Il Canto Dell'Abisso

di Lady1990
(/viewuser.php?uid=89373)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Down the rabbit hole ***
Capitolo 2: *** Hidden in the shadows ***
Capitolo 3: *** Striving to fit in ***
Capitolo 4: *** Weird but cute ***
Capitolo 5: *** The ghost's riddle ***
Capitolo 6: *** Bloody lies ***
Capitolo 7: *** The puppets fair ***
Capitolo 8: *** Dangerous games ***
Capitolo 9: *** Swallowed alive ***
Capitolo 10: *** Memories and truths ***
Capitolo 11: *** Wild goose ***
Capitolo 12: *** Fear of the dark ***
Capitolo 13: *** Paradox ***
Capitolo 14: *** Coven ***
Capitolo 15: *** The song of the abyss ***
Capitolo 16: *** Delving deeper ***
Capitolo 17: *** The dance of fire ***
Capitolo 18: *** Burning soul ***
Capitolo 19: *** Couldn't hear your screams ***
Capitolo 20: *** Wolf moon ***
Capitolo 21: *** La vie en rose ***



Capitolo 1
*** Down the rabbit hole ***


Ciao a tutti!
Dunque, prima di cominciare, è bene spiegare alcune cose, perciò ATTENZIONE pliiiiiz!
 
- Spero abbiate notato gli avvertimenti “Tematiche delicate” e “Violenza”. Significa che nella storia verranno fuori argomenti come abusi, bullismo, autolesionismo, sociopatia e in generale cose macabre.
Per quanto riguarda l’avvertimento sulla presenza di scene di violenza, beh, è appunto perché ci sono scene di violenza. NON sessuale, altrimenti avrei messo l’avvertimento Non-con.
- Questa storia è slash, MA ci saranno anche coppie e scene het. Spero non vi disturbi. Non ho messo la nota “Het” perché principalmente è una storia slash. Se ritenete che debba metterlo comunque, ditemelo e provvederò.
- La città in cui è ambientata la storia me la sono inventata, non esiste sulle mappe.
- Se siete curiosi, fate un salto sulla mia pagina facebook (Lady 1990). Infatti, pubblicherò lì le foto/immagini dei personaggi, oltre alle copertine-antemprima di ciascun capitolo (fatte alla bell'e meglio con power point, non giudicatemi) pochi giorni prima di ogni pubblicazione.
 
Detto ciò, vi lascio alla lettura e spero di ricevere i vostri pareri ^^

 
 
 
 
 
 


Una sottile falce di luna rischiarava i cieli sopra Ashwood Port. Nonostante fosse agosto, la nebbia ricopriva le strade e si arrampicava sui muri, assediando gli edifici simile a un soffice muro bianco che assorbiva tutti i suoni. Non un soffio di vento accarezzava le fronde degli alberi, eppure, se ti concentravi, nel silenzio immobile potevi udire fruscii e sussurri incomprensibili. Le finestre di case, negozi e ristoranti erano buie. I lampioni, assediati da nugoli di falene, proiettavano una luce fredda sull’asfalto.
 
A est, in direzione dell’oceano, le barche ormeggiate al molo rollavano sopra le correnti, saturando l’aria umida del gentile sciabordio dell’acqua. A ovest, in mezzo ai campi e sulle colline, il terreno brulicava di insetti, mentre solitari spaventapasseri vestiti di stracci vegliavano su di loro come silenziosi guardiani. Nel bosco, che si estendeva per chilometri a sud, riecheggiò il cacofonico gracchiare di uno stormo di corvi. Nelle ombre create dai cespugli e dalle frasche, gli occhi degli animali notturni sembravano rifulgere di un bagliore sinistro.
 
Tre camion scivolarono attraverso la città addormentata, senza essere visti o sentiti. A bordo c’erano sei uomini, due per camion. Il più giovane era Harry, di appena diciotto anni, nipote del capo della ditta di trasporti “Pithers&co.”, Will Pithers. Era il suo primo incarico, ottenuto dopo mille suppliche e promesse di comportarsi con professionalità. Se non avesse combinato casini, avrebbe avuto finalmente qualcosa da inserire nel curriculum. Trovare un impiego era un’impresa eroica negli ultimi tempi.

“Wow, guarda che nebbia.” sussurrò Harry allo zio, il quale era aggrappato al volante come se fosse un salvagente, “Non ti mette i brividi?”

“È solo nebbia.” borbottò caustico zio Will, premendo il freno per diminuire ancora la velocità, dato che non riusciva a vedere niente oltre i due metri di distanza.

“Ad agosto? Sulla costa?”

“Harry, stai zitto, così mi distrai. Se ci schianteremo contro un lampione, dirò che è stata colpa tua.”

Harry si imbronciò e si accasciò sul sedile a braccia conserte. I suoi occhi non si staccarono dal paesaggio sinistro che scorreva fuori dal finestrino.

Pochi minuti dopo, con un lieve stridio di ruote i camion imboccarono un vicolo stretto e parcheggiarono nell’area di sosta sul retro dell’edificio che ospitava la Fondazione Sthenos. Era una grossa villa che si ergeva su due piani, con ampie finestre, intonaco beige e porte in legno massiccio. Aggettava direttamente sulla strada ed era affiancata da un lato da una tavola calda, dall’altro da una libreria.

Le dimensioni imponenti della villa c’entravano poco con l’architettura del quartiere, costituito da casette anguste con persiane dipinte di blu, tetto alto e spiovente e un minuscolo vialetto a separarle dal marciapiede. Un esperto l’avrebbe definita “un pugno in un occhio”, ma per gli abitanti di Ashwood Port era da anni un punto di riferimento e ne andavano fieri.

La Fondazione, infatti, era l’unico ente culturale che si occupava della conservazione dei beni storici e artistici della città. Di norma, si potevano ammirare oggetti risalenti alla Guerra Civile, come incisioni, armi, uniformi e pagine di diario di confederati defunti. Adesso lo spazio era stato sgombrato per far posto a una mostra assai inusuale.

Mezza dozzina di uomini scesero dai camion e iniziarono subito a scaricare casse di legno di diverse dimensioni. Oltre ai lampioni e ai fari delle vetture, la sola fonte di luce disponibile era data da una lanterna appesa sopra l’entrata del magazzino sotterraneo.

La silhouette di Miss Sthenos, proprietaria della Fondazione, si stagliava sulla porta. La luce che accerchiava la sua sagoma la faceva sembrare sia un’ombra nera che una santa. Se ne stava lì, rigida come una statua, a osservare gli operai tirare giù dai camion il prezioso carico. Tra le mani stringeva una cartellina e una penna stilografica.

Sotto il suo sguardo rapace, affilato come un ago, gli uomini si affrettarono a compiere il loro lavoro, astenendosi dall’abbandonarsi alle solite chiacchiere per alleggerire l’atmosfera. Incapaci di gestire o individuare la fonte del disagio che faceva accapponare loro la pelle, sapevano soltanto che prima si fossero sbrigati a finire, prima se ne sarebbero andati.

Nonostante le raccomandazioni di tenere la testa bassa e non perdersi in fantasie, Harry non poté esimersi dal gettare un’occhiata sognante all’indirizzo donna. Sembrava una dea.

“Harry.” lo ammonì con un sibilo lo zio e, per far arrivare meglio il messaggio, gli schiaffeggiò la nuca mentre gli passava accanto.

Il ragazzo borbottò delle scuse e riprese a scaricare ostentando indifferenza, anche se i brividi non sembravano intenzionati a dargli tregua. Un tenue rossore gli colorava le guance e i pantaloni si erano appena ristretti sul cavallo. Attento a non farsi scoprire, tornò a fissare la donna di sottecchi, incantato dall’aura sofisticata che emanava.

I capelli corvini erano lisci, raccolti in una crocchia ordinata sulla nuca, così da esibire la curva elegante del collo. Gli occhi di una tonalità verdognola erano incorniciati da ciglia lunghe e arcuate, mentre la bocca dipinta di rosso aveva un taglio severo, che spiccava come una ferita sanguinante sull’incarnato pallido. La giacca del tailleur nero le fasciava i fianchi a pennello, la gonna stretta le arrivava al ginocchio e i tacchi a spillo facevano risaltare ancora di più le caviglie sottili. Le dita affusolate terminavano in unghie laccate di verde. Il suo portamento richiamava quello di una nobildonna, regale e austero, e la sua voce impartiva ordini con una naturalezza che parlava di anni di esperienza.
 
Ad Ashwood Port, Miss Sthenos era nota per essere una professionista: meticolosa, intransigente, ambiziosa, acculturata. Il suo aspetto giovanile non era quello che ci si sarebbe aspettati da una donna sulla soglia dei cinquanta, come asseriva la sua patente.
 
Aveva dato vita da sola alla sua Fondazione, un anno dopo essere arrivata ad Ashwood Port. Il fatturato cospicuo che aveva tirato su le aveva permesso di instaurare contatti con parecchi colleghi e filantropi nel mondo. Costoro avevano presto imparato che Miss Sthenos valutava l’arte al di sopra di qualsiasi cosa.
 
La sua ultima ossessione riguardava dei manufatti risalenti alle prime civiltà dell’Asia Minore. Erano rimasti per almeno una decade sotto la custodia di Duke Fennelson, una mummia di quasi un secolo, talmente tirchio da far vergognare persino il più avido dei collezionisti. Dopo lunghe trattative e conversazioni tediose, nelle quali Miss Sthenos aveva dovuto dar fondo a tutto il suo fascino, Fennelson le aveva concesso l’immenso onore di esporre i suoi reperti. La maggior parte dei quali non erano stati acquisiti attraverso vie legali, ma a nessuno serviva saperlo.
 
In verità, si sarebbe accontentata di studiarli per conto proprio nelle sale del castello scozzese di Fennelson, soltanto per provare il brivido di maneggiare un oggetto creato dai primi popoli civilizzati della terra. Ma non aveva potuto dire di no quando lui le aveva proposto di organizzare una mostra ad Ashwood Port, approfittando degli spazi dell’edificio della Fondazione. Che lo avesse fatto soltanto per convincerla a passare la notte con lui non aveva alcuna rilevanza.
 
Sotto la maschera granitica, Miss Sthenos vibrava di eccitazione. Non perse di vista neanche una cassa. Se uno di quei bifolchi ignoranti fosse stato sbadato, lo avrebbe trasformato in pietra e privato della testa, per poi aggiungere quest’ultima alla sua collezione privata. Non era estesa come quelle delle sue due sorelle minori, ma ne andava fiera.
 
“Ehm, mi scusi, questa dove la metto?” le chiese Harry dopo aver raccolto il coraggio a quattro mani, accennando alla piccola cassa che reggeva fra le braccia.
 
La sua voce non tremò come aveva temuto, e di questo ringraziò Dio. Trovarsi al cospetto di quella bellissima donna stava scatenando in lui istinti strani, come il desiderio di inginocchiarsi e giurarle eterna devozione. Scosse il capo e deglutì, abbassando lo sguardo come fa un agnello davanti a un lupo, conscio di non avere scampo.
 
“Sul tavolo in fondo al magazzino.” rispose in tono tagliente.
 
Quando tutte le casse furono scaricate, gli operai batterono in ritirata. Miss Sthenos diede loro le spalle, non ritenendoli degni nemmeno di un saluto. Per questo non si accorse del ragazzo, fermo a pochi passi da lei, che la guardava con aria persa.
 
“Harry!” bisbigliò concitato zio Will, già salito sul camion.
 
Harry si voltò con un sospiro laconico e montò sul camion, che venne inghiottito di nuovo dalla nebbia non appena si rituffò in strada.
 
I tre camion e i sei uomini a bordo sarebbero stati dati per dispersi due giorni dopo. Le vetture sarebbero state ritrovate la settimana successiva, ribaltate in fondo a un crepaccio poco fuori Ashwood Port, ben lontane dalla strada. Degli operai, invece, nessuna traccia.
 
Miss Sthenos scese le scale del seminterrato ed entrò nel magazzino, dove cominciò ad aprire le casse con impazienza. Innanzitutto, confermò la presenza dei manufatti sulla lista che si era fatta spedire da Fennelson. Una volta verificato che niente mancasse all’appello, posò cartellina e penna per terra e si inginocchiò con grazia di fronte agli idoli sacri. Non si curò di indossare guanti in lattice per maneggiare i reperti, infilò direttamente le braccia nella cassa.
 
Una dopo l’altra, accarezzò le statuette, ammirandone rapita la fattura. A giudicare dall’attenzione con cui erano state conservate, era palese quanto Fennelson ci tenesse. Non era che pietra scolpita da mani umane, destinata alla morte come tutte le creazioni dell’uomo. Eppure, Miss Sthenos non poteva che trovare il richiamo che trasudava da essa ipnotico. Riusciva quasi a udire la sua voce, pregna di ricordi, parole e sentimenti.
 
La pietra poteva apparire priva calore o energia, priva di anima, a chi non ne conosceva il vero valore. Per Miss Sthenos essa era sempre viva, vibrante, rumorosa. Chi meglio di lei poteva comprendere l’intrinseco fascino di una vita imprigionata in un pezzo di pietra? Era movimento cristallizzato nel tempo per durare in eterno. A suo modesto avviso, non esisteva nulla di più bello.
 
Posò gli idoli e scandagliò le armi, gli utensili, un paio di tavolette, le ciotole e i fossili. La meraviglia minacciò di sopraffarla quando, tre ore più tardi, si accovacciò davanti all’ultima cassa, che conteneva gioielli d’oro e ninnoli vari. Li esaminò tutti col fiato sospeso e un sorriso deliziato, soppesandoli tra le mani.
 
Le lampade sul soffitto del magazzino sfarfallarono, come se fossero state vittime di un calo di tensione. Miss Sthenos fece saettare lo sguardo confuso verso l’alto e le fissò accigliata per un momento, poi scrollò le spalle.
 
Stava per richiudere la cassa, quando un oggetto attirò la sua attenzione come una calamita. Adagiata sulla paglia plastificata in mezzo ai gioielli, c’era una specie di moneta. Era un disco perfetto, intarsiato, spesso un dito e largo quanto il palmo della sua mano. Il materiale sembrava oro. I simboli incisi sopra erano qualcosa che non aveva mai visto prima. Un profano li avrebbe etichettati come simboli cuneiformi, ma Miss Sthenos aveva studiato a fondo quella scrittura e questi erano decisamente diversi. I simboli erano predisposti in sette cerchi concentrici e al centro c’era una mano stilizzata.
 
Con il pollice tastò i bordi della moneta, valutandone la durezza e consistenza, e sfiorò i fregi con i polpastrelli. Era sicura che prima non ci fosse, poiché un pezzo dall’aspetto così singolare non le sarebbe mai sfuggito.
 
Recuperò la cartellina. Sfogliando la lista, appurò che quella strana moneta non faceva parte della collezione. Quindi come ci era finita lì? Che Fennelson l’avesse inserita all’ultimo minuto per farle una sorpresa? Anche se fosse, non poteva esporla se non conosceva la sua storia. Le sarebbe piaciuto appropriarsene, ma se Fennelson gliel’avesse davvero fatta recapitare per sbaglio, l’avrebbe accusata di furto. Non poteva permettere che la sua reputazione venisse macchiata da un malinteso. La cosa più intelligente da fare sarebbe stata telefonargli e chiedergli delucidazioni, ma l’orologio segnava ormai le quattro del mattino.
 
Sbuffò e fece per riporre la moneta nella cassa, quando all’improvviso le scivolò di mano, descrivendo una piccola parabola verso l’alto. Squittì stupita e si protese per afferrarla prima che toccasse terra. La moneta planò sul suo palmo aperto per un soffio. Miss Sthenos la strinse ed esalò un sospiro di sollievo.
 
Non si accorse del taglio sul pollice, né del sangue che macchiava la moneta.
 
Le luci del magazzino si spensero di colpo, così come i lampioni in strada. Il buio la circondò e i suoni vennero divorati dal silenzio. All’esterno, la nebbia si infittì, i corvi nel bosco ammutolirono e gli insetti si rifugiarono nelle loro tane sottoterra.
 
Una mano scheletrica emerse dalla moneta, seguita da un braccio più lungo del normale, poi una spalla, una testa, l’altra spalla, l’altro braccio. Quando fu il turno del busto, Miss Sthenos strillò e mollò la presa sulla moneta. Invece di precipitare al suolo, l’oggetto rimase a fluttuare a mezz’aria. La creatura terminò di uscire e si erse sulle gambe rinsecchite. Era priva di faccia, alta almeno tre metri e tutta nera, tanto che si mimetizzava con le ombre del magazzino.
 
Miss Sthenos boccheggiò, paralizzata dalla paura. Per un breve istante le parve strano trovarsi dall’altra parte: pietrificata, benché la sua pelle fosse ancora morbida, il sangue fluisse rapido nelle vene e il cuore le battesse frenetico nel petto. Non aveva mai sperimentato un terrore così intenso e schiacciante da strapparle via il fiato.
 
Si chiese se fosse quella la sensazione che le sue vittime provavano al suo cospetto, poco prima di congedarsi dalla vita. Nella sua mente rivide le loro facce, contorte in smorfie grottesche, un grido incastrato in gola e gli occhi sbarrati di fronte all’ineluttabile fato che li attendeva. Ma, pur nella paura, possedevano una bellezza che raramente scorgeva nei viventi.
 
Un attimo dopo, le venne da domandarsi se anche lei, in quel momento, fosse bella come loro; se anche lei sarebbe rimasta cristallizzata in eterno come un idolo sacro; se anche lei, un giorno, sarebbe entrata a far parte della rinomata collezione di qualcuno che sapeva apprezzare l’arte in tutte le sue forme, e in quanto tale le avrebbe conferito l’adorazione che si riserva soltanto a una divinità.
 
La mano della creatura scattò, si avvinghiò attorno al suo collo e la sollevò senza apparente sforzo, facendola ciondolare a un metro da terra. Un tacco le si sfilò dal piede. Il tenue rumore che fece quando cadde riecheggiò per la stanza con il fragore di un tuono.
 
Miss Sthenos annaspò e artigliò il braccio a cui era attaccata la mano che la teneva sospesa. Per qualche ragione, le sue dita non riuscivano a trovare un appiglio, scivolavano continuamente come se stesse cercando di acciuffare una saponetta bagnata. Veri artigli, marroni e ricurvi, presero allora il posto delle unghie, rivelandosi però appendici inutili non appena fu chiaro che non si sarebbero mai ancorati a brandelli di carne inesistente.
 
In risposta al crescente senso di pericolo, la sua maschera umana si sgretolò. I suoi occhi brillarono nel buio, due biglie del colore dell’acqua marcia di una palude, e le labbra si stirarono su sottilissime zanne affilate dai riflessi argentei. I capelli si sciolsero dalla crocchia e divennero serpenti neri, vivi, che non esitarono a scagliarsi con sibili feroci contro il nemico per avvelenarlo attraverso i loro morsi letali. Quando si accorse che nemmeno il veleno funzionava, Miss Sthenos mostrò le zanne alla creatura, scalciò con impeto e si dimenò, invano.
 
Nell’oscurità non riusciva a vedere il suo aggressore, ma sapeva di trovarsi alla mercé di qualcosa più grande di lei. Talmente grande da ridurla a fare la figura della donna fragile e indifesa, in preda a un terrore atavico che le impediva perfino di pensare.
 
Dapprima, credette che la causa dei bisbigli che udiva risuonare nel cranio fosse la mancanza di ossigeno, ma poi registrò una voce. Era impossibile capire se fosse maschile o femminile, forse un misto delle due. L’unica certezza era che non apparteneva a questo mondo.
 
La creatura, qualunque cosa fosse, era molto più forte di lei, più cattiva, più affamata. Voleva mangiare. E Miss Sthenos, volente o nolente, le avrebbe fornito il suo aiuto.
 
Un grido le morì in gola e, nell’arco di un respiro, venne inghiottita dal buio.
 
Quando le luci si riaccesero, illuminarono le casse dei reperti e la scarpa di Miss Sthenos, abbandonata sul pavimento del magazzino deserto.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Hidden in the shadows ***









 
Camminava nel buio, il suo portamento sicuro anche se in lui non v’era un grammo di sicurezza. Un passo dopo l’altro, gli sembrava di avanzare su una superficie solida e liscia. Fredda, come fredde erano le sue ossa e il suo sangue. 

Aveva gli occhi ben aperti, vigili, nella speranza di scorgere un dettaglio qualunque a cui potersi aggrappare per non sentirsi in balia del vuoto. Ma l’oscurità, come una densa cortina di nebbia, era fitta e pesante.

Nessun suono giungeva alle sue orecchie, neanche quello del suo respiro o il battito del suo cuore, che martellava nel petto come un tamburo. 

L’angoscia gli intorpidì le membra, rallentandolo nei movimenti. Allora si fermò, deciso a non proseguire oltre. Infatti, chi mai si addentrerebbe nelle tenebre senza sapere cosa vi si annida? In ogni film horror c’era sempre il personaggio stupido che si inoltrava in qualche luogo buio e, puntualmente, veniva aggredito e ucciso dal mostro di turno. Lui non era stupido. 

Si girò e riprese a camminare. All’indietro, in avanti, di lato? Non riusciva a capirlo. Lo spazio si espandeva e restringeva come un elastico brandito da un sadico, giocando con le sue percezioni.

Ad un tratto, simile a un miraggio, una flebile luce comparve alla sua destra, la fonte ignota. Non era nemmeno una vera e propria luce, ma più un alone opaco, il cui unico scopo era delineare la forma di un grammofono. La tromba, che riluceva di barbagli dorati, poggiava su una base di legno. Su un lato c’era una manovella immobile e sul piatto un vinile che ruotava.

Si avvicinò cauto. Sapeva che la visione aveva lo scopo di distoglierlo dal proposito di uscire da quella dimensione oscura, sentiva chiaramente che era una specie di trappola, ma la curiosità vinse sul buonsenso.

Non appena gli fu di fronte, la punta di lettura si posò da sola sul disco e dei sibili ruppero il silenzio assordante. Ad essi si accompagnavano delle voci indefinite, smorzate dal gracchiare del grammofono. Dopo un po’, riuscì a cogliere frasi sparse.

 
“Stacy, sei tu?”

“Mamma…”

“Maledetto tubo.”

“Sciò!”

“Non è divertente!”

“Papà!”

“Ma che diavolo…”

“Aiutami!”

“Brutto figlio di puttana!”
 
Le voci variavano nell’inflessione, nel timbro e nel volume. La prima era femminile, giovane, probabilmente appartenente a una ragazza. Poi, a seguire, quella di un bambino. Dopo ancora un uomo, una donna, un ragazzo, una bambina, e un altro uomo e un altro ragazzo. Infine, riconobbe la propria, distorta dalla furia mentre pronunciava un insulto.

All’improvviso, tutte quante le voci iniziarono a gridare all’unisono, in un coro cacofonico che si fuse coi sibili, i quali, a loro volta, si ripiegarono su loro stessi fino a trasformarsi in una melodia dal sapore orientale, fatta di percussioni, flauti e strumenti a corde. Gli fece venire in mente un deserto rosso, uomini ricoperti di stracci seduti attorno a un falò, con volti scuri e incavati macchiati di sangue. 

In quel momento, una mano scheletrica, nera, con dita adunche e artigli emerse dal buio, simile a un moncherino. Sollevò la punta dal disco e la melodia si interruppe.

La rabbia lo pervase e mostrò le zanne alla creatura che si nascondeva nelle ombre. Pur non vedendola, ne avvertiva la presenza. L’unica cosa che riusciva a pensare era “Come osa?”. 

Si avvicinò al grammofono per rimettere la punta sul disco. Prima che potesse farlo, una forza invisibile lo acciuffò per le viscere e lo strattonò indietro.

 
“Regan, sorgi e splendi o farai tardi a scuola!”

Spalancò gli occhi di scatto. I muscoli si contrassero in uno spasmo e la gola si rilassò per permettere ai polmoni vuoti di incamerare ossigeno in un’unica, faticosa boccata.

Il primo dettaglio che registrò fu la tinta color guscio d’uovo del soffitto della sua camera, al contempo familiare e perturbante: dopo aver trascorso chissà quanto tempo nell’oscurità, quel lampo di colore, seppur tenue, gli ferì le retine e gli provocò repulsione.

Inspirò di nuovo, lentamente, come se fosse appena riemerso da una prolungata apnea, e tentò di calmare il proprio battito impazzito.

Il cervello seguitava ad aggrapparsi agli ultimi stralci dell’incubo, riluttante a lasciarli andare. Era stato agghiacciante, insensato, senza né capo né coda. Ma, in fondo, la maggior parte dei sogni era privo di senso.

La stessa immotivata e sconcertante rabbia che aveva provato nel sonno gli ribolliva nelle vene pure da sveglio. Le dita erano serrate a pugno, le nocche bianche e le unghie conficcate nei palmi.

“Regan!” lo chiamò ancora sua nonna dalle scale, la voce attutita dalla porta chiusa.

Rilassò le dita, le fletté per riavviare la circolazione e bofonchiò un pigro “Sono sveglio”.

“La colazione è pronta. Sbrigati.”

Inalò piano, avvertendo il battito del cuore rallentare mentre l’adrenalina abbandonava il suo corpo. Gli odori che permeavano la stanza si fecero strada attraverso le sue narici, contribuendo a rilassarlo e ricondurlo alla realtà. Sotto i più immediati, come quello del sudore acre appiccicato al suo pigiama o dell’ammorbidente emanato dai vestiti ripiegati sulla sedia, fiutò la polvere, l’inchiostro e la cellulosa dei libri, impilati su ogni superficie piana della camera in piccole torrette.

Il profumo di sua nonna, gelsomino e miele, saturava le tende, che lei si ostinava a maneggiare ogni mattina per aprire la finestra mentre lui era in bagno. L’odore di gatto impregnava il lato destro delle lenzuola, dalla parte del muro. Su di esse spuntavano qua e là peli neri di ovvia origine felina, incastrati nel tessuto.

Si stropicciò le palpebre, si strofinò la faccia con i palmi e si umettò le labbra. Quando il sapore del sangue gli esplose sul palato, si bloccò e sollevò la testa per esaminare la federa del cuscino. Vide macchioline vermiglie punteggiare l’area in cui la sua bocca era posata sino a pochi momenti prima. Esalò un sospiro frustrato, posò i piedi nudi sul pavimento e si stiracchiò.

Trascinatosi in bagno con l’entusiasmo di uno zombie, senza disturbarsi ad accendere la luce osservò il proprio riflesso nello specchio. Non poté fare a meno di contrarre il viso in una smorfia nel notare le occhiaie pronunciate. Parevano due grossi lividi attorno agli occhi, i quali erano di un’inquietante sfumatura metallica. Prese pure atto del sangue sbavato sul mento e sulla guancia sinistra.

Fece per chinarsi e aprire il rubinetto, quando all’improvviso scorse un’ombra scheletrica nello specchio. Era proprio dietro di lui. La posa rannicchiata, con la testa e le spalle incurvate per non sbattere contro il soffitto, la faceva sembrare più bassa di quel che in realtà era. L’ombra era immobile, così come l’aria che la circondava, dandogli l’impressione che si trovasse al centro di un buco nero.

Quando Regan si girò di scatto, si scontrò con le piastrelle del muro. Niente ombra. Sbatté le palpebre confuso e scacciò un brivido.

Si chiese distrattamente se si fosse trattato di un fantasma. Non era raro che i fantasmi gironzolassero per casa, dato che nel seminterrato si trovava il “centro operativo” dell’agenzia di pompe funebri gestita da sua nonna. Di solito, vagavano vicini al corpo finché non ricevevano l’appropriato rito funebre, dopo il quale svanivano oltre il Velo senza lasciare traccia.

Ma la sensazione che provava al loro cospetto era diversa, a cominciare dal freddo e dalla pressione sul corpo, come se fosse schiacciato da centinaia di piccoli sassi. Stavolta, invece, alla vista dell’ombra aveva provato un picco di acuta rabbia.

Inoltre, a dispetto delle credenze popolari, i fantasmi non cercavano mai un contatto. Nessuno di loro si era mai messo a fissarlo o aveva fatto capire che poteva percepirlo. Lui poteva vederli, ma loro non potevano vedere lui. Poco fa era stato diverso. Quell’ombra lo aveva messo a disagio.

Scrollò il capo. Forse l’incubo lo aveva suggestionato a tal punto da provocargli allucinazioni. Sospirò e riprese la routine mattutina da dove aveva interrotto.

Si pulì il viso, afferrò spazzolino e dentifricio e si lavò i denti. Prima di risciacquarsi, aprì di più la bocca, inclinando il capo all’indietro. Guardò nello specchio i canini dell’arcata superiore prendere la forma di due zanne affilate e le sfregò per bene con lo spazzolino. Dopo essersi passato il filo interdentale, fece i gargarismi col collutorio per eliminare il retrogusto ferroso del sangue definitivamente.

Mentre i suoi muscoli agivano col pilota automatico, ripensò al buio, al grammofono e alla mano scheletrica. Non sapeva che razza di incubo era stato. Gli aveva lasciato addosso una strana angoscia. La sua mente non aveva cessato di riprodurre “Come osa?”, come se quella domanda fosse la chiave per risolvere tutti i misteri dell’universo.

Richiamò alla memoria l’emozione che la vista di quella mano sul grammofono aveva scatenato: rabbia, pura e cruda. Si era sentito come un mastino territoriale che ringhia all’intruso.

Realizzò che non sarebbe riuscito a smettere di rimuginarci sopra per tutta la giornata. Perché il suo cervello aveva dovuto propinargli quella cosa, piuttosto che il suo sogno preferito, in cui scorrazzava per i boschi in compagnia di un lupo? Un lupo dalla pelliccia color caramello e una macchia bianca sull’occhio destro, grosso quanto un bue. Gareggiavano tra gli alberi, giocavano a nascondino, si facevano gli agguati tra i cespugli e, quando si stancavano, si raggomitolavano uno accanto all’altro con gli occhi puntati verso il firmamento, incantandosi a guardare la luna e le stelle.

Quei sogni lo riempivano sempre di pace e serenità, e al risveglio si sentiva rinato. Quando erano iniziati, esattamente tre anni prima, aveva indagato sul loro significato, ma senza ottenere riscontri plausibili. Stando ad alcuni testi, il lupo poteva essere la proiezione della sua anima, il suo animale totemico. Se così fosse, era alquanto ironico, dato che, semmai, avrebbe dovuto sognare un pipistrello.

Si spogliò per farsi una rapida doccia, poi tornò in camera con il pigiama appallottolato in una mano e l’asciugamano legato in vita. Come da manuale, sua nonna era passata ad aprire la finestra. L’aria umida di inizio settembre era a piede libero, assieme a una scia recente di gelsomino e miele. Se si concentrava, riusciva pure a cogliere l’odore di salsedine proveniente dall’oceano sotto quello dei fiori e delle piante del giardino.

Gli venne l’acquolina in bocca quando, all’improvviso, colse l’odore dei pancake. Non sarebbero stati la sua colazione, poiché aveva già fiutato l’aroma bruciacchiato dei toast che lo attendevano in cucina. Quanto avrebbe voluto bussare alla porta dei vicini e chiedere di poter favorire! Non che sua nonna non gli cucinasse mai i pancake, anzi, erano parte della colazione rituale di ogni domenica.

Inspirò ancora e tutte le fantasie sui pancake furono spazzate via dal profumino di bacon che si diffuse per tutta la casa. Deirdre era una santa.

Abbandonando l’asciugamano sul letto rifatto – sua nonna gli aveva pure cambiato la federa sporca del cuscino – indossò un paio di jeans neri, una maglietta grigia e una felpa marrone con cappuccio. Dopo aver infilato i piedi negli anfibi, raccolse lo zaino dal pavimento e ci ficcò dentro l’orario delle lezioni, un paio di quaderni e qualche penna.

Stava per lasciare la camera, quando avvertì la temperatura scendere di colpo e una familiare pressione sulle membra. Un fantasma era vicino, poteva quasi sentirlo respirare. Non per davvero, chiaro, anche se ad alcuni piaceva simulare quell’atto, quasi non avessero ancora compreso la loro nuova condizione o rifiutassero di accettarla.

Regan si voltò lentamente con una smorfia annoiata, che mutò in una scioccata appena incrociò lo sguardo pazzo di un giovane sui vent’anni. Si chiamava Matthew Doyle. Avevano celebrato la veglia giusto il giorno prima con i familiari del defunto, nella stanza apposita nel seminterrato. Era morto in un incidente. Secondo il referto, si era messo alla guida ubriaco e si era schiantato contro un lampione.

I suoi occhi azzurri erano limpidi, non invasi dalle cateratte, e il suo viso era privo dei tagli riportati nell’incidente. I vestiti erano quelli che indossava quando era morto. Se non fosse stato per il pallore, sarebbe potuto passare per vivo.

Il fatto sconcertante era che Matthew lo stava fissando dritto in faccia.

“Proteggila.”

Regan boccheggiò smarrito per qualche secondo, sperimentando un rarissimo blackout mentale.

Quando aveva capito che anche lui poteva percepirli, Deirdre gli aveva inculcato tre indiscutibili certezze: i fantasmi non parlavano, non interagivano e non erano capaci di vedere i vivi. Erano regole poste lì da qualche essere superiore che sapeva cosa stava facendo. Ergo, sicuramente si era immaginato la voce di Matthew che pronunciava la parola “proteggila”.

“Proteggila!”

O forse no.

“Proteggere chi?” balbettò incerto.

“La prenderà. Devi proteggerla.”

“Chi?”

“Lui è qui.”

“Chi?!”

“Proteggila!”

Regan stava per urlare di nuovo uno spazientito “Ma chi?!”, quando la nonna lo chiamò dalla cucina. Matthew scomparve senza emettere un suono, lasciandolo ancora più confuso. Rimase a guardare il vuoto per un minuto buono. Magari era ancora mezzo addormentato. Magari, alla fine, era davvero impazzito. Qualunque cosa fosse stata, rientrava nel regno dell’impossibile e, per questo, non era degna della sua attenzione. Non avrebbe sprecato altro tempo a dare corda alle creazioni sinistre del proprio cervello. C’era un limite a tutto.

Scese al piano di sotto con passo elefantino, senza preoccuparsi del rumore. Mentre le dita tamburellavano sulla ringhiera di legno al ritmo della melodia orientale che aveva sognato, i suoi occhi si soffermarono sulle foto appese lungo le scale. Lo ritraevano in varie pose, da quando era piccolo fino all’anno scorso, in una breve galleria di ricordi dedicati esclusivamente a lui. Deirdre non aveva voluto accogliere la proposta di Regan di crearne una soltanto per Poe, il loro gatto, e infilare in uno scatolone in soffitta quei obbrobri. Era fiera del suo nipotino e voleva ostentarlo, diceva.

La prima foto era di lui neonato, agghindato con una tutina di Batman. Poi c’era quella del suo primo giorno all’asilo, con lo zainetto di Batman e il taglio di capelli improponibile. In un’altra reggeva trionfante la pianta carnivora vinta alla fiera estiva a otto anni. Nella quarta era seduto sul divano, con un piccolo Poe acciambellato in grembo. Nella quinta aveva undici anni e teneva tra le braccia un sassofono. Nella sesta ne aveva quindici e fissava il vuoto con un’espressione indecifrabile, in piedi nel cortile della scuola, l’ultimo giorno delle medie.

Quando scorse il proprio riflesso sulla cornice a specchio, si corrucciò. C’era un ricciolo ribelle che si stagliava verticale in cima alla sua testa, sfidando tutte le leggi della fisica. Con la mano libera se lo schiacciò sul cranio e pregò che bastasse a insegnargli la disciplina.

Entrò in cucina proprio mentre sua nonna stava impiattando i toast e il bacon.

“Buongiorno, leprotto! Wow, quando ho detto ‘sorgi e splendi’ non intendevo seriamente.” disse Deirdre con velato sarcasmo, notando le occhiaie marcate e l’aura cupa che gli aleggiava sopra la testa.

Regan grugnì un saluto. Dopo aver abbandonato lo zaino a ridosso di una gamba del tavolo, si sedette con l’acquolina in bocca. Divorò la prima fetta di bacon in un baleno, ignorando i rimbrotti della nonna sul non dover mangiare come un troglodita.

Un miagolio lo distolse dalla pura estasi da bacon in cui era piombato. Si girò giusto in tempo per evitare che Poe ne acciuffasse una fetta con la zampa. Circondò il piatto con le braccia e gli mostrò i denti. Poe miagolò di nuovo, affranto. Le pupille dilatate erano fisse su Regan, imploranti e dolci, sature di promesse di amore eterno se solo lui gli avesse allungato un pezzo di quel delizioso bacon. Regan non si fece intenerire dagli occhioni del gatto, ormai abituato al teatrino da più cinque anni.

Aveva trovato Poe dentro un cassonetto una mattina d’estate, poco dopo aver finito le elementari. Si era innamorato a prima vista di quel batuffolino nero e morbido, di circa quattro mesi di vita, e non aveva esitato a portarselo a casa. All’inizio sua nonna si era opposta, ma Poe, grazie alla sua adorabilità felina, era riuscito a strisciare nelle grazie di Deirdre. Da allora non ne era più uscito, divenendo il beniamino di casa. Dire che era viziato era un mero eufemismo.

Deirdre prese Poe e lo depositò a terra, offrendogli un pezzo di bacon avanzato dalla padella. Poi andò a riporla nell’acquaio con un sorriso, fingendo di non sentire il pelo morbido del gatto strusciare sui suoi stinchi e le sue fusa soddisfatte. Si strinse nella vestaglia lilla, sollevò la tazza di tè allo zenzero che aveva lasciato sul piano cottura per servire il nipote e riprese a sorseggiarlo lentamente con aria pacifica.

Regan approfittò della distrazione di Poe per spolverare tutto il contenuto del piatto. Fatto ciò, trangugiò ad ampie sorsate il succo d’arancia corretto con due dita di sangue umano.

“Ti va di dirmi perché hai quella faccia?” indagò Deirdre dopo un po’.

“Sono emozionato per l’inizio del liceo.”

“A-ha.” commentò accigliata.

Regan la fissò impassibile e annunciò: “Chiedo il permesso di ibernarmi finché non avrò compiuto almeno trent’anni.”

“Negato.” dichiarò con un leggero sorriso divertito, “Davvero, cos’hai?”

“Ho fatto un incubo, ho visto un’ombra in bagno e un fantasma mi ha parlato.” snocciolò tutto d’un fiato.

A Deirdre andò di traverso il tè e tossì per almeno un minuto prima di riacquisire il contegno. Lo scrutò con gli occhi ridotti a fessure, per capire se la stava prendendo in giro.

“Puoi ripetere? Intendo la parte del fantasma.”

“Il fantasma di Matthew Doyle mi ha parlato mentre ero in camera.”

Le sopracciglia di Deirdre quasi si fusero con i capelli, per quanto le inarcò.

“I fantasmi non parlano, Regan. E come hai potuto vedere Matthew, se è stato sepolto ieri?”

“E io che ne so? Ha detto ‘proteggila’ e ‘lui è qui’.”

“Sei sicuro di non essertelo immaginato? Magari sognavi a occhi aperti.”

“Probabile.”

Deirdre scosse la testa e si adombrò: “Se ricapiterà, dimmelo, okay? Non è normale.”

“Il concetto di normalità è relativo. Ciò che è normale per il ragno, è caos per la mosca.” recitò a memoria.

“Quanta saggezza in quella piccola testolina!” chiocciò, sorridendo orgogliosa.

Regan roteò gli occhi e si alzò per riporre le stoviglie sporche nell’acquaio.

“E l’ombra?” tornò alla carica Deirdre.

“Credo che fosse un’eco dell’incubo.”

“Cos’hai sognato?”

“Camminavo nel buio, poi è comparso un grammofono e ho cominciato a sentire dei sibili, accompagnati da delle voci. Alla fine, quei rumori si sono trasformati in una melodia orientale. Subito dopo, una mano fatta di ombra ha messo fine alla musica.”

Regan attese paziente che sua nonna gli desse un responso. Era un’esperta nell’interpretazione dei sogni, ci azzeccava quasi sempre. Perciò, quando la vide rannuvolarsi e fissare il vuoto in lontananza, si preoccupò.

“Ritieni che sia un presagio di morte?”

“Tutto è un presagio di morte, leprotto. Cambiano solo la modalità e la vittima.”

“Giusto. E allora?”

“Qualcuno morirà.” enunciò solenne.

“Grazie, adesso sono più tranquillo.” borbottò sarcastico.

Deirdre gli si accostò, condusse una mano tra i disordinati riccioli neri, più lunghi sulla parte alta del cranio, e gli stampò un bacio sulla fronte.

“Stasera ti cucinerò il tuo piatto preferito, che ne pensi?”

Regan drizzò le antenne: “Bistecca?”

“Appena scottata, come piace a te.”

Regan le scoccò un piccolo sorriso e l’abbracciò, inalando l’odore di gelsomino e miele che la sua pelle sprigionava.

Deirdre si scostò e gli acconciò un paio di riccioli. Schioccò la lingua con crescente irritazione quando il ciuffo ribelle rimase nella sua posizione verticale. Si leccò le dita e fece per infilarle nella chioma corvina del nipote, solo per venire fermata da uno squittio orripilato.

“Non osare. Se lo farai, straccerò il nostro contratto di reciproco affetto e smetterò di farti da cavia per gli intrugli che spacci per tisane rilassanti.” dichiarò gelido.

“Sono tisane rilassanti!”

“Convinci il mio stomaco.”

“E poi ti ricordo che da piccolo mi hai riempito di saliva tonnellate di vestiti. Mi sono mai lamentata?”

“I neonati hanno il sacrosanto diritto di sbavare dove vogliono. Non puoi incolparmi di questo! Tu, invece, dovresti essere una persona adulta e le persone adulte non vanno in giro a infilare mani bavose nelle chiome altrui.”

Deirdre sospirò teatrale e sventolò una mano in direzione della porta: “Va’. Il pranzo è sul tavolo dell’ingresso. Ti ho versato dieci gocce di sangue nella borraccia dell’acqua.”

“Grazie, nonna.”

“Passa una bella giornata. Ti voglio bene, leprotto.”

“Anch’io. A più tardi.”

Regan raccolse il pranzo, appurò di avere dietro portafoglio, chiavi e cellulare e si caricò lo zaino sulle spalle. Prima di chiudere la porta, udì sua nonna accendere lo stereo. Un attimo dopo, la voce di Evelyn Knight che cantava Lucky, Lucky, Lucky Me si diffuse per tutta la casa. Regan non amava particolarmente quella canzone, perché una volta che gli entrava nel cervello non ne usciva più. Mentre scendeva le scale della veranda, si mise a fischiettarla senza rendersene conto.

Guardandosi intorno, inspirò a fondo gli odori con i quali era cresciuto. Fiutò subito i gerani sui davanzali delle finestre del salotto e la siepe di viburno che delimitava i confini della proprietà, separandola, assieme a una staccionata di legno, a sinistra da quella dei Thompson e a destra da quella dei Davis. Ai lati della rampa di scale del portico c’erano cespugli di petunie rosa, mentre sul lato destro del vialetto si ergevano due piccole catalpe. L’erba, tosata ad arte da Regan solo una settimana prima, appariva come un soffice letto verde e uniforme. Il giardino sul retro era invece circondato da una fitta siepe di maonie, da sempre l’invidia più grande della signora Greenwood.

La signora Greenwood abitava dall’altro lato della strada da quando Regan ne aveva memoria. Con i suoi novant’anni suonati, si trascinava in su e in giù per il portico a tutte le ore del giorno, avvolta in vestaglie eccentriche e foulard vistosi, con una tazza di tè in mano. Spiare i vicini era il suo passatempo preferito, come lo era criticare i loro giardini o le loro abitudini. Talvolta, Regan l’aveva scorta impugnare persino uno di quei binocoli di solito usati dalle ricche signore a teatro.

Tra tutti i residenti della strada, solo Deirdre godeva del favore della vecchia signora, avendolo vinto anni prima grazie proprio a quelle maonie, che restavano rigogliose e colorate in ogni stagione. La signora Greenwood le aveva domandato spesso quale fosse il segreto per ottenere un giardino tanto bello. Deirdre rispondeva puntualmente “Magia, signora Greenwood”, con un sorriso enigmatico e un tono a metà tra il serio e il faceto. La signora Greenwood allora la invitava a prendere il tè e a sparlare dei vicini.

Regan la salutò distrattamente e non si stupì quando lei, già seduta sulla sedia di vimini sul portico, assottigliò sospettosa le palpebre. Non era un segreto che Regan non le stesse molto simpatico, perché, a suo avviso, “era troppo pallido per essere umano”. Oh, non ne aveva la minima idea, la cara signora Greenwood.

Regan issò la bici dal manubrio, aspettando a salirci finché non arrivò in fondo al vialetto. Passò accanto alla targa che recitava “Pompe funebri McLaughlin” e, dopo aver richiuso con cura il cancellino, pedalò deciso verso il liceo continuando a fischiettare.

Sfrecciando sui marciapiedi e in mezzo alle macchine, lanciò un’occhiata in direzione del parco del quartiere, dove gli operai stavano terminando di smantellare uno dei palchi che avevano ospitato vari musicisti per il festival del jazz, avuto luogo la settimana scorsa. Ashwood Port condivideva quell’evento assieme alla vicina Salem. I musicisti, prima di riprendere il viaggio verso Boston, passavano sempre da lì.

Anche quell’anno, la festa era stata un enorme successo. Regan ci era andato quasi tutte le sere con sua nonna. Passeggiando per le strade affollate con un cono gelato in mano, si erano fermati presso diverse contrade e stand per ascoltare i musicisti riempire l’aria di note con i loro sassofoni, trombe, contrabbassi, pianoforti e percussioni.

L’ultimo giorno, al tramonto, c’era stato un concerto al porto, seguito da fuochi d’artificio. Cinque diverse band si erano sfidate a colpi di musica dalle barche, distanti circa una cinquantina metri dalla riva, intrattenendo il pubblico con una sorta di staffetta sonora degna degli elogi che la stampa aveva loro dedicato. La sfida consisteva nel tentare di indovinare e riprodurre una canzone solo dalle poche note che una band accennava. La prima partiva e le altre quattro dovevano raccogliere il testimone, rilanciando alla fonte le note giuste, in modo che la band iniziale potesse reinserirsi nell’esibizione e stupire gli spettatori. Se la cosa non riusciva, i giudici squalificavano la band che aveva mancato di rispondere alla “chiamata musicale” e interrotto la catena.

Il festival era una ricorrenza che Regan apprezzava molto, avendo assorbito fin da bambino il gusto per il jazz da sua nonna, una vera intenditrice. Ben tre scaffali della libreria del salotto straripavano dei vinili che Deirdre aveva collezionato durante la giovinezza.

Da qualche giorno, al posto dei manifesti del festival avevano affisso cartelloni che pubblicizzavano una mostra sull’Asia Minore presso la Fondazione Sthenos. Una mostra del genere era insolita per una città come Ashwood Port. I giornali locali ne parlavano con scetticismo, come anche i marinai e le famiglie che discendevano dai confederati morti lì, da sempre orgogliosi del loro retaggio storico affisso sulle pareti della Fondazione. Sostituire i simboli del patriottismo di Ashwood Port con chincaglierie primitive era stato percepito come un rifiuto verso la tradizione. Nonostante il malcontento generale, in molti avevano già comprato il biglietto.

Il tragitto verso scuola durò circa un quarto d’ora. Regan non dovette mai sostare a riprendere fiato, forte del sangue consumato a colazione. Fece comunque attenzione a non esagerare: se avesse sottoposto il corpo a uno sforzo prolungato, l’effetto energizzante sarebbe svanito presto.

Non appena giunse innanzi all’edificio, si preparò psicologicamente. Avrebbe rivisto parecchi dei suoi vecchi compagni delle medie, i quali non erano esattamente suoi fan. Regan sapeva che opinione avessero di lui. Il fatto che da piccolo se ne fosse andato spesso in giro dicendo che vedeva i fantasmi non aveva certo giovato alla sua reputazione.

Più che altro, era stato il suo temporaneo ritiro da scuola “per motivi di salute”, durante il primo anno delle medie, a renderlo famoso. C’era chi affermava che fosse un malato terminale e gli rimanesse appena qualche settimana di vita, chi era convinto che facesse uso di droghe e chi raccontava di averlo visto deambulare di notte nel cimitero, in cerca di cervelli freschi. Il punto era che alcuni ci credevano sul serio, a causa del lavoro di Deirdre.

Dopo circa sei mesi di assenza, era tornato. Al contrario dei docenti, che si erano dimostrati comprensivi, alcuni compagni erano diventati ancora più meschini. Il suo armadietto aveva subito atti vandalici almeno una volta a settimana; i suoi libri e quaderni erano soliti sparire nel nulla, se solo si distraeva; nello spogliatoio, dopo l’ora di educazione fisica, la sua roba finiva sempre ammonticchiata nelle docce. Non era stato per niente facile far buon viso a cattivo gioco.

Regan osservò la bolgia di studenti assiepati nel cortile, che si stava pian piano riempiendo di macchine, motociclette e bici. Inalò l’odore del loro sangue, fu più forte di lui. Rabbrividì e si morse un labbro quando percepì la salivazione aumentare. Allora, in una mossa dettata dall’abitudine, serrò i denti, chiuse gli occhi e richiamò alla memoria l’essenza di gelsomino e miele di sua nonna, la sua ancora all’umanità.

All’improvviso, però, un ricordo oscuro emerse dai recessi della coscienza e lo aggredì prima che potesse respingerlo.

L’aria venne squarciata da un sibilo e uno schianto secco riecheggiò nel silenzio. 

Un gemito acuto proruppe dalle sue labbra martoriate.

“Devi abituarti ad associare la sete al dolore, leprotto. È l’unico modo.”

“Ti prego… basta…”

I suoi polsi erano legati dietro lo schienale della sedia tramite delle spesse corde. Non indossava niente, eccetto le mutande.

La lampadina appesa al soffitto dondolava pigramente, proiettando ombre sinistre sulle pareti. Sembrava prediligere quella di una donna che torreggiava su un bambino. Aveva i capelli raccolti in una crocchia, il corpo fasciato da un vestito e le mani serrate attorno a un frustino. 

Esso si abbatté sui muscoli e sulle ossa con più vigore, dipingendo sulla pelle linee rossastre che si rimarginavano in pochi minuti.

Per ore, giorni, settimane, mesi, i soli rumori udibili in quella maledetta soffitta furono lo schiocco del frustino sulla carne, i suoi rantoli e il respiro affaticato di Deirdre.

Scrollò il capo con veemenza. Aveva sigillato ricordi simili nello speciale caveau che aveva costruito nella sua mente, all’interno di una fortezza impenetrabile. Quello spazio era necessario per contenere la pazzia e le tenebre e impedir loro di avvelenarlo un’altra volta. Certi scrigni era meglio tenerli chiusi, sua nonna glielo diceva sempre.

Si accorse che le mani gli tremavano, così le strinse a pugno e si mise a contare. I battiti del cuore rallentarono e il respiro si regolarizzò. Alzò lo sguardo, focalizzandolo dinanzi a sé con rinnovata determinazione.

Intravide Gregory, Kevin e Derek appoggiati al muro accanto alla porta, intenti a chiacchierare fra loro. Esalò un sospiro seccato e piegò le labbra in un broncio. Quei tre erano apparsi nella sua vita al secondo anno delle medie e l’avevano trasformata in un piccolo inferno. Non lo entusiasmava l’idea di venire preso di mira dai bulli pure quell’anno, si era ripromesso che il liceo sarebbe stato un nuovo inizio. Perciò si impose di non cedere al pessimismo e cercò, piuttosto, di incanalare la Deirdre che era in lui.

Un clacson gli perforò i timpani, distogliendolo bruscamente dalla meditazione. Sterzò a destra di scatto e per poco non inciampò in una coppia di studentesse.

“Ma che diavolo fai? Sta’ attento!” gli urlò dietro una delle due.

“Che imbranato.” lo schernì l’altra.

Regan le guardò allontanarsi. Non appena furono fuori portata d’orecchio, fece loro il verso, da adolescente maturo quale era.

Parcheggiò la bici lungo la transenna apposita, la assicurò con il lucchetto e si aggiustò lo zaino sulla spalla. Si prese qualche momento per studiare meglio il cortile affollato. Riconobbe molti studenti, ma con sollievo notò anche delle facce nuove. Forse il liceo non sarebbe stato così male.

Si ripeté di essere paziente, educato e zen, e marciò a testa alta verso l’entrata. Con un po’ di fortuna, quel giorno non avrebbe sbranato nessuno. Voleva fare una buona impressione e rendere fiera sua nonna, dimostrandole che, pur essendo un mostro, sapeva comportarsi civilmente.

Estrasse dalla tasca esterna dello zaino l’orario delle lezioni, completo del numero e codice del suo armadietto. Ci si diresse subito e lo aprì, per poi ricordarsi di non avere ancora niente da metterci dentro. Fissò intensamente il comparto vuoto per qualche secondo. Quando si stufò, lo richiuse con uno scatto secco.

Il ragazzo che sostava di fronte all’armadietto accanto al suo sussultò per lo spavento e fece cadere un libro dalla pila che reggeva tra le braccia. Regan lo squadrò con un sopracciglio inarcato, notando subito la cicatrice a forma di mezzaluna sul mento. Non gli era familiare.

Il ragazzo deglutì, pallido come uno spettro, poi si sforzò di abbozzare un timido sorriso, che creò delle fossette sulle guance rubizze. Regan lo fissò negli occhi finché non vide quel sorriso morire e il viso divenire ancora più pallido. Siccome fare amicizia con uno sfigato non era nella sua lista, gli diede le spalle e marciò spedito verso l’aula di Storia.

Nell’aula c’erano già due studenti. Uno era seduto a uno dei banchi in fondo e l’altro in prima fila, davanti alle finestre. Regan prese posto nella fila centrale, a ridosso del muro, e attese l’arrivo del professore giocando sul cellulare.

Durante il monologo noioso del professor Schulz, scarabocchiò sul quaderno fingendo di prendere appunti. Ce la stava mettendo tutta per ignorare le occhiate e i commenti sussurrati dei compagni di classe – come anche l’odore delizioso del sangue che scorreva nelle loro vene, caldo, denso e succoso – ma non era colpa sua se quegli scemi non sapevano cosa fosse l’arte della discrezione. Se volevano sparlare di lui, che lo facessero con i classici bigliettini!

“Dio, fa paura. Sembra che sia appena risorto dalla tomba.”

“Guarda piuttosto come si veste! Mi sanguinano gli occhi.”

Regan si voltò e ghignò all’indirizzo delle due ragazzine dietro di lui. Quelle sbiancarono e abbassarono lo sguardo, fingendo di ascoltare il professore blaterare di guerre e invasioni.

Schulz assegnò loro un progetto da presentare entro dicembre, che sarebbe valso il trenta percento del voto finale, e al suono della campanella li congedò con un cenno annoiato della mano.

Dopo Storia, Regan si diresse a Francese e poi a Matematica. Prima di pranzo aveva un’ora buca, che trascorse in biblioteca, nascosto tra gli scaffali di una sezione raramente frequentata, a portarsi avanti con i compiti. Buttò pure giù una scaletta di argomenti per il progetto di Storia, per il quale si doveva scegliere un personaggio storico importante che aveva vissuto o era morto ad Ashwood Port e paragonarlo ad una delle personalità politiche o intellettuali dei loro tempi.

Mangiò il panino che gli aveva preparato la nonna e bevve metà dell’acqua nella borraccia. Era una borraccia da campeggio, non la tipica bottiglietta di plastica, perché il colore lievemente rosato dell’acqua avrebbe potuto suscitare sospetti o curiosità.

Nel pomeriggio si recò a Letteratura inglese e Latino e, in men che non si dica, l’ultima campanella suonò, segnalando la fine delle lezioni. Gli studenti si riversarono fuori dalle aule, chiacchierando e scambiandosi pareri su professori e carico di lavoro.

Regan li ascoltò distratto mentre percorreva il corridoio, la mente ancora focalizzata sulle declinazioni latine. La zaffata di sudore e fritto che gli accarezzò le narici dopo pochi passi annunciò in anticipo la persona che la emanava, dandogli così la possibilità di prepararsi allo scontro.

“Ciao, zombie.”

Levò gli occhi al cielo e proseguì senza girarsi. Quella scena si ripeteva uguale a se stessa da due anni e, francamente, Regan stava cominciando ad annoiarsi. Aveva sperato che al liceo il trio di bulletti avrebbe trovato altri interessi, altri ragazzi da tormentare, ma a quanto pareva non erano ancora pronti a dire addio alla loro vittima prediletta.

“Ti ho salutato, zombie, non è carino ignorare le persone. Mammina non te l’ha insegnato? Oh, già, dimenticavo… non ne hai una!”

Regan si fermò e si voltò lentamente per soppesare con lo sguardo i tre ragazzi che lo avevano accerchiato. Gregory era il capogruppo, l’istigatore. Era alto e tendente all’obesità, con una zazzera informe di capelli color carota, un viso tondo costellato di lentiggini e occhi porcini. Se avesse passato più tempo in palestra invece di strafogarsi di schifezze, avrebbe avuto il potenziale per diventare un culturista. Kevin era il suo galoppino più fedele, alto come Gregory, ma molto più magro e dall’aria perennemente annoiata. Possedeva lineamenti asiatici, occhi e capelli neri e labbra carnose.

Per quanto riguardava Derek, Regan ancora non sapeva come inquadrarlo. Sembrava il classico biondino presuntuoso, ma talvolta era capitato che prendesse le sue difese quando Gregory esagerava. Era atletico quanto bastava per riempire la sua giacca di pelle e leggermente più basso dei suoi due compagni, con un’espressione seria sempre stampata in faccia.

“Sei così originale, Gregory, qualcuno dovrebbe darti un premio.” commentò sarcastico, per poi squadrarlo da capo a piedi, “Wow, hai decisamente preso qualche rotolo durante l’estate. Somigli sempre di più a una palla di lardo.”

“Che cosa hai detto?”

“Ho detto che sei una palla di lardo.”

“Come osi, piccolo mostr-”

Regan era stufo marcio. Quel giorno non era iniziato nel migliore dei modi e non aveva alcuna voglia di avere a che fare pure con un ritardato come Gregory.

“Gregory, ascoltami bene, perché non lo ripeterò.” lo interruppe in tono secco.

I suoi occhi gelidi erano fissi sul bullo, il quale rabbrividì e compì un passo indietro, la bocca socchiusa in una piccola “o”. Nessuno poteva biasimare il suo stupore, dal momento che Regan non gli aveva mai rivolto davvero la parola, se non per ricambiare i suoi insulti. Le loro interazioni, di solito, cominciavano con frecciatine cattive, seguite da colluttazioni violente in vicoli o aule vuote, e finivano con i tre bulli che se ne andavano via zoppicando e con l’ego malconcio.

“Finora non ti ho privato delle viscere solo perché mia nonna non approverebbe.” scandì malevolo, “E anche perché, se finissi in galera, lei ne soffrirebbe. È anziana e non voglio causarle ansie o dispiaceri, non se lo merita. Ma se continuerai a regalarmi le tue moleste attenzioni, potrei decidere di spedirti tre metri sottoterra. Non proverei alcun rimorso, te lo garantisco, né ci perderei il sonno. Inoltre, ti ricordo che possiedo i mezzi per occultare un cadavere e farla franca. Sei sicuro di voler continuare a provocarmi?”

Prima che potesse fermarle, numerose immagini di cosa avrebbe fatto a Gregory se lo avesse avuto alla sua mercé gli invasero la mente. Gregory era di grossa taglia, come un maiale ben nutrito e più che maturo per il macello. Con così tanta carne, di certo ci sarebbe stato altrettanto sangue, abbastanza per placare la sua sete per mesi. Come sarebbe stato azzannarlo e succhiare fiumi di calda linfa vitale per giorni e giorni, senza alcuna paura di esaurirla in pochi istanti?

Brividi di piacere gli attraversarono la spina dorsale in piccole scosse elettriche, facendogli martellare il cuore nel petto e aumentare la salivazione.

Lo avrebbe incatenato in soffitta e imbavagliato, per evitare che le sue urla attirassero attenzioni indesiderate. Si sarebbe preso cura del suo corpo lavandolo e cibandolo, così da mantenerlo pulito e in forze, come si fa con un eccellente capo di bestiame. Ogni volta che gli fosse venuto un languorino, sarebbe salito in soffitta per affondare i denti nella carne flaccida, riempiendosi la bocca del suo sangue ricco e corposo. Le sue orecchie si sarebbero godute la sinfonia dei suoi gemiti di dolore, allo stesso modo in cui un critico di musica si incanta all’udire i gorgheggi di un soprano.

Lo avrebbe reso suo schiavo, per il resto della sua miserabile vita.

Il suo succulento maialino.

Concitati sussurri squarciarono la beatitudine della fantasia in cui era precipitato, riportandolo alla realtà. Alcuni studenti si erano fermati a origliare la loro conversazione, occhieggiandoli con interesse misto a timore, senza osare intervenire.

Regan represse a stento un ringhio infastidito e tornò a fissare Gregory e i suoi due compagni.

“La proposta che ti faccio, con un grande sfoggio di misericordia che dovresti apprezzare, è di inaugurare l’anno iniziando a ignorarci a vicenda. Ti piace l’idea? Oppure, potrei esaudire il tuo più intimo desiderio, cioè pestarti fino a renderti irriconoscibile e seppellirti vivo in giardino. Decidi tu.”

Gregory boccheggiò, palesemente scioccato e a corto di parole. Poi piegò le labbra in una smorfia minacciosa, spingendosi tanto in là da mostrargli persino i denti – come se quei dentini lisci e rotondi potessero spaventarlo – e sollevò un braccio per colpirlo.

Kevin gli afferrò il polso e lo fermò in tempo: “Greg, ci sono i professori. Lascia stare.”

Regan ghignò e gli fece il verso: “Sì, Greg, lascia stare. Vai a rintanarti dietro la sottana di Kevin.”

Gregory divenne rosso di rabbia al sentirsi umiliare in quel modo, ma non poteva reagire come desiderava perché erano in pubblico. Digrignò i denti e strinse i pugni, superando Regan con una spallata.

Regan non andò giù come un birillo solo perché il muro di armadietti glielo impedì. Aspettò che il trio si allontanasse, poi sbadigliò e riprese a camminare verso l’uscita, incurante dei mormorii che si lasciava dietro.

Un gruppo di cinque ragazzi appartenenti alla squadra di football gli passò accanto ridendo e scherzando, senza degnarlo di uno sguardo. Regan li udì parlare di una festa organizzata per quel sabato, per celebrare l’inizio della scuola. Si sarebbe tenuta a casa di Charlotte Wilson. Regan la conosceva solo di vista. Era molto carina, con lunghi capelli lisci e castani, occhi scuri e un fisico da modella. Aveva quindici anni ed era al primo anno come lui, avendo terminato le medie insieme.

“Secondo me, è un’ottima mossa.” commentò uno, “Le selezioni per cheerleader sono la prossima settimana. Se la festa avrà successo, Lorie sarà più propensa ad accettarla tra le sue reclute. È un metodo perfetto per mettersi in mostra e leccare il culo a chi comanda.”

“Se si deve parlare di culi, Charlotte ne ha uno niente male. Non mi dispiacerebbe darle una bottarella.” disse un altro, unendosi alle risate dei compagni.

Come evocata, Charlotte uscì dal bagno delle ragazze proprio mentre ci passava davanti. Regan si scansò per evitare di caderle addosso, ma lei non parve notarlo. Stava chiacchierando con la sua migliore amica, Jennifer Dawry, a proposito della festa, a cui erano invitati tutti ufficialmente, ma a cui solo i più popolari avrebbero partecipato.

Regan non era mai stato invitato ad alcuna festa. E i suoi compleanni li aveva passati esclusivamente in compagnia della nonna, con l’aggiunta di Poe negli ultimi cinque. Era un po’ lo svantaggio di non essere una persona estroversa che sprizza gioia di vivere da tutti i pori.

A volte non poteva fare a meno di chiedersi che cosa si stesse perdendo. Quando permetteva ai propri pensieri di vagare, si immaginava seduto in mezzo ai popolari, vestito bene, con un sorriso sulla faccia e gli sguardi di approvazione puntati addosso. Poi si ricordava di essere un mostro e tutte le sue fantasie crollavano come un castello di carte.

Sospirò, infilò le mani nelle tasche dei jeans e si diresse verso la bici per tornarsene a casa.

Non appena girò la chiave nella toppa e aprì la porta, Poe sfrecciò fra le sue gambe e si tuffò nella siepe di viburno, sparendo alla vista. Regan scrollò una spalla, abituato alla scena. Sul far della sera, il gatto sarebbe ricomparso con un topolino morto in bocca e glielo avrebbe offerto in segno di pace. La dolcezza fatta pelo.

La casa era vuota e immersa nella penombra. Salvo per il ticchettio dell’orologio a muro e il ronzio del frigorifero, il silenzio ammantava ogni stanza.

Inarcò un sopracciglio quando scorse la sagoma di Larry Carter, il postino del quartiere, in piedi in mezzo al salotto. Per una frazione di secondo fu tentato di domandargli cosa ci facesse lì, ma, rendendosi conto del freddo che aleggiava intorno a sé, richiuse la bocca con uno schiocco. Doveva essere morto in giornata, e il suo corpo, senza dubbio, si trovava nel seminterrato, in attesa di venire preparato per il funerale.

“Riposa in pace, Larry.” bisbigliò dandogli le spalle, salì le scale e si rifugiò in camera.

Un’ora più tardi, terminati i compiti, chiuse i libri e si stiracchiò. Guardò apatico il cielo color indaco dalla finestra, la mente sgombra da ogni pensiero, finché non cominciò ad annoiarsi. Raggiunse il letto in due falcate, si mise le cuffie, afferrò il blocco da disegno e con una matita tracciò le prime linee delle orecchie del lupo dei suoi sogni.

In pochi minuti aveva già una prima bozza della testa. Ponderò se continuare subito con il corpo. Alla fine, decise di concentrarsi sull’espressività degli occhi. Erano gialli, con pagliuzze nere intorno alla pupilla. Quegli occhi comunicavano sempre così tante emozioni che Regan non poteva fare a meno di chiedersi se, dietro al pelo e alle fattezze lupesche, per caso non si celasse una persona.

Alle sei sentì la porta di casa aprirsi. Si tolse le cuffie, sbadigliò e mise da parte il blocco da disegno con un grugnito stanco. Stropicciandosi gli occhi, scese a salutare sua nonna, la quale stava appendendo borsa e cappotto all’attaccapanni dell’ingresso.

“Ciao, leprotto! Com’è andato il primo giorno?”

Regan sbuffò e andò a spaparanzarsi sul divano. Emise un lamento quando la molla gli si conficcò nel gluteo sinistro. Quella dannata cosa era rotta da cinque mesi, che ci voleva a imprimerselo in testa? Pazienza, ormai era lì e non si sarebbe spostato. Stese le gambe e poggiò i talloni sul tappeto, afflosciandosi sui cuscini come un sacco di patate.

Deirdre serrò le labbra, forse per trattenere un sospiro o un sorriso amaro. Regan la sentì sedersi con calma accanto a lui. Il vestito viola le svolazzò attorno alle ginocchia e il golfino bianco si tese sul seno, mettendo a dura prova la resistenza dei bottoni. I capelli rossi legati in una crocchia incorniciavano il suo viso tondo e pallido, illuminato da due occhi scuri e gentili, che avevano sempre il potere di ricordare a Regan quanto quella donna lo amasse.

“Hai almeno provato a parlare con qualcuno?”

“Ho scambiato due chiacchiere con Gregory.” bofonchiò a braccia conserte, il mento premuto sul petto e i riccioli neri a coprirgli metà faccia.

“Hai di nuovo fatto a botte?”

“No, l’ho solo minacciato di morte.”

“E a parte questo?”

Regan fece spallucce. Deirdre, stavolta, esalò un sospiro afflitto.

“Se neanche ci provi, come puoi sperare di riabilitare la tua reputazione?”

“Ormai credo sia irrecuperabile.”

“Se non dimostri che si sbagliano, non puoi pretendere che cambino opinione.”

“E come dovrei fare?” sbottò in tono petulante, per poi chetarsi e mettere il broncio, “Nah, non importa. Non ho bisogno di nessuno.”

Deirdre gli accarezzò i riccioli e sorrise, una punta di tristezza nello sguardo.

“Devi solo avere pazienza. È stato il primo giorno, ne seguiranno altri. Le occasioni arriveranno.” gli disse, sempre così ottimista e piena di luce, “Vedrai che tutto si aggiusterà.”

Regan aveva un rapporto di amore-odio con quelle parole. La nonna gliele aveva ripetute sino alla nausea mentre attraversava la più terribile crisi di astinenza della sua vita, incatenato in soffitta, fuori di testa per la sete di sangue che gli bruciava lo stomaco e la gola. Ma, in effetti, col tempo le cose erano tornate alla normalità.

Per quanto fosse normale un’esistenza da mezzo vampiro.

“Ho visto Larry.” mormorò cambiando argomento, “Cioè, il suo fantasma. Deduco che la tua interpretazione del mio incubo si sia rivelata ancora una volta accurata.”

“Le persone muoiono tutti i giorni, leprotto. Non è detto che Larry sia legato a ciò che hai sognato.”

“Beh, allora noi diciamo che lo è e festa finita, non dovremo più preoccuparci.”

Deirdre sbuffò e gli assestò una leggera pacca sulla coscia: “Non funziona così, lo sai.”

Regan osservò la nonna alzarsi e sparire in cucina, lasciandosi dietro una scia di gelsomino e miele.

Poe si materializzò ai suoi piedi cinque minuti più tardi, un topo morto stretto in bocca e l’espressione più compiaciuta che un felino potesse esibire.

“Oh, qual grazioso dono mi porti, mio prode felino. Tu sai proprio come sciogliere il mio cuore di ghiaccio.” mugugnò con voce piatta.

Quasi lo avesse compreso, Poe sputò il topo sul tappeto, gonfiò il petto e miagolò.

Quella notte Regan sognò il lupo, con suo grande sollievo. Corsero per il bosco finché il loro respiro non divenne affannato e le loro gambe non cominciarono a dolere. Dopo la corsa, si sdraiarono sulla soffice erba della radura e rimasero a osservare il cielo stellato, godendo della rispettiva compagnia.

La mattina seguente, seduto a tavola di fronte al solito succo d’arancia corretto e due toast ricoperti di burro e marmellata di fragole, Regan sperò che il buonumore durasse per il resto della giornata. Sua nonna stava sorseggiando il tè in piedi, in vestaglia e pantofole, mentre Poe faceva le fusa per ingraziarsela e ottenere qualcosa in cambio. Cosa, di preciso, a nessuno era dato saperlo.

“Dormito bene, leprotto?”

“Sì, grazie. Niente incubi.” rispose e si avventò sul cibo.

“Come mai così affamato? Vuoi altri toast?”

Regan puntò lo sguardo di ghiaccio su di lei. Lo fece scivolare dal viso al collo, dove poteva fiutare l’aroma divino del sangue che scorreva al di sotto della pelle, nella vena pulsante. Gli venne l’acquolina in bocca. Senza accorgersene, si umettò le labbra secche.

“No, Regan. La tua razione mattutina è nel succo. Poi ho versato qualche goccia nella borraccia. Stasera avrai altre due dita. Sai che non devi esagerare.” lo redarguì Deirdre.

Regan abbassò il capo, sentendo le guance imporporarsi per la vergogna. La nonna gli donava quotidianamente quattro dita al giorno in totale, non un millilitro di più. Era la dose minima per mantenerlo in forze e la massima per non risvegliare il mostro.

Deirdre indicò la colazione sul tavolo: “Mangia o farai tardi.”

A scuola, le lezioni furono noiose, eccetto per le lingue straniere. Regan non era stato molto sicuro della sua scelta, all’inizio, ma ora stava sviluppando una certa passione per il latino.

Educazione fisica fu estenuante. La sua classe fu costretta a compiere un riscaldamento di circa mezzora e, per quella restante, l’allenatore li divise in squadre per giocare a palla avvelenata. Regan si beccò una pallonata nello stomaco dopo dieci minuti e venne messo in panchina. Non che non fosse agile o non possedesse i riflessi, ma il sangue consumato a colazione non gli aveva dato la giusta carica per gestire tutto quello sforzo. Di recente gli sembrava di aver perso forze, a dire il vero.

Mentre beveva l’acqua dalla borraccia, osservando i compagni lanciarsi la palla e correre da una parte all’altra del campo, decise che quella sera avrebbe provato a chiedere alla nonna di aumentare di un dito la dose giornaliera. D’altronde, stava crescendo. Le dosi che andavano bene prima che entrasse nella pubertà forse non erano più sufficienti a sostenerlo. Che male c’era a fare un tentativo?

Subito dopo aver pensato di estorcere altro sangue all’unica persona che conosceva il suo segreto e lo amava comunque, si sentì tremendamente in colpa. Deirdre non era la sua personale sacca di sangue, ma la sua famiglia. Non poteva essere egoista e obbligarla a dargli più di quanto lei potesse concedere senza svenire o ammalarsi. Doveva riuscire a farsi bastare la dose attuale, in qualche modo.

Quando l’ultima campanella suonò, Regan raccolse libri, quaderni e penne e si immerse nel fiume di studenti che scorreva lungo i corridoi, chi diretto verso l’uscita, chi all’armadietto.

Gregory e la sua cricca non si fecero vivi. Che avessero deciso di seguire il suo consiglio? Regan era alquanto scettico. E un po’ deluso, doveva ammetterlo. In fondo, lo avevano aiutato a sfogare lo stress per anni. Si era affezionato alla sensazione che gli dava prenderli a pugni e avvertire le loro ossa scricchiolare sotto le sue nocche.

Fece una sosta in bagno per rinfrescarsi e si diede qualche schiaffetto sulle guance. Si sentiva intorpidito, come se si fosse appena svegliato da un sonno lunghissimo, o come se non dormisse da altrettanto tempo. Quando uscì, si accorse che il corridoio era vuoto. Lo percorse a passi lenti e strascicati, ciondolando come uno zombie.

Un gruppo di quattro cheerleader gli passò a fianco, dirette al campo d’allenamento. Regan, al suono dei loro cuori che pompavano preziosa linfa vitale, alzò appena lo sguardo, la vista sfocata.

Aveva sete.

Un improvviso picco di adrenalina lo riscosse nel momento in cui una cheerleader del terzo anno, Teresa Meyers, gli passò accanto. Era la vicepresidente del comitato studentesco, ergo una persona molto influente e popolare persino tra i suoi simili. Tutti la conoscevano. Regan, però, l’aveva notata per la prima volta in un’altra occasione: durante la veglia di Matthew Doyle. Se non andava errato, era suo cugino.

“Proteggila!”

Si irrigidì, trattenne il fiato e la osservò superarlo a rallentatore. Durò meno di un secondo, giusto l’arco di un respiro, eppure la visione fu sufficiente a fargli schizzare il battito alle stelle.

Il gruppo passò e scomparve dietro l’angolo, lasciando Regan impietrito in mezzo al corridoio. Sbatté le palpebre, mise a fuoco l’ambiente e scrollò la testa. Per un attimo, gli era sembrato che la faccia della ragazza fosse una maschera grottesca: le orbite nere e vuote, l’incarnato spettrale, bianco come gesso, e la bocca spalancata in un grido muto.

Continuò a barcollare lungo il muro, lo sguardo vacuo e i canini appuntiti conficcati nel labbro inferiore. Giunto in prossimità dell’aula di musica, si arrestò di nuovo. Aggrottando le sopracciglia, piegò il capo e drizzò le orecchie.

Dall’aula deserta proveniva la melodia orientale del suo sogno. Era quella, impossibile sbagliarsi. Si era impressa nella sua memoria come un marchio a fuoco.

Confuso, entrò e cercò con sguardo febbrile la fonte. La melodia era diffusa da un grammofono. Era più moderno rispetto a quello del suo sogno, chiuso dentro una teca espositiva posta in mezzo a due finestre e sigillata da un lucchetto.

Si avvicinò. A un passo dalla teca, si rese conto che sul piatto non c’era nessun disco e il grammofono era spento. Assottigliò le palpebre e accostò l’orecchio sulla superficie trasparente. Sotto la melodia udiva quel sibilo, come di serpenti, misto a delle voci. Erano troppo flebili e indistinte per carpire ciò che dicevano, ma qualcosa gli suggerì che lo sapeva già.

“Che stai facendo?”

Regan sobbalzò e si voltò. Sanders, il professore di Biologia, lo stava scrutando con cipiglio severo dalla soglia. La sua figura allampanata e sottile era opaca, come se Regan lo stesse guardando attraverso una finestra appannata.

“Mi scusi, credevo…” balbettò, indicando timidamente il grammofono muto, “No, niente.”

Il professore gli rivolse un’occhiata preoccupata. Di sicuro stava pensando che fosse pazzo.

Regan si impietrì sul posto non appena il battito del cuore di Sanders gli riverberò nelle orecchie. Gli bastò inspirare brevemente per cogliere l’odore del suo sangue e provare l’irrefrenabile impulso di affondare le zanne nella sua carotide. Deglutì e la saliva gli raschiò la gola, come se avesse ingoiato una manciata di segatura.

“Devo andare.” farfugliò e uscì spedito dall’aula.

Raggiunse la bici, tolse il lucchetto e si sedette sul sellino. Prima di abbandonare il cortile, rovistò nello zaino in cerca della borraccia e bevve l’ultima sorsata. Il poco sangue nell’acqua lo aiutò a riacquisire il controllo, ma non scacciò la debolezza che gli appesantiva gli arti.

Quando imboccò il vialetto di casa, i polmoni bruciavano, il viso era ricoperto da una patina di sudore, che gli conferiva un aspetto malato e smunto, e la gola era secca. Avvertiva la pelle tirare sui muscoli, disidratata, assottigliata sulle ossa spigolose. Aveva una sete terribile, ma non di acqua. Non andava affatto bene.

E la signora Greenwood lo stava spiando dalla sua solita postazione. Sentiva il peso del suo sguardo sulla nuca.

Inciampò sugli scalini del portico, armeggiò con le chiavi e, dopo quattro tentativi, centrò la serratura. Appena aprì la porta, Poe gli schizzò accanto e sparì in giardino.

Si trascinò su per le scale, in camera, sul punto di svenire a causa della debolezza. Si gettò sul letto senza nemmeno levarsi le scarpe, lanciando lo zaino da qualche parte a occhi chiusi. Per le due ore successive rimase intrappolato in una sorta di stato vegetativo, che, invece di aiutarlo, acuì il suo malessere.

A cena sedò tutti i tentativi di conversazione di Deirdre con grugniti e occhiate truci. Mangiò in silenzio, imponendosi di non vomitare. Il cibo aveva un odore delizioso, sua nonna era una cuoca eccellente, ma ogni volta che toccava la sua lingua sembrava tramutarsi in sabbia e colla. Gli irritava la gola come carta vetrata e non faceva che aumentare esponenzialmente la sete. Trangugiò un litro e mezzo di acqua durante il pasto.

La secchezza lo tormentò finché Deirdre non estrasse dalla tasca della vestaglia una siringa. Regan osservò con occhi avidi la confezione di plastica che veniva strappata, l’ago che perforava la pelle del braccio e la fiala che si riempiva di sangue.

Deirdre si sporse sul tavolo e spruzzò il sangue nel bicchiere del nipote. Regan lo agguantò fulmineo per portarselo alle labbra. Di solito annusava il sangue, se lo gustava lentamente come fa un sommelier con un vino prelibato, ma oggi non aveva voglia attuare quel rituale.

Mugolò di piacere al sentire la gola allargarsi, i polmoni incamerare ossigeno, la pelle distendersi e lo stomaco quietarsi soddisfatto. Si leccò le labbra e, per fare le cose per bene, con la lingua ripulì il bicchiere sino a farlo brillare.

“La tua fame è cresciuta.” considerò Deirdre.

“Tranquilla, non ti chiederò più di ciò che puoi darmi.”

“Un dito di sangue in più non mi ridurrà in fin di vita. Speriamo solo che non risvegli il predatore che è in te.” disse con una smorfia.

“Non serve…”

“Serve eccome. Mi dispiace non essermene accorta prima. Avrei dovuto prevederlo, con la crescita. Non preoccuparti, leprotto, tua nonna è forte.” gli sorrise dolce.

Regan serrò le labbra e la fissò di sottecchi. Le dita torturavano un lembo della felpa sotto al tavolo per sfogare l’eccitazione.

“Se te la senti davvero…”

“Puoi contarci! Ora aiutami a sparecchiare e lavare i piatti. Poi, se vuoi, ci guardiamo un musical alla televisione.”

“Quale?”

“Scegli tu.”

“Mmm… La La Land?”

“Divino! Si vede che ti ho cresciuto io.”

Per il resto della serata, Regan si dimenticò delle allucinazioni avute a scuola e dell’aumento della sete. Trascorse un paio d’ore in compagnia della nonna a cantare le canzoni del musical leggermente fuori tempo, ma era divertente così, e alle undici salì in camera.

Indossò il pigiama, preparò lo zaino per il giorno dopo e, infine, si sdraiò sul letto con un sospiro stanco. Poe, che lo aveva seguito a passi felpati, saltò sul materasso e si acciambellò accanto a lui. Gli occhi gialli erano fissi sul suo viso, come se stesse provando a decifrarlo.

“Che hai da guardare?”

Poe continuò a scrutarlo.

“Sei inquietante.”

Regan si addormentò cinque minuti più tardi. Il suo sonno fu disturbato dal medesimo incubo del grammofono.

La settimana si concluse senza incidenti. Gregory e i suoi lacchè gli stettero alla larga, nessuno lo importunò.

La mattina di sabato, però, Regan si svegliò di nuovo di malumore a causa del dannato incubo. Per fortuna, gli bastò fiutare l’odore degli waffle e udire dalle casse dello stereo in salotto la voce profonda e vibrante di Louis Armstrong che cantava What A Wonderful World per disfarsene.

Andò in bagno a rinfrescarsi e, quando scese a fare colazione, si fermò ai piedi delle scale. Sua nonna stava ballando di fronte ai fornelli, canticchiando assieme ad Armstrong.

“Buongiorno.” la interruppe.

“Buongiorno, leprotto! Dormito bene?”

“No, ancora incubi.” rispose sincero.

“Ne vuoi parlare?”

“No.”

“Va bene. Sugli waffle ci vuoi i mirtilli?”

“No, prendo solo lo sciroppo d’acero.”

“Okay. Programmi di oggi?”

“Compiti e regressione allo stadio larvale.”

“Affascinante. Stamattina pulisco un po’ casa, poi vado a tenere compagnia alla signora Greenwood. Le è arrivato del tè delizioso dalla Cina. Dopo pranzo, invece, ho un appuntamento al piano di sotto. Te la senti di restare da solo?”

“Non ho cinque anni.”

“Ne hai appena sedici.” sbuffò.

“Lo so. Mi sento vecchio. Credo di avere qualche acciacco.” mugugnò mentre di massaggiava il collo.

Deirdre scoppiò a ridere e gli arruffò i capelli: “Mangia e fila a studiare.”

Dopo colazione, Regan salì in camera e si mise a fare i compiti con la musica nelle orecchie per coprire il rumore dell’aspirapolvere.

La giornata passò lenta, noiosa, priva di stimoli. Verso sera, una macchina sfrecciò davanti a casa, un pezzo rap sparato a tutto volume dalle casse. Fu allora che Regan si ricordò della festa di Charlotte. Accarezzò l’idea di presentarsi, tanto per creare un po’ di scandalo, ma alla fine scelse di guardare per la cinquantesima volta il DVD di Singing In The Rain. Si accomodò sul divano e si crogiolò nella sensazione di pace che lo avvolse quando Gene Kelly si mise a cantare.

A dodici anni, aveva ammesso con Deirdre di avere una cotta per lui. Quell’ammissione innocente li aveva condotti a un’imbarazzante conversazione sull’importanza del consenso e del preservativo e di come non ci fosse nulla di sbagliato nel provare interesse per gli esponenti dello stesso sesso. Regan non era riuscito a guardare sua nonna negli occhi per due mesi interi dopo il fatto. E non aveva nemmeno avuto il coraggio di spiegarle che la cotta era di platonica.

Gene Kelly ora stava ballando il tiptap sotto la pioggia. Era la sua scena preferita. Corse a prendere un ombrello nell’ingresso e cominciò a imitare a memoria i passi, cantando senza alcuna inibizione in mezzo al salotto. Sua nonna gli diceva sempre che aveva una bella voce, tranne per le volte in cui stonava di proposito per non farla sentire inferiore.

Seduto sul tappeto accanto alla televisione, Poe lo giudicava con lo sguardo. Regan seguitò imperterrito a ballare, approfittando della solitudine per esprimere tutto il suo talento.

Il sole tramontò, le luci nelle case si accesero e nel cielo comparvero le prime stelle. L’aria era calma, il vento lieve e fresco. Era una serata tranquilla, come molte altre.

Nessuno si immaginava che qualcosa si nascondeva nel buio, in attesa di cibarsi.

 
*

Teresa ingoiò l’ultimo sorso di birra e posò il bicchiere di carta sulla prima superficie piana disponibile. Era giusto un po’ brilla, non ubriaca fradicia come la maggior parte dei suoi amici.

Intorno a lei, ragazzi e ragazze ridevano e ballavano al ritmo della musica diffusa dalle casse dello stereo. I divani e le sedie erano occupati da chi non aveva più le forze per stare in piedi e da coppiette intente a pomiciare, incuranti del pubblico.

Tutto sommato, era una bella festa. Charlotte aveva fatto centro. Teresa non dubitava che Lorie l’avrebbe presto accolta tra le cheerleader.

James la raggiunse con il proprio bicchiere di birra fra le mani. Lei gli passò le braccia attorno al collo e si sollevò in punta di piedi per scoccagli un bacio a stampo sulle labbra.

“Ti diverti?” le domandò James in un orecchio, per farsi sentire al di sopra della musica sparata a tutto volume.

“Certo!”

Il fidanzato la osservò per lunghi secondi, abituato a vedere sotto la sua maschera.

“Ancora triste per Matthew?”

Lei sospirò e poggiò la fronte sul suo torace: “Se ti dicessi di sì?”

“Non si merita le tue lacrime, lo sai.”

“Era pur sempre mio cugino. E da piccoli eravamo molto legati.” protestò, “Non meritava di morire in quell’incidente.”

“Amore, Matt era un coglione. Chi cazzo si mette alla guida dopo aver bevuto tequila? Se l’è cercata.”

Teresa era d’accordo, ma le dispiaceva comunque. La famiglia era in lutto.

“Se proprio vuoi la mia opinione-”

“No, grazie.” lo interruppe, nascondendo a fatica un ghigno divertito.

“Ah. Ah. Dicevo, se vuoi la mia opinione, sarebbe meglio che la smetteste di comportarvi da ipocriti. Senza offesa, amore, ma stamattina non siete forse andati a visitare con sorrisi allegri la nuova mostra in città? Quella cinese.”

“È sull’Asia Minore, James.”

“È uguale. Il punto è che a nessuno frega un accidente di Matthew. Ha fatto una stronzata e ne ha pagato il prezzo. Lo avete pianto, gli avete pagato una bella bara, lo avete sepolto e ora è finita.”

“Cosa vorresti che facessi?”

“Goditi il resto della serata, come stanno facendo tutti, e finiscila di parlare di tuo cugino.” la pregò, poi la baciò per distrarla dai pensieri negativi, “Dov’è Stacy?”

Teresa scandagliò la folla che riempiva il salotto: “Non lo so, l’ho persa di vista.”

“E Claire?”

“Questa è facile: a bordo piscina a mostrare le tette ai tuoi amici.”

“E a te non va di mostrare le tette?” la provocò.

“Sono un bene privato.”

“Privato per chi?”

Lei roteò gli occhi divertita e lo baciò di nuovo.

“Vado un attimo in bagno, aspettami fuori. Appena torno, ce ne andiamo. I miei non sono a casa.”

“Non mi avevi detto di avere casa libera.” la accusò imbronciato.

“Era una sorpresa.” gli scoccò un’occhiata eloquente da sotto le ciglia, “Volevo vedere se te la saresti meritata.”

“Allora devo aver fatto qualcosa di buono.” scherzò James, ammiccando.

Teresa ridacchiò e, dopo un altro bacio, si separò per recarsi al bagno al piano di sopra. Salì le scale facendo lo slalom tra i ragazzi stravaccati sui gradini, mirando alla porta in fondo al corridoio, sulla destra. Non c’era nessuno in fila. Sperò che non fosse occupato.

Bussò. Quando nessuno le rispose, aprì la porta e accese la luce. Fece pipì, si lavò le mani e le asciugò con la salvietta rosa pallido appesa alla sbarra sotto la finestra. Dalla borsa estrasse matita e rossetto per rifarsi il trucco. Poi si aggiustò il vestitino azzurro, lisciandoselo addosso. La stoffa le fasciava le curve alla perfezione, mentre la scollatura metteva in mostra il seno quel tanto da provocare negli occhi di James lo scintillio affamato che adorava. Si pettinò i capelli neri con le dita e provò varie acconciature, ponderando se legarseli oppure lasciarli sciolti. James li preferiva così, perciò non perse altro tempo.

All’improvviso, la lampada si spense. Teresa si bloccò. Il cuore saltò un battito e il respiro le si mozzò in gola, ma solo per un breve momento. Sbuffò seccata e fece scattare l’interruttore. Lo spinse su e giù un paio di volte, senza ottenere alcun risultato.

La tenda gialla che copriva la vasca si mosse appena. Teresa aggrottò le sopracciglia e la studiò incerta. Non poteva essere stato un soffio di vento, dato che la finestra era chiusa. Scosse il capo, convinta di esserselo immaginato.

Fece per afferrare la maniglia della porta, quando, con la coda dell’occhio, colse di nuovo il movimento. Deglutì e restò immobile.

“Stacy, sei tu?”

Si obbligò a restare calma, poiché non era raro che dei ragazzi organizzassero scherzi da film horror per movimentare le feste. Non avrebbe dato loro soddisfazione, poco ma sicuro.

Avanzò di un paio di passi e protese una mano per afferrare la tenda. Esitò per una manciata di secondi, quindi la scostò con un gesto brusco.

Gli occhi si sgranarono e il sangue le defluì dal volto.

La borsa cadde con un tonfo sulle piastrelle.

Prima che potesse gridare, una mano nera e scheletrica si avvolse attorno al suo collo e la trascinò oltre la tenda con uno strattone violento.

Quando la luce si riaccese, il bagno era vuoto.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Striving to fit in ***










Dopo un fine settimana trascorso in compagnia di un solidale Poe a svernare su ogni superficie morbida della casa, pervaso dalla stessa gioia di vivere di un tubero, lunedì Regan si recò a scuola, segretamente impaziente di carpire commenti sulla festa a casa di Charlotte. Di norma non gli interessavano i gossip, ma la prima festa dell’anno scolastico era un evento da non sottovalutare. Era in quell’occasione, infatti, che si forgiavano alleanze e stabilivano gerarchie. Imparare quali fossero lo avrebbe aiutato a capire da chi stare alla larga.

Ciò che Regan non si sarebbe neanche lontanamente aspettato fu sentirsi schiaffare in faccia un volantino non appena varcò la soglia del liceo. Barcollò confuso, sputacchiò oltraggiato e se lo strappò di dosso, per poi accartocciarlo in una mano. Lanciò un’occhiataccia alla ragazza colpevole dell’affronto, ma lei non se ne accorse, impegnata com’era a scaraventare volantini sulle facce di altri poveri studenti. Regan notò che le sue labbra erano serrate in una linea pallida e sfoggiava scure borse sotto gli occhi, arrossati e gonfi per il pianto. Il suo viso era struccato e i capelli scarmigliati “ad arte”.

Regan sbuffò e proseguì lungo il corridoio, indifferente al chiacchiericcio concitato. Gli occorsero cinque minuti abbondanti per intuire che qualcosa non andava, e soltanto perché un’altra ragazza scoppiò in lacrime a pochi passi da lui.

Il secondo indizio fu lo striscione gigante appeso alla bacheca degli avvisi, accanto alla segreteria. Il terzo furono i volantini incollati sopra ogni armadietto, identici a quello che stringeva nel pugno, con la foto di… Teresa Meyers? Eh, sì. Era proprio lei. La scritta “SCOMPARSA” campeggiava a lettere cubitali sopra la foto. Sotto di essa c’erano le informazioni sulla data della scomparsa e i numeri di telefono da contattare in caso di avvistamento.

Regan lisciò il volantino accartocciato e lo lesse con attenzione. Quando gli caddero gli occhi sulla data in cui Teresa era stata vista per l’ultima volta, percepì il sangue defluirgli dal volto. Avrebbe dovuto capirlo. Matthew non era più apparso dopo averlo supplicato di proteggere una “lei”, ma a quel punto era ovvio che si fosse riferito a Teresa. E poi c’era stata la visione nel corridoio, un monito che aveva bellamente ignorato.

Analizzò le facce degli studenti. Tutti esibivano espressioni preoccupate, leggevano e rileggevano il volantino bisbigliando tra loro in piccoli capannelli. Regan non sapeva bene quali emozioni provare, se totale distacco o frustrazione.

