
«Ne abbiamo già
parlato» replicò, lanciandogli
un’occhiata
di sbieco. Sapeva che stava cercando di non dargliela vinta.
«Io continuo a non
capire» lo punzecchiò Lane, strisciando
sulle piastrelle ghiacciate della terrazza fino a trovarsi talmente
vicino che
i loro gomiti si sfioravano. Incrociò le gambe e
appoggiò il palmi sul
pavimento. Riusciva a vedere il tramonto e non gli importava
più nulla del
compito.
«È una festa
cretina» decretò Jay, spegnendo distrattamente
la sigaretta nel bel mezzo di una mattonella. Un po’ di
cenere volò sulle
pagine ancora aperte, quasi brillanti nella penombra del crepuscolo.
Un cerchietto nero di fuliggine
spiccava contro il rosa del
pavimento.
Rimasero in silenzio per qualche
secondo, godendosi lo
spettacolo dolcemente ordinario del sole che muore nello spasimo dei
suoi
ultimi colori, succhiando via la vita dal mondo e trascinandola oltre
il bordo.
Il freddo stava aumentando, si
insinuava dentro i jeans e
pungeva gli occhi come un insetto crudele.
«Comunque grazie»
disse infine Lane, quando il crepuscolo
aveva ormai preso possesso del cielo e non c’era
più luce per leggere. Distese
le gambe e lasciò il tempo a Jay per assimilare le sue
parole.
Ma non ottenne nessuna confusa
risposta. L’altro si limitò a
fissarlo con un’espressione interrogativa, la schiena curva e
le spalle tese
come unico segno di attesa. Si rigirava il mozzicone triste e arancione
tra le
dita livide, rese ancora più pallide dal contrasto con i
polsini neri della
vecchia giacca.
«Per non essere andato a
morire in un fosso con i tuoi amici
drogati» aggiunse, alzando le sopracciglia. Il suo tono era
carico di sarcasmo,
ma sapeva che Jay aveva capito che non stava scherzando.
Infatti sorrise.
Brutta testa
di cazzo.
«Di niente»
sogghignò nella sua solita maniera irritante,
senza smettere di guardarlo come se non volesse perdersi nessun
dettaglio della
sua espressione «altrimenti chi ti salverebbe il culo in
Chimica ogni volta?»
«Jeff è bravo
quanto te» borbottò Lane, tirando ancora
più
giù le maniche del maglione senza una reale
necessità. Non era vero, non era
neanche lontanamente vicino alla realtà.
Vide un lampo maligno passargli negli
occhi.
Le sue labbra erano secche, spaccate
dal freddo.
«Non credere che ci caschi,
stronzetto» il suo tono era
immensamente divertito; se la disapprovazione di Lane gli aveva
restituito un
po’ di buonumore, adesso era schizzato alle stelle
«non conosci nessuno più
bravo di me»
Lane appoggiò il mento sul
palmo della mano, lanciandogli
un’occhiata carica di sconforto.
«Rimani comunque un pessimo
insegnante» sospirò «insulti
soltanto me oppure sei così con tutti i tuoi
alunni?»
«Considerando il fatto che
loro mi pagano, non posso
permettermi certe libertà»
Sogghignava. Era visibilmente
compiaciuto, oltre che
ostentatamente sarcastico.
«E poi se dessi
dell’idiota a Marylou McHale probabilmente
si metterebbe a piangere»
Si alzò in piedi,
sfregandosi le mani per riscaldarle.
Si muoveva in continuazione.
Fece un mezzo giro su se stesso,
voltandosi per lanciare
un’occhiata al punto in cui solo due minuti prima
l’arancione si espandeva,
incorporeo e ardente, come una macchia maldestramente diluita. Poi si
infilò le
mani nelle tasche e cominciò a passeggiare avanti e
indietro, strisciando i
piedi contro le piastrelle di terracotta, come assorto nella
contemplazione di
qualcosa di ignoto, schiacciato tra la sua scatola cranica e il
pavimento.
Riluceva nel crepuscolo violetto come
uno spettro.
Si concesse di respirare, per un
istante, la notte nascente.