Aprì l’armadietto con un sospiro esausto, ci gettò dentro il volantino, agguantò il libro di Inglese e si incamminò verso la classe, rassegnato a una giornata di pettegolezzi e teorie complottiste.

Entrando in aula, localizzò un posto vuoto sul fondo e ci si sedette. Estrasse libro e quaderno dallo zaino senza badare alle occhiate torve che gli lanciarono Kevin e Derek. Per fortuna, Inglese era l’unico corso che condivideva con i due. Gregory, invece, lo vedeva soltanto a Educazione Civica. Le ore di lezione erano le sole in cui Regan e i tre bulli si evitavano come la peste. Piccola grazia divina.

Durante la pausa pranzo, rintanato in biblioteca col suo panino e la sua borraccia, Regan rimuginò su Teresa e ricapitolò i fatti.

Innanzitutto, il fantasma di Matthew gli era apparso in camera e lo aveva supplicato di proteggere una “lei”. Poi aveva visto Teresa in quella mise inquietante da film horror. Infine, sabato sera era scomparsa. Non poteva essere stata una coincidenza.

Tuttavia, siccome i fantasmi non parlavano, era più plausibile che fosse stata opera del suo sesto senso e della sua macabra immaginazione, che avevano unito le forze creando il fantasma per avvisarlo dell’imminente pericolo. In tal caso, che diavolo aveva voluto dirgli il suo subconscio con le parole “Lui è qui”? Chi era quel “lui”? Cosa voleva? Perché?

Gli stava scoppiando la testa, così decise di darci un taglio e finire il pranzo. Magari era stato solo un episodio isolato. Infatti, da allora non aveva avuto nessun incontro ravvicinato con i morti e nessuna visione. D’accordo, l’incubo era tornato, ma per ora restava uno dei tanti parti della sua mente malata.

Passeggiando verso l’aula di Latino, Regan prese nota dell’atmosfera che aleggiava nei corridoi, talmente satura di paura e agitazione che non potevi fare due passi senza imbatterti in piagnistei, teorie di rapimenti alieni e sguardi cupi.

Charlotte non era venuta a scuola, com’era prevedibile. Approfittando della sua assenza, i ragazzi non si facevano problemi a infilarla in ogni conversazione. Alcuni addirittura la accusavano di aver orchestrato tutto per attirare su di sé i riflettori.

Anche se non si poteva ritenere la quindicenne responsabile, dal momento che i testimoni l’avevano collocata in piscina all’ora della presunta scomparsa di Teresa, era pur vero che se Charlotte non avesse organizzato la festa, Teresa non sarebbe scomparsa. Stando alle voci, proprio su questo i Meyers insistevano. Gli Wilson contrattaccavano dicendo che Teresa aveva scelto di andare alla festa, perciò era altrettanto responsabile.

Dopo le lezioni del pomeriggio, Regan optò per un’altra sosta in biblioteca. L’intenzione iniziale era quella di avvantaggiarsi con i compiti, ma presto si ritrovò immerso in una ricerca su fenomeni paranormali, l’interpretazione dei sogni e la simbologia relativa ai serpenti. Neanche a dirlo, si imbatté in una valanga di materiale, sia online che sui libri. Non gli sarebbe bastata una settimana per leggere tutto.

Si impose di sfogliare ogni singolo testo almeno una volta, focalizzandosi sulle voci dell’indice per appurare che ci fosse l’argomento che gli interessava. I testi inutili, benché alcuni fossero alquanto affascinanti, li accantonò senza esitare, perché non aveva tempo da perdere.

Lesse rapidamente di spiritismo, sogni, contatti con l’aldilà e cadde in una spirale ossessiva con i serpenti: a seconda delle mitologie e delle religioni nel mondo, i simboli a cui erano assimilati erano diversi, come la storia dietro la loro creazione, funzione e significato. Nonostante verificasse le fonti, scoprì che molte delle informazioni riportate si contraddicevano a vicenda. Questo non aiutava.

Tre ore dopo, la signora Milford venne al suo tavolo per avvisarlo con la sua voce nasale che la biblioteca avrebbe chiuso entro dieci minuti. Regan si segnò sul quaderno i titoli che lo avevano intrigato di più e quelli che non aveva ancora avuto tempo di guardare. Avrebbe fatto un salto alla biblioteca pubblica quel fine settimana per prenderli in prestito, dato che in quella scolastica non era permesso.

Quando raggiunse la bici nel parcheggio, notò che qualcuno aveva scritto con un pennarello rosso indelebile le parole “strambo”, “perdente” e “zombie” sul sellino e sul manubrio. Non ci voleva una laurea per capire chi era l’autore. Regan sospirò e roteò gli occhi. Poi tolse il lucchetto e pedalò verso casa come se nulla fosse.

A cena, di fronte a un piatto di lasagne fumanti, sua nonna gli chiese che cosa avesse.

“Una studentessa è scomparsa alla festa di Charlotte. A scuola hanno appeso volantini dappertutto.”

“Oh, sì. Ho sentito. In città non si parla d’altro. Tu come stai?”

Regan emise un verso interrogativo.

“Conoscevi Teresa Meyers?”

“No. Cioè, era qui alla veglia di suo cugino, se non sbaglio, ma non ci ho mai parlato.” biascicò.

“Non parlare a bocca piena.” lo rimproverò Deirdre di riflesso, per poi tornare a Teresa, “E come ti fa sentire la sua scomparsa?”

“Ehm… devastato, triste e deciso a ritrovarla?” rispose esitante.

“Lo stai chiedendo a me?”

“Non vedo nessun altro.”

“Regan.”

Regan fece spallucce, continuando a mangiare le sue lasagne. Erano squisite. Con la coda dell’occhio colse Deirdre assumere l’espressione dura di qualcuno in procinto di elargire una predica, che infatti giunse puntuale un attimo dopo.

“Comprendo la tua riluttanza ad interagire con il prossimo, credimi. Ma se vuoi inserirti nella comunità e smettere di essere etichettato come ‘il ragazzo strambo’, dovrai darti da fare.”

Regan giocherellò con un pezzo di lasagna nel piatto, spingendolo a destra e a sinistra con la forchetta. Tenne la testa bassa, gli occhi rassegnati fermi sulle ginocchia, mentre ascoltava la ramanzina.

“Perché non ti fai avanti e ti offri volontario per aiutare a spargere altri volantini in giro per la città? Perché non vai a trovare i Meyers e offri loro aiuto nelle faccende di casa e nelle commissioni? Saranno troppo impegnati a cercare la figlia per badare a loro stessi. Sono sicura che sarebbero grati se qualcuno gestisse questo tipo di mansioni al loro posto. Poi potranno dirti di no, che non c’è bisogno, ma almeno prenderanno atto della tua buona volontà e non si dimenticheranno della tua faccia, o della tua gentilezza.”

“Anche se non è genuina?”

Deirdre lo squadrò con sussiego: “Non ti ho forse insegnato a simulare le giuste emozioni?”

“Mentire è una fatica inutile, nonna. Perché devo disturbarmi a farlo? Risparmierei energie preziose se non facessi nulla.” si lamentò.

“Perché se non lo fai, la gente comincerà a guardarti ancora più storto. Non serve che ti dica quali potrebbero essere le conseguenze, già le conosci. Questa città, al pari della vicina Salem, è famosa per un motivo preciso, oltre al pesce di ottima qualità.”

Regan levò gli occhi al cielo. Sapeva che la nonna aveva ragione. Più volte gli aveva ribadito l’importanza di essere benvoluti dal prossimo, perché non sai mai quando potresti aver bisogno di alleati. Se Regan avesse seguito i suoi consigli, nessuno avrebbe mai sospettato di lui nel caso avesse perso di nuovo il controllo sulla sete.

Insabbiare un omicidio solo era un conto, coprirne altri era assai più difficile. Le persone non avrebbero esitato a puntare il dito e scegliere un capro espiatorio se un certo numero di corpi avesse iniziato ad apparire, proprio come era successo con le presunte streghe di Ashwood Port. Si sarebbe rinnovata la caccia. Allora soltanto coloro che avevano già un posto assicurato nella comunità si sarebbero salvati. Era una semplice tattica di sopravvivenza.

Regan ricordava vagamente un periodo in cui le emozioni fluivano libere in lui, in cui rideva e faceva le bizze senza alcun timore di cadere vittima di un impulso primitivo. Quei ricordi ora erano sfocati, così lontani ed estranei che era come se appartenessero a qualcun altro: un bambino da tempo morto e sepolto, digerito dal mostro che se lo era divorato. Al posto dei sogni, delle speranze e dei colori sgargianti dell’arcobaleno, dentro di lui c’era una pianura grigia, arida e desolata, sormontata da un cielo liquido, rosso come il sangue.

“Le emozioni sono il tuo tallone d’Achille. Sono un veleno che ti consumerà dall’interno in una lunga ed estenuante agonia. Se non te ne liberi subito, saranno la tua rovina.”

La voce della nonna gli rimbombò nelle orecchie con la stessa furia dei tuoni, scuotendolo sin nelle ossa. Quelle parole funzionavano come una sorta di collare elettrico, che rilasciava potenti e dolorose scariche se solo osava deviare dal cammino che gli era stato imposto.

Le sue spalle si rilassarono, la tensione nei muscoli si sciolse. Le preoccupazioni, la rabbia e l’ansia vennero spazzate via e rimpiazzate dal vuoto. In pochi istanti, riassunse il dominio su se stesso.

“Farò come desideri, nonna.” disse apatico.

Il sorriso dolce che gli scoccò Deirdre valeva lo sforzo che lei gli aveva chiesto.

Poe approfittò della loro guardia abbassata per saltare sul tavolo e rubare un pezzo di lasagna.

Il giorno dopo, Regan si trascinò svogliato fino al tavolo allestito dalle cheerleader, a ridosso del corridoio dell’ala est della scuola. Sopra c’erano volantini e cartelloni pieni di foto e biglietti per Teresa. Qualcuno aveva addirittura lasciato piccoli mazzi di fiori, come se fosse già morta e il tavolo fosse un altare in sua memoria.

Charlotte e Jennifer erano sedute ai lati del tavolo. Altre due ragazze stavano domandando loro se ci fossero novità. Charlotte era stravolta. Le occhiaie suggerivano che non dormiva da almeno due giorni e la sclera arrossata era sintomo di un’infiammazione, probabilmente dovuta alle lacrime.

Regan si fece avanti col magone, più per l’incombente interazione sociale che per una sincera preoccupazione per l’incolumità di Teresa. Si schiarì la gola. In un attimo, l’attenzione delle quattro ragazze piombò su di lui alla stregua di un macigno.

“Sì?” chiese Charlotte, lo stupore evidente sul viso di bambola, più pallido del normale.

“Volevo sapere se c’è qualcosa che posso fare. Per aiutare a trovare Teresa. O per la sua famiglia.”

“Oh. Beh… in realtà non ce n’è bisogno, abbiamo già fatto tutto il possibile. Il resto è nelle mani della polizia.” rispose lentamente Charlotte.

Regan osò incrociare i suoi occhi grandi e scuri. Inalò il suo odore, caramello e peperoncino, e si umettò le labbra, immaginando che sapore divino dovesse avere il suo sangue. Deglutì. Dopo aver accennato un assenso, si voltò, desideroso di allontanarsi.

La voce della cheerleader lo raggiunse inaspettata.

“Grazie.”

Lui si girò di tre quarti, spiazzato. Vide che si era alzata dalla sedia e lo fissava con un minuscolo sorriso. Jennifer e le altre due osservavano lo scambio con espressioni sbigottite.

“Nessun problema. Spero che venga ritrovata. Viva. E in salute.”

“Lo speriamo tutti.” gli disse e il sorriso si ampliò, “Grazie per esserti offerto, Regan.”

Regan strabuzzò le palpebre. Charlotte lo aveva appena chiamato per nome. Conosceva il suo nome. Cioè, ovvio che lo conoscesse, tutti lo conoscevano, ma era raro che lo chiamassero qualcosa di diverso da “zombie”, “strambo” o “McLaughlin”.

Venire considerato come qualcuno capace di gentilezza e ricambiato con altrettanto calore da una sua compagna gli suscitò una spiacevole sensazione a livello dello stomaco, una specie di nausea mista a contrazioni intestinali. Fu terribile.

“Prego.” gracchiò e fuggì verso l’aula di Matematica.

A fine giornata, venne a sapere dalle chiacchiere di corridoio che Charlotte era tornata a scuola solo perché la polizia aveva messo le mani sul secondo sospettato, cioè James, il fidanzato di Teresa. Anche lui aveva un alibi confermato, ma gli investigatori volevano battere il ferro finché era ancora caldo.

Durante la settimana, lo sceriffo Zimmermann e i coniugi Meyers vennero a scuola per interrogare gli studenti. Chiunque avesse informazioni da condividere venne ascoltato. Il punto era che, all’improvviso, tutti si professavano amici di Teresa, desiderosi di mostrare quanto erano affranti, quanto la tragedia li toccasse da vicino, quante visualizzazioni avessero i loro post sulle piattaforme social. Il liceo si trasformò in un patetico circo di disperati che elemosinavano attenzioni.

Uno dei pochi a restare indifferenti fu proprio Regan, a cui importava solo dei propri voti ed evitare l’ennesimo faccia a faccia con Charlotte. Dopo aver offerto il suo aiuto la prima volta, si era tenuto in disparte, evitando la neo-cheerleader come la peste. 

Venerdì il preside radunò tutti quanti in palestra dopo le lezioni e li invitò a collaborare ulteriormente con la polizia. Non divulgò dettagli sull’indagine, ma ormai era chiaro che Teresa non era scappata: era stata rapita. I sospettati erano più che altro gli studenti presenti alla festa di Charlotte, ma finora non era emerso nessuno con un movente.

Due settimane dopo, Regan era a un punto morto nelle sue ricerche e pieno di stress. Gregory e la sua banda si erano dati alla macchia, perciò non aveva più valvole di sfogo. Non si era mai reso conto dell’utilità delle loro colluttazioni. Era stato lui a suggerire che lo lasciassero in pace, ma ora se ne pentiva. Prendere a cazzotti qualcuno era maledettamente terapeutico.

Non ci fu più alcuna novità su Teresa. Era sparita nel nulla. Defunta, ripeteva una vocina nella sua testa. La polizia non aveva uno straccio di pista su cui lavorare, quindi il caso, per ora, restava un grosso punto interrogativo sulla scrivania di qualche sfortunato agente.

James era così distrutto che si prese una pausa dalla squadra, preferendo frequentare solo le necessarie lezioni per non restare indietro nel programma e ritagliarsi del tempo per stare accanto ai Meyers.

Le cheerleader erano in lutto. Per comunicare al mondo intero quanto fosse grande il loro dolore, crearono una pagina Facebook in onore di Teresa e decisero di indossare un nastro o un fermaglio nero fra i capelli. Presto, molti altri le presero a esempio e divenne una moda. Anche Regan venne scambiato per un seguace, dato che nel suo abbigliamento c’era sempre qualcosa di nero. Non gli sfuggirono le occhiate grate di Charlotte, come se la sua fosse stata una scelta conscia.

Alla fine del mese, come c’era da aspettarsi, l’argomento più discusso divenne la festa di Halloween organizzata dalla scuola. Nessuno menzionava più Teresa, tutti impegnati nei preparativi e nei progetti di allestimento della palestra, sebbene mancasse un bel po’ all’evento.

Le cheerleader smisero il nero e tornarono ai colori sgargianti. L’altare di Teresa venne rimosso. James fu riaccolto in squadra. Soltanto l’armadietto di Teresa esibiva ancora delle sue foto e dei biglietti da parte delle amiche, ma tutti gli altri ci passavano davanti senza fermarsi.

 
*

I primi di ottobre, la notizia che un nuovo studente si era trasferito nella loro scuola fece il giro delle classi in meno di un’ora. Erano solo le nove del mattino e Regan aveva la testa già talmente piena delle congetture dei suoi compagni che sentiva di stare per esplodere. D’accordo, era insolito che qualcuno si iscrivesse ad anno già iniziato al loro piccolo liceo, ma sembrava quasi che avrebbero ospitato il figlio del presidente! Tutto quel clamore era esagerato.

Regan stava percorrendo il corridoio in direzione dell’aula di Francese col naso immerso in un libro di mitologia norrena, più per intrattenimento che per una reale speranza di scovare un indizio sulla cosa che infestava i suoi incubi. Deirdre era ancora convinta che fossero presagi di morte.

Poiché era troppo occupato a leggere per badare a dove metteva i piedi, andò spesso a sbattere contro altri studenti, attirando su di sé imprecazioni o squittii spaventati. Distratto com’era, non si premurò nemmeno di chiedere scusa o alzare gli occhi dalle pagine.

Giunto a destinazione, si sedette al solito banco, contento nel confermare che quelli più prossimi erano vuoti. Tirò fuori il quaderno e le penne e nascose il libro di mitologia tra le ginocchia, con tutta l’intenzione di seguitare a sfogliarlo mentre fingeva di prendere appunti. Tanto si era già portato avanti col programma.

A metà lezione, la porta della classe si aprì. La professoressa si interruppe nel bel mezzo di una frase sulla coniugazione dei verbi e tutti si girarono verso il ragazzo che sostava insicuro sulla soglia.

“Permesso?”

“Oh, tu devi essere Roman. Prego, entra.” Miss Rochelle lo invitò a raggiungerla con un gesto della mano e un sorriso cordiale.

Il ragazzo entrò, scandagliando gli studenti con un’occhiata veloce. Regan lo vide dilatare le narici, come se stesse annusando la stanza.

“Lui è Roman Sinclair, da New York. È al secondo anno, ma frequenterà lo stesso questo corso per recuperare dei crediti. Siate gentili e aiutatelo se è in difficoltà.” disse, poi si rivolse a Roman, “Vuoi dire qualcosa?”

“Piacere di conoscervi. Sono Roman e vengo da New York.”

La classe rimase in silenzio ad aspettare il seguito col fiato sospeso, ma non giunse mai. Allora, la maggior parte degli alunni eruppero in risolini divertiti. Roman non represse un ghigno sardonico, segno che quella risposta era stata studiata in anticipo per sciogliere il ghiaccio. Infatti, Miss Rochelle non si offese e lo spedì a sedersi a un banco vuoto accanto a Regan.

Regan lo osservò avvicinarsi col cuore in gola, provando l’insolito, impellente e disperato bisogno di tracciare una linea di confine sul pavimento intorno a sé per marcare il territorio. Non stette a interrogarsi sul motivo di tale impulso, preferendo rimanere rigido come una statua e impegnarsi a emanare un’aura distaccata. Nonostante gli sforzi, non poté esimersi dal fargli la radiografia.

Indossava semplici pantaloni neri, All Star rosse e una giacca di jeans sopra una t-shirt bianca, stirata sui pettorali. Era alto e snello, ma non allampanato. Aveva le spalle larghe da nuotatore e capelli lisci biondo scuro, pettinati con la riga di lato. Un ciuffo gli ricadeva sulla parte destra del viso. Gli occhi azzurri avevano una bella forma, il naso era dritto, le labbra molto sottili e la mascella squadrata.

Regan avrebbe scommesso una razione mensile di sangue che, entro la settimana successiva, Roman sarebbe stato rapito dai popolari e reclutato tra i loro ranghi. Con un fisico come il suo, poi, sicuramente era uno sportivo.

Roman si accomodò al banco designato e si voltò verso Regan. Questi notò le sue narici dilatarsi di nuovo e lo udì inspirare lievemente. Si chiese se puzzasse. Non avrebbe dovuto, perché quella mattina si era fatto la doccia come al solito. Si stizzì comunque, pensando che era da maleducati annusare le persone. Ignorò la vocina nella sua testa che gli stava dando dell’ipocrita e assottigliò minaccioso le palpebre.

A quel punto, realizzò con orrore che la scena era pericolosamente simile a quella di Twilight, anche se lui non era una delicata fanciulla e Roman non era pallido o inquietante come Edward. Se per un qualche fortuito caso, in un ipotetico futuro, avesse cominciato a fiutare l’olezzo di sentimenti romantici, avrebbe staccato la testa di Roman a mani nude e usato il suo cranio come portapenne.

Una ruga verticale comparve sulla fronte di Roman, in mezzo alle sopracciglia. Le sue palpebre si assottigliarono e il capo si inclinò a sinistra, come farebbe un animale in preda a una confusa diffidenza. Poi allungò una mano e rinnovò il sorriso.

“Ciao. Io sono Roman.”

Regan fissò la sua mano come se al posto delle dita ci fossero serpenti velenosi. Deglutì e, involontariamente, inspirò a sua volta. Quando gli giunse alle narici una zaffata del tipico odore di cane bagnato, si trattenne a stento dal fare una smorfia.

“Regan.” mormorò cupo.

“In realtà, ci siamo già incontrati. O meglio, scontrati.” disse Roman con un sorriso sghembo, a bassa voce, “Mi sei venuto addosso poco fa. Stavi leggendo e non ti sei accorto che ero lì…”

“Ah.”

Si aspettava forse delle scuse? Illuso.

Roman piegò ancora la testa, stavolta dal lato opposto, e gli sorrise, ma con una punta in più di incertezza. Capendo che non avrebbe ottenuto nulla da Regan, salvo uno sguardo seccato, estrasse un quaderno dallo zaino, prese una penna dall’astuccio e puntò l’attenzione sulla lavagna, senza insistere o elargirgli ulteriori briciole di interessamento.

Regan avrebbe voluto fare una piccola danza della vittoria per essere riuscito a scoraggiarlo in appena una manciata di secondi. Era un record. Ma, memore dei suggerimenti della nonna, trascorse il resto della lezione a valutare con estrema riluttanza i pro e i contro di farsi amico il nuovo arrivato.

L’unica nota a favore era che Roman era, appunto, nuovo. Ergo, c’era la concreta possibilità che non avesse ancora sentito le voci che circolavano su Regan e perciò era privo di qualsivoglia pregiudizio nei suoi confronti.

Tra i contro c’era il suo aspetto piacente, che di sicuro avrebbe attirato le cheerleader come api sul miele, e il fatto che era uno sportivo. Presto si sarebbe iscritto o a football o a basket e, circondato da coetanei capaci di ridere e scherzare, avrebbe realizzato che stare con Regan era noioso e lo avrebbe scaricato.

“Vogliamo che tu ti inserisca nella comunità, che diventi un cittadino modello. Se ci riuscirai, se formerai alleanze dietro il pretesto dell’amicizia, sarai al riparo da qualsiasi sospetto.”

Le parole di sua nonna gli riecheggiarono nel cervello, ricordandogli la missione. Digrignò i denti, stritolò la matita nel palmo e trasse un profondo respiro, racimolando tutta la convinzione che aveva. Ovvero, non molta. Gli sarebbe venuta una sincope.

“Roman.”

Il ragazzo sollevò di scatto gli occhi limpidi dal quaderno e li fissò nei suoi.

“Mh?” mugugnò sorpreso.

“Ti va di fare un giro della scuola? Dopo i corsi, cioè… se non hai altri impegni.” bisbigliò, cercando di tenere a bada il dolore fisico che gli suscitava tutta quella situazione.

Roman gli sorrise. Regan lo rimpiazzò subito con l’immagine di un cucciolo scodinzolante.

“Mi farebbe molto piacere. Grazie.”

La campanella suonò e gli studenti si affrettarono a riporre i libri negli zaini, mentre Miss Rochelle elencava i compiti a velocità supersonica.

“Cos’hai adesso?” indagò Regan.

Era ansioso di separarsi da Roman, per timore che venisse rapito dai popolari non appena lo avesse perso di vista, distruggendo qualsiasi chance di farselo amico.

“Algebra.”

Le sue spalle si afflosciarono: “Oh. Già, sei al secondo anno.”

“Ci possiamo vedere a pranzo in mensa, se vuoi.” propose Roman.

Regan esitò. La mensa non era il suo posto preferito. Anzi, era l’anticamera dell’inferno. Ma per il suo nuovo potenziale amico poteva fare qualche sacrificio.

“A che ora hai la pausa?”

“Primo turno. Tu?”

“Anch’io.”

Roman gli sorrise ancora e lo salutò con un cenno del capo. Fuori dalla classe si divisero, ognuno andando per la propria strada.

All’ora di pranzo, Regan si diresse verso la mensa come un condannato alla sedia elettrica. C’erano persone ovunque. Persone rumorose, che appestavano l’aria con i loro odori mischiati, creando un miasma tossico e nauseante di varie marche di dopobarba, sudore, puzzo di piedi e profumi dalle note floreali. Senza contare il tanfo di fritto o stantio emanato dal cibo sui vassoi.

Per conservare una parvenza di sanità mentale ed evitare di commettere azioni impulsive, tipo un omicidio di massa, sulla mera base di un cattivo odore, Regan decise di respirare con la bocca finché si trovava nei pressi della mensa. Per tale ragione si perse la scia di cane bagnato in avvicinamento alla sua sinistra.

“Regan!”

Sussultò sul posto. Voltandosi, si trovò faccia a faccia con Roman e il suo sorriso accecante.

“Ciao.” lo salutò laconico.

Qualcosa dovette tradire la sua ansia, perché Roman mutò completamente espressione. Oltre a inspirare lievemente, lo fissò dapprima confuso, poi dubbioso e infine comprensivo.

“Ho un panino nello zaino, perciò non ho bisogno di entrare in mensa. Tu?”

“Anch’io.”

“Bene. Che ne dici di trovare un posto più tranquillo? E nel frattempo mi fai di Cicerone.”

Regan annuì, rischiando di strapparsi un paio di vertebre per la velocità con cui mosse la testa.

Diedero le spalle alla mensa, desiderosi di allontanarsi il più possibile dalla bolgia. Non fecero in tempo ad avanzare più di tre passi prima di venire fermati da una voce familiare.

“Roman! Non sapevo che avessi anche tu il primo turno.” esclamò Charlotte sbarrandogli il cammino, un sorriso gioviale sul viso di bambola.

I capelli castani e lisci le ricadevano sulle spalle in una cascata serica, che sprigionava un vago profumo di caramello. Indossava una camicetta bianca con sopra un golfino rosso attillato e una minigonna di jeans che le lasciava esposte le gambe magre, infilate in un paio di stivaletti pelosi.

Jennifer la tallonava da dietro, più timida, con un rossore eloquente a tingerle le guance. Il maglione color panna, di almeno quattro taglie più grande, le arrivava a metà coscia, mentre i jeans e le scarpe da ginnastica le conferivano un’aura da ragazza normale, non schiava della moda come la sua amica. Spiò Roman da sotto le ciglia per valutare la sua reazione, o forse per memorizzare ogni singola curva dei suoi pettorali. Poi distolse lo sguardo avvampando e cominciò a giocherellare con una ciocca bionda.

“Charlotte, ciao. Jennifer.” Roman le elargì un lieve cenno del capo in saluto, “Sì, ho il primo turno.”

Regan imprecò internamente nel vedere esaudite le sue paure. Ma come aveva fatto Roman a conoscere le due cheerleader? Entrambe, come Regan, erano al primo anno, perciò non potevano avere corsi insieme. Francese era un caso a parte, per quella storia dei crediti da recuperare, ed era un corso facoltativo. Possibile che tre misere ore fossero state sufficienti ai popolari per mettere le grinfie sul nuovo arrivato?

“Fantastico! Perché non ti siedi al nostro tavolo? I ragazzi saranno felici di conoscerti.” propose Charlotte.

“Ehm…” Roman lanciò un’occhiata a Regan, che osservava il vuoto con aria incredibilmente neutra, “Grazie, ma ho già appuntamento con Regan per fare un tour della scuola. Per oggi passo.”

Solo allora Charlotte parve registrare la presenza di Regan. Sobbalzò e squittì, quasi avesse ricevuto una scossa elettrica. Represse una risatina impacciata sotto la mano e, con gli occhi sgranati, lo guardò come di solito si guarda un animale esotico.

“Ciao, Regan. Non ti avevo visto.”

Il ragazzo assottigliò appena le palpebre e grugnì.

“Come stai?”

“Così.”

“Okay. Non volevo interrompervi nel vostro tour. Vi dispiace se io e Jen ci aggreghiamo? Abbiamo già le nostre insalate nelle borse.”

“Oh. Per me va bene.” accettò Roman, “Regan?”

Regan emise un altro grugnito.

“Non vogliamo intrometterci.” si affrettò a dire Charlotte.

Studiò cauta la faccia funerea di Regan, per capire se fosse arrabbiato. Ma quella era la sua faccia in qualsiasi occasione, perciò era difficile arguire cosa stesse pensando.

Regan si girò a fronteggiare Roman, le iridi di un azzurro metallico gelide come ghiacciai artici.

“Quella è la mensa.” borbottò annoiato, indicando con un dito l’area piena di tavoli, “Questo è il corridoio. Lì ci sono le aule. Di là altri corridoi e altre aule. Laggiù c’è il bagno. La biblioteca è da quella parte. Se ti affacci da quella finestra, puoi vedere il campo esterno e la palestra. In fondo a quest’altro corridoio c’è l’aula di musica. Poco più avanti, quella di arte. Il teatro è al piano di sotto. Presumo tu sappia già dove stanno la segreteria e la presidenza. È tutto.”

Roman lo fissò a bocca aperta, imitato dalle due ragazze. Passarono dieci secondi di silenzio, poi scoppiò a ridere di gusto. Gli si avvicinò per assestargli una poderosa pacca sulla schiena e lo abbracciò di lato, incurante della sua rigidità.

“Sei simpatico! Mi piaci!”

“Non volevo essere divertente.” mormorò costipato.

Roman si abbandonò ancora alle risate, seguito, seppur in modo più moderato, da Jennifer e Charlotte.

“Ora che ho il tour completo, andiamo a mangiare. Che ne dici di sederci sulle gradinate a bordo campo?”

Regan scrollò una spalla. Il cielo era terso e la temperatura mite, stare all’aperto non sarebbe stato spiacevole.

Il gruppetto si incamminò verso l’uscita, Roman e Regan in testa e le due ragazze subito dietro. Salirono sugli spalti del campo esterno, diretti a una delle file in cima. Il campo era vuoto a quell’ora, ma sulle gradinate c’erano studenti che mangiavano, chiacchieravano o leggevano.

Una lieve brezza accarezzava il prato e faceva stormire le fronde degli alberi che delimitavano il confine del bosco, a circa duecento metri di distanza. Il sole splendeva nel cielo limpido e i richiami dei gabbiani saturavano l’aria salmastra. La quiete aleggiava ovunque e Regan se ne riempì i polmoni.

Un attimo dopo, vide Jennifer prendere la rincorsa e piazzarsi sul seggiolino alla destra di Roman. Charlotte si sedette accanto a lei, mentre Regan, con molta più calma, prese posto alla sinistra di Roman. Tutti estrassero dagli zaini il proprio pranzo e, tra un morso e l’altro, le due amiche costrinsero Roman a subire un serrato interrogatorio.

“Allora… New York, eh?” esordì Charlotte.

“Sì. O meglio, Brooklyn.”

“Cosa ti ha portato nella nostra ‘rinomata’ cittadina? Hai per caso un’insana passione per il pesce?”

Roman ridacchiò: “No, i miei volevano solo cambiare aria. Non so perché abbiano scelto Ashwood Port, ma mi sta bene. Finora mi piace.”

“Perché vi siete trasferiti proprio adesso e non all’inizio dell’anno scolastico?”

“Ci è voluto parecchio per organizzare il trasloco.”

“Sei figlio unico?” domandò Jennifer, più rilassata ora che Charlotte aveva rotto il ghiaccio.

“No, ho un fratello maggiore, Declan.”

“Cosa fa?”

“Studia alla Columbia. Adesso si sta specializzando in Storia dell’Arte.”

“È un artista?”

“No.”

“Ah.”

Jennifer ridacchiò nervosa e si scervellò per trovare qualcosa di intelligente da dire. Una missione pressoché impossibile, a modesto parere di Regan.

“I vostri nomi fanno rima!” realizzò la ragazza e lo disse come se avesse appena fatto la scoperta del secolo.

“Già, a mia madre piaceva l’idea. Era Roman e Declan, o Dustin e Quentin. Ci è andata bene.”

Le ragazze scoppiarono a ridere. Pure Regan abbozzò un sorriso divertito, che svanì non appena si rese conto che anche il proprio nome faceva rima con quello di Roman. Non solo: stesso numero di lettere e stessa iniziale. Storse le labbra in una smorfia schifata.

“Vivi da solo con i tuoi genitori?” chiese Jennifer.

“Con noi vivono anche i miei zii e cugini. Mia zia Ruby è la sorella minore di mia madre. Poi c’è suo marito Sean e i loro figli, Trevor e Nina, di rispettivamente otto e sei anni. Oggi è il loro primo giorno alle elementari di Ashwood Port, come lo è per me qui al liceo.”

“Oh, che teneri!”

Regan avrebbe voluto sbattere la testa da qualche parte o asportarsi i timpani pur di non udire più la sua voce squillante di Jennifer. Doveva discendere da una qualche irriducibile stirpe di scimmie urlatrici, era l’unica spiegazione.

“Che lavoro fanno i tuoi?”

“Mio padre è un avvocato. Mia madre è… una consulente.”

“Consulente per cosa?”

“Un po’ di questo, un po’ di quello.” rispose vago Roman.

“Okay.” Jennifer non insisté, anche se moriva dalla voglia di soddisfare la curiosità e imparare quanti più dettagli possibili sul ragazzo, “E i tuoi zii?”

“Liberi professionisti.”

“Ah.”

“Ti manca Brooklyn?” intervenne Charlotte, cercando di mantenere viva la conversazione.

“Non molto. Troppo rumore e traffico. Però mi mancano gli amici della mia vecchia scuola.”

“Te ne farai subito degli altri, non preoccuparti.”

“Ho già cominciato.” disse Roman, scoccando un’occhiata all’indirizzo di Regan, che si stava fissando le scarpe mentre sbocconcellava distratto il suo panino.

Notandolo, Jennifer si corrucciò e serrò le labbra in una smorfia scontenta. Quando l’amica le tirò una gomitata nel fianco, tornò a sorridere.

“Dove vivi, Roman?”

“Nella parte sud, vicino al bosco. Dato che siamo in otto, ci serviva una casa grande.”

“Mi piacerebbe vederla.” butto lì con un sorriso timido.

“Un giorno vi inviterò.” rispose il ragazzo, usando volontariamente il plurale.

“Hai un cane?” domandò di getto Regan, interrompendo le due compagne.

“No. Perché?”

“Puzzi di cane bagnato.”

“Regan!” squittì Charlotte, indignandosi al posto di Roman.

Roman si irrigidì. Sembrò soppesarlo intensamente con lo sguardo, come se cercasse qualcosa di preciso. Inspirò a fondo un paio di volte, addirittura, sporgendosi verso di lui. Poi scrollò la testa con aria confusa e rinnovò il sorriso.

“Tranquilla, Charlotte, non mi sono offeso.” le disse pacato, “Non ti piacciono i cani, Regan?”

“Dipende dalle razze. Preferisco di gran lunga i gatti.”

“Hai animali?”

“Quando ero piccola, avevo un criceto.” rispose in fretta Charlotte, impaziente di ricondurre l’attenzione di Roman su di sé e su Jennifer, “Jen ha un pesce rosso”.

“Eh… okay.” annuì Roman e curvò le labbra in un sorriso forzato, “Tu, Regan?”

“Ho un gatto. Poe.”

“Come Edgar Allan Poe?”

“Sì.”

“Troppo inquietante per i miei gusti. Lo scrittore, intendo. Sei figlio unico?”

“Sì.”

“Che lavoro fanno i tuoi genitori?”

“Non li ho mai conosciuti. Mia madre è stata assassinata durante il parto e non so chi sia mio padre. Sono cresciuto con Deirdre, che io chiamo ‘nonna’ anche se non abbiamo legami di sangue e non è vecchia come una nonna. Era la vicina di mia madre, viveva nell’appartamento accanto al suo all’epoca, quando abitava in un condominio in periferia. È stata lei a tirarmi fuori dalla pancia di mia madre mentre esalava l’ultimo respiro. Ha usato un coltello da cucina. Poi mi ha adottato e ci siamo trasferiti dove stiamo ora.”

Un silenzio di tomba calò sul gruppetto. Pallide come spettri, Charlotte e Jennifer fissavano Regan con palese shock, evidentemente ignare di quella parte della sua vita. Roman era a dir poco sconcertato.

“Sei serio?!” indagò Charlotte.

“Non è un segreto.” rispose Regan con una scrollata di spalle.

“Hanno mai preso il colpevole?” chiese Roman.

“No. Il caso è stato archiviato.”

“Oh. Wow.” mormorò, per poi fare una smorfia di fronte alla propria mancanza di tatto.

Charlotte e Jennifer ebbero una silenziosa discussione tramite occhiatacce. Quando la prima spintonò leggermente l’altra per incoraggiarla, Jennifer raddrizzò la schiena e avvolse tra le mani un braccio di Roman. Era a un passo dallo spalmarsi su di lui come il burro sul toast.

“Quale sport sceglierai, Roman?”

“Eh?” farfugliò, preso in contropiede al repentino cambio di argomento.

“Sei uno sportivo, è evidente.”

“Praticavo nuoto alla mia vecchia scuola, ma ho visto che qui non avete la piscina. Menomale che non disdegno il basket.”

“Ti ci vedo bene. Sei alto e scommetto che sei agile.”

“Eh…”

“Hai già visitato la città?” domandò Charlotte.

“No.”

“E Salem?”

“Ehm…”

“Devi assolutamente vederla! È a mezzora di autobus da qui.”

Roman si grattò il mento, valutando l’idea: “Perché no?”

“Perfetto! Che ne dici di sabato?”

“Certo. Regan, tu che fai?”

“Vuoi che venga?” biascicò, senza curarsi di nascondere il genuino stupore, perché finora nessuno lo aveva mai invitato a uscire, anche solo per un gelato.

“Mi farebbe piacere, ma non sei obbligato. Se hai altri impegni, sarà per la prossima volta.”

Jennifer si sporse dietro Roman, sventolò una mano per attirare l’attenzione di Regan e, una volta ottenutala, iniziò a contorcere i muscoli del viso in buffe espressioni. Sembrava quasi che stesse tentando di comunicargli qualcosa.

Regan inarcò un sopracciglio e Jennifer, arresa, assottigliò le palpebre per trafiggerlo con un’occhiata raggelante. Allora, Regan afferrò il messaggio. E decise di fare il contrario.

“Andata. Ci sarò.” disse, stirando le labbra in un sorriso radioso.

“Bene. Voi siete d’accordo, vero?” fece Roman alle ragazze, ignaro della lotta di sguardi.

“Come no! Sarà divertente!” trillò Charlotte, annuendo con forse un po’ troppa enfasi.

“Ci scambiamo i numeri per tenerci in contatto?”

“Ottima idea! Jen, va’ prima tu.” la esortò Charlotte.

La bionda prese il cellulare di Roman e memorizzò il suo numero. Dopodiché fu il turno di Charlotte e, infine, di Regan.

Roman rinfoderò il cellulare nella tasca dei jeans ed elargì un caldo sorriso a Regan: “Hey, che ne dici se-”

Venne interrotto dalla campanella che annunciava l’inizio delle lezioni pomeridiane. Si alzarono tutti, raccolsero i rifiuti e corsero giù dagli spalti per raggiungere le rispettive aule.

“Ci vediamo dopo, Roman!” salutò Charlotte, “Regan.” aggiunse esitante.

In risposta ottenne un grugnito. La mora sbuffò una risata nervosa e li salutò con la mano, trascinandosi dietro una riluttante Jennifer. I due ragazzi rimasero soli.

“A che ora finisci?” domandò Roman.

“Ho solo Latino.”

“Oh. Beh, suppongo che sopravvivrò fino a domani senza il mio Cicerone.” scherzò, “Grazie della compagnia, Regan.”

“Uhm.”

“Sai, questo atteggiamento da cavernicolo ti dona.”

“È un talento naturale.”

Roman abbaiò una risata e gli batté una pacca amichevole sulla spalla.

“A domani!” gridò correndo lungo il corridoio.

Non appena sparì dietro l’angolo, Regan rilasciò un sospiro esausto. Rovistò nello zaino in cerca della borraccia e trangugiò d’un fiato metà del contenuto. Il sapore dolce del sangue gli esplose in gola, rinvigorendolo.

Mentre camminava in direzione della classe di Latino, si ritrovò ad annusare la propria felpa: una vaga puzza di cane bagnato aveva impregnato la stoffa.

 
*

Il seminterrato di casa McLaughlin, il cuore dell’agenzia di pompe funebri, era illuminato solo da tre lampade al neon che pendevano dal soffitto. Non c’erano finestre o altri accessi all’esterno, salvo per una porticina che conduceva al cortile sul retro.

Dando le spalle alle scale, percorrendo il corridoio sulla sinistra, si arrivava alla camera della veglia funebre. Era una saletta di tre metri per quattro, arredata con carta da parati color acquamarina e parquet in legno di betulla. Due tavoli, su cui di solito veniva allestito il rinfresco, contornavano l’entrata. Una cinquantina di sedie pieghevoli di plastica erano disposte in due blocchi ordinati, separati nel mezzo in modo da lasciare libero il passaggio.

Le dimensioni modeste della sala incoraggiavano un’atmosfera raccolta, resa ancora più confortevole una volta riempiti i vasi con i fiori scelti dalla famiglia del defunto. Allora si trasformava in una sorta di facsimile della navata di una chiesa durante un matrimonio. C’era pure un pianoforte a muro, anche se veniva usato raramente.

Il corridoio sulla destra conduceva, invece, alla stanza delle imbalsamazioni, dove Deirdre trascorreva la maggior parte del suo tempo. Accanto alla cella frigorifera c’erano quattro nicchie incassate nella parete, in cui Deirdre riponeva i corpi che dovevano essere preparati. Quelli meno urgenti andavano nella cella, in attesa che i familiari decidessero tra cremazione o sepoltura. Sugli sportelli delle nicchie tre delle targhette erano vuote, mentre la quarta mostrava il nome dell’ultima ospite, Hailey Tucker.

Il muro di fronte al tavolo operatorio era coperto da due armadi contenenti gli arnesi del mestiere e da un grosso forno crematorio. Lungo quello opposto c’era un ripiano di metallo, sul quale erano ammucchiate bacinelle, bisturi, forbici, bilance, asciugamani, sapone e cosmetici. L’abito che avrebbe indossato Hailey nella bara era ripiegato sul bordo del lavandino.

Il fantasma di Hailey se ne stava in piedi davanti al forno crematorio, di spalle al tavolo, vestita con una camicia da notte sporca di sangue.

La radio sulla mensola vicino all’entrata stava riproducendo un brano di Robert Johnson, Me And The Devil Blues, riempiendo il silenzio con melodiosi accordi di chitarra.

Deirdre mugugnava le parole della canzone fuori tempo, scandendo il ritmo con un piede. Il grembiule impermeabile le fasciava le curve sopra il vestito color pervinca. I capelli erano raccolti sotto una cuffietta rosa.Le sue mani, infilate in spessi guanti di lattice, si immersero di nuovo nel cadavere adagiato sul tavolo e ne uscirono stringendo il fegato, che venne posato dentro una bacinella sul ripiano dietro di lei, accanto agli altri organi.

La porta principale si aprì e chiuse con un tonfo secco, avvisandola del rientro di Regan da scuola.

“Nonna!”

“Sono di sotto!”

I passi di Regan si avvicinarono alla porta del seminterrato e si abbatterono sui gradini di legno. Quando emerse nella stanza dell’imbalsamazione, sbadigliò e le rivolse un sorriso stanco. Poe era acciambellato sulle sue spalle a mo’ di sciarpa, la coda a penzoloni sullo sterno del ragazzo e la testa premuta sul lato destro della sua gola. Deirdre poteva udire le sue fusa fin da lì.

“Com’è andata a scuola?”

“C’è un nuovo studente, da New York. Ci ho stretto amicizia.”

Deirdre si pietrificò e guardò il nipote con occhi fuori dalle orbite. Appurato che non stesse scherzando, le sue labbra si stirarono in sorriso fiero.

“Sono così felice, leprotto! E dimmi, come si chiama? Perché si è trasferito in questo periodo dell’anno? Coraggio, raccontami tutto.” lo esortò, avida di pettegolezzi.

“Si chiama… aspetta, come mai stai praticando l’autopsia su quella donna?”

“Sto collaborando con la polizia. Hillary mi ha chiesto di occuparmene, perché quelli dell’obitorio sono degli incompetenti, a sentire lei.”

Hillary Zimmermann era lo sceriffo, eletta con consenso unanime sei anni addietro. Lei e Deirdre si erano conosciute durante le indagini relative al decesso di Shannon Tally, la madre biologica di Regan. All’epoca, Hillary era da poco entrata nelle forze dell’ordine. Successivamente, aveva aiutato Deirdre a stilare le pratiche per l’adozione evitando i cavilli legali più insidiosi, inaugurando così una lunga amicizia. Veniva a cena da loro almeno una volta al mese da che Regan avesse memoria.

Hillary non era al corrente della natura vampira di Regan, come neanche dell’abilità sua e di Deirdre di vedere i fantasmi. Deirdre si era premurata di tenerla all’oscuro del mondo sovrannaturale, perché Hillary, testarda come un mulo, realista e atea, non accettava nulla che non potesse vedere e toccare. Perciò era meglio che non sapesse cosa si celava sotto il suo naso. Le persone come lei tendevano ad avere gravi crolli psicologici se poste di fronte a una realtà che ribaltava tutti i pilastri precedentemente eretti.

“A proposito, è da un po’ che non viene a trovarci. L’ultima volta è stato per il mio compleanno, ad agosto. L’ho vista a scuola qualche settimana fa, quando è venuta con i Meyers a parlare di Teresa, ma da allora niente.”

“Mi ha detto di essere molto impegnata col lavoro. Sembra che l’indice di criminalità sia salito, anche se non ai livelli delle grandi metropoli.”

“Cosa intendi?”

Deirdre finì di ricucire lo squarcio sullo sterno del cadavere e tagliò il filo avanzato con le forbici.

“Furti, ubriachezza molesta, disturbo della quiete pubblica, risse. Ogni giorno ne capita una e sono a corto di personale, così Hillary è costretta a fare i doppi turni.”

Regan mugugnò assente e si focalizzò su Hailey Tucker. Dai lisci e lunghi capelli castani, passando per i seni piccoli e sodi, separati nel mezzo da una colonna di freschi punti di sutura, per finire con il ciuffetto di peli pubici fra le gambe ossute, i suoi occhi percorsero ogni centimetro visibile di quel corpo, senza tradire alcuna emozione. I lividi spiccavano sulla sua pelle alla stregua di macchie d’inchiostro su una tela bianca. Gettò un’occhiata stranita al suo fantasma e alla camicia da notte sporca di sangue e si accigliò.

“Che le è successo?”

“Pare che questa poverina si sia uccisa. Impiccata, per l’esattezza. Vedi qui, sul collo, questa leggera gobbetta? Era spezzato. Ciò che ha allarmato Hillary, però, sono i lividi a forma di mano o causati da un corpo contundente che costellano il suo corpo. Dato che il marito si dichiara innocente e non hanno prove o testimoni per incastrarlo, non possono arrestarlo per violenza domestica.”

“E tu come speri di trovarle?”

“Sugli avambracci mostra ferite da difesa. Forse sotto le sue unghie è rimasto del DNA, oppure la misura dei lividi corrisponde a quella della mano del marito. Beh, mi hanno solo incaricata di fare un controllo e stilare un rapporto. E dal momento che la famiglia ha già richiesto i nostri servizi per il funerale, non vedo perché no. Finisco di appuntare gli ultimi dettagli dell’autopsia, poi la imbalsamo per bene. Già che sei qui, potresti pesare gli organi e scrivere i valori su quel foglio? Non dimenticare i guanti.”

“Hai già fatto le analisi del sangue?” indagò mentre indossava i guanti di lattice.

“Almeno quelle gliele hanno fatte all’ospedale, ed è risultata pulita. Ma io sto ancora aspettando di sapere qualcosa sulla nuova matricola.”

“Non è una matricola, è al secondo anno. Si chiama Roman Sinclair.”

“Che lavoro fanno i suoi genitori?”

“Lui è avvocato, lei una consulente di qualche tipo.”

“Mmm…”

Deirdre non elaborò i suoi pensieri. Quando e se avesse voluto condividerli, lo avrebbe fatto. Così Regan lasciò cadere l’argomento e si concentrò sul suo compito.

Terminato di pesare gli organi, buttò i guanti nel cestino sotto al tavolo e scrisse i dati raccolti nel referto della vittima. Quindi afferrò la macchina fotografica e scattò delle foto da più angolazioni, nel caso la polizia ne avesse avuto bisogno. Nel referto c’erano già i risultati tossicologici, perciò, d’ora in avanti, gli organi non sarebbero più stati di alcuna utilità.

Scambiò un’occhiata eloquente con Poe, ancora appollaiato sulle sue spalle. Il gatto strusciò una guancia sulla sua miagolando e, dopo aver ricevuto un buffetto sul naso, saltò sul tavolo senza perdere altro tempo. Regan lo lasciò a smangiucchiare fegato e reni, le sue parti preferite.

Quando la radio diffuse l’ennesimo pezzo blues, Regan grugnì esasperato.

“Perché ascolti sempre questa roba mentre lavori?”

“Robert Johnson è un dio, ignorante di un nipote. Un giorno imparerai ad apprezzarlo. Vieni qui, devo drenare il sangue e imbalsamare le arterie, mi serve una mano.”

“Hai già cucito la bocca?”

“E incollato le palpebre e depilato il viso, sì. Mi hai presa per una dilettante?”

Mentre Deirdre iniettava formaldeide mista ad altre sostanze chimiche nelle arterie del cadavere, Regan incise quella femorale per drenare il sangue, che si raccolse in una bacinella di metallo. L’odore ferroso gli stuzzicò le narici. Aveva un retrogusto stantio. Non provò alcun desiderio di assaggiarlo, e non solo per il sapore amaro che avrebbe avuto. Bere il sangue di un morto era praticamente uguale a ingerire un bicchiere di varechina. Non sarebbe finito all’altro mondo, ma la gastrite non gliel’avrebbe risparmiata nessuno.

“Comunque, Roman mi ha preso in simpatia, per qualche ragione a me oscura. Sembra il classico bravo ragazzo, gentile e carismatico. Ha già degli ammiratori. Sabato esco con lui, Charlotte Wilson e Jennifer Dawry. Lo portiamo a Salem.” disse, riprendendo il discorso da dove lo aveva interrotto.

“Ottimo lavoro, leprotto. Sono sicura che se saprai giocare bene le tue carte, in men che non si dica ti ritroverai inserito con successo nel club dei cittadini modello. Cerca anche di limitare i tuoi tic, se puoi. Ed evita le minacce di morte e violenza fisica. Sorridi e comportati da persona normale.”

“E se fallissi?”

Quando ci riuscirai,” lo corresse sua nonna, “e quando avrai imparato a controllare i tuoi impulsi alla perfezione, allora potrai concederti di nuovo il lusso della caccia. Prendilo come un incentivo a fare del tuo meglio.”

Regan trattenne il fiato e fissò Deirdre con un luccichio famelico nelle iridi di ghiaccio. Lei gli scoccò un sorriso complice e gli fece l’occhiolino.

Poe balzò sul tavolo e si sedette sulle gambe del cadavere, per poi iniziare a ripulirsi il pelo dai rimasugli di carne e sangue con rapide leccatine.

In sottofondo, la voce di Robert Johnson continuava a riempire il silenzio assieme melodiosi accordi di chitarra.

 
*

Intorno alle cinque del pomeriggio, Roman parcheggiò la macchina nel vialetto, accanto alla BMW di suo padre e alla Toyota dei suoi zii. Spense il motore, scese e, in quattro falcate, raggiunse la porta della villa.

Era un edificio spazioso a due piani, più una soffitta e un seminterrato. Al pian terreno c’erano la cucina, il salotto, la biblioteca, una camera per gli ospiti e un bagno; al secondo c’erano cinque camere e tre bagni. L’architettura era moderna, la casa ristrutturata di recente.

Nell’aria aleggiava ancora l’odore chimico della vernice usata dagli imbianchini. Da quando erano arrivati, ormai due giorni addietro, i Sinclair se ne andavano in giro col naso arricciato in un’espressione di palese fastidio e disgusto. L’unica soluzione era tenere le finestre spalancate il più possibile, respirare solo dalla bocca e pregare che il tanfo sparisse in fretta.

“Sono tornato!” chiamò Roman, oltrepassando la soglia di casa con le chiavi in mano e lo zaino in equilibrio su una spalla.

“Lo sappiamo!” urlò Trevor dal salotto.

“Non c’è alcun bisogno di essere acidi.” farfugliò seccato Roman.

“Tu sei acido.”

Roman entrò in salotto e vide suo cugino Trevor spaparanzato sul divano, gli occhi fissi sullo schermo della televisione e il telecomando stretto al petto, per evitare che sua sorella Nina glielo rubasse. La frangia rossa gli copriva gli occhi, ma lasciava esposto il colossale broncio che gli adornava le labbra. Indossava la sua maglietta preferita, quella gialla con il disegno di un cactus che faceva una linguaccia. Le gambe, invece, erano infilate in dei leggings grigi.

Nina era rannicchiata dalla parte opposta del divano, con la schiena appoggiata al bracciolo e le dita impegnate a giocherellare con le trecce bionde. Il suo corpo magro era fasciato da una felpa nera con cappuccio e da un paio di larghi pantaloni della tuta. Nina odiava i vestiti da femmina, perciò i genitori le avevano riempito l’armadio di indumenti maschili, tassativamente di una gamma di colori che andavano dal nero al blu notte. Non vedevi un lampo sgargiante nemmeno a pagarlo oro. L’unica cosa femminile che sfoggiava erano i capelli, perché li adorava lunghi e acconciati sempre in modi diversi.

“Deduco che il primo giorno abbia fatto schifo…”

“Il peggio del peggio.” borbottò funereo Trevor.

“Nina?”

“A ricreazione siamo andati in giardino e ho chiesto ai maschi se potevo giocare con loro a palla. Le bambine hanno subito cominciato a prendermi in giro e a sparlare di me alle mie spalle. Hanno detto che sono strana e brutta.” borbottò con occhi lucidi.

Roman la fissò sconvolto per un momento, poi indurì lo sguardo: “Dimmi chi sono queste smorfiose, ci penso io a rimetterle in riga.”

“No! Non sono una principessina che ha bisogno di protezione!”

“Scusa, non intendevo offenderti.”

“Tu? Hai già fatto svenire tutte le ragazze di provincia con il tuo fascino?” chiese Trevor con una punta di sarcasmo.

“Da dove le tiri fuori certe espressioni? Comunque, no. Non tutte.” ghignò giocoso.

“Non tutte.” lo scimmiottò il cugino, schioccò la lingua e riassunse il broncio scorbutico.

“Dai, Trev, ora è il mio turno!” si lamentò Nina.

Trevor le fece una pernacchia, scattò in piedi e cominciò a correre per il salotto, sventolando il telecomando sotto il naso di Nina. Lei abboccò. Si scagliò contro di lui per agguantare l’oggetto, ma cadde di faccia sul tappeto quando Trevor si scansò all’ultimo secondo. Scoppiò a piangere, mentre il fratello sghignazzava trionfante.

“Buoni, voi due.” li ammonì Tamara dalla cucina.

Roman lasciò i cugini a litigare e la raggiunse.

“Ciao, ma’.”

“Ciao, tesoro.”

Roman non protestò quando sua madre si sporse per baciarlo sulla guancia e strofinargli un palmo sul collo e tra i capelli, senza distogliere lo sguardo dalle padelle sui fornelli.

“Che c’è per cena?”

“Pollo alla cacciatora, spinaci al formaggio e patate al forno.”

Roman la osservò rimestare gli spinaci con il mestolo. Inalando l’aroma del formaggio, si umettò le labbra.

“Papà e gli zii dove sono?” le chiese.

“Vincent è in biblioteca. Ruby e Sean dovrebbero tornare tra poco.”

“Va bene. Vado in camera a fare i compiti.”

“Okay.”

Roman salì le scale e si rifugiò in camera, chiudendosi la porta alle spalle. La stanza non era insonorizzata, perciò i suoni provenienti dal salotto e dalla cucina, sebbene attutiti, filtravano tranquillamente attraverso la barriera di legno. Ci era abituato, avendo dovuto fare a meno della privacy fin da quando era nato. Ormai aveva imparato a respingerli, trasformandoli in rumore bianco.

Ammonticchiati in un angolo c’erano ancora un paio di scatoloni, contenenti la sua collezione di videogiochi. Non sapeva dove metterli, dato che la piccola libreria era già piena. Una scrivania, un letto a una piazza e mezzo e un armadio a muro completavano l’arredamento. Erano arrivati da un paio di giorni, quindi Roman non aveva avuto tempo di personalizzare la camera.

Si sedette alla scrivania, accese la lampada ed estrasse i libri dallo zaino. Non sarebbe riuscito a completare tutto prima di cena, ma intanto si sarebbe tolto di mezzo Algebra. Anche se non era mai stato una cima in quella materia, si era promesso che quell’anno si sarebbe impegnato di più. Ignorò persino il computer, cosa che non sarebbe mai riuscito a fare fino a un paio di mesi fa.

Un’ora dopo, salivando alla vista della tavola imbandita, Roman si sedette alla destra di suo padre, che era a capotavola. Tamara prese posto alla sinistra del marito, gli zii si accomodarono accanto a lei, mentre Trevor e Nina accanto a Roman, di fronte ai genitori. Se ci fosse stato Declan, avrebbe dovuto occupare lui la sedia di Roman, secondo la tradizione.

Roman scacciò la malinconia che il pensiero di suo fratello portava con sé e si distrasse ad ascoltare i cugini che battibeccavano.

Il cibo venne servito, ma finché Vincent non azzannò il primo pezzo di carne nessuno cominciò a mangiare. Dopodiché, l’aria si riempì di chiacchiere e del rumore metallico delle posate che cozzavano sui piatti.

“Allora, figliolo. Com’è andato il primo giorno di scuola?” domandò Vincent dopo dieci minuti.

“Bene. Mi sono fatto un paio di amici e sono stato invitato a una piccola gita a Salem questo sabato. Mi mostreranno i musei e le altre chicche della città.” rispose pacato Roman.

L’uomo mugugnò un assenso e si grattò distrattamente la barba. Scostandosi il ciuffo di capelli brizzolati dal viso, addentò un altro pezzo di pollo, ingoiò e si schiarì la gola. Anche se gli occhi azzurri rimasero fermi sul cibo che aveva nel piatto, tutta la sua attenzione era concentrata sul figlio.

“Chi sono questi amici?”

“Tre del primo anno, un ragazzo e due ragazze.”

“E puoi divulgare i loro nomi o sono un segreto?”

“Vince, andiamo!” sbuffò Tamara.

“Che ho detto?”

“Lascia stare, ma’, non c’è problema. Il ragazzo si chiama Regan, le due ragazze Charlotte e Jennifer.”

“E compagni della tua età?”

“Ho scambiato qualche convenevole, ma nulla di particolare.”

Tamara ridusse gli occhi a fessure e squadrò severa il marito: “Ti basta?”

“Ho fatto solo domande generiche!” si difese Vincent, “Perdonami se voglio impedire un ripetersi dell’anno scorso.”

“Roman ha imparato la lezione, non serve rigirare il coltello nella piaga.”

Vincent si rabbuiò e tornò a infilzare il pollo con la forchetta. Tamara si portò una ciocca di capelli ramati dietro l’orecchio e roteò gli occhi.

“Ruby, Sean. Com’è andato il giro di pattuglia?”

“Abbiamo marcato i confini del territorio. Niente da segnalare.” rispose Sean, sintetico come sempre.

La luce emanata dalla lampada sul soffitto conferiva una brillantezza innaturale ai suoi capelli biondi, rasati sulla nuca e ai lati, oltre a rendere più definiti i tratti severi del suo viso, che sembrava scolpito nel marmo. Gli occhi azzurri, invece, rifulgevano di una freddezza simile a quella che sprigionavano gli occhi di Regan.

Ruby masticò un pezzo di pollo e, subito dopo, si riempì la bocca con una forchettata di patate. Lo chignon di capelli rossi ballonzolava seguendo i movimenti della testa, in un modo che Roman poteva solo definire ipnotico. Le iridi grigie puntate sul piatto e l’espressione assente erano un palese indizio che non stesse minimamente ascoltando, come al solito.

“Bene. E voi?” disse Tamara, rivolta a Trevor e Nina.

“Uno schifo!” esclamarono in coro.

Vincent simulò un attacco di tosse per nascondere una risata, Ruby sollevò di scatto il capo e Sean sospirò spazientito. Roman piegò le labbra in un sorriso genuino e spettinò giocosamente i capelli di Trevor.

Il resto della cena trascorse tra chiacchiere superficiali. Roman aiutò a sparecchiare e, dopo aver asciugato i piatti, si rintanò in camera per terminare i compiti.

Durante l’ora successiva, seduto alla scrivania davanti al libro di Storia, adocchiò di frequente il cellulare, abbandonato sul comodino per allontanare le distrazioni. L’evidenziatore, stretto tra indice e medio, sbatteva rapidamente sulla pagina allo stesso ritmo della gamba destra sotto il tavolo. Il labbro inferiore era prigioniero dei denti, la mano sinistra un groviglio di nervi e tendini che scrocchiavano ogni dieci secondi.

Era assai tentato di scrivere a Regan, chiedergli come stesse, cosa stesse facendo, se gli andasse di inviargli una foto di Poe, ma alla fine lasciò perdere. A suo avviso, non c’era nulla di peggio di qualcuno che ti si incollava addosso subito dopo aver fatto conoscenza. E poi lo avrebbe rivisto l’indomani, non v’era alcun bisogno di struggersi se non aveva un contatto nelle prossime ore.

In compenso, ricevette un paio di messaggi da Jennifer e uno da Charlotte. Nulla di speciale, solo qualche proposta di uscire al cinema e, magari, a mangiare una pizza.

I messaggi di Jennifer erano generici ma mirati. Era più che evidente l’interesse della ragazza, anche se lei cercava di celarlo. Come se gli ormoni che aveva emanato a pranzo non fossero già stati un chiaro indizio.

Charlotte sembrava voler convincere Roman a passare più tempo con l’amica, offrendo idee per appuntamenti sotto la guisa di consigli su posti belli da vedere ad Ashwood Port.

Almeno con Jennifer c’era da apprezzare la sottigliezza. A Roman non piacevano le ragazze troppo sicure di sé, spavalde e con l’aria da reginette del ballo. Di oche che gli ronzavano intorno ne aveva avute a volontà nel suo vecchio liceo e, sebbene fossero perfette per una relazione senza troppe pretese, alla lunga diventavano insopportabili.

Regan era tutta un’altra questione. C’era un’aura attorno a lui che attraeva Roman come una falena verso la fiamma. Sotto la felpa larga nascondeva un fisico magro, eppure straordinariamente tonico, come aveva appurato quando lo aveva abbracciato. A prima vista non lo si sarebbe considerato forte, ma lo era. Roman aveva percepito nitidamente l’energia racchiusa nei suoi muscoli, nervosa e fredda come la sua pelle. Anche i suoi occhi erano freddi e affilati, a tratti spenti, a tratti vigili e crudeli. No, non crudeli: severi, disillusi. Apparivano crudeli solo a causa delle borse violacee che li incorniciavano e degli zigomi spigolosi.

Il dettaglio che, in assoluto, lo aveva catturato era stato il suo odore. Roman non aveva mai fiutato nulla di simile in vita sua. Era un miscuglio difficile da catalogare. Aveva registrato l’odore del gatto, certo, e una forte scia di gelsomino e miele, probabilmente sua nonna. Sotto di essi, però, il vero odore di Regan era indescrivibilmente unico: sangue, legno bruciacchiato, terra smossa, resina, ortiche, neve. Era un odore che, in principio, lo aveva confuso, ma più lo inalava più si scopriva ad apprezzarlo.

Quel ragazzo aveva risvegliato la sua curiosità. Non vedeva l’ora che arrivasse domani, e poi sabato. Desiderava conoscerlo meglio, scavare, dissotterrare, portare alla luce ciascun aspetto della sua personalità. La sola idea lo eccitava.

Andò a dormire che era quasi mezzanotte. Spense la luce, si infilò sotto le coperte e sorrise pensando a un altro giorno di scuola. Era la prima volta che gli capitava di essere emozionato per una cosa del genere.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Weird but cute ***









 
La settimana passò in fretta per Roman. Oltre alla caterva di compiti che i professori gli assegnarono per rimettersi in pari, in aggiunta a quelli normali in preparazione ai primi test, partecipò alla selezione per la squadra di basket. Non credeva che la competizione fosse così spietata. Entrò, ovviamente, ma dovette dar fondo a tutte le tecniche che conosceva.

Zack Pember, capitano della squadra, lo accolse con un enorme sorriso e una poderosa pacca sulla schiena, dicendogli che, adesso che Roman era con loro, avevano la vittoria in pugno. L’invidia che avevano rilasciato gli altri ragazzi per tutto il tempo gli aveva fatto storcere il naso.

Dopodiché, iniziarono gli allenamenti, che gli portavano via due ore pomeridiane due volte a settimana, sottraendo tempo allo studio. Roman strinse i denti e ce la mise tutta per non restare indietro, anche se non era facile.

Stando così le cose, non erano molte le occasioni in cui poteva godere della compagnia di Regan, eccetto per la pausa pranzo tre volte a settimana, in cui avevano lo stesso turno. E durante due di quelle tre, Charlotte e Jennifer, e ora pure Zack, si aggregavano a loro sulle gradinate del campo esterno.

La cotta di Charlotte per il capitano della squadra di basket era chiara come il sole, e ricambiata. Di sicuro i due sarebbero finiti insieme presto, a giudicare dalle occhiate che si lanciavano.

Jennifer si fece sempre più insistente, pressandolo affinché la accompagnasse in quel posto o in quell’altro, con la scusa di mostrargli gli angoli più chic della città. Roman non ne poteva più di ripeterle che non aveva il tempo materiale da dedicarle, tra lo sport e i compiti.

A quelle scenette, convinto che nessuno lo osservasse, Regan sghignazzava sotto i baffi. Soprattutto quando Jennifer, stufa dei continui rifiuti, assumeva il tipico comportamento da gatta in calore: si strusciava su Roman, gli palpava i muscoli e lo sommergeva di complimenti su ogni minima cosa. Per lo più, comunque, Regan se ne restava in disparte, per i fatti suoi, ai margini del gruppo. L’espressione perennemente annoiata sottolineava la completa mancanza di voglia di partecipare alle conversazioni. Neanche si sforzava. E nessuno gli rivolgeva mai la parola.

Roman notò anche il trio di bulletti che sembrava avercela con lui. Si azzardò a intervenire solo una volta, credendo di aiutare, e gli bastò per il resto della vita. Infatti, entrambi in piedi di fronte agli armadietti, circondati da uno stuolo di studenti curiosi, Regan prima lo crocifisse con un’occhiata raggelante, poi gli sibilò in un orecchio di non provare ad umiliarlo mai più, specialmente in pubblico.

“Non ho bisogno di un principe e non sono una damigella in pericolo.” sputò invelenito, dandogli le spalle, e si allontanò lungo il corridoio a passo sostenuto, mentre Gregory e la sua cricca ridacchiavano trionfanti dietro di lui.

E così, in quell’occasione, Roman non solo fece conoscenza con la lingua tagliente di Regan, ma scoprì che funzionava bene quanto i suoi ganci contro individui come Gregory. Era uno spettacolo ascoltare Regan ricoprire qualcuno di insulti, non mancava mai di spedirgli conturbanti brividi in ogni estremità del corpo. Sempre se tali insulti non erano rivolti a lui, ovvio. In quel caso, avvertiva l’impulso di raggomitolarsi in una palla e mostrargli la gola in un gesto di sottomissione.

Regan era un maschio alfa travestito da preda, pronto a morderti dove più faceva male se premevi i tasti giusti.

Talvolta il suo atteggiamento era frustrante, ma spesso Roman non poteva esimersi dall’invidiarlo. Invidiava la sua compostezza, il suo menefreghismo e la sua arte di rendersi invisibile. A Regan bastava alzarsi, girare i tacchi e andarsene, nessuno lo avrebbe fermato. Era libero di muoversi come più gli pareva. Roman, invece, doveva barcamenarsi tra gente petulante che non aveva alcuna considerazione per i suoi spazi.

Sul serio, perché non ci davano un taglio? D’accordo, lui era la novità e sapeva che ci sarebbe voluto un po’ prima che l’entusiasmo generale scemasse, ma già intravedeva il limite. E cosa aveva Jennifer, con tutti quei messaggi che gli mandava ad ogni ora del giorno e della notte? Stava cominciando a puzzare di disperazione.

Finalmente giunse sabato, e così la tanto attesa uscita a quattro. Anzi, a quanto pareva erano saliti a cinque, come scoprì Roman quando parcheggiò alla stazione di Salem e vide anche Zack. Era venuto in macchina, invece che col pullman insieme agli altri, così avrebbe avuto più libertà di movimento. Era stata una decisione dell’ultimo minuto, in realtà, per evitare di dover subire la presenza appiccicosa di Jennifer più del necessario. Non dubitava che, sapendolo in anticipo, Charlotte lo avrebbe ricattato velatamente affinché facesse il viaggio con l’amica.

Avvicinandosi al gruppetto, notò che Regan fissava il cielo come se racchiudesse tutte le risposte. O forse era solo per l’esasperazione alla prospettiva di trascorrere un’intera giornata in compagnia di persone. Appesa a una spalla, portava una borsa a tracolla. Roman si chiese cosa contenesse. Una breve sniffata gli comunicò che lì dentro c’era del cibo. Roastbeef, per la precisione.

“Roman!” esclamò Jennifer, strappandolo alle sue riflessioni.

“Ciao, Jennifer.” la salutò cordiale, per poi scoccare un’occhiata dubbiosa a Regan, ancora intento a scrutare il cielo, “Regan, stai bene?”

Lui gli rispose con il proverbiale grugnito, quindi tutto a posto.

“Come va, Zack?”

“Alla grande.”

Dopo essersi scambiati i convenevoli di rito, Charlotte prese il comando della loro piccola spedizione ed espose il programma.

“Allora, direi di cominciare con la Witch House. Poi, se siete d’accordo, andremo al Witch Dungeon Museum. Pausa pranzo al parco lì accanto e, nel pomeriggio, il museo delle cere. Se ci rimane un po’ di tempo, possiamo far fare a Roman un giro rapido dei cimiteri. Che ne pensate?”

Tutti accettarono con entusiasmo – Regan grugnì – e si incamminarono verso la prima meta. Jennifer si affiancò immediatamente a Roman, Zack si incollò a Charlotte e Regan venne relegato nelle retrovie di comune accordo. Roman non apprezzò per niente quella ripartizione, ma per il momento si astenne dal commentare. Non gli andava di offendere le ragazze o creare da subito degli attriti nel gruppo.

Nonostante fosse bassa stagione, Salem brulicava di turisti. Sorpassarono vari gruppi, chi diretto a questo o quel museo, tutti con una guida tascabile della città in una mano, la macchina fotografica nell’altra e gli occhi spalancati per memorizzare tutto ciò che vedevano. Salem non era una città degna di nota, per quanto riguardava architettura o strade. Ciò che la rendeva speciale erano i musei dedicati ai processi delle streghe e i cimiteri in cui erano sepolti i confederati.

Il tour della Witch House fu breve. Roman lo avrebbe trovato interessante, se solo Jennifer si fosse staccata dalla sua persona e ammutolita per un minuto. Regan, al contrario, rimase zitto per tutto il tempo e leggermente discosto dagli altri. La sua espressione neutra rese impossibile a Roman indovinare non solo i suoi pensieri, ma anche il suo stato d’animo. Se non fosse stato per il fatto che emanava un odore, o per il battito del suo cuore, lo avrebbe scambiato per un robot.

“Roman, permetti una domanda?” chiese Zack sulla strada verso il secondo museo.

“Certo, dimmi pure.”

“Come mai sei ancora al secondo anno e non al terzo? Hai detto che il 7 gennaio ne compi diciotto.”

Roman sospirò e infilò le mani nelle tasche dei jeans.

“Sono bocciato l’anno scorso. È uno dei motivi per cui ci siamo trasferiti. Frequentavo una brutta compagnia e ho finito per combinare dei casini. Mi sono preso le mie colpe e accettato le conseguenze, ma restare non era concepibile.”

“Ti drogavi?” indagò Regan senza peli sulla lingua, dando voce alla domanda che gli altri non avevano il coraggio porgli.

Charlotte, Zack e Jennifer gli scoccarono occhiate allarmate. Lui li ignorò, concentrandosi sulla reazione di Roman, che scrollò a malapena una spalla con aria tranquilla.

“No, sono solo stato complice di piccoli furti e atti vandalici. La cosa è terminata quando mi hanno arrestato.”

“Sei stato in prigione?” esalò con meraviglia.

“Per una notte. Poi i miei mi hanno tirato fuori. Di buono c’è che la mia fedina penale verrà ripulita subito dopo il mio compleanno, a gennaio. I vantaggi di essere minorenne, suppongo.”

Regan mugugnò un assenso.

“Io ho avuto problemi di salute il primo anno delle medie.”

“Era grave?” indagò apprensivo Roman.

“Abbastanza.”

“Sei anche bocciato alle elementari, giusto?” lo interruppe Charlotte con un sorrisetto sardonico, che lasciò il posto a una smorfia imbarazzata non appena Regan le rispose.

“No. Mia nonna mi ha solo iscritto un anno più tardi rispetto agli altri, cioè quando ne avevo sette invece che sei. A dire il vero, se fosse stato per lei avrei continuato a studiare a casa fino alle medie, ma il lavoro non faceva che aumentare e non aveva più tempo per starmi dietro.”

“Oh. Perciò hai… sedici anni?” chiese Roman.

“Compiuti il 15 agosto.” confermò Regan.

“Auguri in ritardo!”

“Grazie.”

Jennifer si schiarì la gola e prese Roman a braccetto: “Siamo arrivati. Entriamo?”

Oltrepassarono la soglia del museo in formazione: Roman e Jennifer in testa, Charlotte e Zack a seguire e, in coda, Regan. Le due coppie esclusero Regan dalla conversazione, ma lui non ne fece un dramma. Anzi, il loro comportamento andava a suo vantaggio, perché così poteva studiare Roman indisturbato.

Il dettaglio che trovava più strano era il suo vizio di annusare spesso l’aria. Le sue narici fremevano di continuo. A seconda dell’odore che captava, la sua bocca si piegava in un sorriso o in una smorfia. Era un fenomeno molto interessante e curioso. Gli ricordava un cane.

Inoltre, era ovvio il suo fastidio per gli incessanti tentativi di approccio di Jennifer. Possibile che la ragazza non riuscisse a cogliere il messaggio? Era triste vederla affannarsi per tenere focalizzata su di sé l’attenzione di Roman. Regan la trovava davvero patetica.

Durante la visita, pian piano Charlotte e Zack si distanziarono dagli altri due, col risultato di rimanere spesso soli con Regan. Non compirono alcuno sforzo per coinvolgerlo, preferendo fingere che non esistesse.

Regan non sapeva se sentirsi offeso o sollevato. Quando però iniziarono a tubare davanti a lui come due colombelle, avvertì montare l’irritazione e la nausea, nonché una noia mortale. A metà percorso decise di abbandonarli alle loro smancerie e tornò indietro per aspettarli all’aperto.

Roman fu il primo a raggiungerlo, dieci minuti più tardi. Improvvisò persino una corsetta quando lo individuò sul marciapiede.

“Perché sei sparito?”

Regan lo guardò dall’alto in basso: “Avevo bisogno d’aria.”

“Okay.” Roman si morse un labbro e dondolò sui talloni, le mani infilate nelle tasche del giubbotto, “Hai fame?” gli chiese dopo un po’.

“Ho il pranzo al sacco.”

“Non sapevo bisognasse portare il pranzo al sacco.”

“Non c’era nessun obbligo.”

“Ah. Cosa ti sei portato?”

“Un panino con roastbeef.”

“Che ne dite di andare a mangiare al parco qui vicino?” si intromise Charlotte, comparendo dietro di loro.

“Ottima idea!” esclamò Jennifer, arpionandosi di nuovo al braccio di Roman.

Roman represse a fatica una smorfia scocciata e si lasciò trascinare dalla ragazza lontano da Regan. Gli pareva di essere vittima di un complotto, come se nessuno volesse lasciarlo solo con Regan per più di un minuto, e se ne chiese il motivo. Aveva compresa che il moro non era benvoluto dai suoi coetanei, ma il perché continuava a sfuggirgli. Cosa aveva mai fatto Regan per meritarsi un simile trattamento? Decise che avrebbe indagato in un altro momento.

Arrivati al parco, comprarono al chiosco panini e bibite e si sedettero sul prato. Regan si accomodò a due passi di distanza dal quartetto: non troppo lontano da sembrare un estraneo, né troppo vicino da rischiare di venire linciato dalle ragazze, che non la smettevano di scoccargli occhiate velenose.

Al museo delle cere, una donna di mezza età li accolse con un sorriso smagliante. Aveva corti capelli biondi e un viso paffuto. Quando incrociò il suo sguardo, Roman notò che era affetta dallo strabismo di Venere, ma, invece che rovinare la dolcezza del suo viso, stranamente la enfatizzava. Anche il suo odore gli piacque: mandorle tostate e caramello. Gli bastò annusarlo una volta per capire che era una madre e una persona gentile.

“Può darci cinque biglietti, per favore?”

“Certo.” la donna strappò cinque biglietti dal mazzo e glieli porse mentre stampava la ricevuta, “Ecco a voi. Volete anche un’audioguida?”

“No, ce la caviamo da soli.”

“Okay. Godetevi il tour.”

Charlotte e Jennifer si tuffarono subito in una spiegazione sulle scene rappresentate, finendo una le frasi dell’altra. Era palese che si fossero studiate a memoria la guida del museo per impressionare i ragazzi. Roman e Zack le ascoltarono con interesse, finché gli sbuffi divertiti di Regan non richiamarono la loro attenzione.

“Che hai da ridere?” gli chiese Charlotte, perdendo il sorriso.

“Non fai che sbagliare le date, i nomi e molti dei dettagli sui processi.” le fece notare Regan.

“Oh, davvero? E scommetto che invece tu sei un esperto.” lo sfidò, incrociando le braccia sotto al seno.

“Sì. Ho attraversato una fase in cui l’argomento mi appassionava parecchio, so tutto quel che c’è da sapere e di più.” ammise senza modestia.

“Beh, allora racconta. Sono curioso.” lo esortò Roman.

Da un lato avrebbe voluto ridacchiare, dall’altro era preoccupato per Regan. Sembrava che avesse un inquietante talento naturale nel provocare rabbia e risentimento nel prossimo. Persino Roman, se non avesse avuto la pazienza di un santo, si sarebbe offeso per tutte le volte che Regan, nei giorni precedenti, gli aveva rivolto un commento poco carino. Ciò che lo rendeva divertente era che non si accorgeva nemmeno di essere scortese. Viveva in un mondo tutto suo, alienato dalla realtà che lo circondava. Per questo motivo Roman si lasciava scivolare addosso le frecciatine e, invece, scoppiava a ridere. Lo trovava ridicolmente adorabile.

Posandogli una mano sulla spalla, lo pilotò attraverso il museo e a distanza di sicurezza dalle ragazze inviperite, pregando che la situazione non degenerasse.

Il tema ricorrente era quello dei processi alle streghe, così videro donne con cappi intorno al collo e uomini ben vestiti, in piedi su patiboli di legno. Regan cominciò a illustrare le scene, indicando con precisione nomi e ruoli dei manichini di cera esposti, e inserì qua e là aneddoti storici per il beneficio di Roman, che lo ascoltò avidamente dall’inizio alla fine. Charlotte, Jennifer e Zack rimasero colpiti dalla sua conoscenza in materia, anche se si sforzarono di non darlo a vedere.

Usciti dal museo, Charlotte non diede tempo a Roman di avanzare proposte sulla prossima tappa. Disse che era stanca e si sarebbe volentieri fermata a mangiare un boccone da qualche parte prima di salire di nuovo sull’autobus e tornare a casa. Zack, ovviamente, fu d’accordo con lei.

“Regan, ti va di venire con noi?” gli chiese Charlotte, sfoggiando il sorriso più falso del suo repertorio, di per sé notevole, e puntò gli occhi sgranati nei suoi.

Pareva quasi che stesse tentando di comunicargli qualcosa.

“Ehm…”

“Anch’io ho un certo languorino.” disse Roman.

“Fantastico! Allora Jen ti mostrerà quel delizioso ristorante sul molo.” disse Charlotte.

Roman strabuzzò le palpebre e guardò confuso le due ragazze.

“Andiamo, Roman. Ti prometto che lo adorerai.” lo incoraggiò Jennifer, “A lunedì, ragazzi!”

“Aspetta un attimo.” balbettò Roman, tentando inutilmente di opporre resistenza.

“Divertitevi!” li salutò Charlotte con voce squillante.

Vedendolo esitare, Zack afferrò Regan per un braccio e lo strattonò con poco garbo nella direzione opposta.

A Regan tutto quel teatrino diede un po’ fastidio. Costringere una persona a passare del tempo con un’altra a cui chiaramente non è interessata non era affatto gentile.

Charlotte, Zack e Regan finirono per andare al messicano, perché la ragazza aveva dichiarato di aver voglia di fajitas. Si sedettero in silenzio, la coppietta da un lato del tavolo e Regan dall’altro, e sfogliarono il menù.

Dopo una manciata di minuti, Charlotte esalò un sospiro e lo posò da parte. Intrecciando le mani sul tavolo, rivolse a Regan un sorriso tirato, forse pensando di metterlo a suo agio.

“Tu mi piaci, Regan. Quindi non prendertela per ciò che sto per dirti, okay?”

“Okay.” rispose, intuendo già dove la ragazza volesse andare a parare.

“Jen ha una cotta per Roman, questo lo avrai capito.”

“Solo un cieco non lo vedrebbe.”

“Bene. Allora non ti stupirai se ti chiedo gentilmente di smettere di ronzare intorno a Roman. Jen è timida, non riesce a sedurre i ragazzi come Roman senza un piccolo aiuto. Più occasioni avrà di interagire da sola con lui, più ne avrà per conquistarlo, capisci? Se ti metterai in mezzo, perderà le speranze e crederà di non essere ricambiata.”

“Chi ti dice che lo sia?” chiese Regan, allibito dall’arroganza di Charlotte.

Zack tossicchiò dietro la mano chiusa a pugno.

Charlotte posò i palmi sul tavolo e si concesse qualche secondo per calmarsi. Poi indurì lo sguardo e tornò a sorridergli, se possibile ancor più forzatamente. Sembrava che l’azione le provocasse dolore fisico. Regan fu tentato di continuare a stuzzicarla, solo per vedere quanto avrebbe resistito la sua maschera prima di sbriciolarsi.

“Sei un caro ragazzo, Regan, non ce l’ho con te. Anzi, comprendo il tuo bisogno di farti un amico, dato che non ne hai. Non ti sto ordinando di tagliare i ponti con Roman, ti prego di non fraintendere. Solo, sai… quando c’è Jen, potresti stare lontano? Pensi di riuscirci?”

Regan la squadrò come se le fosse cresciuta una seconda testa. Analizzò il suo linguaggio del corpo, al fine di carpire qualche segnale che stesse scherzando. Non ne trovò.

“Fai sul serio.” esalò incredulo, anche se non lasciò trasparire alcuna emozione all’esterno.

Si concesse alcuni istanti per ponderare la mossa successiva. L’impulso di saltarle addosso e squarciarle la gola era forte. Di sicuro, appena tornato a casa, avrebbe scritto il nome di Charlotte nella lista delle persone che avrebbe tanto voluto prendere a pugni in faccia. Ma cedere alla rabbia non gli avrebbe fatto guadagnare nulla.

Lo strillo di un bambino gli perforò i timpani. Una famiglia di quattro persone sedeva a pochi posti di distanza, padre, madre, figlia tra gli otto e i dieci anni e figlio di a malapena due. Il piccolo stava frignando perché voleva altre patatine, ma la madre aveva allontanato il piatto da lui per impedirgli di affondarci le sue manine bavose.

La cosa che Regan trovò sconcertante era che, nonostante le bizze e la faccia sporca di lacrime e muco, i genitori lo guardavano come se il loro pargoletto fosse l’incarnazione del sole. Un esserino lercio, odioso, urlante era capace di attirarsi addosso quegli sguardi, a dispetto della logica.

Fu allora che gli venne un lampo di genio, ignaro che quanto stava per fare avrebbe cambiato per sempre il corso della sua vita.

Chiuse gli occhi e si impose di credere con tutto se stesso di essere come quel bambino, fragile e adorabile. Il suo respiro divenne corto, la fronte si corrugò e, per rendere la recita più convincente, tirò su col naso. Quando tornò a fissare Charlotte, le ciglia erano umide di lacrime.

“Lo so che non ho amici, Charlotte, non serve sottolinearlo. Tutti mi considerano un musone dal pessimo carattere, e okay, magari è così, ma non sono soltanto questo. E non è colpa mia se a Roman sto simpatico.” balbettò con voce tremante, “Perché vuoi togliermi l’unica cosa bella che abbia mai avuto in tutta la mia vita? E non mi riferisco solamente a Roman, ma a voi nell’insieme. Tu, Zack e anche Jennifer. Anche se non lo dimostro, mi piace la vostra compagnia. Non voglio tornare ad essere invisibile.” concluse con un forte singhiozzo e si sforzò di far scendere le lacrime.

Charlotte e Zack lo fissarono sconvolti. Ripresasi per prima dallo shock, la ragazza si protese di getto sul tavolo e gli afferrò dolcemente una mano con espressione colpevole.

“No, Regan… scusami, non volevo essere cattiva. È stato brutto da parte mia dirti quelle cose. Perdonami. Mi dispiace che tu sia solo… che ti senta solo. Mi dispiace averti trattato male oggi, e mi dispiace per tutte le altre volte in cui ti ho ignorato. Ho sempre pensato che tu stessi bene così, che non desiderassi degli amici, e solo ora mi rendo conto di quanto sono stata stupida. Ti prego, non piangere. Oddio, non piangere…”

“Non chiedermi di andare via.” Regan rincarò la dose per vedere sin dove poteva spingersi, “Se non fosse stato per Roman, voi non mi avreste mai rivolto la parola. Così nella mia testa mi sono convinto che, fintanto che sto con lui, posso avere anche voi. Per questo gli sto incollato.”

Charlotte e Zack si scambiarono un’occhiata, poi si alzarono e si sedettero ai lati di Regan. Zack gli assestò pacche rassicuranti sulla schiena e Charlotte intrecciò una mano con la sua.

“Roman è l’unico che lo sa, vero?” domandò la ragazza a bassa voce.

“Sa cosa?”

“Che sotto la tua maschera c’è questo…” lo indicò da capo a piedi con un gesto vago, “Tutto questo dolore e solitudine. Lo sa.”

Regan scrollò una spalla, continuando a tirare su col naso.

“Ti prometto che tutto cambierà, okay? Avrei dovuto immaginare che… insomma, so che non hai avuto una vita facile. Hai sofferto più di tutti quelli che conosco messi insieme. Il tuo brutto carattere è solo un meccanismo di difesa e avrei dovuto capirlo. Mi dispiace, Regan.”

“Ti chiedo scusa anch’io.” disse Zack, “Mi sono fermato alle apparenze, come un idiota. Credevo fosse Roman a sbagliare. Non capivo cosa ci trovasse in te o perché ti cercasse con tanta insistenza non appena abbandonavi il suo campo visivo. Ora, invece, capisco. Roman è una mamma orsa, dico bene? Ti ha protetto sin dall’inizio, impedendoti di affogare di nuovo nella solitudine.”

“Non ho bisogno di protezione.” replicò imbronciato e incrociò le braccia sul petto per completare il ritratto di un bambino petulante.

“Ovvio che no, sei forte e coraggioso.” rispose in tono accondiscendente, “Però, adesso, non sarai più solo. Hai degli amici su cui poter contare. Siamo una squadra.”

Charlotte annuì alle parole di Zack.

“Davvero?” Regan li fissò con occhi pieni di speranza, “Oggi, anche se mi sono sentito tagliato fuori per la maggior parte del tempo, ho apprezzato molto la vostra compagnia. È stata in assoluto la mia prima uscita con degli amici. Non ero mai stato invitato da nessuna parte, né a feste né ad appuntamenti. Sono sempre stato da solo o con mia nonna. So che è colpa mia, perché interagire col prossimo mi terrorizza. Ma mi piace far parte del vostro gruppo e non voglio che finisca.”

“Mai più, Regan. È una promessa.” dichiarò Zack.

Regan si trattenne dal ghignare. Era stato sorprendentemente facile. Così facile che, in effetti, era un tantino inquietante. Decise di guardare al lato positivo: adesso non aveva più bisogno di Roman, il suo cerchio si era appena ampliato. E avrebbe continuato ad ampliarsi ancora, se avesse usato l’ingegno e le sue doti recitative con saggezza.

“Okay. Grazie.” bofonchiò e si asciugò il viso con la manica della felpa, “Scusate, di solito non frigno per queste cose…”

“Tranquillo, il tuo segreto è al sicuro con noi.” sbuffò divertito Zack, “Allora, ordiniamo da mangiare?”

“Io vorrei tornare a casa. Non è per voi, sono solo stanchissimo.”

“Oh. D’accordo. Vuoi che ti accompagniamo?”

“No, ma grazie. Un po’ d’aria mi farà bene.”

Si alzò, afferrò la borsa ed esitò davanti al tavolo, giocherellando nervosamente con la tracolla.

“Buon appetito. A lunedì.”

“A lunedì.” lo salutarono in coro.

Mentre usciva, li udì scambiarsi commenti su quanto si fossero sbagliati su di lui e su come fare per aiutarlo a disfarsi dell’infelice reputazione di cui godeva. Non solo, intendevano dargli pure una mano con Gregory e coinvolgere altri per gestire il suo “caso”. Aveva fatto centro.

Si recò alla stazione dei pullman e salì su quello diretto ad Ashwood Port, cercando di tenere a bada il ghigno che minacciava di prendere il controllo delle sue labbra. La vettura era vuota, eccetto per una coppia di ragazzi occupati a pomiciare sui sedili in fondo. Regan si sedette davanti e si mise le cuffie nelle orecchie.

Circa un’ora dopo, entrò nel vialetto di casa. Vide che tutte le luci erano spente. Percorrendo la distanza tra il cancellino e la porta, ascoltò con attenzione per captare il battito cardiaco di Deirdre. Lo individuò nel seminterrato. Sembrava quasi martellare allo stesso ritmo della canzone diffusa dalla radio, Diga Diga Doo dei Big Bad Voodoo Daddy. Sorrise e girò la chiave nella toppa.

Quando la porta finì di ruotare sui cardini, Regan si bloccò e sussultò sul posto. Proprio davanti a lui c’era il fantasma di un uomo sconosciuto, vestito in giacca e cravatta. La parte destra del cranio perdeva sangue, pezzetti di materia grigia imbrattavano metà della sua faccia.

“Buonasera anche lei.” borbottò divertito e lo superò senza battere ciglio, “Nonna, sono tornato!”

“Sono di sotto!”

“Hai bisogno di aiuto?”

“No, ho finito. Devi cenare?”

“Sì.”

“In frigo ci sono degli avanzi, serviti pure.”

Regan si tolse il giubbotto, posò la borsa su una sedia e aprì il frigo per esaminare le varie opzioni. Realizzando che la scelta consisteva in uno sformato di spinaci e piselli e un polpettone di carne e legumi, decise di farsi un panino con salame piccante.

Deirdre lo raggiunse mentre stava per dare il primo morso. Lo scrutò severa per un paio di secondi, poi sbuffò e scosse il capo.

“Com’è andata?”

“Alla grande.”

“Ah, sì? Racconta.”

Regan le riassunse i punti principali sbrigativamente, smanioso di arrivare alla parte in cui prendeva per i fondelli Charlotte e Zack al fine di vincere la loro compassione. Lo stupore per quanto si fosse rivelato facile non lo aveva ancora abbandonato. Non aveva scorto nemmeno un briciolo di sospetto sui loro volti. Possibile che fosse stato così bravo? In quel caso, avrebbe sul serio dovuto prendere in considerazione l’idea di fare l’attore.

“E così ora sono ufficialmente parte di un gruppo. Ho degli amici, nonna.” terminò con un sorriso compiaciuto.

“Hanno davvero creduto alla tua messinscena?” domandò Deirdre, dando voce allo scetticismo che seguitava ad agitarsi nell’animo di Regan.

“Stai mettendo in dubbio le mie spiccate doti recitative? Sappi che la mia è stata una performance da Oscar.”

“Beh, allora direi che è un enorme passo avanti. Sono orgogliosa di te, leprotto.” disse e gli stampò un bacio sulla fronte.

Regan finì il panino, aspettò che la nonna gli versasse il sangue in un bicchiere e, una volta bevuto, si rintanò in camera.

Si sdraiò sul letto a pancia in giù, con l’iPod nelle orecchie. Agguantò il blocco da disegno dal comodino e, mentre canticchiava a labbra strette un brano di Cats, disegnò il suo lupo. Stavolta optò per ritrarlo in posizione seduta, la testa reclinata verso l’alto e lo sguardo rivolto alla luna piena, che brillava oltre le cime degli alberi.

Era concentrato sulle ombreggiature quando udì una sorta di scarica elettrostatica provenire dalle cuffie, tipo un’interferenza. Sussultò sorpreso, prese l’iPod e se lo rigirò nella mano per capire quale fosse il problema. Sullo schermo c’era ancora scritto il titolo della canzone, come se fosse tutto normale.

Prima che decidesse di spegnerlo, però, captò un sibilo familiare. Corrucciato, si tolse una cuffia e la scrutò confuso. Nel momento in cui il sibilo si trasformò nel coro di voci del suo incubo, la indossò di nuovo e rimase ad ascoltare.

Il cuore gli batteva furioso nel petto. Le mani si chiusero a pugno, le unghie si allungarono perforando i palmi e la rabbia rizzò il capo nel buio, ringhiando minacciosa all’indirizzo di un intruso invisibile.

All’improvviso, la melodia orientale sovrastò le voci. Era attutita, come se provenisse da sotto uno spesso strato d’acqua, ma non meno chiara.

La trance si interruppe quando Poe gli saltò sulla schiena. Memory riprese a suonare, quasi non fosse mai stata interrotta da… cos’era stato, esattamente? Regan osservò l’iPod, chiedendosi se se lo fosse immaginato. Forse stava davvero impazzendo.

Si strappò le cuffie delle orecchie, spense il dispositivo e lo posò sul comodino.

Poe balzò sul cuscino. Aveva la schiena arcuata, gli artigli in vista, le orecchie spiaccicate sul cranio e la coda ritta. Quando cominciò a soffiare agguerrito all’indirizzo dell’iPod, Regan si accigliò.

“Sei uno strano gatto.”

Poe lo fulminò con un’occhiata torva.

 
*

Domenica mattina, Roman si svegliò tardi. Se non fosse stato per gli schiamazzi dei cugini in salotto, avrebbe continuato a dormire fino all’ora di pranzo. Era esausto. La gita a Salem lo aveva sfiancato psicologicamente.

Ci era voluta tutta la sua forza di volontà per non cacciare un urlo e scaraventare Jennifer nell’oceano. Probabilmente, la ragazza aveva già rivelato a Charlotte che non erano mai arrivati al ristorante sul molo. Con la scusa di avere un impegno in famiglia, l’aveva riaccompagnata a casa in macchina, come avrebbe fatto un gentiluomo, poi l’aveva salutata sbrigativamente ed era sgommato via.

Allungò una mano verso il comodino per afferrare il cellulare e controllare i messaggi. Ce n’era uno di Jennifer, in cui gli diceva che si era divertita molto e sarebbe stata felice di organizzare un’altra uscita a quattro.

A quattro.

Come se Regan non fosse mai stato lì con loro per tutto il tempo.

Quello, più di tutto il resto, lo imbestialì a dismisura. Più dell’interrogatorio di suo padre, che, quando Roman era rincasato puzzando di femmina arrapata, gli aveva domandato con quale delle due si era dato da fare, Jennifer o Charlotte. Più dei commenti scherzosi di Trevor sulla sua presunta nuova fiamma. Più delle risatine divertite della zia e del sorriso sornione di sua madre.

Regan non era una nullità. Non gli erano sfuggite le occhiate che Charlotte, Zack e Jennifer avevano lanciato a Regan durante la giornata, né i loro ridicoli tentativi di accoppiare lui con Jennifer. Era arrabbiato. Arrabbiato per Regan. Perché non aveva reagito? Roman aveva capito che l’altro non era il tipo da attaccar briga senza venire esplicitamente provocato, ma se fosse stato in lui ne avrebbe dette almeno una dozzina a Charlotte. Perché era lei la mente, questo era ovvio.

Roman gli aveva scritto prima di coricarsi, un semplice messaggio in cui gli chiedeva se fosse tornato a casa e come era andata la cena. Regan non gli aveva ancora risposto. Cercò di tenere a freno lo scontento e l’agitazione, ripetendosi che forse l’amico non aveva visto il messaggio.

Inoltrò la chiamata e attese col cuore in gola che Regan rispondesse. Al sesto squillo stava per rinunciare, quando un grugnito gli giunse all’orecchio. Il suo cervello lo registrò come un coro angelico.

“Ciao, Regan. Ti ho svegliato?”

“No.”

“Che fai di bello?”

“Stavo aiutando mia nonna a preparare un cadavere. Nel tardo pomeriggio ospiteremo una veglia.”

“Cosa?”

“Siamo un’agenzia di pompe funebri.”

“Ah, giusto. Ospitate spesso le veglie?”

“Solo quando i clienti non hanno spazio a casa loro e non hanno trovato altri posti adatti. Affittare la nostra sala per le veglie costa. Se ci aggiungi il servizio di imbalsamazione, si arriva a una cifra con almeno tre zeri. Senza contare la bara che i familiari si devono procurare da soli, perché noi non le forniamo.”

“Tu parteciperai?”

“Alla veglia? Mia nonna deve andare per supervisionare l’andamento, ma io sarei d’intralcio. Resterò chiuso in camera per un paio d’ore, come al solito.”

“E aiuti spesso tua nonna a preparare i cadaveri?”

“È divertente.”

“Okay… fingerò che non sia inquietante.”

“Per quanto mi piaccia subire il tuo terzo grado, posso chiederti perché mi hai chiamato?”

“Così. Cioè, no…” Roman sospirò e si passò una mano tra i capelli, “Volevo dirti che mi dispiace per ieri. Non volevo scaricarti tra le grinfie di Charlotte, ma non sapevo come liberarmi di Jennifer senza fare la figura dello stronzo.”

“Non importa.”

“Regan, mi dispiace davvero.”

“Ho detto che non importa. Con Charlotte ci siamo chiariti.”

“Oh. Grande. Quindi mi perdoni?”

“Non ce l’ho mai avuta con te.”

“Menomale. Beh… che avete fatto ieri, dopo che ci siamo divisi?”

“Sono tornato a casa. Ero stanco.”

“Anch’io, se proprio vuoi saperlo.”

“Non ne potevi più, eh?”

Roman sbuffò teatrale e si sdraiò a pancia in su sul letto.

“Jennifer è carina, ma è troppo appiccicosa. Mi fa sentire in trappola. Odio sentirmi in trappola. Se fosse possibile, tornerei indietro nel tempo, al primo giorno, e resterei alla larga da lei e Charlotte.”

“Le piaci molto.”

“Su questo non ci piove, ma a me non piace lei. Vorrei solo che lo capisse.”

“Dura la vita del ragazzo popolare, mh?”

“Signor McLaughlin, mi sta per caso insultando velatamente?”

“Giammai.”

Roman ridacchiò, percependo la rabbia dissolversi. Chiacchierare con Regan lo rilassava, era come spalmarsi un balsamo su un’infiammazione.

“Senti, ho una domanda.”

“Spara.”

“Ieri Jennifer mi ha raccontato di cosa è successo a Teresa Meyers. È vero che è scomparsa a una festa all’inizio di settembre?”

“Sì.”

“Non l’hanno ancora ritrovata?”

“No, altrimenti lo avresti letto sui giornali.”

“Come è scomparsa?”

“Nessuno lo sa. Era alla festa e a un certo punto puff! Scomparsa.”

“Tu eri lì?”

Regan sbuffò: “Quelle feste sono per i popolari.”

“Perché tu non lo sei? Insomma, a parte l’aria da funerale e l’umorismo macabro, sei carino e intelligente.” snocciolò e, mentre le parole abbandonavano la sua bocca prive di filtro, arrossì.

“Sono un gusto che si acquisisce con l’esperienza. O dopo la morte.”

Roman rise, sentendosi già molto meglio rispetto a quando si era svegliato.

“Va bene, torniamo a Teresa. Strano che la polizia stia brancolando nel buio.”

“Sono a corto di indizi.”

“Ah.”

La pausa si protrasse per dieci secondi di troppo, segno che l’argomento era stato esaurito. Roman, in mancanza di altre chiacchiere superficiali con cui riempire il silenzio, raccolse il coraggio per proporre l’idea che gli ronzava in testa da qualche giorno.

“Regan?”

“Mh?”

“Ti va di… non so, passare un po’ di tempo insieme oggi?”

“Perché mi stai sempre tra le palle, eh? Sei molesto!”

“Cosa?”

Regan imprecò di nuovo. Roman udì vari rumori, poi un altro sbuffo seccato.

“Scusa, non parlavo con te, ma al fantasma che mi sta ostruendo la visuale dello schermo del pc.”

“Cosa?!”

“Cosa? Oh, nulla, è un modo di dire di queste parti per intendere un, eh, un guasto al sistema.” tossicchiò, “Comunque non posso, devo studiare. Ieri siamo stati fuori tutto il giorno e non ho aperto libro.”

“Oh, okay. In effetti, anch’io dovrei studiare.”

“Già.”

Roman si arrovellò per trovare qualcos’altro di cui parlare. Regan gli stava rendendo il compito parecchio difficile. Non aveva mai conosciuto qualcuno che lo mettesse a disagio e, contemporaneamente, lo incitasse a dare il meglio di sé per dimostrarsi un degno conversatore.

“Okay. Ci vediamo domani a scuola?”

“Sì. Ciao.”

“Cia-”

Roman si scostò il cellulare dall’orecchio: Regan aveva già riattaccato. Non ebbe modo di crogiolarsi nel dispiacere, perché sua madre bussò alla porta.

“Tesoro, vieni giù a fare colazione?”

“Sì, tra un minuto.”

Mentre metteva il cellulare in carica, si chiese che impressione avesse Regan di lui. Al telefono era praticamente impossibile stabilire il suo stato d’animo, a causa della voce priva di inflessione. Di persona, invece, era leggermente più espressivo, ma solo perché Roman lo fissava dritto negli occhi mentre parlava. Nemmeno dal suo odore trasparivano emozioni rilevanti. Talvolta coglieva fastidio, altre un lieve divertimento, ma mai qualcosa di potente. I casi erano due: o Regan sapeva come mascherare i suoi sentimenti, o semplicemente non li provava. Se la seconda ipotesi era vera, Roman stava cercando di farsi amico un sociopatico.

Andò in bagno, compì la sua routine mattutina e scese in cucina. Trevor e Nina si erano spostati a giocare in giardino. Acuì l’udito e individuò il battito del cuore di suo padre provenire dalla biblioteca. La stanza era insonorizzata, quindi, se poteva sentirlo lavorare, significava che la porta era rimasta accostata.

Sua madre gli mise davanti un piatto di pancake e una tazza di caffè. Lui si sedette al solito posto e fece scorrere velocemente lo sguardo sulla donna. Notò subito le borse sotto gli occhi azzurri e la crocchia disordinata in cui aveva legato i capelli. Poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui le aveva visto addosso quell’aspetto trasandato e non era mai un buon segno.

“Gli zii?” indagò, cercando di tenere a bada l’apprensione.

“Pattugliano i confini.”

“Non fanno altro in questi giorni. Siamo qui da poco più di una settimana e già abbiamo problemi?”

La domanda venne posta in tono leggero per dissipare la tensione, ma in cambio ricevette un’occhiata ansiosa. Posò piano la forchetta sul piatto e studiò i lineamenti tesi del suo viso, i muscoli contratti delle spalle. L’odore che emanava portava con sé tracce di disagio, incertezza, inquietudine.

Tamara serrò le labbra, puntò lo sguardo fuori dalla finestra e incrociò le braccia sul petto, appoggiando un’anca sul bordo del tavolo.

“Ma’, che succede?” ripeté e si impose di restare rilassato.

La donna prese fiato e aprì la bocca per rispondergli, ma all’ultimo momento esitò e la richiuse.

“Non preoccuparti, sono certa che non è niente.”

Il suo odore si inasprì quando pronunciò “niente”, indicando a chiare lettere la bugia.

“Perché non vuoi dirmi di cosa si tratta?”

“Ordini di tuo padre.”

Roman gettò la spugna. Se suo padre aveva dato l’ordine, non aveva alcuna possibilità di scoprire cosa gli stavano nascondendo.

“Dimmi solo questo: devo stare attento?”

“Sì. Non abbassare la guardia e tieni sempre d’occhio ciò che ti circonda.”

“Cosa avete detto a Trevor e Nina?”

“Niente.”

“Come possono individuare il pericolo se non sanno di essere in pericolo?”

“Ci penseranno Ruby e Sean a vegliare su di loro. Tu come ti senti?”

“Bene. Un po’ frustrato, ma tranquillo. Perché?”

“Fra tre giorni ci sarà la luna piena ed è la prima che passerai in un nuovo territorio. Trevor e Nina sono già su di giri. Andrai con loro nel bunker, stavolta.”

“Perché non posso rimanere in camera mia come sempre? Non ho mai causato incidenti.” si lamentò.

“Resterò anch’io, Roman.”

“Uffa. D’accordo.” assentì con un sospiro, “Ma vorrei che aveste più fiducia in me.”

“Meglio non rischiare. Se questa luna andrà bene, la prossima sarai libero di passarla in camera tua.”

“E Declan che farà? Ha intenzione di tornare?”

“Non lo so.”

“Non si fa vedere da più di quattro mesi!”

“Sai com’è Declan.”

“Tornerà almeno per Natale?”

“Non lo so, tesoro.”

Il ragazzo buttò la forchetta nel piatto e sbuffò irritato. Gli mancava suo fratello maggiore, tanto. Quando lui non c’era, suo padre era perennemente nervoso, quasi che non avere accanto il suo primogenito e Secondo in comando lo destabilizzasse.

Per Roman, Declan fungeva da perfetto cuscinetto: in sua presenza, il padre non si curava di lui e lo lasciava stare. Non gli costava niente ammettere che il motivo per cui rivoleva il fratello a casa affondava le radici nell’egoismo. Ma, al medesimo tempo, desiderava avere indietro il suo confidente, l’unico membro della famiglia con cui si era sempre trovato in maggiore sintonia.

“Dimmi che cosa è successo tra lui e papà.”

Tamara esalò un lungo sospiro, afferrò una sedia e ci si sedette sopra pesantemente, stanca di mantenere segreti con suo figlio.

“Hanno litigato.”

“Non è una novità.”

“Stavolta è stato brutto. Declan non è d’accordo con la politica di tuo padre, come ben sai, e si sta rifiutando di adempiere al suo ruolo. Si sta distanziando troppo. Temo che voglia lasciarci.”

Roman sbarrò le palpebre e boccheggiò: “Che cosa?! Non… non potete permetterlo! Non può!”

“Non accadrà.” lo rassicurò la madre, anche se il suo odore aveva assunto la scia acre dell’angoscia e della paura, “Sono certa che Declan non ha dimenticato quanto Vincent ha fatto per noi. Ci ha sempre protetti, si è preso estrema cura della sua famiglia. È un uomo buono, coraggioso e responsabile. Declan sta solo attraversando la fase ribelle.”

“E cosa mi dici di Vi-”

“Non pronunciare quel nome!” lo zittì bruscamente, “Sai che non devi farlo.”

Incredulo e furioso, Roman osservò le iridi della madre guizzare tra l’azzurro e il giallo.

“Come puoi dire questo? Proprio tu!”

“Conosci le regole. Rispettale.” lo ammonì severa.

“Sono regole stupide.” sibilò e stritolò il bordo del tavolo tra le dita per impedirsi di compiere un’azione avventata, come scaraventare il piatto contro il muro.

“Se ci hanno tenuti al sicuro per tutti questi anni, non sono stupide. Sono solo difficili da accettare.”

Tamara protese una mano per accarezzargli i capelli, ma Roman si scansò e scattò in piedi, determinato a trascorrere tutta la giornata in camera, lontano dagli altri. Se solo lui e Regan fossero stati più amici, avrebbe potuto catapultarsi a casa sua per sfuggire al costante controllo, ma così non era.

Si afflosciò sul letto. Mordendosi un labbro, si rigirò il cellulare tra le mani. Si scrocchiò il collo e contemplò il soffitto in cerca di consiglio. Alla fine, aprì l’icona dei messaggi e ne scrisse uno a Declan.

Stava per inviarlo, quando l’occhio gli cadde sui messaggi precedenti, in bella mostra sullo schermo. Erano tutti da parte sua, nessuna risposta dal fratello. Non lo aveva più contattato da quando era tornato al college all’inizio dell’estate.

Cancellò il testo del messaggio e lanciò il cellulare dietro di sé, sul cuscino.

Non si era mai sentito tanto solo.

 
*

Al suo arrivo a scuola lunedì, Roman percepì subito nell’aria qualcosa di diverso. Non sapeva dargli un nome, ma quel qualcosa era lì, palpabile e consistente. I suoi presentimenti trovarono conferma non appena vide Charlotte e Jennifer chiacchierare amichevolmente con Regan davanti agli armadietti.

Le ragazze sorridevano rilassate, mentre Regan le guardava con un’espressione che Roman non gli aveva mai visto in faccia, quasi fosse felice di essere lì e fosse interessato a qualsiasi cosa stessero blaterando le altre due. Peccato che il suo odore proiettasse indifferenzafastidiolasciatemiandare. La scena era così sbagliata che gli fece rizzare i peli sulla nuca.

Si avvicinò rapidamente e si pose al fianco di Regan senza salutare, preferendo incanalare tutte le sue energie nell’analisi dell’odore di Charlotte e Jennifer e il ritmo dei loro cuori. Erano rilassate, amichevoli, aperte nei confronti di Regan. Cosa si era perso?

“Buongiorno, Roman!” esclamò Jennifer con un sorriso sognante.

“Che succede?” le interrogò senza preamboli.

“Ehm…” Jennifer lanciò un’occhiata confusa all’amica, “Stiamo chiacchierando.”

“Con Regan?” domandò incredulo.

“Hey!” protestò il suddetto, piegando le labbra in un adorabile broncio.

“Scusa, non ce l’ho con te. È solo che mi era parso di capire che Charlotte e Jennifer non ti sopportassero.” rispose sincero, “Cos’è cambiato?”

Charlotte prese la parola: “Io, Regan e Zack abbiamo discusso sabato sera, mentre tu e Jen eravate al molo. Abbiamo fatto pace e lo abbiamo accolto ufficialmente nel gruppo. Lo aiuteremo a migliorare le sue tecniche di socializzazione…”

“A liberarsi della reputazione da disadattato che si trascina dietro dalle elementari…” si intromise Jennifer.

“E ad ampliare la sua cerchia di conoscenze.” continuò Charlotte, “Per quanto sia brutto ammetterlo, tutti noi siamo stati vittime del pregiudizio nel caso di Regan, senza mai curarci dei suoi sentimenti o dei suoi problemi. Adesso non ho alcuna intenzione di abbandonare Regan a se stesso.”

“Quindi… cosa? Regan è il vostro nuovo progetto?”

“È nostro amico, e gli amici si aiutano se sono in difficoltà. Perché sei così aggressivo stamattina?”

“Non è aggressivo, ma iperprotettivo.” spiegò Regan, la testa bassa e le mani infilate nelle tasche, in una posa vagamente imbarazzata.

Roman sgranò gli occhi, ormai sicuro che gatta ci covava. Quello non era Regan. Era un alieno che indossava il suo corpo.

Le ragazze mugugnarono solenni, come se all’improvviso tutti i segreti dell’universo fossero stati rivelati. Ghignarono sornioni all’indirizzo di Roman e Charlotte sussurrò “Mamma orsa” tra lievi risolini.

“Roman, va tutto bene.” riprese Regan, “Ci siamo davvero chiariti, non c’è più bisogno che ti preoccupi.”

La campanella suonò e si divisero, con la promessa di ritrovarsi per pranzo.

Quando Roman raggiunse gli altri al solito punto di ritrovo, vicino alla mensa, non si aspettava di sentirsi spintonare nella sala gremita di studenti da Zack.

“Oggi vi siederete entrambi al nostro tavolo. Non accetto obiezioni.” dichiarò Charlotte, facendo strada tra la bolgia a testa alta, sorda ai borbottii esasperati di Roman.

Evitarono la fila al self-service, dato che tutti avevano già il pranzo negli zaini, e si accomodarono a un tavolo a ridosso della finestra, già occupato per metà da altri ragazzi. Intorno a loro c’era la squadra di football al completo, qualche membro di quella di basket e l’intero corpo delle cheerleader.

Charlotte si sedette alla sinistra di Regan e Roman alla sua destra, affiancato da Jennifer. Zack si mise accanto a Charlotte.

Non appena finirono di prendere posto, intorno a loro calò il silenzio.

“Ragazzi, loro sono Roman e Regan.” esordì Charlotte, “Diamo loro il nostro ufficiale benvenuto.”

“Stai scherzando?” sbottò Lorie Hawkins, il capo delle cheerleader, adocchiando Regan con timore, “Sai cosa si dice in giro su di lui.”

Il maglioncino color panna risaltava sulla sua pelle nera, stirato sul seno e stretto sui fianchi snelli. I capelli erano stati lisciati con la piastra e ricadevano morbidi oltre le spalle. Ai polsi indossava braccialetti di perline e al pollice sinistro portava una fascetta di metallo con una pietra viola. Gli occhi scuri erano incorniciati dall’eyeliner, le ciglia appesantite dal mascara e il viso levigato sembrava scolpito nell’onice.

“Tutte le voci sono false. Ha solo problemi a socializzare.” la blandì Charlotte.

“E un pessimo gusto nel vestire.” commentò sottovoce Stacy, un’altra cheerleader, mettendosi poi a giocherellare con una ciocca bionda, mentre gli occhi azzurri vagavano sulla figura di Regan per memorizzare ogni dettaglio.

“Regan è a posto.” intervenne Zack, “Smettetela di fare gli stronzi.”

Un giocatore di football del terzo anno, Peter, fissò lo sguardo su Regan, squadrandolo dall’alto in basso. Poi assottigliò le palpebre e si sporse verso di lui. La frangia castana gli coprì le sopracciglia.

“È vero che mangi cervelli a colazione?”

Regan non batté ciglio, limitandosi a rispondere pacato: “No, ma li maneggio almeno tre volte a settimana.”

“Sua nonna possiede un’agenzia di pompe funebri, come sappiamo.” si affrettò a spiegare Charlotte con un sorriso nervoso.

“Aggeggi con i cadaveri?” proruppe James, l’ex fidanzato di Teresa, indeciso se sentirsi affascinato o provare ribrezzo.

“Devo pur imparare il mestiere. Quando mia nonna andrà in pensione, erediterò io l’intera baracca. Non preferiresti venire affidato nelle mani di qualcuno che sa cosa fare del tuo cervello, quando tirerai le cuoia?”

Zack nascose il viso nei palmi e scosse il capo, le spalle scosse dalle risate: “Regan, non si dicono queste cose alle persone.”

“Perché?” fece Regan con aria innocente.

Charlotte sospirò paziente, gli posò una mano sulla spalla e parlò come una madre che cerca di insegnare una lezione al figlio scapestrato.

“Quando si interagisce con qualcuno, ci sono degli argomenti che è meglio non toccare. La morte è uno di questi. Piuttosto, ci si complimenta per la scelta del loro abbigliamento, sempre se esso segue le regole della moda, o per la loro pettinatura o per i successi conseguiti nello studio, nello sport o nel lavoro.”

Regan osservò gli studenti raccolti intorno a sé, che lo guardavano con il fiato sospeso, come se si aspettassero qualcosa di eclatante. Si soffermò sui capelli dei maschi e storse le labbra in una smorfia, provocando risatine e sbuffi divertiti nella maggior parte dei presenti. Quindi focalizzò l’attenzione sulle femmine ed esaminò con cipiglio critico i loro vestiti e capelli.

“Tu hai dei bei capelli.” disse a Lorie in tono piatto.

Lei boccheggiò incredula, ma dopo qualche secondo sorrise compiaciuta: “Grazie, Regan. Io sono Lorie, comunque.”

“Visto? Non è difficile.” lo incoraggiò Charlotte, passandogli una mano tra i riccioli corvini.

Regan si trattenne dallo staccarle la molesta appendice a morsi. Invece, simulò delle fusa e si spalmò un po’ di più su di lei, ottenendo l’effetto desiderato. Infatti, gli altri studenti si rilassarono visibilmente. Giocare a fare il cucciolo non era poi così male, se serviva allo scopo.

“Hey, non coccolare Charlotte.” lo rimproverò Zack, ma la sua voce aveva una nota indulgente, non gelosa, segnalando che in realtà non gli dava fastidio.

“Sono io che coccolo lui.” lo rimbeccò Charlotte, arrossendo, “Bene, ora mangiamo.”

Regan tirò fuori il panino e la borraccia dallo zaino e si mise a mangiare in silenzio.

La quiete ebbe breve durata, però, perché tutti erano tremendamente curiosi di sapere quanto delle leggende che circolavano sul suo conto corrispondeva a verità.

“Tua madre è stata uccisa da tuo padre?” gli chiese Tyler, uno del secondo anno.

Charlotte, imitata da Lorie e altre ragazze, lanciò un’occhiata omicida a Tyler. Regan rispose prima che potessero cambiare argomento.

“So solo che è stata uccisa. Non so chi sia mio padre.”

“Non hanno mai preso l’assassino?”

“No.”

“Tua nonna è una strega?” si fece avanti Mike Hughes, il capitano della squadra di football.

“Beh, ci sta: cucina delle lasagne veramente magiche.”

Mike sbuffò una risata e tornò a mangiare.

“Ciao, Regan. Io sono Mary.” si presentò la ragazza che sedeva alla destra di Lorie.

Era alta, con lunghi capelli neri e ricci e occhi verdi. Degli orecchini grossi e rotondi pendevano dai suoi lobi e le labbra erano abbellite da un velo di rossetto rosa.

“Ciao, Mary.”

“Che tipo di musica ti piace?”

“Il jazz. E adoro i musical.”

Lorie drizzò le orecchie e sorrise eccitata: “Qual è tuo preferito?”

Singin’ in the rain.”

“Io, invece, sono più un tipo da Moulin Rouge. Quali sono i tuoi hobby?”

“Mi piace disegnare e leggere.”

“Ti piacciono gli sport?” li interruppe di nuovo Tyler.

“Non molto.”

“Il tuo colore preferito?” chiese un’altra ragazza.

“L’azzurro.”

“Non ti ho mai visto indossare niente di azzurro.” commentò Charlotte.

“Alle elementari, un bambino mi disse che era un colore da femmine.”

“Sei gay?” chiese Mary.

“Non lo so.”

“Come sarebbe a dire che non lo sai?” sbuffò Peter, “Ti piacciono i ragazzi o le ragazze?”

“Nessuno dei due.”

“Forse passi troppo tempo con i cadaveri…”

“Non sei divertente, Peter.” lo rimbeccò Charlotte, per poi rivolgersi a Regan, “Tranquillo, non c’è problema. Forse devi ancora incontrare la persona giusta.”

La conversazione procedette a quel modo, botta e risposta, per il resto della pausa pranzo. Charlotte tenne banco, coinvolgendo le altre cheerleader nel suo progetto di trasformare Regan in una persona normale.

Jennifer rimase incollata a Roman e tentò di approfittare dell’assenza dei riflettori su loro due per scavare più a fondo nella sua vita. Roman, tuttavia, era troppo impegnato ad assimilare l’assurdità della scena che si svolgeva davanti ai suoi occhi per rispondere a Jennifer.

Tutta quella faccenda era surreale. Non gli dispiaceva fare nuove amicizie, alcuni sembravano simpatici. Il problema era Regan. Stava recitando. L’unica spiegazione plausibile era che stesse cercando di inserirsi, ma perché adesso, e con questi studenti, quando era sempre stato evidente che non gli importava un fico secco dell’opinione altrui? A cosa mirava? Roman non pensava che Regan ci tenesse tanto a diventare popolare.

All’inizio aveva ipotizzato che fosse una mossa meschina delle ragazze per umiliarlo, ma non era quello il caso. Charlotte era sincera, di una genuinità disarmante. E il suo atteggiamento aperto, quasi accondiscendente, nei confronti di Regan stava compiendo miracoli negli altri. Il loro odore stava pian piano mutando da pauradisgustoirritazione a tenerezzabenevolenza.

Lorie pose un’ultima domanda a Regan: “Cosa fai per Halloween?”

“Di solito resto a casa con mia nonna e ci facciamo la maratona di Buffy.”

“Beh, quest’anno verrai alla festa.” sancì.

Regan si irrigidì per una frazione di secondo. Poi sospirò e la guardò incerto.

“Non ho un costume.”

“Mi inventerò qualcosa. Vieni a casa mia il pomeriggio del 31 ottobre, mi occuperò di tutto io.”

“Ma… è una festa!”

“E allora?”

“Ci saranno persone!” esclamò nel panico.

La tavolata scoppiò a ridere e stavolta anche molti dei giocatori di football fissarono Regan come se fosse un cucciolo smarrito.

“Oh, che carino.” chiocciò Claire, un’altra cheerleader.

“È adorabile.” le fece eco Mary.

“Non dovrai parlare con tutti.” lo rassicurò Charlotte, zittendo i mormorii deliziati delle altre ragazze.

“Bene, è deciso. E mi aspetto che d’ora in avanti tu ti sieda qui con noi, Regan. Se dobbiamo istruirti nell’arte della socializzazione, ogni minuto è prezioso.” decretò Lorie.

“E se fossi un caso perso?” mugugnò con aria mesta.

“Non lo sei, vedo del potenziale in te.”

Regan abbozzò un sorriso timido e la guardò da sotto le ciglia: “Hai dei bei capelli.”

 
*

Il sole tramontò oltre l’orizzonte, gettando la casa nella penombra. Le lampade del seminterrato disegnavano ombre sinistre sulle pareti. La radio diffondeva Tip Toe Through The Tulips dal suo posto sulla mensola.

Deirdre canticchiava tra sé e sé, concentrata nel delicato compito di ricucire lo sterno del corpo sdraiato sul tavolo operatorio. Era un ragazzo di venticinque anni, morto durante una rapina finita male.

Regan era seduto sul ripiano dietro di lei, con la schiena appoggiata al muro e le gambe ciondolanti oltre il bordo, intento a digitare messaggi su messaggi nel gruppo Whatsapp in cui era stato inserito. La sua rubrica adesso straripava di contatti. Non sapeva dove quella gente trovasse il tempo di studiare, dato che parevano vivere in simbiosi col cellulare.

Quando Regan alzò lo sguardo, Deirdre gli fece l’occhiolino. Lui ricambiò con un ghigno ferino. L’ennesimo trillo di un messaggio lo distrasse.

Poe, accovacciato sul pavimento accanto ai piedi del fantasma del ragazzo morto, continuò a divorare il fegato del suddetto come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo.

 
*

Roman sopravvisse per miracolo a due giorni infernali, resi ancor più orrendi dall’assenza di Regan al suo fianco. L’attenzione del moro era costantemente contesa tra il grosso gruppo dei popolari, tanto che Roman aveva iniziato a sentirsi derubato. Non era geloso di Regan, ma degli altri, che non lo lasciavano solo un attimo. Veniva seguito persino in bagno.

Roman voleva tornare alla settimana prima, quando Regan rivolgeva la parola soltanto a lui. Subito dopo averlo pensato, il senso di colpa lo pungolò dall’interno. Si stava comportando come un bambino a cui un branco di bulli aveva sottratto il giocattolo preferito. Avrebbe dovuto essere felice per Regan, e una parte di lui lo era, ma allo stesso tempo la rabbia offuscava la sua obiettività.

Per fortuna, non dovette attendere molto per prendersi una pausa dalla follia che era divenuta la sua vita. Mercoledì, infatti, sua madre chiamò la scuola e lo diede malato. La luna piena era arrivata.

Roman passò le ore diurne in camera, in perenne stato di agitazione. I cuginetti non lo aiutarono a mantenere la calma, dato che cominciarono sin dalle prime luci dell’alba a fare confusione. Ogni pretesto era buono per litigare e si rincorrevano per la casa ringhiando come cani rabbiosi. Persino i loro genitori ebbero qualche problema a controllarli. Occorse l’intervento di Vincent per convincerli a tacere.

Quando il sole tramontò, la situazione divenne caotica. Roman e i bambini vennero scortati velocemente da Tamara nel bunker anti-uragano all’esterno e la porta sigillata a tripla mandata, con catenacci e lucchetti.

L’arredamento del bunker consisteva in un tavolino, una sedia e degli scaffali di metallo contenenti cibo in scatola e bottiglie d’acqua. In un angolo, ricoperto di polvere e incassato tra degli scatoloni, c’era un grammofono dall’aspetto antico. Apparteneva a Vincent, un vecchio cimelio di famiglia dal quale, seppur irrimediabilmente rotto, l’uomo non aveva mai voluto separarsi.

Tamara li condusse verso il muro, dove erano appese delle spesse catene. Prima si occupò di Trevor e Nina, assicurando i loro polsi e caviglie alle manette di ferro, poi si dedicò al figlio.

Roman era oltre le parole, a quel punto. Dalle sue labbra uscivano soltanto ringhi minacciosi e grugniti. Le zanne biancheggiavano sotto il cono di luce irradiato dalla lampadina sul soffitto. Gli occhi rilucevano di riflessi dorati e artigli affilati si erano sostituiti alle unghie.

Una volta che tutti e tre furono incatenati, Tamara avvicinò una sedia, si accomodò di fronte a loro e piazzò il tavolino con sopra tre siringhe accanto a sé. All’interno delle siringhe si poteva scorgere giusto un dito di argento liquido: la dose massima che, in caso di necessità, avrebbe iniettato loro nelle vene per far retrocedere la trasformazione e precipitarli nel sonno senza ucciderli.

La luna descrisse la sua parabola nel cielo stellato, invisibile ai suoi figli, che però percepivano il suo potere sin nelle viscere. Si dimenarono, ringhiarono, ulularono, graffiarono con rabbia il muro e strattonarono le catene.

I cuccioli si stancarono presto, poco dopo l’una, ma Roman aveva ancora molta energia. Era forte. Non quanto Vincent e Declan, ma un giorno, Tamara ne era certa, avrebbe raggiunto il loro livello. Era fiera di lui, anche se non riusciva più ad esternarlo come in passato.

Da quando Declan aveva cominciato ad allontanarsi, il suo istinto materno era andato in tilt. Una grossa parte di sé desiderava correre da lui e trascinarlo a casa, dove avrebbe potuto coccolarlo e abbracciarlo; l’altra, invece, era ferita dal suo comportamento ribelle. Perché Declan non capiva che le leggi esistevano per una ragione? Perché si ostinava ad andare contro la parola di Vincent, suo padre e alfa, non appena il discorso virava sulla politica e la gestione del branco?

Così, concentrata com’era sul suo primogenito, aveva trascurato Roman. Non era raro che, ripensando ai guai in cui si era cacciato a Brooklyn, si desse la colpa. Se fosse stata più presente, forse Roman non avrebbe cercato la comprensione e lo sfogo altrove, con persone pericolose che fingevano di essergli amiche soltanto per usarlo.

Uno schiocco secco la riportò alla realtà. I suoi occhi scattarono su Roman, prono sul pavimento. Lo osservò stranita, credendo di essersi immaginata quel rumore. Quando però vide la spalla sinistra del figlio torcersi in un’angolazione innaturale, percepì il sangue gelarsi nelle vene.

“Roman.” lo chiamò autoritaria, “Respira. Focalizzati sul battito del mio cuore.”

Roman emise un ringhio animalesco e sollevò la testa. I tendini del collo si tesero, le vene si ingrossarono. Un ululato disperato rimbalzò sui muri e nella cassa toracica. Le ossa delle mani si piegarono e contorsero, seguite da quelle delle braccia, delle spalle, della schiena e giù, nel bacino, nelle gambe, nei piedi. Tutto in lui diventò una massa in movimento, la mutazione rapida e inesorabile, come un treno che sfreccia a tutta velocità su binari ben oliati.

Tamara si sentì impotente. Sapeva che arrestare il processo ora avrebbe provocato danni irreparabili. L’unica cosa da fare era aspettare che si compisse e tenersi pronta per la lotta. Afferrò una siringa, si accucciò e rimase immobile.

Trevor e Nina si svegliarono a causa del trambusto. Non appena si accorsero di cosa stava accadendo, emisero guaiti spaventati. Tamara era impegnata a sorvegliare Roman, non poteva dar loro il conforto di cui avevano bisogno.

Una faticosa mezzora più tardi, al posto di Roman c’era un lupo dal pelo marrone, alto un metro e mezzo al garrese.

Ululò, scalciò e si mise a tirare le manette con furia selvaggia. Le catene delle zampe posteriori si sfilarono, ma quelle anteriori resistettero. La bava colò sul pavimento in gocce dense e viscose. Le orecchie si schiacciarono sul cranio, le zanne brillarono sotto la luce fioca della lampadina. Gli occhi rifulsero nella penombra, due pozzi gialli che non avevano più nulla di umano.

Come Tamara aveva immaginato, le manette non ressero l’assalto. Roman ebbe giusto il tempo di ululare trionfante prima che sua madre lo caricasse all’improvviso, iniettandogli l’argento nel collo. Il lupo guaì. Le zampe cedettero sotto il suo peso, la testa sbatté a terra e il corpo venne attraversato da spasmi. Qualche minuto dopo, la trasformazione retrocedette.

Tamara passò una mano sui capelli sudati del figlio, mentre con l’altra gli accarezzò la pelle liscia della schiena. I due cuccioli, rannicchiati l’uno addosso all’altra, fissavano Roman con terrore. Pian piano, cullati dalla ninnananna che Tamara stava canticchiando a labbra strette, si rilassarono.

Alle quattro del mattino, finalmente, tutti giacquero stremati.

Tamara osservò con aria persa Roman. Sapeva di dover informare Vincent dei nuovi sviluppi, anche se ciò avrebbe posto Roman in una posizione precaria nel branco. La sua trasformazione avrebbe dovuto essere ragione di gioia e orgoglio, ma Tamara percepiva un peso sullo stomaco.

L’esito della chiacchierata col marito era incerto. C’era una minima possibilità che cominciasse ad addestrare Roman per fargli assumere il ruolo di Declan, dal momento che non sapevano quali fossero le sue intenzioni. Tuttavia, era più probabile che Vincent vedesse la trasformazione come un segnale negativo. Infatti, solo i lupi adulti raggiungevano lo stadio finale. Roman era ancora un adolescente.

Tamara non voleva che Vincent pensasse che ci fosse qualcosa di sbagliato in Roman, ma spesso il suo alfa veniva accecato dalla paranoia, preferendo dare ascolto alla paura e alla diffidenza. Era stato cresciuto in un ambiente in cui il più forte sopravvive e il più debole muore. Gli era stato insegnato il rispetto per le tradizioni, le tecniche di intimidazione, la tolleranza zero per il diverso. Suo padre, il vecchio alfa, gli aveva inculcato quei principi nella testa a suon di percosse e dure lezioni, plasmandolo a sua immagine e somiglianza. Aveva sradicato ogni parte della sua personalità relativa alla comprensione e all’affetto incondizionato, per renderlo una figura autoritaria che nessuno si sarebbe mai sognato di sfidare.

E così era stato, non appena Vincent aveva preso il comando. Ma le sue azioni gli avevano alienato l’amore di molti membri del branco, col risultato che adesso erano rimasti in otto, quando una volta vantavano numeri superiori alla trentina. E se Declan si fosse tirato fuori, sarebbero scesi a sette. Un branco tanto piccolo non aveva speranza di sopravvivere, non importava quanto apparisse forte il suo alfa.

Tamara pregò che Vincent le prestasse ascolto e decidesse di istruire Roman, piuttosto che trattarlo come uno scherzo della natura, un’anomalia. Non sarebbe riuscita a superare la perdita di un altro figlio.










 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** The ghost's riddle ***









Scrocchiandosi le dita, Regan contemplò i tre ragazzi riversi a terra. Dilatò le narici per riempirsi i polmoni dell’odore del loro sangue e si umettò le labbra secche, per poi curvarle in un ghigno. Esso si trasformò in una smorfia alla lieve fitta che gli fece pulsare lo zigomo destro, dove sfoggiava un livido rossastro. A parte quello, era illeso. La stessa cosa non si poteva dire di Gregory e i suoi galoppini.

Gregory era quello messo peggio: aveva il naso rotto, un polso lussato, un grosso livido sul mento e abrasioni su gomiti e ginocchia. Kevin e Derek, invece, esibivano un occhio nero a testa, qualche graffio sulle gambe e sbucciature superficiali sulle braccia. L’occhio nero era opera di Regan, il resto delle ferite se le erano procurate da soli quando li aveva scaraventati sul pavimento come sacchi d’immondizia.

Il trio aveva deciso di tendergli un’imboscata, approfittando dell’assenza di Roman e del fatto che, per una volta, non fosse accerchiato dal suo nuovo fan club di popolari. Dimentichi del fatto che Regan sapeva difendersi egregiamente da solo. Lo avevano acciuffato per la felpa mentre si dirigeva in mensa e trascinato nei locali delle caldaie, una zona interdetta agli studenti. Il custode, evidentemente, si era dimenticato di chiudere a chiave la porta.

“È mai possibile che ancora non abbiate capito che non sono una fragile bambolina? Quante altre volte dovrò pestarvi prima che impariate la lezione?” domandò annoiato.

Derek grugnì e rotolò sulla schiena, sforzandosi di vedere oltre la patina opaca che gli copriva gli occhi.

Regan lo raggiunse e torreggiò su di lui: “Che dici, Derek? Hai capito?”

“Sì…” gracchiò.

“Sicuro?”

“Sicuro.”

“Bene.”

Regan si accostò a Kevin. Gli agguantò una spalla e lo girò supino.

“E tu? Hai capito?”

“Fottiti.”

Regan gli sferrò un calcio nello stomaco, strappandogli l’ossigeno, e ripeté: “Hai capito?”

“S-Sì…”

“Ottimo.”

Fu il turno di Gregory. Regan non si illudeva di riuscire a dissuaderlo dal rompergli le scatole per il resto della sua miserabile vita, ma magari, con qualche calcio in più, lo avrebbe convinto a lasciarlo in pace fino alla fine dell’anno scolastico.

“Tu che mi dici, palla di lardo? Ne hai abbastanza o ne vuoi ancora?” gli chiese, chinandosi su di lui per guardarlo dritto in faccia, “Ho parecchia energia repressa da sfogare, e tu sembri nato per incassare pugni.”

Gregory sputò. Sebbene avesse mirato a un’area qualsiasi del viso di Regan, la gravità fece sì che il bolo di saliva gli ricadesse sul naso. Patetico.

Regan gli tirò un pugno nel plesso solare, mozzandogli il fiato, poi un altro nella zona pelvica. Lo ammirò contorcersi e piagnucolare finché non si stufò.

“Ne hai avuto abbastanza?”

“No.” rantolò Gregory e gli scoccò un’occhiata satura di sfida.

Regan non comprendeva quali fossero le sue intenzioni, cosa lo spingesse a cercarlo e provocarlo di continuo. Si accovacciò, gli strinse il mento e lo obbligò a ricambiare il suo sguardo.

“Perché non ti arrendi?”

“Sei uno fottuto psicopatico.”

“Oh, smettila, mi farai arrossire.”

“Gli altri non lo vedono, ma io sì. Io ti ho sempre visto per ciò che sei. Faremmo un favore a tutta la comunità se ti togliessimo di mezzo. Credi che, solo perché adesso sei il beniamino dei ragazzi più popolari della scuola, sarai al riparo da ogni sospetto? Quanto durerà? Non puoi sopprimere la tua natura, prima o poi commetterai un errore. E allora tutti vedranno, tutti capiranno…”

“Che cosa sai di me?” indagò cauto Regan.

“Molto più di quel che pensi.” sputacchiò Gregory, per poi stirare le labbra sui denti macchiati di sangue, “Dovrebbero abbatterti come un cane rabbioso. Sei come un’infezione. Se nessuno ti fermerà, ti diffonderai ovunque.”

“E sarai tu a farlo? Da quel che vedo, ne dubito. Non sei all’altezza, nemmeno quando sei spalleggiato dai tuoi amichetti. Sei un codardo, un perdente.” sibilò e, inalando appena il suo odore, ridacchiò sotto i baffi, “Oh, Gregory. Te la stai facendo sotto, mh?”

“Non mi fai paura.”

“Fingerò di crederti. Se non è per paura, perché ce l’hai con me? Cosa ti ho mai fatto, a parte difendermi dai tuoi attacchi restituendoti occhio per occhio? Forse sei masochista e ti piace prenderle per sentirti vivo. Oppure sei triste perché, a parte questi due idioti, nessuno ti considera?”

Abbassandosi fino a trovarsi a pochi centimetri dal suo naso, lo trafisse con un’occhiata crudele.

“Sono più forte di voi tre messi insieme, quindi come mai continui a provocarmi? Se è una valvola di sfogo che vuoi, iscriviti a un corso di box in palestra e prendi a pugni un sacco di sabbia. A me non va più di darti corda. È stato divertente, ma adesso mi sono scocciato. Ho altri progetti, non mi va di perdere tempo a pestare la spazzatura. Fatti una vita, trovati un hobby. So che l’uncinetto fa miracoli per l’umore! E, per l’ultima volta, stammi lontano. Se non lo farai, ti prometto solennemente che ti ridurrò in uno stato così pietoso che nemmeno i migliori medici riusciranno a ricucirti. E se per caso dovessero farcela, ti prometto che renderò i giorni che ti restano da vivere un vero inferno. È chiaro?”

Senza attendere una risposta, mollò la presa e si rialzò. Dopo essersi spolverato i pantaloni e la felpa, raccolse lo zaino e si voltò per andarsene. Poggiò il piede sul primo gradino proprio quando il trillo della campanella che segnalava la fine della pausa pranzo riecheggiò per tutto l’edificio. Tempismo perfetto.

Mentre saliva le scale in fretta e furia, con lo zaino in spalla e le mani affondate nelle tasche dei jeans, rifletté sull’ammissione di Gregory. Aveva detto di sapere molto più di quel che Regan pensava, ma cosa intendeva esattamente? Conosceva il suo segreto? Impossibile. Lui e Deirdre erano sempre stati molto prudenti.

L’ansia lo stava divorando. Doveva assolutamente fare una chiacchierata con Gregory al più presto e scoprire la verità. Avrebbe calcolato la prossima mossa in base alla sua risposta. Se necessario, lo avrebbe fatto sparire. Deirdre avrebbe capito.

Regan raggiunse rapido il suo armadietto per recuperare il libro di Chimica e corse verso l’aula. Arrivò due secondi prima del professore. Si sedette al suo solito posto e salutò con un cenno del capo la sua compagna di banco, Cecilia Burns.

Era una ragazza un po’ sovrappeso, di carnagione scura. Portava i capelli sempre legati in due trecce e indossava abiti di seconda mano. Gli occhi marroni erano coperti da due lenti a fondo di bottiglia, il naso a patata sovrastava una bocca carnosa. Era un membro della band della scuola, suonava il violino e faceva parte del club degli scacchi. Regan non sapeva altro su di lei.

Brad, un giocatore di football del primo anno, seduto al banco davanti a Regan, si girò sullo sgabello per lanciargli un’occhiata preoccupata.

“Che hai fatto alla faccia? Sei di nuovo inciampato nei lacci delle scarpe?”

Regan roteò gli occhi: “È successo una sola volta! E no, è stato Gregory.”

“Ancora? È per questo che non eri in mensa?”

“Già.”

“Te la sei cavata con poco.”

“Dovresti vedere come sono ridotti lui e la sua gang.” rispose con un ghigno.

Il professore pose fine alla conversazione entrando nell’aula e ordinando a tutti di aprire il libro.

 “Andate a pagina 62 e mettete in pratica il terzo esercizio. Dosate i composti con attenzione, non vogliamo far esplodere niente! Signor Cunningham, sto guardando lei.”

Brad deglutì e abbassò la testa imbarazzato, mentre i compagni sghignazzavano sotto i baffi.

A fine lezioni, Lorie si accostò a Regan di fronte agli armadietti. Non esitò a incorniciare il suo viso con le mani e muoverlo da un lato e dall’altro per valutare i danni.

“Mi è stato riferito che dobbiamo ringraziare Gregory per questo.” disse gelida e sfiorò con un polpastrello il livido sullo zigomo.

“Chi te lo ha detto?”

“Ho occhi e orecchie dappertutto, tesoro.”

“Non è niente, Lorie, sul serio.” la rassicurò, sopprimendo a stento l’impulso di scansarsi, “Guarirà in un paio di giorni.”

“Sia quel che sia, quel grassone dovrebbe imparare le buone maniere.”

Charlotte nascose un sorrisetto dietro il palmo: “Scommetto che se ci fosse Roman, sarebbe già andato a fargli il culo a strisce.”

“Se ne occuperanno i miei ragazzi.” dichiarò Lorie e agitò la mano in un gesto annoiato, “Mike considera Regan il suo fratellino. Se vuole, sa essere persino più protettivo di Roman.”

Stando ai pettegolezzi, lei e Mike avevano avuto una storia al secondo anno. Anche se si erano lasciati la scorsa estate, se ce n’era bisogno agivano ancora di comune accordo per il bene dei loro “protetti”.

“Lorie…” sospirò Regan, fingendosi imbarazzato.

“Shhh. Non dire niente.”

“Okay. Ci vediamo domani.”

“A domani.” lo salutò con un bacio a stampo sulla guancia e sculettò via seguita dalla sua corte.

Regan attraversò il parcheggio, scambiando altri saluti con alcuni ragazzi popolari, e si diresse alla transenna delle bici. Prima di montare in sella, trangugiò l’acqua della borraccia e addentò metà del panino che non aveva avuto tempo di mangiare a pranzo. Dopodiché, sventolò di nuovo una mano in direzione del gruppetto di studenti assiepati attorno a una Porsche e pedalò alla volta di casa.

Venti minuti più tardi entrò nel vialetto e scese dalla bici. Scoccò un sorriso alla signora Greenwood, appollaiata sulla sedia di vimini sotto il portico, e aprì la porta. Poe schizzò nello spazio fra le sue gambe e si tuffò in un cespuglio. C’era un biglietto sul tavolo di cucina da parte di Deirdre, dove lo avvisava che era fuori per delle commissioni.

Salì in camera, gettò lo zaino sul pavimento e si sdraiò a pancia in giù sul letto. Rimase immobile per un po’, per ricaricare le energie e smaltire lo stress accumulato durante la giornata. Quindi si spogliò, indossò la tuta e tornò a sedersi sul letto con il computer portatile appoggiato sulle ginocchia.

Scrisse il saggio di Letteratura che doveva consegnare l’indomani e, una volta terminato, cominciò ad avvantaggiarsi con gli esercizi di matematica. Quando l’orologio segnò le sei, decise che aveva studiato abbastanza per quel giorno.

Lo sguardo gli cadde sul fantasma che se ne stava in piedi in un angolo della camera. Se non fosse stato per il plic plic dell’acqua che sgocciolava sul pavimento, Regan avrebbe continuato volentieri a ignorarlo. Quel suono, però, lo stava facendo innervosire.

Era un vecchio marinaio, vestito con un impermeabile nero e anfibi blu. I ricci capelli bianchi, fradici e sporchi, ricadevano sul viso smunto, grinzoso, di un pallore cadaverico. Due occhi scuri, privi di vita, fissavano il vuoto. La barba incolta gli incorniciava il mento e gli ricopriva buona parte del collo.

In quel momento, gli tornarono in mente le cose strane che erano accadute prima della scomparsa di Teresa. Non ci pensava più da un pezzo, dato che non c’erano stati altri incontri ravvicinati del terzo tipo dopo il faccia a faccia con Matthew Doyle.

In mancanza di altri stimoli, si mise a spulciare Google a caccia di teorie. Si imbatté in parecchi siti dedicati ai fantasmi, ma li scartò subito, perché sentiva che non era uno spettro a tormentarlo.

Stufo di ritrovarsi in vicoli ciechi, optò per fare un tentativo con la melodia del suo incubo. Scaricò un programma per ricrearla e un altro per verificare se appartenesse a qualche gruppo musicale. Purtroppo, oltre a portargli via un sacco di tempo, si rivelò l’ennesimo buco nell’acqua. L’unica cosa che guadagnò fu il nome degli strumenti usati: il tombak, il ney e il qanun. Il primo era un tamburo, il secondo un flauto e il terzo una specie di strumento a corde, di forma trapezoidale, che ricordava vagamente l’arpa.

La notifica di un messaggio sul cellulare lo distrasse.

Da Roman:
Mi annoioooo. Dimmi qualcosa, una qualsiasi, non mi interessa.
 
A Roman:
Stamattina ho ingoiato per sbaglio un pelo di Poe.
 
Da Roman:
Che schifo.
 
A Roman:
Domani torni?
 
Da Roman:
Ti manco?
 
A Roman:
Sono io che ti manco.
 
Da Roman:
Mi permetto di dissentire.
 
A Roman:
Allora ciao.
 
Da Roman:
Scherzavo! Ovvio che mi manca il mio migliore amico.
 
Il cuore di Regan saltò un battito. Migliore amico. Cioè, non solo amico, ma anche il migliore. Wow. Si era evoluta in fretta.

A Roman:
Pensa a guarire. Dalla regia mi dicono che perdi più muco di una lumaca.
 
Da Roman:
Una Signora lumaca, per cortesia e grazie. Novità?
 
A Roman:
Sono stato nominato “fratellino adottivo” di Mike e ho fatto a botte con Gregory.
 
Da Roman:
Chi ha vinto?
 
A Roman:
Che domande.
 
Da Roman:
Aspetta. Fratellino??? Sono geloso.
 
A Roman:
Non preoccuparti, c’è abbastanza Regan per tutti.
 
Da Roman:
Ti stai paragonando a una torta, per caso?

A Roman:
Una Signora torta, per cortesia e grazie. Buonanotte, Roman.
 
Da Roman:
Uffa. Notte  x
 
Roman gli aveva appena mandato un bacio? Davvero? Gli amici facevano questo? Scrollò una spalla e ripose il cellulare sul comodino, per poi stiracchiarsi e sbadigliare.

Erano le sette passate quando Deirdre rientrò, e non era sola. Curioso, Regan scese le scale e si affacciò in cucina. Le sue labbra si piegarono in un sorriso genuino quando posò gli occhi sull’ospite. La luce della lampada dell’ingresso si riflesse sul distintivo da sceriffo che abbelliva l’uniforme beige tipica delle forze dell’ordine.

“Zia Hillary!”

“Ciao, ragazzino! Vieni qui, fatti abbracciare.”

Regan si lasciò avviluppare dalle braccia della donna e inspirò a pieni polmoni il suo odore. Polvere da sparo, ammorbidente alla lavanda e menta piperita. Gli era mancato.

“Regan, aiutami ad apparecchiare. Hillary ci ha offerto il cinese.” disse Deirdre e Regan si affrettò a ubbidire, già con l’acquolina in bocca.

“Cosa ci fai qui? Cioè, non che non sia contento di vederti, anzi, per di più con appresso cibo cinese. È che nonna mi aveva detto che sei parecchio occupata.”

“Ed è vero, però mi mancavate troppo, così ho deciso di farvi una visita a sorpresa. Ho incontrato Deirdre di ritorno dal supermercato e le ho dato uno strappo con la volante.” spiegò Hillary.

“Non state in piedi, sedetevi.” li invitò la padrona di casa e tutti presero posto.

Poe saltò sul tavolo e si avventò sul contenitore dei ravioli al vapore. Hillary lo afferrò per la collottola prima che potesse ghermirlo tra le fauci e portarselo via.

“Ciao, palla di pelo! Mi sei mancato anche tu!” chiocciò e rise quando Poe soffiò infastidito, “Ah, sempre adorabile, vedo.”

Dopo aver posato il gatto sul pavimento, impugnò le bacchette e aprì la scatola più vicina. I capelli biondi, raccolti in una crocchia sulla nuca, assunsero riflessi dorati quando inclinò il capo.

“Come sta andando la scuola?”

“Per ora bene, gli argomenti sono semplici.”

“Non mi stupisce. Sei sempre stato intelligente, un passo avanti rispetto ai tuoi coetanei.” lo lodò, gli occhi azzurri saturi di autentico orgoglio, “Deirdre mi ha detto che ti sei fatto degli amici. Chi sono?”

“Buona compagnia, zia Hillary, non preoccuparti. Sono il nuovo beniamino delle cheerleader. E il capitano della squadra di football mi ha preso sotto la sua ala. Oh, e poi ho anche un migliore amico. Si chiama Roman.”

“Roman Sinclair.” precisò Deirdre.

“Sinclair. Presumo sia il figlio di Vincent. Un uomo tutto d’un pezzo, quello, non c’è che dire.” borbottò sarcastica.

“In che senso?” domandò Regan.

Hillary finì di masticare l’involtino primavera e infilò le bacchette nel contenitore del pollo alle mandorle. Regan non l’aveva mai vista tanto affamata.

“Il signor Sinclair è venuto un paio di settimane fa in centrale per presentarsi. Fa l’avvocato, sai. Il suo ego mette in ridicolo persino quello dell’agente Santiago, ci credi? Mentre parlava, potevo quasi assaporare sulla lingua la sua arroganza. E il modo in cui ha fatto scivolare lo sguardo per la stanza, uh! Sono stata spesso sul punto di dirgli che poteva andarsene se il nostro ambiente non si confaceva ai suoi gusti sofisticati. Mi è bastato adocchiare il suo completo d’alta sartoria per capire che tipo è. Maledetti avvocati.” azzannò un gamberetto e deglutì sonoramente, “Devo ammettere, però, che è un bell’uomo. Carismatico.”

“I Sinclair sono ricchi.” commentò Regan, “Anche se a guardare Roman non si direbbe. È un ragazzo normale. Non si veste da fighetto e non ha l’aria da snob.”

“Io mi sono imbattuta nella madre, invece.” si intromise Deirdre, “L’altro giorno ero al bar con la signora Keller a bere un tè. Tamara Sinclair è entrata nel locale come se danzasse, con la grazia di una ballerina, e con al seguito due bambini veramente rumorosi, un maschio e una femmina. Quest’ultima è inciampata e mi è caduta addosso, e la signora Sinclair si è scusata e presentata. Non è rimasta a parlare, ma mi ha dato l’impressione di essere una persona educata. È anche molto bella.”

“I due bambini dovevano essere Trevor e Nina, i cugini di Roman.” disse Regan.

“So che sono originari di Brooklyn. Vivono nella grande villa vicino al bosco, giusto?” indagò Deirdre.

“Come lo sai?” chiese Regan.

“La signora Greenwood.” fu tutto ciò che rispose e bastò, poiché era noto il fiuto dell’anziana donna per i pettegolezzi, sapeva tutto di tutti.

“Ho fatto delle ricerche su di loro e non ho trovato niente di sospetto. Sono puliti.” disse Hillary, “Oh, eccetto Roman. Il ragazzo è stato arrestato a marzo per atti vandalici. Il padre ha pagato la cauzione e gli ha fatto completare l’anno scolastico a casa, anche se alla fine è bocciato. Poi si sono trasferiti qui.”

“Sì, me ne ha parlato. Dell’arresto, intendo.” spiegò Regan, “Frequentava una brutta compagnia.”

“A parte lui, sembra una famiglia per bene.”

“Roman è a posto, zia Hillary.”

“Sarà, ma stai attento.”

“Ricevuto, capo.” le sorrise facendole il saluto militare.

“Come vanno le cose in centrale?” domandò Deirdre.

“Sto affogando nelle scartoffie. Abbiamo avuto più arresti in questo mese di quanti ne abbiamo normalmente in un anno. La gente è impazzita.”

“Cioè?” biascicò Regan intorno a un raviolo.

“Non si parla con la bocca piena.” lo rimproverò la nonna.

“Il numero di furti è triplicato, tanto per dirne una. Ogni giorno i miei agenti devono sedare delle risse o fare multe per eccesso di velocità e sosta vietata. Un tizio ha parcheggiato sul marciapiede e se n’è andato al bar come se nulla fosse! Altri due sono venuti in centrale, qualche giorno fa, accusandosi a vicenda di aver sottratto il posto d’auto all’altro, nonostante entrambi posseggano un garage. Oppure, una donna ci ha chiamati in lacrime dicendo di aver beccato il marito con l’amante. Questa ha tentato di accoltellarla, finendo invece per colpire l’uomo a una spalla. Un marinaio ha fatto irruzione nel mio ufficio pretendendo che arrestassimo il suo socio per avergli rubato metà del carico. Fatto sta che, quando siamo andati a controllare, non c’era nessun carico. E il suo socio è morto l’anno scorso. Allora il marinaio ha accusato me di avergli rubato il carico!”

“Era ubriaco?”

“No, era perfettamente lucido! Non un millilitro di alcool nel suo sangue. Oh, e dovete assolutamente sentire questa.” ingoiò il boccone che stava masticando e bevve un sorso d’acqua, “Lo scorso venerdì, il pescatore che uno dei miei aveva arrestato per aver partecipato a una rissa al pub giù al porto si è alzato dalla sedia, a spezzato le manette a mani nude e si è messo a gridare. Poi ha afferrato una penna e ha fatto per conficcarsela nel collo. L’agente Lang lo ha fermato appena in tempo. Quando gli abbiamo chiesto che diavolo gli era preso, ha cominciato a farneticare, dicendo che erano stati i serpenti a ordinargli di farlo. Assurdo, vero?”

Regan si bloccò con le bacchette a mezz’aria: “Serpenti?”

“A-ha.”

Non ebbero modo di approfondire la questione, perché il cercapersone di Hillary suonò.

“Devo andare.” grugnì, si pulì la bocca col tovagliolo di carta e si alzò, “Grazie per la cena, Deirdre.”

“L’hai offerta tu! Semmai siamo noi a ringraziarti.”

“Grazie, zia Hillary.”

“Di nulla. Spero di rivedervi presto.”

In piedi sulla porta, Hillary si legò la cintura con la pistola e le manette intorno ai fianchi e indossò il giubbotto.

“A presto, Deirdre. E tu, ragazzino, stai lontano dai guai, capito?”

Regan disegnò con un dito un’aureola invisibile sopra la propria testa.

La porta si chiuse e calò il silenzio. Regan aiutò la nonna a sparecchiare e riporre gli avanzi nel frigo. Poi sorseggiò con calma la sua dose serale di sangue mentre Deirdre portava fuori la spazzatura. Quando la nonna tornò in cucina, lo invitò a sedersi di fronte a lei. 

“A cosa pensi, leprotto? E non dire che non è niente, stai facendo quella faccia.”

“Quale faccia?”

“Quella che fai quando un pezzo del puzzle sta per incastrarsi nel posto giusto.”

Regan sbuffò divertito e alzò le mani in segno di resa: “Pensavo ai serpenti.”

“Elabora.”

“Nel mio incubo, quello con il grammofono, sotto la musica e le voci sento dei sibili, come di serpenti.”

“E?”

“È solo una teoria, ma forse l’aumento degli incidenti e della criminalità è causato da qualcosa di…” lasciò la frase in sospeso, non sapendo bene come terminarla.

Deirdre abbandonò il suo posto senza dire una parola. Raggiunse il cassettone antico del salotto e da un cassetto estrasse una piccola scatola. Era semplice, priva di ornamenti, in legno di ciliegio. Stringendola fra le mani, si recò di nuovo in cucina e la posò sul tavolo. Afferrò dalla credenza una zuppiera di ceramica dipinta a mano, che riempì per un quarto di olio d’oliva. Nell’olio versò una spolverata di centaurea, un’erba per favorire la divinazione che conservava dietro il sacco di farina, dentro uno degli sportelli in basso. Infine, si risedette, poggiò la zuppiera ed estrasse dalla scatola un mazzo di tarocchi.

Stava per offrirli a Regan, ma si fermò prima che le carte toccassero il suo palmo: “Ti va bene se ti leggo?”

“Non ti ho mai negato il consenso.”

Regan accettò il mazzo e cominciò a mischiarlo. Dopodiché, scelse delle carte e le predispose sul tavolo in sette colonne di tre, in posizione coperta. Le carte avanzate le mise da parte.

“Scoprile una per volta, partendo da quella in alto a sinistra.” lo istruì Deirdre.

“Lo so.”

Mentre le girava, Deirdre accese un fiammifero per bruciare l’olio e si chinò sulla zuppiera per inalare i fumi, mugolando una cantilena ripetitiva composta da quattro note. Dopo aver meditato a sufficienza, si sporse per osservarle.

“Pessimo presagio.” decretò dopo qualche minuto di silenzio.

“Pessime carte.” la corresse Regan.

“Le carte non sono né buone né cattive. È la loro posizione che ne determina il significato.”

“Sai darmi una lettura precisa?”

“Posso tentare.”

Regan le cedette la propria sedia e restò in piedi al suo fianco. Poe saltò sul tavolo e si accucciò vicino alle carte, studiandole attentamente con gli occhi gialli ridotti a fessure.

“Per cominciare, abbiamo l’Asso di denari, il Bagatto e il Cavaliere di bastoni, tutti diritti. Direi che significa che hai successo nel campo intellettuale, quindi a scuola, che hai iniziativa e fiducia in te stesso e, in ultimo, che il tuo obiettivo si è compiuto. Infatti, hai instaurato delle amicizie che ti permetteranno di inserirti nella comunità e ti aiuteranno a farti un nome. Proprio come avevamo pianificato.”

Regan mimò un inchino teatrale.

“Ma vedi questa carta?” Deirdre indicò la carta centrale della seconda colonna, “La Giustizia rovesciata. Può indicare soprusi, intolleranza. Cosa ti fa venire in mente?”

“Gregory.” disse senza esitare.

“Allora questa carta rappresenta Gregory. È accerchiata dalla Temperanza rovesciata e dall’Imperatrice rovesciata. La prima, tra le altre cose, può significare caos, discriminazione, mentre la seconda arroganza e disaccordo.”

“Cioè, Gregory tornerà a rompere le scatole.”

“E provocherà seri danni, se non farai attenzione. La stabilità che hai raggiunto è precaria.” Deirdre indicò la terza colonna, “L’eremita diritto: prudenza, oppure isolamento e misantropia.”

“Devo essere prudente, ma allo stesso tempo non devo farmi terra bruciata intorno, continuando a fingere che mi piacciano tutti?”

“Se tu senti che è così, allora è così. Basati sulle tue percezioni, fidati dell’istinto.”

“Okay. Sotto l’Eremita cosa c’è?”

“La Morte e il Matto, entrambi rovesciati.”

“Non promette niente di buono.” grugnì esasperato.

“La prima potrebbe significare fallimento o perdita, la seconda follia, ossessione, violenza. Senti che sono riferite a te?”

“Forse.” mugugnò con aria meditabonda, lo sguardo gelido fisso sulle carte, “Se non pianificherò bene le mie prossime mosse, potrei perdere tutto ciò che ho guadagnato. Gregory è ossessionato da me. La sua ossessione è sempre sfociata nella violenza.”

Deirdre annuì, accettando la sua interpretazione.

“Quarta colonna: Carro rovesciato, Forza diritta e Torre rovesciata. Curioso…” commentò stranita, “Ti imbarcherai in un viaggio irto di pericoli, che forse ti condurrà alla rovina. Sarai forte, coraggioso, e lotterai per ottenere ciò che vuoi. Eppure, nonostante gli sforzi, alla fine ti ritroverai in un vicolo cieco.”

Deirdre analizzò la colonna successiva con crescente angoscia. Aveva un terribile presentimento.

“Luna diritta, Nove di bastoni diritto e Tre di denari rovesciato. La Luna indica pericoli nascosti, una fervida immaginazione soggetta a errori, menzogna, calunnia, cattiva influenza esterna e… incubi. Il nove è un numero magico e i bastoni hanno a che fare con il comando, la virilità e la terra. Interessante.” contemplò la carta per qualche secondo di troppo, poi andò avanti, “Il Tre di denari, di nuovo, indica il fallimento.”

Regan serrò le labbra, teso come una corda di violino.

“Sette di spade diritto, Ruota della Fortuna rovesciata, Appeso rovesciato.” snocciolò Deirdre con voce grondante di panico.

“Nonna?”

“Pace forzata, precaria. Sfortuna, instabilità. Paura, illusioni, sacrificio inutile.”

“Nonna.”

“Regina di coppe rovesciata, Tre di coppe rovesciato, Diavolo diritto.” balbettò, pallida come uno spettro, gli occhi sempre più vacui via via che scivolava in una trance più profonda, “La coppa è il simbolo della femminilità. Una donna… una donna importante, legata al mondo dell’arte e della cultura. Il Tre rovesciato è un cattivo presagio, ed è legato alla donna. Il Diavolo… il Diavolo…”

“Nonna!” la chiamò Regan, stringendola per le spalle, ma lei seguitò a fissare la carta del Diavolo come se racchiudesse tutte le risposte.

“Il Diavolo…” ripeté sottovoce, più volte.

“Cosa significa?” chiese Regan.

“C’è qualcosa di malvagio in giro. La città è il suo parco giochi. La donna è connessa a lui. Trova la donna e troverai lui.” sussurrò, lo sguardo fisso nel vuoto.

“Lui chi?”

L’avvertimento di Matthew riecheggiò all’improvviso nella sua memoria.

“Lui è qui.”

Deirdre prese la carta del Diavolo e gliela mise in mano.

 
*

Regan si svegliò di buon umore. Aveva sognato il lupo e insieme erano andati a caccia di conigli, nel bosco illuminato dai soffici raggi della luna piena. Nemmeno il fantasma di una vecchia donna di colore, in piedi sulla soglia di camera, riuscì ad attenuare l’ondata di serenità che lo pervadeva.

Almeno finché suddetto fantasma non si mise a cantare.
 
L’ombra il serpente curioso acchiappò
La sua superbia nel palmo schiacciò
La sua voce con gli artigli strappò.
 
Regan emise uno squittio virile e, per la sorpresa, rotolò giù dal letto, atterrando sul pavimento con un tonfo e un’imprecazione. Il fantasma non parve disturbato dal fracasso e continuò a cantare.

Nella notte i suoi sibili nitidi
Sulla pelle fan nascere brividi.
 
Un amico fedele il suo caro lasciò
L’agnello pianse e, solo, disperò
L’ombra affamata pure lui mangiò.
 
Scappa, lesto, a più non posso
Non guardare dentro al fosso.
Cerca, trova il cerchio nascosto
Che giace nel buio sotto il sole d’agosto.
Corri, salta, balla, sogna
L’ombra prende quel che agogna
Grida, grida ciò che è omesso
La canzone dell’abisso.
 
La donna ammutolì e, senza fare rumore, scomparve in un battito di ciglia.

Regan rimase a fissare il punto in cui si trovava sino a un momento prima per svariati secondi, imponendosi di non muovere un muscolo. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto farlo, perché era letteralmente pietrificato.

“Regan! La colazione è pronta!”

La voce di Deirdre lo ridestò dal torpore. Scattò in piedi come una molla, si precipitò alla scrivania e, su un foglio a caso, trascrisse a memoria la canzone del fantasma. La rilesse un paio di volte, prima di gettare la spugna e ammettere che non capiva neanche un rigo. Sembrava un indovinello.

Maledetti fantasmi e maledetti i loro indovinelli, pensò. Mai una volta che parlassero chiaro. Prima Matthew, ora questa qui… chi è, a proposito? Non abbiamo ricevuto nuovi ospiti, ieri.

Ancora in pigiama, scese in cucina, marciò verso il tavolo e ci sbatté sopra il foglio con la canzone.

Deirdre interruppe quello che stava facendo e si accigliò: “Regan?”

“Spiegami questo. Un fantasma me lo ha cantato poco fa, in camera mia.”

“C-Che? Ha parla-”

“Sì, ha parlato! Ora traducimi questa roba.” ordinò gesticolando.

Deirdre posò la spatola sul piano cottura, spense i fornelli e si pulì le mani sullo strofinaccio abbandonato sullo schienale di una sedia. Quindi prese il foglio con espressione interrogativa e lesse ad alta voce.

“Mmm… è chiaramente un presagio di morte.”

Regan levò occhi e braccia al cielo: “Puoi essere più precisa? Chi morirà? Quando? Dove? Come? L’ultima volta che un fantasma mi ha parlato, o, insomma, che ho creduto che mi parlasse, Teresa Meyers è scomparsa.”

“Mmm…”

“Cosa.” sputò, dimenticandosi il punto interrogativo.

“Che aspetto aveva il fantasma?”

“Una donna di colore, anziana. Indossava un vestito nero con un colletto di pizzo. Al petto aveva una spilla a forma di margherita.”

“Meredith Flynch. È stata sepolta due giorni fa. Me l’hanno portata mentre eri a scuola. Non l’hai mai vista, eppure mi hai descritto l’aspetto che aveva quando l’ho adagiata nella bara. Non puoi essertela immaginata. Forse non ti sei immaginato nemmeno Matthew Doyle.”

“Vuoi dire che il mio subconscio non c’entra niente e che davvero ho visto…”

“A questo punto non possiamo più escluderlo, nonostante sembri impossibile. E questa filastrocca… ho l’impressione che Meredith desideri mandarti in una qualche caccia al tesoro. Ti ha fornito degli indizi sia su di esso, sia a chi appartiene. Matthew ti ha avvertito su sua cugina, perciò è probabile che Meredith stia cercando di fare lo stesso.”

“Un suo parente sta per sparire?”

“Non lo so, Regan. Studierò le strofe mentre lavoro, magari riesco a interpretarle. Ora tu mangia veloce e va’ a vestirti, o farai tardi.”

Regan maledisse la scuola. Gli sarebbe piaciuto restare e venire a capo di quell’indovinello. Si vestì, afferrò lo zaino e si fiondò fuori dalla porta. Parcheggiò la bici davanti al liceo al suono dell’ultima campanella.

Corse verso l’armadietto per prendere il libro di Algebra e poi alla volta dell’aula, sgusciando dentro un momento prima che il professore chiudesse la porta. Andò a sedersi dietro Charlotte e ignorò le sue occhiate preoccupate.

A fine lezione, la ragazza lo aspettò per chiedergli come mai fosse arrivato tutto trafelato.

“Non ho sentito la sveglia.” mentì Regan, “Tu come stai?”

Charlotte si lasciò distrarre. Gli sorrise radiosa e inclinò il capo da una parte e dall’altra.

“Noti nulla di diverso?”

“Ti sei tagliata i capelli.”

“Sì! Che ne dici?”

Aveva solo dato una spuntatina, non aveva esattamente cambiato pettinatura.

“Stai molto bene. Ti dona.”

“Oh, quanto sei dolce!”

“Scusa, non posso restare, ho educazione fisica. Ci vediamo dopo!”

La giornata trascorse lenta, priva di eventi interessanti, se non si contava il test a sorpresa di Latino. Regan tornò a casa stravolto e assetato. Al fine di distogliere i pensieri dalla brama di sangue, si gettò nello studio, avvantaggiandosi nelle letture, negli esercizi e nella stesura dei saggi.

Tuttavia, quando il sole tramontò, il suo cervello gli ripropose la canzone del fantasma, parola per parola. Arreso, accantonò i compiti, aprì Google e digitò i primi versi, nella speranza di trovare uno straccio di indizio. La ricerca lo portò su Youtube in mezzo a filastrocche della buonanotte dai toni sinistri.

Sabato declinò cortesemente la proposta di Charlotte per un’uscita tra amici e rimase chiuso in camera a guardare documentari sugli animali della savana. Deirdre non seppe dirgli nulla di nuovo sull’indovinello del fantasma, ma promise che avrebbe continuato a studiarla.

Regan si ricordò di Roman solo quando lui gli scrisse un messaggio domenica, intorno all’ora di pranzo, per invitarlo a uscire insieme, dato che era guarito. Regan fu tentato di ignorare pure lui, ma, memore del verdetto dei tarocchi, optò per la prudenza: meglio tenere stretti gli amici che aveva, non si poteva mai sapere quando ne avrebbe avuto bisogno.

Regan gli rispose con il proprio indirizzo, poiché Roman si era offerto di venirlo a prendere in macchina. Pranzò, si fece una doccia e si vestì con le prime cose pulite che gli capitarono sotto mano.

Alle tre andò ad affacciarsi nel seminterrato, dove sua nonna stava lavorando. La radio diffondeva le note di un brano di John Coltrane per tutto l’ambiente. La salutò dicendole che sarebbe rientrato per cena e uscì.

La macchina di Roman accostò proprio in quel momento davanti al vialetto. La signora Greenwood sollevò il cannocchiale e lo puntò verso di loro. Regan le elargì un saluto e salì al posto del passeggero, senza neanche rivolgere un’occhiata al guidatore.

“Ciao, Regan. Come stai?”

“Oh, sei qui. Non ti avevo visto.”

“Non fare lo stronzo, sono convalescente.”

“A me sembri parecchio arzillo.”

Regan lo scrutò con la coda dell’occhio e notò che, salvo delle leggere occhiaie, aveva un aspetto sano. I suoi capelli profumavano di shampoo, i vestiti erano freschi di bucato e le guance avevano un colorito roseo. Era il ritratto della salute.

“Senti, pensavo di visitare i cimiteri. Ho letto che Ashwood Port ne ha due molto pittoreschi.”

“Se ti interessa osservare file di lapidi, okay.”

“Sono molto frequentati?”

“Non direi.”

“Perfetto. Allacciati la cintura.”

“Non sono un bambino.”

“E io non voglio perdere punti sulla patente.”

“Non siamo in una metropoli. Qui tutti rispettano il codice della strada. Il massimo che può capitarti è incontrare uno che va a cinquanta all’ora invece che a quaranta.”

“E se sbucasse un procione all’improvviso?”

“Un procione? Perché mai un procione dovrebbe-”

“Allacciati.”

Regan sbuffò, ma obbedì.

Roman era contento che Regan avesse accettato il suo invito. Onestamente, non ci contava. Dopo la luna piena, aveva trascorso tre giorni interi con suo padre ad allenarsi nella trasformazione e nel combattimento, a subire i suoi rimproveri, i suoi graffi e i suoi ringhi, e a lasciarsi malmenare per sviluppare il controllo sulle nuove abilità. Non avrebbe sopportato un’altra sessione, soprattutto considerando che l’indomani c’era scuola. Era immensamente grato all’universo per aver fatto sì che Regan fosse disponibile.

“Com’è che tu non hai la macchina?”

“Mia nonna la ritiene una spesa inutile. Insomma, non ci è mai servita.”

“E se devi percorrere lunghe distanze?”

“Esistono i taxi e gli autobus.”

“Ma le pompe funebri non dovrebbero possedere anche un carro funebre?”

“I familiari del defunto se lo noleggiano da soli.”

“Taccagni.” borbottò Roman.

“Pragmatici.” lo corresse Regan.

Dieci minuti dopo, parcheggiò nei pressi del cimitero St James. Si ergeva su grandi terrazzamenti in mezzo al verde e i sentieri erano circondati da alberi, cripte e lapidi. Regan gli fece una panoramica storica del posto, dicendogli che era stato costruito nel 1720, dopo che la moda delle fosse comuni e dei funerali in mare si esaurì. Vantava alcuni monumenti storici, come dei cannoni risalenti alla Guerra Civile, e mausolei, statue e tombe di confederati. I militi ignoti avevano un’area tutta per loro, nella parte est del cimitero.

La tomba più famosa apparteneva all’ammiraglio Wilson, antenato di Charlotte. Lo scultore lo aveva raffigurato in una posa marziale, curando nei minimi dettagli il suo abbigliamento e la foggia delle armi appese alla cintura. Il piede destro poggiava su uno scoglio di pietra, la mano sinistra era avvolta attorno alla spada e il suo sguardo severo puntava verso l’oceano.

Più di tutto, però, Roman rimase colpito dalla cappella gotica dedicata ai soldati che si erano distinti in battaglia. La facciata di pietra era ricoperta di edera rossa, che si arrampicava sopra gli archi dell’entrata e intorno al rosone. Somigliava a una cascata di sangue, che partiva dal tetto e colava giù per le colonne doriche, fino a depositarsi sul terreno.

A fine tour si fermarono a riposare in riva a un piccolo lago, avvolti dalla quiete. Sotto il pelo dell’acqua, i pesci nuotavano in gruppi, mentre tra gli alberi gli uccelli cinguettavano senza posa. Un leggero venticello fresco accarezzava il fogliame, scompigliando i capelli dei due ragazzi. Il sole era già basso sull’orizzonte, ma mancava ancora un po’ al tramonto.

Roman osservò curioso l’amico strappare distrattamente gli steli d’erba che circondavano i suoi piedi. Ne prendeva uno, lo tirava, lo guardava intensamente e poi lo buttava via. La ripetizione metodica di quei gesti lo stava ipnotizzando, così dovette scuotere la testa per non fare la figura dello stupido.

“Parlami di te, Regan.” disse infine, quando il silenzio smise di essere piacevole.

“Che vuoi che ti dica?”

“Quello che ti pare.”

Regan parve ponderare sulla risposta per un po’. Poi sbuffò e infilò le mani nelle tasche del giubbotto, lo sguardo puntato sulla superficie liscia del lago.

“La mia materia preferita è Latino, odio gli sport e adoro i gatti.”

Roman mugugnò sovrappensiero, finché non ruppe il silenzio con delle domande che gli stavano ronzando nel cervello da settimane.

“Come stanno le cose tra te e Gregory? Quand’è iniziata la vostra faida?”

“Siamo nemici giurati. Per sua scelta, non mia. Non mi sarei mai accorto della sua esistenza, se al secondo anno delle medie non si fosse avvicinato a me con un insulto pronto sulla lingua. In quel momento, ha avuto inizio la guerra. Le battaglie le innesca sempre lui, spalleggiato da Derek e Kevin. Io mi limito a difendermi.”

“Perché ce l’ha con te?”

“Questa è una domanda da un milione di dollari.”

“Tua nonna non è mai intervenuta? Cioè, immagino che la scuola abbia preso provvedimenti disciplinari contro Gregory, a un certo punto.”

“No. Mia nonna non voleva attirare su di me più attenzione del necessario e alla scuola non importava un fico secco.”

“Mi stai dicendo che Gregory gode dell’immunità dalla seconda media?”

“Già. Non che mi importi, dato che lo riduco a un colabrodo tutte le volte che prova ad attaccarmi. E se mi fa un dispetto, glielo restituisco con gli interessi. Non sono il tipo che resta zitto a subire.”

“Ma Deirdre… tua nonna davvero non ha mai fatto niente per proteggerti?”

“So proteggermi da solo, Roman.”

“Ho capito, ma-”

“Deirdre non ha mai combattuto le mie battaglie. Piuttosto, mi ha insegnato ad affrontarle a testa alta, a rialzarmi dopo una sconfitta e a vincere con le mie sole forze. È grazie a lei se oggi non ho più paura del dolore o di un branco di stupidi bulletti.”

Roman scosse il capo, incredulo e confuso.

“Eri solo un bambino!”

“E allora?”

Roman gesticolò con enfasi, cercando di comunicare con le mani e ciò che non riusciva a esprimere a parole.

“Deirdre non è mia madre, Roman. E anche se lo fosse, non sarebbe la tipica madre da pubblicità. Invece che le favole della buonanotte, prima di andare a dormire mi leggeva L’arte della guerra!” sorrise al ricordo, per poi tornare subito serio, “Pensa quello che vuoi, ma lei c’è sempre stata per me, non mi ha mai fatto mancare nulla. Mi ha dimostrato amore insegnandomi ad accettare me stesso; mi ha protetto insegnandomi a proteggere me stesso; si è presa cura di me insegnandomi che il mondo non è rose e fiori, e prima lo si capisce, meglio è. C’è forse qualcosa di sbagliato in questo?”

“Certo che no. Solo…” sbuffò e afflosciò le spalle, “Suppongo tu abbia ragione. Se non avesse fatto quello che ha fatto, credo che oggi saresti un ragazzino viziato che non sa neanche come allacciarsi le scarpe.”

“Esatto.”

Un velo d’amarezza calò sulle iridi azzurre di Roman, puntate sulla linea dell’orizzonte.

“Fino a poco tempo fa, anch’io vantavo un rapporto simile, speciale.”

“Con chi?”

“Declan. Lui è l’unico che… era l’unico…” la sua voce si perse nel vento, il suo sguardo di fece lontano.

Regan incrociò le gambe e intrecciò le mani in grembo. La sua postura più aperta sciolse gli ultimi stralci di tensione in Roman, incoraggiandolo a buttar fuori la negatività che lo stava avvelenando da settimane. Anzi, forse da anni.

“Ultimamente, i rapporti con i miei non sono più così distesi. Con mio padre non lo sono mai stati, a dire il vero. Lui è il tipico maschio alfa, autoritario, severo, freddo. Quando ti trovi al suo cospetto, provi l’impulso di chinare il capo in sottomissione e obbedire a ogni suo ordine. Da piccolo, mi faceva tanta paura. Mi nascondevo sempre dietro a mia madre. Non mi importava di fare la figura del bambino fifone. Ero un bambino fifone.”

“Ti ci vedo.”

“Stronzo.” lo insultò, anche se non risultò credibile a causa del sorriso che gli curvava le labbra, “Con mia madre me la intendevo un po’ di più, ma lei, come tutti, era sottomessa a mio padre, perciò non era il difensore che prediligevo. Questo era Declan.”

“Studia alla Columbia, giusto?”

“Sì.”

“Ti manca.” disse Regan, e venne fuori più come un’affermazione che una domanda.

Roman sospirò e annuì, adombrandosi: “Siamo sempre stati vicini. Fratelli, migliori amici, una squadra, l’inseparabile duo. Almeno fino a un paio d’anni fa.”

“Cosa è successo?” chiese reprimendo uno sbadiglio, ma Roman non se ne accorse.

“Declan è sempre stato un ribelle, e io lo ammiravo per questo. Sognavo di diventare come lui, un giorno: forte, orgoglioso dei miei successi, fiero delle mie scelte e della mia indipendenza. Da bambini, era lui la mente di quasi tutte le nostre marachelle. Gli piaceva giocare sporco, usare i trucchetti e i sotterfugi; non gli importava chi veniva danneggiato nel processo, solo che lo scherzo andasse come lui aveva pianificato. Quando ci beccavano – cosa che accadeva puntualmente – riusciva a districarsi dall’inevitabile punizione ogni dannata volta. Non so come facesse, è un genio del male. Ma se in passato si limitava a dispetti infantili, tipo nascondere la penna preferita di nostro padre o disegnare fiorellini sulla sua cravatta subito prima di un incontro di lavoro importante con gente altrettanto importante, da ormai due anni ha alzato la posta. Sta facendo sul serio, e questo mi spaventa. Schierarsi dalla parte sbagliata, cioè contro nostro padre, può portare soltanto alla rovina.”

“Perché lo sta sfidando?”

“Brama la libertà.”

“Libertà da cosa?”

“È il primogenito, Regan. La nostra è una famiglia all’antica. Declan è l’erede, colui che, sin da quando era nel ventre di nostra madre, è stato destinato a prendere il posto di papà. Le scuole che ha frequentato, le persone a cui è stato presentato, perfino quelle con cui ha fatto sesso: tutto è stato progettato a tavolino da nostro padre e i suoi… alleati, chiamiamoli così. Un giorno le redini dell’impero passeranno a lui e papà vuole che sia pronto.”

“Siamo nel ventunesimo secolo. Dovrebbe essere libero di compiere le sue scelte.”

Roman sbuffò, puntellò le mani sul terreno erboso dietro di sé e alzò lo sguardo verso il cielo color indaco, tinto di sfumature rossastre vicino all’orizzonte.

“Lo so, ma finché ci sarà nostro padre non è che pura utopia. Sai, un tempo io e Declan ci confidavamo l’uno con l’altro, ci raccontavamo tutto. In una di quelle occasioni, mi confessò di sentirsi in trappola. Nostro padre ha cercato di plasmarlo a sua immagine, ma Declan è… beh, Declan. Bastardo, intelligente, arguto, privo di scrupoli, ambizioso, devoto a coloro che ama. Un po’ come te, ora che ci penso.” gli scoccò un sorriso, “Prendere ordini da qualcuno va contro la sua natura. Per questo lui e papà litigano ogni volta che si trovano per più di due minuti nella stessa stanza. Credimi, è parecchio spiacevole. Papà era convinto che il college gli avrebbe insegnato il rispetto per l’autorità e la disciplina, invece ha solo aumentato il divario tra loro.”

Roman si sdraiò, strappò uno stelo d’erba e se lo mise in bocca. Regan si rassegnò ad ascoltare, anche se tutto ciò che voleva era tornarsene a casa a vegetare sul divano.

“Non torna a casa da mesi. Non chiama più, non risponde ai miei messaggi. Se dovesse davvero decidere di staccarsi dalla famiglia, papà mi proibirà di vederlo. Cancellerà il suo nome dall’albero genealogico e ordinerà a tutti di non pronunciarlo mai più. Sarà come se fosse morto. Sembra esagerato, ma è così che funziona. E non riesco ad accettarlo.” la sua voce si incrinò, ma trattenne stoicamente le lacrime, “Non so nemmeno se si ricorda la nostra promessa.”

“Quale promessa?”

“Che saremmo sempre stati una squadra. Lui la mente, io il braccio. Ci saremmo allontanati insieme dalla famiglia, ci saremmo fatti un nome tutto nostro, da soli, lavorando sodo giorno dopo giorno. Ci giurammo che nessuno avrebbe abbandonato l’altro, mai.”

“Uhm. Okay.”

Roman lo fissò basito, chiedendosi se facesse sul serio. Regan inarcò un sopracciglio, piegò il capo di lato e assunse un’aria perplessa.

“Io apro il mio cuore e tu lo calpesti così?”

“Ti aspettavi una perla di saggezza?”

“Sì!”

“Va bene, eccola: smetti di fare la vittima e dimenticati di tuo fratello, perché è chiaro che lui si è già dimenticato di te. Ti ha abbandonato su una metaforica spiaggia come una balena morente e, se non ti ritufferai in mare con le tue forze, ti essiccherai e marcirai lentamente, finché di te non rimarrà altro che una putrida carcassa.”

“Che immagine poetica.”

“Tutto è destinato a finire, Roman. Prendi questo fiore, per esempio.” gli mostrò una margherita vicina a sé, “Nasce, sboccia e fiorisce. Pare un inno alla vita. Invece, la sua bellezza non è che il riflesso dell’ineluttabilità della morte, perché è effimera. Il fiore è destinato ad appassire. Niente dura per sempre, nemmeno i legami di fratellanza. In un modo o nell’altro, prima o poi, tu e Declan vi sareste allontanati. È accaduto adesso, e fa schifo, ma che vuoi farci? C’est la vie. Ma mentre tu sarai occupato a crogiolarti nel rammarico, io mi godrò le nuove ricchezze che mi circondano, senza alcun riserbo o rispetto del tuo lutto, perché la vita è troppo breve per perdere tempo dietro ai rimorsi, a ciò che avrebbe potuto essere e invece non è. Quando deciderai di smettere di piangerti addosso, fammi uno squillo.”

Il diciassettenne lo squadrò sbalordito per un’altra manciata di istanti, poi scoppiò in una risata grassa, liberatoria, sincera, che spazzò via rancore, tristezza e rabbia in un batter d’occhio.

“Solo tu, Regan. Solo tu.” commentò sconsolato tra risolini isterici.

“Sono speciale.” rispose piatto, provocando un secondo attacco d’ilarità nell’altro.

Non appena si fu calmato, Roman propose di visitare l’altro cimitero prima che facesse buio. Regan gli rivolse un ghigno inquietante.

“Perché fai quella faccia?” indagò Roman, sulle spine.

“Lo scoprirai.”

Dopo essersi fermati a mangiare un panino a un chiosco, a piedi raggiunsero il cimitero di Blackhill. Si stagliava su una collina circondata dal bosco, appena fuori città. Le lapidi erano antiche e i nomi incisi sopra di esse illeggibili. La pietra consumata dal tempo e dalle intemperie era ricoperta di edera e muschio. Le erbacce dominavano lo spiazzo di terra annerita, un indizio più che chiaro del fatto che il cimitero fosse abbandonato da anni. Forse addirittura secoli.

“È uno dei posti più infestati dell’intero stato. Blackhill, ‘la collina nera’. Il nome deriva dal colore del terreno.” spiegò Regan.

“Come mai è così?”

“Colpa del fuoco. Questo luogo viene chiamato anche ‘la collina della cenere’.”

“Ci fu un incendio?”

“Mh-hm.” Regan scosse il capo per negare e rinnovò il ghigno, intrecciando le mani dietro la testa, “Secondo le leggende locali, le vere streghe abitavano qui, ad Ashwood Port. Quelle di Salem erano solo povere donne che amavano la natura e si divertivano a disegnare pentacoli per combattere la noia. Le persecuzioni scoppiarono nell’autunno del 1693, a distanza di un anno dall’inizio di quelle che si abbatterono su Salem. In una settimana, una presunta congrega venne individuata e messa al rogo, proprio dove ci troviamo noi adesso. Tredici donne morirono, tra cui una ragazzina di quattordici anni.”

“È terribile…” balbettò sgomento Roman.