Era ancora troppo chiara, troppo debole, ma ormai presente,
inesorabile, in
discesa verso la smaniosa frenesia che prende le anime e le ribalta e
distrugge
il loro stesso proposito di esistenza. La stessa che spinge gli animali
a
prendere ciò che gli appartiene di diritto, la stessa che
pare dire, in un modo
inspiegabilmente intenso, giusto, quasi violento: ecco, prendetela,
esiste per
voi.
La stessa che vedeva scuotere il
corpo di Jay, incastrato
fra l’orlo del mondo e l’ebbrezza della follia
delle infinite possibilità che
porta il buio. Poteva quasi sentire concretamente la cupa malinconia
della
quotidianità scivolargli tra le dita, diluirsi in maniera
sorprendente
nell’eccitazione morbosa di essere vivi ed essere al mondo.
Così come poteva sentire
l’urgenza e la cadenza ritmica del
tempo, della sabbia della clessidra che pendeva sulla sua testa, della
corsa
furiosa degli attimi di attesa misurati in sfumature del cielo,
carichi, ma
allo stesso tempo volgarmente vuoti.
Poi Jay alzò lo sguardo.
Si accorse in quel momento che non
aveva fretta di andarsene: nei suoi occhi si distingueva ancora
chiaramente
quella scintilla di morbida ironia che Lane aveva imparato ad associare
al
momento in cui la sua docilità arrivava all’apice
e la serratura scattava.
Una sola
notte non
basta per un solo giorno.
Gravitava intorno al punto in cui era
seduto come un
satellite, infagottato nella sua giacca troppo pesante, e Lane sapeva
che
voleva che si alzasse.
Non voleva smettere di guardarlo.
Ma non voleva nemmeno lasciarlo
completamente solo nella
neonata gioia selvaggia del venerdì sera, così
disse la prima cosa che gli
venne in mente.
«A breve
comincerà a fare troppo freddo per venire quassù
a
studiare»
Lo vide abbozzare un sorriso. Ma
morì subito, nemmeno il
tempo di prendere forma come si deve.
La tristezza pulsò , sorda
e assopita, sotto la sua pelle
intirizzita.
Il lutto per l’eccitazione
perduta gli bloccò il respiro per
un attimo.
«Non mi hai ancora
risposto» lo sentì mormorare.
Sospirò, mentre Jay
sosteneva il suo sguardo con crescente
aspettativa. La punta acuta della sua tensione interrogativa gli bucava
le
pupille, lo spingeva nella direzione che voleva, lo faceva ballare con
la
minaccia di graffiarlo.
Era un momento troppo prezioso per
andare perduto così.
Sapeva che non avrebbe mai lasciato
perdere. Non aveva vie
di fuga.
«Ti devo chiedere un
favore» azzardò, concentrando
improvvisamente tutta la sua attenzione su un filo sporgente del
maglione.
Poté quasi percepire il
corpo di Jay irrigidirsi
impercettibilmente, il suo sguardo farsi più acuto.
«È
importante» continuò. Non aveva bisogno di
guardarlo per
sapere di aver fatto brutalmente a pezzi ciò che rimaneva
della gioia leggera
di poco prima.
«Ti ascolto» fu
tutto ciò che si sentì dire in risposta.
Parla,
stupido
ragazzo.
Inspirò piano.
«L’ho incontrata,
stamattina» cominciò, deglutendo
nervosamente. Gli occhi di Jay gli stavano praticamente bucando il
cranio.
«A scuola» si
affrettò ad aggiungere.
«E quindi?»
La sua voce suonò
pericolosamente interrogativa, con una
sfumatura indistinta di irritazione e impazienza.
Dirà
di no, lo sai che
dirà di no.
«Mi ha chiesto di tornare
stasera»
Non aveva il coraggio di guardarlo.
Non aveva neanche il
coraggio di incassare il rifiuto, ma rimase in ascolto, svuotato e
nervoso,
vibrante di attesa e morbosa speranza.