“Vennero sepolte qui, dove esalarono l’ultimo respiro, perché gli abitanti non volevano che la loro aura negativa avvelenasse la terra altrove. All’epoca, questo era terreno sconsacrato, poi, nell’Ottocento, il pastore Baldwin lo benedì e dichiarò che le donne uccise sarebbero state considerate delle martiri. Nella chiesa in città ci sono degli affreschi sulle pareti che le ritraggono come sante.”

“Andrò a vederli. Ma perché dici che questo cimitero è infestato?”

“C’è chi racconta di aver udito latrati di cani tra le lapidi. Altri affermano di essersi sentiti osservati per tutto il tempo. Altri ancora hanno detto di aver fiutato l’odore di fumo e carne bruciata. Gli investigatori del paranormale hanno rilevato voci di uomini e donne con i loro dispositivi. Uno ha pure detto di aver visto un fantasma. Sai, c’è un sito web dedicato a Blackhill, è piuttosto famoso.”

“Wow. Tu credi ai fantasmi?”

Regan gli scoccò un’occhiata in tralice e decise di metterlo alla prova.

“Sì.”

“Ne hai mai visto uno?”

“Più di quanti vorrei…” bofonchiò, “E tu ci credi?”

“Non lo so. Un attimo, li hai visti davvero?”

“Ti ricordo che nel seminterrato accogliamo cadaveri un giorno sì e l’altro pure.”

“E sono come nei film?”

“Vuoi dire ‘inquietanti’? Alcuni sì.”

“E come funziona? Cioè, cosa fanno?”

Regan si stupì di non sentirsi prendere in giro. Una persona normale si sarebbe fatta grasse risate o lo avrebbe guardato storto, come se fosse pazzo. Roman si stava rivelando una piacevole sorpresa.

“Non fanno niente. I fantasmi non sanno dove si trovano, non percepiscono la realtà. Non sono in grado né di sentirci né di vederci, tanto meno toccarci. Vagano tra i vivi per un breve periodo, finché non ricevono le esequie, poi passano oltre il Velo.”

“Allora perché la gente è convinta che possano interagire con il mondo materiale? Deve esserci un fondo di verità, altrimenti la credenza non sarebbe così diffusa.”

“Gli spettri sono quelli da cui hanno origine le storie che sentiamo in giro. Sono spiriti malvagi. Alcuni sono semplicemente dispettosi, altri dei veri e propri esseri maligni con cattive intenzioni. Tormentano i viventi perché si annoiano. Sono rarissimi, però.”

“Perché?”

“Esistono delle entità che regolano il flusso degli spiriti da questo mondo a quello oltre il Velo. Sono chiamati Mietitori. Raccolgono le anime dei defunti e le accompagnano nel luogo che diventerà la loro dimora fino al Giorno del Giudizio. Nessuno sfugge loro. Tutto ciò che è spirito deve passare oltre, non può indugiare su questo piano più del dovuto. Se un Mietitore si imbatte in uno spettro, lo trascina dall’altra parte all’istante.”

“Come sai che è così? Hai mai visto un Mietitore?”

“A-ha. Somigliano ai Dissennatori di Harry Potter, ma hanno le corna, denti affilati e la faccia dipinta di rosso come le maschere dei demoni giapponesi.”

“Sul serio?”

“No, Roman, ti sto prendendo per il culo. I Mietitori non possono attraversare il Velo, quindi nessun vivente può vederli.” disse con voce neutra, sforzandosi di non abbandonarsi alle risate.

Roman assunse un’aria offesa e, per qualche secondo, parve indeciso se rispondere a tono o lasciar perdere. Alla fine, tornò alla carica con le domande, più curioso che mai.

“Se non possono attraversare il Velo, come riescono a… traghettare i defunti dall’altra parte?”

“Li risucchiano.”

“Come una specie di aspirapolvere soprannaturale?”

Regan ridacchiò: “Questa non l’avevo ancora sentita.”

“E dove si trova il Velo?”

“È ovunque, intorno, sotto, sopra di noi. Ma non possiamo vederlo, perché siamo vivi.”

“Intendi che un Mietitore potrebbe stare camminando accanto a me, in questo momento, dall’altro lato del Velo?”

“Potrebbe.” annuì e sbirciò in direzione di Roman con un’espressione sospettosa, “Non ti vedo tanto scosso.”

“Dovrei fuggire via urlando?”

“Più o meno. O darmi dello svitato e riderci su.”

“Ho sempre avuto una mente aperta.” ammise Roman con una scrollata di spalle, “I fantasmi non mi piacciono particolarmente, pensare ai Mietitori mi mette i brividi – grazie per l’immagine mentale, a proposito, non me la leverò più dalla testa – ma non disdegno acquisire nuove conoscenze, qualunque sia l’ambito.”

Regan inarcò un sopracciglio e non commentò.

Passarono il resto della visita a chiacchierare di scuola, pettegolezzi e altri argomenti superficiali. Prima di lasciare il cimitero, però, seduti a gambe incrociate su una lapide abbastanza grossa da accogliere entrambi, Roman si schiarì la gola e lanciò un’occhiata insicura a Regan.

“Posso chiederti una cosa, senza che ti arrabbi?”

“Okay.”

“Qual è il motivo dietro alla farsa che hai imbastito con i popolari?”

Regan lo trafisse con uno sguardo raggelante: “Non so di cosa stai parlando.”

“Regan, ci conosciamo da, quanto? Circa tre settimane? Sembra poco, ma non per me. Ti ho già inquadrato, so come sei. Non sto dicendo che le persone non possono cambiare, solo che non succede dal giorno alla notte. Sei passato da cavernicolo taciturno e introverso a tenero cucciolo bisognoso di coccole e donatore di sorrisi. Non ti sto giudicando, sono solo preoccupato. Non sai quel che ho fatto per guadagnarmi l’accesso a una cerchia che io consideravo d’élite. Ma se per entrarci devi sopprimere chi sei e modellarti secondo i loro gusti, fidati, non ne vale la pena.”

“Non è così, Roman.”

“E allora dimmi com’è.”

“Ho bisogno di più amici. Sono… il mio scudo, capisci?” vedendolo aggrottare le sopracciglia con scetticismo, scrollò il capo, “No, certo che non capisci. Non hai passato sedici anni della tua vita ignorato, invisibile o perseguitato dalle malelingue.” sbottò alzandosi, infilò le mani nelle tasche e gli diede le spalle, “Oh, sei stato arrestato per atti vandalici, sai che roba! Non sei mai stato cacciato da un ristorante perché di te mormorano che sei uno zombie e vai in giro a scuoiare la gente. Non sei mai stato vittima di bullismo sette giorni su sette dalle elementari. Non hai mai lottato per restare in piedi dopo un pestaggio quando avevi solo nove anni. Non hai mai dovuto sopportare le occhiate impaurite delle maestre o quelle dei genitori degli altri bambini, che hanno persino cercato di far firmare una petizione per espellerti da scuola a causa del tuo aspetto inquietante e delle chiacchiere che circolano su di te.” sputò con crescente amarezza.

Roman boccheggiò come un ebete, incapace di articolare un suono.

“Il Regan che hai conosciuto tu è un perdente, destinato a fallire, non importa quanto si sforza per resistere alle correnti che lo trascinano giù. Questo Regan, invece, ha fatto in pochi giorni ciò che il vecchio Regan non è mai riuscito a fare: ha stretto amicizia con i popolari. Un traguardo prima considerato irraggiungibile, ora divenuto realtà. Hai davvero bisogno che ti spieghi quali sono i vantaggi di avere amici ricchi? Ti faccio un disegnino?”

“Posso immaginarli, ma-”

“Ma cosa? La mia vita è una fottuta arena, Roman, con tanto di gladiatori e leoni feroci, che non aspettano altro che un mio passo falso per dilaniarmi o farmi a fette. Stringere amicizia con loro è semplicemente una tattica di sopravvivenza, non c’è dietro chissà quale motivo filosofico e strappalacrime. Non me ne frega un accidente di Lorie, Mike e compagnia bella. Mi interessano solo i loro contatti, la loro influenza nella comunità.”

“D’accordo, ma perché mentire? Perché fingere di essere quel che non sei? Sono sicuro che, conoscendoti meglio-”

“Se non avessi mentito, non avrei mai ottenuto la loro amicizia.” lo interruppe brusco, “Sun Tzu ha detto ‘La condotta della guerra si basa sull’inganno’.”

“Ma tu non sei in guerra…”

“Sì che lo sono. La vita è guerra. E io ho l’intenzione di uscirne vincitore, con ogni mezzo necessario.”

“Non credi di essere un filino drammatico?”

“La realtà che mi circonda è drammatica.”

“Okay, come vuoi. Ma io rimango dell’opinione che il Regan originale è molto più figo.” mugugnò imbronciato, “È simpatico, interessante… e un ottimo amico.”

“Anche questo Regan può essere un ottimo amico. Devi solo lasciargli carta bianca.”

“Ciò richiederebbe un enorme atto di fiducia.”

“Se sei davvero il mio migliore amico, dovrebbe venirti naturale.”

“Se sono i soldi e i contatti che desideri, posso darteli io. Sai che la mia famiglia è ricca.”

Regan si corrucciò e si voltò per squadrarlo con espressione basita: “Mi stai proponendo di diventare il mio sugar daddy?”

“No!” esclamò, poi si umettò le labbra, dondolò impacciato sulle piante dei piedi, si strappò con i denti una pellicina sul pollice e rivolse a Regan un sorriso esitante, “Sì…?”

Il moro abbassò le palpebre a mezz’asta, il viso una maschera granitica. Girò di nuovo i tacchi e marciò in silenzio verso l’uscita del cimitero.

“Regan, aspetta! Scherzavo! Ti prego, aspetta!” gridò Roman correndogli dietro e, quando lo raggiunse, gli bloccò il passaggio con il proprio corpo, “Per favore, parliamone.”

“Non c’è nulla di cui parlare, sei stato cristallino. Ora levati dal cazzo.”

“Io ti accetto!” dichiarò con urgenza, “Ti accetto, Regan. Per come sei davvero. Non mi interessano i tuoi piani di conquista, puoi divertirti come ti pare. L’unica cosa che voglio è che tu sia te stesso mentre sei con me. Non hai bisogno di fare il carino. Sei il mio migliore amico, giusto? Per me è fatta. Ti ho scelto e non ti lascerò andare mai più.”

Regan lo scrutò per un minuto abbondante, premurandosi di non tradire alcuna emozione. Poi roteò gli occhi e sbuffò, affiancandolo per uscire dal cimitero.

“Sei uno stronzo sentimentale.” lo udì borbottare Roman.

“Ti voglio bene.”

“Ora stai esagerando.”

“Ma come? Tu non mi vuoi bene?”

Regan grugnì.

Roman lo abbracciò di slancio, avviluppandolo in una morsa spaccaossa che gli strappò il fiato dai polmoni. Regan si ritrovò praticamente con la faccia premuta sulla carotide dell’altro. I canini scesero dalle gengive all’istante. A parte un improvviso irrigidimento, Roman non registrò altro.

“Okay, basta. Mi attaccherai le pulci.” disse Regan dopo meno di dieci secondi, districandosi dai tentacoli di Roman con una scrollata di spalle.

“Non ho le pulci. E la smetti di paragonarmi a un cane, per favore?”

“Puzzi di cane.”

Roman sbuffò e scosse debolmente il capo.

Regan lo accompagnò alla macchina. Al sentirsi invitare per l’ennesima volta a salire, insisté con toni più taglienti per tornare da solo.

“Non mi pesa riportarti a casa.” protestò Roman.

“Non ti è di strada. E poi ho voglia di camminare.”

“Abbiamo camminato tutto il pomeriggio!”

“Buonanotte, Roman. Ci vediamo domani a scuola.” lo salutò, chiudendogli la portiera in faccia con delicatezza e fermezza insieme.

Roman sbuffò arreso, la delusione riflessa nel broncio.

Non appena la macchina sparì alla vista, Regan si scrocchiò il collo sospirando e strusciò la lingua sulle zanne. Si erano allungate a velocità supersonica, rendendogli difficile parlare mentre tentava di coprirle con le labbra. Non capiva perché non riuscisse a ritrarle. Prese in considerazione la sete, dato che aveva saltato la razione serale. Ma quando, durante l’abbraccio, aveva inalato l’odore della pelle dell’amico – un miscuglio di cane bagnato, erba tagliata, bosco, terra riscaldata dal sole – non aveva avvertito alcun istinto di morderlo per nutrirsi.

Qualunque fosse stata la ragione, una camminata nell’aria frizzante di ottobre magari lo avrebbe aiutato a calmarsi.

 
*

“Sogni d’oro, amore mio.”

Timothy sorrise a sua madre quando lei si chinò per stampargli un bacio sulla fronte. La guardò spegnere la lampada a forma di navicella spaziale sul comodino e dirigersi verso la porta. Non voleva che se ne andasse, ma ormai era grande e i bambini grandi dormono da soli, non nel lettone con i genitori. Vedendola uscire nel corridoio, serrò le labbra per impedirsi di chiamarla.

Quando la porta si chiuse, Timothy si focalizzò sul tonfo che i piedi della donna producevano sulla moquette e sui rumori provenienti dal bagno, dove suo padre si stava preparando per andare a dormire. Quei suoni familiari lo cullarono e, prima che se ne accorgesse, sprofondò nel sonno.

Non seppe cosa lo svegliò nel bel mezzo della notte. Non aveva idea di che ora fosse, ma il silenzio assordante che ammantava la casa gli suggerì che era molto tardi. Dalle tende filtrava la luce tenue del lampione sotto la sua camera, una sottilissima lama giallognola che tagliava in due il pavimento.

Si alzò a sedere e studiò la mobilia in cerca di qualcosa fuori posto, ma tutto era come lo aveva lasciato.

Eccetto l’anta dell’armadio.

Era sicuro che sua madre l’avesse chiusa, perché Timothy odiava quando restava aperta. Ora era accostata, rivelando un piccolo spiraglio di buio.

“Mamma…” pigolò, troppo piano perché qualcuno lo sentisse.

Deglutì, il corpo scosso da un forte brivido.

La luce del lampione tremolò e si spense, gettando la camera nella più completa oscurità.

Timothy esalò un minuscolo gemito. Si lanciò di lato per accendere la luce sul comò, ma essa sembrava essersi fulminata. Allora si sdraiò di nuovo e si sotterrò svelto nelle coperte.

Se si fosse nascosto, il mostro non lo avrebbe visto.

Si pentì di non aver chiesto al suo papà di controllare che non ci fosse niente sotto il letto e nell’armadio, ma non voleva fare la figura del poppante. A otto anni doveva dimostrare di essere l’ometto di casa, non un frignone che aveva ancora paura del buio.

Il respiro affannoso si infranse contro il tessuto morbido del piumone. Il sudore freddo gli appiccicò il pigiama alla pelle. Le dita strinsero con forza le coperte per mantenerle in posizione.

Per un po’ non udì nulla, solo il battito impazzito del suo cuore e il fischio che gli aveva preso in ostaggio le orecchie. Poi, dopo quella che gli parve un’eternità, il silenzio venne squarciato dal cigolio dell’anta dell’armadio.

Timothy si morse un labbro per non urlare. Se avesse emesso un solo fiato, il mostro lo avrebbe individuato in un baleno e se lo sarebbe mangiato.

Quanto gli mancava Russel, il suo fedele cagnolino e intrepida guardia del corpo nelle ore notturne. Con lui come sentinella si era sempre sentito protetto, convinto che, al minimo segnale di pericolo, Russel lo avrebbe svegliato abbaiando, dandogli il tempo di correre nella camera dei genitori e svegliarli.

Adesso, però, era solo. Russel era morto investito da un’auto la settimana precedente. Nonostante le rassicurazioni di sua madre, che il suo fratellino peloso avrebbe per sempre vegliato su di lui dal paradiso, Timothy era consapevole di non aver più nessuno a difenderlo mentre era prigioniero nelle maglie del sonno.

Gli occhi gli si riempirono di lacrime, la pelle si accapponò e le viscere si contrassero in preda al terrore.

Il materasso si affossò, vicino ai suoi piedi.

Si irrigidì e trattenne il respiro. Doveva restare immobile e muto come una statua.

Qualcosa sfiorò la coperta con un debole fruscio.

Il mostro era sopra di lui, lo sentiva. Avvertiva la sua presenza. Sibilava come un serpente.

Quando finalmente si decise a gridare per chiamare la madre in suo soccorso, il piumone venne strattonato via, esponendo la sua figura al buio e ciò che vi si annidava.

Una mano scheletrica e nera gli cinse il collo e lo strangolò, soffocando le sue urla.

In un attimo, il mostro lo sollevò e lo risucchiò dentro l’armadio.

L’anta si chiuse con uno scatto e il lampione in strada si riaccese, rischiarando la camera vuota con la sua luce giallognola.

 
*

Regan stava camminando sul marciapiede a passo sostenuto, le mani nelle tasche del giubbotto e la testa bassa, incurante di ciò che lo circondava. Il suo respiro si condensava in piccole nuvolette davanti al viso. Le zanne stavano risalendo lentamente, troppo lentamente, riluttanti a tornare nel loro nascondiglio all’interno delle gengive. E passarci sopra la lingua per sfogare lo stress non stava aiutando.

Aveva fatto il giro lungo, preferendo rimanere fuori finché non avesse riacquisito il controllo, piuttosto che rincasare pieno di energia nervosa e preoccupare Deirdre. Ora, però, cominciava a sentire la stanchezza. Era tardi, probabilmente intorno a mezzanotte.

Imboccò una scorciatoia e aumentò l’andatura. Il ticchettio morbido delle suole sull’asfalto rimbalzava sui muri, l’unico rumore nel silenzio pesante che avvolgeva tutto. Le luci di una sola casa erano ancora accese, in fondo alla strada deserta.

Estrasse il cellulare per avvertire la nonna che sarebbe arrivato tra una decina di minuti, ma vide che la batteria era scarica. Imprecò a denti stretti, preparandosi psicologicamente a ricevere la ramanzina che di sicuro Deirdre aveva in serbo per lui.

All’improvviso, si bloccò. I muscoli guizzarono sotto la pelle, il battito accelerò e tutti i peli del corpo si rizzarono. Un brivido gli percorse la schiena, dai lombi alla nuca, e sparì cedendo il posto a un fastidioso formicolio.

La cosa più strana, tuttavia, fu la rabbia che lo pervase. Essa partì da qualche parte nello stomaco e risalì fino a costringergli la gola in una morsa, incoraggiando un ringhio basso e minaccioso a rotolare fuori dalla bocca.

Regan sgranò gli occhi, frastornato e all’erta. Quella sensazione gli era familiare. Era lo stesso tipo di furia accecante che lo assaliva durante gli incubi. Il suo istinto gli gridò a gran voce che il pericolo era praticamente a una spanna da lui, invisibile ma tangibile. Esaminò con sguardo febbrile i profili delle case e dei cortili.

Un sibilo gli giunse alle orecchie. Girò il capo verso destra con un movimento brusco, l’attenzione calamitata da una casa a due piani, simile alle altre che delimitavano la strada.

Il lampione sopra la sua testa tremolò per un paio di secondi, poi si spense.

Le zanne, ritratte per metà, scesero di nuovo. Siccome sibilo copriva tutti gli altri suoni, si concentrò sull’olfatto. Colse una scia dolciastra e metallica, l’odore tipico di un cadavere putrefatto. Sotto di essa, altrettanto forte, riconobbe quello acre della paura.

Sollevò lo sguardo di ghiaccio e lo puntò su una delle finestre del secondo piano. Nonostante fosse in grado di vedere perfettamente nel buio, non riuscì a scorgere nulla, quasi che la stanza da cui provenivano i due odori si fosse trasformata in un buco nero.

Avanzò nel vialetto, un passo dopo l’altro, simile a un predatore a caccia. Mise un piede sul primo gradino della scala del portico e iniziò a salire. Sostò innanzi alla porta. Trattenendo il respiro, protese una mano verso il pomello.

Una macchina con a bordo ragazzi schiamazzanti sfrecciò lungo la strada, un pezzo di musica rap sparato a tutto volume dalle casse.

Il sibilo si interruppe.

Il lampione si riaccese.

In quel momento, Regan seppe di essere arrivato troppo tardi. Qualunque cosa fosse, se n’era appena andata.

Quando ripensò al tarocco del Diavolo che Deirdre gli aveva messo in mano, rabbrividì. C’era davvero un intruso nel suo territorio. E non un intruso qualunque, ma uno appartenente alla categoria soprannaturale.

Il tarocco del Diavolo. Il diavolo… un demone?!, si chiese allibito.

Scese dal portico e tornò sul marciapiede. Si guardò intorno per appurare di non avere pubblico, poi si arrotolò la manica della felpa fino al gomito e si azzannò il polso, ingurgitando avidamente ampie sorsate del proprio sangue per calmarsi. Ciononostante, la rabbia continuò a pulsare al ritmo forsennato del suo cuore per il resto della notte.








 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Bloody lies ***










Lunedì mattina, seduto in cucina a fare colazione, con lo sguardo fisso sulla schiena del fantasma di un signore anziano munito di bastone immobile accanto al frigo, Regan rimuginava sulla notte passata. Alla fine, non era riuscito a chiudere occhio a causa del nervosismo e della sete, divenuta più acuta dopo che si era nutrito del suo stesso sangue.

Aveva trascritto tutto su un foglio del blocco da disegno per non dimenticarsi nemmeno un dettaglio, nella speranza che, così facendo, avrebbe ricevuto una qualche epifania. Invece, semmai, la confusione e le domande erano aumentate a dismisura.

Poe miagolò triste da sotto il tavolo, perché nessuno lo stava considerando. O forse perché il fantasma si frapponeva tra lui e la sua ciotola.

Deirdre scrutò di sottecchi il nipote dal suo posto in piedi davanti ai fornelli, la solita tazza di tè fumante in mano e la vestaglia lilla a fasciarle il corpo. Regan non aveva toccato cibo, se non per il succo d’arancia corretto. Le sue occhiaie erano più marcate, chiaro indizio che avesse passato la notte in bianco. Quando era rincasato lei stava già dormendo, perciò non sapeva se era stato per colpa di un altro incubo e se era accaduto qualcosa mentre era fuori con Roman. Dopo averlo visto scendere a colazione ridotto in quello stato, la ramanzina che era stata in procinto di fargli per aver sforato il coprifuoco le era morta in gola. Adesso, osservandolo fissare il vuoto, avvertiva soltanto ansia e paura.

“Che hai, leprotto?” gli chiese, sedendosi di fronte a lui.

Regan sussultò e sbatté le palpebre, quasi avesse scordato di non essere solo.

“Niente.”

Deirdre levò gli occhi al cielo e sbuffò: “Parla.”

Il ragazzo si mordicchiò l’interno di una guancia e riabbassò lo sguardo, puntandolo sul bordo del piatto. Aprì e richiuse la bocca varie volte, indeciso su cosa dire e come dirlo.

Sua nonna si sporse, poggiò una mano sulla sua in un gesto di conforto e gli sorrise.

“Puoi dirmi tutto, lo sai.”

“Lo so, è che… non riesco…”

“Con calma. Fa’ un bel respiro.”

Regan inspirò, trattenne l’aria per cinque secondi ed esalò, avvertendo un po’ della tensione abbandonarlo. Sopirò e deglutì. Poi cominciò a raccontare.

“Stavo tornando a casa ieri notte, dopo l’uscita con Roman. Era tardi, così ho preso la scorciatoia. A un certo punto, mi sono fermato.”

Deirdre attese che Regan continuasse, ma lui sembrava essersi ammutolito. Quando il silenzio si protrasse ininterrotto per più di un minuto, si spazientì.

“Perché ti sei fermato?”

“Non lo so. Io ho… credo di aver percepito… qualcosa.”

“Che cosa?”

“Una… presenza.”

“Una presenza.” ripeté calma.

“Era malvagia. Era…”

Non riusciva a descriverlo, così, in preda alla frustrazione, affondò le zanne nel labbro inferiore. Il sangue gli stillò sul mento e macchiò il colletto della felpa nera.

Deirdre boccheggiò sconcertata. Rinsaldò la presa sulla mano di Regan e si impose la calma.

“Nonna, c’è un intruso.” scandì serio, gli occhi fissi in quelli di lei.

“Che genere di intruso?”

“Sta cacciando nel mio territorio.”

“Chi?”

Regan ringhiò e sferrò un pugno sul tavolo. Il piatto, il bicchiere e la tazza tintinnarono sotto la forza del colpo.

Deirdre si ritrasse come scottata. Guardò allibita la faccia di Regan contorcersi in una maschera di pura rabbia, talmente intensa da farla rabbrividire. Per un istante, ebbe addirittura l’impressione di vedere le sue iridi accendersi come torce.

“Prima Teresa, ora… qualcun altro. Di certo lo sapremo presto, la voce si spargerà.” digrignò i denti e ringhiò di nuovo, “Come osa, nonna? Come osa?!”

“R-Regan, per favore, calmati. Non capisco…”

Il grugnito frustrato di Regan spinse Poe a rifugiarsi sotto il divano col pelo ritto.

“Hai fatto qualche progresso con la filastrocca del fantasma?”

“Non proprio…”

“Fa niente. Me ne occuperò da solo.”

“Cosa? Regan!”

Ignorando deliberatamente la nonna, Regan si pulì il mento dal sangue con il tovagliolo di carta, si alzò da tavola e si caricò lo zaino in spalla. Dopo aver afferrato il sacchetto del pranzo, uscì di casa a passo di marcia.

 
*

Roman stava aspettando Regan accanto all’entrata del liceo, lo zaino appeso a una spalla e le mani nelle tasche dei jeans. Le lezioni sarebbero cominciate tra cinque minuti e dell’amico non c’era ancora traccia. Scandagliò per l’ennesima volta il parcheggio e un minuto dopo, finalmente, scorse Regan pedalare verso la transenna.

Regan mise il lucchetto alla bici e improvvisò una corsetta verso la porta, incurante dei ritardatari come lui che sostavano nei pressi. Quando fu a un paio di passi da Roman, fece per superarlo spedito.

“Regan?”

Il moro si fermò e si girò. Aveva un aspetto orribile, più inquietante del solito. Roman rabbrividì.

“Non ho voglia di parlare.” gli disse Regan a mo’ di saluto, per poi proseguire in direzione dell’armadietto.

“Sprigioni cattivo umore da tutti i pori…” commentò cauto l’altro, accodandosi, “Posso chiederti cosa è successo?”

“No.”

“Dimmi solo se è colpa mia.”

“No.”

“Okay.”

Roman non dubitò neanche per un istante che gli avesse detto la verità, Regan non era il tipo da indorare la pillola. Se lo facevi arrabbiare, te lo diceva senza tanti preamboli. E poi la rabbia era una delle pochissime emozioni che gli potevi sempre leggere in faccia.

“Che vuoi?” sputò seccato Regan, non appena si accorse di essere seguito.

“Ehm… abbiamo Francese alla prima ora.”

Regan grugnì un assenso e gli diede le spalle, fiondandosi in classe con la grazia di un toro inferocito. Si sedette al suo banco, estrasse i libri dallo zaino e iniziò a tamburellare le dita sulla coscia per sfogare lo stress, in attesa che Miss Rochelle varcasse la soglia.

Roman si sedette al banco alla sua destra con più eleganza e finse di non notare le occhiate stranite degli altri studenti. Un paio presero a bisbigliare tra loro, scambiandosi teorie sul motivo della palese collera dello “zombie”. Storse le labbra in una smorfia all’udire quel soprannome. Nonostante il nuovo status sociale di Regan, c’erano ancora studenti che lo sussurravano.

“Secondo te, ha di nuovo litigato con Gregory?”

“Può darsi. Non sarebbe una novità.”

“Oggi fa più paura del solito. Ha la tipica faccia di uno che vuole commettere un omicidio.”

“Penseresti che, ora che gravita intorno alla gonna di Lorie, si sia calmato. Invece non è cambiato niente.”

“Abbassa la voce o ti sentirà.”

Roman scoccò un’occhiata in tralice a Regan. Avvertiva lo strano impulso di sbranare quei due pettegoli e, allo stesso tempo, scusarsi con lui da parte loro, sebbene non fosse colpa sua. Regan, però, era assorto nei suoi dilemmi esistenziali.

Roman era sul punto di insistere, voleva conoscere la ragione dello stato emotivo dell’amico, ma le domande avrebbero dovuto aspettare, perché Miss Rochelle fece il suo ingresso in classe con un solare “Bonjour!” e la lezione cominciò.

Al suono della campanella, Regan sfrecciò via senza salutare, zaino in spalla e aria funerea. Se non seminò una scia di cadaveri al suo passaggio fu solo grazie all’istinto di sopravvivenza degli altri, che si schiacciarono lungo gli armadietti come le acque del Mar Rosso.

A pranzo, Regan non si fece vivo a mensa, così Roman dovette sorbirsi l’interrogatorio delle cheerleader, che volevano sapere dove fosse finito. Menomale che c’era Zack a fungere da filtro e reindirizzare il flusso di chiacchiere verso argomenti neutri, come la festa di Halloween.

“Tu da cosa ti vestirai?” gli chiese Jennifer.

“Non so neanche se verrò.” rispose Roman mentre addentava il panino.

“Certo che verrai!” si intromise Charlotte, “E hai tempo due giorni per decidere quale costume indosserai. Sarebbe veramente carino se tu e Jen li aveste abbinati!”

Roman si sforzò di sorridere. Dentro di sé pregò che la pausa pranzo finisse in fretta.

A fine lezioni, scorse Regan correre in bagno. Non era sua intenzione pedinarlo, ma finché non avesse soddisfatto la forte necessità di assicurarsi che stesse bene non avrebbe desistito. Non gli piaceva un Regan di pessimo umore, per niente. Perché se qualcosa era riuscito a provocare in lui una tale rabbia da renderlo simile a un vulcano in eruzione, doveva essere grave.

Entrò in bagno a passo felpato e si chiuse piano la porta alle spalle. Appoggiandosi al muro, incrociò le braccia sul torace e lo osservò sciacquarsi la faccia in silenzio. Sapeva essere paziente, se voleva.

“Che vuoi, Roman?” sputò seccato Regan, senza disturbarsi a girarsi.

“Come stai?”

“Che te ne frega?”

“Sei il mio migliore amico, quindi me ne frega.”

Regan sbuffò e si terse il viso con dei fazzoletti, poi strinse il bordo del lavandino fra le mani. Constatando quanto fosse teso, disperato per una valvola di sfogo, a Roman venne un’idea.

“Seguimi.” gli disse, agguantandolo per un polso.

“Dove?”

“Lo vedrai.”

Roman lo condusse in palestra. A quell’ora era deserta, come sempre di lunedì. Mollò la presa solo per andare a recuperare un pallone da basket dalla cesta in fondo. Cominciò a palleggiare e guardò Regan con un ghigno di sfida.

“Giochiamo. Uno contro uno. Vince chi arriva per primo a cinquanta punti.”

“Ho giocato solo un paio di volte.” confessò Regan, ma fu svelto a liberarsi dello zaino e del giubbotto, abbandonandoli su una delle panche.

“Conosci le regole, giusto? Coraggio, mostrami quello che sai fare.”

Gli lanciò la palla e Regan l’afferrò prontamente.

“È stata una tua idea. Non dimenticarlo quando ti farò il culo a strisce.”

Roman represse a stento un brivido di eccitazione. Una potente scarica di adrenalina gli attraversò tutte le terminazioni nervose. Il lupo si affacciò in superficie per giocare.

“Fatti sotto.” proferì con voce bassa e vibrante.

Un’ora più tardi, il conto era ancora a 22 per Roman e 23 per Regan. Il primo era in un lago di sudore, più per lo sforzo che aveva impiegato per non usare la sua vera forza e velocità che reale affaticamento. Regan, invece, pur avendo il respiro affannato come lui, era asciutto. In compenso, il suo incarnato aveva assunto un pallore spettrale, facendo risaltare le borse violacee che gli cerchiavano gli occhi.

Roman prese possesso della palla, scartò agilmente Regan e, correndo sotto il canestro, compì un balzo per fare una schiacciata. La palla bucò il canestro, portandolo a 24 punti. Passò il turno a Regan, che palleggiò per cinque secondi, per poi scattare fulmineo e fare una finta a sinistra. Roman non la registrò finché non fu troppo tardi, dando modo all’altro di superarlo e schiacciare a sua volta.

“Sei bravo.” si complimentò Roman, “Saresti una buona aggiunta alla squadra.”

“Ti sei dimenticato che odio gli sport?”

Il bidello scelse quel momento per entrare in palestra con i suoi attrezzi. Appena li vide, brandì lo scopettone e ordinò loro di levarsi dai piedi. Così furono costretti a raccogliere la propria roba e filarsela veloci.

Percorsero il corridoio a ritroso, in direzione del parcheggio, adesso mezzo vuoto. Roman si fermò prima di raggiungere la propria macchina e Regan lo imitò.

“Va meglio?”

“Sì. Grazie.”

“Perché d’ora in avanti non vieni agli allenamenti? Puoi studiare sugli spalti e, quando finisco, carichiamo la tua bici nella mia macchina e ti riaccompagno a casa.”

“Come una tenera neo-coppietta, dove lei va a vederlo allenarsi e sbava alla vista del suo corpo sudato mentre fa finta di studiare? Il tutto, magari, con una musica sensuale in sottofondo e un fermo immagine sui bicipiti di lui.” lo provocò Regan.

“Non intendevo in quel senso! E il sudore non è sexy.”

“Forse ho guardato troppe sit-com.”

Roman grugnì seccato: “Puoi semplicemente rispondere alla mia domanda?”

“Rilassati. Okay, verrò.”

Roman gli elargì un sorriso raggiante. Represse l’impulso di gonfiare il petto e fare la ruota come un pavone solo perché non voleva rendersi ridicolo. Si protese per un abbraccio, ma all’ultimo ci ripensò. I vestiti gli si erano appiccicati alla pelle alla stregua di una membrana umidiccia e puzzolente, e il ciuffo gli si era spalmato sulla fronte con tutta l’intenzione di fossilizzarsi lì. Aveva bisogno di una doccia, possibilmente cinque minuti fa.

“A domani, Roman.”

“A domani.”

Regan trotterellò verso la bici, tolse il lucchetto e salì, il cuore più leggero rispetto a quella mattina. Chi l’avrebbe detto che bastava una partita amichevole a basket con il tuo migliore amico per ritrovare una parvenza di serenità?

Regan iniziò a presenziare agli allenamenti di Roman già dal giorno successivo. Al vederlo seduto sugli spalti, le cheerleader lo salutarono scoccandogli baci da lontano e la squadra di basket gli rivolse cenni amichevoli. Al coach Roden venne un principio di infarto.

“McLoan! Cristo santo, stai cercando di uccidermi?!” gli berciò da bordo campo, una mano premuta sul cuore e l’altra stretta attorno al fischietto.

“È McLaughlin, coach.” lo corresse con voce priva di inflessione.

“E io che ho detto? Ora smettila di fissarmi come se fossi uno spiedino succulento e fa’, beh, altre cose. Dio, sembri uscito da L’alba dei morti viventi. Indossa un po’ più di colore, ragazzo, e vedrai che la tua vita si colorerà!”

“Ricevuto, coach.”

Roman dovette nascondersi dietro alcuni compagni per non scoppiare a ridere in faccia al coach Roden. Dalle gradinate, Regan lo intercettò e si concesse di curvare un angolo della bocca verso l’alto.

Come da programma, aspettò la conclusione degli allenamenti facendo i compiti. Il rumore ritmico della palla, lo scricchiolio delle scarpe e i fischi del coach divennero un sottofondo ipnotico, tanto che a un certo punto quasi dimenticò di trovarsi in palestra.

Quasi. Ogni volta che Roman segnava o compiva una mossa da atleta professionista, si voltava verso gli spalti, dove sedeva Regan, e gli sorrideva come un cucciolo in cerca di approvazione.

Al coach non sfuggirono quegli scambi e spesso si ritrovò a fischiare contro Roman dicendogli di smetterla di fare gli occhi dolci a Regan. I compagni risero a sue spese, ma notificarono il coach del ruolo di Roman “mamma orsa” nella vita di Regan.

Roman avvolse le mani a coppa intorno alla bocca ed esclamò: “Regan, hai mangiato? Mi sembri deperito. Ce l’hai la sciarpa per dopo? Se non ti copri, ti becchi un malanno.”

Regan rispose inarcando un sopracciglio e alzando il dito medio.

“Sinclair, dacci un taglio.” lo sgridò il coach, anche se non risultò convincente a causa del sorriso divertito che gli stirava le labbra.

Dopo gli allenamenti, Regan e Roman attraversarono insieme il parcheggio, ciascuno diretto al proprio mezzo. Al momento di separarsi, però, Regan fermò l’altro poggiando una mano sulla sua spalla.

“Grazie per essere stato al gioco prima, in palestra.”

“Di nulla. Sarà divertente recitare la parte della mamma orsa.”

“Nessuno ti obbliga.”

“Lo so. C’è altro che posso fare per rendere la tua nuova persona più credibile?”

“In effetti, ci sarebbero alcune cose…”

“Spara.”

“Giura di non menzionare mai ad anima viva ciò che ci siamo detti al cimitero, per esempio. Non mettere in dubbio le mie azioni, in nessun caso. Se devi dirmi o chiedermi qualcosa in merito, lo fai in privato. Non prendere iniziative senza averne prima discusso con me. La mia posizione è ancora precaria, non posso permettermi di fare errori, capisci?”

“Ricevuto.”

“Okay. Grazie.” Regan lo salutò e si voltò, ma venne a sua volta fermato.

“Non così in fretta. Ho delle condizioni.”

“Sentiamole.” sbuffò e piegò le labbra in un sorriso sghembo.

“Te le ho già espresse al cimitero, ma lo farò di nuovo. Innanzitutto, desidero che tu sia te stesso quando siamo soli. Intendo che non voglio che fai il carino, detesto le persone false. Seconda di poi, mi metterai sempre a parte dei tuoi piani, non importa quali siano. Se lo farai, avrai la mia piena collaborazione.”

“Mi sembra ragionevole. Andata.”

Mentre si stringevano la mano, si fissarono intensamente. Entrambi videro determinazione e complicità negli occhi dell’altro, e questo bastò a siglare il patto.

“Già che ci siamo, volevo dirti una cosa.” disse Roman, allentando con riluttanza la presa sulla mano dell’amico, “Ieri sera ho origliato una telefonata tra mio padre e un poliziotto di qui con cui ha stretto amicizia. Pare che due giorni fa sia sparito un bambino.”

Regan assottigliò le palpebre, confuso: “Perché me lo stai dicendo?”

“Il caso è simile a quello di Teresa Meyers. Jennifer me lo ha descritto nel dettaglio tempo fa, il sabato che siamo andati a Salem.”

“Cosa sai?”

“Il bambino, di cui non ho colto il nome, è sparito nel cuore della notte da camera sua. Finestre chiuse dall’interno, genitori addormentati nella stanza in fondo al corridoio, allarme inserito. La polizia crede che si tratti di rapimento, anche se non hanno idea di come il rapitore si sia intrufolato in casa o perché abbia mirato proprio al bambino. Finora non hanno chiesto alcun riscatto e il bambino è sparito nel nulla.”

“L’indirizzo?”

“Non lo so.”

“D’accordo. Tienimi informato.”

“Hai già qualche teoria? Indizi?”

“Perché dovrei avere degli indizi?”

Roman roteò gli occhi e sospirò: “Volevo dire: hai per caso visto il fantasma di un bambino, di recente?”

“No.”

“Bene, vuol dire che è ancora vivo.” disse Roman, visibilmente sollevato.

“Non è detto. I fantasmi non si allontanano mai troppo dalle loro spoglie mortali, come ti ho spiegato. Il fatto che io non lo abbia visto indica solo che il corpo del bambino non è nei paraggi, non che è vivo da qualche parte.” replicò Regan.

“Oh. Però se lo vedi, me lo farai sapere?”

“Come vuoi.”

Roman lo salutò con una pacca sulla spalla e si ritirò verso la macchina, mentre Regan inforcò la bici e pedalò alla volta di casa.

Quando entrò, raggiunse Deirdre in cucina, trovandola impegnata a svuotare quattro grosse zucche. Il ripieno succoso, ammassato in una zuppiera, sarebbe poi stato usato per farci una torta, come ogni anno.

“Ciao, leprotto. Vuoi intagliarle tu?” domandò, indicando le zucche vuote con il coltello.

Regan la squadrò per qualche secondo, stranito dalla sua voce priva di inflessione.

“Prima dimmi cos’è successo.”

“Attento, ragazzo. Non sei nella posizione di darmi ordini.” sibilò secca, lasciando Regan alquanto basito.

“Scusa. Non volevo…”

Deirdre gli diede la schiena e camminò verso il frigo per riporvi la zuppiera. Trascorsero alcuni minuti prima che iniziasse a parlare, senza mai arrestare i movimenti nervosi delle mani, adesso occupate a ripulire il tavolo. Esalò un sospiro e afflosciò le spalle, come se tutto il peso del mondo le fosse stato scaricato addosso in un attimo.

“Perdonami, non ce l’ho con te. È stata solo una giornata… terribile.” disse e, chiudendo gli occhi, nascose la bocca dietro una mano.

“Ne vuoi parlare?”

Lei scosse il capo per rifiutare, poi lo inclinò con espressione incerta. Infine, si appoggiò al piano cottura e rilasciò un respiro tremolante.

“Oggi…” Deirdre deglutì, strinse i denti per trovare la forza e ricacciò indietro le lacrime, “Oggi mi hanno portato due cadaveri, una donna e un neonato. Madre e figlio. La madre ha fatto a pezzi il figlio con un paio di cesoie mentre il marito era in ufficio, poi si è tagliata la gola. Il piccolo era ridotto talmente male che ricucirlo non era una cosa concepibile. Così ho detto al padre che l’unica cosa da fare era cremarlo. Ho gettato i suoi resti, pezzettino per pezzettino, nell’inceneritore.” un paio di singhiozzi sfuggirono dalle sue labbra, “Il padre è in centrale, lo stanno interrogando. È traumatizzato. Ho imbalsamato sua moglie, ma non so se ci sarà un funerale.”

“La donna era depressa? Aveva precedenti di attacchi psicotici?” chiese cauto Regan.

“No, era pulita, a quanto so. Ma il neonato… quel povero bambino… non oso immaginare le sue grida, il suo dolore. Sua madre, la persona che doveva amarlo e proteggerlo, lo ha… io non capisco… come ha potuto?”

Regan rimase il silenzio a riflettere, ascoltando i singhiozzi della nonna. Un simile delitto non era mai avvenuto in una cittadina tranquilla come Ashwood Port, dove il tasso di criminalità era ben al di sotto della media. Le cose, però, avevano iniziato a degenerare dalla scomparsa di Teresa.

“Leggimi ancora le carte.” la esortò pacato.

“C-Cosa?”

“Leggimi ancora le carte, per favore.”

“Perché?”

“Per favore.”

Deirdre lo scrutò con espressione indecifrabile, poi annuì e andò a recuperare i tarocchi. Ripeterono il procedimento dell’ultima volta. Quando Regan girò le carte, non si sorprese nel notare che erano le stesse, esattamente nella medesima posizione.

“Questo è… strano.” commentò Deirdre.

Regan mugugnò un assenso e le domandò: “Hai già saputo del bambino scomparso due giorni fa?”

“Quale bambino?”

“Con la filastrocca come sta andando?”

“Ancora nulla.” rispose sbrigativa e lo scrutò intensamente, “Regan, a cosa stai pensando?”

“Per ora è solo una teoria.”

“Ti ascolto.”

“No. Finché non avrò delle prove, non dirò niente.”

“Ma-”

“Ti prego, non insistere.” Regan ripose i tarocchi nella scatola e afferrò una zucca, “Passami il coltello.”

Con quelle parole mise fine alla conversazione.

 
*

La scomparsa di Timothy Bruce fece il giro dei notiziari il giorno seguente. Tutti i canali dedicarono almeno un servizio per presentare l’intera faccenda. I coniugi Bruce rifiutarono qualsiasi tentativo di intervista da parte dei giornalisti. In compenso, la polizia diramò un’allerta AMBER con la foto di Timothy, chiedendo la collaborazione di tutti i cittadini e le forze dell’ordine delle contee limitrofe.

Grazie alle informazioni diffuse dai media, Regan appurò che il bambino era scomparso dalla casa davanti alla quale si era fermato domenica notte, di ritorno dal cimitero. Ciò significava che il demone, o qualunque cosa fosse, lo aveva preso. Che avesse fatto lo stesso con Teresa? E perché scegliere proprio Teresa e Timothy? Che cosa li accomunava? Perché aspettare più di un mese tra una caccia e l’altra?

A scuola, gli studenti non parlavano d’altro che di Timothy. Regan si accorse di non essere l’unico a pensare che il suo caso e quello di Teresa fossero collegati, in qualche modo. Il nome della ragazza rimbalzò di bocca in bocca, rinnovando il dolore per la sua perdita.

A pranzo, James si trincerò dietro un muro di mutismo. Circondato dai suoi amici, che cercavano di alleggerire l’atmosfera chiacchierando di partite e compiti, sbocconcellò a malapena una mela. All’udire per l’ennesima volta il nome della sua fidanzata scomparsa, pronunciato sottovoce da un ragazzo seduto al tavolo accanto, scostò bruscamente la sedia, scattò in piedi e si allontanò dalla mensa con aria funerea. Nessuno lo biasimò, né tentò di fermarlo.

Volantini con la faccia di Timothy apparvero sugli armadietti giovedì mattina. Le cheerleader, assiepate intorno a un tavolo nel corridoio, raccolsero volontari per mettere su una squadra di ricerca. Sarebbero usciti nel weekend per perlustrare non solo la città, ma anche il bosco, affiancandosi alla polizia. Regan firmò per la partecipazione perché questo si aspettavano da lui. Non disse a nessuno quanto reputava inutili i loro sforzi.

Venerdì, dopo le lezioni, Lorie ricordò a Regan di passare da lei nel tardo pomeriggio per la prova generale del costume di Halloween. Poi sarebbero andati insieme in macchina alla festa, caricando la bici di Regan nel bagagliaio.

Ciò dava a Regan giusto il tempo necessario per accompagnare Roman alla fiera, allestita al limitare dei campi appena fuori città. Osservarono le bancarelle, assistettero a una rievocazione del processo alle streghe e si infilarono nel labirinto di fieno, divertendosi come matti a spaventare le coppiette. All’imbrunire, Roman caricò la bici di Regan nel bagagliaio della macchina e scaricò l’amico di fronte al vialetto di casa.

Regan sfrecciò su per le scale e si recò in bagno, dove si spogliò per farsi una doccia veloce. Memore del consiglio di Lorie, indossò un paio di pantaloni neri aderenti e una camicia bianca. Poco dopo, acciuffò giacca, chiavi, portafoglio e cellulare e scapicollò di nuovo fuori dalla porta. Ebbe almeno l’accortezza di salutare la nonna con un bacio sulla guancia mentre lei stava accendendo i lumini dentro le zucche situate sui gradini del portico.

“Divertiti, leprotto!” gli gridò dietro, sbuffando divertita nel vederlo montare sulla bici e pedalare a razzo verso nord.

Giunse alla dimora di Lorie con due minuti di ritardo rispetto all’ora pattuita. La ragazza lo accolse con un sorriso eccitato. Indossava una canottiera bianca senza reggiseno e mutandine gialle. Nient’altro. I suoi capelli erano legati in una crocchia disordinata in cima alla testa e il suo viso era privo di trucco.

“Ehm…” balbettò confuso.

“Ciao, Regan! Entra.” gli ordinò Lorie, poi lo spinse senza tante cerimonie su per le scale, verso la sua camera.

Regan non ebbe nemmeno l’occasione di ammirare l’arredamento prima di essere spintonato in una stanza dominata da tutte le sfumature del rosa. Era la tipica camera di un’adolescente, con un muro tappezzato di foto con le amiche, trousse piene di oggetti che Regan non aveva mai visto abbandonate sopra cassettoni e pouf, e vestiti sparsi ovunque.

Sul letto c’erano Mary, Vanessa e Claire, tre cheerleader del terzo anno. Neanche loro sembravano a disagio in biancheria intima. Regan si chiese se accogliessero tutti i ragazzi in quella mise provocante. Fece scivolare lo sguardo sui loro corpi mezzi nudi, ma nulla si mosse tra le sue gambe. In compenso, i canini si allungarono e gli punsero la lingua.

Lorie chiuse la porta con un calcio, distogliendolo dalla contemplazione. Posò le mani sulle spalle di Regan, lo guidò verso il letto e lo esortò a sedersi, per poi iniziare a scrutarlo con aria meditabonda. Le ragazze, che non avevano perso tempo ad accerchiarlo, gli stamparono baci sulle guance, giocando con i suoi riccioli neri e accarezzandogli i bicipiti da sopra la stoffa della camicia.

I loro odori e tutta quella pelle esposta fecero venire a Regan l’acquolina in bocca. Quanto gli sarebbe piaciuto concedersi un assaggio.

“Del gel nei capelli, ovviamente.” cominciò a elencare Lorie, “Magari un po’ di ombretto intorno agli occhi.”

“Del correttore per coprire le occhiaie.” aggiunse Mary.

“Che ne dite dell’eyeliner? Appena un pochino di mascara, sennò.” propose Vanessa.

“Rossetto?” chiese Claire.

“No, semmai un filo di lucidalabbra.” disse Lorie.

“Fondotinta?”

“A che serve? È già pallido.”

“Dove avete messo il suo completo?”

“Non è lì, nell’armadio?”

“È in bagno. C’era una piccola macchia sulla giacca, così l’ho pulito.”

“Regan, rilassati.” gli sussurrò Vanessa all’orecchio, vedendolo teso, “Ci prenderemo noi cura di te.”

Il moro deglutì: “È proprio ciò che temo.”

Le ragazze scoppiarono a ridere e continuarono a fargli le moine, arrivando addirittura a strusciarsi su di lui.

Regan non si lasciò smuovere e mantenne una facciata stoica, che durò al massimo per un paio di minuti. Presto, infatti, la sua sete raggiunse livelli esponenziali, facendogli desiderare di averle tutte alla sua mercé. Si rivelò difficile non cedere alla tentazione di ribaltarle sul materasso e affondare i denti nelle loro gole. Specialmente ora che i loro odori naturali non erano coperti da nauseanti scie di profumo e trucco.

Quasi avesse percepito la sua voglia, Claire lo spinse a stendersi sul letto e gli salì sopra a cavalcioni. I suoi movimenti erano fluidi, esperti. Regan si irrigidì e lottò contro la sete con tutte le sue forze, anche se una grossa parte di lui voleva solo arrendersi. Per una volta, avrebbe tanto voluto essere se stesso, sguinzagliare il mostro che albergava nei recessi della sua coscienza e lasciare che sfogasse gli istinti, repressi per anni sotto la frusta di Deirdre.

I capelli biondi incorniciavano il viso di Claire in soffici e voluminosi boccoli e i suoi occhi azzurri brillavano maliziosi. I seni erano compressi dentro coppe troppo piccole, tanto che Regan si chiese come facesse la stoffa a non esplodere. Scendendo giù, sulla pancia piatta, il suo sguardo si imbatté nel bordo di pizzo di un paio di mutandine bianche con ricami blu, in pendant col reggiseno.

Claire portò in contatto le loro pelvi e ondeggiò il bacino con un mugolio impressionato: “Sento qualcosa di notevole, qua sotto…”

Stavolta Regan non dovette simulare lo shock, che crebbe ancora di più quando la mano di Claire lo tastò con decisione. Emise un singulto strozzato e le strinse il polso in una morsa ferrea.

“Non essere timido, Regan. Vuoi toccare?” lo provocò, posando la mano libera del ragazzo su uno dei suoi seni, “Ti piace?”

“Sei morbida.” rispose in tono piatto, allarmato dalla piega degli eventi.

Le sue sinapsi stavano lavorando a ritmo serrato per inventarsi una scappatoia di qualche genere, ma il suo istinto gli gridava di abbandonare ogni remora. Sarebbe stato così bello, appagante e dolce consegnare le redini al vampiro. Perché no, in fondo? Che male avrebbe potuto fare un piccolo assaggio?

Vanessa si sdraiò al suo fianco, sulla destra. Mary, invece, occupò il lato sinistro, intrufolando le dita sotto la sua camicia, attraverso gli spazi tra un bottone e l’altro. Vanessa gli catturò il mento e lo obbligò a girare la testa, per poi attaccare le sue labbra. Dal momento che esse erano già socchiuse per la sorpresa, non esitò a inserire la lingua. Squittì quando sfiorò la punta di una zanna, ma non si ritrasse. Anzi, il bacio si fece più famelico.

Regan non sapeva più come fosse finito su quel letto con tre ragazze arrapate, né perché lo stessero seducendo, ma pian piano smise di importargli. Si disinteressò a qualsiasi cosa che non fosse l’odore del loro sangue che pompava nelle vene e il battito accelerato dei loro cuori. L’aria era satura di elettricità, aspettativa. Un desiderio potente, che nulla aveva a che fare con la lussuria, lo travolse.

Claire gli prese la mano che ancora le palpava il seno e se la portò fra le cosce, dentro le mutandine. I polpastrelli di Regan accarezzarono la sua intimità bagnata e, seguendo l’istinto, la penetrò con due dita. Claire gemette forte, dando voce a tutto il suo apprezzamento, soprattutto quando Regan scoprì il ritmo perfetto e stimolò un’area precisa dentro di lei. La camera si riempì dei suoi ansiti e gemiti. Regan represse a fatica una risata all’udire quei versetti ridicoli.

Lorie, rimasta sino ad allora in silenzio a osservare la scena, si unì a loro. Salì sul letto, si sdraiò dietro Vanessa e si sporse sopra di lei per reclamare le labbra di Regan.

Claire venne e ricadde con un sospiro sognante sulle coltri. Il suo odore pungente spedì scariche di adrenalina nel ragazzo quando lo annusò sulle proprie dita. L’euforia lo pervase, dissolvendo il suo autocontrollo. I pensieri, invece che annebbiarsi sotto l’influsso della carica sessuale sprigionata dalle ragazze, si affilarono come lame e i sensi divennero più acuti. Era stufo di quei preliminari, voleva nutrirsi.

Ghermì la prima ragazza che aveva a tiro, cioè Vanessa, e la rovesciò sulla schiena. Le divaricò le gambe e ci strisciò in mezzo, avvicinando la bocca alle mutandine, già umide di eccitazione. Le leccò per un po’, poi morse con forza l’attaccatura della coscia. I canini bucarono la carne facilmente e il sangue si riversò nella sua bocca a fiumi, caldo e corposo. In risposta, ottenne un concerto di urletti estatici. I suoi gemiti si fusero con quelli della ragazza, creando una sinfonia erotica a cui avrebbe potuto abituarsi.

Succhiò per minuti interi, finché non avvertì Vanessa raggiungere l’apice. Allora si staccò e, senza premurarsi di pulire il sangue che gli macchiava le labbra, si fiondò su Mary, azzannandola sul seno. Lei riversò la testa all’indietro, la bocca spalancata in un grido muto e le guance arrossate.

Lorie si spalmò sulla schiena di Regan. Con la coda dell’occhio, lui vide la sua mano sparire sotto le mutandine, evidentemente impaziente di ricevere stimoli. Con l’altra mano la ragazza lo spogliò della camicia, prendendo subito a baciargli e leccargli la schiena come se stesse venerando un’opera d’arte.

Mary emise un verso strozzato e si accasciò tra le braccia di Regan, sorridente, le palpebre a mezz’asta e lo sguardo vacuo di chi ha visto il paradiso.

Fu il turno di Lorie. Regan la strattonò e la obbligò a stendersi accanto a Vanessa. Costellò di piccoli baci la sua pelle color ebano, dalla gola fino al ventre, dove morse con rinnovata frenesia. Si cibò di lei a grandi sorsate, constatando che il suo sangue era buono come immaginava.

Quando anche Lorie si arrese al piacere, Regan si girò verso Claire e penetrò con le zanne nella delicata carne del suo polso, mugugnando la propria approvazione non appena il suo sapore dolce gli esplose sul palato.

Una volta terminato di assaggiare pure lei, tornò su tutte quante, una dopo l’altra, a cominciare da Vanessa. Le baciò con passione e leccò i fori lasciati dai denti, consapevole delle proprietà curative della sua saliva. Ne aveva già sperimentati gli effetti in precedenza. Le ferite, infatti, si rimarginarono in poche lappate e la pelle tornò liscia, priva di imperfezioni.

Regan sentiva il proprio sangue vibrare e i muscoli guizzare sotto la pelle, pieni di energia. Il suo intero corpo era animato da una forza inebriante che aveva provato una sola volta tre anni addietro, ma allora non aveva potuto godersela appieno. Reclinò il capo e scoppiò a ridere, delirante ed ebbro. Le ragazze gli rivolsero sorrisi adoranti e le loro mani accarezzarono distrattamente il punto in cui le aveva morse.

Se Regan fosse stato più lucido, avrebbe notato che c’era qualcosa di strano. Tanto per cominciare, nessuna di loro aveva battuto ciglio quando le aveva morse. Inoltre, non v’era traccia di paura o ribrezzo in loro, sembravano prigioniere di una bolla di beatitudine inscalfibile. Ma l’euforia gli ottenebrava il cervello, rendendolo indifferente a tutto ciò che non fosse l’appagamento sessuale che scorgeva riflesso nei loro occhi.

“Siete bellissime…” disse con una voce più bassa di almeno due ottave, estranea persino alle sue orecchie, “Deliziose. Incantevoli, semplicemente incantevoli. Credo proprio che vi divorerò tutti i giorni, piano, senza fretta.”

Ignorò i loro miagolii supplicanti, registrando appena i vari “Farei di tutto per te” e “Scegli me!” che rotolarono fuori dalle loro labbra arrossate, e palpò con gentilezza il seno di Lorie, che era la più vicina.

“Mi ami, Regan?” domandò Vanessa, osservandolo languidamente da sotto le folte ciglia scure.

“Certo che ti amo.” rispose con un sorriso accondiscendente.

“E io? Ami anche me?” sospirò Claire.

“Amo anche te.”

“E io?” chiesero in coro Lorie e Mary.

“Vi amo tutte.” dichiarò con un ringhio possessivo, “E voi mi amate?”

“Sì!” esclamarono all’unisono.

“Vi prenderete cura di me, d’ora in avanti?”

“Ovvio!”

“Ho sempre tanta fame, sapete?” disse con un piccolo broncio.

“Ti sfameremo noi.” promise Lorie, “Dicci solo cosa ti serve.”

Regan curvò la bocca in un ghigno feroce e i suoi occhi azzurri si tinsero del colore delle fiamme dell’inferno. La voce della coscienza, molto simile a quella di Deirdre, non era che un bisbiglio lontanissimo ormai, soffocata e ridotta al silenzio dalla dolce frenesia del vampiro. Gli era impossibile ricordare perché la nonna avesse imposto la regola delle cinque dita di sangue al giorno. Perché così poco?

Beh, ora non era importante. Aveva una festa a cui presenziare.

 
*

Roman aveva deciso: si sarebbe travestito da Dracula. Era stanco di optare per il licantropo, in onore dei suoi illustri natali, e se le uniche alternative erano travestirsi da scheletro o da vampiro, era meglio quest’ultimo.

Aveva esitato a confermare la sua presenza, finché Jennifer non lo aveva placcato e costretto a venire, sotto la velata minaccia di farlo precipitare in fondo alla catena alimentare. Roman avrebbe di gran lunga preferito restarsene a casa, ma aveva ritenuto saggio non alienarsi le simpatie dei suoi compagni.

Scese in salotto, dove i cugini si stavano preparando per andare con i genitori a fare “dolcetto o scherzetto” nel vicinato. Fece una piroetta su se stesso e il mantello svolazzò in maniera teatrale attorno alla sua figura. Trevor e Nina risero, mentre gli zii gli fecero i complimenti per il trucco.

“Non fare tardi, tesoro.” gli raccomandò sua madre sulla porta.

“Tornerò entro il coprifuoco, tranquilla.”

Accettò il suo bacio sulla fronte, salutò il branco e uscì nell
aria frizzante di fine ottobre. Il cielo era terso, punteggiato di stelle, e una lieve brezza soffiava dalloceano. Guidò verso la scuola, attento a non stropicciare troppo il mantello sul sedile. Era curioso di vedere da cosa si era mascherato Regan.

Al suo arrivo, notò che c’erano già decine di macchine assiepate davanti all’ingresso, perciò parcheggiò vicino al cancello. Prima di scendere, indossò le zanne finte e si specchiò per appurare che il trucco non fosse colato.

Jennifer lo individuò all’istante. Gli corse incontro in bilico su dei tacchi vertiginosi, un sorriso eccitato sulle labbra e i capelli sciolti sulle spalle in volute dorate. Il costume da strega sexy le fasciava le curve nei punti giusti, la scollatura evidenziava l’assenza di reggiseno e le calze a rete erano strappate in zone strategiche.

“Roman! Anzi, Dracula!”

“Ciao, Jennifer.” la salutò senza entusiasmo.

“Quante volte dovrò ripeterti di chiamarmi Jen? Andiamo, Charlotte e Zack ci aspettano dentro.”

“Regan è arrivato?”

“Non ancora.”

Lo prese a braccetto e lo trascinò in palestra. La musica poteva essere udita da un isolato di distanza, quindi Roman strinse i denti e si preparò all’assalto sensoriale.

Quando entrò, si concesse alcuni secondi per ammirare gli addobbi. I muri erano ricoperti di ragnatele finte, dal soffitto pendevano lanterne a fibra ottica a forma di ragno e, sopra i tavoli posizionati a semicerchio intorno al palco del dj, c’erano candele arancioni a forma di zucca. Passandoci accanto, registrò forte e chiaro l’odore delle zucche e si rese conto che erano vere. Erano state svuotate e intagliate dai volontari, e all’interno era stato piazzato un lumino.

C’erano già parecchi studenti e una manciata di professori, tutti in maschera. Alcuni stavano ballando, altri sedevano ai tavoli a chiacchierare. C’era chi era vestito da vampiro, come lui, chi da scheletro, chi da lupo mannaro, chi da strega e chi perfino da gentiluomo del Seicento. Roman suppose che impersonassero i giudici dei processi alle streghe, poiché il loro abbigliamento era molto simile a quello dei manichini di cera che aveva visto al museo di Salem.

“Roman, che bello vederti!” esclamò Charlotte non appena la raggiunse.

“Ciao. Wow, sei… inquietante.”

Charlotte ridacchiò e fece una piroetta per farsi ammirare. Si era travestita da infermiera di Silent Hill: le sue guance erano rigate di sangue finto, le orbite cerchiate di nero, i capelli legati in una coda bassa e braccia e gambe ricoperti di bende.  

“Dunque, il comitato organizzativo ha in serbo molte sorprese quest’anno. C’è il labirinto degli orrori nell’ala est della scuola e il club di arte ha allestito due aule con rappresentazioni davvero suggestive dei processi alle streghe. Nell’aula di Chimica dei ragazzi si esibiranno in una scena tratta dal film Arancia Meccanica. In quella di Storia, invece, c’è una mostra di bambole antiche. Lasciamelo dire, sono terrificanti!” ridacchiò dietro una mano, ma smise quando si accorse che Roman non condivideva la sua ilarità, “Ehm, sì. Bene, Jennifer può farti fare un giro.”

“Certo!” rispose la bionda, “Prendiamo qualcosa da bere, prima.”

“Divertitevi! Io vado a cercare Zack.”

Jennifer lo condusse al tavolo del buffet. Lei si servì del punch, Roman una coca. Poi uscirono dalla palestra e si inoltrarono nel corridoio per osservare le varie attrazioni. Quella delle bambole antiche era notevole. Roman non si era mai sentito intimorito da una bambola, ma d’ora in avanti era certo che avrebbe avuto gli incubi.

Jennifer rimase appiccicata a lui per tutto il tempo, ignara del disagio del ragazzo. Per lo più parlò lei, dell’ultimo film che aveva visto, dell’ultima canzone che la ossessionava, dell’ultimo libro che aveva letto, della sua famiglia, di ciò che aveva fatto durante l’estate e dei progetti che aveva dopo il liceo. Roman si limitò ad ascoltare con un orecchio, mentre il cervello elaborava a ritmo frenetico piani di fuga che non comprendessero l’asporto delle corde vocali di Jennifer. Dov’era finito Regan?

Quando entrarono nel labirinto degli orrori, il discorso virò proprio sul ragazzo.

“Siete diventati migliori amici, ho saputo.” enunciò Jennifer.

“Sì.”

“Di cosa parlate, di solito?”

“Dei nostri interessi, delle nostre famiglie. Cose così.”

“Mi fa strano immaginare Regan che articola frasi intere.” scherzò Jennifer, “Cioè, ultimamente è migliorato, ma è rimasto un po’… come dire…”

“Beh, non puoi pretendere che cambi di punto in bianco. Comunque, a me piace così com’è. Non lo avrei mai creduto, all’inizio, ma si è rivelato una persona affascinante, ricca di sfumature. Sono contento di averlo incontrato e di non essermi arreso con lui. Ho scoperto un amico sincero e leale.”

“Abbiamo frequentato le medie insieme, però non ci siamo mai parlati.” raccontò Jennifer, “Lui era il ragazzino solitario con la faccia sempre contorta in un’espressione o apatica o omicida, quindi tutti gli stavano alla larga. Nemmeno Regan ha mai provato a farsi degli amici, a dire il vero. Preferiva starsene per conto suo, lontano dagli altri.”

“Lo dici perché lo sai, o perché ti sembrava che fosse così?”

“Dimmelo tu.” sbuffò con un sorriso nervoso, “Sei tu quello che lo conosce meglio di tutti.”

“Regan è molto selettivo. I suoi standard non li ho ancora capiti, ma una volta che entri a far parte della sua cerchia, sa come dimostrarti che ci tiene, a modo suo.”

Camminarono in silenzio per un paio di minuti. Poi Jennifer, incapace di rimanere zitta troppo a lungo, riprese la parola.

“Come ti trovi ad Ashwood Port?”

“Bene, per ora.”

“E hai notato qualcuno che ti interessa, oltre a Regan?”

Eccola qui, la domanda. Roman se l’aspettava, perciò non esitò a rispondere.

“Tu, Charlotte, Zack e Regan siete quelli con cui ho legato di più. Siete tutti diversi, ma simpatici, gentili e disponibili. Non contavo di instaurare tante amicizie già durante i primi giorni.”

“Oh, certo, è una cosa…” tossicchiò e strinse un po’ più forte il braccio di Roman, “Volevo dire, hai notato qualcuno a cui potresti essere interessato romanticamente?”

“No. In verità, non ho neanche cercato. Non ho voglia di tuffarmi in quel tipo relazioni, al momento. L’ultima che ho avuto è finita male e non ho intenzione di cominciarne un’altra così presto. In più, tra studio e allenamenti, mi rimarrebbe pochissimo tempo da dedicare a un’eventuale dolce metà.”

“Capisco.”

Roman venne schiaffeggiato da una zaffata di delusione allo stato puro, ma non trovò la forza di sentirsi in colpa.

“Tu?” le chiese.

“Oh, io sono come te, sempre impegnata. Dove infilerei un ragazzo in una routine come la mia?” ridacchiò complice.

Roman si girò ad ammirare la bara di un confederato zombie per celare una smorfia e roteare gli occhi indisturbato.

Dopo il labirinto, tornarono in palestra per riunirsi agli altri. Jennifer lo invitò a ballare, ma Roman declinò educatamente e si sedette a un tavolo, approfittando della relativa quiete per scrivere un messaggio a Regan. L’amico gli rispose che era per strada e quello bastò a risollevargli l’umore.

Non dovette attendere molto prima di vederlo marciare in palestra con falcate sicure e un ghigno sulle labbra, attorniato da quattro cheerleader, due per lato. Entrarono a braccetto, dividendo la folla a metà. Mentre si facevano largo verso il centro, calamitarono l’attenzione generale come dei magneti. Era difficile, se non impossibile, distogliere lo sguardo.

Roman si alzò e sgomitò tra gli studenti assiepati sulla pista da ballo per raggiungere l’amico. Durante il tragitto, si prese secondi preziosi per osservare il suo costume. Era nero, di foggia ottocentesca, con tanto di stivali e gilè di broccato rosso. Il materiale della giacca, lunga fino al ginocchio, sembrava velluto, ma da quella distanza non ne era certo. Sulla testa portava un capello a cilindro, che passò subito a Lorie con un mezzo inchino e un sorriso ammiccante. Lei lo accettò ridacchiando e lo indossò come un trofeo.

Ora Roman poteva scorgere i capelli di Regan, pettinati all’indietro con il gel. I riccioli gli accarezzavano il retro delle orecchie e la base del collo, lasciando libero un viso che sembrava scolpito nella più delicata delle porcellane. Il lato sinistro era celato da una maschera bianca, che delineava il contorno del labbro superiore, del naso e della tempia. Le labbra erano più rosse del normale, umide, come se ci avesse passato sopra la lingua ripetutamente. L’occhio visibile era abbellito da una sottile striscia di eyeliner. Alle mani portava guanti neri di pelle. I pantaloni aderivano alle sue gambe snelle, non lasciando niente all’immaginazione.

Era una visione da mozzare il fiato, tanto che Roman esitò, scioccato dal carisma che emanava. Notò a malapena i costumi delle ragazze – abiti d’epoca completi di corsetti, una marea di fronzoli e sottane ingombranti – poiché troppo occupato ad ammirare Regan con occhi fuori dalle orbite. Aveva qualcosa di diverso. Quasi poteva percepire un’aura di potere aleggiargli intorno.

Prima che potesse farsi avanti, Mike e altri ragazzi lo anticiparono, circondando Regan come falene attratte dal bagliore della fiamma.

“Wow, guarda che roba! Ragazze, ottimo lavoro.” le lodò Mike, occhieggiando Regan dall’alto in basso con sguardo predatore, “Chi saresti?”

“Il Fantasma dell’Opera.”

“Stai da Dio.”

Se Roman non avesse avuto l’assoluta certezza che Mike non era dell’altra sponda, quella scena gli avrebbe fatto sorgere dei dubbi.

“Scusate il ritardo. Questi angeli ci hanno messo una vita a farsi belle.” scherzò Regan.

Roman boccheggiò quando vide Lorie e Vanessa scoccare sonori baci sulle sue guance.

“Mmm, mi domando per chi.” rise Mike.

“Per voi, ovviamente. Io sono solo il loro umile chaperon.” disse e si profuse in un inchino teatrale.

“Allora, mentre questi cari angeli danzeranno con i loro cavalieri, toccherà a me intrattenere lo chaperon ed evitare che si annoi.” sancì offrendo la mano a Regan, che la prese con aria divertita.

Si lasciò guidare verso un tavolo e si sedette con le gambe accavallate, la schiena reclinata e un braccio piegato sulla tovaglia. La sua posa, seppur rilassata, trasmetteva autorità, sicurezza e raffinatezza, come un principe che ha accettato di graziare i popolani con la sua regale presenza.

“Desideri qualcosa da bere?” gli domandò Mike.

“E da mangiare?” si inserì Peter, sbucando da dietro Mike.

Allibito, Roman li guardò fare a gara per accaparrarsi l’attenzione di Regan, neanche fosse la fanciulla più corteggiata della città e loro i poveri spasimanti. La situazione era assurda e ridicola. Peccato che lui non stava messo tanto meglio: la propria parte animale smaniava per spintonarli via e marcare il territorio, quella razionale era in preda alla più totale confusione.

Sbirciò in direzione della pista, dove Lorie, Vanessa, Mary e Claire volteggiavano tra le braccia di vari ragazzi. Le loro facce erano cristallizzate in un’espressione vacua, sognante. Che avessero bevuto prima di venire alla festa?

Preoccupato, si avvicinò a Regan e inalò il suo odore con discrezione. Non notò tracce di alcool, ma qualcos’altro reclamò i suoi sensi: una scia di sangue fresco. Eppure, non sembrava ferito.

“Regan.” lo chiamò, poggiandogli con forza una mano sulla spalla, e si tolse la dentiera finta per poter articolare meglio le parole.

“Roman! Mi chiedevo dove fossi finito. Vieni, siedi con noi.” lo invitò con un sorriso smagliante, “Bel costume.”

“Grazie. Posso parlarti? In privato, magari.”

Regan roteò gli occhi scocciato. Sordo alle proteste del suo pubblico, si scusò, giurando che sarebbe tornato presto. Lo seguì fuori dalla palestra, nel corridoio che conduceva agli spogliatoi. Quando si fermarono, si addossò al muro e lo fissò a braccia conserte.

“Togliti la maschera, per favore. Cioè, entrambe.” disse Roman.

Regan inarcò un sopracciglio. Dopo un istante di esitazione, intascò quella bianca che gli copriva il viso e si disfò pure di quella metaforica. Il sorriso malizioso venne rimpiazzato da un’espressione distaccata e gelida.

Roman si guardò intorno per appurare che fossero soli, poi domandò: “Va tutto bene?”

“A meraviglia. Qual è il problema?”

“Sei strano.”

“Grazie.”

“No, intendo… più strano del solito. Cos’è successo tra quando ci siamo salutati a casa tua e il tuo arrivo alla festa?”

“Vuoi essere più specifico?”

“Le ragazze ti hanno dato qualcosa? Droga? Funghi allucinogeni?”

“Mi stai chiedendo se sono fatto?”

“Sì.”

“No, non lo sono.”

Roman si impensierì quando realizzò che stava dicendo la verità.

“Allora che hai? Sei diverso.”

“Definisci ‘diverso’.”

“Non lo so. Sei più…” gesticolò vagamente verso di lui, fallendo nel trovare le parole.

“Se devo perdere tempo ad ascoltarti balbettare, preferisco tornare in palestra.”

Roman lo afferrò per un braccio e lo strattonò indietro, contro di sé. Approfittò della posizione per annusare il suo odore più da vicino. Colse di nuovo la scia di sangue fresco, poi quella di fragola emanata dal lucidalabbra. Soffermò lo sguardo su quell’area per più tempo di quanto imponesse la decenza. Soltanto lo sbattere di una porta in lontananza riuscì a strapparlo dalla contemplazione.

Avvampando, si scansò di qualche centimetro e scrollò il capo per scacciare la nebbia che gli ottenebrava il cervello. Fissò Regan sconvolto, combattuto tra la voglia di affondare il naso nel suo collo e lo strano senso di pericolo che gli serpeggiava nelle ossa.

Quando inspirò per calmarsi, l’odore del sangue tornò a riempirgli le narici.

“Sei ferito?”

“Eh? No.” rispose confuso, “E lasciami, non ti ho dato il permesso di toccarmi.”

Roman mollò la presa bruscamente e arretrò di un passo: “S-scusa…”

“Che problema hai?” indagò Regan, trafiggendolo con un’occhiata glaciale.

La postura rilassata non era che un vago ricordo, sostituita con quella più rigida di un predatore in procinto di attaccare.

“Regan, che ti prende? Puoi dirmi tutto, lo sai.”

“Certo che lo so.” disse, riacquisendo il tono affettato, e gli sfiorò una guancia con i polpastrelli, in una carezza gentile e intima.

Roman smise di respirare. Sebbene superasse l’amico di qualche centimetro, non si era mai sentito tanto piccolo. Gli pareva di trovarsi al cospetto di un alfa, anche se Regan non era un licantropo. L’impulso di inginocchiarsi e mostrargli la gola si fece inspiegabilmente più forte ogni minuto che passava. Rabbrividì e si impose di non cedere.

Regan dovette intuire qualcosa, perché rinnovò il sorriso e la tensione abbandonò il suo corpo.

“Oh, ora capisco. Sei geloso. Ma di chi? Ti interessa una delle ragazze con cui sono arrivato? No, non penso. Se così fosse, me lo avresti già detto. C’è solo una persona che ha catturato la tua attenzione, sin dal primo giorno…” ghignò seducente, sporgendosi verso di lui, “Dimmi, Roman. Hai mai immaginato di baciarmi?”

Se anche non lo avesse mai fatto, di sicuro lo stava facendo adesso. Roman schiuse le labbra e inalò l’odore inebriante che Regan irradiava a ondate, rischiando di soffocare. Le mani di Regan si aprirono sulla sua camicia e i loro toraci aderirono. Solo un filo d’aria separava le loro bocche. Quando i loro respiri si fusero, il battito di Roman accelerò.

“Cos’altro hai immaginato di fare al tuo migliore amico? Coraggio, non essere timido. Dimmelo e avrai un assaggio. Stanotte mi sento generoso.”

Roman deglutì e scosse la testa nel tentativo di scacciare il torpore che gli assediava la mente e il desiderio che gli appesantiva gli arti. Si rese conto che Regan sprigionava una sorta di sensualità capace di risvegliare un’eccitazione che non aveva mai provato in vita sua. Distrattamente, si chiese se per caso Regan non fosse un Incubus.

“Vuoi baciarmi, Roman?”

Il cervello in tilt, Roman si ritrovò ad annuire. Un attimo dopo, le labbra di Regan calarono sulle sue, imprimendo un marchio indelebile nella sua anima e bruciando gli ultimi neuroni funzionanti che gli restavano.

Le loro lingue si unirono presto alla danza. Vinti i primi istanti di insicurezza, si corteggiarono per lunghi minuti e si esplorarono senza posa, assetate di contatto. Nessuno dei due pareva intenzionato a soccombere al dominio dell’altro e proprio per questo era divertente, un po’ come se stessero lottando e giocando al medesimo tempo.

Roman si beò del suo sapore e scoprì di amarlo, nonostante il retrogusto ferroso del sangue. Non avrebbe più potuto farne a meno, ne era certo. Mai aveva sperimentato un simile senso di appagamento, quasi che il mondo si fosse finalmente stabilizzato sul suo asse. Lui e Regan si incastravano alla perfezione. Se non fosse stato tanto preso dal bacio, si sarebbe commosso fino alle lacrime. Erano fatti per stare insieme, ormai era ovvio. Come aveva potuto non capire subito che Regan era il suo vero Compagno? I segnali erano stati talmente ovvi. Un capogiro lo travolse a quella realizzazione.

Non appena si staccarono per riprendere fiato, Regan gli artigliò i capelli sulla nuca e lo obbligò a reclinare la testa all’indietro. Le ginocchia di Roman cedettero e, quando toccarono il pavimento, emise un acuto e languido guaito. Se fosse stato lucido, sarebbe arrossito per l’imbarazzo, ma al momento era troppo frastornato per badarci.

“Questa posizione ti dona.” mormorò assorto Regan, delineando con iridi simili a ghiacciai artici i contorni della sua figura, per poi focalizzarsi di nuovo sul suo viso come un falco che ha puntato la preda, “Ora che hai avuto ciò che volevi, fa’ il bravo. Resta al tuo posto, segui il copione, non fare domande. E, per favore, goditi la festa.”

Allentò la presa e, prima di interrompere definitivamente la carezza, gli sfiorò la gola con le dita. I guanti erano freddi, eppure lasciarono impronte brucianti sulla sua pelle. Infine, gli diede le spalle, girò l’angolo e sparì, abbandonandolo in ginocchio in mezzo al corridoio deserto.

Roman impiegò almeno venti minuti per recuperare le facoltà motorie. Era incredibile come, con un singolo bacio, Regan lo avesse ridotto a un ammasso di gelatina tremante. Non solo: lo aveva sottomesso. Stranamente, il pensiero non gli provocava ribrezzo.

Percorrendo il corridoio verso l’uscita a passi incerti, estrasse il cellulare dalla tasca per controllare l’ora. Era da poco passata la mezzanotte. Siccome non voleva fronteggiare nessuno in quelle condizioni, optò per tornare a casa. Non si sarebbero accorti della sua assenza, concentrati com’erano su Regan. E se qualcuno, l’indomani, gli avesse chiesto come mai fosse fuggito senza salutare, si sarebbe inventato che era in ritardo per il coprifuoco, anche se mancava ancora un’ora abbondante.

Aveva tutto con sé, chiavi e portafoglio compresi, quindi non ritenne necessario riaffacciarsi in palestra per un giro di saluti. Corse fino alla macchina, fece inversione e si immise in strada, ancora scombussolato. Non sapeva cosa lo sconcertava di più, se il bacio o il comportamento di Regan. Era ovvio che non era se stesso, doveva aver assunto qualcosa. Decise che avrebbe atteso ventiquattro ore, per concedergli il tempo di calmarsi, poi avrebbe preteso risposte.

Si leccò le labbra ad occhi socchiusi, avvertendo il sapore dell’amico su di esse. Sotto la fragola, c’era quella dannata scia di sangue fresco che lo stava facendo ammattire.

Varcando la soglia di casa, pregò che tutti stessero già dormendo. Le sue speranze si dissolsero nel momento in cui le sue orecchie captarono delle voci provenire dalla biblioteca. Si irrigidì, trattenne il fiato e avanzò piano in direzione delle scale, attento a evitare le assi scricchiolanti.

Aveva appena adagiato il piede sul primo gradino, quando registrò il suo nome bisbigliato in tono agitato da sua madre. Si impietrì, convinto di essere stato beccato, ma presto si rese conto che stava parlando di lui, non a lui. Francamente, non sapeva se fosse meglio o peggio. Con il cuore a mille, acuì l’udito.

“Dovresti dirglielo, Vince.”

“Non è pronto.”

“Perché tu non lo hai mai preso sul serio!”

“Sciocchezze.”

“Fin dall’inizio, ti sei focalizzato esclusivamente su Declan. Non provare a negarlo, entrambi sappiamo che è così. Spesso ho dovuto ricordati che hai anche un secondo figlio!”

“Tamara…”

“No, ora mi ascolti. Ti sei sempre rifiutato di concepire l’idea che Declan potesse tradirti, o che potesse accadergli qualcosa, e guarda dove questo ci ha portati! Domani potresti non avere più un Secondo, soltanto perché non hai addestrato Roman come riserva. Non ti ho dato un solo figlio, ma due! Vale a dire due chance! La prima si rivela un fiasco? Vai con la seconda.”

“Declan non ha ancora deciso.”

“Intendi tergiversare finché lui non ti degnerà di una risposta chiara, o introdurrai Roman al ruolo di alfa reggente, come avresti già dovuto fare? Hai bisogno di un Secondo, Vince. Tutto il branco ne ha bisogno. Ne va della nostra stabilità. Smetti di pensare a Declan come il tuo unico successore e comincia a tenere presente anche Roman. È giovane, ma è forte. Se non lo fosse, non sarebbe giunto all’ultimo stadio della trasformazione a diciassette anni.”

“Ciò non significa che debba metterlo al corrente della faccenda.”

“Tenerlo all’oscuro non gioverà a nessuno. Non puoi fare tutto da solo.”

“Non sono solo: ho te, Ruby e Sean.”

“Ruby e Sean hanno Trevor e Nina. I loro cuccioli vengono prima di qualunque altra cosa, come lo era per noi quando i ragazzi sono nati. Se si dovesse arrivare a una scelta, li caricherebbero in macchina e filerebbero via nell’arco di due secondi netti.”

Roman ascoltò sgomento dalle scale, incapace di muoversi o respirare.

“Hai bisogno di Roman. Che ti piaccia o no, è lui il prossimo in linea di successione. Ti prego, fatti aiutare. Magari una mente più fresca, diversa dalla tua, potrà fornirti le chiavi per sbrogliare questo mistero.”

“Ci penserò. Non voglio prendere decisioni affrettate.”

“Non aspettare troppo, Vince. Ci sono in gioco delle vite.”

“Lo so.”

Prima che la porta della biblioteca si aprisse, Roman schizzò su per le scale per rintanarsi in camera. Con la schiena premuta contro la porta chiusa, si costrinse a regolarizzare il respiro. Il suo cuore batteva nella cassa toracica con così tanta violenza da sembrare un tamburo da guerra.

Deglutì il groppo che gli ostruiva la gola e si mise in moto, desideroso di raggomitolarsi nel piumone e bandire tutti i pensieri. Si spogliò velocemente, si struccò e indossò il pigiama. Quando si fu sotterrato nelle coperte fino alla testa, gli occhi sbarrati nel vuoto, cercò di dare un senso alla conversazione che aveva origliato. Non gli piacque nessuna delle teorie che gli vennero in mente.

Serrò le palpebre e, rannicchiandosi in posizione fetale, guaì piano, le membra rigide per via dell’ansia. Non credeva di riuscire ad addormentarsi, eppure il sonno lo colse neanche un’ora dopo, precipitandolo in una spirale di incubi agghiaccianti.

 
*

L’orologio a muro del salotto segnava le due e un quarto di notte. La casa era immersa in un silenzio ovattato. Deirdre stava russando in camera sua. Poe era acciambellato sul cuscino di Regan.

Le orecchie pelose scattarono nella sua direzione quando il ragazzo entrò, aprendo gli occhi quanto bastava per riservargli un’occhiata penetrante.

Regan si spogliò, ripiegò i vestiti sulla sedia e indossò il pigiama. Adocchiò il letto indeciso. Ancora carico di energia com’era, se anche si fosse sdraiato, sarebbe rimasto a fissare il soffitto per ore. Il sangue delle ragazze lo aveva rinvigorito più di quanto avrebbero potuto fare dieci lattine di Red Bull.

Era stata una serata magnifica. Aveva ballato, aveva bevuto punch e si era scattato delle foto con gli altri, di gruppo o uno alla volta a turno. Mike aveva creato un profilo Instagram a suo nome, dato che Regan non ne aveva uno da nessuna parte, e ci aveva caricato suddette foto con una marea di tag, iniziandolo così al mondo dei social.

Per non parlare della lista di prime volte che ora poteva vantare: il primo bacio con una ragazza e con un ragazzo, i primi preliminari, il primo ballo alla sua prima festa scolastica, il primo profilo social. Stentava ancora a credere che tutto quello fosse avvenuto sul serio. Si sentiva… euforico.

Si sedette alla scrivania e accese il computer per rileggere un saggio che avrebbe dovuto consegnare lunedì, tanto per passare il tempo e invitare il sonno. Un’ora dopo, infatti, si stropicciò gli occhi e sbadigliò.

All’improvviso, lo schermo si oscurò. Dapprima, credette che fosse saltata la corrente, ma la lampada della scrivania era ancora accesa. Appena lo pensò, anche quella si spense. Imprecò. Si appoggiò allo schienale della sedia con un sospiro e si massaggiò le palpebre pesanti. Gli occhi gli frizzavano e i muscoli, ormai svuotati dell’energia ricevuta ore addietro, stavano iniziando a intorpidirsi.

Si stiracchiò con un grugnito e fece per alzarsi, ma il soffio minaccioso di Poe lo bloccò. Gli scoccò un’occhiata perplessa e lo vide mostrare le zanne alla scrivania. Regan si voltò a rallentatore.

In contrasto sullo sfondo nero del computer, scorse la sagoma di una testa e un collo, come se qualcuno si stesse affacciando dallo schermo. Il colorito della sagoma era anch’esso nero, ma di una gradazione lievemente più chiara, altrimenti si sarebbe fuso con tutto il resto, mimetizzandosi.

L’ormai familiare sibilo gli aggredì le orecchie, azzerando tutti gli altri suoni. La pelle si accapponò. La rabbia causata dalla violazione dei confini del suo territorio riemerse dal luogo buio in cui dimorava. Le zanne scesero all’istante, le unghie si affilarono, i muscoli si tesero.

Si erse in piedi per assumere la posizione di attacco, con le gambe divaricate e i pugni chiusi, e osservò meglio la sagoma dell’intruso. Non aveva una faccia e il collo era più sottile del normale. Se ne stava lì, immobile, muto. Regan ebbe la netta impressione che lo stesse provocando.

“Chi sei?” ringhiò cupo alla creatura e la sua voce rimbombò cavernosa nella stanza.

Alle sue spalle, Poe miagolò agguerrito, il pelo ritto e gli artigli snudati.

Il sibilo crebbe d’intensità e lo assordò per qualche secondo. Poi la mano della creatura emerse bruscamente dallo schermo, si allungò nella sua direzione e gli cinse il collo. Fu troppo veloce, Regan non riuscì a impedirglielo. Dita nere e scheletriche si serrarono attorno alla sua gola e una forza invisibile, disumana, lo strattonò in avanti.

Regan strinse i denti, fece perno sui talloni e si aggrappò al polso ossuto. Attingendo alle sue riserve di energia, la costrinse a mollare la presa.

Se avesse avuto uno specchio, avrebbe visto il suo viso diventare pallido come la luna, le occhiaie scurirsi e le iridi tingersi del colore delle braci sonnecchianti, due biglie infuocate circondate da un mare di tenebra.

Con un gesto repentino torse il braccio della creatura. Il movimento avrebbe spezzato le ossa a chiunque, ma quella si limitò liberarsi e ritirare l’arto dentro lo schermo, in silenzio.

“Come osi?!” ruggì e agguantò il computer a due mani per scuoterlo con enfasi.

La creatura reclinò la testa, come se stesse ridendo. In un battito di ciglia, scomparve e al suo posto Regan vide due occhi verdastri guizzare al centro dello schermo nero, prima di fondersi con esso e svanire a loro volta.

La lampada sul soffitto si accese di colpo. Regan strizzò le palpebre, temporaneamente accecato.

“Cosa stai facendo? Con chi stavi parlando? Che fai con il computer?” bofonchiò sua nonna dalla soglia, ancora mezza addormentata.

Non appena la vista si adattò, Regan tornò a guardare lo schermo, scontrandosi con il saggio che aveva scritto. Depose piano il computer sulla scrivania e si girò a fronteggiare Deirdre.

“Scusa. Mi sa che stavo sognando.”

“Sei pure sonnambulo adesso?”

Regan scrollò una spalla.

“Va’ a letto, è tardi.”

“Sì. Buonanotte.”

“Buonanotte, leprotto.” lo salutò con uno sbadiglio e richiuse la porta.

Regan si afflosciò. Ad un tratto, si sentiva debole, svuotato, come se avesse combattuto una lotta all’ultimo sangue. E forse era stato davvero così. Gli ci era voluta tutta la sua forza per svincolarsi da quelle tenaglie a forma di dita.

Allora realizzò di aver appena lottato contro quello che, senza dubbio, poteva essere etichettato come un demone, uscendone vincitore.

“Sono davvero figo.” commentò impressionato.

Poe attirò la sua attenzione con un miagolio. Regan gli sorrise e si sedette sul letto per fargli i grattini dietro le orecchie. Poi portò la mano libera al collo, massaggiandosi i tendini dolenti, e fece una smorfia.

“Beh, direi che è stato interessante.”

Il gatto assottigliò le palpebre e lo fulminò con un’occhiataccia, in palese disaccordo.








 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** The puppets fair ***










Quando Regan scese in cucina per fare colazione, Deirdre emise un urlo strozzato.

“Cos’hai sul collo?! Fammi vedere.”

Gli corrse incontro, gli strinse il mento tra pollice e indice e glielo tenne sollevato, girandogli la testa da un lato e dall’altro per esaminare i lividi più da vicino.

“Nonna…” mugugnò Regan e diede un paio di schiaffetti alla mano di Deirdre per incoraggiarla a mollare, o quantomeno allentare, la presa, “Non è niente, guarirà in poche ore.”

“Sembrano le impronte di una mano. Come te le sei procurate? Ieri non ce le avevi.”

Per un breve momento, Regn prese in seria considerazione l’idea di rifilarle una balla, perché voleva evitare di causarle ulteriore stress. Alla fine, siccome non sarebbe mai riuscito inventarsi una storiella credibile così su due piedi, optò per la verità.

“La ‘presenza’ mi ha fatto visita stanotte. Quando sei entrata in camera mia se n’era appena andata.”

Deirdre impallidì e lo abbracciò di slancio, tastandolo un po’ ovunque per appurare che non fosse ferito. Poi gli circondò il visto con le mani e ricambiò il suo sguardo. Regan si preparò a venire bombardato di domande.

“Che ti ha fatto? Cosa voleva? Cos’era?”

“Ha cercato di strangolarmi. Non so cosa volesse. Sono convinto che si tratti di un demone.”

Deirdre lo pilotò verso il tavolo e lo spinse a sedersi facendo pressione sulle sue spalle. Dopodiché, gli ordinò di raccontare. Regan le riassunse l’incontro, cercando di non tralasciare alcun dettaglio, perché se desiderava risolvere quel mistero, avrebbe avuto bisogno di tutto l’aiuto possibile.

“Mi stai dicendo che non siamo al sicuro nemmeno a casa nostra?” gli chiese la nonna.

“Non lo siamo mai stati, temo.”

“Dovrò tracciare delle rune su porte e finestre.”

“Io approfondirò le ricerche.”

“Regan, sta’ attento. Non sai di cosa è capace.”

“Vorresti che lasciassi perdere?”

“Non voglio che tu corra rischi inutili. Innanzitutto, ti occorre protezione.”

Deirdre si alzò per andare in camera e recuperare una cappelliera dall’armadio. La aprì in cucina e, sotto lo sguardo curioso di Regan, estrasse vari barattoli contenenti foglie, semi e radici. Quando l’odore delle erbe gli stuzzicò le narici, Regan starnutì violentemente.

“Salute.”

“Che hai intenzione di fare con quelle?”

“Da bambina, quando ancora vivevo con la mia congrega, in Irlanda, ho imparato come preparare infusi, incensi e decotti, come distinguere le piante velenose, come riconoscere quelle con virtù curative… o quelle per tenere lontano il male, che è ciò su cui ci concentreremo. Questo, per esempio, è l’artiglio del diavolo.” prese le forbici da cucina e tagliò un pezzettino di radice, mettendolo da parte, “Lo mischieremo al garofano e al rosmarino, per incrementare sia il potere di protezione che il flusso dell’energia mentale.”

Radunò le tre piante, le infilò in un piccolo sacchettino di stoffa che estrasse dal fondo della scatola e lo chiuse con lo spago. Quindi bruciò una bacchetta di incenso e tenne il sacchetto sospeso sopra il fumo per minuti interi. Non appena la bacchetta terminò di bruciare, porse l’amuleto al nipote.

“Tieni, mettilo in tasca. Non perderlo. La sua efficacia durerà sette giorni, poi andrà rifatto.”

Non appena Regan toccò il sacchetto, una forza invisibile lo scaraventò a gambe all’aria, mandandolo a schiantarsi contro la libreria. Dei libri caddero dagli scaffali e precipitarono a terra con un tonfo. Uno lo colpì sulla testa dalla parte della costola, per poi andare a far compagnia agli altri sul pavimento con un lieve tud.

Deirdre rimase impietrita a fissarlo, pallida come un fantasma. La mano che ancora reggeva il sacchetto tremava, l’altra era aggrappata al bordo del tavolo.

Nonna e nipote si scrutarono in silenzio. Un’intera conversazione passò tra i loro sguardi.

Fu Deirdre la prima a riscuotersi: “Va bene, nessun problema. Esistono vari tipi di amuleti.”

“Nonna, io-”

“Taci. Ho detto che non c’è problema.” lo interruppe in tono secco, “Non mi è mai importato cosa sei, Regan.”

“Ma la radice respinge il male…” mormorò cupo, raggiungendola di nuovo in cucina.

“Tieni presente che nel concetto magico di ‘male’ rientrano tutte le creature che, per loro natura, sono considerate cacciatrici di innocenti. Tu sei metà vampiro, e i vampiri cacciano gli umani per nutrirsi del loro sangue. Gli amuleti come questo sono universali, funzionano con tutto. Nel tuo caso, devo solo trovare il modo di personalizzarlo.”

“Intendi creare una barriera intorno a me che mi isoli dall’influsso delle erbe senza annullare il loro effetto?”

“Sei perspicace.”

“È possibile?”

“Non lo so. Non l’ho mai fatto, ma tentar non nuoce.”

“Parla per te.” borbottò Regan mentre si massaggiava la nuca dolorante.

“Mmm… proviamo con la corteccia di betulla. Anche questa ha lo scopo di esorcizzare il male.”

Deirdre sfilò da un altro barattolo una scheggia sottile e la affiancò a dei semi di aneto e un pizzico di sale. Chiuse i tre ingredienti in un sacchetto diverso e glielo offrì. Regan lo prese, titubante. Stavolta, il suo palmo si ustionò.

Deirdre schioccò la lingua, recuperò il sacchetto e lo gettò da parte: “D’accordo, vediamo con questo. È cedro del Libano, originario della Mesopotamia. Ci aggiungiamo dei semi di lino e, uhm, ginepro e cannella, che sono due ingredienti connessi al tuo segno zodiacale, il leone. Dovrebbero proteggerti dagli influssi del cedro e dei semi.”

Li chiuse in un terzo sacchetto e con un cenno gli intimò di prenderlo. Regan fece una smorfia e obbedì. Per un momento non accadde niente. Prima che potessero cantare vittoria, però, Regan percepì una violenta contrazione allo stomaco, seguita da un bruciore allucinante all’esofago che lo costrinse a piegarsi in due a causa del dolore. Subito dopo, vomitò sangue sul pavimento.

Allarmata, Deirdre si accovacciò al suo fianco, spinse via il sacchetto e gli accarezzò dolcemente la schiena per calmarlo.

“Non preoccuparti, leprotto, troverò il modo di minimizzare i danni. Magari esiste qualcosa che possa fungere da scudo, una polvere, un olio… procederemo per tentativi.”

Regan, rannicchiato in posizione fetale in mezzo a una pozza del proprio sangue, emise un grugnito rassegnato.

“Mi dispiace, non c’è altro modo.” provò a consolarlo la nonna.

Un paio di minuti più tardi, non appena si fu assicurata che il nipote si sarebbe ripreso, tornò a sedersi e tirò fuori dalla cappelliera tutti i barattoli, raggruppandoli in ordine sul tavolo. Infine, strinse tra le mani un diario rilegato dall’aspetto vissuto, che Regan sapeva contenere delle ricette.

Il ragazzo la osservò leggere per un po’ dalla sua posizione prona sul pavimento. Quando la vide venire assorbita dalla lettura, capì che non l’avrebbe distolta finché non avesse trovato ciò che cercava. Quindi si rialzò a fatica e si tolse la felpa macchiata di sangue, con la quale si pulì il viso alla bell’e meglio. Massaggiandosi il collo dove i lividi lasciati dal demone spiccavano sulla pelle chiara, si ritirò in bagno per farsi una doccia.

Durante la giornata dovette interrompere lo studio parecchie volte per scendere in cucina a fare da cavia per gli esperimenti di Deirdre. Le uniche cose che guadagnò furono bernoccoli, lividi e bruciature. Almeno non vomitò più sangue.

Deirdre era ben lungi dal darsi per vinta. “Sono vicina, lo sento” ripeteva dopo ciascun fallimento, scatenando in Regan scariche di brividi che non avevano nulla a che vedere con il freddo.

Era da poco passata l’ora di pranzo quando Deirdre lo chiamò per la decima volta. Dato il caos che c’era sul tavolo, avevano mangiato in piedi un panino con prosciutto e una banana.

Regan la raggiunse e si mise ad analizzare con cipiglio critico il ciarpame ammassato sul tavolo e sulle sedie. Si soffermò sugli scrigni dei cristalli. Erano quattro, predisposti in fila sul lato destro del tavolo. Quello sinistro era occupato dalle erbe, mentre le sedie dalle polveri e dalle rune. Anche l’ordine interno a ciascun gruppo era stato valutato con cura. Infatti, Deirdre gli aveva spiegato che c’erano dei cristalli, delle erbe e delle polveri che non potevano venire associati tra loro, perciò bisognava disporli ai lati opposti come i poli.

“Ecco, proviamo con il diaspro rosso.” propose Deirdre, afferrando la pietra in questione da uno scrigno, per poi illustrare il proprio ragionamento, “Le pietre rosse sono legate al sangue e al fuoco. Sono considerate sacre in molte culture. Questa dovrebbe aiutarti a rafforzare il corpo e lo spirito, per controbilanciare l’influsso delle erbe.”

Con una punta di timore, Regan strinse il diaspro in un palmo e l’amuleto nell’altro. Un secondo più tardi, venne scagliato indietro, verso il salotto, vittima di un’onda d’urto tre volte superiore a quelle precedenti. La schiena cozzò contro il divano, che si ribaltò portando Regan con sé sino a farlo finire a pancia all’aria.

“Ahi…” grugnì dal pavimento.

“Ah. In effetti, un’altra funzione del diaspro è rafforzare gli incantesimi. In questo caso, credo che abbia agito sull’amuleto.” ridacchiò nervosa, “Ops.”

Un secondo grugnito provenne da dietro il divano. Deirdre fece una smorfia e si rimise al lavoro. Poe, invece, andò ad acciambellarsi sul torace di Regan per giudicarlo dall’alto e ridere felinamente di lui.

Nel pomeriggio, mentre leggeva un libro sui miti aztechi spaparanzato sul letto, Regan ricevette una telefonata da Roman. Se l’aspettava, perciò non ne fu sorpreso. Anzi, si chiese perché ci avesse messo così tanto.

“Ciao. Regan. Come stai?” si sentì chiedere non appena si portò il cellulare all’orecchio.

“Bene. Tu?”

“Bene. Ehm… okay, verrò dritto al punto. Riguardo a ieri sera… ti va di parlarne?”

“Di cosa dobbiamo parlare?”

“Regan, per favore.”

“Okay, okay. Ti ascolto.”

“Cosa è successo con le ragazze? Eri parecchio su di giri, e non negarlo.”

A quel punto, ritenne fosse più saggio mentire, dato che l’alternativa era spiattellare a Roman il suo segreto. Non poteva certo dirgli “Sai, sono per metà vampiro e ieri ho banchettato con quelle sgualdrine fino a riempirmi la pancia”. Qualcosa gli suggeriva che l’amico non l’avrebbe presa nel migliore dei modi.

“Onestamente, i ricordi degli eventi di ieri sera sono un po’ sfocati. Non so perché. Forse Lorie mi ha messo qualcosa nel succo che mi ha offerto quando sono andato a casa sua nel pomeriggio. Io non ho preso niente, giuro. Almeno non di mia spontanea volontà.”

“D’accordo. Dovresti discuterne con Lorie, però. Ciò che ha fatto, se davvero lo ha fatto, è grave. Saresti potuto finire in ospedale.”

“Ma non è successo. Sto bene, sul serio.”

“Okay. Ehm. C’è un’altra cosa…”

“Vuoi parlare del bacio.” lo anticipò Regan, già annoiato a morte.

“Sì. Eri lucido?”

“Abbiamo appena detto che, probabilmente, sono stato drogato e tu mi domandi se ero lucido?”

“Quindi mi sono approfittato di te?”

“No, Roman. Mi ricordo. Mi è piaciuto.”

“Ah. Okay. Anche a me.” si schiarì la gola, “Pensi che potremmo-”

“Questo non significa che tra noi cambierà qualcosa.” lo interruppe Regan, sedando sul nascere qualsiasi proposta, poiché aveva già abbastanza pensieri per la testa.

“Certo! Nessun problema. Faremo come se non fosse mai accaduto.”

Ignorare la delusione che grondava dalle sue parole, pronunciate come se qualcuno gliele stesse strappando con la forza, fu una scelta deliberata.

“Ottimo. C’è altro? Perché dovrei tornare a studiare. Sono indietro con i compiti.”

“Oh. Sì, scusa. Non volevo disturbarti, ero solo preoccupato per te. Allora… ci vediamo lunedì a scuola?”

“Sì. Ciao, Roman.”

“Ciao…”

Regan riattaccò, buttò il cellulare sulle coltri e si strofinò il viso per sfogare l’irritazione, conscio di avere la sua dose di colpe. La notte scorsa, alla festa, aveva soltanto voluto divertirsi, sperimentare. Non aveva considerato le conseguenze delle proprie azioni.

Col senno di poi, non era stata una buona idea baciare Roman. Lì per lì gli era sembrato allettante. Le occhiate che l’amico gli aveva lanciato lo avevano convinto a provare, e l’entusiasmo con cui Roman aveva risposto al bacio aveva contribuito a far evaporare qualsiasi dubbio. Tuttavia, l’ultima cosa che gli serviva era una cotta non corrisposta, per giunta da parte del suo più fedele alleato. Se non stava attento, Roman avrebbe potuto rovinare i suoi piani. Doveva tenerlo al guinzaglio corto, per evitare che la sua gelosia gli alienasse le simpatie del suo nuovo entourage.

A proposito di entourage. Riportando alla memoria ciò che era successo a casa di Lorie, non riuscì a fermare il ghigno che gli arricciò le labbra. Era stato… illuminante, in più di un senso. Aveva realizzato tante cose in quel breve lasso di tempo. Per esempio, che non aveva bisogno di uccidere le sue prede. Se ne aveva più di una a disposizione, poteva bere un po’ da tutte senza metterle in pericolo, purché non mischiasse il suo sangue al loro.

Deirdre gli aveva spiegato che un vampiro era in grado di generarne un altro se, dopo essersi nutrito della vittima, mischiava il proprio sangue al suo mentre il cuore batteva ancora. Ora, Regan lo era solo per metà, quindi non sapeva se funzionava allo stesso modo. Comunque, era meglio non rischiare.

In secondo luogo, aveva scoperto di possedere la capacità di manipolare le menti. Non sapeva come attingere a quel potere consapevolmente, dal momento che non gli era mai capitato. Non era chiaro in quali occasioni e come avvenisse, se attraverso il contatto, la voce o lo sguardo, ma di sicuro avrebbe imparato. Era un’arma troppo utile per non coltivarla appieno.

Eppure, doveva ammettere che era stato strano. Perché non era mai riuscito a farlo, prima d’ora? Era forse un’abilità che acquisiva solo quando beveva il sangue delle sue vittime? Oppure si presentava durante l’adolescenza, come uno degli effetti collaterali della pubertà, tipo i brufoli?

Qualunque fosse il motivo, l’importante era mantenere Deirdre all’oscuro, in maniera tale che non interferisse. Regan rabbrividiva al pensiero di cosa lo aspettava se avesse lasciato trapelare i suoi piani. In soffitta c’erano ancora le corde. Deirdre non se n’era mai disfatta, preferendo conservarle in vista di qualche “tragica eventualità”.

“Regan, scendi! Credo di aver trovato la soluzione!”

Il ragazzo scese le scale e la raggiunse di nuovo in cucina. Puntando gli occhi sul cristallo che la nonna stava assicurando a un laccio di cuoio, inarcò un sopracciglio con palese scetticismo.

“Di cosa si tratta?”

“È una pietra di luna. Le sue proprietà sono di natura psichica, per lo più. Cioè, rafforza la mente e le percezioni. Il fatto che tu abbia avuto delle visioni, che poi si sono rivelate veritiere, indica che possiedi dei poteri psichici, in aggiunta alla innata sensibilità per il soprannaturale. Se abbiniamo la pietra di luna all’amuleto, in teoria dovrebbe accadere una cosa del genere: la tua energia di base si rigenererà di continuo, aiutandoti a resistere all’effetto repellente delle erbe. Se togli l’amuleto e resti con la pietra, l’energia di base verrà incrementata di almeno tre volte, rendendoti suscettibile a visioni e sogni premonitori. Ovviamente, è una soluzione temporanea, giusto per guadagnare un po’ più di tempo per trovare qualcos’altro. Provalo.” lo esortò, offrendogli la collana.

Regan la indossò e rimase immobile, pronto a sfilarsela al minimo accenno di dolore.

“Non avverto nulla di diverso.” disse dopo una manciata di secondi, con enorme sollievo.

Deirdre gli porse il sacchettino di erbe. Regan esitò ad accettarlo.

“Sei certa che funzionerà? La mobilia sta tremando di paura, non la senti? Se la libreria potesse parlare, si lamenterebbe del trattamento che le abbiamo riservato.”

“Zitto e prendi questo dannato amuleto.” sputò seccata, al limite della pazienza, poiché poteva sopportare solo un certo numero di fallimenti senza cedere al nervoso.

Regan ubbidì con una smorfia rassegnata e si preparò al peggio. Incredibilmente, percepì giusto una leggera debolezza. Al che raddrizzò la schiena e guardò la nonna con un mezzo sorriso.

“Funziona!”

“Davvero?”

“Mi sento un po’ stanco, ma almeno non sono esploso.” scherzò.

“Stanco, dici? Mmm… potrei spalmare sopra la pietra un unguento fatto con salvia e un pizzico di Hierochloe odorata, per incrementare gli effetti…” mormorò tra sé e sé, “Ridammelo, finisco di perfezionarlo. Per sicurezza, comunque, infila l’amuleto in fondo allo zaino, d’accordo? Deve essere a contatto con te, non necessariamente addosso a te.”

“Agli ordini. E per le difese intorno alla casa?”

“Disegnerò delle rune sugli infissi di porte e finestre nei prossimi giorni. Adesso smettila di distrarmi e fila a studiare. Più tardi devo andare di sotto, ho due cremazioni e un’imbalsamazione di cui occuparmi.”

“Okey-dokey!” esclamò senza alcun entusiasmo e si ritirò ancora una volta in camera.

 
*

Sfoggiando un’aria da funerale, Roman scese le scale a passi felpati per andare a sgraffignare di nascosto dei biscotti. La telefonata con Regan gli aveva lasciato un sapore amaro in bocca. Aveva bisogno di qualcosa di dolce e cioccolatoso.

La casa sembrava vuota, alquanto strano per un sabato pomeriggio. Non captò alcun battito cardiaco quando si affacciò nel corridoio che conduceva alla biblioteca. Vide che la porta accostata e le luci spente. Nessun rumore nemmeno dal giardino. Beh, meglio per lui.

Giunto in cucina, aprì la credenza per estrarre un grosso barattolo di vetro in cui erano contenuti i biscotti e lo posò sul tavolo. Si sedette, rimosse il coperchio e, umettandosi famelico le labbra, affondò le mani nel barattolo.

I ricordi della notte passata tornarono a tormentarlo, riproducendo a oltranza, come un disco rotto, tutti i particolari. Lo stomaco si annodò e le viscere si contrassero dolorosamente. Un biscotto minacciò di tornargli su, ma Roman si concentrò sulla respirazione e riuscì a tenerselo dentro.

Non era stupito, di per sé, della proposta di Regan di dimenticare l’accaduto. Ciò non significava che ne fosse contento. Una parte di lui si era aggrappata alla speranza di essere ricambiato. Baciare qualcuno non equivaleva ad un atto d’amore, lo sapeva, soprattutto tra adolescenti. Roman stesso aveva baciato delle persone soltanto per togliersi lo sfizio o distrarsi da altre faccende.

Tuttavia, Regan era diverso. Non gli sembrava il tipo da iniziare un contatto intimo di quel livello senza dei solidi sentimenti a guidarlo. Bastava vedere come reagiva agli abbracci. Le dimostrazioni di affetto lo mettevano a disagio, questo era palese. E, okay, alla festa non era lucido, ma se ricordava tutto voleva dire che era anche padrone delle sue azioni, entro un certo limite. Se davvero non fosse stato attratto da Roman, almeno un pochino, non gli sarebbe mai venuto in mente di baciarlo. Giusto?

Al contempo, capiva le sue ragioni sul non voler approfondire la cosa. Si conoscevano da poco e la loro amicizia era appena agli albori, ancora traballante nonostante i discorsi. Metterla a rischio per imbarcarsi in una relazione così presto non sarebbe stato saggio. Se non avesse funzionato, avrebbero perso tutto ciò che avevano costruito. Roman non era pronto a porre fine al loro rapporto, né ora né mai, non importava di che natura fosse. Se Regan desiderava soltanto essergli amico, lo avrebbe accettato. Almeno per il momento.

Mentre masticava assorto un altro biscotto, decise che andava tutto bene. Anzi, forse era meglio accantonare la questione di Regan a favore di una più pressante, come la conversazione che aveva origliato tra i suoi genitori.

Come evocata, Tamara entrò in cucina attraverso la porta che si affacciava sul cortile sul retro, sporca di fango e spettinata. Gli abiti, al contrario, erano puliti.

“Cosa stai facendo con quei biscotti?!” abbaiò prima che Roman potesse aprire bocca.

Il ragazzo incassò la testa nelle spalle ed ebbe la decenza di apparire colpevole: “Ehm… avevo fame…”

“Li avevo nascosti!”

Roman si indicò il naso, ma richiuse subito il barattolo e lo ripose dove lo aveva trovato.

“Dove eri? Dove sono gli altri?” la interrogò, squadrandola da capo a piedi, “Ti sei trasformata in pieno giorno per una corsetta nel bosco?”

Tamara serrò le labbra e distolse lo sguardo. Roman si accigliò. Poiché la risposta tardava ad arrivare, annusò l’aria per carpire da solo qualche dettaglio.

“Eri con papà. Che avete fatto?”

“Niente. Una corsetta, come hai detto. Volevamo sgranchirci le gambe.”

“Bugia. Ma va bene, non indagherò. Piuttosto, c’è una cosa di cui vorrei parlare. Ieri, di ritorno dalla festa, ho sentito parte di quello che vi siete detti tu e papà. Cos’è che papà non vuole che io sappia? Ed è vero che dovrò prendere il posto di Declan? Ci ha lasciati definitivamente? Perché sono sempre l’ultimo a sapere le cose?”

Sua madre esalò un sospiro rassegnato. Raggiunse il tavolo, cadde a peso morto sulla sedia più vicina e si prese la testa fra le mani, immergendo le dita tra i capelli. Le ritirò stringendo foglie secche e rametti, che lasciò cadere sul pavimento.

“Non è compito mio parlartene, spetta a tuo padre.”

“E lo farà, se glielo chiedo?”

“Non penso.”

“Allora dimmelo tu.”

Tamara sospirò di nuovo. Aveva borse scure intorno agli occhi e i suoi lineamenti erano tesi a causa dello stress. Era chiaro che, qualunque cosa fosse, doveva essere parecchio importante.

Roman cambiò argomento, nella speranza di arrivare al punto facendo il giro largo: “Che mi dici di Declan?”

“La sua posizione è ancora incerta. Questo non fa che acuire la frustrazione di tuo padre. Ciò che Declan non capisce è che i suoi continui tentennamenti ci rendono tutti vulnerabili, e non solo ad attacchi esterni. Siamo deboli, confusi, instabili. L’assenza di un Secondo fa male al branco e al suo alfa. Anzi, a lui più degli altri.”

“Papà non mi considera all’altezza, vero?”

“Solo perché sei giovane.”

“Declan ha cominciato l’addestramento da cucciolo.”

“Sei giovane e non hai esperienza.” rettificò Tamara e si alzò per versarsi un po’ d’acqua del rubinetto in un bicchiere.

“Perché, Declan ne ha?” rilanciò piccato Roman, incrociando le braccia sul torace.

“È diverso. Lui è tagliato per quel ruolo, ce lo ha nel sangue.”

“Certo, certo.” sventolò una mano con aria annoiata, “Resta il fatto che non lo vediamo da mesi. Se questo non è già un indizio lampante sulle sue intenzioni...”

“Hai ragione, Roman. Non pensare che io condivida l’opinione del nostro alfa, so qual è la verità. Il mio istinto di madre conosce il verdetto da mesi: Declan ci lascerà. Ma Vince si rifiuta di accettare la realtà. È convinto che Declan tornerà presto, quindi sta prendendo tempo e accampando scuse, quando invece potrebbe iniziare ad addestrare te. È su questo che litigavamo.”

Roman sorrise amaro e fece spallucce: “Sono sempre stato la seconda scelta, e mi va bene. Non sono mai stato invidioso di Declan, giuro. È ovvio che lui sarebbe perfetto come Secondo, sembra che quel ruolo gli sia stato cucito addosso non appena è nato. Però, se non vuole, non possiamo costringerlo. Papà dovrà accontentarsi di me.”

“Roman…”

“Non vedo altre vie d’uscita, ma’. Dovrò iniziare dalle basi e lavorare sodo per raggiungere lo stesso livello di Declan in così poco tempo, ma posso farcela.”

“Possiamo aspettare…”

“Aspettare cosa? Che Declan riappaia come per magia? Non c’è tempo. Come hai detto tu, il branco è instabile. Qualcuno deve farsi avanti e occupare la posizione di Secondo, e io sono l’unico, possibile candidato.”

“Non è giusto.”

“Non lo è, ma che importa? È così e basta. Quindi, per favore, di’ a papà che sono pronto.”

Tamara lo abbracciò stretto e premette il naso tra i suoi capelli, inspirando il suo odore a pieni polmoni. Le lacrime le appannarono la vista, ma non permise loro di oltrepassare la barriera delle ciglia. Era orgogliosa di Roman, della sua forza. Ce ne voleva tanta per accollarsi una tale responsabilità, specialmente in un periodo difficile come quello che stavano attraversando.

Quando si staccò, osservò il viso di suo figlio con affetto. Gli accarezzò una guancia, il collo, la nuca, per poi stringergli le spalle e sporgersi per stampargli un bacio sulla fronte.

“Sono fiera di te.” sussurrò sulla sua pelle.

“Grazie. Ora ho qualche possibilità di estrapolarti le informazioni che mi stai nascondendo?”

“No.”

“Che palle.” bofonchiò, poi deglutì nervoso, “Ma’, posso farti una domanda? Non c’entra nulla con papà e Declan.”

“Sì, certo.” rispose Tamara e gli sorrise incoraggiante.

“Cosa mi puoi dire del legame tra compagni?”

“Ti riferisci ai… veri Compagni? L’anima gemella di un lupo?”

“Sì. Come si fa a riconoscerla?”

“Roman, è solo una leggenda.” ridacchiò divertita.

“Alcuni affermano che è vero!” protestò.

“Bah.”

“Cosa sai?” insisté il ragazzo.

“La leggenda,” sottolineò per evitare fraintendimenti, “narra che per ogni licantropo esista un’anima gemella, un vero Compagno, che il lupo riconosce dall’odore. Il che significa che è una cosa istintiva, non ha niente a che vedere con la parte umana e razionale. L’odore del vero Compagno è una specie di droga: una volta fiutato, se ne diventa dipendenti. È un odore che fa cantare il sangue, che spinge il lupo a ululare anche senza luna. Inoltre, si dice che quando un licantropo incontra il suo predestinato, il lupo sorga per rispondere al richia…” sgranò gli occhi e scrutò il figlio con espressione scioccata, “…mo. Oh… oh! Tu hai… lo hai… come? Chi è? Ne sei sicuro?”

“Mamma, calmati, mi stai spaventando.” balbettò Roman, indietreggiando lentamente verso la porta di cucina.

“La tua trasformazione… il tuo lupo è sorto in anticipo per rispondere al richiamo del tuo Compagno!”

“Ma hai detto che è una leggenda!”

“È l’unica spiegazione. Come ho fatto a non pensarci? Io, tuo padre e i tuoi zii ci siamo scervellati per giorni per capire come fosse potuto accadere. È straordinario, Roman, lo capisci? Raggiungere l’ultimo stadio della trasformazione alla tua età è rarissimo. Un caso su un miliardo.”

“D’accordo, sono lusingato e tutto, e ti ringrazio, ma… non stiamo correndo troppo? E perché ora non ti fai problemi a credere a una leggenda?”

“Perché vuoi sapere come riconoscere un Compagno?” controbatté, appoggiando le mani sui fianchi.

Roman vagliò rapidamente una decina di scuse. Però, quando nessuna di esse risultò plausibile, si arrese.

“Credo di averlo incontrato. Credo! Non ne sono sicuro. Per questo motivo te l’ho chiesto.”

“Hai usato il maschile. È un maschio?”

“Sì…”

“Oh. Beh, queste cose non si possono decidere. Ti sta bene che sia un maschio?”

“Non è un problema. Ma non so se sia davvero lui.”

“Voglio conoscerlo.”

“Mamma. Ti prego. No.”

“Perché?”

“Perché no!”

“State insieme?”

“Siamo amici, e lui non sembra interessato a…” gesticolò impacciato, indicando prima la cucina e poi se stesso, “Insomma, hai capito.”

“Se è il tuo Compagno, dovrebbe avvertire anche lui l’attrazione. È una cosa reciproca. Aspetta, è un licantropo?”

“No, è umano.”

“Okay. Vince lo trasformerà.”

“No! Ti supplico, puoi mantenere il segreto per un po’? Non sono pronto a tuffarmi in una storia a lungo termine, con tutto quello che sta succedendo. Non è il momento. Volevo solo avere qualche informazione in più.”

“Tesoro, unirti al tuo Compagno dovrebbe essere un istinto naturale molto potente e motivo di gioia. Stargli lontano non risolverà le cose, le peggiorerà. Questo, stando alle leggende.” disse, ma l’occhiata implorante che le scoccò Roman la fece capitolare, “Va bene, farò delle ricerche più approfondite sull’argomento e terrò la bocca chiusa. Ma esigo che tu lo inviti a cena, preferibilmente entro la fine dell’anno.”

“Affare fatto. Grazie.” sospirò sollevato e, per impedire che ripartisse all’attacco, girò i tacchi e corse a rifugiarsi in camera.

Se doveva essere onesto con se stesso, si sentiva atterrito alla prospettiva che Regan fosse sul serio la sua anima gemella. L’idea dei Compagni lo elettrizzava, era un concetto romantico, quasi fiabesco. Il problema era la persona. Regan non era facile da gestire o comprendere. Roman faceva fatica a stargli dietro, soprattutto di recente. Non sapeva ancora se fossero compatibili. A volte sembrava di sì, altre aveva l’impressione di trovarsi in balia di una tempesta. Solo il tempo gli avrebbe dato le risposte che cercava.

 
*

Domenica pomeriggio, nel seminterrato di casa McLaughlin, Regan era intento a truccare il cadavere di una donna, quando il cellulare cominciò a vibrare nella tasca dei jeans. Bloccò qualsiasi movimento e spiò Deirdre con una smorfia e una scusa pronta sulla punta della lingua. Lei lo guardò male per qualche secondo, poi gli fece cenno di interrompere e salire di sopra.

Regan si tolse velocemente i guanti, salì i gradini a due a due e si richiuse la porta alle spalle. Dopo aver estratto il cellulare e letto sullo schermo il nome di Lorie, roteò gli occhi e si preparò all’ennesima recita. Era divertente a volte, ma spesso era solo sfiancante.

Accettò la telefonata solo quando il suo posteriore si adagiò sul divano: “Hey, Lorie.”

“Ciao, amore. Che fai?”

Lorie aveva preso a chiamarlo “amore” da venerdì. A Regan non dispiaceva, purché la ragazza non si montasse la testa.

“Aiutavo mia nonna nel lavoro.”

“Cioè? Sono curiosa.”

“Stavo applicando il trucco sulla faccia di un cadavere. I familiari verranno tra un’oretta circa a riprenderlo in una bara.”

“E non ti fa impressione? Insomma, è gente morta.”

“Abitudine. Perché hai telefonato?”

“Dev’esserci per forza una ragione?”

“Sì.”

“Beh, mi andava di sentire la tua voce. Ieri ero ancora nella fase post-sbornia, ma oggi mi sono ripresa e mi sono detta ‘sentiamo cosa sta facendo il mio amore’. Mi dispiace averti disturbato.”

“Fa niente. Non posso restare a chiacchierare, però. Mia nonna ha bisogno di me.”

“Certo, sì, ovvio. Ehm… cosa fai più tardi? Pensavo, non so, ti va di venire da me? Possiamo guardare un film, ordinare una pizza. I miei sono fuori.”

“Non sai quanto vorrei, davvero. Non sono uscito una sola volta dalla festa, mi sento soffocare. Ma ho un test di Chimica domani, devo finire di studiare.”

“Potrei aiutarti… ti ricordo che frequento il terzo anno.”

“Lorie, se venissi da te faremmo tutto fuorché studiare.”

 “Mi manchi!” sbottò in tono petulante.

“Ci vediamo domani a scuola.”

“E se ti dicessi che adesso sono nuda, sdraiata sul letto, con solo un sottile lenzuolo a coprire il mio corpo?”

Regan inarcò un sopracciglio e, ghignando, rispose: “Grazie per l’immagine, mi terrà compagnia stanotte.”

“Sei cattivo.”

“Mi farò perdonare domani, promesso.”

“Uffa. Va bene, secchione, studia per il tuo test.”

“A domani. Un bacio.”

“Dove?”

“Dove vuoi tu.”

Riattaccò senza smettere di ghignare. Dio, quanto se la stava spassando. Era stato sincero quando le aveva detto che avrebbe tanto voluto andare da lei: gli effetti della dose di venerdì erano già svaniti e gli era tornata sete. Tuttavia, Deirdre aveva bisogno di lui per ultimare i preparativi e il libro di Chimica lo attendeva sulla scrivania. Si consolò pensando che, l’indomani, avrebbe affondato di nuovo le zanne nei colli delle sue schiave. La mera fantasia gli fece venire l’acquolina in bocca.

Due ore dopo, il furgone con la bara in cui era conservato il loro ospite liberò il posto auto davanti casa, solo per venire rimpiazzato subito da una volante della polizia. Hillary scese, sbatté la portiera e improvvisò una corsetta sul vialetto. 

“C’è sempre un gran via vai da queste parti, eh?” esordì scherzosa.

“Zia Hillary! Non sapevo saresti passata.” la salutò calorosamente Regan e l’abbracciò stretta.

Non gli sfuggirono le occhiaie e il pallore del suo viso. Sotto la divisa pareva addirittura dimagrita, l’assenza del rotolino sopra i fianchi un segnale evidente. La invitò in casa e le indicò una sedia al tavolo di cucina.

“Accomodati. Gradisci del tè?”

“Sì, grazie. Deirdre?”

“Sta pulendo di sotto. Vado ad avvisarla che sei qui.”

Regan mise la teiera sui fornelli, tirò fuori le tazze e poi scese nel seminterrato.

Cinque minuti più tardi, tutti e tre sedettero in cucina di fronte a una tazza di tè bollente. Il profumo del bergamotto permeava l’ambiente.

“Non resterò a lungo. Volevo solo venire a trovarvi. La vostra compagnia riesce sempre a risollevarmi il morale.” disse Hillary mentre beveva il suo tè a piccoli sorsi.

“Cos’è successo, cara?” indagò Deirdre, notando il turbamento dell’amica.

Hillary sbuffò e abbozzò una risata priva di allegria: “Succedono tante cose, di continuo. Non ricordo nemmeno l’ultima volta che ho dormito per più di tre ore di fila. Praticamente vivo in centrale. Giuro, sono sull’orlo di un esaurimento nervoso. Uno di questi giorni potrei mettermi a ballare nuda in strada.”

“E noi saremo lì a immortalare il momento per i posteri.” scherzò Regan, “Allora, quante cose assurde ti sono capitare ultimamente? Ci sono stati altri serpenti parlanti?”

“No, niente serpenti. In compenso, tre notti fa una signora ha fatto irruzione dal veterinario e ha tentato di liberare tutti gli animali dalle gabbie. Per fortuna c’erano le telecamere ed è scattato l’allarme. Poi ad Halloween dei ragazzi hanno disegnato con le bombolette spray simboli blasfemi sui muri della chiesa. Quando il pastore Higgins ha chiamato, era su tutte le furie. Stamani, invece, un gruppo di studenti delle medie ha deciso di fare un pic-nic sul cornicione della scuola. Come siano riusciti a entrare proprio non lo so. Hanno detto di aver trovato la porta aperta, ma le serrature erano sigillate con dei lucchetti e le finestre si possono accostare solo nella parte in alto e non abbastanza per farci passare un bambino di dodici anni. La follia dilaga ovunque…”

Deirdre e Regan si scambiarono un’occhiata eloquente, condita con lievi movimenti delle sopracciglia e cenni del capo. Alla fine, Deirdre si schiarì la gola e introdusse l’argomento spinoso della settimana.

“Hillary, come vanno le cose con i coniugi Bruce? Ci sono novità sul piccolo Timothy?”

“Macché! Zero. Nada. Vicolo cieco. Proprio come con Teresa Meyers. Non abbiamo uno straccio di indizio. Abbiamo interrogato parenti, amici, conoscenti, ma nulla. Il panico e la rabbia stanno aumentando. Quando hanno saputo di Timothy, i Meyers sono venuti nel mio ufficio. La discussione è degenerata in fretta. Hanno accusato me di non saper fare il mio lavoro e i miei agenti di essere braccia rubate ai campi.”

Regan fece una smorfia. Hillary andava fiera della sua posizione e del lavoro che svolgeva. Portava il distintivo come se fosse una medaglia all’onore, il simbolo del suo impegno per la città. Dava sempre il massimo, arrivando spesso a trascurarsi. Sentirsi rivolgere quelle parole, soprattutto nel bel mezzo di un’indagine impossibile, doveva averla destabilizzata parecchio.

Hillary nascose la faccia nei palmi e sospirò affranta: “Non lo so. Forse hanno ragione… forse ho perso il mio tocco.”

“Non ascoltarli. Non hanno la minima idea di come fare il tuo lavoro, sarebbero persi senza di te.” la rassicurò Regan, “Però, se pensi che ti farebbe comodo avere una mente fresca al tuo fianco, mi offro volontario.”

“Certo. Infatti, ora mostrerò a un minorenne i documenti riservati di un’indagine in corso. Continua a sognare, ragazzino.”

“Non è una cattiva idea.” si intromise Deirdre, “L’intelligenza di Regan è al di sopra della media e possiede acute capacità di osservazione. Quante volte ti ha sorpresa con un’intuizione geniale? Sai che ha talento.”

“Deirdre, andiamo! Un conto è stracciarmi a Cluedo, un altro è risolvere un vero caso di persona scomparsa. E poi resta un minorenne. Senza contare che appropriarsi dei documenti di un’indagine è contro la legge. Se mi scoprissero, verrei licenziata.”

“Beh, non dobbiamo per forza dirlo a qualcuno…” buttò lì Deirdre, sorseggiando con un aplomb invidiabile il suo tè, quasi stessero chiacchierando del tempo e non di commettere un crimine, “Potresti farci visita con quei documenti e fermarti a mangiare qualcosa. E se, mentre sei distratta dalla piacevole conversazione, Regan dà una sbirciatina ai suddetti documenti, come potresti saperlo?”

Hillary strabuzzò gli occhi e per poco non le andò di traverso il tè. 

“Sei seria?” boccheggiò.

“Che avresti da perdere? Il peggio che può capitare è che l’indagine rimanga al punto morto in cui è ora. Non possono licenziarti, cara, non avrebbero nessuno altrettanto preparato con cui sostituirti. Tutti lo sanno.”

Hillary tacque e rifletté per un paio di minuti sui pro e i contro. Non era una scelta da fare a cuor leggero, ne andava della sua carriera. Bastava un errore, uno solo, per farle scoppiare la bomba in faccia.

Una soluzione poteva essere fotocopiare i documenti e lasciare gli originali nel suo ufficio. Ma se qualcuno avesse controllato la memoria della fotocopiatrice, si sarebbe giustamente posto delle domande. Oppure poteva scattare delle foto. Ecco, già meglio.

Più convinta, squadrò le spalle e li fissò entrambi con determinazione: “Che c’è per cena martedì? Ho la serata libera.”

“Per te cucinerò il mio famoso pasticcio di funghi.” rispose Deirdre.

“Ah, è una vita che non lo mangio!”

Regan si imbronciò: “Perché cucini i piatti più buoni solo se abbiamo ospiti a cena?”

“Perché sì. Impara a cucinare e ne riparleremo.”

“Sadica.”

“Pigrone.”

Hillary scoppiò a ridere, molto più rilassata.

 
*

Regan stava pedalando con cautela sotto un muro d’acqua. Imbacuccato nell’impermeabile, percorse a velocità ridotta le strade che lo separavano dalla scuola, stando attento ai semafori e ai passanti. Aveva cominciato a piovere durante la notte e le previsioni meteo dicevano che il maltempo sarebbe durato fino al tramonto.

Giunto nel parcheggio del liceo, smontò dalla bici, la assicurò con il lucchetto alla transenna e corse verso l’entrata schermandosi il viso con le braccia, perché per di più pioveva a vento. Una volta al riparo, si tolse l’impermeabile e lo appallottolò per riporlo in una busta di plastica.

Mentre marciava in direzione dell’armadietto, non si accorse dei sussurri e delle occhiate degli studenti. La debolezza causata dall’amuleto era sì attenuata dalla pietra di luna che portava al collo, a contatto con la pelle, ma non tanto da mantenere costantemente i suoi sensi vigili e ricettivi agli stimoli esterni. Magari, più tardi, avrebbe provato con il sangue delle ragazze, per vedere se gli dava una spinta in più, abbastanza da superare la giornata.

Stava infilando il libro di Biologia nello zaino, quando udì qualcuno schiarirsi la gola dietro di lui. Si voltò e si trovò faccia a faccia con Charlotte e Jennifer. I loro visi erano contratti in una maschera di shock e divertimento. Al petto stringevano dei libri, a mo’ di scudo, ma la loro postura emanava in generale un’aura aggressiva.

“Regan.” lo salutò Charlotte, per poi puntare lo sguardo oltre la sua spalla, “Non vedi che stiamo parlando? Sparisci.” proferì seccata.

Regan colse di sfuggita il profilo del suo vicino di armadietto. John, Josh, qualcosa. Per un istante, i suoi occhi vennero calamitati dalla cicatrice a forma di mezzaluna che esibiva sul mento, ma il cervello lo liquidò appena il ragazzo si allontanò con la schiena ingobbita e la testa bassa.

“Charlotte. Come stai?”

“È vero quello che si dice in giro?” lo interrogò, senza perdere tempo in chiacchiere.

“Eh?”

“Riguardo a venerdì.”

Jennifer si intromise, vomitando le parole tutte d’un fiato: “Dicono che hai fatto sesso con Lorie, Vanessa, Mary e Claire prima di venire alla festa e che ora sei fidanzato con tutte e quattro. Che sei un dio a letto e che le ami tanto da volerle sposare subito dopo il liceo.”

Regan sbarrò le palpebre e boccheggiò, colto di sorpresa.

“Ehm… la prima parte è vera, anche se non siamo andati oltre i preliminari. No, non mi risulta di essere fidanzato con loro. Mi sento lusingato per il complimento. Non sapevo di volerle sposare.” rispose in ordine.

“Ah. In questo caso, ti consiglio di parlare con loro al più presto, prima che si sparga troppo la voce.” disse Charlotte, guardandosi intorno per fulminare con una serie di occhiatacce gli studenti troppo vicini.

“Si è già sparsa.” puntualizzò Jennifer.

“Beh, allora prima che la situazione degeneri!” sibilò a denti stretti.

“In che senso?” chiese Regan.

“Quelli della squadra di football ti assaliranno in mensa, o appena ti troveranno da solo, per parlare delle tue presunte relazioni. Se ti può consolare, Mike sembrava più colpito che furioso.”

“Grazie per avermi avvertito.” rivolse loro un sorriso e, al suono della campanella, volò in classe come un razzo.

Quando fece il suo ingresso a Francese, tra i compagni calò un silenzio tombale. I loro sguardi lo seguirono verso il banco, talmente penetranti da provocargli una minuscola scarica di brividi. Cessarono di scavare solchi nel suo corpo solo all’entrata del professore, ma qualcuno, durante la lezione, continuò a spiarlo. Stranamente, il posto di Roman rimase vuoto.

Per la pausa pranzo non si recò a mensa. Scrisse un messaggio di gruppo alle quattro cheerleader e diede loro appuntamento nell’aula di musica, che a quell’ora era sempre deserta. Le aspettò seduto sul piccolo palco rialzato che ospitava il pianoforte, al centro della stanza. Le sue dita tamburellavano sulle ginocchia, riflettendo il crescente nervosismo.

Non appena le ragazze scivolarono dentro l’aula, ognuna con un sorriso eccitato dipinto sulle labbra, Regan indurì l’espressione e strinse le mani a pugno. Le osservò impietrirsi sul posto, a due metri di distanza da lui, e abbassare la testa con smorfie colpevoli.

Regan si alzò e avanzò di qualche passo. La sua modesta statura non smorzava affatto l’aura da predatore che lo avvolgeva. Irradiava autorità da tutti i pori, oltre che rabbia.

“Sono stato informato stamattina delle voci che avete messo in giro. Posso conoscerne il motivo?” esordì, utilizzando il tono privo di inflessione tipico di quando era parecchio infastidito.

“Noi volevamo solo… noi…” balbettò Lorie.

“Voi cosa?”

“Avevamo paura che ti saresti stufato di noi e avresti regalato le tue attenzioni a qualcun’altra…” rispose Claire, gli occhi umidi di lacrime.

“Così ti abbiamo reclamato per prime. È stata una decisione unanime.” spiegò Vanessa.

“Siamo pronte a condividerti. Non ci saranno gelosie o stupidi dispetti, perché siamo d’accordo.” aggiunse Mary, “Abbiamo anche scritto una lista con le rotazioni, in modo che ognuna di noi possa trascorrere del tempo da sola con te…”

Regan non sapeva se scoppiare a ridere o prenderle a schiaffi. Nel dubbio, rimase in silenzio.

“Sei arrabbiato…?” esalò titubante Vanessa, torcendosi le dita.

Regan si avvicinò di altri due passi. All’improvviso, si sentì pervadere da una strana e vibrante energia, che lo avviluppò alla stregua di una coperta calda. I suoi pensieri si affilarono, allineandosi l’uno accanto all’altro come lame pronte all’uso, e una nuvola di estrema chiarezza dissipò la temporanea indecisione che lo aveva colto mentre ascoltava le ragazze.

Adesso sapeva cosa fare e come farlo.

Allargò le braccia e curvò un angolo della bocca verso l’alto: “Venite. Non abbiate paura.”

Loro si guardarono l’un l’altra, esitanti. Poi si gettarono su di lui tutte insieme, aggrappandosi a qualsiasi parte del suo corpo a cui riuscivano ad arrivare. Tra baci casti e carezze lievi, sussurrarono scuse e implorarono perdono.

Regan le lasciò fare per un po’. Quando le reputò sufficientemente calme, le fissò una ad una negli occhi, implacabile e freddo nonostante il sorriso gentile. Le sentì irrigidirsi contro di sé.

“Non ho apprezzato ciò che avete fatto. Vorrei che rimediaste al vostro errore appena uscirete di qui.” enunciò paziente, modulando la voce in modo che risultasse confortante e categorica insieme, “Non mi interessano le ragioni che vi hanno spinte ad agire o a credere di avere il diritto di imporre alcunché sulla mia persona. Sono io che decido. Voi siete solo le mie schiave e riserve di cibo. È importante che lo capiate, così, in futuro, non ci ritroveremo mai più in simili situazioni, in cui sono costretto a punirvi per esservi comportate male.”

“P-Punirci?”

“Sì, Lorie. Una punizione mi pare appropriata. Ma sono sicuro che imparerete presto, perché siete bambine obbedienti. È questo il tratto del vostro carattere che ammiro di più. Quando vi sottomettete e diventate docili, il mio cuore si riempie d’amore.”

Lorie osò sorridere a quelle parole, rilassandosi nel suo abbraccio: “Come intendi punirci?”

“Ancora non lo so, ma ci penserò. Oggi vi lascerò stare, anche perché sarete occupate a risolvere il vostro casino. Domani è un altro giorno e ne riparleremo. D’accordo?”

Le ragazze annuirono all’unisono.

“Ottimo. Oh, tanto per la cronaca: non sarò mai il vostro fidanzato, non vi porterò mai all’altare e non esiterò a liberarmi di voi se mi sarete d’intralcio. Tutto chiaro?”

“Ma rimarremo insieme per sempre, se faremo le brave?” domandò Mary, spalancando le ciglia sulle iridi verdi.

“Certo.” la blandì, poi si rivolse a Claire, arpionata al suo braccio destro, “Spogliati. Ho fame.”

Claire eseguì l’ordine senza protestare. Si levò il maglioncino azzurro e la camicetta bianca e rimase in reggiseno, anch’esso azzurro. Ripiegò i vestiti, li poggiò sul palco e si voltò di nuovo verso di lui, carica di aspettativa. Le sue guance erano già arrossate e il suo respiro accelerato.

Regan si piegò sul suo collo e inalò il suo odore fino a riempirsene i polmoni. Poi snudò le zanne e perforò la pelle con un basso ringhio. Bevve per un paio di minuti, lentamente, determinato a gustare quel nettare prelibato senza fretta. Non appena percepì Claire raggiungere l’apice, la fece sedere sul palco.

Ripeté le stesse azioni con Vanessa, Mary e Lorie, nutrendosi di loro finché non si sentì ricolmo di frizzante energia sin nelle più remote estremità.  Adesso non era solo la sua mente ad essere più attiva del normale, ma anche il suo corpo. Si sentiva carico, invincibile.

Quando si ripresero dall’esperienza e la patina opaca che copriva i loro sguardi evaporò, intimò loro di rivestirsi. Sulla soglia, però, le richiamò un momento.

“Ricordate: detesto che prendiate iniziative personali. D’ora in avanti, desidero essere sempre messo al corrente di tutto, ogni pensiero partorito dai vostri adorabili cervellini. Sarebbe meglio se non pensaste affatto, ma riconosco che, forse, è chiedere troppo. Bene, andate e rendetemi orgoglioso.”

Le ragazze gli sorrisero sognanti e, prima si sparire in corridoio, gli lanciarono dei baci. Regan finse di afferrarli e premette la mano sul petto.

Finalmente solo, permise alla maschera di sgretolarsi. Si scrocchiò il collo, si tirò indietro i capelli e piegò le labbra in un ghigno euforico. Era più che soddisfatto, sia per il risultato ottenuto, sia per la facilità con cui aveva usato il controllo mentale. Forse si innescava attraverso una mescolanza tra contatto visivo, contatto fisico e stimoli sonori. Non era sicuro che funzionasse anche con uno solo di questi tre, o con due. Per capirlo, doveva compiere degli esperimenti.

E quali cavie migliori del gruppo di giocatori di football che fece irruzione nell’aula di musica proprio in quell’esatto momento? Erano capeggiati da Mike e lo attorniavano come fedeli cagnolini. Alcuni, come il capitano, sfoggiavano un’espressione incredula, altri lo fissavano come se volessero farlo a pezzi.

“Mike, ragazzi. Qual buon vento?” li accolse Regan, esaminando il proprio timbro vocale per memorizzarlo, nel caso la sua teoria si fosse rivelata corretta.

Vide quattro ragazzi nelle retrovie bloccarsi e mettersi a guardarlo con aria vacua. Bingo. Ma gli altri non parevano scalfiti. Quindi la voce non bastava. Forse dipendeva dalla naturale predisposizione dell’individuo ai diversi stimoli: c’erano persone più ricettive ai suoni, mentre altre prediligevano il contatto fisico. Quello visivo non riportò alcun risultato, quindi Regan lo eliminò dalla lista.

“Regan, mi spieghi cosa è successo con Lorie e le altre? È vero che ci sei andato a letto?” lo interrogò Mike senza tanti preamboli e gli si accostò fino a torreggiare su di lui.

“Ci siamo baciati un po’ e ho masturbato Claire. Anzi, lei ha usato le mie dita per masturbarsi.” rispose sbrigativo, poiché l’attenzione era concentrata sulla mano che stava protendendo verso Mike.

Quando le sue dita si avvolsero attorno al polso del capitano, Regan lo sentì rabbrividire ed esalare un sospiro. Lo scrutò dal basso con aria innocente e un lieve broncio.

“Sei arrabbiato con me, Mike?”

Il biondo gli sorrise e scosse il capo: “Naaah. Sono solo offeso che tu non sia corso a raccontarmelo subito. Sei il mio fratellino, dopotutto. È mio compito guidarti attraverso le nuove esperienze.”

“Capisco. Prometto di farlo, se ricapiterà.”

Detto ciò, lo superò, azzerò la distanza tra sé e gli altri e si lasciò circondare. I quattro già sotto il suo controllo si mossero per primi, come calamite attratte dal metallo. Regan notò i restanti sporgersi per annusarlo con discrezione.

A quel punto realizzò che il contatto visivo non c’entrava nulla. La chiave erano i feromoni. Inconsciamente, sin da quando era stato introdotto al loro tavolo a mensa da Charlotte, doveva averli emanati a ondate. Con ogni probabilità, li aveva usati anche prima, la sera in cui lui, Charlotte e Zack erano andati al messicano e Regan aveva dato inizio alla recita.

Eppure, un paio di domande continuavano a ronzargli nel cervello. Innanzitutto, come mai Deirdre era immune? Forse perché aveva sangue di strega nelle vene? E, ora che ci pensava, nemmeno Roman era caduto vittima del suo potere. Almeno, non come le ragazze. Salvo per il bacio alla festa, l’amico si era sempre comportato normalmente. Per non parlare di Charlotte, Zack e Jennifer. Erano molto più aperti e disponibili, ma non si erano mai prostrati ai suoi piedi. Oppure Gregory, Kevin e Derek, e gli altri bulli che lo avevano tormentato fin dalle elementari. E che dire di tutte le persone che erano venute in contatto con lui durante la sua vita?

Qualcosa non quadrava. Se possedeva simili poteri, perché non ne aveva avuto prova in passato? E se erano spuntati solo di recente, perché proprio adesso? E perché agivano con selettività e non su larga scala?

Si impose di rallentare e riflettere con calma. Era ovvio che fosse una cosa recente. Infatti, in caso contrario, avrebbe già avuto l’intera città alla propria mercé da anni.

Riguardo alla selettività, poteva spiegarla se la connetteva alla propria volontà. Non gli importava nulla di Charlotte, Zack e Jennifer, perciò non erano stati influenzati più di tanto. Non gli importava nemmeno di Gregory e la sua cricca. Invece, le cheerleader e i giocatori di football erano i mezzi perfetti per ottenere quel che desiderava.

Era la sua volontà il catalizzatore. Nel momento in cui aveva deciso di intraprendere quella linea d’azione, nel momento in cui si era davvero convinto che fosse giunto il tempo di darsi da fare per raggiungere il proprio scopo, nel momento in cui si era finalmente accorto di trovarsi alle strette, davanti a un bivio, qualcosa in lui era cambiato. I suoi poteri, sinora latenti, si erano destati per prestargli soccorso e agevolare il suo piano. E così, Charlotte e Zack si erano bevuti senza problemi la sua messinscena al ristorante, e poi anche Jennifer e, in seguito, una volta entrati nella sua orbita, tutti gli altri erano stati abilmente ridotti a strumenti asserviti al suo obiettivo.

Ma allora come mai Gregory e i suoi due tirapiedi erano sempre aggressivi, nonostante Regan avesse spesso desiderato che lo lasciassero in pace? Non erano mai stati altro che violenti e dispettosi. Non ricordava come era cominciata, solo che un giorno, alle medie, si era ritrovato nel loro mirino. Soggiogarli immediatamente sarebbe stata una mossa naturale, invece i suoi poteri non erano intervenuti e i bulli si erano scagliati su di lui con la solita ferocia.

È da giorni che non li vedo, da prima della festa, notò incuriosito.

Sussultò quando due braccia muscolose si avvolsero intorno ai suoi fianchi, distogliendolo dalle sue elucubrazioni. Avvertì un torace aderire alla sua schiena e un alito caldo sfiorargli l’orecchio sinistro. Tentò di girarsi, ma la presa sui fianchi era ferrea, così riuscì solo a ruotare la testa di tre quarti. James, l’ex fidanzato di Teresa, gli sorrise e gli stampò un bacio sul collo.

Mike lo acciuffò per un braccio e lo strattonò via dall’abbraccio di James con un grugnito esasperato.

“Perché devi sempre interrompere, Mike?” lo attaccò il compagno.

“Regan è il mio fratellino. Vuol dire che io sono l’unico che può abbracciarlo.”

Appena lo disse, gli altri esplosero in accese proteste. Alcuni addirittura lo spintonarono. Regan ne approfittò per allontanarsi e recuperare lo zaino. Le gambe quasi gli cedettero sotto il suo peso e l’energia che lo aveva pervaso sino a quel momento lo abbandonò pian piano.

Dannato amuleto, pensò con amarezza.

“Silenzio!” tuonò Mike, “Sono io il capitano.”

“Essere capitano non significa essere il re dell’universo! Non puoi tenere Regan tutto per te!”

“Giusto! Non è mica una tua esclusiva proprietà.”

Regan si schiarì la gola e, come per magia, nell’aula piombò il silenzio. Gli occhi di tutti i ragazzi si focalizzarono su di lui, in attesa.

“Devo tornare a lezione. La campanella è suonata.”

Come risvegliatisi da una trance, si rianimarono e uscirono alla spicciolata dall’aula. Mike rimase indietro ad aspettare Regan e, quando furono fianco a fianco, gli cinse le spalle con un braccio.

“Non essere timido, okay? Puoi dirmi tutto, sempre.” mugugnò a bassa voce.

Regan annuì sorridendo: “Va bene. Ci vediamo.”

Prima di andare ognuno per la sua strada, Mike lo baciò sulla fronte in modo fraterno. Regan aspettò di vederlo sparire, poi si strofinò la fronte con foga per cancellare qualsiasi traccia del contatto.

L’ultima lezione del giorno era Latino. Regan si diresse verso l’aula strascicando i piedi. Non era un corso molto frequentato, perciò si stupì quando scorse la faccia di Roman. Era seduto a uno dei banchi in fondo. Il professore accolse Regan con un cenno e lo invitò a sedersi, apparentemente d’accordo con la presenza di Roman in classe.

Avvicinandosi, Regan vide le mani dell’amico serrate a pugno sulle ginocchia, le nocche bianche, le labbra stirate in una linea retta e le sopracciglia aggrottate. Si sedette al banco alla sua sinistra e, ignorandolo, estrasse i libri dallo zaino.

“Regan.” sibilò Roman sottovoce.

“Dopo.”

L’ora passò più veloce di quanto Regan fosse pronto ad ammettere. Il suono della campanella lo fece sobbalzare sulla sedia. Annotò i compiti sul quaderno, ripose i libri nello zaino e si alzò senza fretta, conscio della presenza di Roman proprio dietro di lui. Sembrava quasi che temesse di vederlo volatilizzarsi se solo si fosse distratto per una frazione di secondo.

Uscirono in corridoio con gli altri studenti e si fermarono di fronte all’armadietto di Regan.

“Ti va di spiegarmi?” sussurrò Roman, chino su di lui.

Il suo corpo lo intrappolava e, al contempo, gli faceva da scudo. Non era esattamente il tipo di conversazione che Regan voleva avere in pubblico, ma rimandare avrebbe soltanto acuito la tensione.

“Chiedi pure.”

“Hai fatto sesso con Lorie e le altre, venerdì scorso?” tagliò corto, e al moro non sfuggì il ringhio frammisto alle parole.

“Non esattamente.”

“Quindi cosa ci hai fatto?”

“Domina la gelosia, okay? Non ho tempo per queste stronzate.” lo rimbeccò, “Claire ha iniziato a usare le mie dita per masturbarsi, poi Vanessa mi ha strappato il primo bacio e le altre si sono unite alla festa poco dopo. Non ci siamo spinti oltre.”

“E più tardi hai baciato me.”

“Dovevo essere già sotto l’effetto di qualsiasi cosa mi ha dato Lorie. Ricordo di aver accettato le loro avances passivamente, non ho reagito.”

Roman boccheggiò scandalizzato.

“Ti hanno… violentato?”

“Shhh! No, non proprio. Ti ho detto che ci siamo solo baciati. Beh, a parte con Claire. E, in fondo, non mi è dispiaciuto. È stato strano, sì, ma non terribile.”

“Perché se ne vanno in giro dicendo che avete fatto sesso e che ora sei fidanzato con tutte loro?”

“Boh. Comunque, ci ho parlato durante la pausa pranzo e abbiamo chiarito. Metteranno a tacere le voci, si scuseranno per aver ingigantito la cosa e smetteranno di trattarmi come un oggetto, o un trofeo.”

“Okay. Sei sicuro di stare bene?”

“Sì. Perché?” domandò confuso.

“Insomma, non eri del tutto consenziente quando è successo.”

“Sto bene, Roman. Sul serio. Ora devo tornare a casa, ci vediamo domani.”

“Okay. A domani.” lo abbracciò stretto a sé, inalando il suo odore finché non sentì i polmoni bruciare, “Fa’ attenzione e guida con prudenza. C’è un fottuto temporale, là fuori.”

“Sì, mamma.” borbottò e levò gli occhi al cielo, per poi svincolarsi e allontanarsi verso il parcheggio.

Roman fissò la sua schiena finché non sparì oltre le porte. Solo allora si concesse di espellere l’ossigeno in un’unica boccata. Al ricordo dell’odore di Mike impresso su Regan storse il naso e un ringhio gutturale gli si formò in gola. Pareva quasi che il capitano della squadra di football si fosse strusciato su di lui per minuti interi.

Lo odiava. Odiava tutti quelli che ronzavano intorno al suo Compagno. E un po’ odiava anche Regan, che non si ribellava e si lasciava marchiare da quegli insulsi umani. Capiva la necessità di recitare bene la parte, ma era davvero necessario così tanto contatto fisico? Era Roman il suo migliore amico, il solo con il sacrosanto diritto di abbracciarlo, baciarlo, possederlo

Scosse la testa con veemenza, scacciando quei pensieri molesti in un angolo della coscienza. Nessuno poteva possedere Regan, era lui che possedeva te. Regan era un alfa, un capo, e presto, se il suo piano fosse andato a buon fine, sarebbe diventato il padrone indiscusso della scuola, e Roman il suo braccio destro, il consigliere fidato… il suo Secondo in comando.

Strabuzzò le palpebre appena realizzò il filo logico delle proprie riflessioni. Dovette appoggiarsi agli armadietti per evitare di cadere in ginocchio, schiacciato dal peso dell’epifania.

Il suo lato animale, il lupo, aveva eletto Regan come suo alfa. Aveva formato un branco a sua insaputa. Uno minuscolo, di soli due membri, ma lo stesso un branco.

Non aveva idea di come fosse accaduto, né quando la sua lealtà si fosse spostata da suo padre a Regan. C’erano stati dei segnali, di sicuro, ma Roman non li aveva colti. Nemmeno adesso, consapevole della realtà, riusciva ad individuarli. Era stato un processo naturale, graduale. Inevitabile.

Regan era non solo il suo possibile vero Compagno, ma anche il suo nuovo alfa.

Roman realizzò di essere nei guai.

 
*

Regan non dovette attendere molto prima che Gregory si rifacesse vivo, giusto ventiquattro ore. La scena si ripeté uguale a mille altre, tanto che Regan trovò conferma ai suoi già forti sospetti che Gregory mancasse totalmente di qualsivoglia barlume di originalità.

Le lezioni erano terminate da poco. Uscendo dal bagno, Regan si sentì acciuffare per il cappuccio della felpa e strattonare lungo il corridoio semideserto verso un’aula vuota. Non urlò per chiamare aiuto, né oppose resistenza. Anzi, le sue labbra tremolarono per la voglia di curvarsi in un ghigno eccitato.

Oltre alla curiosità di fondo che anticipava ogni colluttazione, Regan percepì l’adrenalina montare dentro di sé, come una violenta corrente sottomarina che preme verso la superficie. Quei combattimenti, per quanto rozzi, riuscivano sempre a risvegliarlo dal torpore, ad elettrizzarlo con una scarica di energia simile a quella che riceveva bevendo sangue.

Lo zaino gli venne strappato via e gettato da qualche parte, lontano. La porta dell’aula vuota si chiuse con un lieve tonfo. Una spinta lo fece inciampare e cadere bocconi sul pavimento, in mezzo a una fila di banchi.

“Credevi che fosse finita?” lo apostrofò Gregory, afferrandolo di nuovo per il colletto per schiantare un pugno sulla sua mandibola.

Regan andò al tappeto. Tossì e sputò un grumo di sangue e saliva sulle piastrelle immacolate.

“Lungi da me sperarlo.” rispose in un rantolo.

Gregory schioccò la lingua e gli sferrò un calcio nello stomaco, ma Regan reagì facendogli lo sgambetto all’ultimo secondo. Il bullo precipitò a terra con un grugnito e un’imprecazione.

Regan ne approfittò per arretrare e studiare la situazione. Vide solo Kevin, in piedi davanti alla porta, con le braccia conserte e le gambe leggermente divaricate, a bloccare l’unica via di fuga. Nessuna traccia di Derek.

“Dov’è il tuo secondo lacché, Gregory?”

“Non ti deve interessare.”

“Ha disertato, eh? Devo essere stato parecchio convincente l’ultima volta.” ghignò, “Beh, sono felice che tu non ti sia arreso, sai? Mi mancavano le nostre amichevoli discussioni.”

Lo analizzò per una manciata di istanti, dai capelli rossicci, ora rasati a zero, ai piedi ben piantati a terra. Fu allora che notò la sua perdita di peso. Aveva ancora un eccesso di adipe sullo stomaco e sulle braccia, ma adesso si poteva intravedere senza problemi il contorno dei muscoli gonfi. Pure Kevin era diverso, più alto e atletico. I suoi occhi a mandorla avevano un taglio più maturo, la postura era rigida e controllata, quasi… fredda. Calcolatrice.

Entrambi erano molto diversi da come li ricordava, come se, in quei pochi giorni, qualcosa di fondamentale in loro fosse cambiato, o morto per sempre.

Quando Gregory lo caricò, interpretando il suo silenzio come distrazione, Regan si fece trovare pronto. Schivò un gancio destro, si acquattò e gli sferrò un calcio sullo stinco. Gregory recuperò l’equilibrio aggrappandosi al bordo di un banco e lo usò per darsi la spinta nella direzione opposta, attaccandolo ancora. Regan incassò il pugno nel torace, avvolse le mani attorno a quella di Gregory e trasse vantaggio dal suo slancio per fargli acquisire velocità e scaraventarlo contro altri banchi.

Kevin si irrigidì e si affacciò con aria guardinga dalla finestrella sulla porta, per verificare che il trambusto non avesse richiamato l’attenzione di nessuno.

Gregory si risollevò in un attimo e gli corse addosso come un toro inferocito. Regan si scansò, osservandolo andare a sbattere contro il muro. Se avesse avuto un telo rosso, sarebbe sembrato un toreador nell’arena.

“Sei sotto steroidi, per caso? Non ti ho mai visto così combattivo.” commentò stranito.

“Sono successe parecchie cose mentre tu ti divertivi a fare il re del pollaio.” ringhiò Gregory e si asciugò con il bordo della manica il sangue che gli colava dal labbro spaccato.

I muscoli guizzarono sotto i vestiti, stirando la stoffa. La sua pelle era asciutta, il suo respiro regolare. Di solito, a questo punto aveva già il fiatone, invece persino il suo battito era calmo.

Regan assottigliò le palpebre e lo scrutò con sospetto. L’istinto gli suggerì di non abbassare la guardia. Decise che era il momento opportuno per testare i suoi poteri, così si concentrò e desiderò che Gregory cessasse i suoi attacchi, che lo guardasse con tenerezza e giurasse di diventare il suo zerbino.

Percepì subito l’energia dentro di sé aumentare in risposta al suo comando, attivarsi alla stregua di un interruttore, e non riuscì a reprimere un ghigno trionfante.

Ghigno che si spense non appena un pugno cozzò contro la sua guancia destra, spedendolo a gambe all’aria. Tossì forte e, aggrappandosi a un banco, si tirò su.

“Perché non funziona?” farfugliò tra sé e sé.

“Cosa?”

“E perché sei così forte?”

“Aaah, certo.”

Gregory scoppiò a ridere, lo raggiunse e, afferratolo per il bavero della felpa, lo sollevò per schiacciarlo con la schiena contro il muro, i piedi a ciondoloni a qualche centimetro dal pavimento.

“Hai imparato a usare i tuoi trucchetti, mh? È così che hai soggiogato mezza scuola.”

La bocca di Regan si spalancò per la sorpresa, una domanda scritta a chiare lettere sul viso.

“Come lo so? Te l’ho già detto. So molto più di quanto pensi.” disse Gregory, citando le stesse parole che gli aveva rivolto durante l’ultimo scontro, poi accostò le labbra al suo orecchio come se volesse rivelargli un segreto, “Sei un abominio, Regan McLaughlin.”

Regan si infuriò. Stufo di restare passivo, passò al contrattacco. Non aveva più motivo di trattenersi se Gregory conosceva la sua vera natura, giusto?

Gli sferrò una ginocchiata nelle parti basse con tutta la forza che aveva. Gregory mollò la presa e si piegò in due ululando di dolore. Regan gliene assestò un’altra in faccia, dato che si trovava all’altezza perfetta, e udì distintamente il rumore del naso che si rompeva. Infine, gli artigliò il collo e lo costrinse a inclinare il capo all’indietro, esponendo la gola.

Gregory lo fissò dal basso, in ginocchio. Il suo sguardo era tutto fuorché rassegnato alla sconfitta, la sua postura tutto fuorché vulnerabile. La luce che Regan scorse riflessa nei suoi occhi aveva un che di bestiale e, suo malgrado, si trovò a rabbrividire.

“Perché con te non funziona?” lo interrogò, “Che hai di diverso?”

Gregory ridacchiò: “Neanche lo immagini.”

“Dimmelo!”

Kevin marciò verso di loro con determinazione, i pugni serrati lungo i fianchi, la mascella contratta e le labbra storte in una smorfia bellicosa.

“Resta dove sei o lo uccido.” Regan lo ammonì gelido, “Sai che ne sarei capace.”

Kevin digrignò i denti e obbedì.

“Allora, Gregory. Rispondi. Sono tutto orecchie.”

Gregory gli sputò in un occhio. Preso alla sprovvista, Regan barcollò di lato. La sua distrazione diede l’opportunità all’altro di liberarsi.

Prima che Regan potesse reagire, Kevin comparve dietro di lui in un lampo e lo imprigionò in una morsa d’acciaio, facendo passare le braccia sotto le sue ascelle per immobilizzargli le spalle. Appena Regan provò a scalciare, Kevin gli ingabbiò pure le gambe con le proprie, avvalendosi del banco dietro di lui come supporto per non cadere.

“Wow. Anche tu sei salito di livello.” commentò colpito, percependo gli addominali di marmo di Kevin guizzare sulla sua schiena nonostante gli strati di stoffa a separare le loro pelli.

Non gli fu concesso di aggiungere altro, perché un secondo più tardi il fiato gli venne mozzato da qualcosa di freddo e affilato. Quando abbassò lo sguardo, si imbatté nella mano di Gregory, stretta attorno al manico di un pugnale.

Un pugnale piantato fermamente nel suo stomaco.

“Cosa…?”

Gregory rigirò la lama nelle sue carni. Il suo urlo fu soffocato tempestivamente da un palmo di Kevin.

“Ora, finalmente, avrai ciò che meriti, mostro. Eliminerò la feccia che appesta questa città, a cominciare da te. La prossima sarà la tua cara nonnina. Non è una strega, ma è nata in una congrega. In questi casi è meglio non rischiare, sei d’accordo?”

Subito dopo, la sua attenzione si focalizzò sul collo di Regan. Corrucciato, afferrò la collana e gliela strappò di dosso con un gesto brusco.

“Questa cos’è?” esaminò la pietra di luna alla luce che filtrava dalla finestra, poi l’annusò, “Opera di Deirdre, suppongo. A cosa serve? Rispondi.” gli intimò, torcendo il coltello in senso antiorario.

Kevin scostò la mano per permettergli di parlare, ma Regan si limitò a grugnire di dolore. Gregory gli stritolò il mento tra indice e pollice e lo costrinse a guardarlo in faccia.

“Rispondi!”

“Fottiti.”

“Bastardo fino in fondo. Almeno nessuno può accusarti di incoerenza.” sbuffò divertito, “Facciamo così: io conserverò questa collana come prova per incastrare tua nonna e tu morirai implorando pietà. Che ne pensi?” torse di nuovo la lama, le iridi accese da un bagliore sadico, e lo ascoltò emettere un guaito, “È un sì? Che dici, Kevin? Lo prendiamo come un assenso?”

“Prima ce la sbrighiamo, meglio è. Uccidilo e basta.”

“Hai sentito il mio amico, Regan? Vuole che tu abbia una morte rapida. Io, invece, voglio divertirmi ancora un po’…”

“Piantala, Greg. Non tiriamola per le lunghe. Non possiamo farci scoprire.”

“Non gli farò la grazia di una morte rapida! Non dopo tutto quello che ci ha fatto passare, dopo tutte le umiliazioni… non desideri anche tu vederlo soffrire?”

“Desidero soltanto portare a termine il lavoro. Muoviti.”

Seppur scontento, Gregory annuì. Estrasse il pugnale dallo stomaco di Regan con studiata lentezza, centimetro dopo centimetro, per prolungare l’agonia, e con un fluido movimento del polso se lo fece mulinare sul palmo aperto.

“Spero che l’inferno sia di tuo gradimento.” sibilò Gregory, alitandogli nell’orecchio.

Quando l’arma premette forte sul collo, proprio in corrispondenza della vena pulsante, Regan si irrigidì e chiuse gli occhi. Per la prima volta in tutta la sua vita, si scoprì paralizzato dal terrore.

“Fa buon viaggio, abominio.” fu l’ultima cosa che Regan sentì.

Poi la lama incise la carne e il sangue sgorgò.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Dangerous games ***










Un boato infranse il silenzio, seguito da un tonfo secco e da un nitido clic. La penombra venne squarciata da una lama di luce, là dove la porta si apriva sul corridoio.

Stagliato sulla soglia della classe, Derek strinse forte la pistola, mirò e premette il grilletto. Due volte.

Gregory e Kevin sussultarono. Il movimento obbligò il primo a estrarre il pugnale dalla gola di Regan e il secondo a mollare la presa sulle sue spalle. Entrambi barcollarono, le loro facce contorte in maschere di puro shock. Poi caddero riversi sul pavimento, simili a marionette senza fili. Dai loro colli spuntavano strani dardi.

Anche Regan precipitò a terra. L’impatto delle ginocchia sulle piastrelle gli spedì fitte di dolore direttamente nel cranio, ma esso passò in secondo piano quando vide il sangue. Si coprì con una mano la ferita allo stomaco e con l’altra quella sulla gola. Il sangue continuava a sgorgare a fiotti, imbrattando i vestiti. Distrattamente, pensò che sarebbe stata rottura di scatole lavarlo via.

Registrò a malapena il rumore di passi in avvicinamento. Si sentiva leggero, e un pochino nauseato. Il panico lo aveva abbandonato nell’istante in cui il suo cervello si era spento, un attimo dopo aver accolto per la seconda volta il coltello nella propria carne. Fluttuava nella nebbia, la vista sfocata e le orecchie assediate da un fastidioso ronzio.

“Regan… Regan!”

Qualcuno lo stava chiamando, ma era troppo stanco, troppo debole per rispondere. Venne adagiato a terra, rivoltato sulla schiena e schiaffeggiato. Avrebbe voluto ringhiare e mostrare le zanne alla persona che aveva avuto l’ardire di toccarlo. Un flebile rantolo fu tutto ciò che riuscì a emettere.

Poco dopo, le sue labbra si bagnarono di una sostanza che gli parve ambrosia. Colò come melassa sulla lingua in sottili rivoletti, inondandogli la bocca piano piano. Il suo corpo ebbe uno spasmo, poi un altro e un altro ancora.

Guidato dall’istinto e dalla sete, stufo di ricevere quel fluido divino a minuscole dosi, spalancò le fauci e conficcò i canini nella fonte, nel tentativo di intrappolarla lì finché non avesse finito. Tuttavia, essa gli venne sottratta presto con uno strattone violento.

“Regan, mi senti? Dobbiamo andarcene!”

Sbirciò la sagoma che torreggiava su di lui dallo spiraglio tra le ciglia. Lentamente, essa prese forma e assunse colore. Quando riconobbe il suo odore e il suo viso, si irrigidì, pronto a scattare.

“Derek. Cosa ci fai qui?” gracchiò, sentendo la gola secca e i polmoni in fiamme.

“Non abbiamo tempo per le domande. Ce la fai ad alzarti?”

“La… mmm… la mia collana…”

“Questa?” chiese il biondo, facendo ciondolare la collana con la pietra di luna davanti agli occhi di Regan.

Lui l’afferrò con gesti impacciati e se la legò intorno al collo. Mentre passava i polpastrelli sulla pelle, notò che la ferita si era rimarginata senza lasciare traccia. Allora condusse una mano sullo stomaco e appurò che anche lì non c’era più nulla. Se non fosse stato per il buco nella felpa e per il sangue, avrebbe giurato che nessun pugnale gli aveva mai lacerato la carne.

Rivolse a Derek un’occhiata a metà tra l’allibito e il furioso e, scandendo bene le parole, domandò: “Mi hai fatto bere il tuo sangue?”

“Saresti morto altrimenti.” rispose facendo spallucce, come se non avesse fatto poi chissà cosa, “Ora sbrigati, forza.”

Rinfoderò la pistola che aveva posato a terra. Strappò i dardi dai colli di Gregory e Kevin e li infilò nella tasca interna della giacca. Sorresse Regan per le spalle e lo aiutò a rimettersi in piedi, restandogli vicino per acciuffarlo nel caso avesse perso l’equilibrio. Una volta confermato che non sarebbe crollato come un sacco di patate, corse a recuperare il suo zaino.

“Non stare lì impalato. Muoviti!” lo incitò sottovoce e si affacciò sul corridoio per controllare che la via fosse libera.

Imponendosi di non badare al mondo che girava intorno a sé, Regan lo raggiunse a passi incerti. Si lasciò avvolgere un polso e trascinare lungo il corridoio, in direzione dell’uscita. Attraversarono il parcheggio deserto, salvo per un paio di macchine e la sua bici, ancora assicurata con il lucchetto alla transenna.

Derek gli ordinò di stare fermo. Frugò nello zaino in cerca delle chiavi, aprì il lucchetto e strinse una delle maniglie, mentre con la mano libera riprese possesso del polso di Regan.

“Carichiamo questa nel bagagliaio della mia macchina. Ti riaccompagno a casa.”

Quando le portiere si chiusero, Regan si ridestò dallo shock. Una nuova scarica di adrenalina lo pervase. Il suo cervello non lavorava ancora a piena potenza, visto tutto il sangue che aveva perso, ma non era così andato da non accorgersi che c’era qualcosa di profondamente sbagliato in tutta quella situazione.

“Derek.” proferì calmo, con appena una punta di gelo, che rimase sospesa nell’abitacolo nonostante il riscaldamento.

“Non qui. Ti accompagnerò a casa, mi inviterai a entrare e mi offrirai un caffè in segno di ringraziamento per averti salvato la vita. Dopodiché, parleremo.”

Regan tacque per un paio di minuti, poi disse: “Non ho caffè. Una tazza di tè ti andrebbe bene lo stesso?”

Derek sbuffò divertito e accettò con un lieve cenno del capo.

Durante il tragitto, Regan approfittò del silenzio per studiarlo. La prima cosa che notò fu che aveva rasato i capelli, come i suoi compari. Adesso sfoggiava uno stile militare che non gli donava affatto. I vestiti erano stirati su muscoli più gonfi, prominenti, specialmente sulle spalle, più larghe di quanto Regan ricordasse. Il viso conservava ancora lineamenti adolescenziali, ma era più teso, corrucciato, adulto. I suoi occhi marroni erano duri e freddi, come se avessero visto cose che un normale ragazzo non dovrebbe vedere. In generale, pareva un soldato di ritorno dalla guerra.

Si domandò cosa fosse successo dall’ultima volta in cui si erano scontrati, sia a lui che a Gregory e Kevin. Se non errava, li aveva abbandonati sul pavimento del locale delle caldaie dopo l’ennesima scazzottata, senza voltarsi indietro.

I suoi pensieri volarono di nuovo agli eventi svoltisi poco fa: Gregory che lo accoltellava, Kevin che lo teneva fermo, Derek che li mandava al tappeto con una pistola che sparava tranquillanti e gli offriva il suo sangue per salvarlo da morte certa.

A questo punto, era chiaro che conoscessero il suo segreto. Ma come lo avevano scoperto? Regan era stato prudente, soprattutto negli ultimi giorni. Scrollò la testa. No, lo sapevano da tempo, forse da anni se prendeva in esame i nomignoli carini che gli aveva affibbiato Gregory da quando era comparso nella sua vita. La vera domanda era: perché non avevano mai detto niente? E perché non avevano mai tratto vantaggio dalla sua ignoranza?

Derek parcheggiò a due passi da casa McLaughlin. Spense il motore, imbracciò lo zaino di Regan e lo esortò a scendere.

L’asfalto era umido di pioggia, colorato qua e là da foglie rosse, marroni e gialle. L’odore di ozono permeava l’aria, mischiandosi a quello dei fiori del giardino. Un leggero vento autunnale soffiava tra i cespugli e si insinuava tra le case e nelle poche finestre aperte. Un cane abbaiò in lontananza.

La signora Greenwood era appollaiata sulla sedia di vimini sul portico, dal lato opposto della strada, con un libro tra le mani. Gli occhi da faina saettarono su di loro non appena misero piede fuori dalla macchina. Li osservò varcare il cancello e percorrere il vialetto, il viso contratto in una maschera sospettosa. Riportò l’attenzione sulle pagine del libro solo quando i due ragazzi oltrepassarono la porta di casa, ma continuò a tenere le orecchie tese.

Sbattendosi la porta alle spalle, Regan chiamò sua nonna. Non gli giunse risposta. Doveva essere al supermercato a fare la spesa, dato che Hillary si sarebbe fermata a cena. Ora che ci pensava, si augurava che Derek non restasse troppo a lungo, perché non aveva nessuna voglia si spiegare il motivo della sua presenza a Deirdre.

Guidò Derek in cucina e lo guardò posare lo zaino su una sedia e accomodarsi su quella accanto con movimenti forzatamente rilassati. Per tenere le mani occupate, oltre che per sfogare l’ansia, si mise subito a preparare il tè. I gesti meccanici lo aiutarono a ritrovare la calma e la lucidità.

Una miriade di domande scalpitavano impazienti sulla sua lingua, ma si impose di aspettare che fosse il suo ospite a rompere il silenzio. Ciò avvenne qualche minuto più tardi, quando entrambi furono seduti, ognuno con le mani avvolte attorno a una tazza bollente di tè al limone.

“Allora…” esordì Derek, “Scommetto che sei pieno di domande.”

“Perché non cominci a raccontarmi per filo e per segno che diavolo sta succedendo, eh?” sputò, forse con più veleno del necessario, ma dopo un incontro ravvicinato con la morte le buone maniere non erano certo la sua priorità, “Partiamo da te. Chi sei veramente e cosa vuoi da me?”

“Dritto al punto. Okay, come vuoi.” Derek si scrocchiò il collo e intrecciò le dita, inchiodando Regan con un’occhiata intensa, “Sono un cacciatore.”

Regan inarcò un sopracciglio: “Non mi importa quanti Bambi uccidi nel tempo libero, ti ho chiesto chi sei.”

“E io te l’ho appena detto: sono un cacciatore. Discendo da una lunga dinastia, così come Gregory e Kevin.”

“Quando dici ‘cacciatori’… cosa intendi?” chiese, improvvisamente cauto.

“Cacciatori di mostri.” rispose Derek, “Di conseguenza, capirai perché ce l’abbiamo con te, Regan. Sappiamo che sei un ibrido di vampiro. Un abominio, come Gregory adora chiamarti.”

A Regan andò di traverso il tè. Tossì e sollevò una mano per pregarlo di aspettare. Non appena si riprese, lo fissò con occhi fuori dalle orbite.

“Mi stai dicendo che siete tipo i fratelli Winchester?”

“Più o meno. La nostra ‘organizzazione’ è parecchio più numerosa, però. E molto più antica.”

“Tipo gli Uomini di Lettere.” annuì Regan, atteggiandosi come se ormai avesse capito tutto.

“La smetti con i riferimenti a Supernatural? E no, non siamo nemmeno come loro.”

“Hey, è un bello show! Ho sempre avuto una cotta per Dean…”

Mentre blaterava per prendere tempo, Regan rifletté sulle implicazioni di ciò che aveva detto Derek. Nessuna di quelle a cui arrivò gli piacque, neanche un po’. La cosa che più di tutte lo frustrava, però, era che nell’arco di una misera manciata di ore la sua vita era riuscita a trasformarsi in un casino di proporzioni cosmiche.

Cacciatori di mostri. Come se non avesse già abbastanza carne al fuoco.

“Non avevo idea che esistessero dei cacciatori.”  

“È uno dei motivi per cui ti ho aiutato.” disse Derek, “Ti atteggi da figo e uomo vissuto, ma sei completamente ignaro della realtà che ti circonda, del mondo a cui appartieni. Dobbiamo ringraziare Deirdre per questo. La tua ignoranza oggi ti ha salvato, ma domani non avrai più scuse.”

“Ciò che mi dirai mi renderà un bersaglio?”

“Già. Ma riavvolgiamo un attimo il nastro. Ti dicevo che sono un cacciatore. Lo sono diventato ufficialmente pochi giorni fa, ad Halloween. Io, Gregory e Kevin abbiamo partecipato al rituale di iniziazione, che ha luogo al compimento dei sedici anni. Io li ho fatti il 29 ottobre, Gregory il 30 e Kevin il 31. Siamo stati investiti della carica di cacciatori come triade. Dal momento che siamo gli unici sedicenni nelle tre famiglie che abitano ad Ashwood Port, ai capi è parsa la scelta migliore. Così, abbiamo dovuto aspettare che Kevin compisse gli anni per officiare il rituale.”

“Cos’è una triade?”

“Un gruppo composto da tre persone.”

“Ah ah, quanto sei simpatico. Volevo dire, che significato ha per i cacciatori?”

“Essere un membro di una triade è… speciale. Come tutti sanno, il tre è un numero mistico, ogni elemento connesso all’altro tramite un legame inscindibile, che dà vita a una forma geometrica perfettamente bilanciata.”

“Uhm, non direi… cioè, non esiste solo il triangolo equilatero. C’è anche quello isoscele e quello scaleno…”

“Regan.”

“Scusa. Prego, continua.”

“Nel nostro caso, Gregory è la forza, Kevin la mente, mentre io rappresento la bussola morale. Il mio compito è mantenere l’equilibrio interno alla triade e indirizzare gli sforzi verso gli obiettivi che ritengo più validi. Senza di me, Gregory se ne andrebbe in giro ad accoltellare tutti i non-umani e Kevin si perderebbe nel suo stesso cervello.”

“Gregory è la freccia, Kevin è l’arco e tu sei il mirino.”

“Esatto. Ottima analogia.” 

“Quindi perché mi hai salvato? Se siete cacciatori di mostri, io rientro in quella categoria, anche se solo per metà.”

“Non approvavo la loro decisione.” rispose con una scrollata di spalle, come se fosse davvero così semplice.

“Di uccidermi in un luogo pubblico?”

“Di ucciderti proprio.” Derek chiuse gli occhi, sospirò e intrecciò le dita sulla tavola, “Ascolta, sappiamo che, tre anni fa, hai morso un ragazzino delle medie. Freddy Hawthorne, se non sbaglio. Lui ti ha attaccato e, in risposta al dolore e alla paura, la tua natura si è risvegliata. Però non lo hai prosciugato, ti sei fermato in tempo, e da quel giorno non hai più aggredito nessuno. A parte noi. Per legittima difesa. E ce ne hai date di santa ragione. Picchi duro, lo ammetto. Quello che cerco di dirti è che, dal mio punto di vista, non sei una minaccia. Bevi giusto le quattro dita di sangue al giorno che ti dà tua nonna, che equivalgono a un tozzo di pane per un vero vampiro! Insomma, non saresti un gran bel trofeo di caccia, se capisci cosa intendo. Là fuori ci sono molte creature più pericolose di te. Persino mia nonna è più pericolosa di te.”

“Come, prego? Io non sarei pericoloso?” borbottò offeso, poi scosse la testa e si concentrò sul dettaglio più importante, “Aspetta, conosci il mio segreto da due anni?!”

“Tre. Da quando tua nonna ti ritirò da scuola per ‘problemi di salute’. La signorina Burns, la nostra insegnante di arte, te la ricordi? Appartiene alla famiglia di Kevin, è una cugina di secondo grado. Fu lei a dare l’allarme. Quando tornasti, io, Gregory e Kevin venimmo trasferiti alla tua scuola per tenerti d’occhio. Il piano era osservarti da lontano e fare rapporto su ogni tuo spostamento, ma sai com’è Gregory. Il suo sangue di cacciatore ribolliva quando ti vedeva e lui, essendo un bambino, non riusciva a controllare i suoi istinti. La situazione degenerava puntualmente, e io e Kevin eravamo costretti a scendere in campo per limitare i danni e fungere da ancora per Gregory.”

Regan rimase in silenzio ad assimilare quelle informazioni. Una sconcertante sensazione di vulnerabilità pervadeva ogni fibra del suo animo.

Per tutto quel tempo era stato una preda senza la consapevolezza di esserlo. Aveva camminato con i paraocchi come il peggiore degli sprovveduti, sottovalutando e ignorando ripetutamente la verità. Aveva peccato di arroganza, la quale lo aveva reso cieco e sordo ai segnali posti con cura innanzi a lui. Avrebbe dovuto capirlo, o perlomeno intuirlo. Tutta quella violenza, apparentemente immotivata, tutto quel risentimento, l’ossessione, gli insulti, le percosse, l’odio che grondava dagli occhi di Gregory. Ora avevano senso. Ora vedeva.

“Come sai di me? Chi te lo ha detto?” gli domandò con un filo di voce.

L’espressione di Derek parve ammorbidirsi per una frazione di secondo, ma tornò severa e indecifrabile altrettanto velocemente.

“I cacciatori adulti. Hanno un fascicolo su di te, in cui viene più volte sottolineato che la tua esistenza è un enorme incidente.”

“Cosa?”

“L’ho letto qualche giorno fa. All’inizio mi avevano detto, ci avevano detto, che eri un ibrido di vampiro dalla nascita, ma non ci hanno mai spiegato come ciò fosse possibile. Ora so come è morta davvero tua madre.” gli sorrise amaro, quasi comprensivo, “Mi dispiace. Non è stata colpa tua, ha avuto solo una grande sfortuna. Non eri ancora uscito dal suo grembo quando il veleno dei vampiri è strisciato dentro al tuo corpo. Se non fosse stato per loro, saresti nato umano.”

Regan tamburellò le dita sulla tazza tiepida, assorto in profonde riflessioni. Quando risollevò lo sguardo, lo incatenò a quello calmo del biondo.

“Da quanto le vostre famiglie vivono ad Ashwood Port? E da quanto tempo sono cacciatori?”

“Da generazioni e… da generazioni.”

“Quante?”

“Un bel po’.”

“Non dirmelo. I processi alle streghe?”

“Personalmente, li avrei gestiti con un po’ più di segretezza, ma ai miei avi piaceva la teatralità.”

Regan boccheggiò, osservando come le labbra di Derek si piegarono in un sorriso sghembo. Sbuffò incredulo e si riallacciò all’argomento di cui voleva discutere, ci sarebbe stato tempo per parlare anche dei processi. Forse.

“Okay. E avete mai… insomma, dato che siete cacciatori esperti, avete mai capito chi… cioè…”

Nonostante i balbettii, Derek intuì subito cosa volesse chiedergli.

“Appena capirono chi c’era dietro, i miei genitori si offrirono volontari per la caccia. Pattugliarono la città in lungo e in largo per molti giorni. Purtroppo, però, non riuscirono mai a rintracciare gli assassini di tua madre. Quei vampiri lasciarono la città subito dopo l’omicidio. È stato un blitz mirato, Regan. Sono arrivati, hanno ucciso tua madre e se ne sono andati. È ovvio che avessero un mandante, o forse avevano una questione in sospeso con lei, questo non è chiaro. Ma non abbiamo mai scoperto niente, né i loro nomi né i motivi che li hanno spinti a stanare quella povera donna. Il delitto è ancora avvolto dal mistero.”

“E su mia madre? Avete trovato qualcosa su di lei?”

“No. Dai registri non risulta alcuna famiglia di provenienza, non aveva amici, né fidanzato o marito. L’unico contatto più stretto era Deirdre. Mi dispiace, vorrei poterti dire di più.”

“Ma prima! Prima che arrivasse ad Ashwood Port? Avrà pur dovuto avere una vita!”

“Sicuramente, ma non l’abbiamo trovata. Shannon Tally è comparsa ad Ashwood Port diciassette anni fa ed è stata assassinata nel suo appartamento quello successivo, durante il parto, da due vampiri. È tutto ciò che sappiamo.”

Regan si passò le mani fra i capelli e sospirò. Sebbene gli costasse uno sforzo enorme, accantonò la questione, rassegnato a non scoprire più nulla sulla sua madre biologica eccetto il suo nome. Lo incartò con cura, come se fosse stato un oggetto fragilissimo, e lo infilò nel caveau mentale in cui conservava i ricordi più preziosi.

“D’accordo, andiamo avanti. Cosa sai degli ibridi di vampiro?”

Derek accolse il nuovo argomento con un cenno d’assenso: “Siete una specie rarissima. Ciascuno di voi è unico nel suo genere, tanto che sarebbe impossibile raggrupparvi in una categoria. Lo si fa comunque, perché è più semplice così. Le sole cose che vi accomunano sono le circostanze accidentali relative alla vostra nascita, la sete di sangue e l’abilità di camminare sotto il sole. Il resto è soggetto a variazioni.”

“Non capisco.”

“Il concepimento di un ibrido può accadere in due modi: o come è successo con te, a seguito di un’aggressione ai danni di una donna incinta, oppure se un maschio umano, durante la fase di transizione, ha un rapporto sessuale non protetto con una donna umana nel suo periodo fertile. Entrambi vengono considerati incidenti.”

“Ehm… cioè?”

“I vampiri vengono creati attraverso il morso e il successivo scambio di sangue. Vale a dire che prima il vampiro morde l’umano, poi gli fa bere un po’ del suo sangue e, insieme, aspettano per ventiquattro ore che la trasformazione si completi. Il punto è che la generazione di un altro vampiro è sempre voluta da quello che dà il morso, pianificata. I vampiri che hanno attaccato tua madre, invece, intendevano ucciderla, non trasformarla. Ho letto che il suo corpo era pieno di ferite da difesa. Suppongo che, nella lotta, un po’ del loro sangue sia finito in circolo nel corpo di Shannon. A causa delle ferite, lei non è sopravvissuta, ma tu sì. Il sangue di vampiro è entrato in te, rendendoti un ibrido.”