Lo scudo di gomma si stava tendendo
rapidamente, correndo a
coprire i quattro angoli della sua figura, morbido e accondiscendente
ma pronto
a rigettare la delusione che si stava accumulando sassi e mattoni
dall’altra
parte. La parte del giudice, la parte di chi aveva l’ultima
parola.
Diametralmente opposta alla sua.
Sentì a malapena un
indistinto borbottio scivolare
attraverso la sua parete di trepidante
rassegnazione, bucare l’incertezza, far esplodere la bolla.
«Cosa?»
mormorò spaesato; il rumore del suo stesso sangue
gli ronzava nelle orecchie, sordo e ringhiante.
«Ho detto che va
bene»
Lo sentiva, poteva sentirlo
chiaramente, le parole avevano
percorso tutto il filo invisibile che collegava i loro occhi,
luccicanti e
languidi sotto la nitida luna di fine mese, e l’avevano
raggiunto, avvolgendo
il suo cranio come dolci spire mortali.
Aveva visto le sue labbra muoversi,
debolmente illuminate
dalla luce grossolana dei lampioni, due tocchi, sulla v e sulla b, poi
di nuovo
immobili. Silenzioso, statuario, bianco come un lenzuolo contro il
cielo nero.
Come se non avesse mai parlato.
E’
fatta.
«Sei sicuro? Anche
stasera?»
Dimmi di si.
Fammi
questo regalo.
«Si»
Il sollievo si stava espandendo nel
suo petto con una
rapidità sorprendente. Sapeva che il suo canale di
comunicazione con l’esterno
era irrimediabilmente ostruito dalla gioia tiepida e pulsante che lo
investiva,
tutta insieme, come oro fuso, morbida e fluida. Sapeva di non poter
dire
niente, assolutamente niente, che non fossero parole stillate
direttamente dal
suo cuore, niente che non fosse costruito con i pezzi del maestoso
torpore che
andava crescendogli sotto la pelle. Gli pareva di essere ubriaco e
lucido
insieme. Volgare, volgarissimo giubilo, la cosa più preziosa
che gli avesse mai
potuto offrire.
E sicuramente Jay se n’era
accorto.
Perché sorrise, guardando
quella che immaginò fosse la luce
della follia nei suoi occhi opachi, e sbuffò dal naso,
subdolamente,
riconoscendo il suo contrappasso, la fetta di torta che poteva
prendersi prima
che il soffitto gli cadesse in testa.
«Però promettimi
una cosa»
Lane poté fisicamente
sentire la sua coscienza staccarglisi
dall’anima e mettersi a ballare sulla sua testa.
Tutto quello
che vuoi.
«Cosa?»
Inutile, completamente inutile.
Sapevano entrambi che era
già un si.
Sorrideva, non poteva essere mai un
no quando sorrideva.
Jay lo conosceva come la strada di
casa.
Inghiottì a vuoto,
cercando di dare sollievo alla sua gola
secca. Il naso bruciava per il freddo e lui continuava a sorridere.
«Possiamo stare qui la
notte di Halloween? Da soli, senza
teste di cazzo in mezzo»
Fece una pausa, evidentemente
indeciso se aggiungere qualcosa
o no. Poi scrollò le spalle e parve giungere ad un
compromesso con se stesso.
«Posso pensare io
all’erba, se vuoi»
«Va bene, certo»
Rotolarono fuori, spontanee e calde.
Jay non poteva non aver
visto la luce che lui sentiva bruciare così insistentemente
nelle pupille,
selvaggia e cocente.
Doveva per forza averla vista.
L’aveva accesa lui.
Lo sai che
puoi
chiedermi quello che vuoi.
*
«Hai letto il
fascicolo?»
Strisciò piano la punta di
plastica della scarpa in mezzo
alle foglie morte, gingillandosi con il terriccio umido del bosco come
per
cercare qualcosa.
Il buio era denso, quasi liquido. Le
sagome degli alberi vi
si scioglievano come sale nell’acqua, corpi reali e solidi
persi nell’oscurità
dell’esistenza notturna, spettatori e partecipanti.
Dentro e fuori.
Dentro o
fuori.
Inspirò profondamente.