“Quindi non si può creare un ibrido da un adulto.”

“Esatto. Esso deve formarsi nel grembo materno, altrimenti non funziona. Su questo non ci sono dubbi, perché i cacciatori hanno studiato il fenomeno da vicino…” la sua voce si smorzò verso la fine della frase e i suoi occhi lasciarono trapelare un barlume di disgusto.

“Hanno compiuto degli esperimenti, vero?”

“Sì.”

“Okay. E un ibrido può creare altri vampiri?”

“Non ci risulta.”

“D’accordo. Hai detto che esistono vari tipi di ibridi di vampiro. Io a quale appartengo?”

“Non so se lo sai, ma i vampiri posseggono un’ampia gamma di abilità. Per capire a quale grado appartieni, sarebbe più facile se mi elencassi le tue.”

“A-ha. Certo.”

“Non voglio conoscerle per ucciderti.” ripeté paziente, “Ho solo bisogno della tua collaborazione per comprendere cosa devo aspettarmi da te in futuro. Sai come si dice: conosci il tuo nemico, eccetera.”

“Ora ti metti a citare L’arte della guerra? Mi stai spedendo messaggi confusi.”

“Per favore, Regan. Prometto che sarò onesto con te, ma solo se tu lo sarai con me.”

Il moro sbuffò e incrociò le braccia sul petto: “Mi nutro di sangue e cibo umano. Mi rifletto negli specchi, le croci non mi fanno effetto e posso camminare tranquillamente su terreno consacrato. Non so trasformarmi in pipistrello, lupo o qualsivoglia creatura animale, né in nebbia. Per quanto riguarda le mie abilità, di recente ho scoperto il controllo mentale.”

“E per quanto riguarda le tue debolezze?”

“A cosa sono vulnerabili i vampiri, oltre alla luce del sole e ai simboli sacri?”

“All’aglio.”

“A-ha.”

“Okay. Come ringraziamento ti svelerò un segreto: la storia delle croci, del terreno consacrato e della metamorfosi in animali o nebbia è una balla. Presumo l’abbiano messa in giro i vampiri per prendersi gioco degli umani.”

“Vedi? Ne sai più tu di me, quindi parla.”

“Okay, calmati! Dunque… non vorrei offenderti, ma, se ciò che dici è vero, allora rientri nel rango più basso della gerarchia degli ibridi.”

“Significa che sono uno sfigato?”

“Beh… sì.”

“Considerami offeso.”

“È una buona cosa, invece. Sei praticamente innocuo. Ecco perché i cacciatori non ti hanno mai fatto del male. È legittimo volerti tenere d’occhio, però da qui a ritenerti una grave minaccia ce ne vuole. L’unica cosa che ti consiglio è di stare attento a non esagerare con il controllo mentale. Ti direi di smetterla del tutto, ma so che non mi ascolteresti.”

“È divertente.”

“Lo immagino.”

“Gli altri ibridi cosa sanno fare?”

“Alcuni maneggiano gli elementi, altri possiedono la telecinesi, altri ancora la telepatia… cose così.”

“Che figo…” esalò sognante.

Si trattenne dal porgli ulteriori quesiti solo perché sapeva che non avrebbe ricevuto una risposta esaustiva, non adesso. Derek era rimasto sul vago apposta per fargli realizzare di stare danzando sul palmo della sua mano. Era lui a tenere le redini della partita, a decidere cosa dirgli e quando.

Anche se una parte di lui scalpitava per insegnare a Derek una cosa o due sulla piramide di comando, Regan non si sarebbe ribellato, non subito. D’altronde, mirava ad ottenere la sua fiducia, al fine di spremerlo come un limone al momento opportuno. Non ci sarebbe mai riuscito se non avesse giocato secondo le regole del cacciatore. Fingere docilità e compiacenza era un sacrificio necessario.

“Okay, altra domanda: come è nato il primo cacciatore? È successo tipo come con Buffy, con tre tizi africani dall’aria losca che hanno infilato un demone nel corpo di un altro tizio a caso?”

“No, Regan, nessun tizio africano dall’aria losca. I cacciatori sono umani con abilità speciali. Il primo cacciatore, che visse ai tempi dei vichinghi, fece un patto con un dio per liberare il suo villaggio da un covo di vampiri. Il dio diede all’uomo la forza per sconfiggerli e, in cambio, pretese che i maschi della sua discendenza seguissero il suo stesso cammino. L’uomo accettò e così nacque la stirpe dei cacciatori, guerrieri temibili immuni alla maggior parte degli incantesimi o dei morsi di creature soprannaturali.”

“Ecco perché il mio controllo mentale non ha funzionato con Gregory…”

“Cento punti a Grifondoro!”

“Sono un Corvonero.” protestò oltraggiato.

“Chiedo venia. Tornando ai cacciatori, hai mai sentito parlare dei Berserker?”

“Ho letto su un libro che erano guerrieri che riuscivano a incanalare la forza e la sete di sangue di un animale, spesso un lupo o un orso, indossandone le pelli e, nel processo, perdevano la loro umanità.” recitò a memoria, “Che dio era quello che ha accordato i suoi favori all’uomo?”

“La nostra storiografia cita spesso il dio Lòðurr. Per alcuni era uno dei tanti nomi del dio Loki, mentre per altri è una divinità a sé.”

“Oh! Ora ho capito! La leggenda dei Berserker ha avuto origine dal primo cacciatore!” realizzò, “Questo spiega la vostra forza… cioè, prima, quando mi sono battuto con Gregory e Kevin, mi sono sembrati parecchio più forti. Non erano mai riusciti a mandarmi al tappeto.”

“Il rituale a cui abbiamo partecipato ha proprio lo scopo di risvegliare il nostro istinto di cacciatori. L’istinto è latente sino ai sedici anni, poi, durante il rituale, viene portato alla luce. Il risultato è l’aumento della prestanza fisica, abbastanza da tenere testa a una creatura soprannaturale, e dell’intelletto, in modo da avere la meglio su quelle più scaltre. Essendo noi una triade, le doti del cacciatore si sono divise in tre. Non fraintendere, tutti siamo più forti e intelligenti rispetto a prima, ma è Gregory ad aver ereditato la vera forza del cacciatore. Kevin gode di un QI superiore alla media e io ho acquisito grandi capacità di discernimento.”

“E un vocabolario più ricco.”

“Ci tengo ad informarti che lo è sempre stato. Solo che non l’ho mai usato.”

“Perché? Eri timido?”

“Dovevo mantenere un profilo basso. Conosci la solfa: puntare a una media scolastica modesta, circondarmi di conoscenti piuttosto che amici, tentare di non spiccare in mezzo alla folla, eccetera.”

“Infatti sono stato così bravo che ho attirato l’attenzione di non uno, ma ben sette bulli. Prima Freddy e la sua gang e poi voi tre.”

“Sai, se non fossi metà vampiro, avrei cercato di diventare tuo amico il primo giorno in cui ti ho visto.”

“Non siamo amici, adesso?” domandò, facendogli gli occhioni dolci e piegando le labbra in un tenero broncio.

“Se righerai dritto, come hai fatto finora, forse potremmo gettare le basi per un’amicizia.”

“Sarò un perfetto boy-scout.”

“Chissà perché, ma ho i miei dubbi…”

Regan prese un sorso di tè. Quando il liquido freddo gli scese in gola, storse le labbra in una smorfia. Posò la tazza, intrecciò le dita sul tavolo e squadrò il biondo con espressione seria.

“Derek, perché mi hai salvato oggi?”

“Te l’ho detto. Non approvavo la decisione dei miei due compagni.”

“Hanno tentato di uccidermi!” sibilò tra i denti.

“Lo so, ho visto.”

“Spiegami. Dici che sono innocuo, che i cacciatori per intero mi reputano innocuo. Perché Gregory e Kevin volevamo farmi a fettine, allora?”

“Gregory ha una personalità molto forte, dominante. Se non resti vigile, ti risucchia nel suo fanatismo e sete di caccia. Tra me e Kevin, lui è sempre stato quello più soggetto a piegarsi alla volontà di Gregory. Non è Kevin, ma Gregory a volerti morto. Ti porta parecchio rancore per tutte le volte che lo hai battuto.”

“E se fosse riuscito nell’impresa, cosa sarebbe successo?”

“Niente. È questo il problema. Non sarebbe successo assolutamente niente. Per i cacciatori non sei una minaccia, ma sei comunque un mostro. Se muori, ottimo, un mostro in meno. Nessuno ti piangerebbe.”

“E tu?”

Derek sorrise enigmatico e scrollò una spalla.

“Cosa ti accadrà, adesso? Insomma, hai atterrato i tuoi due compagni per salvare un mostro. Di sicuro, non la passerai liscia.”

Derek sospirò, annuendo con solennità: “Credo che mi aspetti una punizione esemplare. Vedi, la nostra legge recita chiaramente che nessuna creatura soprannaturale deve sopravvivere all’incontro con un cacciatore. Se ciò avvenisse, la creatura continuerebbe l’ignobile caccia agli innocenti.”

“Ma non tutte le creature soprannaturali sono cattive.”

“Ai cacciatori non importa. Ci insegnano che noi serviamo le forze del bene, i non-umani quelle del male. Bianco e nero. Luce e oscurità. Ma io penso che non sia affatto così semplice. Esistono le sfumature di grigio, esiste la penombra. Negarle non porterebbe a niente di buono, solo a commettere errori. Uccidere te sarebbe un errore. A maggior ragione in questo periodo, mentre hai le spalle coperte non solo da mezza scuola, ma in particolare da quelli che contano, i popolari. La tua morte solleverebbe un polverone.”

“Li ho soggiogati.”

“Lo aveva capito.”

“Se mi uccidi, è probabile che l’ipnosi li abbandoni.” suggerì con voce priva di inflessione, “Li libereresti dalla mia influenza una volta per tutte. Non è tuo compito proteggere gli innocenti?”

“Regan, siamo onesti. Li stai solo usando per farti un nome e degli amici, perché sei triste, depresso e annoiato. Comprendo il tuo desiderio di ampliare gli orizzonti. Non approvo il metodo, ma, nel tuo caso, ho deciso di fare un’eccezione. Infatti, se non fosse per il soggiogamento, saresti ancora solo come un cane. Sei tremendamente incapace quando si tratta di socializzare con il prossimo. Non dico che sei uno sfigato a tutto tondo, ma… sei uno sfigato.”

“Stronzo.”

“Ecco, vedi? Ti ho salvato, ti sto offrendo tutte le risposte che vuoi, e in cambio ricevo insulti.”

“Ci sto lavorando.” borbottò imbronciato.

“Lo so. Però ti ripeto di non esagerare. Il libero arbitrio è un dono. Pensa a come ti sentiresti se qualcuno te lo portasse via.”

“Non sto facendo niente di male! Non chiedo favori, soldi, niente! Non mi sto approfittando di loro più di tanto, li uso semplicemente per brillare della loro luce riflessa. E pomiciare con le ragazze di nascosto…”

Derek scoppiò a ridere e, come per magia, la tensione attorno a lui si sciolse.

“Ah, sì. Le ragazze.” ghignò sornione, “Mi chiedevo quando avresti cominciato a interessarti all’altro sesso come un comune adolescente.”

“Scusami?”

“Beh, per anni hai fatto l’asceta. A un certo punto, ho creduto che fossi asessuato. Lieto di essermi sbagliato.”

“Mi sono mancate le occasioni e le persone con cui sperimentare. Ora posso finalmente dichiarare senza margine di dubbio che pomiciare è bello.”

“Sì sì, ma se vuoi passare alla fase successiva, ti raccomando di liberarle dal tuo controllo, così potrai ricevere un consenso genuino. Altrimenti, è stupro.”

“Lo so, non sono un mostro! Cioè, non quel tipo di mostro.”

“Mi fa piacere sentirlo.” disse Derek, poi assunse un’espressione indecifrabile, “Regan, perché tutto a un tratto ti comporti in modo tanto amichevole con me?”

“Beh…” Regan si grattò il mento e scrollò una spalla, “Ho appena scoperto di essere un bersaglio, perciò… sai com’è. Ti credo quando affermi che non mi consideri una minaccia, e intendo convincerti a restare di questa opinione il più a lungo possibile. Avere dalla mia parte un cacciatore potrebbe rivelarsi utile. In questo modo, eviterò di incappare in un sacco di problemi.”

“D’accordo, ma sento che c’è dell’altro.”

“Hai anche tu poteri psichici?”

“Intuito del cacciatore. Smettila di tergiversare e parla.”

“Diciamo che oggi mi hai colpito. Hai dato prova di essere un tipo che non si limita alle chiacchiere, in caso di necessità. Se Gregory, Kevin o qualcun altro tentasse di spedirmi tre metri sottoterra, tu non esiteresti a intervenire in mia difesa. Sono un mostro, ma non ho scelto io di nascere così e le mie mani sono immacolate. In sostanza, non permetterai a nessuno di torcermi un capello, perché possiedi un senso di giustizia molto sviluppato.” concluse con un sorriso innocente e tamburellò le mani sul tavolo.

Derek assottigliò le palpebre, sospettoso: “Ciò implica un atto di fiducia. Credi che non ti attaccherò alle spalle?”

“Non ti sto dando solo la mia, di fiducia. Nel pacchetto è inclusa anche quella di mia nonna. Tengo a lei più di chiunque altro. Affidare a te la sua sicurezza è un giuramento di fedeltà. Proteggici e io combatterò per te, se ne avrai bisogno.”

“Sono parole impressionanti, Regan, ma non scordare che sono un cacciatore. Il mio istinto mi suggerisce di non credere a ciò che esce dalla tua bocca, non importa quanto lusinghiero suoni alle mie orecchie. Mi occorrono prove tangibili.”

“E come speri di ottenerle?”

“Ti offrirò una chance per dimostrare la tua sincerità.”

“Un test?”

“Più o meno. Utilizzerò il mio talento per capire se menti.”

“Fatti sotto.”

Derek si sporse sul tavolo, improvvisamente serio, e, trafiggendolo con uno sguardo da predatore, domandò: “Che ne hai fatto dei corpi di Teresa e Timothy?”

“Corpi? Hanno trovato i corpi? Quando? Dove? In che stato erano? Perché non ce li hanno ancora mandati per prepararli per il funerale?”

“Sai che sono morti, dunque.”

“Non so cosa gli sia successo, ma qualcosa mi dice che non si stanno facendo le trecce a vicenda su un prato fiorito. Non sei l’unico con un istinto. Il mio è certo che sono morti.” si interruppe e lo fissò a sua volta, “Non sono stato io, se è questo che vuoi sapere.”

“Dove eri la notte che Teresa è scomparsa?”

“Qui, a casa.”

“Testimoni?”

“Ero solo… con il gatto.”

“E la notte in cui è sparito Timothy?”

“Stavo tornando a casa da solo, dopo aver trascorso il pomeriggio con Roman.”

“Uhm.”

“Non sono stato io, lo giuro.”

“Ti credo. Però c’è qualcos’altro che mi stai nascondendo. Per caso sai chi è stato?”

La successiva esitazione di Regan bastò a provocare la reazione istantanea di Derek. Si lanciò su di lui salendo sul tavolo, lo afferrò per il bavero della felpa e avvicinò il viso fino a far sfiorare i loro nasi. Fu un miracolo se le tazze non si sfracellarono al suolo.

“Sei complice del colpevole?” sibilò minaccioso.

“No! Non c’entro niente!”

“Ma sai chi è stato.”

“Ho una teoria.”

“Parla.”

“Un demone.”

Appena articolò quelle due parole, Derek sgranò gli occhi e allentò la presa sui suoi vestiti.

“Come sei giunto a questa conclusione?”

“Sono stato attaccato in camera mia la notte di Halloween, quando sono rientrato dalla festa.”

Derek si sedette a gambe incrociate sul tavolo e gli ordinò di raccontargli tutto. Regan lo fece, arricchendo la storia di dettagli per far sì che il biondo non si accorgesse che ne stava volutamente tralasciando altri, come ad esempio gli incubi con i sibili, le visioni, i moniti dei fantasmi e la musica orientale. Tacque anche sulla sua presenza davanti alla casa di Timothy la notte in cui era scomparso e sulle reazioni che la vicinanza del demone gli suscitava.

“Come hai fatto a sfuggirgli? Cioè, ti sei divincolato dalla morsa in cui ti aveva imprigionato e… cosa? Come?”

“Grazie alla mia forza soprannaturale? Non lo so! È stato spaventoso. È in quel momento che ho iniziato a pensare a un demone.”

“Bugia!” abbaiò Derek, tornando a strattonarlo per il colletto della felpa.

“Avevo già i miei sospetti, d’accordo. Ma è stato allora che hanno trovato conferma. Va meglio così?” sbottò scocciato.

Derek lo lasciò e si mise a riflettere.

Regan approfittò della pausa per rimuginare sulle prossime mosse. Doveva procedere con cautela, cercare di evitare le menzogne o almeno imparare come danzarci attorno. Derek non era la persona giusta da inimicarsi. Sarebbe stato più saggio tenerselo stretto, anche se ciò avrebbe comportato darsi ai sotterfugi o, alla peggio, accettare dei sacrifici.

“Un demone. Okay. Posso farcela.” mormorò Derek.

“Hai intenzione di occupartene senza alcun aiuto?”

“Ti stai offrendo?”

“Sì. Non mi piace che un demone se ne vada a zonzo per la città. E poi mi ha attaccato! Chi mi dice che non ci riproverà?”

“Mmm… d’accordo. Ma faremo a modo mio.”

“Agli ordini, boss.” rispose con il saluto militare, per poi riscuotersi e indicarlo con un dito, “Non mi hai più detto cosa ti faranno i cacciatori, adesso che hai infranto la loro legge. Che genere di punizione ti aspetta?”

“Beh, ho tradito il codice. I cacciatori tendono a fare brutte cose ai traditori. In sostanza, sono nella merda. E qui entri in ballo tu.”

“Io?”

“Dal momento che ti ho salvato la vita, il minimo che tu possa fare per sdebitarti è darmi un letto su cui dormire finché le acque non si calmeranno.”

“Che?! Vuoi venire a vivere qui? Con me? Sotto il mio stesso tetto? Non se ne parla.”

“Decidi: o mi ospiti o mi terrò alla larga quando Gregory e Kevin torneranno alla carica.”

“Questo è un ricatto!” lo accusò.

“Lo è. Allora, cosa scegli?”

“Fottiti.” sputò e incrociò le braccia sul petto, “Abbiamo una camera vuota, di sopra, che usiamo come sgabuzzino. Dovrebbe esserci una branda in mezzo alla valanga di ciarpame polveroso. Prendere o lasciare.”

“Accetto. Vado a recuperare il borsone in macchina.”

“Aspetta, come faremo con la scuola? E se ti rapiscono mentre sei con me? E se rapiscono anche me? E se mi fanno fuori?”

“Se mi prenderanno, dirò che ti ho convinto a fidarti di me e ospitarmi a casa tua per osservarti più da vicino, in modo da impedirti di fare del male a degli ignari innocenti. Inoltre, mi avvarrò della tua collaborazione per stanare un demone, usandoti come esca. Non saresti utile a nessuno da morto.” disse, esibendo un ghigno furbo.

“Okay.”

“Torno subito.”

Regan lo guardò trotterellare fuori. Appena la porta si chiuse dietro di lui, esalò un sospiro esausto. Doveva rivedere i suoi piani per l’ennesima volta.

Avere Derek con il fiato sul collo avrebbe ridotto drasticamente la propria libertà. Per di più, non sapeva come avrebbe reagito Deirdre alla notizia. Poteva spiattellarle la verità, oppure Derek gli avrebbe ordinato di tenere la bocca sigillata? La prima opzione avrebbe risparmiato a tutti un sacco di ansie e grattacapi, ma se Derek desiderava mantenere la segretezza non c’era molto che Regan potesse fare, oltre a prepararsi una lista di frottole plausibili.

Il biondo rientrò un minuto più tardi con un borsone in spalla. Regan lo condusse di sopra con uno sbuffo rassegnato. Trascorsero il resto del pomeriggio a ripulire la stanza e accatastare vecchi mobili, sedie e scatoloni in soffitta per liberare lo spazio. Poi stesero la branda e Regan gli fornì un cuscino e lenzuola pulite.

“Regole della casa: uno, c’è un solo bagno, quindi ci saranno dei turni: due, non si prende cibo dal frigo senza permesso; tre, è vietato scendere nel seminterrato, sia mentre mia nonna lavora sia quando non c’è. Io posso, ovviamente, perché spesso mi capita di aiutarla, ma tu non dovrai mai metterci piede, chiaro?” elencò, sollevando un dito ad ogni nuova regola.

“Cristallino.”

“Quattro, non si molesta il gatto, è molto sensibile. E permaloso. Cinque, non si dà da mangiare al gatto dalla tavola, anche se lui tenterà di sgraffignare qualcosa dal tuo piatto, se non stai attento. Sei, non si giudicano i gusti musicali miei o di mia nonna. Sette, non si disturba la quiete del vicinato con la musica alta. Otto, se sporchi pulisci. Nove, se rompi paghi. E dieci, vige il silenzio dalle undici di sera fino alle sei di mattina. Domande?”

“Come faccio per il bucato?”

“Ti metterai d’accordo con mia nonna. E la chiamerai signora McLaughlin, non Deirdre. Se mi verrà in mente qualcos’altro, te lo dirò.”

“Ho un’altra domanda. Non c’entra nulla con la sistemazione.”

Regan sospirò e con un cenno lo esortò a parlare.

“A cosa serve la collana che indossi?”

“A proteggermi dagli effetti di un amuleto che dovrebbe proteggermi dal demone.”

“Okay.” rispose, anche se era evidente che non avesse capito.

In quel momento, entrambi udirono la chiave girare nella serratura della porta d’ingresso e la voce di Deirdre che canticchiava un brano di Frank Sinatra fuori tempo.

“Ci siamo. Ora andiamo di sotto e ti presento.” bisbigliò nervoso Regan.

“Puoi dirle la verità, non è un problema.” lo informò Derek, quasi leggendogli nel pensiero.

Regan annuì sollevato e scese di nuovo le scale, seguito da Derek. Trovarono la donna in cucina, intenta a riporre la spesa nel frigo.

“Nonna, abbiamo ospiti.”

“Chi è morto?!” esclamò, girando su se stessa per fronteggiare il nipote.

“Non quel genere di ospiti.” borbottò roteando gli occhi, “Lui è Derek, un mio compagno di scuola e cacciatore di mostri. Derek, ti presento mia nonna, Deirdre McLaughlin.”

“Piacere di conoscerla, signora McLaughlin.” disse Derek con un sorriso cordiale.

Deirdre boccheggiò per una manciata di secondi, squadrandolo come se fosse un alieno.

“Come, prego? Puoi ripetere?”

“Quale parte?”

“Quella del cacciatore di mostri.”

“Derek è un cacciatore di mostri.”

“In senso figurato o letterale?”

“Esiste un senso figurato?”

“Sono un cacciatore di creature soprannaturali, signora.” intervenne Derek.

Deirdre passò da scioccata a furiosa nell’arco in uno schiocco di dita.

“Che cosa ci fai in casa mia?! Fuori! Quelli come te non sono i benvenuti!” gridò e corse verso il nipote, prendendogli il viso tra le mani per appurare che non fosse ferito, “Stai bene? Che cosa ti ha fatto? Perché è qui?”

“Calmati, è tutto a posto. Se ti siedi, risponderemo alle tue domande.”

“Ma questo è sangue!” sbottò dopo aver annusato i vestiti di Regan, “È stato lui?”

“No, lui mi ha salvato.”

“Eh?”

“Siediti.”

Deirdre obbedì, anche se non smise di guardare Derek in cagnesco. I due ragazzi le riassunsero gli eventi che li avevano condotti a quel punto, riempiendo uno le lacune nel racconto dell’altro, finché non le dipinsero il quadro completo. Quando tacquero, Deirdre era a un passo dall’esplodere come una supernova.

“Leprotto, puoi venire un attimo di là con me? Vorrei parlarti in privato.”

Era un ordine mascherato da gentile richiesta, perciò Regan non poté che assentire. La seguì in salotto e Deirdre chiuse dietro di loro le porte a scrigno, isolandoli almeno un po’ da orecchie indiscrete.

“Sei impazzito?!” strillò subito dopo, rendendo inutili le precauzioni che aveva preso per mantenere la privacy.

“Non è colpa mia. Non mi ha dato alternative.” si difese Regan.

“Ospitare un cacciatore è stupido! È come invitare a cena il tuo assassino!”

“Mi ha salvato, glielo devo.”

“Non gli devi niente! Lui ha fatto la sua scelta, ora sono affari suoi.”

“E se Gregory e Kevin tentassero di nuovo di farmi secco? Sono arrivati a tanto così, nonna! Tanto così.” ripeté, avvicinando pollice e indice fin quasi a farli toccare, “Se non fosse stato per Derek, io adesso non sarei qui a urlarti in faccia!”

“D’accordo.” sospirò sconfitta, lisciandosi con le mani le ciocche rosse che erano sfuggite alla crocchia, “D’accordo. Quanto dovrebbe restare?”

“Ah. Ehm… fino a data da definirsi…?”

“Sei impazzito?!”

“Hai altre opzioni?!” rilanciò Regan, usando lo stesso tono di voce isterico della donna.

“No, ma ciò non significa che sia contenta. Perché non lo sono. Sono furiosa. E non mi fido di quel biondino!”

“Si chiama Derek.”

“Chi se ne frega di come si chiama!” strepitò, “Non pensi a cosa potrebbe succedere se i suoi amici cacciatori dovessero venire qui a riprenderselo? Anzi, non devono per forza suonare il campanello: possono tranquillamente rapirti o ucciderti nel tragitto scuola-casa! La sua presenza disegnerà un bersaglio sulla tua schiena.”

“Ho già un bersaglio sulla schiena, ed è bello grosso. Almeno, con Derek dalla mia parte, ho qualche chance di sopravvivere. E poi, perdona la domanda: come mai non mi hai mai parlato dell’esistenza dei cacciatori?”

“Non l’ho mai ritenuto necessario…”

“Ci sono ben tre famiglie ad Ashwood Port. Mi avrebbe fatto comodo saperlo.”

“Non lo sapevo.” ammise e distolse lo sguardo.

“Non lo sapevi? Vivi qui da più di vent’anni e non lo sapevi?” borbottò incredulo.

“Non ho mai dovuto preoccuparmi, io! Non sono una strega! Sono al cento percento umana, anche se sono nata in una congrega. Sì, conosco dei trucchetti e sono più ricettiva al soprannaturale – se mi impegno, posso percepire la magia che mi circonda – ma non ho mai avuto dei poteri. Non ho mai dovuto guardarmi le spalle.”

“E non ti è venuto in mente di cominciare a farlo, quando mi hai adottato?”

“Ero occupata a crescerti!”

“Ah!” esalò esasperato, alzando le braccia al cielo per annunciare ufficialmente all’universo che ne aveva avuto abbastanza, “Derek resterà, fine della discussione. Preferisco averlo come alleato che come nemico. E poi mi aiuterà con la faccenda del demone, quindi mi conviene averlo intorno. Fattelo piacere, ormai ho deciso.”

“Regan!”

“Regan si è rotto le scatole!” berciò e, ignorando il verso scioccato di Deirdre, riaprì la porta del salotto per tornare in cucina da Derek, “Perdona le urla, è così che io e mia nonna comunichiamo.” si scusò con un sorriso tirato.

Deirdre marciò nella stanza, superò il nipote e si fermò davanti a Derek. Era più bassa di lui di circa trenta centimetri, ma l’aura minacciosa che irradiava la faceva apparire enorme. Il biondo, per un attimo, si sentì schiacciare.

“Se proverai a fare del male a Regan, ecco cosa ti farò: ti somministrerò un potente sedativo, ti trascinerò nella stanza delle imbalsamazioni e ti farò un’autopsia mentre sei ancora vivo. Estrarrò gli organi dal tuo corpo inerte uno dopo l’altro. Per un po’ ti ascolterò strillare, poi ti cucirò le labbra con il filo che uso per le suture. Ti terrò in vita affinché tu possa ammirare le mie mani scavare nelle tue budella per fare spazio ai vermi. Poi ti ricucirò e aspetterò che le larve diventino mosche, le quali, ormai mature, usciranno a sciami da tutti i tuoi orifizi, tranne la bocca. Solo allora farò a pezzi il tuo corpo con un seghetto per buttarlo nell’inceneritore. Sono stata chiara?”

Derek deglutì, pallido come un fantasma: “Sì, signora.”

Pure Regan si scoprì assai impressionato dall’inventiva della nonna.

“Bene. Regan, va’ a farti una doccia e cambiati i vestiti, tra poco arriva Hillary.”

“Okay.”

“Tu, cacciatore, mi aiuterai a preparare la cena per la mia amica.” decretò, fissando Derek dritto negli occhi, “Hillary è lo sceriffo e la madrina di Regan. Non sa niente di vampiri, cacciatori, streghe e quant’altro. Perciò, comportati bene.”

“Sì, signora.”

Poe comparve ai piedi di Deirdre in quel preciso istante, sbucando da chissà dove. Si strusciò sui suoi stinchi e fece le fusa, snobbando deliberatamente il biondo. Derek si accucciò e fece per accarezzarlo, ma la voce di Deirdre lo gelò prima che potesse sollevare la mano.

“E non si tocca il gatto. Non sei di famiglia.”

“Sì, signora.”

Mentre saliva le scale, Regan soffocò una risata. Si recò in bagno per farsi una doccia e lavarsi via di dosso il sangue rappreso, poi si rivestì con un paio di jeans e una felpa.

Una volta in camera, decise di dare una sistemata. Raccolse i panni sporchi dal pavimento e li gettò nel catino dentro l’armadio, ripiegò quelli puliti e li ripose nei cassetti. Infine, mise ordine sulla scrivania, facendo sparire gli appunti che aveva scarabocchiato a proposito del demone. Derek non doveva sapere dei suoi incubi o altri dettagli sul caso. Anzi, doveva pensare che partisse da zero, così che Regan potesse essere sempre un passo avanti a lui.

Si passò le mani fra i capelli ed esalò un sospiro esausto. La sua vita era diventata un disastro ambulante senza il suo consenso e adesso pretendeva un dannato rimborso.

 
*

Hillary arrivò alle sette, puntuale come un orologio svizzero. Indossava dei semplici jeans, una camicetta bianca e un maglione color panna. I suoi capelli biondi erano sciolti sulle spalle e si era addirittura messa un filo di trucco.

“Sei uno schianto, zia Hillary.” l’accolse Regan sulla porta, “Vieni, dammi pure il cappotto.”

“Adulatore.”

Hillary salutò con calore Deirdre e Regan, ma si mostrò indecisa quando gli venne presentato Derek. Scoccò un’occhiata a Deirdre. Quando in cambio ricevette un sorriso, si rilassò.

“Che c’è per cena? Sto morendo di fame.”

“Spaghetti alla carbonara e pasticcio di funghi con contorno di fagiolini lessi. Per dessert, ho comprato una crostata di more. Devi scusarmi, ma non ho avuto tempo di prepararla io stessa, è stata una giornata pesante.”

“A chi lo dici! Non preoccuparti, davvero, va benissimo. Anzi, scusa se non ti ho portato nulla. in questo periodo ho la testa da un’altra parte.”

Deirdre si sedette a capotavola, Hillary di fronte a lei, Regan e Derek ai lati opposti. Deirdre servì la pasta ad Hillary, poi passò la zuppiera al nipote, che la diede a Derek, che la restituì alla padrona di casa.

La conversazione tardò a decollare, più che altro a causa della presenza del biondo. Hillary, normalmente, si sarebbe già lanciata a narrare aneddoti di lavoro, ma non se la sentiva di parlare di quelle cose davanti a un estraneo. Così rimasero su argomenti superficiali, come la scuola, la festa di Halloween e i progetti per Natale.

“Allora, Derek.” disse Hillary non appena Deirdre servì loro la crostata, “È la prima volta che Regan invita un amico a casa. Ammetto di essere ancora un po’ sconvolta. Temo che l’Apocalisse sia imminente.”

Regan sbuffò divertito: “Non esagerare.”

“Vi siete conosciuti quest’anno?” continuò Hillary, tutta la sua attenzione concentrata su Derek.

Il moro quasi arrossì avvertendo le vibrazioni protettive emanate dalla donna.

“No, ci conosciamo dalle medie, però non ci eravamo mai rivolti la parola prima di quest’anno.”

“Cosa vi ha fatti avvicinare?”

“Frequentiamo qualche corso insieme.”

“Capisco. Perdonami, non ricordo come fai di cognome.”

“Sullivan.”

“Sei per caso il figlio di Augustus?”

“Sì, signora. Lo conosce?”

“Mio padre è stato il suo mentore.”

“Mentore?” indagò Regan.

“Il padre di Derek, Augustus Sullivan, è il proprietario del negozio di armi in centro. Mio padre gli insegnò a sparare al poligono. Diceva sempre che era il suo allievo più promettente.” spiegò Hillary, “Peccato che alla fine non sia entrato in polizia.”

“Zimmermann… ma certo!” esclamò Derek.

“Hai sentito parlare di me?” chiese Hillary.

“Sei lo sceriffo, tutti dovrebbero sentir parlare di te.” commentò Regan.

“Adulatore.” sillabò lei con le labbra e gli fece l’occhiolino.

“Mio padre menziona ancora questo nome qualche volta, quando parla di armi.”

“Beh, salutami Augustus. È un po’ che non lo vedo.”

“Sì, signora.”

“Hillary, vuoi un’altra fetta di crostata?” le domandò Deirdre.

“No, grazie, sono piena.”

“D’accordo. Allora spostiamoci in salotto mentre Regan lava i piatti.”

“Lo faccio io, per scusarmi del disturbo.” si offrì Derek.

“No, caro, è il turno di Regan. E poi tu sei un ospite.” rifiutò Deirdre con un sorriso affettato, “Vieni con noi di là a chiacchierare un altro po’. Regan, qui ci pensi tu?”

“Come desidera la mia regina.” scherzò lui, profondendosi in un inchino.

“Ottimo. Oh, Hillary? Per favore, lascia il cellulare qui e mettilo in silenzioso. È il tuo giorno libero e non accetto interruzioni. È tanto che non godo della tua compagnia. Non voglio che quel dannato aggeggio ci rovini la serata.”

Regan protese la mano: “Dallo pure a me, lo proteggerò a costo della vita.”

Hillary obbedì e glielo consegnò con un’occhiata eloquente. Dopodiché, lei, Deirdre e Derek si ritirarono in salotto, chiudendo la porta a scrigno.

Regan iniziò subito a radunare i piatti con una mano sola. Con l’altra, invece, scorse velocemente le foto dei documenti relativi al caso di Teresa e Timothy sul cellulare della poliziotta. Notò che Hillary aveva fotografato pure i suoi appunti personali, vergati con una calligrafia ordinata e tondeggiante. Lesse le testimonianze, cercando di memorizzare nomi e date. A un primo esame, non trovò alcun collegamento.

Fece una pausa per posare i piatti nell’acquaio, aprire il rubinetto e versare il sapone sulla spugna.

Focalizzando di nuovo l’attenzione sugli appunti di Hillary, vide che aveva ricostruito gli spostamenti delle vittime fino a due settimane prima della scomparsa. Un particolare risvegliò la sua curiosità. Infatti, sia Teresa che Timothy avevano subito una perdita esattamente sette giorni prima di sparire: lei aveva seppellito il cugino, Matthew Doyle, lui il cane, Russel. Al che, gli sovvenne della filastrocca del fantasma.

Un amico fedele il suo caro lasciò
L’agnello pianse e, solo, disperò
L’ombra affamata pure lui mangiò.
 
Possibile che si riferisse a Timothy? Possibile che il fantasma avesse tentato di fornirgli un indizio sulla seconda vittima? Il cane poteva essere l’amico fedele, l’agnello il bambino. L’ombra era il demone.

Che esso andasse a caccia di persone in lutto? Se sì, allora perché non prendere tutta la famiglia di Teresa e Timothy e i loro amici? Se il lutto era condiviso da più persone, il demone avrebbe dovuto cibarsi pure di loro. Invece, aveva preso soltanto Teresa e Timothy. Magari non poteva cibarsi di più di un membro della stessa famiglia. No, era stupido. O forse quei due avevano pianto più degli altri, ed era stato proprio quel profondo cordoglio ad attirare il demone. Probabile.

Hillary aveva cerchiato una frase negli appunti: “T.M. e T.B. centro commerciale ogni domenica, ristorante di pesce sul molo ogni sabato, mostra Fond. Sthenos”. Le ultime due parole erano sottolineate in rosso e sopra era stato scarabocchiato il numero sette. Cioè? Entrambi erano andati a visitare la mostra alla Fondazione Sthenos alle sette di sera? Sette ore prima di scomparire? Sette giorni? Non si poteva parlare di altrettante settimane o mesi perché la mostra aveva aperto a fine agosto. O meglio, forse si poteva con Timothy, ma non con Teresa.

Una liceale e un bambino, accomunati da un lutto, un centro commerciale, un ristorante e una mostra. E il numero sette.

Regan scorse le foto finché non giunse alle date. Individuò subito quelle che gli interessavano:

31 agosto – RIP M. Doyle
6 settembre – T.M. a casa con famiglia la mattina, pranzo ristorante sul molo, Fond. Sthenos pomeriggio, scompare alla festa di C.W. in bagno circa a mezzanotte.
 
20 ottobre – RIP cane Russel
26 ottobre – T.B. parco la mattina, pranzo ristorante sul molo con genitori, Fond. Sthenos pomeriggio, cena da amici, scompare in camera sua circa a mezzanotte.
 
Erano sette giorni esatti, contando quello della morte di Matthew e del cane.

Terminò di asciugare le stoviglie e le rimise a posto. Poi infilò di nuovo il cellulare di Hillary in tasca e si affacciò in salotto.

Appena lo vide, Hillary si alzò: “Okay, si è fatto tardi. Domani devo svegliarmi alle cinque.”

“Va bene, cara. È stato bello averti a cena.”

“Dovremmo farlo più spesso.” concordò la poliziotta, “Era tutto delizioso, grazie davvero.”

“Di nulla. Regan, non dimenticare di rendere a Hillary il suo telefono.”

“Eccolo qui, zia. L’ho tenuto al sicuro. Non hai ricevuto né messaggi né chiamate.”

“Mio eroe!” lo abbracciò stretto e gli sorrise, “Ti chiamo presto, okay?”

“Okay.” le porse il cappotto e l’accompagnò alla porta, “Guida con prudenza.”

“Buonanotte, Hillary.” la salutò Deirdre.

“Arrivederci, sceriffo.” disse Derek.

“Buonanotte a tutti!”

Quando la porta si richiuse, Deirdre estrasse da un cassetto in cucina una siringa e, sotto gli occhi di Derek, prelevò dalla vena sul braccio abbastanza sangue da colmare la fiala, che consegnò a Regan. Questi si spruzzò il contenuto direttamente sulla lingua, poi gettò la siringa vuota nella spazzatura e ringraziò la nonna con un bacio sulla guancia. Derek rimase impassibile.

Deirdre informò i ragazzi che si sarebbe messa a guardare un po’ di televisione prima di andare a dormire. Regan preferì ritirarsi in camera e Derek lo imitò. Si accordarono per i turni in bagno, dopodiché, impacciati, si diedero la buonanotte.

 
*

Roman era preoccupato. Il giorno prima, durante l’allenamento di basket, il suo stomaco aveva deciso di attorcigliarsi e restare così, costi quel che costi. Non era una sensazione a cui era abituato, ma era comunque familiare: pericolo. Il dilemma era se fosse lui ad essere in pericolo o qualcuno che conosceva.

Inoltre, il suo lupo ululava da domenica sera. Desiderava vedere il suo alfa, accertarsi che stesse bene, farsi accarezzare, impregnarsi del suo odore e marchiarlo a sua volta. Sempre più spesso, Roman si scopriva a immaginare come sarebbe stato vivere con Regan, a casa sua, dormire nel suo letto, mangiare il suo cibo, scambiarsi i vestiti, condividere l’ossigeno, mischiare i loro odori fino a renderli indistinguibili. Era una bella fantasia, con cui si baloccava quando aveva bisogno di una pausa dal barile di stress in cui si era trasformata la sua vita.
 
Come se non bastasse, suo padre lo stava torchiando più del solito. Evidentemente, stava iniziando ad accettare il fatto che Declan non sarebbe più tornato. Roman avrebbe dovuto provare orgoglio per essere salito di un gradino nella gerarchia di branco, da soldato semplice a Secondo. Invece si sentiva atterrito, sbagliato, perennemente nauseato. Stare con la sua famiglia non era più un conforto, ma una tortura.

Quel mercoledì mattina era particolarmente su di giri, e non in senso positivo. Era angosciato. E non capire perché fosse angosciato alimentava la sua angoscia.

Non appena scorse Regan uscire dalla macchina di Derek con una disinvoltura del tutto fuori luogo, ebbe l’impressione che un macigno gli stesse spappolando le viscere.

Eccolo qui, pensò, il pericolo! Qualcosa non va. Alfa è nervoso, lo sento. Devo aiutarlo.

Marciò deciso verso di loro e, incurante degli spettatori, avviluppò Regan in un abbraccio simile alla morsa di una piovra. Nel mentre, incenerì Derek con un’occhiataccia. Aggiunse pure un ringhio, tanto per sottolineare il concetto.

Derek ricambiò il suo sguardo, dapprima basito, poi curioso. Infine, come se una lampadina si fosse accesa nel suo cervello, sgranò impercettibilmente gli occhi e assunse una postura rigida, con le mani strette a pugno lungo i fianchi, gambe divaricate e spalle appena incurvate. Quasi fosse pronto a spiccare un balzo e azzannare Roman alla gola.

Regan assottigliò le palpebre, sorpreso dalla reazione del biondo. Le sue sinapsi non tardarono ad attivarsi. A quel punto, non fu difficile fare due più due. Infatti, se i sensi da cacciatore di Derek si erano risvegliati in presenza di Roman, voleva dire che…

“Regan, cosa ci fai con lui? È uno della gang di Gregory!” bisbigliò con urgenza Roman al suo orecchio.

“Siamo amici adesso. Rallegrati. Un bullo in meno.” rispose in tono assente.

“Cosa?!”

Una zaffata di Eau de Cane Bagnato gli stuzzicò le narici. E allora capì.

“Se anche fosse, perché sei venuto a scuola con lui?”

“A cuccia, Fido. Ho tutto sotto controllo.”

A quell’appellativo, con la coda dell’occhio Regan vide l’amico contrarre la mascella.

“Andiamo, la campanella sta per suonare.” li esortò, districandosi dall’abbraccio di Roman per dirigersi verso l’entrata della scuola, dove Lorie e le altre ragazze lo stavano aspettando.

Derek abbandonò la postura aggressiva e gli si incollò alla schiena, perlustrando con lo sguardo il parcheggio. Probabilmente, era all’erta per un’eventuale apparizione di Gregory e Kevin.

Roman emise un altro ringhio e si affiancò a Regan, senza cessare di fissare Derek con palese astio e sospetto.

Regan salutò le ragazze con un sorriso gioviale e baci sulle guance. Lorie si accigliò nel notare Derek.

“Lui è Derek. Siamo diventati amici.” disse Regan a mo’ di spiegazione.

Quelle parole ebbero l’effetto di un incantesimo. Le ragazze salutarono Derek come se fosse sempre stato un amico, chiedendogli come stava e se gli andava di unirsi al loro tavolo a mensa. Derek non si dimostrò scioccato, anzi, rispose gentilmente a tutte le domande e accettò la loro proposta.

Roman assistette allo scambio con occhi fuori dalle orbite.

Poi le ragazze accerchiarono Regan e lo scortarono lungo il corridoio, verso il suo armadietto. Lì accanto, Regan notò Mike e altri quattro membri della squadra di football. Si meravigliò del comitato di accoglienza, anche se ormai avrebbe dovuto esserci abituato.

Presentò sbrigativamente Derek pure a loro e, dopo aver recuperato un paio di libri, se ne andò per la sua strada.

Seduto al suo banco in fondo all’aula di Chimica, ignorò Cecilia e si mise a rimuginare su Roman.

Lupo mannaro? Licantropo? Erano sinonimi o c’era qualche differenza? E come aveva potuto non accorgersene? Il modo in cui lo annusava, il suo odore, la sua possessività, i ringhi, erano indizi chiari. Eppure, Regan non li aveva colti, concentrato com’era su se stesso e il suo piano.

Avrebbero dovuto parlarne, e presto. Giusto? Oppure era meglio tacere? Roman finora era stato bravo a non suscitare sospetti. Se non fosse stato per la reazione di Derek, Regan non l’avrebbe mai realizzato. Forse era meglio lasciare le cose come stavano, fingere di non conoscere la verità. In questo modo, Regan non avrebbe attirato attenzioni moleste sull’amico. Appartenevano entrambi al mondo soprannaturale, in fondo. Questo faceva di loro dei veri alleati contro il nemico comune, ossia i cacciatori.

Era più saggio tacere. Anche se non poteva essere certo di riuscire a far finta di nulla d’ora in avanti, non con tutto lo stress che sentiva gravargli sulle spalle, doveva tentare, per il bene di Roman. Già c’era Derek, non serviva che altri cacciatori fiutassero in Roman una preda.

Ciononostante, Regan aveva quasi l’impressione di udire il ticchettio di uno strano conto alla rovescia. Era davvero ancora in tempo per arginare i danni? Derek ormai sapeva e avrebbe potuto riferirlo agli altri cacciatori. Forse lo stava facendo proprio in quel momento. In tal caso, Regan avrebbe dovuto sbrigarsi ad avvisare Roman. O era già troppo tardi?

E poi che dire della famiglia di Roman? La maggior parte delle leggende affermavano che i lupi si muovevano in branco. Se i Sinclair erano tutti lupi mannari, Regan non poteva metterli a rischio con la propria stupidità. Non gli avevano mai fatto del male. Anzi, forse non sapevano nemmeno della sua esistenza. Puntare i riflettori su di loro non era giusto.

Da quando mi preoccupo di ciò che è giusto per gli altri?

La mossa più logica sarebbe stato reindirizzare gli sforzi dei cacciatori su un nuovo bersaglio, i Sinclair. Ciò avrebbe dato a lui la possibilità di tirare un sospiro di sollievo e guadagnare tempo per imbastire un piano di fuga. Non avrebbe dovuto sentirsi in colpa, no? Infatti, chi gli garantiva che Roman gli sarebbe rimasto fedele in eterno? E se avesse scoperto che era un ibrido? O peggio: chi gli diceva che Roman non fosse già al corrente della sua natura vampira? Magari lo stava ingannando, aspettando l’occasione propizia per fargli lo sgambetto. D’altronde, era stato parecchio abile a nascondere il proprio segreto. Non avrebbe avuto problemi a nascondere che conosceva pure quello di Regan, per poi pugnalarlo alla schiena non appena avesse abbassato la guardia.

No, Roman non era quel tipo di persona. La sua lealtà era genuina.

Lealtà, istinto protettivo, atteggiamento possessivo, desiderio di compiacerlo, ossessione per il contatto fisico, sguardi adoranti. Lupo mannaro innamorato? O l’essere appiccicosi era semplicemente una caratteristica della sua specie? Roman lo considerava parte del suo branco?

Regan scrollò il capo. Il punto focale della questione era un altro: i lupi mannari esistevano. Beh, se esistevano i vampiri, perché non i lupi mannari? Avrebbe dovuto prevederlo.

Cecilia lo distrasse dalle sue riflessioni premendo ripetutamente la punta di una penna sul suo bicipite. Regan si voltò verso di lei e la osservò indicare il libro di chimica. Sulla pagina erano scritte le istruzioni di un esperimento. Si accorse che intorno a loro gli altri studenti erano già impegnati a misurare composti e calcolare formule. Esalando un sospiro, rimandò la decisione su cosa fare con Roman e Derek a un secondo momento e si mise al lavoro.

A mensa, Derek si sedette accanto a Regan senza provocare alcuno scalpore. Nemmeno una scintilla. Roman non capiva cosa stesse succedendo, ma, qualsiasi cosa fosse, non gli piaceva. Non aveva dubbi che Regan avesse la situazione sotto controllo, eppure il tarlo molesto che lo pungolava dall’interno non accennava a dargli tregua.

In più, sembrava che Regan stesse facendo di tutto per evitare il suo sguardo. Roman si sentì ferito da quell’atteggiamento, oltre che geloso per le attenzioni che il moro rivolgeva a Derek. Quando lo aveva presentato agli altri, nessuno aveva battuto ciglio, accogliendolo come se fosse normale vederlo andare d’amore e d’accordo con Regan. Come se, fino alla settimana scorsa, non fossero stati nemici giurati.

Ancora più disturbante era il fatto che l’odore di Derek ricopriva Regan alla stregua di una seconda pelle, come se si fossero rotolati e strusciati l’uno sull’altro per ore.

Roman stava fumando di rabbia e gelosia. Se almeno il suo alfa gli avesse rivolto una parola, un sorriso, un cenno! Bastava poco per quietare il lupo. Niente. Così, trascorse la pausa pranzo in silenzio, col broncio. E se aprì bocca, fu solo per snocciolare commenti acidi, come un bambino che fa i capricci.

Regan poteva intuire senza fatica il motivo del suo umore, ma non intervenne. Aveva convenuto che fosse meglio restare ai margini del campo per osservare come si evolvevano gli eventi. Non era solo per prudenza che lo faceva. In realtà, era ancora indeciso sulla linea d’azione da adottare con Roman, considerando che Derek era divenuto la sua ombra. Non lo lasciava respirare un attimo!

Comunque, ora aveva altri problemi di cui occuparsi: conservare una media alta, indagare sul demone, imparare a controllare i suoi poteri psichici e l’aumento della sete, tenere celato l’asservimento delle ragazze, gestire Derek e i cacciatori, proteggere Deirdre e aiutare Hillary a non perdere il lavoro. Onestamente, Roman cadeva all’ultimo posto.

L’unica nota positiva della giornata fu che Gregory e Kevin risultarono assenti.

La più negativa, invece, fu che Derek si fece cambiare l’orario delle lezioni in segreteria, in modo da frequentare gli stessi corsi di Regan. Di conseguenza, Regan non poté appartarsi con le ragazze nemmeno per un misero “mordi e fuggi”.

La carenza di sangue, sommata all’influsso dell’amuleto nello zaino, alla sorveglianza costante di Derek e al cattivo umore di Roman, finì per indisporlo talmente tanto che, a fine lezioni, marciò nel parcheggio senza salutare nessuno. Estrasse dal bagagliaio della macchina di Derek la sua bici e pedalò via veloce, sordo ai suoi richiami.

A casa, si chiuse a chiave in camera e non uscì fino all’ora di cena. A tavola, mangiò in silenzio e a testa bassa, poi si rintanò di nuovo di sopra rifiutando di spiccicare parola.

Persino con la porta chiusa poté udire Deirdre accusare Derek di aver fatto regredire Regan allo stadio preverbale, i suoi strilli così acuti da far tremare i muri. Derek si limitò a dire che non c’entrava niente e a darle la buonanotte. Regan lo sentì esitare di fronte alla sua porta per qualche attimo. Dopo un po’, i suoi passi si allontanarono e lui si rilassò.

La notte, invece del solito incubo inquietante con il grammofono, sognò il lupo dal manto color caramello. Non ricordava quando era stata l’ultima volta. Il sogno lo purificò, trasformando la rabbia e la frustrazione in serenità e accettazione. Quello sì che era un potere terapeutico non indifferente. E quando la mattina venne svegliato dalla voce della nonna, il malumore era svanito.

Davanti a una lauta colazione, Derek lo informò che Gregory e Kevin erano stati ritirati da scuola per studiare a casa. Regan gli chiese come lo sapesse e il biondo gli rispose di avere i propri mezzi e di non preoccuparsi. Regan non ci cascò nemmeno per un secondo.

Quel fatto, comunque, inaugurò un breve periodo di pace a scuola. Breve nel senso che durò un giorno al massimo. Infatti, le cose peggiorarono sul versante Roman.

Regan non era più così sicuro che ignorare la realtà fosse la scelta corretta. Il ragazzo era geloso marcio di Derek, non faceva che ringhiare o fulminarlo con lo sguardo. E Derek non gli rendeva la vita facile stando sempre incollato a Regan. Lo seguiva addirittura in bagno.

Regan non aveva ancora affrontato l’argomento della licantropia col cacciatore, preferendo aspettare e osservare. Dal suo silenzio, aveva arguito che il biondo pensava o che Regan non sapesse o che fosse meglio tenerlo all’oscuro. Perlomeno, non aveva spifferato il segreto di Roman ai suoi amici cacciatori, dato che lui e la sua famiglia erano ancora tutti vivi e vegeti.

A un certo punto, la tensione si fece talmente soffocante che Regan sclerò. Col senno di poi, biasimò la forte carenza di sangue.

Era un piovoso venerdì. Si trovavano tutti seduti a mensa, a chiacchierare del più e del meno. I giocatori di football si scambiavano commenti e pronostici sulla partita che si sarebbe tenuta il mese prossimo contro un’altra scuola, le ragazze condividevano consigli di abbigliamento e trucco, i giocatori di basket discutevano dei loro idoli, Charlotte e Zack si sbaciucchiavano davanti a tutti senza pudore, Jennifer tentava di attirare l’attenzione di Roman, Roman lanciava frecciatine caustiche a Derek e Derek rispondeva a tono. Fin qui nulla di insolito.

Poi Roman scattò. Afferrò Regan per la felpa e lo costrinse a sedersi sulle sue ginocchia, scoccando occhiate torve all’indirizzo di Derek. Il biondo reagì. Strinse un polso di Regan e tentò di strattonarlo di nuovo accanto a sé, come se fosse un bambolotto.

“Lascialo! Non è tuo, è mio!” ruggì Roman.

“Non è un giocattolo! E non ha più bisogno di te, ci sono io adesso.” disse Derek.

Gli studenti smisero di mangiare e parlare all’unisono, puntando gli occhi sulla scenetta.

Mike si erse dalla sedia e cercò di ridurre entrambi i contendenti in sottomissione: “Se Regan è di qualcuno, è mio. Sono il suo fratello maggiore.”

“No, non lo sei!” abbaiò Roman, rinserrando la presa attorno ai fianchi di Regan.

“Roman ha ragione, Mike.” si intromise Lorie e si alzò pure lei, “Regan è mio.”

“Cosa?!” esclamò Vanessa, “Neanche per sogno!”

“Non è un giocattolo!” ripeté Derek, e Regan gli fu grato, almeno finché non ricominciò a strattonarlo.

“Mollalo!” gli ordinò Roman.

“Mollalo tu!”

“Mollatelo tutti e due!” ordinò Mary.

Roman protestò: “Io sono il suo migliore amico! Sono arrivato per primo!”

“Sinclair, lascialo immediatamente.” gli intimò Mike mentre faceva il giro del tavolo.

“Derek, gli stai facendo male!”

“Roman, calmati.”

“Lascialo!”

“No, è mio!”

“Sinclair!”

“Regan!”

“Derek, fermati.”

“Ragazzi…”

“Che sta succedendo qui?”

“Professor Schulz, loro-”

“ORA BASTA!” tuonò Regan.

Un silenzio tombale scese sulla mensa. Non si sentiva volare una mosca.

Regan si liberò dalle mani che lo imprigionavano e si issò in piedi con un movimento aggraziato. Si voltò per fronteggiare gli “amici” e li trafisse tutti con uno sguardo raggelante. Quando parlò, la sua voce, ridotta a un sibilo, era intrisa di furia.

“Guai a voi, tutti voi, se oserete di nuovo toccarmi, parlarmi e guardarmi senza il mio esplicito permesso. Decido io chi è degno della mia attenzione, chiaro? Azzardatevi ancora a cercare di mettermi un collare e vi distruggerò.”

Detto ciò, si rivolse a Derek.

Mi hai rotto il cazzo. O mi lasci respirare o ti strappo la gola a morsi mentre dormi.”

Quando fu il turno di Roman, lo vide arretrare sulla sedia e deglutire.

“E tu.” Regan si chinò su di lui e gli puntò il dito indice sul torace, “Migliore amico o no, non permetterti mai più di usare la forza su di me. La prossima volta ti stacco le braccia.”

Infine, si scusò col professor Schulz in toni pacati per il disturbo causato. Raccolse lo zaino, girò i tacchi e sparì per il resto della giornata, dato che non aveva altri corsi.

Derek rincasò intorno alle cinque del pomeriggio, ma bussò alla porta della sua camera un’ora dopo. Regan non aveva captato alcun rumore eccetto quello delle molle della branda, perciò il biondo doveva aver usato quel lasso di tempo per racimolare il coraggio di affrontarlo.

“Regan? Posso entrare?”

“Che vuoi?” berciò, spaparanzato sul letto a disegnare il lupo del suo sogno in un disperato tentativo di incanalare positività.

“Vorrei scusarmi per oggi. E per ieri. E per il giorno prima. Insomma, per come mi sono comportato da quando ha avuto inizio la nostra… convivenza.”

Regan schioccò la lingua, alquanto scettico.

“Ti prego, posso entrare?”

Il moro grugnì un assenso. La porta si aprì e Derek avanzò cauto nel suo spazio. Regan apprezzò vederlo molleggiarsi sulle gambe con aria nervosa, senza provare a mettersi comodo.

“Beh?” sbottò quando il silenzio si fu protratto abbastanza.

Derek si passò le mani fra i capelli e si strofinò la faccia: “Perdonami. Sono stato uno stronzo. Non avrei dovuto reagire alle provocazioni di Roman.”

“Non me ne fotte un cazzo dei vostri battibecchi.” lo aggredì Regan, alzandosi a sedere, “Il problema è la tua costante presenza nella mia vita e il controllo che credi di avere su di essa. Ho accettato di ospitarti e di collaborare con te perché mi conviene. Ma non ho firmato alcun contratto che recita che io debba diventare una tua proprietà. Non sono un cane, non voglio un guinzaglio.”

“Non ho mai cercato di metterti il guinzaglio!”

“Ah no? I fatti dicono il contrario. Da quando mi hai salvato, è come se ti fossi convinto di possedermi, di essere il mio padrone. Mi sorvegli notte e giorno, quasi avessi paura che, alla minima distrazione, io possa rivoltarmi contro di te o approfittarne per andare a mordere la gente.”

“Chi mi dice che non farai proprio questo, eh?” si incollerì Derek, “Devi capire che sono un cacciatore! La mancanza di fiducia, non solo in te, ma in tutte le creature soprannaturali, fa parte della mia natura. E la mia posizione nella triade mi spinge ad essere paranoico, ad aspettarmi sempre il peggio. Dormo con un occhio aperto e un pugnale sotto il cuscino da quando sono qui. Credi che mi piaccia?”

“Allora perché non te ne torni a casa tua? Nessuno ti obbliga a restare.”

“Se lo facessi, andrei incontro a una punizione esemplare. Te l’ho già spiegato.”

“E sei stato convincente, fino a che non ho realizzato che sei qui da una settimana e nessuno dei tuoi è venuto a cercarti. Perciò, i casi sono due: o sanno dove sei e non gliene importa un fico secco, o sanno dove sei perché sei qui per loro ordine, e allora il salvataggio è stato una messinscena per indurmi a darti le chiavi della mia tana. Perché non parli chiaro e mi dici quali sono i loro piani, mh? Pur non conoscendoli, avresti i tuoi mezzi per scoprirli, se ben ricordo.” lo sfidò, incrociando le braccia sul petto.

“Non voglio tradirli ancora di più.” mormorò mesto.

“Ah, quindi è così! Bene, puoi andartene. Raduna le tue cose ed esci da casa mia. Va’ a prostrarti davanti a loro, chiedi pietà. Sei un membro della triade, non possono farti fuori. Io e mia nonna ce la caveremo.”

“Non è semplice come pensi, Regan.”

“Ora sai pure cosa penso!”

“Regan, per favore…”

“Sono stufo, Derek. Stufo di farmi prendere per i fondelli da un fottuto cacciatore.”

“Non ti sto ingannando!”

Regan schizzò in piedi, pieno di rabbia repressa e sete di sangue: “Non mi fido di te!”

“Nemmeno io di te!” esclamò Derek, portandosi a un soffio di distanza dalla faccia di Regan.

“Almeno su questo siamo d’accordo.”

“Dannazione, smettila di fare così.”

“Così come?”

“Sei insopportabile.”

“Senti da che pulp-”

La cosa successiva che il cervello di Regan registrò, prima di friggere del tutto, furono le labbra di Derek sulle proprie e le sue mani sui propri fianchi.

Il bacio, se così si poteva chiamare, non durò a lungo. Derek si riscosse per primo e si allontanò di un passo.

“Scusa. Non so che mi è preso.”

Regan era senza parole.

Si fissarono per interminabili secondi, col fiato sospeso, giusto il tempo di mettere a tacere la coscienza e la logica. Mossi da fili invisibili, azzerarono di nuovo la distanza e le loro bocche si ricongiunsero con violenza, di comune accordo, producendo una sorta di silenziosa deflagrazione che solo loro poterono udire.

Regan gli avvolse il collo con le braccia e si lasciò issare, cingendo i fianchi di Derek con le gambe. Il biondo compì qualche passo in una direzione a caso, per nulla impedito dal peso di Regan, e lo schiacciò con la schiena al muro. Le torrette di libri impilate vicino a loro caddero con sonori tonfi.

Le mani di Derek, ora libere di esplorare, si intrufolarono sotto la maglia del moro per accarezzare la sua pelle liscia. Era sottile sulle costole, che sporgevano un po’ troppo per i suoi gusti, ma era anche calda, umana. Grugnì compiaciuto. Risalì sul suo stomaco, sul torace e andò a stuzzicargli i capezzoli, divorando la sua bocca come se ne andasse della sua vita.

“È una pessima idea.” mugugnò tra un bacio e l’altro.

Regan approfondì il contatto, coinvolgendo la lingua del cacciatore in una lotta serrata. Derek emise un altro grugnito e premette ulteriormente il proprio corpo su quello di Regan. Lo squittio che ricevette in cambio gli infiammò i lombi e azzerò i dubbi che ancora lo frenavano.

“È una pessima idea.” ansimò a sua volta Regan, non appena riuscì a staccarsi dal bacio.

Derek cominciò a ondulare il bacino per sfregare la propria erezione sul basso ventre di Regan. Con un gesto brusco lo spogliò della felpa e della maglia. I suoi occhi vagarono sul suo torso nudo, le pupille dilatate e intrise di desiderio liquido. Non esitò a tuffarsi in avanti per cospargerlo di baci e morsi e succhiotti, elargendo particolari attenzioni ai capezzoli rosei.

“Il tuo sapore… il tuo odore… cazzo, mi fai impazzire.” mormorò sognante, continuando a leccare.

Regan rovesciò il capo all’indietro e si abbandonò a un sospiro soddisfatto. Il ghigno che gli curvò le labbra subito dopo, però, passò inosservato.

“Non credevo… ah… di piacerti…” gemette Regan, le unghie conficcate nella carne della nuca del cacciatore per spingerlo verso di sé.

“Mi piaci da sempre.” rivelò Derek, dopo avergli morso teneramente una clavicola, poco sotto il laccio della collana, “Dal primo giorno che ti ho visto.”

Il cervello di Regan, stavolta, attivò i motori a piena potenza. All’improvviso, una marea di possibilità di estendevano innanzi a lui come frutti maturi, pronti per essere colti dalle sue avide mani.

“Menti. Oh, sì… mordi più forte…”

Derek obbedì zelante e affondò i denti con più decisione alla base del suo collo.

“È la verità. Lo giuro.”

“Per questo mi hai salvato da Gregory e Kevin.”

Derek reclamò la sua bocca per l’ennesimo bacio passionale. Il suo ardore gli stava dando alla testa, tanto che Regan faticava a mettere un pensiero dietro l’altro.

“Non potevo permettere che ti uccidessero. Li avevo avvertiti di non darti la caccia, ma loro mi hanno liquidato.” spiegò e leccò una striscia di pelle dalla spalla all’orecchio, inciampando un poco sulla collana, “Sei così buono… come puoi essere così buono?”

“Zitto e baciami.”

Derek non si fece pregare. Quando le sue mani scesero verso il bottone dei jeans di Regan, questi lo distrasse portandogliele sulle proprie natiche. Non poteva lasciare che si accorgesse della totale assenza di eccitazione fra le sue cosce.

“Sai, sono sorpreso.” sospirò Derek sulle sue labbra, guardandolo con palese adorazione mista a incertezza, “Pensavo fossi etero.”

“Alla festa di Halloween ho pomiciato con Roman.” ghignò.

Derek inspirò forte dal naso, scioccato. Poi digrignò i denti e si riappropriò della sua bocca con un ringhio animalesco. Regan scoppiò a ridere di gusto.

“Lo uccido.”

“Per quanto trovi lusinghiera la tua gelosia, ti prego di non farlo. E poi non ha significato niente.”

“Lui lo sa?”

“Perché? Vuoi avermi tutto per te?”

“Sì.”

“Oh.” Regan boccheggiò, stupito dalla sincerità che lesse nella voce e negli occhi di Derek, “Ma… sei un cacciatore. E io un ibrido di vampiro.”

“Può funzionare, se vogliamo che funzioni. Io e te, una storia d’amore alla Romeo e Giulietta.” sorrise, baciandolo con dolcezza.

“Devo ricordarti come è finita tra loro? Non sono sicuro che sia un’analogia incoraggiante. E, scusa, chi sarebbe Giulietta tra noi due?”

“Allora saremo come Dean e Castiel.”

“Tu sei Dean e io Castiel?”

“Io il cacciatore e tu il mio angelo.” confermò Derek.

“Mi hai dato dell’angelo? Non so se trovarlo offensivo o romantico.”

Derek nascose la faccia nell’incavo del suo collo per soffocare una risata.

“Insomma, sono una fottuta creatura della notte.” proseguì Regan, “Sono un predatore, mi nutro di sangue umano e, secondo i miti, dovrebbe piacermi deflorare le vergini! Prima dici che tua nonna è più pericolosa di me, ora hai pure l’ardire di chiamarmi ‘angelo’. Abbi un po’ di rispetto, che diamine.”
Derek esplose a ridere tra i suoi riccioli e, con finta aria solenne, disse: “Regan McLaughlin, il defloratore di vergini.”

“Che ne sai? Potrei essere un latin lover da sballo sotto questa corazza da sfigato.”

Il volume delle risate aumentò, rasentando l’isterico.

“La mia primavera non è ancora arrivata, ma aspetta e vedrai. Prima o poi affinerò le mie tecniche di seduzione – già notevoli, bada bene – e farò svenire vergini a destra e a manca.”

Le ginocchia di Derek cedettero ed entrambi precipitarono al suolo ridendo, uno sopra l’altro.

In quell’esatto momento, la porta d’ingresso si aprì e Deirdre entrò con un “Sono a casa!”. I ragazzi si impietrirono, ogni traccia d’ilarità svanita dai loro volti. Si districarono rapidamente. Regan recuperò la maglietta e la indossò e Derek si aggiustò i pantaloni per mascherare l’erezione. Quindi si rialzarono e presero posizione: Regan a pancia in giù sul letto, con il blocco da disegno davanti, e Derek sulla sedia della scrivania con un libro aperto in grembo.

Deirdre salì le scale e si affacciò in camera senza bussare. Quando li vide, sorrise a Regan e incenerì Derek con un’occhiata di fuoco.

“Tutto bene? Come mai non avete risposto?”

“Stavamo chiacchierando.” spiegò Regan, facendo spallucce.

“Uhm.” Deirdre lo fissò a lungo, gli occhi ridotti a fessure, “Vado di sotto a preparare la cena.”

“Vuoi una mano?”

“No, faccio da sola. Vi chiamo quando è pronto.”

“Okay.”

Appena la porta si richiuse con un lieve clic, entrambi sospirarono di sollievo. I loro sguardi si incrociarono e un silenzio imbarazzato piombò su di loro.

Fu Derek a spezzarlo: “Ehm… hai un…”

Gesticolò per indicare il collo di Regan e arrossì.

“Cosa?” domandò il moro, tastando la pelle in cerca di ferite.

“Hai un succhiotto. Proprio lì.”

Regan masticò un’imprecazione.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Swallowed alive ***










“Allora, cosa puoi dirmi sui casi di Teresa e Timothy?” domandò Hillary con voce nasale.

“Ti sei presa il raffreddore?”

“Sì e lo detesto.”

Regan sbuffò divertito e si aggiustò il telefono sulla spalla per avere entrambe le mani libere. Aprì il quaderno in cui aveva annotato le sue impressioni sul caso e lo sfogliò fino alle pagine più recenti. Con un orecchio continuò ad ascoltare lo scroscio della doccia, così da essere pronto nell’eventualità in cui Derek avesse deciso di fare una capatina in camera sua per vedere cosa stesse facendo.

“Non posso dirti molto sul caso, purtroppo, anche se i tuoi appunti sono stati utili per dipingere il quadro generale. Tu hai novità?”

“Nessuna, siamo fermi.”

“Beh, vediamo… posso darti un profilo temporaneo del colpevole, se vuoi.”

“Spara.”

“Non ha preferenza di vittime. Età, sesso, etnia, estrazione sociale, per lui non è di alcuna rilevanza.”

“Credi che si tratti di un uomo.”

Più che altro un demone, pensò. I demoni ce lo hanno un sesso?

“È più probabile. Dunque, data la mancanza di un bersaglio definito, è impossibile prevedere quale tipologia di persona prenderà di mira la prossima volta.”

“Ritieni che possa esserci una prossima volta.” lo interruppe di nuovo, incupita.

Regan se la immaginò mentre si passava le dita fra i capelli e posava la testa sulla scrivania, già prostrata di fronte alla prospettiva di una terza vittima.

“Basta vedere come ha fatto sparire Teresa e Timothy. Non è un dilettante. Ciò significa che loro non sono state le sue prime vittime e, senza dubbio, non saranno le ultime.”

“Dovrò cercare dei precedenti.” concluse Hillary.

“È la mossa più logica. I rapimenti a porta chiusa non sono comuni. Però, innanzitutto, dobbiamo isolare il suo modus operandi. Questo restringerà il campo delle ricerche.”

“Tu hai già capito qual è?”

“Forse. Ci sono due dettagli che ho trovato interessanti: ha puntato due persone colpite di recente da un lutto e fa trascorrere sette giorni tra il lutto e il rapimento. Questo lascia intendere che sia attratto dalla sofferenza emotiva. E per sapere che entrambi avevano subito una perdita, è più probabile che sia qualcuno vicino a loro o alle loro famiglie, perché i giornali non hanno speso una parola per l’incidente o la morte del cane. Ma non è nemmeno da escludere che, per Teresa, abbia spulciato i suoi profili social, anche se questo implicherebbe una premeditazione, per cui la teoria del lutto cadrebbe. Per Timothy, le cose si complicano. In molti lo avranno visto portare spesso fuori il cane e i suoi compagni di scuola di sicuro sapevano di Russel, e a loro volta ne avranno parlato con i genitori o altre persone. Quando è morto, Timothy lo avrà detto a tutti quelli che conosceva, come Teresa avrà sparso la notizia del decesso del cugino.”

“Ho già interrogato amici e conoscenti delle vittime, Regan. Ho confermato i loro alibi, tutto quadra.”

“Hai anche controllato gli estranei con cui hanno scambiato due chiacchiere? Anzi, non serve che ci abbiano parlato, solo che fossero lì nei paraggi quando parlavano delle loro perdite.”

“Se la metti così, potrebbe essere chiunque!”

“Infatti. Il particolare dei sette giorni, invece, è un mistero. Potrei scriverti un saggio estensivo sulla simbologia del numero sette, ma perderemmo tempo prezioso. Ciò che dobbiamo tenere presente è che il sette ha un significato preciso per il colpevole. Scopriremo qual è solo quando troveremo dei precedenti.”

“D’accordo. Che altro?”

“Cosa mostrano i filmati di sorveglianza di cui sei entrata in possesso, quelli del ristorante sul molo e della Fondazione Sthenos?”

“Niente di utile.”

“Allora il contatto deve essere avvenuto in un punto cieco, non visibile alle telecamere, o in un altro momento, in un altro luogo. Deve essere avvenuto, zia. Non so come o quando o dove, ma è avvenuto.”

“Non ho dubbi che sia avvenuto, Regan, ma la chiave è stabilire il dove e il quando, cosa che non siamo in grado di fare. Ah, stiamo girando in tondo...”

“Della Fondazione Sthenos che mi sai dire?”

“La Fondazione? Perché?”

“Dimmelo e basta.”

Regan sentì un fruscio di fogli, il tintinnio del ghiaccio in un bicchiere di vetro e il rumore umido di deglutizione.

“Fondazione Sthenos… mmm… eccola qui. Era un orfanotrofio, poi è stato convertito a museo da Petra Sthenos.”

“Petra Sthenos.” ripeté Regan, pervaso da uno strano formicolio, “Parlami di lei.”

“Nata ad Atene, in Grecia, nel ’68. Ha frequentato le scuole lì, si è laureata a Cambridge in Storia delle civiltà antiche, ha lavorato per un po’ come assistente di un professore e si è trasferita qui nel 2005. L’anno successivo ha inaugurato la Fondazione che porta il suo nome. Nubile, due sorelle minori… sorellastre? Portano un cognome diverso, anche se sono nubili pure loro. Genitori defunti.”

“Le sorelle. Come si chiamano?”

“Dunque… quella di mezzo si chiama Cora Thalassa, la minore Phidya Kidemonas. Sembrano i nomi di due spogliarelliste. Perché vuoi saperlo?”

“Non ne sono sicuro. Scava più a fondo nella vita di Miss Sthenos, per favore.”

“Il tuo intuito da detective si è risvegliato?”

Non sapendo come spiegare la sensazione che provava, Regan si limitò a sbuffare.

“D’accordo. Se ho novità, ti chiamo.”

“Okay. A presto, zia Hillary.”

Regan riattaccò proprio quando Derek bussò alla porta di camera, fresco di doccia.

“Con chi eri al telefono?”

Il moro aspettò che si sedesse sul letto accanto a sé per mostrargli il quaderno.

“Era Hillary. Queste sono tutte le informazioni che ho raccolto a proposito della scomparsa di Teresa e Timothy. Vuoi darci un’occhiata? Magari capisci di che demone si tratta.”

“Perché dovrei?”

“Sai più cose di me sul mondo soprannaturale, mi pare logico chiederti aiuto.”

“Hai ragione. Modestamente, la mia cultura è molto vasta.” si vantò e accettò il quaderno.

Regan roteò gli occhi e si alzò per andare alla scrivania. Dopo aver scansionato i titoli dei libri impilati sopra di essa, tornò sul letto con un trattato di mitologia greca.

Derek si sporse per scoccargli un bacio a stampo sulle labbra, per poi scansarsi velocemente per evitare la cuscinata in faccia. Ridacchiando, iniziò a leggere gli appunti.

Regan era a metà del trattato quando il cellulare di Derek squillò. Lui lo estrasse dalla tasca dei pantaloni della tuta e se lo portò all’orecchio.

“Pronto. Sì. Aspetta… papà, ascolta… ti ho detto di no. Ho i miei motivi.” sollevò lo sguardo e, quando incrociò quello curioso di Regan, ammiccò, “Mi sono guadagnato la sua fiducia. Adesso posso sorvegliarlo da vicino senza dover ricorrere a sotterfugi. Sì, lo sa, ma ha accettato lo stesso. Non ha nulla da nascondere. No, papà, non ho intenzione di ucciderlo. Beh, se lo farà, non esiterò a premere il grilletto. Okay. Sì, va bene. Ti terrò aggiornato. Oh, e di’ a Gregory e Kevin di stare alla larga. No, non li sento da quel giorno. Lo so! Lo so, ma Regan è innocente. Non siamo assassini, papà, siamo protettori. No, non voglio discuterne adesso. Sì, okay. Ciao.”

“Problemi in paradiso?”

Derek sbuffò divertito e scosse il capo: “Solo mio padre.”

“Sono in pericolo?”

“Non finché ci sarò io.” gli promise.

“Mio eroe.” disse in tono piatto e in cambio ricevette una cuscinata.

Trascorsero venti minuti in silenzio. Derek fu il primo a rompere la quiete, gettando il quaderno sul pavimento con una smorfia seccata.

“Trovato niente?” chiese a Regan.

“Nada. Tu?”

“No. Mi servono più dettagli.”

“Non si può avere tutto dalla vita.”

“Parole sante. Hey, dato che qui non si va da nessuna parte, ti va di pomiciare?”

“No. Ho ancora la mandibola intorpidita dalla sessione precedente, e mi frizzano le labbra.”

“Che principessina.”

“Non hai da studiare?”

Derek grugnì sconfitto, si alzò e andò a rintanarsi nella sua camera per finire i compiti di scuola, lasciando Regan di nuovo solo.

La pace, però, ebbe breve durata, perché un paio d’ore più tardi Deirdre lo chiamò di sotto per aiutarla a imbalsamare un cadavere. Il fine settimana c’era sempre il doppio del lavoro.

Nello scendere le scale del seminterrato, i suoi passi riecheggiarono per l’ambiente, lenti e calibrati. Al suo arrivo, Deirdre neanche alzò lo sguardo dal corpo di Elizabeth Gullon. Si limitò a fargli un cenno con la mano che impugnava il bisturi e indicare l’area davanti a sé.

Nel silenzio risuonava Take Five di Dave Brubek, diffusa dalla radio sulla mensola.

Regan indossò i guanti di lattice e un grembiule impermeabile e si fermò dal lato opposto del tavolo operatorio per prendere in consegna gli organi che sua nonna gli passava. Andò a pesarli uno ad uno, poi li chiuse in dei contenitori di plastica allineati sul ripiano dove era posta la bilancia. Di norma, li avrebbe bruciati nell’inceneritore, ma, a causa di Derek, Poe era rimasto a dieta per giorni e ora aveva bisogno delle sue calorie.

“Causa della morte?” chiese, tanto per fare conversazione.

“Infarto.”

“Veglia?”

“Rupert la farà a casa sua.”

Regan non conosceva benissimo Rupert o la sua, ormai defunta, moglie Elizabeth, ma negli anni si erano fatti un nome grazie alle bellissime zucche che coltivavano e vendevano per Halloween. Praticamente tutta la città si riforniva da loro in quell’occasione.

“Ho ripensato alla filastrocca del fantasma.” disse dopo qualche minuto.

Deirdre mugugnò, un invito ad elaborare.

“La parte in cui parla dell’amico fedele e dell’agnello. Sono quasi del tutto convinto che si riferisse a Timothy. Il suo cane è morto una settimana prima che lui sparisse. Il resto è ancora oscuro, però. Tu sei riuscita a decifrare qualcosa?”

“No.”

“Che hai?”

“Che c’è tra te e quel cacciatore?” gli domandò in tono tagliente, “Non provare a negarlo, nipote. Ho visto come vi sbaciucchiavate in cucina un paio di sere fa, quando credevate che stessi guardando la tv.”

“Siamo amici con benefici.” ammise il ragazzo.

“Cioè?”

“Sto semplicemente traendo vantaggio dalla cotta che ha per me.”

Deirdre si bloccò: “Ti sta costringendo a fare cose che non vuoi fare?”

“No, tranquilla. Pomiciamo e basta. Se tenterà di andare oltre, lo fermerò dicendogli che non sono pronto, anche a costo di recitare la parte della verginella pudica.”

“E credi che ti ascolterà?”

“È un maschio infatuato, nonna. Crederà a tutto quello che gli dirò, purché suoni ragionevole. Sai, è convinto di essersi guadagnato la mia fiducia.” schioccò la lingua e fece una smorfia, “È più ingenuo di quanto pensassi. Non intendo sottovalutarlo, ovviamente, ma finora si è dimostrato parecchio ricettivo alla manipolazione. Lo userò per arrivare al demone, poi me ne libererò.” 

“C’è una qualche possibilità che tu riesca a usarlo anche se non vive qui con noi?”

“Lo sbatterò fuori alla prima occasione, promesso.” sbuffò divertito.

“Bene. Una volta che non ti sarà più utile, toglilo di mezzo.”

Regan strabuzzò le palpebre e finse di essere scioccato: “Nonna! Pensavo fossi contraria all’omicidio.”

“Quello di innocenti, sì. Cacciatori, assolutamente no. Ti do la mia benedizione per compiere una carneficina.”

“Allora dovremo essere cauti. Che so, farlo sembrare un incidente. Non vogliamo che la sua famiglia ci piombi addosso sputando accuse, né che sospettino il nostro coinvolgimento nella sua morte.”

“Terrò pronto l’inceneritore, in caso dovessi far sparire il corpo. O più di uno.”

Regan le sorrise dolce: “Sei fantastica. Ti voglio bene.”

“Anch’io te ne voglio, leprotto.”

Il brano alla radio cambiò in Just a Gigolo. Nonna e nipote condivisero un ghigno complice e si misero a canticchiare insieme a Louis Prima.

 
*

Quando Regan tornò a scuola lunedì, nessuno osò avvicinarsi a lui, tanto meno fissarlo apertamente. Le ragazze esibivano occhiaie, occhi gonfi e arie smunte; Mike e gli altri, bronci e smorfie corrucciate. Gli studenti estranei alla cerchia dei popolari, invece, li osservavano con confusione e aspettativa, avidi di drammi e pettegolezzi.

Persino Roman si tenne alla larga, anche se sembrava che gli provocasse dolore fisico. Al moro non sfuggirono i suoi sguardi imploranti, lanciatigli da lontano, o l’espressione affranta di qualcuno che si trova sull’orlo del pianto.

Roman non lo aveva contattato nemmeno una volta durante il weekend, il che era un evento degno di nota, visto che, in precedenza, era solito scrivergli almeno un messaggio al giorno. Regan si sentiva un po’ in colpa. Ma se ripensava a come l’amico si era comportato a mensa venerdì, il rimorso veniva subito rimpiazzato dalla determinazione. Aveva fatto la cosa giusta a sgridarlo, anche se era stato spiacevole.

E, francamente, non avere sue notizie per un paio di giorni gli aveva dato sollievo. Come rituffarsi nell’amato silenzio dopo mesi di chiasso ininterrotto. Tra il giovane cacciatore che si era insediato nella sua vita e il perenne malumore di Deirdre, non aveva la pazienza di considerare anche i sentimenti feriti di un lupo mannaro.

A proposito, presto avrebbe dovuto fare qualche ricerca. Non sarebbe stato facile, con Derek sempre intorno ad alitargli sul collo, ma non poteva restare nell’ignoranza. La conoscenza era sinonimo di potere, e Regan, in un periodo come quello, in cui si sentiva più esposto e alla deriva, aveva bisogno di un modo per riacquisirlo.

Era consapevole che sarebbe bastato un niente per fargli scivolare via dalle mani la situazione. Stava camminando sul filo di un rasoio e gli serviva un solido appiglio a cui aggrapparsi per mantenere l’equilibrio. Oltre a recuperare il controllo su se stesso e il mondo circostante, doveva rimanere vigile.

Quindi, avrebbe lasciato Roman a bollire nel suo brodo ancora per un po’, avrebbe ignorato Lorie, Mike e le loro corti finché non avesse firmato un accordo di non belligeranza con Derek e si sarebbe focalizzato sul demone. O cercato di focalizzarsi sul demone. Doveva focalizzarsi sul demone.

“Derek… Derek, basta.”

Lo scansò con delicatezza e decisione assieme, girando il viso di lato per impedirgli di ricominciare a baciarlo. Non era né il momento né il luogo adatto. Chiunque sarebbe potuto entrare in bagno e beccarli in flagrante, poco importava che la porta del cubicolo fosse chiusa. Avrebbero potuto salire sul water di quello a fianco e sbirciare dall’alto.

“Mancano ancora due minuti alla campanella.” protestò il biondo mentre scendeva a baciargli il collo.

“Per mantenere le apparenze, uno di noi due deve uscire qualche minuto prima dell’altro.” gli ricordò.

“Perché dobbiamo tenerlo segreto?”

Regan strabuzzò le palpebre: “Sul serio?”

“Scusa, lo so.” sospirò e si allontanò di un passo, “È che a volte è frustrante non poterti prendere la mano o baciarti in pubblico.”

“Oh, orsacchiotto.” chiocciò il moro in tono sdolcinato, provocando la risata di Derek, “Forza, esci. Ti raggiungo in classe.” lo esortò e lo spedì fuori dal cubicolo con un calcio nelle terga.

“Hey!”

“Vai!”

“Stronzo.”

Trascorsero un paio di giorni tranquilli, tra test a sorpresa e conversazioni a cuore aperto con Derek, che finivano sempre in pomiciate. Regan si impose di gustarsi appieno la calma finché durava, conscio che presto sarebbe arrivata la tempesta.

Infatti, giovedì sera, mentre si stava preparando per andare a letto, Derek entrò in camera sua a torso nudo. Non fu lui, però, a impietrirlo sul posto.

Il sorriso predatorio sul viso di Derek si spense non appena notò la sua espressione. Intercettò lo sguardo di Regan e si voltò, scontrandosi con il corridoio vuoto. Tornò a fissarlo con palese confusione. Prendendo atto del pallore accentuato del suo incarnato, avanzò di qualche passo verso di lui.

“Regan?”

Il fantasma di Elizabeth Gullon si stagliava proprio dietro Derek e lo seguiva passo dopo passo alla stregua di un’ombra. I capelli scarmigliati le coprivano metà del viso e dalle labbra colava un rivolo di sangue. I suoi occhi erano invasi dalle cateratte, la pelle in via di putrefazione.

La sua voce era roca e bassa, tanto che Regan dovette acuire l’udito per capire cosa stava dicendo.

“Non è colpa mia… lo giuro.”

Regan scosse il capo, sia per zittire Derek che per far intendere al fantasma di non aver capito.

“Non è colpa mia. Era inevitabile. Ma presto saremo di nuovo insieme. Lo giuro!”

“Regan…?”

“Shhh! Non sento cosa dice se chiacchieri.”

“Chi?” domandò Derek, guardandosi intorno con aria smarrita.

“Shhh!”

“Il mio cuore non ha retto. Era inevitabile. Ma presto saremo di nuovo insieme. Lo giuro. I tubi si rompono spesso e si cerca di aggiustarli. Non è colpa mia. Era inevitabile.”

All’improvviso il fantasma svanì, disturbato dall’arrivo di Deirdre.

“Ragazzi, che succede?” indagò la donna, affacciandosi sulla porta.

“Elizabeth Gullon era qui, mi ha appena parlato.” disse Regan tutto d’un fiato, “Come al solito, i fantasmi non sanno cosa sia la chiarezza espositiva.”

“Elizabeth? Ma il suo corpo è già sottoterra. Sei sicuro che fosse lei?”

“Aspettate un attimo. Fantasmi?” li interruppe Derek.

“Sicurissimo.” continuò Regan, ignorando deliberatamente il cacciatore, “Ha parlato del suo infarto, ha detto che era inevitabile e che presto lei e qualcuno saranno di nuovo insieme. Poi ha aggiunto qualcosa sui tubi che si rompono e si aggiustano…”

Deirdre corrugò la fronte e borbottò: “Che strano.”

“Scusate? Qualcuno vuole spiegarmi?”

Scocciato, Regan si girò verso Derek e snocciolò sbrigativo: “Io e mia nonna vediamo i fantasmi dei defunti che ci portano qui. Svolazzano intorno ai loro corpi finché non vengono seppelliti in terra consacrata con i dovuti riti.”

“Oh.”

“Non so se le sue parole siano da prendere come un altro avvertimento.” proseguì Regan, rivolgendosi a Deirdre, “Tu che dici?”

“Non saprei. Già il pensiero che pure lei fosse qui dopo il funerale mi mette addosso parecchia angoscia. Il Mietitore incaricato avrebbe dovuto guidarla oltre il Velo giorni fa.”

“Mietitore? Velo?” balbettò Derek.

“Ma insomma!” esclamò esasperato Regan, fulminandolo con un’occhiata gelida, “Sei o non sei un cacciatore? Non ti hanno insegnato nulla sui fantasmi? Oppure vi occupate solo dei vivi?”

Derek aprì e chiuse la bocca un paio di volte, senza riuscire ad articolare una risposta.

“Beh, non ci resta che aspettare.” concluse Deirdre, “Se una terza persona sparirà dalla circolazione, sapremo con certezza che questi fantasmi hanno cercato di avvertirti. Uno è un incidente, due una coincidenza, tre…”

“Uno schema.” completò Regan.

Deirdre sbadigliò: “Io vado a dormire. Buonanotte. Non fate tardi, domani c’è scuola.”

“Buonanotte, nonna.”

Appena la porta di camera si chiuse, Derek afferrò Regan per le spalle, conficcando le unghie nella carne, e lo obbligò a sedersi sul letto. Poi si inginocchiò sul pavimento tra le sue gambe e gli intrappolò le mani nelle proprie.

“Che cosa è successo? Cosa significa che puoi vedere i fantasmi? O che hanno cercato di avvertirti?”

“Il fantasma di Elizabeth Gullon mi è apparso poco fa e mi ha parlato. Vedo i fantasmi da quando ho memoria. Prima di lei, altri due fantasmi hanno instaurato un contatto: Matthew Doyle per mettermi in guardia su sua cugina Teresa e una donna di colore per Timothy.”

“Perché non me lo hai mai detto? No, lasciamo perdere. Piuttosto, cos’altro mi hai taciuto?”

“Derek, mi stai facendo male…” sibilò, strattonando le braccia per convincerlo ad allentare la presa.

Il cacciatore strinse forte un’ultima volta prima di rilassarsi. Sospirò, si umettò le labbra e si portò le mani di Regan alla bocca per depositare sulle sue dita teneri baci.

“Perdonami. Sono solo tanto confuso e non mi piace non capire le cose. Per favore, spiegami perché mi hai tenuto nascosto un particolare così importante.”

“Non credevo fosse importante, davvero, sennò te lo avrei detto.” mentì, “Desidero quanto te scovare il demone e porre fine alla sua scampagnata.”

“Mmm… sento odore di una bugia-non-bugia. Parti dall’inizio e raccontami di questi fantasmi.”

Regan lo fece, stando attento a dire sempre la verità. Gli narrò di Matthew, della donna di colore – tralasciando senza problemi i versi della filastrocca che non concernevano Timothy, perché tanto Derek non poteva individuare le omissioni – e della recente visita di Elizabeth, recitandogli a memoria i suoi deliri sconnessi. Dopodiché, gli illustrò come funzionava il mondo degli spiriti, gli insegnò la differenza tra spettri e fantasmi e gli descrisse le sensazioni che provava quando era al loro cospetto.

Derek tacque per un paio di minuti, poi disse: “I fantasmi vogliono aiutarti. Vogliono che ti occupi del demone.”

“Se avremo una terza vittima, otterremo la conferma a questa teoria. Sino a quel momento, faremo come ha suggerito mia nonna: aspettiamo e vediamo che succede.”

“Questa storia non mi piace, lo ammetto. Sono preoccupato per te.”

Regan trasformò il ghigno in un sorriso dolce all’ultimo secondo: “Sì?”

Derek si sporse per baciarlo e il moro ricambiò con un finto mugolio deliziato.

“Tra la scuola, il casino con i tuoi schiavetti, i cacciatori e i fantasmi, ci si mette pure un demone. Almeno, non puoi lamentarti di avere una vita noiosa.” scherzò.

Regan ridacchiò. Abbracciandolo stretto per nascondere allo sguardo del cacciatore la maschera omicida che aveva preso possesso del suo viso, elaborò una decina di metodi per liberarsi di Derek, uno più fantasioso dell’altro. Tutti si concludevano con la carcassa del biondo ai suoi piedi. Quegli scenari macabri gli diedero speranza e riaccesero la sua determinazione.

“Scusa se ho taciuto sui fantasmi. È un tasto dolente.”

“Perché?” domandò Derek e posò una mano sulla sua nuca per fargli i grattini.

“Da piccolo, fui tanto stupido da annunciare ai miei compagni di classe che li vedevo. In un baleno, mi ritrovai bersaglio di insulti e scherzi cattivi. La reputazione che mi sono creato allora non mi ha più lasciato. Ho una specie di trauma.”

Derek gli baciò dolcemente una tempia e gli accarezzò la schiena con ampi movimenti circolari.

“Mi dispiace se ti ho aggredito. Ti prometto che non ricapiterà.”

“Fa niente…”

“Non è vero. Ho sbagliato e lo ammetto.” si scostò per allineare le loro fronti e guardarlo negli occhi, avvolgendogli il viso con le mani, “So che suona strano detto da me, un cacciatore, ma mi fido di te. Mi fido. Non sei il mostro che la mia famiglia crede che tu sia. Anzi, sei più umano di loro. Strambo, sarcastico e con una spiccata vena bastarda, ma non un mostro. Mi dispiace, sia per averti urlato contro che per averti trascinato in questo casino.”

“Okay. Sono stanco adesso, voglio andare a dormire.”

“Sì, certo. Buonanotte.” mormorò Derek sulle sue labbra, prima di reclamarle per un ultimo bacio.

Il miagolio di Poe li distrasse. Il gatto saltò agilmente sul materasso e si acciambellò sul cuscino di Regan, con un occhio chiuso e l’altro puntato sul cacciatore.