«Con quale faccia sarei
venuto se non avessi letto il
fascicolo?»
Jay alzò le spalle. Vide
uno dei suoi soliti mezzi ghigni
farsi largo sulla sua faccia.
«Così
è questo che fai, al posto di prepararti per il test
di Chimica?»
Alla debole luce della torcia i suoi
occhi parevano
inesistenti, mangiati dalle spesse ombre scure che il ponte del naso
disegnava
sulla pelle quasi luccicante della faccia.
La sua dura faccia bianca, tirata e
rigida come quella della
gente che non dorme, che non ride e che non mangia.
Toccò a lui scrollare le
spalle.
«Ci ho messo solamente due
ore»
«Bugiardo»
Non gli offrì il suo aiuto
quando si accinse ad avvolgere
faticosamente la catena intorno ai raggi della ruota anteriore. Rimase
a
guardarlo trafficare e sbuffare, mentre la maglietta bianca
s’increspava sul
suo busto stretto e le vene si gonfiavano, spettrali e diafane, sulle
sue mani.
Non gli rispose.
Jay non cercava scuse da lui e
l’inutilità di ribadire un
concetto fasullo e artificioso pulsava nitida nel suo cervello.
«Sei sicuro di volerlo
lasciare qui?»
Il suo piede incontrò
qualcosa che non aveva la stessa
consistenza della terra morbida di fine ottobre e dei sassi scivolosi
coperti
di muschio. Delicata plastica dura. Fece una leggera pressione del
ginocchio,
affondando con tutto il peso della gamba sulla suola spessa.
L’oggettino
scricchiolò appena e sprofondò ancora di
più
nella mistura di morte autunnale che si estendeva tutta intorno a loro.
«Perché? A chi
verrebbe mai in mente di rubare un catorcio
del genere?» ribatté Jay, pulendosi rapidamente le
mani sui jeans scuri.
«Proprio perché
è un catorcio dovresti preoccuparti»
La punta scavava. Il nervoso cresceva.
Aveva definitivamente perso la
siringa.
Ingoiata dalla fanghiglia.
Si lasciò andare ad un
sospiro frustrato.
«E invece non mi
preoccupo»
Lo vide abbassare lo sguardo.
Una contrazione improvvisa del viso.
Un velo, l’ennesimo,
sugli occhi troppo lucidi, troppo inquieti, due maledetti buchi nel
cranio.
«La smetti di giocare con
le siringhe?» sbottò.
«Non sei tu quello che non
si preoccupa?» ribatté
bruscamente, cominciando a frugare di nuovo tra le foglie con la punta.
Scalciò
con forza un sasso dal terreno, che rotolò via con un lieve
tonfo.
Ma non lo guardò,
perché sapeva che lui aveva già inchiodato
lo sguardo su di lui.
E poteva sentire la palla di sputo
velenoso lievitare e
crescere nel petto di Jay, avvicinarsi pericolosamente al confine del
suo
autocontrollo fino a sfiorarlo, quasi sfidandolo a lasciarlo andare, a
scagliarlo contro di lui.
Udì il suono del suo
respiro, lento e pesante, la sua figura
solida, divisa fra bianco e nero, monolitica, davanti a sé,
insieme minaccia e
compagna.
Bella
cazzata, bravo.
«Sei proprio un
coglione»
Tutto ciò che gli
dedicò. Una punta di denso rancore diluita
dentro una frase che gli aveva sentito pronunciare così
tante volte, con così
tanti toni diversi.
«Lasciami in pace, non
riesco a pensare a niente in questo
momento» borbottò. Riusciva a malapena a
distinguere i deboli bagliori
argentati dei raggi delle ruote dallo spesso muro del buio.
Inspirò piano
l’aria fredda e umida della notte.
«Ho
l’ansia»
Avvertiva il pericolo nel silenzio di
Jay più che nelle sue
grida, nella sua imperiosa staticità più che nei
suoi gesti smaniosi.
La sua condanna si avvicinava.
C’era sempre un prezzo da
pagare.
Eccola, sta
arrivando.