Derek colse il messaggio. Sbuffò, diede la buonanotte a Regan e si ritirò in camera sua, sentendo lo sguardo intenso di Poe scavare solchi nella sua schiena per tutto il tragitto. Quel gatto gli metteva i brividi.

 
*

Non appena i suoi piedi si posarono sull’ultimo gradino in cima alle scale, Tamara trasse un ampio respiro e squadrò le spalle per prepararsi al confronto diretto. Raggiunse la porta della camera di Roman e sollevò la mano, imponendosi di non lasciarla adagiata sulla superficie di legno, come era successo le volte precedenti, ma usarla per bussare. Riuscì nell’impresa. Sospirando, aspettò l’invito ad entrare.

Sapeva che Roman era lì dentro, sotterrato nelle coperte. Poteva sentire non solo il suo battito cardiaco, ma anche le zaffate di sofferenzafrustrazionerabbiamiseria che emanava. Esse erano talmente potenti da filtrare dallo spiraglio sotto la porta. Come se la casa non fosse stata già abbastanza appestata dall’odore di disperazione.

Era così da giorni. Dapprima non era intervenuta, preferendo osservarlo in silenzio. Non era mai stata una madre impicciona. Curiosa sì, specialmente sui suoi figli, ma mai invadente. Comprendeva bene l’importanza degli spazi personali e il desiderio di solitudine. Solo perché i lupi erano creature da branco e raramente se ne andavano in giro per conto proprio, non voleva dire che i licantropi fossero uguali. Possedendo sia la parte animale che quella umana, entrambe necessitavano di cure. Isolarsi mentre si è feriti fisicamente era tipico del lupo; farlo mentre si è feriti emotivamente era tipico dell’uomo. E qualcuno aveva ferito il suo cucciolo così in profondità da farlo precipitare in una spirale depressiva da cui non sembrava più in grado di uscire.

Tamara voleva dare a Roman la possibilità di reagire da solo, ma era stufa di aspettare. Il caso di cui si stava occupando insieme a Vincent era un rompicapo che le portava via la maggior parte del tempo, non poteva sprecare i rari momenti di pace preoccupandosi di altre questioni. Doveva agire, aiutare Roman a rialzarsi e, con un po’ di fortuna, convincerlo a farsi dire il nome di colui o colei che lo aveva ridotto in quello stato, così avrebbe potuto braccarlo e farlo a brandelli con le sue zanne e i suoi artigli.

“Roman, so che ci sei. Posso entrare?”

“No.”

Tamara ignorò il suo rifiuto e si intrufolò nella camera del figlio a passi felpati. Come aveva immaginato, vide un grosso bozzolo di coperte in mezzo al materasso, che non tardò ad emettere un grugnito di protesta.

Ignorando la confusione che regnava nella stanza, avanzò verso il letto e si sedette sulla sponda. Una delle sue mani andò subito a posarsi là dove credeva ci fosse la schiena di Roman e cominciò ad accarezzarlo.

“Ormai è passata una settimana, tesoro. Vuoi dirmi che cos’hai?” esordì in un sussurro.

“No.”

“Si tratta del tuo Compagno?” in risposta ottenne un brivido e se lo fece bastare, “Avete litigato?”

Roman emerse dal bozzolo solo con la testa e le lanciò un’occhiata torva: “Non voglio parlarne. Va’ via.”

“Non puoi continuare così, Roman. Ti ho lasciato tempo e spazio e adesso la mia pazienza è agli sgoccioli. Se non vuoi parlarne, okay, ma pretendo che tu ti alzi ed esca da questa camera. Anche se tuo padre è stato parecchio impegnato di recente, ha reso chiaro il suo desiderio di riprendere il tuo addestramento. Sai che non è saggio farlo aspettare.”

“Non ho voglia.”

Tamara esalò un sospiro stanco. Si sdraiò di fianco a lui, lo abbracciò come poté e affondò il naso tra i suoi capelli. Dopo un minuto, ruppe di nuovo il silenzio, temendo che, se avesse esitato troppo a lungo, il figlio si sarebbe richiuso in se stesso.

“Ho fatto qualche ricerca sui Compagni, come ti avevo detto. Ho scoperto cose interessanti. Non so se siano tutte vere, ma ti andrebbe di ascoltare?”

“Mh.”

“Bene.” sorrise e gli baciò la fronte, “Un licantropo riconosce il suo Compagno dall’odore, questo lo sappiamo. Tuttavia, non è l’unico indizio. A volte, il licantropo lo sogna ben prima di incontrarlo. Non è una vera e propria condivisione dei sogni, quanto una connessione spirituale che si manifesta in essi. Perciò, in questi sogni, sia il licantropo che il suo Compagno assumono la forma della loro anima, non il loro aspetto mondano. Spesso, per ovvie ragioni, il licantropo apparirà nella sua forma animale. La forma del Compagno, invece, può variare a seconda della sua natura.”

Roman si scostò per guardarla negli occhi con espressione confusa: “Che differenza c’è tra condivisione dei sogni e manifestazione in essi? Non è la stessa cosa?”

“No. Il licantropo e il suo Compagno non fanno sempre gli stessi sogni, poiché le loro menti rimangono separate. È il loro spirito a fondersi, per così dire. Nel sogno si troveranno insieme, nelle forme che riflettono la loro più intima essenza, immersi in uno scenario che li rappresenta entrambi. Però, se la mente di uno di loro crea un altro sogno, esso lo risucchia e il contatto si interrompe.”

“Suona complicato…”

“Hai mai sperimentato una cosa del genere?” gli domandò.

Roman ci pensò, poi scosse la testa: “L’ho sognato spesso, ma sempre con il suo aspetto umano.”

“Oh.” la donna si incupì e piegò le labbra in una smorfia amara, “Allora, probabilmente, la persona che ha rubato il tuo cuore non è il tuo Compagno. Ti sei solo preso una colossale cotta.”

A quelle parole, il ragazzo si tirò su di scatto e fulminò la madre con lo sguardo.

“Non è una cotta! È reale! Lo sento nelle ossa, mamma. È lui. È… siamo legati! Non so come spiegarlo, ma è così. Il mio lupo lo cerca, lo desidera, diventa pazzo di gioia in sua presenza. E, allo stesso tempo, si calma, come se avesse raggiunto la pace interiore.”

Si fermò in tempo, prima di sbottare che aveva riconosciuto in Regan il suo alfa. Le conseguenze di una tale ammissione sarebbero state catastrofiche. Se avesse dato voce a quel particolare cruciale, non solo sarebbe stato allontanato, ma suo padre non avrebbe esitato a rintracciare Regan per sfidarlo e ucciderlo. Regan non avrebbe avuto alcuna speranza di sopravvivere, essendo umano.

Un altro pensiero su cui rimuginava spesso strisciò nella sua mente, reclamando attenzione: Regan era umano, eppure il lupo di Roman lo aveva scelto come alfa. Era una cosa possibile? Perché un licantropo, più forte, veloce, potente, avrebbe dovuto sottomettersi a un essere inferiore? Che cos’aveva Regan di tanto speciale da spingerlo a offrirgli la gola? Sì, era dominante, ma Roman aveva conosciuto tanti umani dominanti nel corso della sua vita e nessuno di loro aveva mai suscitato in lui quell’impulso.

“Va bene, ho capito. Non arrabbiarti.” lo placò Tamara, riportandolo al presente, “Promettimi soltanto che, se la cosa dovesse diventare seria, lo presenterai al branco per metterlo al corrente della nostra natura; e se ti accetterà per ciò che sei, promettimi che farai di tutto per convincerlo a ricevere il morso. Nel caso in cui rifiutasse, Vincent non vi permetterà di stare insieme, ricordalo.”

“Non succederà tanto presto, tranquilla. Ho combinato un casino qualche giorno fa e ora non ci parliamo più.”

Tamara gli sorrise e lo attirò a sé per un abbraccio: “Non preoccuparti, tutto si aggiusterà.”

“Come?” borbottò frustrato.

“Gli hai chiesto scusa?”

“Non me ne ha data l’occasione!”

“Hai provato a chiamarlo? O, almeno, gli hai scritto un messaggio?”

“No...”

“Provaci. È colpa tua, quindi sei tu che devi scusarti per primo.”

“E se mi respinge di nuovo?”

“Tu proverai di nuovo. E ancora e ancora. Arrendersi significa perdere, Roman. Sei disposto a perdere il tuo amico?”

Il ragazzo scosse con veemenza il capo.

“Allora lotta per lui. Lotta sempre per le persone che ami. È quanto lotti per ognuna di esse che dimostra quanto siano importanti per te.”

Roman annuì. Non si sentiva ancora convinto al cento percento, ma sua madre aveva ragione. Doveva fare almeno un tentativo. D’altronde, era passata una settimana. Magari Regan non era più arrabbiato e aspettava solo che lui facesse la prima mossa.

“Okay.” sospirò, leggermente più sollevato.

“Bene. Ora che abbiamo discusso dell’argomento principale, parliamo di tutti gli altri.”

“La lista è lunga?” domandò Roman con una smorfia, ricadendo sul letto a peso morto.

“Innanzitutto, giovedì celebreremo il Ringraziamento. E ho ricevuto una soffiata…” disse Tamara con un sorriso sornione, il quale risvegliò l’interesse del figlio, “Declan potrebbe tornare.”

Roman scattò a sedere un’altra volta, gli occhi azzurri animati da una luce che Tamara non vedeva da tempo.

“Sul serio? Ha detto che ci sarà?”

“Si sta organizzando. Ha chiamato un paio di giorni fa.”

“Ha chiamato te? Perché te e non me? Ha chiesto di me?”

“Calmati.” rise la lupa, “Sì, ha chiamato me. Non so perché non abbia voluto mettersi in contatto con te, ma avrà avuto le sue ragioni. Non abbiamo parlato molto. Ha soltanto detto che forse sarebbe tornato per il Ringraziamento, poi ha riattaccato.”

Roma stritolò le lenzuola tra le mani, teso come una corda di violino: “Questo… questo significa che non ci lascerà, giusto? Insomma, se volesse lasciarci non tornerebbe… giusto?”

“Suppongo che lo scopriremo presto. Coraggio, alzati. Fatti una doccia, vestiti con una tuta brutta e va’ nel bosco. Sean ti sta aspettando per un allenamento.”

“E papà?”

“Farà da osservatore, stavolta. Oh, no, non aver paura. Nessuno si sogna che tu riesca a battere tuo zio. Finirai senza dubbio al tappeto.” ghignò giocosa.

“Grazie per l’incoraggiamento.”

Tamara si sporse per stampargli un ultimo bacio sulla fronte. Poi lo spinse giù dal letto e, sorda alle sue proteste, uscì dalla camera con il cuore più leggero.

Roman si trascinò in bagno, si lavò velocemente e si vestì. Scese le scale senza fretta, affatto impaziente di raggiungere il padre e lo zio nel bosco. Quando entrò in cucina, il suo stomaco gorgogliò.

Finché era stato prigioniero della bolla di depressione non aveva avvertito la fame, ma adesso sì. Fu con un grande sforzo di volontà che non cedette alla tentazione di sgraffignare qualche biscotto. Aveva finalmente imparato che non era saggio riempirsi la pancia prima degli allenamenti, di solito brutali. Ogni volta che aveva mangiato qualcosa, l’aveva prontamente rivomitata nell’arco di dieci minuti.

Uscì dalla porta sul retro e corse verso la linea di alberi che delimitava il cortile della casa. Appena fu al riparo nella fitta vegetazione, si spogliò, nascose i vestiti sotto le radici di un faggio e si scrocchiò le vertebre. Concentrandosi, chiuse gli occhi e regolarizzò il respiro. Infine, sguinzagliò la parte animale.

Mugolò di dolore al sentire le ossa che si spezzavano, i muscoli che si laceravano e l’epidermide che si strappava. La madre gli aveva ripetuto che era solo questione di abitudine, che presto il dolore sarebbe sparito, e lui non vedeva l’ora di lasciarsi quell’agonia alle spalle. Cadde in ginocchio sull’erba, ansimante, ma cercò di non opporsi. Lottare contro il lupo era, oltre che inutile, controproducente.
Presto il corpo si ricoprì di peluria marrone, gli artigli presero il posto delle unghie e gli arti cominciarono a trasformarsi. Il dolore gli esplose in bocca quando le zanne si allungarono e le ossa della faccia si riassemblarono nel muso di un lupo.

Riaprì gli occhi su un paesaggio tinto di grigio, giallo e verde. La sua vista in forma di lupo era strana, i colori talvolta erano psichedelici, ma era anche molto più acuta. Riusciva a distinguere i granelli di polvere che mulinavano nell’aria, gli insetti che brulicavano sul terreno, pezzetti microscopici di corteccia tra i fili d’erba. Declan, in passato, gli aveva detto che osservare il mondo con gli occhi del lupo era un po’ come guardare la realtà in alta definizione.

Avvicinò il muso al suolo e annusò. Individuò subito l’odore del padre. Lo seguì al trotto, scavalcando cespugli con un balzo e aggirando piccoli stagni. La natura attorno a lui cantava. Sembrava quasi che gli stesse dando il benvenuto. Poco dopo, giunse nella radura dove avevano sempre luogo gli allenamenti.

Sean era seduto con la schiena addossata a un albero, la postura ingannevolmente rilassata e lo sguardo indecifrabile. Vincent era in piedi dalla parte opposta, con le braccia conserte, le gambe lievemente divaricate e la schiena dritta, nella classica posa marziale che adottava in quei frangenti. Esibiva un’espressione severa, rimarcata dai riflessi argentei che i tiepidi raggi del sole conferivano alla sua barba e ai suoi capelli.

Mentre Sean era imprevedibile e letale, simile più a un rettile che a un lupo, Roman aveva sempre associato il padre all’immagine di “Alfa anziano”. Essa non aveva tanto a che fare con l’età, quanto con la generale impressione che trasmetteva un capotribù, al rispetto che Vincent ispirava nei lupi più giovani o, addirittura, parigrado. Ciascun dettaglio della sua figura, non importava quanto infinitesimale, suggeriva una profonda, se non dolorosa, saggezza acquisita tramite dure esperienze. Era un alfa che ne aveva viste, di cose, e ne aveva perse altrettante. Non era estraneo al lutto, alla sconfitta, al senso di colpa. Anzi, li indossava come una divisa da battaglia, fiero di come era riuscito a trasformare i fallimenti e le debolezze in qualcosa da cui traeva forza.

Questo, però, lo rendeva anche spaventoso. Da piccolo, Roman si era sentito sia affascinato che intimidito, come un cucciolo di fronte a un veterano. E Vincent era un veterano, a modo suo. Saggio, coraggioso, determinato e, al contempo, pieno di rammarico, frustrato, disilluso. I fallimenti lo avevano fortificato, ma gli avevano anche indurito il cuore.

Declan lo aveva spesso paragonato al comandante di un esercito, piuttosto che un padre o un alfa. I membri del branco erano i suoi soldati, non una famiglia da amare. Forse era stato questo a spingerlo ad allontanarsi.

Roman avanzò nella radura a testa bassa, gli occhi piantati sui fili d’erba attorno ai piedi di Vincent. Non gli serviva il fiuto per sapere che il padre non era felice dell’atteggiamento che aveva adottato di recente, quali che fossero i motivi. Era un miracolo, o più probabilmente era stato grazie all’intercessione di Tamara, se l’alfa non era mai venuto in camera sua a scuoterlo per la collottola o a ringhiargli in faccia.

“Alla buon’ora.” grugnì Vincent, palesemente seccato per l’attesa.

Roman si impose di non tremare. Si arrestò a un paio di passi dal padre e lo osservò fare un cenno a Sean, che si alzò con movimenti fluidi per portarsi al centro della radura. I suoi corti capelli biondi apparivano quasi bianchi sotto il sole e gli occhi erano di una sfumatura molto chiara di azzurro. A Roman, quel colore fece tornare in mente Regan e, inevitabilmente, la sfuriata avvenuta una settimana prima.

L’attacco, benché previsto, lo colse di sorpresa. Sean lo colpì a un fianco e lo spedì a zampe all’aria ai margini della radura. Roman atterrò con un guaito, ma si rimise subito in piedi. Non osò volgere il capo in direzione del padre, conscio che lo zio avrebbe approfittato pure di quella distrazione.

Sean divaricò le gambe, abbassò il baricentro e allargò le braccia, preparandosi a caricarlo di nuovo. Roman si piegò sulle zampe per darsi la spinta e lo anticipò. Sfrecciò rapido verso di lui, simulò una finta a destra, corse in cerchio intorno a lui per confonderlo. All’ultimo istante, invece che attaccarlo dal basso, spiccò un salto per prenderlo alla spalla destra.

Sean lo intercettò prima che potesse conficcare le zanne nella pelle e, traendo forza dal suo impeto, lo scaraventò contro un albero. Quando la sua schiena cozzò contro il tronco, Roman emise un altro guaito.

“Sei distratto.” commentò Vincent, “Questo è inammissibile, Roman. Concentrati, sgombra la mente. Sean non ci andrà leggero solo perché sei giovane. Alla tua età, Declan aveva già dimostrato molta più furbizia e agilità.”

Roman si ingobbì, ferito da quelle parole. Con suo padre funzionava così: Roman faceva qualcosa e lui non tardava a paragonarlo al fratello, senza mai scordarsi di sottolineare l’abisso che li separava. Non importava quanto Roman si impegnasse o sanguinasse, non avrebbe mai raggiunto il livello di Declan. Almeno, non agli occhi dell’alfa. Era e sarebbe stato sempre la seconda scelta.

Regan, invece, lo faceva sentire speciale, al primo posto. Certo, ultimamente c’erano stati degli attriti, ma sin dall’inizio il moro non gli aveva mai negato attenzioni. Aveva accettato di diventare il suo migliore amico anche se si conoscevano da poco e non lo aveva mai sminuito. Pretendeva lealtà e obbedienza, come qualsiasi alfa, ma, al contrario di Vincent, non lo ridicolizzava ad ogni piè sospinto, né lo considerava inferiore.

Gli mancava da morire.

Sean lo acciuffò per la collottola, gli sferrò una ginocchiata nello stomaco e lo scagliò a terra con violenza. Poi premette una mano sulla sua gola, costringendolo a sottomettersi. I suoi occhi erano affilati come lame.

Il ringhio spazientito di Vincent riecheggiò per il bosco, spaventando uccelli e altri piccoli animali. Sean mollò la presa e indietreggiò di qualche metro per cedere il posto all’alfa, che torreggiò sul figlio con aria minacciosa. L’aura che lo avvolgeva ridusse Roman al silenzio. Vincent non proferì verbo, si limitò a fissarlo dall’alto con delusione, disprezzo e un pizzico di confusione.

“Va’ a casa. Abbiamo finito, per oggi.” ordinò dopo quella che a Roman parve un’eternità.

Il giovane licantropo si issò piano sulle zampe, avvertendo le ossa scricchiolare e i muscoli ricucirsi. Entro un paio di minuti le ferite sarebbero guarite. Zoppicò fuori dalla radura, colmo di rabbia e umiliazione. Tornò al faggio dove aveva nascosto i vestiti, riassunse la forma umana e li indossò, per poi incespicare verso casa.

Tamara era in cucina a preparare la cena quando rientrò. Appena posò lo sguardo su di lui, si rabbuiò e rilasciò un sospiro triste. Schiacciato dalla vergogna, Roman le diede le spalle e si rintanò in camera.

Si gettò sul letto senza preoccuparsi della terra che sporcò le coltri. Occhieggiò il cellulare, adagiato sul comodino. Protese una mano per afferrarlo con l’intenzione di chiamare Regan, ma ci ripensò. Finché non si fosse scusato con lui di persona, non lo avrebbe contattato.

Trasformò le unghie in artigli e premette le punte affilate nella coscia. Il sangue non tardò a imbrattare i pantaloni della tuta, disegnando cinque cerchi rossi sulla stoffa. La sua bocca si spalancò in un grido muto, che soffocò del tutto azzannando il cuscino. Non si accorse delle lacrime che scesero a solcargli le guance, né del respiro affannato. L’unica cosa su cui voleva focalizzarsi era il dolore fisico, nella speranza che attutisse gli ululati pregni di disperazione che gli assediavano la mente.

I giorni passarono. A scuola nulla cambiò. Non trovò il coraggio di parlare con Regan, né di avvicinarsi a lui. Il moro irradiava nervosismo e frustrazione da tutti i pori, perciò Roman ritenne che fosse meglio rimandare la chiacchierata, non volendo schiantarsi contro un altro muro. La paura di un rifiuto era ancora troppo viva in lui.

Suo padre continuò a ricoprirlo di insulti e commenti sprezzanti durante le sessioni di allenamento nel bosco.

Gli zii si comportavano come se non esistesse, chiaramente influenzati dal loro alfa.

I cugini gli scoccavano spesso occhiate compassionevoli, ma restavano in silenzio.

Sua madre evitava di guardarlo, forse per non scaricargli addosso anche la propria delusione.

Declan non tornò per il Ringraziamento.

Artigli iniziarono a lacerare carne con più frequenza e il cuscino accolse sempre più urla e lacrime.

 
*

A casa McLaughlin non si festeggiò il Ringraziamento. La sera precedente, Regan spiegò a Derek che, essendo un’usanza americana, non c’entrava niente con Deirdre, che era di nazionalità irlandese. E Regan non era mai stato molto patriottico.

“Se vuoi festeggiarlo, torna a casa dalla tua famiglia.”

“Non posso, lo sai.”

“No, non lo so, Derek.” sbottò Regan, “È chiaro che i tuoi non ti puniranno per le tue azioni, altrimenti lo avrebbero già fatto. Vuoi restare qui perché ti piace pomiciare e fingere di essere sposati. Beh, notizia flash: non siamo sposati. Non so nemmeno cosa siamo, a dire la verità, e non mi interessa. È casa mia, non tua. Sei un ospite. Mia nonna paga cibo e bollette anche per te da settimane. Sei minorenne, quindi nessuno si aspetta che tu contribuisca alle spese, però non puoi continuare a gravare su mia nonna finché ti aggrada. Ce l’hai una famiglia in grado di provvedere a te. Torna da loro, per favore.”

“Mi stai cacciando?” boccheggiò stupito il biondo.

“Sì, e non ci vedo nulla di male. Se tu fossi un senzatetto, capirei. Peccato che tu non lo sia. Ti sembra giusto approfittare della gentilezza di mia nonna in maniera così spudorata? Se io mi insediassi a casa tua sino a data da definirsi, scroccando cibo e alloggio, non credo che i tuoi genitori ne sarebbero molto contenti, considerando che una dimora ce l’ho e mia nonna è perfettamente capace di badare a me.”

Derek arrossì di vergogna, realizzando che ciò che stava dicendo Regan era vero.

“Ma se Gregory e Kevin dovessero prenderti di mira una seconda volta e io non fossi nei paraggi…” borbottò imbronciato.

“Chi se ne frega! Se devo morire, amen. Tutti muoiono prima o poi, non c’è da farne un dramma.”

“Io non voglio che tu muoia.”

“E di questo ti ringrazio.” disse il moro, attingendo alle ultime riserve di pazienza, “Ma non puoi restare in eterno. A me, in fondo, non disturba che tu stia qui, ma a mia nonna non è mai piaciuto. Hai visto anche tu quanto è tesa. Detesta avere estranei in casa, soprattutto un cacciatore. E per così tanto tempo, per giunta. Capisci?” di fronte alla sua aria da cucciolo bastonato, mise a tacere l’impulso di spaccargli il cranio a mani nude ed esalò un lungo sospiro, “La porta sarà sempre aperta per te, Derek. Puoi venire a trovarmi quando vuoi. Talvolta, se a mia nonna andrà bene, potrai persino rimanere a cena. Ma basta scroccare ospitalità, okay? Non è educato.”

“Okay. Ho capito. Scusami. Non mi ero reso conto di… non ho pensato a… scusami.”

“Non è con me che ti devi scusare, ma con mia nonna. Sfamare tre bocche per settimane non è una passeggiata, e già stavamo stretti con le spese.” si alzò dal letto e aprì la porta di camera, “Vieni, ti aiuto a fare le valige.”

“Eh? Di già?”

“Quando vuoi farle, tra un mese?”

“No, è solo che…”

“Domani è il Ringraziamento. Passalo con la tua famiglia.”

Derek serrò le labbra e strinse i pugni. Per un attimo, sembrò sul punto di protestare. Regan si sentì sollevato quando non lo fece.

Un’ora dopo, Derek riconsegnò le chiavi a Deirdre, percorse il vialetto col borsone in spalla e salì in macchina, sparendo alla vista in pochi secondi.

Quando la porta si richiuse, nonna e nipote batterono il cinque.

 
*

Nella periferia a sud-ovest della città, su una collinetta circondata da una decina di ettari di campi si stagliava la casa di Rupert Gullon. Era un contadino di poco più di settant’anni, conosciuto ad Ashwood Port come “l’uomo che sussurra alle zucche”, perché le sue erano senza dubbio le più belle della contea. Ogni anno, alla fiera di Halloween, il sindaco gli assegnava un premio per le sue zucche, di solito soldi per comperare altri semi. Con il denaro che tirava su in autunno andava avanti fino a primavera.

Non era raro che guidasse in città almeno una volta a settimana per offrire un giro di birra agli amici al pub, o che invitasse i più stretti a cena a casa sua. Non era l’uomo più simpatico della terra, il suo umorismo lasciava molto a desiderare, ma tutti gli volevano bene, perché sapeva essere generoso anche se possedeva poco.

Da giorni, però, se ne stava chiuso in casa, schiacciato dal lutto. Infatti, la settimana scorsa sua moglie aveva avuto un infarto mentre lui era a lavorare nei campi. Quando era rincasato, l’aveva trovata riversa sul pavimento di cucina, priva di vita. Sui fornelli bolliva ancora lo stufato di tacchino che avrebbe servito per cena.

Al funerale, Rupert si era sforzato di ignorare i bisbigli delle amiche di Elizabeth. Parlavano di lei al passato, come se fosse morta da anni, invece che da una manciata di giorni. Per lui era ancora viva. Vedeva il suo sorriso, udiva la sua risata, la sua voce, sentiva il suo profumo. Era sempre intorno e dentro di lui, in ogni respiro, in ogni cosa su cui posasse lo sguardo.

Si era imposto di non scoppiare a piangere di fronte a tutti. Il cordoglio, a suo avviso, era un tipo di dolore da assaporare in privato, nell’intimità di una stanza piena di ricordi felici, dove, dopo aver esaurito tutte le lacrime, avrebbe detto addio all’amore della sua vita.

Dopo la funzione, aveva sprangato porte e finestre. Sigillato nel suo mausoleo personale, si era seduto a rivangare su album fotografici dolci memorie. Poi, dall’armadio, aveva estratto il secondo vestito preferito della sua Elizabeth – con il primo l’aveva sepolta – per inalare il profumo di rose che impregnava il tessuto.

Aveva trascorso così gli ultimi giorni e nessuno se l’era sentita di andare a disturbarlo, nemmeno per augurargli un buon Ringraziamento. Dovevano dargli tempo. Il lutto non è qualcosa che si supera presto, soprattutto per una moglie a cui si era tanto devoti.

I suoi amici erano ignari della sua inappetenza, del recente alcolismo e dei problemi d’insonnia. Se Rupert si fosse palesato in tutto il suo metro e ottanta innanzi a loro, avrebbero capito immediatamente che stava cercando di strisciare da solo nella fossa per ricongiungersi a Elizabeth. Peggio ancora, avrebbero tentato di fermarlo, e lui non poteva permetterlo.

Quel sabato pomeriggio, tuttavia, animato da un’urgenza che non sapeva spiegare, aveva deciso di fare qualcosa di speciale. Infatti, sua moglie avrebbe tanto voluto visitare con lui la mostra alla Fondazione Sthenos. Rupert, nonostante le sue suppliche, aveva sempre rifiutato. “Non è roba per me”, le aveva detto e ridetto, “Vacci con le amiche”, dimentico che facevano tutto insieme sin da prima di sposarsi. E così, dato che Elizabeth non aveva mai avuto l’opportunità di vedere la mostra, Rupert ci era andato da solo, per entrambi.

Aveva vagato per le sale con il dépliant illustrativo e osservato per ore quei reperti che per lui erano solo anticaglie di cattivo gusto. Si era immaginato di averla accanto, a commentare ciascun oggetto con finta aria da esperta, pavoneggiandosi nella sua mediocre cultura, solo perché sapeva quanto il marito adorasse quel lato di lei. Per un misero istante, gli era parso reale e il suo cuore si era riempito di tenerezza. Terminato il giro, se n’era tornato a casa e aveva sprangato di nuovo la porta.

Il sole era tramontato da un pezzo e il firmamento notturno era macchiato di stelle. La luna, grossa quanto una sottile falce, osservava dall’alto il muro di fitta oscurità che pian piano avanzava verso la casa sulla collina, avviluppando ogni forma di vita.

Rupert si stava girando e rigirando nel letto da circa un paio d’ore, cercando di acciuffare il sonno. Sconfitto, grugnì e si alzò a sedere. Il barattolo contenente le sue pillole giaceva mezzo vuoto sul comodino. L’uomo lo guardò con espressione torva. Forse aveva sviluppato un’alta tolleranza per averne abusato, o forse si trattava di un dannato placebo. Fatto stava che quelle pillole non funzionavano più.

Sulla parte di materasso che sino a una settimana prima era riservata alla moglie c’era il vestito di Elizabeth. Rupert ci aveva spruzzato dell’acqua di rose, per riprodurre l’odore che lo aveva cullato per più di trent’anni. Nemmeno quello funzionava più, il suo naso si era abituato.

Andò in bagno a sciacquarsi il viso, poi scese in cucina e versò l’acqua del rubinetto in un bicchiere di vetro. Puntò gli occhi sul paesaggio fuori dalla finestra. Il terreno era ricoperto di brina, quasi brullo. Lo spaventapasseri si ergeva a una cinquantina di metri dalla casa, solitario, abbandonato a se stesso, proprio come si sentiva Ruper in quel momento. I vestiti sbrindellati venivano accarezzati dalla brezza invernale, un cappello bucato gli nascondeva la faccia di paglia.

Un rumore strano proveniente dal tubo di scarico dell’acquaio interruppe la sua contemplazione, provocandogli un sussulto. Posò il bicchiere sul piano cottura e si chinò per vedere quale fosse il problema. Il buio gli rendeva il compito impossibile, così premette l’interruttore vicino ai fornelli, ma nessun lampo di luce giunse in suo soccorso. Sembrava che la lampadina si fosse fulminata. Sbuffò scocciato.

Aprì il cassetto delle posate e rovistò in cerca della torcia. La accese e diresse il fascio di luce verso il basso, mentre con un mestolo si mise a ispezionare il tubo. Il legno toccò le pareti di metallo producendo intermittenti tonc tonc, che risuonarono per tutta la casa. Dopo un po’, Rupert ritirò il mestolo e decise di infilarci direttamente la mano. Magari qualcosa era rimasto incastrato o un topo vi si era intrufolato. Non sarebbe stata la prima volta. Le dita tastarono qua e là, senza imbattersi in nient’altro che aria e incrostazioni di calcare.

“Maledetto tubo.” borbottò tra i denti.

Puntò la torcia sopra il buco e si sporse un po’ di più per osservare meglio.

All’improvviso, la luce tremolò e si spense.

Non ebbe nemmeno il tempo di imprecare.

Una mano scheletrica e nera emerse dal tubo e gli agguantò il collo, uccidendo sul nascere qualsiasi esclamazione di sorpresa o richiesta di aiuto.

Rupert boccheggiò, assalito da una violenta scarica di adrenalina. Mulinando le braccia per mantenere l’equilibrio, urtò il bicchiere, che si frantumò a terra spedendo schegge di vetro ovunque. Il cuore batteva frenetico nello sterno.

Presto la paura trasformò il suo sangue in ghiaccio e la carenza di ossigeno gli incendiò i polmoni.

Inciampò sotto la forza di un brusco strattone. La torcia cadde a terra.

Un secondo più tardi, venne risucchiato nelle tenebre.

La torcia si riaccese timidamente sul pavimento della cucina deserta. Seguendo il lieve pendio del pavimento, rotolò per un paio di metri finché il frigorifero non arrestò la sua avanzata.

 
*

Regan si svegliò di soprassalto a causa del solito incubo. Ogni cellula del suo corpo era pervasa dalla stessa sensazione che aveva provato quando il demone aveva attaccato.

Sbatté le palpebre e scosse il capo per scacciare il torpore. Nelle orecchie risuonava ancora quell’irritante sibilo.

Si guardò intorno, i muscoli tesi e i sensi all’erta. Poe sonnecchiava sulle coperte accanto ai suoi piedi. Il computer era spento. Sul pavimento libri, fogli, penne e quaderni erano sparpagliati qua e là. Nulla sembrava fuori posto.

Si strofinò la faccia con un sospiro. Confuso, ritirò le mani e le fissò. Inspirò sonoramente quando vide che erano nere e scheletriche, con lunghi artigli sottili.

Si precipitò ad accendere la luce sul comodino. La stanza venne rischiarata dall’alone giallo della lampada, quel tanto che bastava per constatare che le sue mani erano normali, pallide e magre.

Poe, destato dal trambusto, lo scrutò con un solo occhio, immobile nella sua posizione acciambellata, le orecchie rivolte verso il muro esterno.

I lampioni lungo la strada sfarfallarono per un paio di secondi, ma Regan non se ne accorse. Esalò un altro sospiro, spense di nuovo la luce e tornò a dormire.

Due giorni dopo, la faccia di Rupert Gullon era sulla prima pagina della gazzetta di Ashwood Port.

 
*

“Ormai non ci sono dubbi: il demone sceglie come vittime persone che sono state colpite da un lutto.” dichiarò Regan.

Seduto al tavolo di cucina con una tisana ai frutti di bosco tra le mani, osservò Deirdre analizzare i tarocchi disposti davanti a lei. Gli aveva letto le carte per la terza volta di fila. La cosa strana era che venivano fuori sempre le stesse, nel medesimo ordine.

“Non so perché aspetta sette giorni prima di prenderle, o perché soltanto un membro per famiglia. Beh, per Rupert è semplice, visto che lui ed Elizabeth non avevano figli e i loro parenti vivono in Nebraska. Ma perché per i Meyers ha scelto solo Teresa, e per i Bruce solo Timothy?”

Deirdre mugugnò, gli occhi fissi sui tarocchi.

“Elizabeth parlava di suo marito quando ha detto che presto sarebbero stati di nuovo insieme. Ma cosa significa quella storia dei tubi?” sbuffò scocciato, “Se mi appare un altro fantasma che parla per enigmi, giuro che gli butto del sale addosso.”

Deirdre raccolse di nuovo le carte e le porse a Regan per mischiarle. Lui la guardò con le palpebre a mezz’asta, chiedendole tacitamente “Ancora?”. Le prese, le mischiò e le predispose per la quarta volta sul tavolo. Nessuno si stupì nel vederle assumere il solito ordine.

“Mi passi la filastrocca, per favore?”

Senza distogliere lo sguardo dai tarocchi, Deirdre allungò una mano verso il bordo del tavolo e gliela consegnò. Sebbene l’avesse già imparata a memoria, Regan la rilesse con attenzione.

“Serpenti. Di demoni associati ai serpenti ce ne sono a bizzeffe. Però qui dice che ha catturato un serpente e gli ha rubato la voce. Lo ha posseduto? I demoni che possono possedere gli animali non sono molti. Questo restringe un po’ il campo. Agisce di notte. Ovvio, i demoni adorano l’oscurità. E cos’è questo fosso? Dov’è?” rifletté ad alta voce, “Il cerchio nascosto giace nel buio sotto il sole d’agosto. Cerchio, cerchio… è stato nascosto in un luogo buio… durante il mese d’agosto? Un cerchio. Bah. La canzone dell’abisso, invece, potrebbe riferirsi alla melodia orientale del mio incubo.”

“Raccontamelo di nuovo.”

Reprimendo un sussulto di sorpresa nel sentir parlare Deirdre per la prima volta da un paio d’ore, obbedì: “Vago nel buio. Ho freddo, ma non tremo. Sento che dovrei tornare indietro, avanzare sarebbe da stupidi. Mi giro. Compare un grammofono, circondato da un alone di luce opaca. Da esso provengono delle voci. Dicono cose diverse. Pian piano, si accavallano le une con le altre e si trasformano in sibili di serpenti. Poi anche quelli si smorzano, sostituiti da una melodia dai toni orientali. Dopo un po’, una mano nera e scheletrica emerge dal buio e la interrompe, provocando la mia ira. A quel punto, mi sveglio.”

“Ricordi cosa dicono le voci?”

“La prima dice ‘Stacy, sei tu?’, la seconda ‘Mamma…’, la terza ‘Maledetto tubo’, la quar… porca vacca!”

“Modera il linguaggio.”

“Stacy! Era la migliore amica di Teresa. Timothy, prima di essere catturato, deve aver chiamato sua madre. E Rupert…” boccheggiò scioccato, gli occhi sbarrati nel vuoto, “Ho sognato le ultime parole delle vittime. Le sogno da mesi, ormai. Ora riconosco la voce di Teresa! Per Timothy non posso esserne certo, non avendoci mai parlato. Rupert… il tubo… sua moglie ha accennato a dei tubi… non so cosa c’entrino, ma era un indizio!”

Si alzò di scatto. Poe, che era acciambellato sulle sue ginocchia, cadde con un miagolio oltraggiato. Regan lo ignorò e cominciò a camminare in su e in giù per la cucina.

“Non sono incubi, sono sogni premonitori! E la mano del demone, che ferma la melodia… non vuole che io l’ascolti. Non vuole che io sappia, che capisca. Cos’è che mi sfugge?” si tirò alcune ciocche corvine con le dita e grugnì, “Dato che i sogni vengono interrotti dal demone, i fantasmi si sono messi d’accordo per venirmi in soccorso? Anche se non si sono dimostrati di molto aiuto, tra indovinelli e moniti criptici. Però lo sanno. Lo sentono. Stanno cercando di avvertirmi. Perché io? Perché non i cacciatori?”

“Cosa dice la quarta la voce?” domandò Deirdre con freddezza.

“Ehm… dice ‘Sciò!’.”

“Sul serio?”

“Già.”

“Non è colpa tua, leprotto. Come avresti potuto capirlo con indizi del genere, che definire vaghi è dire poco?” sospirò affranta.

“Ciò non toglie che gli indizi ce li avevo sin dal principio. Perché non ci ho pensato? Avere lo stesso incubo almeno tre volte a settimana avrebbe dovuto far suonare qualche campanello d’allarme. Invece, mi sono comportato come se nulla fosse, accantonandolo in un angolo del cervello.”

“Forse è proprio quello che vuole il demone. Spingerti a credere che l’incubo non sia nulla di speciale.”

“Se così fosse, dovrebbe avere la capacità di entrare nella mia mente per influen… zarla… oh, cazzo.”

“Modera il linguaggio. E no, è impossibile, ti ho fatto l’amuleto.”

“Mica lo indosso mentre dormo.”

“Cosa?! Sei un idiota! Ti avevo detto di tenerlo sempre vicino!”

“Pensavo che avesse comunque effetto! È in fondo allo zaino, ma lo zaino è in camera mia, a due passi dal letto.”

Deirdre si coprì il viso con le mani e si afflosciò sulla sedia.

“Almeno, non ha più cercato di attaccarmi.” disse Regan dopo un minuto di silenzio, tornando a sedersi.

“D’ora in poi, mettilo sotto il cuscino. E non toglierti la collana.”

Regan sbuffò, chiuse gli occhi e reclinò il capo all’indietro, poggiando la nuca sullo schienale della sedia. Udì la nonna raccogliere i tarocchi e riporli nello scrigno, per poi avvicinarsi ai fornelli e cominciare a preparare la cena.

Poe compì un balzo e si riacciambellò sulle ginocchia di Regan, cominciando a fare le fusa per incoraggiarlo a fargli le coccole.

 
*

Martedì, Regan si recò a scuola di malumore. Si sforzò di salutare Derek con un sorriso, si prestò alle moine di Lorie e delle sue amiche e rispose agli abbracci poderosi di Mike con altrettanta forza. Aveva fatto pace con tutti loro, riaccogliendoli ufficialmente tra le sue grazie. La tensione che ammantava i corridoi si era finalmente dissipata.

Derek aveva compreso il suo ruolo nella pantomima. Non seguiva più Regan ovunque, ma sedeva con lui e gli altri a mensa e continuava a frequentare i suoi stessi corsi. Dato che pareva dell’opinione che lui e Regan fossero una coppia, il moro non poteva più appartarsi con le ragazze per farsi uno spuntino. Se si appartava, era per pomiciare con Derek.

L’unica nota stonata era la distanza che ancora c’era fra Regan e Roman. Derek era soddisfatto della situazione, Regan non tanto. Gli dispiaceva non avere più il suo più fedele alleato intorno. La rabbia era ormai svanita, era pronto a perdonarlo. Allora perché Roman non smetteva di fuggire non appena incrociava il suo sguardo? Questo estemporaneo giochetto a nascondino, sommato allo stress per tutte le altre questioni in sospeso, lo frustrava oltremisura.

A fine lezioni, Jennifer gli si accostò di fronte all’armadietto: “Regan, sai dov’è Roman?”

“Se lo sapessi, adesso gli starei sbraitando in faccia di darsi una calmata.” sibilò tra i denti.

Jennifer rimase spiazzata per qualche istante, poi si coprì la bocca per trattenere una risata.

“Beh, se lo trovi… non lo so, prova a parlargli. Di recente, è diventato scorbutico… stronzo, insomma. Credo che abbia a che fare con te e la sfuriata di più di una settimana fa. È meglio che ti sbrighi a dirgli che lo hai perdonato.”

“Intendevo farlo ieri, ma scappa ogni volta che mi vede.”

“Oggi pomeriggio ha l’allenamento di basket in palestra. Potresti avvicinarlo lì.”

“Tenterò.”

“Okay. A domani, Regan.” lo salutò con un bacio sulla guancia e si allontanò sculettando.

Con la coda dell’occhio, Regan vide Derek marciare nella sua direzione. Colse immediatamente il suo sguardo rapace e, dentro di sé, roteò gli occhi, percependo il fastidio montare.

“Andiamo a pomiciare in macchina? Dopo ti riaccompagno a casa.” propose il cacciatore, senza tanti preamboli, mentre lo ingabbiava tra le braccia per spalmarlo schiena contro gli armadietti.

“No, devo parlare con Roman.”

“Che ti importa di lui?” sputò Derek, arrabbiandosi al solo vedere le labbra di Regan articolare quel nome.

“È il mio migliore amico. Voglio fare pace.”

Derek aprì la bocca per protestare, ma Regan gliela catturò brevemente in un bacio casto, riuscendo a zittirlo con successo.

“Se vuoi pomiciare, passa da me più tardi. Ora devo andare a ricucire il rapporto con Roman.”

“Okay. Non dimenticare che dobbiamo anche discutere del demone.”

“Lo so. A dopo.”

Si aggiustò lo zaino sulla spalla, girò attorno a Derek e lo salutò scoccandogli un bacio da lontano.

Si recò in palestra. Arricciò il naso appena il tanfo di sudore gli invase le narici. Senza farsi notare, si sedette sulla panca più alta degli spalti e, dalla sua nuova postazione, si mise a osservare il suo bersaglio, che non pareva essersi accorto di lui.

 
*

Roman si sentiva a un passo dall’esplodere. Il padre era diventato, se possibile, ancor più severo. Gli allenamenti si erano fatti duri, spossanti. Per giunta, tutti rifiutavano di dirgli che cosa stava allarmando il branco. Era chiaro che fossero minacciati da qualcosa, ma Ruby e Sean avevano le labbra cucite, come sua madre. Vincent sedava ogni tentativo di indagine con parole aspre e interminabili sessioni di lotta nel bosco, alimentando la rabbia di Roman.

Inoltre, l’indomani ci sarebbe stata la luna piena. Già avvertiva il suo influsso. Il suo lupo era nervoso, frustrato, irascibile. Si sentiva intrappolato nella sua forma umana, senza alcuna possibilità di liberarsi. La pelle gli andava stretta.

Avrebbe dovuto restarsene a casa, quel giorno, ma aveva un test importante che non poteva saltare. E presto ci sarebbe stata la prima partita della stagione. Il coach stava tartassando la squadra per mettere alla prova i loro limiti e spronarli a superarli.

Pur consapevole che il suo atteggiamento gli stava alienando le simpatie di tutti, Roman non riusciva a smettere. Si udiva spesso rispondere con rabbia ai compagni e sputare insulti, incapace di porre un freno alle parole velenose che prendevano forma nella sua gola.

Corse per il campo, si portò in posizione e attese di ricevere la palla. Appena la strinse tra le mani, un compagno inciampò e gli cadde addosso, facendogli perdere la palla e il vantaggio. La furia montò a ondate e azzerò la ragione. Il suo lupo lo incitò ad alzarsi per dimostrare a quell’inutile rifiuto umano il suo posto ed esercitare dominanza su una creatura biologicamente inferiore. Serrò i pugni, digrignò i denti e si girò a fronteggiare il malcapitato, che deglutì e arretrò lesto, correndo a nascondersi dietro il coach.

“Sinclair, che diavolo ti prende?!” sbraitò il coach.

Roman emise un verso gutturale e tenne gli occhi fissi sul compagno di squadra, provando a incenerirlo con la sola forza dello sguardo.

“Ora basta! Sinclair, va’ a casa a schiarirti le idee. E la prossima volta che metterai piede in campo, ti voglio concentrato e calmo, ci siamo capiti?”

Roman schioccò la lingua e contrasse la mascella. Senza dire niente, oltrepassò l’uomo ad ampie falcate e marciò in direzione degli spogliatoi. Dopo essersi chiuso la porta alle spalle, si tolse la tuta e si rivestì senza farsi la doccia. Non voleva rimanere in quel posto un minuto di più.

Si era appena caricato lo zaino in spalla, quando l’odore di sangue, terra smossa, resina e legno bruciacchiato gli invase le narici.

“Che vuoi, Regan?”

Regan si appoggiò con la schiena alla porta chiusa, le braccia conserte e l’espressione più neutra del suo repertorio stampata in faccia.

“Che hai?”

“Ora ti interessa?”

“Sì.”

Roman sbuffò: “Stammi alla larga, non è giornata.”

Quando accennò a superarlo, Regan gli bloccò il passaggio, affatto intimidito dalle scariche di collera che lo schiaffeggiarono. Roman sembrava una bomba a orologeria in procinto di esplodere.

“Inspira. Conta fino a cinque, poi espira.” lo esortò con voce pacata.

“Che cazzo stai dicendo? Togliti, fammi passare!”

“Obbedisci, Roman.”

“Non dirmi quello che devo fare!”

“Oh? Cosa vuoi fare, cucciolotto?” lo provocò con un ghigno.

Regan deglutì e represse un moto di ansia. Stava improvvisando. Istigare un lupo mannaro forse non era la strategia più intelligente. Ma se non poteva riportare sotto controllo la sua rabbia, almeno l’avrebbe incanalata, dandole uno scopo.

Roman strabuzzò gli occhi, sbigottito dall’audacia dell’amico. Non sapeva che sfidare un licantropo a ridosso della luna piena era una condanna a morte?

Ah, ma lui non era uno schifoso umano, era un alfa. Il suo alfa.

Il lupo gioì, grato delle attenzioni che l’alfa gli stava rivolgendo dopo quel lungo periodo di astinenza. Avrebbe tanto voluto cadere in ginocchio e mostrargli lo stomaco.

Regan era pronto a incassare un pugno, un calcio, una qualunque percossa. Se lo aspettava, era lo scenario più plausibile. Per questo ciò che accadde subito dopo gli strappò via il fiato, lasciandolo spiazzato.

I denti di Roman si allungarono in zanne, i suoi occhi si tinsero di giallo, le orecchie si appuntirono. Le ossa del viso si ruppero e si riassemblarono in pochi istanti, conferendogli un aspetto grottesco e selvaggio. I capelli si scurirono, si infoltirono e ricaddero in una criniera color nocciola sulle spalle. Il collo si ingrossò, seguito dalle braccia, ora più lunghe e spesse, e dalle mani, simili a zampe complete di artigli. Il bacino si assottigliò, le cosce si fortificarono e gli stinchi si spezzarono a metà per plasmarsi nelle zampe posteriori tipiche di un animale.

Regan lo vide reclinare la testa a rallentatore, il muso puntato verso il soffitto. L’ululato che emise, roboante, lupesco, gli riverberò sin nelle ossa. Allora, come in risposta a un richiamo primordiale a cui non poteva opporsi, il suo sangue si unì al canto.

E fu come tornare a respirare.
 
 







 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Memories and truths ***










Regan boccheggiò per qualche secondo, frastornato e ammutolito dalla meraviglia. Roman era una visione da mozzare il fiato. Una persona normale sarebbe corsa via urlando, ma non lui. I suoi piedi rimasero ben piantati a terra e, invece che in una smorfia di terrore, le sue labbra si curvarono in un piccolo, autentico sorriso.

Sarebbe rimasto a contemplarlo per ore, anzi, giorni, se le sue orecchie non avessero colto lo scalpiccio di scarpe in avvicinamento e voci concitate che si chiedevano cosa fosse stato quell’ululato. Si riscosse e si avvicinò a Roman, incurante delle zanne e degli artigli sospesi a poca distanza dal proprio corpo.

“Dobbiamo scappare. Non credo tu voglia farti vedere così.” sussurrò con urgenza.

Il licantropo guaì interrogativo. Regan non attese un secondo di più. Lo agguantò per un polso peloso, raccolse dalla panca lo zaino di Roman e lo strattonò verso la finestra dall’altro lato della stanza, accanto alle docce. Si sporse per aprirla, poi si accovacciò per issare Roman dalle ginocchia e lo sollevò come se fosse stato un peso piuma. Rimase a guardarlo passare attraverso l’esiguo spazio con sorprendente agilità, prima che degli schiamazzi lo risvegliassero dallo stato di incantamento in cui era nuovamente piombato. Non era il momento adatto per distrarsi.

Fletté le gambe, si diede la spinta e compì un balzo, afferrando gli infissi della finestra per tirarsi su. Scivolò fuori appena in tempo. Quando richiuse la finestra, la porta degli spogliatoi si aprì, rivelando la squadra di basket al completo e il coach. Sospirò di sollievo.

Aggiustò il proprio zaino e quello di Roman su entrambe le spalle e si voltò per vedere cosa stesse facendo l’amico. Lo scoprì rannicchiato contro il muro, le grosse braccia pelose strette attorno alle ginocchia, gli occhi gialli che saettavano in ogni direzione e le orecchie schiacciate sul cranio. Sembrava un cucciolo impaurito.

Regan si accucciò davanti a lui e gli circondò il viso ricoperto di serica e folta pelliccia con le mani: “Roman, mi senti? Ora devi fidarti di me, va bene? Fa’ ciò che ti dico.”

Roman uggiolò confuso. Regan poggiò gli zaini sull’erba, si levò il giubbotto e lo coprì meglio che poté.

“Okay. Ora tieni la testa bassa, cammina lentamente. Dobbiamo raggiungere il parcheggio.”

Lo fece alzare per frugargli nelle tasche dei pantaloni ed estrasse le chiavi della macchina. Non si era mai seduto al volante, ma conosceva la teoria di base. Quanto poteva essere difficile?

Dopo un attimo di esitazione, Roman strinse tra gli artigli un lembo della maglia di Regan. Non era lucido nel senso umano del termine, ma il lupo sapeva con assoluta certezza che il suo alfa lo avrebbe protetto. Si fidava ciecamente di lui. Quando inspirò, il suo odore lo avviluppò come una coperta calda, facendolo sentire al sicuro, e si rilassò.

Avanzarono lungo il perimetro del cortile senza essere notati dai pochi studenti che ancora indugiavano presso l’entrata. Giunsero alla macchina di Roman senza intoppi. Regan sospinse l’amico sui sedili di dietro, poi prese posto alla guida e inserì la chiave. La prima fase era andata.

“Se tamponiamo, non prendertela, okay?”

Roman gli rispose con un ringhio. Siccome si sentiva in trappola nelle gabbie di stoffa che indossava, si strappò bruscamente la felpa e la maglietta, riducendoli a brandelli.

Regan ingranò la marcia e partì cauto, pregando di non venire fermato dalla polizia. La macchina scivolò nel traffico a singhiozzi. Più di una volta qualcuno suonò il clacson, insultandolo a gran voce. Regan non pensò nemmeno ad alzare il dito medio, concentrato com’era sui pedali per capire quanta pressione esercitare senza commettere frontali o schiantarsi contro un palo.

Si morse un labbro e valutò veloce il da farsi. Sterzò in una stradina secondaria, nella speranza di trovare meno traffico e ridurre i rischi. Guardandosi attorno febbrilmente, l’occhio gli cadde sul proprio zaino, buttato a casaccio sul tappetino del sedile del passeggero assieme a quello di Roman, e gli venne un’idea.

Intanto, sui sedili di dietro, Roman si dimenava e ringhiava, l’umanità sepolta sotto uno strato di agitazione animale. La maglietta e la felpa erano defunte, ma i pantaloni e le scarpe ancora resistevano attorno ai muscoli gonfi e guizzanti. Il suo torso era ricoperto da un sottile strato uniforme di peluria marrone. Regan avrebbe voluto passarci le mani.

Rallentò e si sporse per afferrare lo zaino e rovistare all’interno. Realizzò l’idiozia delle sue azioni solo quando una scossa gli attraversò le dita, riverberandosi in ogni cellula del suo essere. Il volante gli sfuggì di mano e le ruote della macchina sgommarono sul marciapiede. Per fortuna non c’era nessuno da investire. Evitando per un soffio un lampione, riprese il controllo e tornò sulla corsia. Strinse il volante fino a farsi sbiancare le nocche, inspirò e si sforzò di calmare il battito accelerato del suo cuore.

Roman ululò. Una scarpa si strappò, imitata dal calzino, e un piede peloso urtò il poggiatesta di Regan.

“Vuoi stare fermo?!” sbraitò, al limite della pazienza.

In mancanza di altre trovate geniali, agguantò lo zaino e, con una torsione agile del corpo, senza distogliere gli occhi dalla strada, svuotò direttamente il contenuto addosso all’amico. L’amuleto planò sullo stomaco di Roman, assieme a penne, libri e quaderni. Appena entrò in contatto con la pelle, il lupo emise un acuto guaito sofferente. Non potendo toccarlo, scalciò, si divincolò come un’anguilla e assordò Regan con i suoi ululati. Alla fine, il sacchetto perse contro la gravità e rotolò giù, sotto i sedili.

Regan imprecò, cominciando sul serio a preoccuparsi per la propria incolumità. Il sollievo lo pervase quando, dallo specchietto retrovisore, vide la trasformazione regredire e rilasciò un lungo respiro. In un minuto scarso, Roman tornò umano. Soltanto gli occhi rimasero gialli.

“Hey, lupacchiotto.” lo chiamò cauto, “Stai bene?”

Roman dilatò le narici e annusò l’aria.

“Regan…?” gracchiò intontito.

“Indovinato. Siccome vorrei portarti a casa, sarebbe meglio che tu mi dicessi l’indirizzo.”

“No… accosta.”

“Che?”

“Accosta.” ordinò.

Regan inarcò un sopracciglio. Dopo una breve lotta di sguardi, scrollò una spalla, imboccò un vicolo e frenò spingendo il pedale fino in fondo. La propulsione spedì Roman con la faccia dritta sul poggiatesta del sedile del passeggero. Appena si raddrizzò, un rivoletto di sangue gli colò giù dal naso, imbrattandogli labbra e mento.

“Ahi! Cazzo! Ti ha mai detto nessuno che sei un bastardo?”

“Mi farai arrossire con tutti questi complimenti.”

Roman grugnì e, massaggiandosi il naso, chiese: “Cosa è successo?”

“Ti sei trasformato nello spogliatoio. Se non ti avessi portato via, a quest’ora tutta la città conoscerebbe il tuo segreto. Non ringraziarmi.”

Roman abbassò la mano per fissarlo a bocca aperta. Regan lo guardò impallidire poco a poco. A quel punto, si aspettava una scenata, che fossero urla, minacce o risate, ma Roman rimase muto, prigioniero dello shock. Regan suppose che si stesse anche dando dello stupido, o che stesse cercando un modo per uscire da quella situazione con la dignità incolume.

“Perché hai voluto che accostassi? Non mi sembri nelle condizioni di guidare.” disse poi, stufo di attendere in silenzio.

“Io… ehm, io non…”

“Oppure faccio marcia indietro e ti accompagno io.”

“Eh… tu… cioè, io non…”

“Vuoi offrire altri input illuminanti o hai finito?”

“Non hai paura?” gli domandò alla fine Roman, curioso e, al contempo, terrorizzato, “Insomma, hai visto cosa… cosa sono.”

“Perché dovrei avere paura di te? Io sono metà vampiro.”

Regan aspettò trepidante la reazione di Roman, esternando una calma che non provava. Dirgli la verità era stato un azzardo in piena regola. Forse si sarebbe guadagnato ancora di più la sua fiducia, oltre a dargli la garanzia che non avrebbe divulgato il suo, di segreto, se non voleva rischiare altrettanto. O forse sarebbe caduto dalla padella alla brace: infatti, non sapeva come funzionasse nel mondo reale tra lupi mannari e vampiri, e se era come nei film, presto si sarebbe trovato con delle fauci avvolte attorno alla gola.

Stava scommettendo tutto, la sicurezza sua e di sua nonna, la loro vita ad Ashwood Port, ogni singolo obiettivo per il quale avevano lottato. Eppure, una parte di lui – l’istinto, un presentimento, una vocina nella testa, che dir si voglia – gli suggeriva che ne sarebbe valsa la pena.

“Che cosa?!” strillò Roman.

“Sono metà vampiro.” ripeté.

“Che… che cosa?!”

“Sono metà-”

“Ho capito! Ma, cioè…che-che cosa?!”

Regan lo fissò stralunato.

Roman trasse ampi respiri per calmarsi: “D’accordo. Okay. Metà vampiro. Ibrido, quindi. Okay.”

“Vuoi restare da solo per qualche momento a riflettere?”

“No. Sì. No. Metà vampiro. Okay. E come…?” gesticolò, indicandolo dalla testa ai piedi, “Insomma, hai capito.”

“No. Ma adesso non abbiamo tempo per le chiacchiere. Credo che qualche poliziotto ti abbia già preso il numero di targa mentre sfrecciavo nel traffico, quindi aspettati una multa salata.”

“Multa?”

“Vuoi tornare a casa, sì o no?” sbottò esasperato.

“S-Sì, certo… ma guido io.”

“Ottimo.”

Regan infilò di nuovo i libri nello zaino alla rinfusa e si apprestò a chiudere la cerniera, quando si ricordò dell’amuleto.

“Abbiamo un problema.”

Roman lo guardò interrogativo.

“La tua trasformazione è regredita grazie a un sacchettino di erbe. Credo che ti abbia indebolito quanto bastava per respingere il lupo nelle retrovie.”

“Oh. Sì. Cos’era?”

“Protezione contro il male. Essendo noi creature potenzialmente maligne, non possiamo toccarlo. Penso che sia finito sotto il sedile.”

“E come mai lo tenevi nello zaino? Come te lo sei procurato? Come vorresti recuperarlo?”

“A cuccia, Fido. Dammi la tua felpa. O ciò che ne resta.”

“Se non fossimo amici, ti sbranerei.” ringhiò cupo.

“Più fatti, meno parole. La felpa, prego.”

Roman gliela passò. Regan se la avvolse intorno alla mano, si piegò e allungò il braccio sotto il sedile, tastando alla cieca. Non trovando il sacchetto incriminato, sbuffò e ampliò l’area da ispezionare. A un certo punto, le dita si strinsero attorno a qualcosa di morbido. Le ritrasse trionfante, ma si imbronciò nel notare che il sacchetto si era rotto e le erbe erano volate dappertutto.

“Merda.”

“Da dove viene quel coso? E perché devi proteggerti dal male quando tu, tecnicamente, sei il male?”

“Non è una conversazione da avere in pubblico.” lo sedò Regan, raddrizzandosi con un sospiro esausto.

Chiuse la portiera, si issò lo zaino sulla spalla e studiò l’amico per interminabili istanti. Prendendo atto dell’espressione ebete di Roman, roteò gli occhi. Senza aggiungere altro, si diresse verso l’entrata del vicolo.

“Dove vai?” lo richiamò Roman, con una nota di panico nella voce.

“A casa. Vacci anche tu.”

“Non vuoi un passaggio?”

“Stai scherzando, spero.”

“Okay, hai ragione.” convenne Roman, dopo averci pensato su per qualche secondo.

“Ciao, Roman.”

“Aspetta!”

Regan si arrestò e si voltò di tre quarti, esibendo una smorfia scocciata.

“Lo sai che dobbiamo parlare, vero?”

“Nei prossimi giorni suppongo che ti godrai la luna piena, quindi facciamo sabato.”

“Va bene. Ehm… senti, a proposito di questa mia… cosa… non dirlo a nessuno, ti prego.”

“E tu non dirlo a nessuno.” lo scimmiottò Regan, ma nei suoi occhi chiari non brillava alcuna luce scherzosa.

“Mi pare giusto. A domani. E… grazie.”

“Non c’è di che.” grugnì e girò l’angolo a passo sostenuto.

La tensione non abbandonò Regan finché non udì il motore allontanarsi nella direzione opposta. A quel punto, si concesse di tornare a respirare normalmente. Dopo qualche istante, realizzando di aver lasciato la bici a scuola, imprecò.

Ripercorse la strada all’indietro, recuperò la bici e pedalò fino a casa. Frenò di fronte al vialetto e smontò. Aveva il fiatone, la gola secca e tanta, tanta sete.

La signora Greenwood, come sempre, sedeva sulla sua sedia di vimini sul portico, dall’altro lato della strada. Data la stagione, era imbacuccata in un pesante cappotto verde pisello, mentre alle mani indossava guanti di lana color borgogna e sulla testa un cappello da aviatore marrone. Regan ormai non batteva più ciglio davanti alla sua eccentricità, avendo avuto a disposizione ben sedici anni per abituarsi.

Poi si accorse che la signora Greenwood non stava fissando lui, ma qualcosa dietro di lui. Così si voltò e vide che, seduto sulle scalette del suo portico, c’era Derek. Con un sospiro afflitto entrò nel vialetto, abbandonò la bici sul prato e gli fece cenno di seguirlo in casa.

“Ho suonato, ma nessuno ha risposto.” disse Derek, una volta al riparo dal freddo.

“Aspetti da tanto?”

“Una decina di minuti. Dove eri?”

“A scuola. Sono rimasto in palestra per un po’, ma Roman è sgusciato via prima della fine e non sono riuscito a parlargli come si deve. Temo soffra di un particolare tipo di ansia da prestazione.”

“La tua sfuriata deve averlo traumatizzato.” ghignò il biondo, fermandosi alle sue spalle per avvolgerlo in un abbraccio e scoccargli un bacio tra i riccioli neri, “Mi sei mancato.” gli sussurrò in un orecchio.

“Ci siamo visti nemmeno due ore fa.” sbuffò Regan.

“Non mi dai un bacio?”

“No. Siediti, preparo il tè.”

“Ma come niente bacio?! Che ho fatto di male?” protestò il cacciatore, già sul piede di guerra, ma, vedendo Regan ignorarlo deliberatamente, chiaro segno che non lo avrebbe convinto nemmeno mettendosi in ginocchio, decise di cambiare argomento e riprovare a rubargli un bacio più tardi, “Tua nonna?”

“Boh. Sarà andata a fare la spesa.”

“Ah. Okay.”

“Dobbiamo parlare del demone.”

“Che palle che sei.” borbottò Derek, si sedette a tavola con un broncio rassegnato e incrociò le braccia sul torace, “I cacciatori sono stati allertati. Ho condiviso con loro tutte le informazioni che siamo riusciti a reperire e hanno cominciato a indagare. Non credo che ti ringrazieranno per la tua collaborazione, ma, a nome di tutti, ti dico: grazie, Regan.”

“Prego.”

Regan gli offrì una tazza di tè bollente e si accomodò davanti a lui.

“E mi hanno escluso dal caso.” aggiunse tra un sorso e l’altro Derek.

“Oh. Perché?” domandò curioso.

“Non vogliono che passi a te le nuove informazioni su cui metteranno le mani.”

“Che stronzi! Ci lasceranno procedere alla cieca, senza alcuna protezione?”

“Esattamente. Stando così le cose, però, d’ora in poi nemmeno noi saremo costretti a condividere le nostre scoperte con loro.”

“Occhio per occhio. Mi piace. Bene, da dove iniziamo?”

“I fantasmi ti hanno più parlato?”

“Ce n’è uno accanto a te, ma è rimasto zitto per tutto il tempo.”

Derek fece un piccolo balzo sulla sedia e si guardò intorno in preda al panico.

“Dov’è?”

Regan ridacchiò nella tazza: “Ti sto prendendo in giro, orsacchiotto.”

“Che bastardo.”

Il moro scrollò una spalla e gli rivolse un sorriso da schiaffi.

“Tornando ai cacciatori, cosa hanno intenzione di fare con me? E Gregory e Kevin?”

“Continueranno con il piano originale, ossia osservarti da lontano. Finché non farai del male a qualcuno, ti lasceranno in pace. Per quanto riguarda Gregory e Kevin, hanno ricevuto una strigliata coi fiocchi. Hanno agito senza un ordine diretto dei capi e rischiato di esporre il nostro segreto. Soprattutto Gregory. Pensava che, essendo membro di una triade, avrebbe avuto più libertà d’azione, il diritto di scegliere il bersaglio e annientarlo senza chiedere il permesso a nessuno. Ma non funziona così. Non ha ancora capito che, in quanto cacciatori appena ascesi, siamo in fondo alla gerarchia.”

“Ascesi?”

“Il rito d’iniziazione si chiama Ascensione. Non te lo avevo detto?” al cenno di negazione di Regan, fece spallucce e proseguì, “Ora lo sai. Dicevo, essere parte di una triade è importante nella cultura dei cacciatori, ma non vale nulla se si è appena ascesi. Gregory e Kevin lo hanno imparato sulla loro pelle.”

“Che intendi?”

“I capi non ci sono andati leggeri. Sappi soltanto che, se non fossero cacciatori, cioè se non avessero una scorza dura, ora sarebbero nel reparto di terapia intensiva.”

Regan non nascose il piacere che provò a quella notizia: “È magnifico. Davvero magnifico. E tu credevi che avrebbero punito te per avermi salvato.”

“Non potevo prevederlo. Nonostante mi dia tante arie da uomo vissuto, sono nuovo del campo.”

“Okay, riavvolgiamo il nastro. No, niente più visitine di fantasmi o visioni inquietanti dalla scomparsa di Rupert. Non ho nuovi indizi da riferire.”

“Allora dobbiamo aspettare che un altro fantasma si faccia vivo per avvertirti sulla prossima vittima. Ah! L’hai capita? Fantasmi… farsi vivi… eh?”

“Il tuo senso dell’umorismo è peggiore del mio.” commentò Regan in tono piatto.

“Non sei divertente.” Derek trangugiò il resto del tè in due sorsi e posò la tazza vuota sul tavolo, “Siccome mi pare che abbiamo esaurito l’argomento, pomiciamo?”

“Sei perennemente arrapato.”

“Sono un normale adolescente con una sana libido. Sei tu quello strano.”

“Grazie. Andiamo sul divano.” gli ordinò e si incamminò verso il salotto.

“Perché non in camera tua?”

“Mi fa fatica salire le scale.”

Prima che Derek potesse caricarselo in spalla come un uomo delle caverne, Regan si lasciò cadere sul divano a peso morto.

“Che fai, vieni o devo cominciare da solo?”

Derek fu su di lui in un attimo.

 
*

Roman parcheggiò accanto alla BMW di suo padre e spense il motore. Invece di scendere, rimase nell’auto per qualche minuto a contemplare il vuoto. Alla fine, scrollò il capo e si decise a entrare in casa.

Sapeva di non avere scampo. Dal momento che puzzava di ansia e i suoi vestiti erano a brandelli, le domande sarebbero piovute su di lui come una scarica di proiettili non appena avesse varcato la soglia. Allora avrebbe dovuto raccontare cosa era successo, e qualcosa gli diceva che suo padre non ne sarebbe stato affatto contento. Represse un brivido e aprì la porta.

Sua madre gli venne incontro con un sorriso, che si spense quando si accorse dello stato in cui era ridotto.

“Roman, cosa…?”

La voce allarmata della lupa richiamò l’alfa, il quale emerse dalla cucina con l’espressione di qualcuno pronto a commettere un omicidio. Lo squadrò dall’alto in basso e si accigliò.

“Cosa ti è successo, figliolo?” indagò Vincent, perforandolo con lo sguardo, “E cos’è l’odore che hai addosso? Mi è familiare, te l’ho già sentito sui vestiti qualche volta, ma ora è più forte.” continuò, sempre più perplesso.

“Non sono affari tuoi!” sbottò scocciato Roman, pentendosene subito.

Impallidì e arretrò di un passo, mentre il padre avanzò verso di lui con la postura rigida e gli occhi gialli della bestia. Era pronto a menare le mani, i muscoli guizzavano minacciosi sotto la maglietta.

“Vince, calmati.” lo blandì Tamara, ma lui la zittì con un ringhio.

“Scusa, papà, non volevo. Sono solo su di giri per via della luna piena.” balbettò Roman.

“Ciò non spiega cosa sia questo odore o perché tu ne sia ricoperto. Né come mai sei senza maglietta, scarpe e calzini. Senza contare i pantaloni strappati.”

“Eh… potrei essermi trasformato un pochino in macchina. Nulla di che, solo qualche pelo qua e là…”

“Hai perso il controllo.”

“No!” si affrettò a replicare, per poi stringere i denti e fare una smorfia costipata, “Sì…? Non è stato intenzionale. È che… beh, ecco, ho litigato con un mio amico e… sai com’è. Ero talmente arrabbiato che mi sono trasformato durante il tragitto verso casa. Ripensavo al litigio, alle parole che ci siamo scambiati e… scusa.”

L’alfa lo ispezionò rapidamente con olfatto, vista e udito per capire se stesse dicendo la verità. Quando la trovò, annuì, ma era ancora lontano dall’essere soddisfatto.

“D’accordo. Ciò che hai appena detto è vero, ma non è tutto. Stai nascondendo qualcosa, lo sento.”

Roman ringraziò tutte le divinità che conosceva, perché Vincent gli si era rivolto con la voce del padre, non dell’alfa. Se avesse usato la seconda, Roman non avrebbe avuto altra scelta se non ubbidire e rivelare il segreto di Regan, infrangendo la promessa e la sua fiducia.

Sapeva che, a lungo andare, la verità sarebbe saltata fuori comunque, poiché quello dell’amico non era uno di quei segreti destinati a rimanere tali. E allora ci sarebbero state delle conseguenze. Ma, per lui, una promessa era un impegno e, finché avesse potuto, l’avrebbe mantenuta.

“Ti ha visto qualcuno?” insisté Vincent.

L’esitazione di Roman valse come risposta. Il lupo strinse i pugni e un ringhio riverberò per la casa, facendo accapponare la pelle sia alla moglie che al figlio.

“Chi?” domandò con un timbro inumano.

“Il mio amico. Ha giurato di mantenere il segreto e io gli credo. Ti prego, papà… mi dispiace.”

“Dovremo conoscerlo, Roman.” intervenne Tamara.

“Come hai potuto?!” tuonò il padre, “Hai messo a rischio l’intero branco!”

“Non l’ho fatto apposta! E io mi fido di Regan, non dirà niente! Lo giuro!” esclamò nel panico.

Quando Vincent aprì la bocca per ribattere, Tamara gli afferrò il braccio ed entrò nel suo campo visivo, nascondendo Roman al suo sguardo penetrante.

“Non sta mentendo. Perdonalo, alfa. Porterà qui il suo amico e risolveremo tutto.” gli sussurrò sulle labbra, emanando feromoni remissivi, e gli mostrò la gola.

Il lupo inalò il profumo della sua compagna e pian piano si calmò. Anche se riacquisì il controllo in una manciata di secondi, Tamara sapeva che la quiete non sarebbe durata.

“Va bene, adesso non è il momento. Sappi solo che non finisce qui.” disse Vincent a Roman, che piegò il collo in sottomissione e lo ringraziò a bassa voce, “Va’ in cortile, stanotte parteciperai alla corsa propedeutica. Se ti comporterai bene, ti inviterò anche domani.”

Roman boccheggiò e guardò i genitori con aria sconvolta: “Cosa? Sul serio?”

“Sai trasformarti in un lupo, significa che sei maturo e pronto a unirti alla corsa.” rispose la madre.

“E chi resterà con Trevor e Nina?”

“Se ne occuperà Ruby.”

“Sbrigati, il sole è tramontato.” lo incitò Vincent.

Roman andò in camera per indossare un paio di pantaloni della tuta e una maglietta, poi uscì nel cortile sul retro, dove Sean lo stava aspettando. Lo zio incrociò lo sguardo del nipote per una frazione di secondo, giusto il tempo di comunicare la sua disapprovazione. Roman si sentì ancora più in colpa.

A giudicare dal battito frenetico del loro cuore, anche Ruby e i cugini, rintanati in una delle camere al piano di sopra, avevano udito la discussione. Di certo, nei prossimi giorni, Roman sarebbe stato soggetto a occhiate accusatrici e frecciatine caustiche da parte di tutto il branco.

Tamara e Vincent li superarono a testa alta. Marciarono verso la linea degli alberi a piedi nudi e si inoltrarono nella vegetazione con passo sicuro. Parevano seguire un percorso invisibile, noto soltanto a loro. Almeno finché Roman non fiutò distintamente l’odore di urina sulle cortecce degli alberi: l’alfa aveva già marcato il territorio e tracciato un sentiero sicuro.

Giunti nei pressi di un grosso faggio, Sean, Tamara e Vincent cominciarono a spogliarsi. Roman li imitò, incurante della nudità, e nascose i vestiti nel buco tra le radici insieme agli altri. Tornando a guardare i genitori e lo zio, li scoprì già trasformati.

Sua madre era una lupa dal pelo color grano e gli occhi come topazi, suo padre una grossa bestia col manto grigio scuro e occhi di un tenue giallo ocra, e Sean un mostro umanoide dalla pelliccia marrone e gli occhi completamente neri.

Sean, al contrario dell’alfa e della sua compagna, che avevano l’aspetto di grossi lupi, si reggeva solo sulle zampe posteriori. A dispetto della mutazione, la sua figura presentava ancora tratti anatomici tipicamente umani. Il suo corpo era ricoperto da una soffice peluria, le cinque dita delle mani erano più lunghe del normale e terminavano in lunghi artigli ricurvi e sui palmi sfoggiava uno strato di pelle ruvido e morbido, come quello sotto le zampe dei cani. La coda era più corta, il muso più schiacciato e le orecchie più piccole. In compenso, la sua intera mole, appesantita da muscoli possenti, misurava quasi il doppio di quella dei licantropi.

Roman aveva già visto lo zio nella sua forma di lupo mannaro. Eppure, ogni volta lo spettacolo suscitava in lui meraviglia e rispetto. Pur senza i suoi sensi sviluppati, poteva percepire chiaramente la forza emanata da Sean.

Il muso freddo e umido della madre si infilò sotto la sua ascella. Roman trasalì e squittì sorpreso. Tamara emise uno sbuffo particolare, l’equivalente di una risata, e gli diede una leggera spinta con una zampa. Roman afferrò il messaggio.

Si accucciò, lasciò che il lupo prendesse il sopravvento e non respinse il dolore quando la trasformazione cominciò. Pochi minuti dopo, l’umanità venne cacciata nelle retrovie e l’animale impugnò le redini. Roman gettò la testa indietro e ululò trionfante.

Vincent fu il primo a scattare. Sean lo seguì subito dopo. Entrambi si tuffarono tra gli alberi come schegge. Il suono delle loro zampe che battevano il terreno si fuse con i richiami degli animali notturni e il fruscio del vento tra le fronde.

Tamara attese che Roman fosse pronto, poi gli si accodò e lo indirizzò con morsetti alle caviglie sul sentiero marcato.

In quella forma, Roman sentiva in maniera più acuta tutto quanto. L’energia che gli pervadeva i muscoli era inebriante, gli faceva cantare il sangue e accelerava il battito del suo cuore, riversando adrenalina fin nelle ossa. Fiutò gli scoiattoli sui rami, i gufi, le lepri, una volpe e gli occorse una grande forza di volontà per non deviare dal sentiero e dar loro la caccia.

Il senso di libertà lo spinse a correre più veloce e presto raggiunse suo padre e Sean. I loro odori erano pungenti e familiari. Compì un balzo e mordicchiò giocoso un tallone dello zio, che si voltò e schioccò le zanne a un centimetro dalla sua faccia. Roman abbaiò e gli girò intorno, scodinzolando eccitato.

Vincent lo placcò all’improvviso. Lo atterrò e gli avvolse la gola tra le fauci in un gesto di dominanza. Roman si arrese senza lottare e gli leccò il muso, ricevendo un ringhio compiaciuto in risposta. Poi l’alfa si allontanò e riprese a correre, seguito dagli altri tre.

Erano passati anni dall’ultima volta in cui Roman aveva trascorso una luna piena con la sua famiglia, e non rinchiuso in un bunker sotterraneo. Quando era un cucciolo e non c’era timore che mutasse più delle unghie e dei denti, ricordava che era solito stare assieme agli altri per un po’, finché non era ora di andare a dormire.

Rammentava anche un periodo, appena cinque anni addietro, in cui suo fratello rinunciava alla corsa mensile per fargli compagnia. Declan si trasformava in lupo e giocava con lui fino all’alba, ignorando l’ordine dei genitori di mettere Roman a letto a mezzanotte.

Quelle notti speciali, che Roman conservava nella memoria come un tesoro prezioso, erano pure una scusa per parlare di cose serie, lontani da orecchie indiscrete. Già all’epoca aveva intuito che i rapporti interni al branco si stavano sgretolando, o che Declan si stava pian piano staccando dall’orbita del padre. Ma un conto era baloccarsi con un’idea astratta, un altro era accettare nel presente che quella stessa idea fosse divenuta realtà.

Tamara lo spintonò sul fianco destro e lo superò, sfidandolo a starle dietro. Roman non si fece pregare e partì alla rincorsa.

Tre ore dopo, il vento portò fino a loro la scia di un cervo maschio. Vincent assunse di nuovo il comando e li condusse sulle sue tracce.
L’eccitazione della caccia si risvegliò in Roman, tanto che fu faticoso rispettare la gerarchia e lasciare che fosse il padre a guidarlo.

Raggiunsero il cervo in una radura, era solo. Si acquattarono sottovento tra i cespugli e attesero il segnale di Vincent. Non appena il corpo dell’alfa si tese, sfrecciarono attraverso la radura con le zanne snudate. Il cervo non ebbe alcuna chance. Vincent gli squarciò la gola, mentre Sean lo smembrò dalla vita in giù. Fu una morte rapida e indolore.

L’odore del sangue fresco stuzzicò le narici di Roman, che non poté fare a meno di ululare vittorioso alla luna. Poi affondò le zanne nel pezzo di carne che sua madre gli porse e lo divorò con gusto.

 
*

Regan udì il rombo del motore della macchina di Roman prima ancora di vederla dalla finestra del salotto. Sabato era infine giunto. L’orologio segnava le due e un quarto.

Siccome sua nonna era andata tenere compagnia alla signora Greenwood, lui e Roman avrebbero avuto tempo in abbondanza per parlare senza alcun timore di essere ascoltati. Ancora, infatti, non aveva detto alla nonna cosa era successo a scuola o che Roman era un licantropo. Lo avrebbe fatto, sicuro, ma a tempo debito. D’altronde, aveva promesso all’amico di mantenere il segreto. Anche se non aveva specificato per quanto l’avrebbe mantenuto.

Roman parcheggiò davanti al cancello. Rivolse un’occhiata stranita alla signora Greenwood e al cannocchiale che lei teneva in mano. Poi si voltò, sempre con un’espressione diffidente, e percorse il vialetto a passo sostenuto.

Regan aprì la porta prima che bussasse e lo fece entrare. Neanche lo salutò, cercando di pilotarlo subito verso il divano. Il salotto era una specie di zona neutra, pensava che avrebbe messo Roman a suo agio.

Lui, però, socchiuse gli occhi e annusò l’aria. Non si preoccupò di essere discreto, perché avrebbe dovuto? Ormai il suo segreto era stato rivelato, non aveva senso nasconderlo. Si avvicinò alle scale, salì i primi gradini e si fermò ad osservare con interesse le fotografie appese al muro.

“Suoni il sassofono?”

“Suonavo.”

“Perché usi il passato?”

“Ho rotto il sassofono durante un attacco di rabbia quando avevo tredici anni. Stavo attraversando un brutto periodo.”

Roman mugugnò un assenso. Prima che Regan potesse acciuffarlo, scattò su per le scale. Seguendo il suo fiuto, entrò nella camera di Regan e cominciò a guardarsi attorno con curiosità. Fremeva dalla voglia di toccare tutto per lasciare il proprio odore sugli oggetti, ma si trattenne.

“Prego, accomodati.” grugnì Regan.

Roman ebbe la decenza di apparire imbarazzato. Le sue guance e la punta delle orecchie assunsero una tinta rosa acceso, che tentò di nascondere grattandosi la nuca. Non appena captò l’odore di Derek, la sua postura passò da impacciata a bellicosa nell’arco di un secondo.

“Perché l’odore di Derek è così forte? Viene qui spesso?”

“Abbastanza. Ti crea qualche problema?”

Roman digrignò i denti ed emise un basso ringhio: “Non mi piace.”

Regan scrollò una spalla. Nemmeno lui apprezzava essere costantemente avvolto dalla scia muschiata del giovane cacciatore, ma era il male minore.

“Come hai passato la luna piena?”

“Di notte ho corso nel bosco con i miei genitori e mio zio. Di giorno… bah, le solite cose: ho dormito, mangiato, dormito ancora e mangiato di nuovo. Sai, si bruciano un sacco di calorie.”

Poe decise che quello era il momento perfetto per fare la sua entrata in scena. Roman vide una palla di pelo nero schizzare a razzo da sotto il letto. Un attimo dopo, si ritrovò con gli artigli del gatto ancorati al cranio e le sue zanne a tanto così da un occhio. Non urlò come una femminuccia solo perché l’ossigeno gli si incastrò in gola.

“Poe, ti presento Roman. Roman, lui è Poe.”

Roman deglutì e si sforzò di non reagire quando Poe gli soffiò contro.

“Non credo di stargli simpatico…”

“Mi pare ovvio, sei un canide. E questo è il suo regno, tu lo hai appena invaso senza avvertire.”

“Mea culpa. Ehm… potresti levarmelo di dosso?”

“Perché?”

“Regaaan! Mi sta strappando la faccia!”

“Difenditi.”

“Non posso! Io adoro i gatti!”

Poe emise un miagolio minaccioso e Roman alzò le mani in segno di resa.

“Okay, okay! Ecco, mi sto inginocchiando. Sono in ginocchio. Mi sto sdraiando. Mi giro. Offro la gola.”

“Ti stai sottomettendo a Poe?” gli domandò incredulo Regan.

“È la mossa più intelligente quando si ha a che fare con un felino.” sussurrò dal pavimento.

Poe si districò, gli annusò la faccia e, ritenendosi soddisfatto, trotterellò di nuovo verso il letto per acciambellarsi sul cuscino.

“Mi ha accettato. Ora siamo amici del cuore.”

“Piuttosto direi che ti ha concesso di diventare il suo schiavo.”

“È uguale.”

Regan roteò gli occhi e lo invitò a sedersi dove voleva. Roman prese posto sul letto, lontano da Poe. Ci si molleggiò sopra e strusciò il posteriore e i palmi delle mani sulle coltri.

“Che stai facendo?”

“Marco il territorio.”

Regan lo fissò con le palpebre a mezz’asta e un’espressione granitica: “Non dovevi disturbarti.”

“Scusa, io… è una cosa da lupi. Ora sul tuo letto c’è il mio odore e, semmai altri lupi venissero a farti visita, fiuterebbero immediatamente che io sono stato qui prima di loro e capirebbero che sei protetto…” notando le iridi chiare di Regan sprizzare saette, avvampò, “Non ho potuto farne a meno!”

“Beh, controllati. E guai a te se pisci sulle mie cose.”

Roman bofonchiò una protesta con aria offesa. Si concesse lunghi secondi per studiare l’arredamento e gli oggetti sparpagliati qua e là. C’erano libri ovunque, alcuni dall’aspetto vissuto, rilegati in finta pelle, altri più nuovi. Una pila sulla scrivania veniva dalla biblioteca pubblica, a giudicare dall’etichetta con un codice appiccicata alla costola.

L’odore di Regan era intenso in quella stanza, segno che ci trascorreva parecchio tempo. Fu un’impresa scacciare l’impulso di rotolarsi sul materasso, sul tappeto, sui mobili per cancellare ogni traccia del passaggio di Derek.

Regan si sedette sulla sedia girevole alla scrivania e si schiarì la gola: “Allora?”

Roman si riscosse dalla contemplazione e aggiustò la postura, raddrizzando la schiena come un soldato. Non poté impedirsi di sfregare le gambe sulle coperte un altro po’, desideroso di lasciare un’impronta olfattiva di sé abbastanza potente da farla durare per settimane. Regan fu così gentile da non farglielo notare.

“Chi comincia?”

“Prima tu.” disse Regan.

“Perché?”

“Ti ho praticamente salvato la vita.”

“Giusto. Bene.” Roman si asciugò le mani sudate sui jeans e ruotò le spalle per sciogliere i muscoli tesi, “Cosa vuoi sapere?”

“Tutto.”

“Ad esempio?”

“La vostra specie va in calore?”

A Roman andò di traverso la saliva. Cominciò a tossire come se non ci fosse un domani, mentre arrossiva fino alle punte dei capelli.

“No! Cosa… no!” esclamò oltraggiato, agitando le braccia con enfasi per sottolineare il concetto, “Tra tutte le cose che potresti chiedermi, scegli questa?!”

Regan sbuffò una risata e sventolò una mano: “D’accordo, farò la persona seria.”

Una marea di domande ronzavano nella sua testa come uno sciame di vespe, difficili da imbrigliare. Sospirò e pose la prima, la più scontata.

“Da quanto tempo sei un lupo mannaro?”

“Ecco, chiariamo subito una cosa. Io sono un licantropo, non un lupo mannaro. C’è una bella differenza. I licantropi nascono tali e possono trasformarsi quando vogliono, mentre i lupi mannari in passato erano umani e si trasformano solo durante la luna piena. Sono soggetti alle fasi lunari, cioè.”

Regan si accigliò: “Quindi, negli spogliatoi, stavi perdendo la testa volontariamente?”

“Sto attraversando la pubertà! Il controllo non è il mio punto di forza, in questo periodo.”

“Certo. Comunque, finora ho sempre pensato che fossero sinonimi...”

“No. Come ho detto, i lupi mannari erano umani. Il morso di un licantropo li ha trasformati. È soprattutto a loro che dobbiamo parecchie delle superstizioni che circolano da secoli. Anche se, in effetti, una cosa è sempre stata giusta.”

“Quale?”

“L’argento. Esso può ucciderci, se somministrato nelle giuste dosi. Una piccola quantità può indebolirci, impedendoci di accedere ai poteri della parte animale. Normalmente, i licantropi sono più resistenti all’argento. Vale a dire che ne occorre tanto per farci fuori. Con i lupi mannari basta poco.”

“Viaggiate sempre in branco?”

“Sì. La forza risiede nel numero.”

“Quanto è grande il tuo branco?”

“Siamo in otto.” disse Roman, poi si rannuvolò, “In passato, eravamo di più.”

“Cos’è successo?”

“Questioni di famiglia. Non ho il permesso di parlarne con gli estranei.”

“Non siamo più amici?”

“Lo siamo, ma ci sono delle cose di cui non posso parlare. Mi dispiace. Non prenderla sul personale.”

“Uhm.” Regan sbuffò imbronciato, ma decise di lasciar perdere, “Da dove hanno origine i licantropi?”

“Nessuno sa quando e come ha avuto origine la nostra specie. Esistono varie teorie. C’è chi dice che siamo discendenti del dio egizio Anubi, chi del dio greco Zeus, chi del re Licaone, chi di Fenrir e così via, a seconda dei paesi e delle culture. Negli anni è diventata una sorta di pretesto per erigere culti religiosi, con tanto di sacerdoti, altari, tradizioni e riti sacri, e punzecchiarsi a vicenda su chi ha ragione.”

Regan moriva dalla voglia di fare delle ricerche approfondite per verificare tutte quelle teorie.

“La tua famiglia in cosa crede?”

“Noi siamo uno dei pochi branchi a non credere in niente. Siccome non esistono prove concrete, è inutile sbranarsi sulla base di miti e leggende. Accettiamo la nostra condizione, viviamo secondo le nostre leggi, e tanto ci basta.”

“Su quali precetti si basano i culti che hai elencato? Insomma, non possono essere così diversi, visto i fedeli appartengono tutti alla stessa specie.”

“La diatriba generale affonda le sue radici nel fatto che al mondo esistono sia licantropi che lupi mannari, e che il morso di un licantropo è in grado di trasformare l’umano in un lupo mannaro. Perché ciò accade? Chi ha voluto questo? Da chi è iniziato? Dove? Eccetera, eccetera. Tali domande hanno innescato aspre lotte, scismi e delle vere e proprie guerre religiose.”

“In questo, non siete poi così diversi dagli umani.”

“Lo siamo per metà, non scordarlo.” puntualizzò e gli rivolse un sorriso sghembo.

“Come vengono trattati i lupi mannari nella vostra comunità?”

“Non benissimo. Sono considerati una sorta di aberrazione. Ti ho detto che i licantropi possono trasformarsi quando vogliono senza perdere la ragione, anche se, durante la luna piena, gli istinti li sovraccaricano, provocando un impellente desiderio di correre tra gli alberi e ululare felici alla luna. I lupi mannari, al contrario, non scelgono di trasformarsi, sono impotenti di fronte agli impulsi. Spesso sono creature selvagge, assetate di sangue. Durante la luna piena, ogni traccia di umanità si estingue e talvolta arrivano a rivoltarsi contro i loro cari. Uno dei termini coniati per descriverli è ‘lunatici’.” disse, disegnando delle virgolette invisibili con le dita, “Ed ecco il motivo scatenante dei massacri avuti luogo nel corso della storia tra umani e lupi. Vedi, i licantropi non attaccherebbero mai il loro branco, o degli umani indifesi, a meno che non ve ne sia una necessità. Lo spirito di coesione che li lega è più forte di qualsiasi istinto. Sono un fronte unito, nel bene e nel male, e lottano sempre fianco a fianco. I lupi mannari no. Loro sono… mio padre è convinto che siano una corruzione dei licantropi, ma non in senso negativo.”

“Ne hai mai visto uno?”

“Mio zio Sean.” rivelò, “Ma non è un pericolo, o almeno non più. È anziano, secondo i nostri standard. Ha avuto anni per abituarsi e imparare a controllare i suoi istinti. Anzi, la sua intelligenza quando è in forma animale assomiglia più a quella di un licantropo.”

“Ma non tutti sono come tuo zio.” dedusse Regan.

“No. Secoli fa, i lupi mannari rischiarono l’estinzione, sia ad opera degli umani che dei licantropi, perché erano bestie indomabili. Vennero cacciati come le streghe, e insieme a loro i licantropi che li avevano morsi. Dopo innumerevoli e cruente stragi, gli alfa dei branchi più potenti, fra cui il mio antenato Roland Sinclair, firmarono un armistizio, permettendo ai lupi mannari di essere integrati nei branchi. Per un periodo continuarono a venire trattati come schiavi o esseri inferiori, ma col passare degli anni riuscirono ad essere assimilati interamente, divenendo parte della famiglia. In fondo, sono lupi come noi.”

Al che, un altro quesito sorse nella mente di Regan: “Perché non ce ne sono di più? Se vi basta un morso per trasformare un umano in lupo mannaro, le strade dovrebbero esserne piene. Insomma, da un punto di vista strategico e politico, sono soldati perfetti: quando c’è la luna piena, si spogliano della morale e della ragione e diventano flagelli di sterminio. Un branco che vanta cento lupi mannari sarebbe più forte e temuto di uno che ne vanta un paio.”

“Questo non accadrà mai per due motivi: il primo, perché i lupi mannari, quando cedono agli impulsi della bestia, non distinguono gli amici dai nemici, i cari dagli estranei, tutti sono prede ai loro occhi e questo li rende pressoché impossibili da controllare; il secondo, perché ci sono delle leggi che vietano ai licantropi di trasformare più di un certo numero di umani. Ti ripeto che, durante la luna piena, i lupi mannari si disfano di qualsiasi istinto di conservazione, gettandosi sulle prede senza curarsi di dove sono o chi li sta guardando. La nostra esistenza, invece, deve rimanere segreta. Pensaci. Se ci esponessimo, le autorità umane non impiegherebbero più di tre secondi ad attivare le bombe nucleari.”