Non ha capito nemmeno stavolta.
E così un
«fanculo» riecheggiò nella cassa
armonica che era
diventato lo spazio di cui loro erano gli estremi, la porzione di bosco
e
siringhe e natura morta che delimitavano con le loro ingombranti,
eppure
insignificanti esistenze.
Si udì appena, nella
vastità del silenzio notturno.
Ma ruppe gli argini della diga che
conteneva tutta la sua
frustrazione.
«Cedevo che volessi venire,
se mi avessi detto subito
che avevi cambiato
idea mi sarei
risparmiato la rottura di coglioni di arrivare fino a qui»
Questa volta le parole erano alte,
nasali.
Stonavano con la quiete granitica del
bosco, la minavano
così come stavano facendo con lui.
Sentì
l’umiliazione pizzicare ed espandersi nella gabbia
toracica come acido.
«Infatti è
così»
Lo strazio di quelle tre parole
pesava come una pastiglia
troppo grossa sulla lingua. La sentiva ingessata, lenta, compressa
contro la
gola. Voleva controbattere, ma continuava a tenerla ferma.
Più
in fondo possibile,
si disse, così non puoi vomitare.
«Ah si? E allora
perché ti lagni ogni volta che ti porto nei
posti in cui tu decidi di andare?»
«Lo sai che non funziona
così»
Stava mormorando. Non doveva
mormorare, era consapevole di
non doverlo fare, perciò si schiarì rapidamente
la gola.
«Lo sai che non funziona
così» ripeté più forte,
prendendosi
un attimo – solo uno - per lanciare un’occhiata al
suo volto.
Era ancora immobile, fisso nella
fredda rigidità del
disprezzo che si dilatava attorno a lui come una pozza di catrame.
L’aveva raggiunto, lo stava
avvolgendo.
Se mi fermo
è finita.
«No che non lo
so»
Poteva quasi vederlo stringere gli
occhi, immaginarlo mentre
si preparava la facciata da impermeabile stronzo che tirava fuori ogni
volta
che doveva demolire qualche povero idiota.
«Non lo so
perché non è possibile che tutte le volte che
usciamo tu faccia questa scenetta»
Gli pareva che il suo intero corpo
fosse diventato un
ammasso di angoscia convulsa e umiliazione.
Stava cuocendo nei suoi stessi
vestiti.
Desiderò potersi liberare
di quel fardello di carne e sangue
e ossa che gli pesava, dio santo, gli pesava così tanto
sostenere e rianimare
quando tutto ciò che voleva fare cazzo tutto ciò
a cui riusciva a pensare era
andare via.
Desiderò essere
un’altra persona.
Desiderò essere
un’altra persona per smettere di sentire la
vergogna scavargli l’esofago, mangiandogli ogni cellula, ogni
residuo di pace
come la corda strappa via all’impiccato, secondo dopo
secondo, tutti gli
appigli alla vita che gli restano.
L’accusa di Jay gli
penzolava sulla testa come un foglio di
condanna.
Si sentiva strangolato.
«Non è colpa
mia»
Non piangere.
«Lo sai che ci sono dei
momenti in cui succede e altri in
cui invece sto bene»
No, non lo
sa. Lo sai
solo tu.
«No cazzo, non lo
so»
Si stava frugando freneticamente
nelle tasche, alla
spasmodica ricerca del pacchetto di sigarette.
Il suo stomaco si contrasse in un
moto di irrazionale
disgusto.
Non vomitare.
«Non lo so
perché non ha senso»
Le parole strascicate, la sigaretta
stretta fra le labbra.
Un sibilo, una fiamma.
Se sento
l’odore
vomito.
«Credi che io riesca a
spiegarmelo?»
No dio santo
non
piangere smettila devi controllarti controllati cazzo.
«Io so solo che voglio
uscire, voglio fare ciò che è meglio
per me» provò a respirare profondamente;
sentì i polmoni dilatarsi e il cuore
tremargli dolorosamente nel petto «ma poi quando esco davvero
mi sembra che sia
tutto sbagliato e voglio solo tornare a casa. Mi blocco
completamente»
Inghiottì un groppo di
saliva. Lo sentì raschiare senza
pietà le pareti della sua gola, tentare di aggrapparsi al
tessuto secco,
tentare di strozzarlo.
Se muoio
almeno non
devo decidere.
«Lo sapevo che non dovevo
darti retta»
Ammazzami.
Prendimi a
calci.
«No, io voglio
andarci»
«Smetti di dirmi
cazzate»
Sentiva il rumore del suo respiro
sopra ogni altro. Sentiva
il ritmo singhiozzante e affannato
dell’aria che entrava e usciva dal suo petto,
prima fresca e poi
tiepida.
Entrava e usciva.
Entrava e usciva.
Non sto
morendo.
«Voglio andarci»
ripeté, quasi bisbigliando. Jay fece per
dire qualcosa, ma lo precedette.
«Se oggi vado, le prossime
volte andrà sempre meglio»
«Sarebbe già
dovuta andare meglio allora»
La brace della sigaretta brillava
come una lucciola a un
metro dal suo naso.
Scosse la testa nel buio.
«Non funziona
così»
«Non funziona mai
così» poteva quasi vederlo alzare gli
occhi al cielo «prendi una decisione e basta, che mi sono
stufato di farti da
autista per poi sentirmi dire queste cazzate»
«Nessuno ti ha
costretto»
Bella
stronzata.
«Si, lo so»
Tutta la frustrazione era stata
risucchiata via dalla sua
voce. Il tono lapidario con cui pronunciò quelle poche
sillabe, dure e crudeli,
fu come una spinta sull’orlo del burrone.
Sto cadendo.
Erano entrambi immobili.
Ora muoio.
La sigaretta si struggeva nella mano
di Jay, dimenticata,
abbandonata al suo suicidio involontario.
Se se ne va
muoio.
Si strinse le braccia intorno al
corpo, in un patetico
tentativo di impedirsi di tremare.
Morirò.
Me lo sento.
Vomiterò e morirò.
«Accompagnami solo
oggi»
Il dolore prese una forma.
L’imbarazzo gli punse gli occhi.
Un miserabile principio di lacrime gli offuscò la vista, il
pallore del viso di
Jay divenne solo una chiazza bianca in mezzo ai tronchi neri.
«Per favore. Non te lo
chiederò più»
Una sola
volta. Una
sola volta ancora mi basterà. Ce la farò, posso
vivere senza.
Il doloroso calore della stanchezza
che assale gli sconfitti
gli avvolse lo stomaco.
I sensi di colpa gli tiravano gli
angoli degli occhi, gli
martellavano nelle tempie, gli stringevano il cranio in una morsa che
non
sapeva sciogliere.
«Per favore,
aiutami»
Forse lo vide. Il sussulto, la corsa
frenetica dei suoi
neuroni, il fiume di empatia in cui nemmeno sperava più.
Qualcosa attraversò il
corpo immobile davanti a lui.
Forse.
Lo vide passarsi una mano sul viso,
visibilmente combattuto.
«Va bene»
La diga tornò su. Un
po’ di acqua calda e appiccicosa gli si
staccò dalle ciglia.
La sentì cadere e perdersi
tra le foglie.
«Ma è
l’ultima volta che ti faccio un favore»
Note autrice
Mi scuso per l’attesa, so
di essere pessima. Ultimamente
sono stata risucchiata da un vortice di avvenimenti che mi hanno
portato via
molto tempo ed energie (soprattutto l’università)
quindi purtroppo ho
avuto poche occasioni di dedicarmi alla
storia. Questo capitolo non è andato esattamente come avevo
previsto, ma credo
di essere abbastanza soddisfatta di come è venuto fuori,
soprattutto perché
l’evoluzione del personaggio di Lane mi sta particolarmente a
cuore quindi ci
tengo a fornire una rappresentazione chiara e – per quanto
possibile –
emozionante dei suoi sentimenti e del suo disturbo.
Per qualsiasi cosa (insulti o dubbi o
manifestazioni di
gioia) mi trovate su twitter sotto il nick @ loveleesnake
F.
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