“Ah. Okay. Giusto.”

“Il Consiglio degli Alfa, il nostro equivalente di un organo di governo, tempo fa votò affinché in tutti i branchi non ci fossero più di dieci lupi mannari. Se si sfora, i lupi mannari in più devono essere smistati altrove, presso altri branchi che non raggiungono il numero. È un delicato equilibrio, ma finora ha funzionato. Grazie alla decisione del Consiglio, non ci sono state più guerre territoriali da quasi duecento anni.”

“Perché i lupi mannari smistati hanno legami affettivi con il vecchio branco e fungono da cuscinetto.”

“Esatto.”

“Tuo zio Sean è uno di quei lupi mannari?”

“No. Mia zia Ruby, la sorella minore di mia madre, lo ha morso quando si sono sposati. Mio padre non accetta umani nel branco, perciò era l’unico modo per loro per vivere insieme.”

“Perché avete solo Sean? Potreste accoglierne altri nove.”

“Mio padre non accetta umani nel branco.” ripeté lentamente, “Ciò significa che nel caso io, mio fratello Declan, Trevor e Nina dovessimo innamorarci di umani, tanto da volerli sposare, potremmo trasformarli e tenerli nel branco, senza timore di venire separati.”

“Rimarrebbero comunque altri cinque posti vacanti.”

“Per eventuali figli nati umani, da trasformare appena possibile.”

“Uhm, ha senso.” mormorò assorto, per poi riallacciarsi al discorso precedente, “Trevor e Nina sono licantropi?”

“Sì, perché sono nati con il gene del lupo. Licantropi si nasce, non si diventa. Al contrario, si può solo diventare lupi mannari, non nascere. In pratica, se un licantropo si unisce a un umano, c’è un’alta percentuale che i loro figli nascano licantropi, ma potrebbero anche nascere umani. Se un lupo mannaro si unisce a un umano - è rarissimo, perché sono più inclini a perdere il controllo in presenza di umani - i figli nasceranno umani.”

“Perché il lupo mannaro prima era umano.”

“Bingo.” ammiccò, fletté le dita come se impugnasse una pistola e finse di sparare a Regan, “E se un licantropo si unisce a un lupo mannaro, possono succedere due cose: o i figli nascono col gene del lupo, o nascono umani. Di solito, Madre Natura predilige il primo caso, ma non è inaudito che da un’unione del genere vengano fuori bambini umani. Trevor e Nina sono stati fortunati a nascere licantropi. Altrimenti, a causa della legge di mio padre, Ruby avrebbe dovuto morderli e trasformarli in lupi mannari. Sfido chiunque a non strapparsi i capelli quando si ha a che fare con dei cuccioli di lupo mannaro. Se già gli adulti sono grosse gatte da pelare, con un gusto malsano per il sangue e i massacri gratuiti, immagina i cuccioli.”

“Se fossero nati umani, non sarebbe stata colpa loro.”

“A mio padre non importa di simili sottigliezze. O sei un lupo o non lo sei. Se lo sei, resti. Se non lo sei, o accetti il morso o te ne vai.”

“Scoccia.”

“Parecchio. A decine ci hanno lasciati per ragioni sentimentali. Lo scisma era già cominciato col mio bisnonno, a dire il vero, ma mio padre lo ha portato su tutto un altro livello.”

“Li ha sbattuti fuori?”

“Una cosa del genere. Sai, i Sinclair giunsero in America con i primi coloni e, negli anni, il loro numero crebbe, arrivando a diventare uno dei pochi branchi più potenti degli Stati Uniti. Nell’ultimo secolo, però, la fazione conservatrice, di cui mio padre è il principale promotore, ha compiuto una sorta di… epurazione. Di solito, nei branchi puoi trovare umani e altre creature, che vivono in armonia gli uni con gli altri sotto la guida dell’alfa e lo aiutano a proteggere il territorio. Mio padre, invece, come suo padre e il padre di suo padre, non accetta nel branco i non-lupi, né chi simpatizza con loro, perché non si fida. I licantropi funzionano in un determinato modo, spesso e volentieri non condiviso da altri esseri. Siamo uniti dal legame del branco, che è un concetto difficile da comprendere per i non-lupi. Per questo mio padre non li accetta. La sicurezza del branco viene prima di qualsiasi altra cosa. E così, chi ha rifiutato di conformarsi alle sue regole ha lasciato il branco. Siamo rimasti appena una manciata. È solo grazie al nome dei Sinclair, il quale possiede ancora un notevole peso, che non siamo stati sfidati e spazzati via da branchi rivali. Adesso siamo uno dei più piccoli branchi d’America.”

“Siete ancora in contatto con quelli che vi hanno lasciati?”

Roman assottigliò le labbra in una linea retta e scosse debolmente il capo, lo sguardo basso sulle mani intrecciate. Regan lo osservò strapparsi le pellicine intorno alle unghie per un po’, poi decise di porre fine al suo stato miserabile cambiando di nuovo argomento. E la gente diceva che non aveva empatia!

“Che aspetto hai quando sei trasformato in lupo?”

Roman ghignò e gonfiò il petto: “Sono bellissimo.”

“Questo lascialo giudicare a me.”

“Mia madre dice che sono bellissimo, perciò lo sono.”

“Oh, cocco di mamma.”

“Ho le prove. Guarda, ammira la mia maestosità!”

Estrasse il cellulare e si sporse verso di lui per mostrargli orgoglioso una foto che gli aveva scattato sua madre la sera addietro, di ritorno dalla corsa. Il suo manto era marrone scuro e folto, gli occhi gialli, le zanne lunghe e affilate, gli artigli neri e ricurvi.

Regan cercò di tenere a freno la delusione nel constatare che non era Roman il lupo dei suoi sogni e distrasse l’amico con un altro commento caustico.

“Io vedo solo una grossa e grassa palla di pelo. Oh, sei tu? Che carino.”

“Stronzo.” bofonchiò offeso e infilò il cellulare in tasca.

“Okay, adesso parliamo di cose serie.” enunciò Regan.

“E finora di cosa abbiamo parlato, scusa?”

Regan sventolò una mano per zittirlo: “Cosa siete in grado di fare?”

“Siamo più veloci e agili degli umani, abbiamo fiuto, vista e udito molto sviluppati, vantiamo capacità di guarigione accelerate e siamo la nemesi dei vampiri.”

“È una minaccia?” chiese Regan, inarcando un sopracciglio.

Roman snudò i denti con fare giocoso.

“Oltre all’argento, il morso dei vampiri può spedirci all’altro mondo. La decapitazione è un ottimo metodo, e credo che funzioni con tutti gli esseri viventi. Poi c’è il fuoco, l’annegamento, il soffocamento, un paletto nel cuore…” gli scoccò un’occhiata satura di sottintesi, “… o qualsiasi cosa, a dire il vero, non serve che sia per forza un paletto di legno.”

“Uhm. Farò incetta di argento.”

“Se vuoi che restiamo amici, non te lo consiglio. Posso fiutarlo da metri di distanza e mi provoca reazioni allergiche.” replicò Roman e lo incalzò senza perdere altro tempo, “Ora è il tuo turno. Illuminami. Onestamente, conosco i vampiri, so a cosa sono immuni e cosa li uccide, ma non ho mai sentito parlare di un ibrido di vampiro.”

“Da dove vuoi che cominci?”

“Dall’inizio.”

Regan trasse un profondo respiro e riportò a galla i ricordi di circa tre anni prima, quando aveva avuto la Rivelazione. Si scrocchiò il collo a occhi chiusi e si preparò a rivivere i traumi che aveva sepolto in fondo alla coscienza.

“Avevo tredici anni ed ero al primo anno delle medie.”


 
Correva a perdifiato lungo i marciapiedi, scansando i passanti, i lampioni e gli alberi più veloce di un fulmine. Correva come se ne andasse della sua vita e, in fondo, non era poi tanto lontano dalla verità.

Le persone si girarono stupite al suo passaggio, ma lui non aveva occhi che per gli ostacoli posti sul suo cammino, la mente impegnata in due direzioni: come evitarli e come usarli per rallentare i suoi inseguitori, che lo tallonavano una decina di metri più indietro, gridandogli di fermarsi. Come se fosse un’opzione! Se si fosse fermato, lo avrebbero preso e conciato per le feste.

Non si pentiva di averli insultati pubblicamente nel cortile della scuola, a fine lezioni, quando avevano deciso di prendersela con Pedro Lang, un bambino di dodici anni, sovrappeso e timido, nato da madre messicana e padre cinese.

Regan non aveva mai interagito con lui, anche se avrebbe voluto. Entrambi erano considerati dei perdenti e trattati come degli emarginati. Se avessero stretto amicizia, sarebbero stati meno soli. Ma Regan, imbranato e con problemi a socializzare, non era mai riuscito a trovare il coraggio di avvicinarlo.

La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stato quando il branco di bulletti della scuola, capeggiati da Freddy Hawthorne, aveva distrutto il modellino di Pedro per il progetto di Studi sociali. Regan aveva avvertito la rabbia straripare e aveva visto rosso. Risultato: aveva difeso Pedro, ma adesso si trovava a dover fuggire dai quattro bulletti testardi per mezza città.

Più volte il pensiero di non provare mai più a ficcare il naso dove non doveva gli aveva accarezzato la coscienza, ma il ricordo del viso rigato di lacrime di Pedro lo aveva scacciato seduta stante. Lui poteva sopportare qualche percossa, era coriaceo e un bastardo quando voleva. Pedro, invece, non aveva la stoffa del combattente.

Il cuore martellava impazzito nella cassa toracica e i polmoni erano in fiamme. Il peso dello zaino lo rallentava, ma non contemplò nemmeno per un attimo il pensiero di abbandonarlo.

“Dove scappi, sgorbietto? Prima o poi ti prenderemo!”

A giudicare dal volume delle loro risate, erano più vicini di quanto avesse immaginato. Accelerò, si infilò in un vicolo e lo percorse in pochi secondi. Dopo qualche passo, si accorse con crescente orrore che non c’era via d’uscita.

Si voltò spaventato, annaspando in cerca di ossigeno. Si scrollò lo zaino dalle spalle e lo gettò a terra, dietro un cassonetto. Con un po’ di fortuna, non lo avrebbero individuato e fatto a pezzi i suoi libri e quaderni, come era ormai prassi.

Un secondo più tardi, Freddy apparve in cima al vicolo, assieme al suo gruppo. Avevano tutti il fiatone, ma sfoggiavano ghigni trionfanti.

“Il topolino è in trappola.”

I bulli avanzarono mentre lui indietreggiava, finché non si scoprì letteralmente con le spalle al muro. Due paia di mani lo afferrarono per il giubbotto e lo strattonarono con violenza, spedendolo a terra con un tonfo e un gemito.

Freddy lo squadrò dall’alto con un ghigno. Accanto a lui c’era il suo braccio destro, Arthur Gallagher. Gli altri due erano rimasti indietro a controllare che non arrivasse nessuno a interromperli.

Regan ponderò l’idea di chiamare aiuto, ma le finestre degli edifici che aggettavano sul vicolo erano tutte chiuse e buie.

“Beh? Il gatto ti ha mangiato la lingua, sgorbio? Che cosa avevi detto a scuola? Ti spiacerebbe ripetere?”

Per quanto la voglia di sputargli in faccia gli facesse prudere la lingua, Regan optò per il silenzio. Non voleva peggiorare la situazione provocandolo ancora di più.

Divertito, Freddy si accucciò per guardarlo più da vicino e pizzicargli dolorosamente una guancia. Regan reagì graffiandogli la mano. Freddy la ritrasse con un’imprecazione e studiò con espressione inviperita il sangue sgorgare dalle tre ferite parallele sopra le nocche.

“Mi sa che dovrò darti una lezione, mh? Così la prossima volta ci penserai due volte prima di darmi del mollusco senza palle.”

Il pugno giunse fulmineo e si abbatté contro la sua mandibola. Ne seguì un altro sul naso, poi un calcio nelle costole e un secondo nello stomaco. Regan incrociò le braccia sopra la testa per proteggersi. Raggomitolato in posizione fetale, strinse i denti, cercando di trattenere i guaiti di dolore. Non voleva dar loro alcuna soddisfazione.

I colpi piovvero come dardi, forti e implacabili, per svariati minuti. Le sue membra si intorpidirono, pulsando qua e là dove presto sarebbero comparsi i lividi. Inspirò ciò che credeva fosse muco, ma invece registrò l’odore ferroso del sangue. Un po’ gli sporcò le labbra e gli bagnò la lingua.

Non appena la mano di Freddy calò su di lui per sferrargli l’ennesimo pugno, Regan la intercettò, la imprigionò tra i denti e morse. Freddy urlò e gli tirò un calciò nel plesso solare, mozzandogli il fiato e facendogli allentare la presa sulla mano.

Invece che sputarlo, Regan deglutì il sangue che gli aveva inondato la bocca. Il sangue di Freddy.

All’improvviso, il suo corpo ebbe uno spasmo violento.

I bulli arrestarono l’assalto e si allontanarono di un passo, borbottando in preda al panico domande che le sue orecchie non riuscivano a imbrigliare.

Un secondo spasmo gli fece contrarre le viscere, risalendo su per lo stomaco, il petto, la gola. I suoi organi interni bruciavano, le gengive spedivano fitte lancinanti. Se avesse dovuto descriverlo, avrebbe detto che era qualcosa di simile a un fuoco gelido. Frizzava, ardeva, dilaniava come l’acqua di un lago ghiacciato che penetra nei polmoni. Non che sapesse cosa si provava a ingurgitare l’acqua di un lago ghiacciato, ma aveva letto su Google un articolo di un tizio che era quasi morto durante un’escursione, dove parlava della sensazione di affogare a parecchi gradi sottozero.

Annaspò. Le dita artigliarono l’asfalto. I muscoli guizzarono, attraversati da una corrente elettrica. Cercò di ignorare le lacrime che gli rigavano le guance e si sforzò di incamerare ossigeno, ma il dolore era accecante. Soprattutto in bocca, dove sembrava che qualcuno gli stesse colpendo ripetutamente le gengive con una spranga di ferro.

Sputò il sangue che si era accumulato in gola per non soffocare e puntò gli occhi sgranati nel vuoto, irrigidendosi come una statua, tanta era l’agonia che lo aveva pervaso.

Dopo qualche istante, il dolore svanì. Si afflosciò con un sospiro di sollievo. Poi si issò sui gomiti, sputò altro sangue misto a saliva e inspirò col naso a occhi chiusi.

Trasalì quando venne aggredito da una valanga di odori pungenti. Appoggiò di nuovo la guancia sul cemento per ancorarsi e restare lucido. Si sentiva galleggiare in un mare in tempesta.

Velocemente catalogò gli effluvi che gli schiaffeggiavano le narici: l’olezzo di escrementi felini, il tanfo della spazzatura nei cassonetti, l’odore nauseante di zuppa di cavolo proveniente da un appartamento qualche metro sopra la sua testa, il sangue che aveva sputato e quello che ancora ricopriva le nocche di Freddy.

Quest’ultimo risvegliò un’insolita fame, ma il suo stomaco non stava gorgogliando come quando sua nonna gli piazzava un piatto di lasagne davanti.

Inspirò ancora, profondamente, concentrandosi su Freddy e i suoi compari. La scia amarognola emanata dai loro corpi gli fece storcere il naso.

Corrugò le sopracciglia e si portò una mano sul setto nasale, appurando che non era più rotto e non doleva affatto. Neppure gli zigomi, la mandibola, il petto, le braccia, il ventre e le gambe facevano più male.

Con l’indice e il medio si asciugò il sangue che gli imbrattava il mento e osservò come ipnotizzato il liquido rosso colare sulla pelle. Non si accorse dell’incremento nella salivazione che quella vista provocò.  

“Che diavolo gli prende…?”

Il commento di Arthur lo riportò al presente. Gli occhi di Regan scattarono su di lui e quello arretrò bruscamente, pallido e sudato.

“Andiamocene, Freddy.” suggerì agitato un altro, ma Freddy lo ignorò.

“Devo dargli una lezione.”

“Gliel’hai già data, guardalo! Ora andiamo, prima che qualcuno ci veda.”

“Voi andate, io non ho ancora finito.”

“Freddy…”

“Andate! Femminucce che non siete altro. Come al solito devo pensarci io.” sibilò, fulminandoli con uno sguardo truce.

Arthur strinse i pugni, contrasse la mascella e trasse un ampio respiro. Tutti si aspettavano che protestasse o dicesse qualcosa. Lui, invece, scosse il capo e intimò agli altri di seguirlo fuori dal vicolo.

“Tch. Codardi.” borbottò Freddy, per poi riportare l’attenzione sulla sua vittima, “Allora, sgorbio. Qualcos’altro da dire? Aprirai ancora quella tua boccaccia in mia presenza?”

Estrasse dalla tasca posteriore dei jeans un coltellino a serramanico lungo quanto il suo palmo. Lo sventolò in aria e lo aprì, mostrandogli la lama.

“Vuoi giocare? Oppure hai troppa paura? Ora non fai più tanto il gradasso, eh?”

Ridacchiando, fece scattare la lama a pochi centimetri dal viso di Regan. La luce del lampione che illuminava il vicolo si rifletté sul metallo, che baluginò creando strane ombre sui mattoni e sull’intonaco delle case. Si piegò, torreggiando su di lui, e avvicinò il coltello al suo occhio destro.

Un attimo dopo, lanciò un grido terrorizzato e perse la presa sull’arma, che cadde sull’asfalto con un tintinnio. Zanne appuntite gli perforarono la pelle del polso, là dove le vene irrorate di sangue erano in rilievo. La mandibola si chiuse come una tenaglia attorno all’osso.

“Oh, cazzo! Lasciami! Lasciami!!!” strillò.

Freddy schiantò pugni su pugni sul cranio dell’altro, ma Regan pareva non sentirli. Pian piano le energie si esaurirono, risucchiate via dalla ferita sul polso, dentro la bocca di Regan, il quale lappava con ingordigia la linfa vitale che stillava dai fori provocati dalle sue zanne.

“Lasciami… mostro…”


 
“Mi ripresi appena in tempo. Il suo battito era lento, ma almeno era ancora vivo. Chiamai l’ambulanza e aspettai insieme a lui. Freddy non riportò ferite gravi, per fortuna. I dottori gli misero dei punti e lo rispedirono a casa la sera stessa. Un mese dopo, lui e la sua famiglia si trasferirono da qualche parte in Nord Dakota e nessuno ne ha saputo più niente.”

Roman lo scrutò intensamente, quasi volesse aprire un buco nella sua testa per sbirciare all’interno.

“Cosa è successo dopo che hai morso Freddy?” gli domandò in un sussurro, percependo sulla pelle la suspense che aleggiava nell’aria.

Regan grugnì, incrociò le braccia sul torace e incenerì con lo sguardo un punto a caso davanti a sé. Poi rilasciò un sospiro e si rilassò, riassumendo un’espressione neutra.


 
Quando sentì le sirene dell’ambulanza avvicinarsi, si ripulì il mento dal sangue e si alzò. La polizia entrò nel vicolo con i paramedici. Regan rispose in modo conciso alle domande degli agenti, che gli dissero che non aveva nulla di cui preoccuparsi. Venne comunque scortato in centrale, dove lo sceriffo Zimmermann prese la sua deposizione e lo rilasciò con la semplice raccomandazione di restare lontano dai guai. Un’ora dopo, sua nonna lo prelevò e lo scortò fuori senza dire una parola.

Tornati a casa, Deirdre pretese di sapere cosa fosse successo veramente. Regan esitò, non voleva spaventarla. Lei insisté. Alla fine, Regan capitolò. Le riassunse gli avvenimenti, dalla fuga al pestaggio, dagli insulti all’aggressione. Non tralasciò nulla. Deirdre rimase impassibile.

“Fammi vedere i denti, leprotto.” lo esortò al termine del racconto.

Regan obbedì e le mostrò i canini, più lunghi del normale. Il suo alito sapeva ancora di sangue. Deirdre storse il naso. Poi sospirò, intrecciò le mani in grembo e scoccò al nipote un’occhiata triste.

“Ho pregato che non accadesse, che ti fosse concessa la possibilità di vivere una vita normale, ma evidentemente non sono stata ascoltata.”

“Tu sai cosa mi sta succedendo?”

“Sì.”

“Devi dirmelo!”

“Non è una storia bella, Regan. Non so se sei pronto. Sei ancora un bambino…”

“Ha importanza, a questo punto?”

“Suppongo di no.” esalò con voce flebile, rassegnata.

Deirdre si alzò, si recò ai fornelli e posò su di essi una teiera piena d’acqua per preparare il tè.

“Tredici anni fa, abitavo in un condominio di periferia. Un giorno, nell’appartamento accanto al mio si trasferì una giovane donna di nome Shannon Tally. Tua madre.”

Regan si bloccò per processare le parole della nonna: “Cosa intendi? Non capisco…”

“Io e te non condividiamo legami di sangue. Ti ho adottato.”

“Cosa?!”

“Calmati e lasciami finire.”

Sconvolto, Regan ammutolì. Accettò con gesti automatici la tazza di tè che Deirdre gli porse, ma non l’avvicinò alle labbra, gli occhi chiari fissi sulla donna seduta vicino a lui.

“Shannon aveva circa vent’anni, all’epoca.” riprese a raccontare Deirdre, “Era intelligente, educata e anche molto bella. Hai ereditato i suoi occhi.” gli elargì un sorriso amaro, “Poco dopo essersi trasferita, trovò un impiego presso un supermercato come cassiera e si inserì senza problemi nella comunità. Col passare delle settimane, diventammo buone vicine e ottime amiche. Trascorrevamo molte serate insieme a chiacchierare e scambiarci pettegolezzi, godendo della reciproca compagnia. Poi, un mese e mezzo dopo il suo arrivo, scoprì di essere incinta. Quando le chiesi chi fosse il padre, lei rifiutò di rivelarmi la sua identità. Mi disse solo che era un uomo con cui aveva avuto una breve avventura e che si erano lasciati poco prima che lei si trasferisse ad Ashwood Port. Allora le consigliai di chiamare la sua famiglia per farsi aiutare, perché una giovane donna incinta non poteva contare unicamente sulle proprie forze. Mi disse che i suoi rapporti con la famiglia si erano incrinati a causa della sua tresca con tuo padre. Per questo se n’era andata. Loro non le avrebbero fornito alcun supporto.”

Il suo sguardo si perse in lontananza, tra ricordi malinconici ed echi irraggiungibili. Regan pendeva dalle sue labbra, impaziente di udire il resto.

“Mi occupai io di lei, accompagnandola passo dopo passo durante la gravidanza. Purtroppo, mi accorsi tardi del suo malessere emotivo, scaturito dall’abbandono dei suoi cari, dalla solitudine e dalla paura di non sapere cosa avrebbe comportato diventare madre. Fu terribile vedere Shannon, di solito sorridente, piena di ottimismo e con una battuta sempre pronta sulla lingua, precipitare nella depressione. Perse l’appetito, il sonno, il sorriso, la voglia di vivere. Perse anche il lavoro al sesto mese e divenne una reclusa. Soltanto io ero ammessa nella sua dimora. Si trascurava, soffriva di terrori notturni e aveva episodi di autolesionismo. Un giorno la colsi con una lametta premuta sul polso. Non so descriverti lo spavento che mi pervase a quella scena. Avrei contattato l’ospedale, se non avessi temuto che le strappassero il bambino.”

Chiuse gli occhi e strinse la stoffa della gonna tra i pugni.

“La notte del 15 agosto le si ruppero le acque. Shannon aveva già deciso di partorire a casa, nella sua vasca. Preparò tutto l’occorrente in silenzio e aspettò di entrare in travaglio. Mentre era in preda alle doglie, due uomini fecero irruzione e tentarono di ucciderla. Io stavo dormendo. Non sentii niente, finché non fu troppo tardi.” singhiozzò.

“Ladri?”

“Vampiri.”

Regan la fissò a bocca aperta, pallido come uno spettro: “Vampiri? Non esistono i vampiri…”

“Oh, non hai idea di cosa c’è là fuori, leprotto. Comunque, loro l’aggredirono. Lei tentò di difendersi, li ferì con le unghie e con i denti, ma era troppo debole. Io mi svegliai a causa delle sue urla. Corsi fuori e la raggiunsi. Per fortuna avevo una copia delle chiavi. Entrai gridando che la polizia era per strada. I due vampiri fuggirono veloci dalla finestra. La casa era buia, quindi non riuscii a vederli in faccia. Mi avvicinai alla povera Shannon, riversa a terra, nel bagno, in un lago di sangue. Respirava ancora, seppur a fatica. Senza cedere al panico, cercai di tamponarle la gola e rassicurarla, ma il sangue era ovunque, su di lei e intorno a lei. E tu volevi nascere, scalciavi nel suo ventre.”

Deirdre scoppiò a piangere. Prese la mano di Regan e la avvolse piano nella propria, traendo conforto dal contatto.

“Shannon mi guardò con un’espressione che non ho mai saputo decifrare. Vidi una straziante urgenza nei suoi occhi. Le sue labbra si mossero nel tentativo di articolare qualche parola, e avrei voluto davvero darle tempo per esprimersi, ma dovevo pensare a te. Non avrei sopportato che morissi pure tu, il senso di colpa mi avrebbe tormentata fino alla tomba. Per quanto fosse difficile da accettare, era evidente che lei era spacciata, mentre per te c’era ancora speranza. Così ignorai la supplica riflessa nel suo sguardo e agii. Andai in cucina, afferrai un coltello e le praticai un cesareo. Sapevo come usare una lama, visto che avevo lavorato come infermiera prima di diventare l’assistente di Thomas Davis, il precedente proprietario di queste pompe funebri. Il cuore di Shannon cessò di battere quando tu emettesti il primo vagito. Ti strinsi al petto e ti cullai. Eri appena nato e già sapevo che ti avrei amato con tutta me stessa.”

Regan aveva gli occhi lucidi e le labbra serrate per tenere a bada il tremolio.

“Le tue grida attirarono le attenzioni degli altri condomini, che chiamarono la polizia. Fu quella notte che conobbi Hillary. Allora non era che una semplice agente di pattuglia. Dovetti spiegare cosa era successo, tralasciando per ovvie ragioni la parte sui vampiri, e poi ti portai all’ospedale per un controllo dei tuoi parametri vitali: eri sano come un pesce. Grazie a Hillary, ottenni le carte dell’adozione. Ti chiamai Regan. Nei giorni successivi, tra biberon, pannolini e notti insonni, feci delle ricerche sui vampiri. Sapevo poco di loro, così scavai a fondo nel folclore. In qualche modo, la ricerca mi condusse di nuovo dalla mia famiglia.”

“La tua famiglia in Irlanda?”

“Sì. Vedi, io provengo da una congrega di streghe che ha radici nel sud del paese. Sin da piccola, sono stata istruita nelle arti occulte. Presto, però, divenne chiaro che non possedevo alcun talento magico. Così i miei genitori iniziarono a escludermi. Non appena compii diciotto anni, feci le valige e partii per l’America. Tagliai tutti i ponti con loro e finalmente cominciai a vivere la mia vita. Lavorai sodo per un paio d’anni, poi mi iscrissi a Medicina. Una volta ottenuta la laurea, mi stabilii ad Ashwood Port e cominciai a lavorare come infermiera. Qualche anno dopo, stufa degli ospedali, accettai il lavoro alle pompe funebri di Thomas, che, come sai, lui mi lasciò in eredità alla sua morte, insieme alla sua casa.”

“Perché proprio Ashwood Port?”

“Scelsi questa piccola città a causa della sua storia e del potere magico che scorre nella terra. Era un po’ come avere indietro una parte di me, di cui non mi ero mai accorta di sentire la mancanza.”

“E i vampiri?”

“Beh, come ti dicevo, la situazione in cui ero stata coinvolta mi costrinse a riallacciare i rapporti con la mia famiglia. Telefonai a casa per la prima volta dopo quasi vent’anni, solo per scoprire che i miei genitori erano morti e che mia cugina Mildred aveva preso il comando della congrega. Le riassunsi gli eventi e le posi le mie domande, senza rivelare la tua esistenza.”

“E cosa ti disse?”

“Tra le altre cose, venni messa al corrente di un fatto fondamentale: i vampiri non lasciano mai in vita le loro vittime, perché, anche senza lo scambio del sangue, c’è comunque il rischio che si trasformino. Non in vampiri, ma in ghoul: una specie di zombie, ma più intelligenti. Con Shannon non c’era alcun pericolo, perché era stata cremata il giorno successivo alla sua morte, dopo l’autopsia. Ma con te… non avevo idea di cosa aspettarmi. Per tutta l’infanzia ti ho tenuto d’occhio, felice che non manifestassi i sintomi relativi al vampirismo. Tuttavia, oggi abbiamo scoperto che il veleno di quei vampiri è fluito davvero in te, attraverso tua madre. Nella lotta, deve averli feriti e un po’ del loro sangue si è mischiato al suo, arrivando a te attraverso il cordone ombelicale.”

“Cosa sono io, nonna…?”

Deirdre deglutì: “Sei qualcosa che la loro specie considera un abominio: un ibrido, metà umano e metà vampiro.”

“Cosa faccio, adesso?”

“Non temere. Ti aiuterò come posso a mantenere un basso profilo, in modo da non attirare i riflettori su di te. So che è molto da digerire, capirò se vuoi un po’ di tempo per riflettere, ma fidati di me, d’accordo? Ti voglio bene e sempre te ne vorrò. Non mi importa se sei metà vampiro, perché innanzitutto sei Regan McLaughlin, mio nipote, la mia famiglia. Non dimenticarlo mai.”
 


“Da quel momento, non è stato affatto tutto in discesa come mia nonna sperava.” disse Regan, lo sguardo puntato fuori dalla finestra, “Sono andato in crisi. Non controllavo la sete ed ero diventato simile a una bestia. È stato in quel periodo che ho rotto il mio sassofono. Deirdre decise di tenermi a digiuno, segregato in soffitta per la mia sicurezza e quella degli altri, e mi torturò per insegnarmi ad associare la sete al dolore.”

“To-Tortura?!” gracchiò Roman, il viso contratto in una maschera di puro shock, “Tua nonna? Regan, questo è…”

“Se sento la parola ‘sbagliato’ uscire dalla tua bocca, mi assicurerò che tu perda l’uso della lingua. È stato necessario, per quanto doloroso. Ad ogni modo, nonostante gli sforzi di mia nonna, i crampi non mi davano tregua, nessuno cibo umano mi saziava e il sangue animale mi provocava la nausea.”

Roman intrecciò le mani davanti alla bocca per imporsi il silenzio. Le ciglia erano umide di lacrime e il corpo doleva dal desiderio represso di correre ad abbracciare il suo migliore amico e alfa. Di certo, da quel giorno non avrebbe più guardato Deirdre con gli stessi occhi. 

Strega psicopatica, pensò rabbioso.

“Ma strinsi i denti e resistetti all’impulso che mi gridava di liberarmi e nutrirmi di mia nonna.” proseguì Regan, “Lasciai che fosse lei a decidere come e quanto spesso dovessi cibarmi, o se fossi degno di sopravvivere. Rimisi la mia vita nelle sue mani, le diedi la mia totale fiducia, e non mi deluse. Iniziò a sfamarmi col suo sangue, un paio di dita ogni sera. Non era abbastanza per placare la sete, ma era più che sufficiente a mantenermi vivo. Abituarmi a minuscole razioni fu un processo lento ed estenuante, ma alla fine ci riuscii.”

“La tua assenza per motivi di salute…”

“Sì. Quando mia nonna mi ritenne pronto, ripresi in mano la mia routine. Ormai conoscevo gli svantaggi di essere un vampiro, avendoli toccati con mano, ma avevo ancora tante domande. Mi tuffai nelle ricerche e mi riempii di romanzi, film, serie tv. Tutto ciò su cui potei mettere le mani.” gli indicò con un cenno la libreria, “Sui vampiri trovai parecchie informazioni, come puoi immaginare. Ma nulla sugli ibridi.”

“Oh.”

“Perché non sei scioccato dal fatto che ho aggredito e quasi ucciso un bambino?”

Il licantropo sorrise e fece spallucce: “La perdita del controllo è un concetto che mi è familiare. E poi, non lo hai ucciso. Non dovresti lasciarti schiacciare dal senso di colpa, perché non hai nulla di cui incolparti. Freddy è vivo, sta bene, ed è questo ciò che conta.”

“No, Roman, non capisci. Io… mi è piaciuto. Volevo il suo sangue, tutto quanto, e ho goduto nel prosciugarlo. Non mi importava di farlo soffrire o ammazzarlo. Avevo sete e ho agito d’istinto, ma una parte di me era lucida.”

“Regan, sei mezzo vampiro. I vampiri si nutrono di sangue umano e uccidono le loro vittime non appena sono sazi. È la loro natura, e anche la tua. Devi accettarlo, perché non puoi cambiarlo. Non nego che mi consola sapere che Freddy è stato la tua prima ed unica vittima, e che sei deciso a non commettere più lo stesso errore. Hai acquisito un enorme controllo su te stesso proprio per evitare che si ripetesse. Il nostro è un mondo duro, le leggi che lo governano sono diverse da quelle umane. Il confine tra morale e immorale è labile. Non esistono bianco e nero, solo infinite sfumature di grigio. E noi siamo creature della notte, selvagge, guidate dagli istinti. Gli incidenti capitano.” osservò Regan per lunghi momenti, poi si scrocchiò il collo e sospirò, “Senti, perché non vieni da me, domani? È domenica, saremo tutti a casa. Potresti presentarti al branco e, magari, parlando con mio padre, potresti venire a conoscenza di altri dettagli sulla tua natura. È una sorta di enciclopedia ambulante, credimi.”

“Dici che è saggio? Non hai detto che i licantropi sono la nemesi dei vampiri? Non intendo confermare su di me la teoria che il morso di un licantropo può uccidere un vampiro, grazie mille.”

“Non devi preoccuparti, sarò io il tuo mediatore. Non permetterò che ti faccia del male.”

“Ci penserò.”

“Ehm… non hai scelta, temo.” ammise con una smorfia contrita.

“Eh?”

“Mio padre sa che tu sai cosa siamo. Ho dovuto raccontargli cosa è successo martedì. Perciò ha espresso il desiderio di conoscerti. Se non vai tu, verrà lui da te.”

Regan ingoiò un’imprecazione e grugnì: “Va bene, domani mi farò vivo.”

“Grazie. Non te ne pentirai.”

“Lo vedremo…” bofonchiò a bassa voce.

Poe sbadigliò annoiato e rotolò a pancia in su sul cuscino.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Wild goose ***










“Buongiorno, leprotto. Dormito bene?” lo salutò Deirdre domenica mattina.

Regan deambulò verso la cucina e si sedette pesantemente a tavola, dove la sua colazione lo stava aspettando. Poe, accucciato sul calorifero davanti alla finestra, guardava con chiare intenzioni una mosca che ronzava sui gerani oltre la barriera di vetro. Lo stereo in salotto stava riproducendo Let’s Keep Smiling di Doris Day a basso volume. Regan sbuffò alle parole della canzone.

Seduta dal lato opposto del tavolo, Deirdre teneva il diario di ricette rilegato in pelle aperto sulle ginocchia, mentre con dita esperte ed espressione assorta maneggiava varie erbe, sminuzzandole con mortaio e pestello. Sui fornelli bolliva qualcosa che emanava un effluvio di lavanda. Da giorni aveva iniziato a sperimentare per creare l’amuleto perfetto e non si sarebbe arresa finché non ci fosse riuscita.

“Pensavo che oggi potremmo andare in erboristeria a fare rifornimento, che ne dici?” gli propose, senza distogliere lo sguardo dai semi che stava schiacciando nel mortaio.

“Non posso, devo andare da Roman.”

“Non vi siete visti ieri pomeriggio?”

“E allora?”

“Cosa non mi stai dicendo?” indagò sospettosa.

Regan smise di spilluzzicare il pancake ai mirtilli e disse: “Sa tutto.”

Deirdre arrestò qualsiasi movimento, impietrendosi sul posto come se fosse stata fulminata.

“Come, prego?”

“Roman è un licantropo.” rivelò con una scrollata di spalle, “Martedì ha perso il controllo a scuola e si è trasformato. Per fortuna l’ho visto solo io e l’ho trascinato via. Ieri è venuto qui per una chiacchierata amichevole sui nostri rispettivi segreti e oggi mi ha invitato da lui per conoscere il suo branco. A sentire Roman, suo padre sa molte cose sui vampiri. Potrebbe gettare un po’ più di luce sulla mia natura di ibrido, dato che non abbiamo mai trovato informazioni a riguardo. Derek mi ha accennato qualcosa, ma non è mai sceso troppo nel dettaglio.”

Deirdre boccheggiò allibita: “Quando ti ho chiesto cosa non mi stavi dicendo, mi aspettavo di sentire che hai dato il ben servito a Derek per metterti con Roman!”

“Perché dovrei mettermi con Roman?”

“È un bel ragazzo, di buona famiglia… e un licantropo, bontà divina! Ti piace proprio complicarti la vita, eh?” si massaggiò le tempie e sospirò, “Almeno ti fidi di lui? Sei certo che manterrà il silenzio?”

“Sì.”

“D’accordo. Va bene. Non sono contenta, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro. Solo… sta’ attento. I licantropi sono la nemesi dei vampiri, è noto persino a quelli che non credono nel soprannaturale.”

“Lo prometto.”

Deirdre si afflosciò sulla sedia, all’improvviso esausta sin nel midollo. Poe le saltò in grembo e cominciò a fare le fusa.

“A che ora è l’appuntamento?”

“Nel pomeriggio.”

“Allora mangia e va’ a studiare. Andrò da sola in erboristeria.”

“Agli ordini.”

Regan finì di scrivere il saggio di Storia e si portò avanti con le altre materie. Lasciò Francese da parte per tornarci sopra quella sera, tanto aveva già studiato per il test, doveva solo ripassare. Per evitare di venire disturbato, scrisse un messaggio a Derek per avvertirlo che andava da Roman a studiare e perciò sarebbe stato irreperibile per tutto il pomeriggio.

Alle due in punto, vestito e profumato uscì di casa e montò sulla bici. Salutò distrattamente la signora Greenwood e pedalò verso sud, sforzandosi di tenere a bada il battito cardiaco e sopprimere l’ansia che gli annodava lo stomaco.

Mezzora dopo, si fermò davanti alla dimora dei Sinclair. Il sudore gli imperlava la fronte e la gola era secca per la lunga pedalata. Parcheggiando la bici accanto alle macchine sul vialetto, si concesse qualche secondo per osservare i dintorni e ponderare sul da farsi.

L’idea di incontrare altri licantropi scatenava in lui lo strano istinto di scavare una buca e seppellircisi dentro. Sapeva che era necessario instaurare un contatto, ma se lo sarebbe volentieri risparmiato. O, perlomeno, avrebbe preferito scegliere un terreno neutro. Invece, come uno stupido aveva accettato di entrare nella tana del lupo, letteralmente. Troppe cose potevano andare storte. Un loro morso lo avrebbe spedito nella fossa nell’arco di un minuto, e non aveva niente con cui difendersi.

Roman spalancò la porta e si affacciò per scoccargli un’occhiata confusa: “Che ci fai lì impalato?”

“Hey, ciao. Sei sicuro che-”

“Muoviti.”

Regan sbuffò e, quando lo raggiunse, Roman si scostò in silenzio per lasciargli libero il passaggio. Tuttavia, prima che Regan potesse compiere un passo all’interno, una barriera invisibile lo respinse. Barcollò all’indietro, stupito, per poi realizzare cosa era appena successo: non poteva entrare nelle case altrui senza essere esplicitamente invitato. Non aveva dubbi che Roman lo avesse fatto apposta.

Fulminò l’amico con un’occhiata torva, mentre Roman lo guardò dall’alto in basso e si morse un labbro per reprimere una risatina colpevole. Un attimo dopo, si pietrificò.

“Roman, chi è alla porta?”

Un uomo sulla cinquantina, con i capelli brizzolati e uno strato di barba incolta che gli copriva metà faccia, comparve alle spalle di Roman. Era molto alto, circa sul metro e novanta. Il suo fisico allenato poteva indicare una vita passata in palestra, o forse tutti quei muscoli erano semplicemente la norma per un licantropo adulto. A Regan bastò uno sguardo fugace per capire da chi l’amico avesse ereditato la fronte e il naso.

“C’è qualche problema?” domandò l’uomo, sospingendo Roman da una parte così che potesse fronteggiare Regan indisturbato.

Il ragazzo si schiarì la voce e balbettò: “Papà, lui è Regan. Regan, papà.”

Vincent annusò l’aria intorno a Regan. Inclinò il capo verso destra, perplesso, e aggrottò le sopracciglia, inalando una seconda volta. Non appena catalogò l’odore emanava, si irrigidì. In un istante, gli occhi si accesero di giallo e i denti si allungarono in zanne affilate dall’aspetto letale.

Un basso ringhio giunse alle orecchie di Regan, che indietreggiò cauto. Il suo istinto lo stava supplicando di tagliare la corda prima di finire masticato da un branco di lupi, ma costrinse i suoi piedi a rimanere incollati dove erano. Se avesse ceduto, non solo si sarebbe disegnato il simbolo di un bersaglio sulla schiena e appiccicato sulla fronte un cartello con su scritto “PREDA” a lettere cubitali. Scommetteva tutta la collezione di vinili di sua nonna che i lupi si sarebbero anche lanciati fuori dalla porta per dargli la caccia, come accadeva in natura.

“Hai portato un vampiro a casa nostra?” sibilò Vincent, senza mai distogliere l’attenzione dal nuovo arrivato.

“Non è un vampiro.” si affrettò a spiegare Roman, “Se lo fosse, credi che camminerebbe di giorno?”

“Il suo odore non mente!”

“Lo… lo è per metà.” farfugliò, avvertendo il panico montare.

Il trambusto richiamò gli altri. Due bambini, due donne e un altro uomo si posizionarono dietro Vincent. Sean si mise alla sua sinistra, Tamara alla sua destra, mentre Ruby, Trevor e Nina chiudevano la fila. La curiosità sui loro volti era evidente. Però, quando fiutarono il suo odore, l’odio e la diffidenza la rimpiazzarono subito.

“Roman, pretendo una spiegazione. E bada che sia convincente.” disse Tamara.

“Lui è Regan, l’amico di cui vi ho parlato. Quello che mi ha aiutato martedì, a scuola. Volevate conoscerlo, no? L’ho invitato anche perché speravo che poteste aiutarlo a scoprire di più sulla sua, ehm, condizione, dato che sa poco o nulla. Abbiamo tanti libri sul vampirismo, magari ce n’è qualcuno che parla degli ibridi.”

Vincent era rosso di rabbia, in netto contrasto col pallore sfoggiato dagli altri lupi dietro di lui.

“Se non fosse stato per lui, avrei esposto il nostro segreto agli umani.” continuò Roman, “Il minimo che possiamo fare per ringraziarlo è fornirgli i mezzi per comprendere la sua natura.”

Tutti i membri del branco lo incenerirono con lo sguardo, ma il ragionamento di Roman non faceva una piega. Non aveva mentito, il suo battito era rimasto regolare per tutto il tempo e il suo odore, benché reso acre dalla paura, non era mutato. Perciò, come imponeva la loro legge, adesso dovevano ripagare il debito contratto con Regan.

“Non ho intenzione di farvi del male.” intervenne Regan, sperando di placare gli animi, “Roman ha detto la verità. Vorrei solo capire cosa sono. Se non volete che entri, va bene, posso aspettare qui fuori.”

“Certo che resterai fuori!” abbaiò Vincent.

“Okay, calma. Voi siete in sette, se vogliamo contare anche i bambini, mentre io uno solo. E non ho argento su di me. Non avrei alcuna possibilità di vincere se si venisse alle mani. O alle zampe.” tossicchiò impacciato, “Non sono una minaccia per voi. E mi dispiace di aver invaso il vostro territorio senza avvertire. Credevo che Roman ve lo avesse detto.”

Roman si grattò la nuca e fece una smorfia colpevole, mantenendo lo sguardo basso e la posa sottomessa: “Scusate… solo ora mi rendo conto del mio errore. Non mi sono fermato a riflettere sulle conseguenze.”

“Puoi dirlo forte.” borbottò Sean dalle retrovie.

“Va bene, aspettate.” li interruppe Tamara, “Ruby, per favore, porta i bambini di sopra in camera nostra. Roman, tu va’ nella tua.”

“Ma-”

“Obbedisci. E guai a te se origli.”

Roman marciò imbronciato al piano di sopra e sbatté con forza la porta di camera sua. Ruby prese Trevor e Nina in braccio e corse a sua volta su per le scale, diretta verso la camera padronale. Quando udirono il tonfo della porta che si chiudeva, Tamara si girò di nuovo verso Regan.

“Vieni in veranda, sul retro. Almeno potremo parlare seduti, al riparo da occhi e orecchie indiscrete.”

Vincent fece per protestare animatamente, ma la moglie lo incenerì con uno sguardo.

Senza esitare, Regan percorse a passi lenti il portico intorno alla casa, memorizzando il paesaggio circostante e la disposizione delle stanze, più per curiosità che altro. Quando raggiunse i genitori di Roman, già seduti sulle sedie di vimini a ridosso della parete, levò una preghiera a qualsiasi divinità fosse in ascolto di tornare vivo a casa.

Vasi di gerani ornavano la ringhiera di legno, mentre tralci di edera si avviluppavano sulle colonne della veranda disegnando ragnatele rinsecchite. Un vaso di ceramica dipinto a mano era appeso al muro tramite un gancio di ferro e da esso pendevano rametti di una pianta che Regan non riconobbe. Nell’intercapedine del soffitto della veranda c’erano altri vasetti di piante grasse disposti in fila, tutti decorati con disegnini infantili, evidentemente opera di Trevor e Nina. Lì sotto c’era un dondolo di ferro, abbellito da cuscini rossi e dall’aspetto morbido.

Tamara gli accennò di accomodarsi sul dondolo. Vincent era immobile come una statua accanto alla moglie. Una cinquantina di metri più in là, Sean pattugliava il perimetro della proprietà, mimetizzandosi tra gli alberi.

Regan non era sorpreso dalla loro diffidenza. Se fosse stato nei loro panni, anche lui sarebbe stato sospettoso. Probabilmente, credevano che li stesse ingannando. Se davvero tra vampiri e licantropi non scorreva buon sangue, era normale aspettarsi il peggio gli uni dagli altri.

“Avete una bella casa.” disse, tanto per rompere il ghiaccio.

“Grazie.”

Il silenzio si protrasse per due interminabili minuti, che spesero a squadrarsi a vicenda in cerca di un punto debole.

“Sappiate che mia nonna sa che sono qui. Se non dovessi tornare, chiamerà la polizia.” buttò lì Regan in tono casuale, ma i due lupi colsero la velata minaccia.

“Non preoccuparti. Se non sarai tu il primo ad attaccare, non hai niente da temere da noi.”

Regan li studiò attentamente per una manciata di secondi, quindi si rilassò: “D’accordo. Allora, di cosa desiderate parlare… ehm, signora?”

“Oh, che maleducata. Io sono Tamara, lui è mio marito Vincent.”

“Se provi a chiamarmi per nome una sola volta, ti stacco la testa a morsi.” ringhiò l’alfa.

“Ricevuto, signor Sinclair.” ghignò nervoso, facendogli il saluto militare.

“Veniamo al dunque. Che intenzioni hai con Roman?” chiese Tamara, accavallando le gambe.

“Eh… nessuna?” rispose perplesso, “È mio amico, frequentiamo la stessa scuola, siamo compagni di banco a Francese… non c’è molto altro.”

I due coniugi inclinarono contemporaneamente il capo di un paio di centimetri, come se stessero ascoltando qualcosa. Entrambi annuirono, Tamara convinta, Vincent con più riluttanza.

“Raccontaci di te.”

“Cosa volete sapere?”

“Tutto.”

Regan si afflosciò sui cuscini del dondolo con un sospiro e lasciò ciondolare le gambe, raccogliendo le idee. Dopodiché, cominciò a narrare per la seconda volta la sua storia.

Per tutto il tempo, Tamara e Vincent lo scrutarono intensamente. Talvolta piegarono la testa in quella particolare maniera che segnalava che stavano ascoltando il suo battito per individuare qualche traccia di menzogna, altre inspirarono a fondo il suo odore. Regan sapeva che non avrebbero trovato niente, né una bugia né una minima scia di sangue fresco. Era rimasto digiuno a pranzo proprio in vista di questo incontro.

Quando terminò, i signori Sinclair si scambiarono un’occhiata eloquente.

“Dopo averti ascoltato, ritengo che non ci sia alcun pericolo nel prestarti i nostri libri.” gli disse Tamara, “E, per quel che vale, mi dispiace che tu abbia avuto una vita difficile. Nessuno si merita quello che hai dovuto passare tu.”

“La ringrazio.”

Vincent intrecciò le mani in grembo e storse le labbra in una smorfia: “Anche se acconsentiamo a fornirti informazioni, non significa che approviamo la tua amicizia con nostro figlio. Ti ha detto che vampiri e licantropi sono nemici giurati? Un loro morso può ucciderci, e viceversa. Comprenderai che non mi esalta l’idea che gironzoli insieme a te.”

“Le ripeto che non voglio fare del male a Roman.”

“Ma potrebbe capitare.”

“Signor Sinclair, io-”

Vincent alzò una mano per interromperlo: “Comunque, non posso impedirglielo. Frequentate la stessa scuola, perciò sarete sempre in prossimità l’uno dell’altro. Ti dico solo che, se gli accadrà qualcosa, non importa se sarà un incidente, io ti troverò e ti farò a pezzi.”

Nonostante stesse morendo dalla voglia di squarciargli la gola, Regan sorrise e annuì. Diventare il baby-sitter di Roman era un piccolo prezzo da pagare per le agognate informazioni che avrebbe ottenuto.

“In cambio del tuo investimento nella sicurezza di mio figlio, ti prometto che non tenteremo di fare del male a te e a tua nonna. Ashwood Port è anche il tuo territorio. Ci sei nato e ci vivi da più tempo di noi, non abbiamo il diritto di cacciarti. E se, per qualche motivo, i nostri rapporti dovessero peggiorare, saremo noi a sloggiare.”

“Mi sembra un accordo ragionevole.”

“Perfetto. Aspetta qui.” ordinò, dirigendosi velocemente in biblioteca.

Regan rimase solo con Tamara. Si scambiarono dei sorrisi tesi e fecero saettare gli sguardi qua e là nel cortile, pregando che Vincent tornasse presto.

Vincent riapparve con una busta di plastica piena di libri e gliela porse, attento a non sfiorare nemmeno per sbaglio le dita di Regan. Questi lo ringraziò con un sorriso più genuino, eccitato di avere finalmente materiale proveniente da una fonte attendibile su cui lavorare.

Stava per congedarsi, quando un pensiero fulmineo gli attraversò la mente: avere dei licantropi come alleati, anche se un branco piccolo come quello dei Sinclair, avrebbe potuto rivelarsi utile in futuro. Soprattutto qualora i cacciatori avessero deciso di averne abbastanza della sua esistenza. Derek era l’unico ostacolo che si frapponeva fra lui e loro, al momento. Se Regan lo avesse ucciso, non era detto che si sarebbero bevuti la messinscena che voleva orchestrare per farlo sembrare un incidente. Sarebbe bastato un minimo sospetto del suo coinvolgimento nella morte di Derek per spingerli a cancellarlo dalla faccia della terra, insieme a sua nonna.

Dopo aver calcolato i pro e i contro, trasse un profondo respiro, che attirò l’interesse dell’alfa e della sua compagna.

“Per dimostrarvi che non sono vostro nemico, condividerò con voi un’informazione di cui sono entrato in possesso di recente. Non so se lo sapete, ma in città vivono tre famiglie di cacciatori.”

Vincent si pietrificò, Tamara si coprì la bocca con le mani e Sean emerse dalla boscaglia di corsa, fermandosi ai piedi della veranda.

“Cosa?” esalò Vincent, “No, li avremmo fiutati… e le nostri fonti ce lo avrebbero detto. Non ci saremmo mai trasferiti qui, altrimenti.”

“È la verità, signor Sinclair. E sono rimasto stupito quanto voi quando l’ho scoperto. Evidentemente, sanno nascondersi bene. Non ho idea se siano al corrente della vostra natura, ma vi consiglio di fare attenzione.”

“Come lo hai scoperto?” lo interrogò Sean, trafiggendolo con un’occhiata gelida.

“Hanno tentato di uccidermi. Anche se non ci hanno più riprovato, da allora non abbasso mai la guardia.”

“Chi sono?”

“Tre di loro hanno la mia età, sedici anni. Gregory Ferguson, Kevin Chou e Derek Sullivan. Gregory e Kevin si sono ritirati da scuola, mentre Derek studia ancora lì. Roman non sa che Derek è un cacciatore, ma è possibile che Derek conosca il segreto di Roman. E quindi il vostro.”

“Questo Derek…” mormorò pensosa Tamara, “Cos’ha in mente? Perché non ti ha ancora ucciso?”

“È l’unico di loro convinto che io non meriti la morte. Si limita a controllarmi da vicino, per ora.”

“Roman sospetta qualcosa?”

“Crede che io e Derek siamo amici, quando in realtà è solo una farsa. Derek è sia la mia guardia del corpo che il mio carceriere. Spesso compie dei blitz a casa mia senza essere invitato. Mi ha costretto pure ad ospitarlo per qualche settimana per vedere come vivo, cosa faccio, con chi parlo, quanto so. La mia vita è diventata un incubo. Roman non ha idea di cosa ho passato. Di cosa sto ancora passando. Mi sono impegnato per tenerlo all’oscuro, lontano dal pericolo, ma adesso ho paura che, isolandolo, si trasformi in un facile bersaglio. Non so che fare…” sospirò affranto, “Ora che ve l’ho detto, spero di ricevere un po’ d’aiuto. Quanto meno, nel proteggere Roman. Con Derek col fiato sul collo, non posso mantenere la sua attenzione su di me e, al contempo, sorvegliare vostro figlio.”

I lupi ammutolirono. Vincent lanciò un’occhiata eloquente a Sean, che annuì ed entrò in casa. Tamara si strinse al marito e lo scrutò dal basso spaventata.

“Cosa facciamo? Non è prudente continuare a mandare Roman a scuola.”

“Se lo ritirassimo, faremmo sorgere ancora più dubbi. Abbiamo le mani legate.”

“E se ci trasferissimo?”

“Anche in quel caso attireremmo l’attenzione. E non è detto che nella prossima città sarà diverso. Le nostre fonti non sono attendibili come speravamo.”

“Quindi resteremo qui? E se ci attaccassero?”

“Finora ci hanno lasciati in pace. Non si sono neanche presentati.”

“Magari stanno pianificando di ucciderci tutti nel sonno!”

“Aspettiamo per vedere come si evolve la vicenda. Al minimo segnale di pericolo, taglieremo la corda.”

“Vuoi davvero rischiare la nostra incolumità così? Non pensi a Roman, da solo a scuola con quel cacciatore?”

Vincent spostò lo sguardo su Regan: “Se Regan lo terrà impegnato, Roman sarà al sicuro.”

“Farò del mio meglio…” borbottò il ragazzo, incassando la testa nelle spalle.

“Non è giusto, Vince! Sarà anche un ibrido di vampiro, ma ha solo sedici anni.”

“Dannazione, lupa, almeno dammi il tempo di elaborare una strategia! Non posso decidere tutto su due piedi!” ringhiò frustrato, poi esalò un sospiro, si passò una mano sul viso e tornò a guardare il ragazzo, “Regan, ti ringrazio per l’informazione che ci hai dato. In cambio, la mia casa resterà aperta per te e tua nonna, in caso di bisogno. Non dire nulla a Roman. Se succede qualcosa, chiamami sul mio numero privato.”

Chiese a Regan il cellulare e digitò il suo numero, memorizzandolo in rubrica sotto le sue iniziali.

“Grazie, signore. Lo farò.”

Regan venne scortato di nuovo verso l’entrata principale attraverso il portico. I coniugi Sinclair lo osservarono montare in sella alla bici e lo salutarono con solenni cenni del capo, che Regan ricambiò. Avrebbe voluto salutare anche Roman, ma l’amico non si mostrò. Allora pedalò via, alla volta di casa, con un ghigno vittorioso sulle labbra e la busta con i libri appesa al manubrio.

Quella sera, Derek suonò il campanello alle otto. Regan lo riconobbe sia dall’odore che dal battito cardiaco. Smise di lavare i piatti e si girò verso il salotto, dove Deirdre era stravaccata davanti alla tv. Nonna e nipote si scambiarono un rapido sguardo. Dopodiché, lui sfrecciò in camera a nascondere i libri dei Sinclair e lei andò ad aprire la porta, distraendo Derek per il tempo necessario affinché Regan finisse di dare una sistemata.

Un minuto dopo, Deirdre lo chiamò avvisandolo dell’arrivo di Derek. Il moro si affacciò dalla cima delle scale sfoggiando un’aria sorpresa. Attorno al collo aveva delle cuffie, dalle quali proveniva una canzone jazz sparata ad alto volume.

“Oh, ciao! Vieni pure.” disse al biondo, che lo raggiunse saltellando su per i gradini.

Appena furono in camera, Derek gli circondò il viso con le mani e si chinò a baciarlo con passione. Regan si aggrappò alle sue spalle mugolando, accogliendo docilmente la sua lingua nella propria bocca. Quando si staccarono, entrambi avevano le labbra arrossate e lucide di saliva.

“Come mai qui?” domandò Regan.

“Volevo sapere com’è andato il pomeriggio di studio con Roman.”

Il moro lo squadrò con sussiego: “Risparmiami le scenate da fidanzato geloso, per favore.”

“Sono soltanto curioso!” si difese, fingendo di non sapere di cosa Regan stesse parlando.

“Sì, come no. Comunque, Roman fa pena a francese. La sua pronuncia è terribile.”

“Uhm. E… non so, hai notato qualcosa di strano, mentre eri lì?”

“Tipo?”

“Boh. Strani comportamenti, strane espressioni…”

Regan inclinò il capo, fingendosi perplesso: “Niente sembrava fuori posto. Perché?”

“Così.” rispose scrollando una spalla.

“A-ha.”

“Non preoccuparti, dimentica che te l’ho chiesto.”

“No, no, no. Adesso sono io quello curioso.”

Derek lo baciò con rinnovato fervore per distrarlo. Regan accantonò la questione per riesaminarla in un secondo momento, poiché ora ne aveva una più urgente. Si staccò e lo tenne a distanza con i palmi premuti sul suo torace.

“Novità sul demone?”

Il biondo roteò gli occhi: “Stiamo pomiciando! Non può aspettare?”

“C’è un demone che rapisce le persone, Derek. Ogni minuto è prezioso.”

Derek sbuffò e andò a sedersi sul letto. Picchiettò il materasso accanto a sé in un invito e, quando il moro prese posto, gli cinse i fianchi con un braccio.

“Non ho accesso al fascicolo che i cacciatori hanno creato sul demone, purtroppo. Se ti può consolare, mi sono sembrati smarriti quanto lo siamo noi. Non hanno uno straccio di indizio. Tu hai qualcosa per me?”

“Nada. Tutto tace dal fronte dei fantasmi. Onestamente, mi sento un po’… ansioso.”

“Hm-mh.” mugugnò Derek tra i suoi capelli.

“Insomma, sono l’unico sopravvissuto all’attacco del demone e, grazie a ciò, dovrei essere in vantaggio. Invece non ho niente. A qualunque tipologia appartenga, è troppo bravo per non aver già fatto una cosa simile in passato.”

“Se anche l’avesse fatta, sarebbe impossibile individuare il suo operato. La gente scompare ogni giorno, e le sparizioni a porte chiuse non sono rare come la maggior parte della gente crede. Come capire quali sono le vittime del demone?”

“Hai ragione.” sospirò.

Il cellulare di Regan trillò, segnalando l’arrivo di un messaggio. Lo estrasse dalla tasca e lo lesse, per poi ridacchiare divertito.

“Chi è?” chiese Derek.

“Lorie. Mi ha invitato domani sera a casa sua per una serata tra ragazze.”

Il cacciatore si sporse per leggere a sua volta le poche righe che aveva scritto Lorie.

“Cosa ci incastri tu in una serata tra ragazze?”

“Non offendere la mia femminilità.” replicò Regan, indossando una maschera oltraggiata.

“Scusa, chiedo venia.” disse Derek e gli sorrise divertito.

Regan sbadigliò e si stropicciò gli occhi. Capita l’antifona, Derek gli scoccò un bacio su una tempia e si alzò.

“Ti lascio andare a dormire. Ci vediamo domani a scuola.”

“Okay. Buonanotte.”

“Notte, amore.”

Il moro non commentò il nomignolo, limitandosi a rispondere con un sorriso assonnato. Riaccompagnò Derek alla porta e lo salutò di nuovo. Quando si voltò, Deirdre gli riservò l’espressione più disgustata del suo repertorio. Regan levò gli occhi al cielo e salì di nuovo in camera.

 
*

Mentre stava uscendo di casa, lunedì mattina, Regan ricevette un messaggio da Derek, in cui gli diceva che non sarebbe venuto a scuola a causa di una riunione urgente tra cacciatori. Non specificò l’argomento di suddetta riunione o perché fosse richiesta la sua presenza, ma Regan non si lamentò. Anzi, finalmente avrebbe avuto un “giorno libero”. Avrebbe potuto nutrirsi a volontà e portare avanti il piano di inserimento nella crème de la crème di Ashwood Port. Ultimamente, infatti, per colpa di Derek aveva trascurato i suoi impegni sociali. Ma ora gli era stata offerta un’occasione per approfondire le sue conoscenze e non se la sarebbe fatta sfuggire.

Montò sulla bici con rinnovato buonumore e un sorriso compiaciuto sulle labbra. Salutò cordialmente la signora Greenwood dall’altro lato della strada e pedalò sereno alla volta del liceo, pregustando già sul palato il sapore del sangue delle ragazze. Oh, e non si sarebbe limitato ad un unico assaggio, perché nel pomeriggio le avrebbe seguite a casa di Lorie.

Dicembre era alle porte. Il sole splendeva nel cielo terso e la città era accarezzata da una brezza frizzante che portava con sé l’odore della neve. Le case erano addobbate a festa, con lucine colorate e decorazioni natalizie. Sui marciapiedi, le persone camminavano di buon passo, chi diretto a lavoro, chi a scuola, chi a fare le commissioni. Le vetrine dei negozi, più colorate del solito, annunciavano offerte, novità, sconti, mentre fuori da quelle dei bar e delle tavole calde c’erano lavagnette nere con perle di saggezza, aforismi o inviti a gustare il menù del giorno.

Regan inspirò a pieni polmoni l’atmosfera rilassata, per una volta non pensando a demoni, licantropi, cacciatori e indovinelli di fantasmi. Si lasciò cullare dai rumori della strada: il sibilo delle gomme della bici sull’asfalto, il chiacchiericcio della gente, i clacson delle macchine, le musichette allegre dei negozi, il latrato di un cane, lo squittio di un neonato. Per un momento, tutti i suoi problemi gli parvero un vago ricordo.

Lo stato di pace che lo aveva pervaso durante il viaggio fu interrotto da Roman. Il licantropo lo intercettò alla transenna nel parcheggio della scuola. Senza nemmeno dargli il buongiorno, lo avviluppò in un abbraccio soffocante e strusciò la guancia sui suoi capelli, emettendo flebili versi che avrebbero potuto essere paragonati alle fusa di un grosso felino.

Rigido come un tronco, Regan gli permise di prolungare il contatto per altri dieci secondi. Poi poggiò le mani sul suo torace e lo spinse indietro.

“Volevo chiamarti ieri sera, ma…” esordì Roman.

“Ero impegnato, non ti avrei comunque risposto. Stai bene?” domandò, notando le occhiaie dell’amico.

“Adesso che ti ho visto, sì. I miei non mi hanno detto molto su come è andata la conversazione, ero preoccupato che ti avessero trattato male o ferito.”

“Siamo giunti ad un accordo, non temere. Mi hanno prestato dei libri su…” si guardò intorno e vide che alcuni studenti li stavano fissando, “Sai, quella cosa. Li ho sfogliati e sembrano molto interessanti.”

“Sono contento.” disse il licantropo, visibilmente sollevato, “Dov’è Derek?”

“Oggi non verrà. Impegni in famiglia.”

Roman alzò il pugno verso il cielo per esprimere tutto il proprio giubilo. Regan roteò gli occhi e si incamminò verso l’entrata della scuola, dove Mike e altri giocatori di football lo stavano aspettando.

“Fratellino!” lo chiamò Mike non appena lo raggiunse e lo salutò con due decise pacche su una spalla.

“Hey, Mike.”

“Sei ufficialmente invitato alla partita di venerdì. Giocheremo contro uno dei nostri più acerrimi rivali e abbiamo bisogno di tutto il tifo possibile. È la prima partita della stagione, siamo già su di giri.”

“Ah… non è davvero il mio campo, Mike. Non ci capisco niente di football.”

“E allora? È il tifo che conta. E quando ti ho detto che sei ‘ufficialmente invitato’, in realtà intendevo che sei ‘ufficialmente obbligato a venire’.” 

“Mmm… okay. Però scordati che mi unisca alle ragazze pon-pon.”

Mike scoppiò a ridere, mostrando al mondo la sua perfetta dentatura: “Per quanto mi rattristi non poter assistere allo spettacolo di te in divisa da cheerleader, non è questo l’importante. Venerdì voglio vederti seduto sugli spalti, okay? Ti concedo pure di disegnare un cartellone di incoraggiamento solo per me.”

Regan sbuffò divertito e accettò di buon grado.

La campanella suonò. Tutti gli studenti si diressero verso le aule, liberando il corridoio in un minuto scarso. Regan salutò gli altri con la promessa di raggiungerli a mensa, poi entrò in classe. Il test di Francese andò alla grande.

Prima che finisse la pausa pranzo, si appartò con solo Claire e Mary in un’aula vuota per uno spuntino a base di sangue. Lorie e Vanessa non avevano potuto unirsi a loro perché dovevano ripassare per un test di Algebra.

Quando uscirono, Roman sopraggiunse dal bagno. Gli bastò un’occhiata per capire cosa fosse successo. O meglio, cosa credeva fosse successo, dato che le labbra delle ragazze erano gonfie e umide. Si adombrò e fece una smorfia.

Regan salutò le Claire e Mary con un ghigno e si rivolse a Roman: “Che c’è?”

“Lo fai per divertimento, o provi davvero qualcosa per loro?”

“Scherzi?” ridacchiò, “Sono solo baci. Perché, sei geloso?”

Roman si morse il labbro inferiore e distolse lo sguardo.

“Sul serio?” Regan si finse stupito, “Dai, Roman, non fare così. Se vuoi pomiciare con me, è sufficiente che tu me lo dica.” sorrise sornione.

Il lupo sbuffò, ingobbì la schiena e gli diede le spalle. Regan scosse debolmente il capo e lo seguì.

Dopo scuola, Regan si allontanò in bici dietro la macchina di Lorie. Arrivati a casa della ragazza, legò la bici alla staccionata e si accodò a lei, Vanessa e Claire. Mary aveva dato buca per un impegno in famiglia.

Entrarono alla spicciolata, appesero i giubbotti nel guardaroba dell’ingresso e si recarono in cucina. Regan si sedette su uno degli sgabelli dell’isola e si mise a leggere distrattamente le scritte sulla confezione di cereali abbandonata su di essa. Nell’acquaio c’erano le ciotole sporche della colazione e sul piano cottura un filoncino di pane a cassetta. Vanessa prese subito posto sulle sue ginocchia, battendo sul tempo le altre due, e Regan le avvolse i fianchi con le braccia.

“Okay, ascoltate.” disse Lorie mentre apriva il frigo per prendere la coca-cola e dei succhi di frutta, “I miei non vanno più a cena fuori e… so che avevo detto film e pizza, ma, insomma, è un periodo che litigano ogni singolo giorno e non vorrei mettervi a disagio. Perciò, guarderemo solo un film in salotto, finché non tornano. Vi sta bene?”

“Certo, non preoccuparti.” rispose Regan, “Mi dispiace per i tuoi genitori.”

Lorie scrollò una spalla: “Non devi. È da poco più di due anni che va avanti, ci sono abituata.”

“Posso chiedere come mai?”

“Credo che mio padre abbia tradito mia madre e che lei lo abbia scoperto. Anche se stanno sempre molto attenti a non parlarne quando io sono in casa, ho colto qualche frase qua e là. Onestamente, non so perché mia madre non abbia ancora chiesto il divorzio.”

“I miei hanno passato un periodo simile, qualche anno fa.” si intromise Vanessa.

“Sì, me lo ricordo. Ma i tuoi si amano alla follia. Sono, tipo, la coppia perfetta.” replicò Claire.

“Se li avessi visti allora, non lo avresti pensato.”

“Va bene, basta parlare di cose deprimenti.” le interruppe Lorie, “Andiamo di là. Aiutatemi con le bibite e le patatine. Non ho i popcorn, sono finiti.”

“Cosa guardiamo?” chiese Regan.

“Lo vedrai.” rispose Lorie con un sorriso ammiccante.

Il film si rivelò essere Titanic. Regan rimase indifferente, tanto sapeva che non ne avrebbe guardato più di qualche minuto. Infatti, per le due ore successive incollò la bocca alla loro pelle, a turno, e si ubriacò di sangue.

Tra un sorso e l’altro, Lorie lo invitò al suo compleanno quel sabato sera.

“Festeggeremo sia il mio diciottesimo che il sedicesimo di Jennifer. Io sono nata il 30 novembre, quindi questa domenica, e Jennifer il primo di dicembre, cioè il prossimo lunedì, ma non si può organizzare un party se la mattina dopo c’è scuola. Così abbiamo optato per sabato 29. Devi venire, Regan. Non accetterò un no come risposta.”

“Certo, volentieri.” rispose, staccandosi con un suono umido dalla coscia di Vanessa, “Cosa vuoi di regalo?”

“La tua presenza, amore. Non chiedo altro.” sospirò Lorie sulla sua bocca, per poi coinvolgerlo in un bacio passionale, incurante del sangue.

Regan si segnò anche questo impegno nella sua agenda mentale, assieme alla partita di football di venerdì. I gemiti di Claire lo distrassero. Quando posò gli occhi su di lei, la vide con la testa riversa all’indietro, il seno esposto all’aria e una mano dentro le mutandine azzurre.

“Sei insaziabile.” borbottò, sorpreso che la ragazza avesse ancora voglia dopo i sei orgasmi che Regan le aveva già dato.

Vanessa ridacchiò, imitata da Claire, e le due si baciarono con impeto sotto lo sguardo intrigato di Regan.

Rincasò alle sette passate, ancora ebbro di sangue. Le luci erano spente, segno che la nonna era uscita. Attraversò l’ingresso, superò la cucina e salì le scale. In camera, individuò subito il biglietto sul cuscino.

 
“Leprotto, stasera ceno con Hillary in centrale. Ti ho lasciato il pollo al curry e una fetta di torta al limone in frigo. La tua razione di sangue è dietro le verdure, in fondo al ripiano. Fa’ il bravo!”

Regan indossò la tuta e tornò in cucina per riscaldare il pollo. Divorò la torta in tre bocconi e, per ultimo, si spruzzò il sangue direttamente in bocca dalla siringa. Poi ponderò se piazzarsi davanti alla tv o salire in camera a leggere il libro che l’insegnante di Letteratura inglese aveva assegnato, sul quale avrebbe dovuto scrivere un breve saggio da consegnare la prossima settimana.

Il soffio minaccioso di Poe lo allarmò. Si voltò verso il salotto e vide il gatto accucciato sullo schienale del divano, col pelo ritto e gli artigli conficcati nei cuscini. Seguendo la traiettoria dei suoi occhi, si trovò a fissare fuori da una delle finestre. Un istante più tardi, il suo intero corpo si irrigidì e il fiato gli si mozzò in gola.

La sagoma scheletrica del demone si stagliava in mezzo al cortile sul retro della casa, di fronte alla siepe di maonie. Regan non dovette aspettare a lungo prima che un sibilo gli perforasse le orecchie.

Arretrò piano, si accostò al piano cottura e avvolse le dita attorno al coltello del pane, senza mai perdere di vista il demone. I miagolii bellicosi di Poe facevano da sottofondo costante.

Raccogliendo il coraggio a due mani, Regan uscì di casa veloce come un razzo. Fece il giro e corse sul retro, ma, quando arrivò, non c’era più alcuna traccia del demone. La rabbia lo pervase, risvegliando la sete. Le mani gli tremavano in preda alla frustrazione, così strinse con più forza il manico del coltello.

Non aveva uno straccio di idea su come fare a fermarlo. Da un lato, il suo istinto di predatore gli gridava di andare a caccia e stanare il demone, ovunque si nascondesse. Dall’altro, la logica riteneva fosse più saggio attendere l’occasione propizia e, nel frattempo, studiare meglio tutti gli indizi che aveva trascritto.

Tornato in cucina, vide che Poe si era raggomitolato sul calorifero, di nuovo tranquillo. Sbuffò incredulo e rimise il coltello al suo posto, poi si sfregò i palmi sulla faccia, esausto. Di quel passo, lo stress lo avrebbe fatto invecchiare prematuramente.

 
*

Il sole scomparve oltre le cime degli alberi nel momento in cui le cheerleader terminarono la coreografia d’apertura. La musica si fermò e lo scroscio di applausi dell’intero pubblico raggiunse livelli di decibel non quantificabili. Le ragazze corsero a bordo campo senza mai perdere la formazione, agitando i pon-pon con entusiasmo, e gridarono incitamenti alla volta dei giocatori. I grossi riflettori si accesero e illuminarono lo spiazzo erboso. Ragazzi in divisa da football disposti in fila indiana marciarono verso il centro, gli elmetti protettivi già calcati sulla testa.

Gli spalti erano pieni di studenti, professori e famiglie. Alcuni avevano la faccia dipinta e brandivano striscioni con su scritto “Forza Ashen Gulls” a caratteri cubitali, altri sventolavano con una mano la bandierina con il logo della squadra di Ashwood Port mentre con l’altra si ingozzavano di nachos. Regan sedeva in seconda fila con Roman, entrambi con una bandierina in mano e l’espressione di chi avrebbe di gran lunga preferito trovarsi altrove invece che in mezzo a quel marasma.

Le due squadre avversarie si arrestarono l’una di fronte all’altra per la stretta di mano. L’arbitro, dopo aver ordinato a tutti di giocare pulito, lanciò in aria una moneta. La palla andò alla squadra di Ashwood Port. Appena il fischio d’inizio riecheggiò per il campo, il tifo si scatenò. Molti studenti si misero a gridare incoraggiamenti a squarciagola, tanto che Regan e Roman dovettero tapparsi le orecchie per non restare sordi.

Mike era la punta di diamante della squadra e lo dimostrò segnando il primo punto cinque minuti più tardi. La folla eruppe e le cheerleader agitarono i pon-pon saltellando come delle matte.

Gli Ashen Gulls si portarono in vantaggio fin da subito, placcando l’altra squadra con inaudita violenza. Le urla degli allenatori dalle panchine si fusero con quelle degli spettatori. L’arbitro non smise per un secondo di correre in qua e in là per tenere sotto controllo il gioco.

A un certo punto, a Regan parve di udire il gracchiare di un corvo. Incuriosito, perlustrò l’area intorno e sopra di sé con lo sguardo, ma non vide niente.

Quando Mike segnò l’ultimo punto, a otto secondi dalla fine, tutti si alzarono per acclamarlo. Avevano vinto. Le cheerleader corsero in campo per unirsi ai festeggiamenti e Mike si tolse l’elmetto per sventolarlo trionfante.

Regan applaudì e, incrociando il suo sguardo da lontano, alzò entrambi i pollici. Mike gli elargì il sorriso più smagliante del suo repertorio.

“Andiamo o vuoi restare?” gli domandò Roman una volta raggiunto il parcheggio.

“Devo tornare a casa.”

“Mike non se la prenderà?”

“L’ho già avvisato per messaggio. Tanto ci vedremo domani al compleanno di Lorie e Jennifer.”

“Domani vuoi che passi a prenderti per andare alla festa?”

“No, vengo in bici.”

“Okay.”

Roman lo attirò a sé per un abbraccio e inalò a fondo il suo odore. Represse a stento un guaito felice. Si staccò riluttante e corse verso la propria auto. Partì soltanto quando vide Regan montare in sella alla sua bici e pedalare via, avvertendo già la sua mancanza.

 
*

Sabato sera, Regan arrivò a casa di Lorie per le nove. La festa era cominciata da almeno un’ora. La musica era sparata a tutto volume e una marea di ragazzi affollavano l’interno della villetta, la veranda e il cortile, tutti con un bicchiere in mano e sorrisi ubriachi.

Il suono di un clacson lo fece sobbalzare. Girandosi, si imbatté in Roman. Era affacciato dal finestrino della macchina in mezzo alla strada.

“Vado a cercare parcheggio.”

Regan assentì e si voltò di nuovo per rifugiarsi al caldo. In molti lo salutarono, riconoscendolo. Alcuni, addirittura, lo abbracciarono stretto, felici di vederlo. In un attimo, si ritrovò con un bicchiere di birra in mano e Lorie e Vanessa aggrappate alle sue braccia da ambo i lati.

La prima indossava un tubino rosso, la seconda un golfino rosa e una minigonna di jeans. Entrambe portavano tacchi vertiginosi, tanto che Regan sentì di doversi complimentare con loro per non aver ancora perso l’equilibrio o essersi slogate una caviglia. I loro capelli erano freschi di parrucchiere e il trucco era impeccabile. La loro pelle profumava di pesca e rosa. Parevano due modelle.

“So che è domani, ma lo dirò stesso: buon compleanno, Lorie.” le augurò, stampandole un bacio sulla fronte, “Dov’è Jennifer?”

“In cucina. Vieni.”

Entrarono in cucina, dove Jennifer stava spilluzzicando pizzette e salatini in compagnia di Charlotte.

“Hey, Jennifer. Auguri.” disse Regan e si staccò da Lorie e Vanessa per andare ad abbracciarla.

“Grazie, Regan. Roman è con te?”

“Sta cercando parcheggio.”

“E dov’è Derek? È un po’ che non lo vediamo.” domandò Charlotte.

“Ennesimo impegno in famiglia. Non chiedere, non so di cosa si tratta.”

“Hai fame?” Lorie gli offrì una pizzetta dal vassoio e, quando lui annuì, lo imboccò.

“Regan, andiamo a ballare.” propose Vanessa, trascinandolo in salotto in mezzo alla bolgia.

Le casse dello stereo si misero a diffondere Vida Loca di Ricky Martin. Lorie cacciò uno strillo acuto. Alla smorfia sbigottita di Regan, spiegò che era la sua canzone preferita. Così, Regan finì al centro di un sandwich tra lei e Vanessa, circondato da studenti ubriachi. Nemmeno notò Roman entrare e scandagliare la folla con lo sguardo, o come esso si incupì non appena lo individuò.

Mezzora dopo, Regan si sfilò dal groviglio di corpi per andare a bere qualcosa. Mike lo intercettò nel tragitto verso la cucina e lo avvolse in un abbraccio spaccaossa. Sembrava che l’adrenalina del giorno prima gli scorresse ancora nelle vene, tanto era eccitato.

“Hai visto che passaggio ho fatto, nel primo tempo? Quello mentre saltavo. E come ho afferrato la palla quando uno degli avversari ha cercato di fare una finta? Facevano pena, cazzo. E andavano giù come birilli se solo li spingevi un po’. Spesso non ho neanche usato la mia vera forza.” si vantò.

Regan rise e gli assestò una pacca amichevole sulla spalla: “Ho visto, Mike. Sei stato fenomenale.”

“Se continuo così, potrei riuscire a ottenere la borsa di studio sportiva. Dio, ma ci pensi? Potrei diventare famoso in tutto il paese!”

“Ti ci vedo.”

Mike lo abbracciò di nuovo, poi, grazie al cielo, lo mollò per andare a infastidire gli altri invitati.

Mentre stava sorseggiando l’acqua del rubinetto, Roman comparve alle sue spalle. Senza dire nulla, lo cinse da dietro e affondò il naso tra i suoi riccioli corvini.

“Hey.” lo salutò Regan.

“Hey.” mugugnò sulla sua nuca, “Quanto dobbiamo restare?”

“Almeno fino a mezzanotte.”

“Sono solo le dieci…” si lamentò il lupo, “Hai idea di quanto sia difficile evitare Jennifer, stasera? Mi è rimasta appiccicata per più di mezzora. Ho dovuto dirle che volevo parlare con te in privato per convincerla a scollarsi.”

“Le hai detto di non essere interessato?”

“Certo! Ma sembra che non si voglia arrendere. Non so cosa fare. Non voglio offenderla o ferirla.”

“Forza e coraggio.” gli disse Regan, accarezzandogli le mani che aveva intrecciato sul suo stomaco, “Resisti almeno fino al taglio della torta e la consegna dei regali.”

“Tu cosa hai comprato alle festeggiate? Io una sciarpa per Jennifer e un paio di guanti per Lorie.”

“Io nulla. Lorie ha detto che le bastava la mia presenza e Jennifer… beh, non la conosco abbastanza da sapere che cosa regalarle.”

“E io non conosco bene Lorie, ma non per questo mi sono presentato a mani vuote! Sei pessimo, Regan. Pessimo.”

“Oh, smettila, mi farai arrossire.” rispose in tono piatto.

Alle undici, le luci si spensero, la musica venne fermata e, di comune accordo, tutti i ragazzi si misero a cantare la canzoncina di auguri. Lorie e Jennifer tagliarono insieme la torta e scartarono i regali. Ci furono lacrime commosse, abbracci, risate, battutine. Dopodiché, lo stereo venne riacceso e gli invitati ancora relativamente sobri ripresero a ballare in modo sfrenato. La maggior parte erano già svenuti o spaparanzati da qualche parte, ubriachi fradici.

Nella confusione, Lorie prese Regan per un polso e lo trascinò su per le scale per appartarsi in camera sua. Regan intuì cosa desiderava, ce l’aveva scritto in faccia. Fu ancora più evidente quando lei si spogliò e si sdraiò nuda sul letto, con le gambe divaricate. Era già bagnata, le cosce imbrattate dei suoi fluidi trasparenti.

“Regan, ti prego. Ho aspettato tutta la sera, non ce la faccio più…” miagolò con voce seducente.

Regan ghignò, gattonò sul letto e si posizionò tra le sue gambe, portando la bocca a pochi centimetri dalla sua intimità. Il suo odore era delicato, non pungente come quello di Vanessa o speziato come quello di Claire. Mary, invece, sapeva sempre delle salviette profumate alla menta che usava per pulirsi quando andava in bagno.

Fece per conficcare le zanne al centro di quell’invitante bocciolo di carne, ma Lorie lo fermò.

“No… ti voglio dentro. Scopami.”

Regan si bloccò, interdetto. Schiacciò prontamente l’impulso di guardarsi il cavallo dei pantaloni, poiché non gli servivano gli occhi per sapere di non essere minimamente eccitato. Si arrovellò, attivando il cervello a piena potenza, finché non gli venne un’idea.

Mentre la distraeva con un bacio, abbassò una mano tra le sue gambe e, nel momento esatto in cui simulava una spinta col bacino, la penetrò con quattro dita. Era talmente fradicia che esse slittarono all’interno del suo canale senza incontrare resistenza. Lorie non si avvide del suo stratagemma, vittima dell’ipnosi di Regan.

Lui le intrappolò il mento con la mano libera per costringerla a piegare la testa di lato, poi le baciò il collo e morse, provocandole il primo orgasmo. Continuò a succhiare il suo sangue per altri venti minuti, finché la ragazza non ricadde supina sulle coltri, esausta e appagata dopo aver raggiunto l’apice per la quarta volta consecutiva.

Regan estrasse le dita dalle sue carni e le asciugò sulle lenzuola. Dopo aver lappato i fori sulla gola di Lorie per farli rimarginare, ricoprì il suo corpo con un plaid e la lasciò a riposare. Uscendo dalla stanza, si richiuse bene la porta alle spalle e si diresse al bagno per darsi una sciacquata veloce.

Stava percorrendo la strada a ritroso per tornare in salotto quando lo udì: il sibilo. All’improvviso, percepì anche una strana sensazione alla bocca dello stomaco, una sorta di pressione dall’interno. Barcollò e si appoggiò a un muro. Le risate e gli schiamazzi degli studenti, mischiati a quel sibilo, lo intontirono. C’era troppo rumore, troppe persone, troppi odori.

Avanzò a passi lenti, con l’intenzione di rifugiarsi in una stanza vuota per calmarsi. Giunto in prossimità di una porta chiusa, poggiò la mano sul pomello e la aprì. Vide una coppia di ragazze nude intente a rotolarsi tra le lenzuola, così la richiuse subito borbottando delle scuse. Dietro la seconda c’era un ripostiglio. Spalancò la terza con crescente fastidio, temendo di trovarsi davanti ad un altro spettacolino come quello che aveva visto nella prima camera. Non appena registrò il silenzio, però, sollevò le palpebre. Un attimo dopo, gelò sul posto.

Vicino alla finestra aperta, scorse una sagoma nera. La tenda bianca semitrasparente fluttuava assieme al vento, nascondendo la figura del demone a intermittenza. Regan notò che era alto, molto alto, e magro, scheletrico. La sua pelle grinzosa era rivestita di tenebra. Le braccia si allungavano fino agli stinchi, sottili e ossute. Il torace e il bacino erano incavati. Non aveva organi riproduttivi visibili. Il cranio era liscio, privo di orecchie, mentre là dove avrebbe dovuto esserci la faccia c’era una superficie vuota e uniforme. 

Fu allora che si ricordò dell’ombra che aveva scorto riflessa nello specchio del bagno, a casa sua, il primo giorno di scuola. La paura e la rabbia lo paralizzarono.

Il sibilo gli esplose nel cervello, più assordante e violento di quanto fosse mai stato. Si premette le mani sulle orecchie, strizzò le palpebre e strinse i denti. Fece scattare la testa da un lato e dall’altro in automatico, come per scacciare una mosca, ma non c’era niente da scacciare, era tutto nella sua mente.

L’attacco sonoro venne interrotto dal gracchiare di un corvo. Regan lo osservò con occhi sgranati svolazzare per la camera, finché non si appollaiò sulla spalla del demone. A quel punto, l’uccello si chetò.

Risvegliatosi dallo shock, Regan snudò le zanne e ringhiò minaccioso. A sua insaputa, le occhiaie intorno ai suoi occhi si scurirono, le iridi azzurre si tinsero del colore delle braci sonnecchianti e la sclera divenne completamente nera.

Una mano gli sfiorò la spalla da dietro. Trasalì e si girò di scatto, pronto ad attaccare.

Roman lo guardò apprensivo, sollevando le mani in segno di resa. Poi, lentamente, si avvicinò a lui e lo avviluppò in un abbraccio.

I rumori della festa tornarono nitidi. Regan barcollò, come se tutte le energie gli fossero state succhiate via di colpo. Se non fosse stato per la presa ferrea dell’amico, sarebbe caduto in ginocchio.

Il licantropo annusò l’aria e storse il naso, individuando subito una forte scia di paurarabbiaconfusione.

Il moro si scostò appena e fece saettare gli occhi verso la finestra. Il demone e il corvo erano spariti.

“Regan? Stai bene?”

Regan scosse il capo. Si districò veloce dall’abbraccio del lupo e, senza dire niente, scappò via, lasciando Roman da solo in mezzo alla stanza, visibilmente scioccato. Scese le scale di corsa e scansò con agilità i ragazzi, scivolando accanto a loro silenzioso come un’ombra. Giunto all’ingresso, acciuffò il giubbotto dal guardaroba e si catapultò all’esterno. Ignorò il cuore che gli martellava nello sterno e i saluti che gli vennero rivolti, poi salì sulla bici e pedalò via, traendo forza dall’adrenalina.

Un’ora dopo, rannicchiato sotto le coperte del suo letto, si sforzò di calmarsi. Era ancora spaventato, oltre che furioso. Come se avesse fiutato il suo umore, Poe si acciambellò accanto a lui, offrendogli conforto. Regan lo grattò dietro le orecchie e rimase a fissare il soffitto finché i tiepidi raggi del sole non rischiararono la stanza. Soltanto allora si concesse di chiudere gli occhi, pregando che la luce del giorno tenesse a bada gli incubi.

Lunedì, si trascinò a scuola come uno zombie. Nonostante le insistenze della nonna, nemmeno domenica aveva avuto il coraggio di addormentarsi, per paura che il demone comparisse vicino a lui non appena avesse abbassato le difese. Le aveva raccontato cosa aveva visto alla festa e, come si era immaginato, era andata nel panico. Gli aveva rinnovato l’amuleto e, presa da una specie di febbre, aveva vergato rune protettive non solo sugli stipiti di porte e finestre, ma anche sul pavimento, sotto i tappeti e i mobili. Regan era rimasto a osservarla con un crescente senso di colpa e impotenza.

Ad ogni incontro col demone, che avvenisse faccia a faccia o da lontano, gli sembrava che, invece di diminuire, le domande aumentassero. Con enorme frustrazione, non era ancora riuscito a trovare niente che lo aiutasse a far luce su almeno una di quelle. Il mistero che circondava il demone era come un gomitolo che si aggrovigliava su se stesso più tentavi di tirare uno dei suoi fili. Non importava cosa scoprisse Regan, perché alla fine del percorso lo attendeva sempre un vicolo cieco. Allora doveva ripercorrere i suoi passi e ricominciare da capo. Era intrappolato nella confusione, costretto a disfare costantemente i suoi progressi come una maledetta tela di Penelope.

Domenica aveva ignorato i messaggi e le chiamate di Roman, Derek e Lorie finché aveva potuto. Poi aveva spento direttamente il cellulare per non dover più essere soggetto ai suoi trilli incessanti. Sapeva che il licantropo e il cacciatore lo avrebbero placcato non appena avesse messo piede nel parcheggio della scuola, e non era una prospettiva entusiasmante.

Derek arrivò per primo. Comparve dietro di lui mentre era piegato ad assicurare la bici alla transenna col lucchetto.

“Regan, dobbiamo parlare.” esordì in tono grave.

“Sì. Ho novità.”

Il biondo sbarrò impercettibilmente gli occhi. Annuì e gli fece cenno di seguirlo verso la sua macchina. Mancavano dieci minuti all’inizio delle lezioni, quindi avevano tempo.

“Dimmi tutto.” ordinò Derek appena entrambi furono dentro l’auto.

“Sabato sera, alla festa di Lorie e Jennifer, mi è apparso il demone. L’ho visto in una delle camere al secondo piano. Non mi ha fatto niente. È rimasto lì a fissarmi finché Roman non mi ha trovato.”

“D’accordo.” esalò Derek, strofinandosi la faccia con i palmi delle mani.

Regan notò che le sue occhiaie erano più pronunciate. Il suo viso era il ritratto della stanchezza, in verità. Se ne stava seduto ingobbito, quasi che un grosso peso gli gravasse sulle spalle.

“Che aspetto aveva?”

Il moro glielo descrisse.

“Bene. Ti farò sapere cosa scopro. Ora vorrei discutere di un’altra questione…”

La campanella lo interruppe. Regan non negò il sollievo che lo pervase. La tensione che respirava nell’abitacolo della macchina si sarebbe potuta tagliare con un coltello.

“Dopo.” disse Derek e, uscendo, affiancò l’altro per i pochi passi che li separavano dall’entrata.

La mattinata trascorse tranquilla. Regan rischiò di addormentarsi a più riprese, ma per fortuna resisté al richiamo del sonno. A Chimica, verso la metà dell’ora, rischiò l’infarto.

Sedeva come al solito accanto a Cecilia. Gli occhi della ragazza erano coperti da due lenti a fondo di bottiglia. Le sue treccine dondolavano sul banco quando si piegava in avanti per osservare da vicino i processi dell’esperimento. Un golfino bianco con motivi natalizi fasciava le sue curve e faceva risaltare il suo incarnato color caffelatte.

Regan camminava sul sottile confine tra il sonno e la veglia, la testa appoggiata su una mano e le palpebre a mezz’asta. L’improvviso gracchiare di un corvo gli provocò un vistoso sussulto e lo strappò bruscamente dal torpore, riconducendolo nel regno dei vivi. Annaspò in preda al panico.

I ragazzi intorno a lui si girarono a guardarlo con aria interrogativa. Regan si impietrì. Dopodiché, sbadigliò teatrale a mo’ di spiegazione. Apparentemente soddisfatti, uno ad uno tornarono ai loro esperimenti. Tranne Cecilia. Lei continuò a fissarlo con quella che Regan interpretò come preoccupazione. Avrebbe voluto dirle che stava bene, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono, come se le labbra fossero state cucite insieme con ago e filo. Perché, appollaiato sulla spalla sinistra della compagna, c’era il corvo.

L’uccello gracchiò, poi s’involò e sbatté freneticamente le ali per tutta la classe. Regan lo seguì con lo sguardo cercando di apparire discreto, ma Cecilia lo osservava da troppo vicino per non notarlo.

“Stai bene?” gli domandò incerta.

“Ehm… sì. Certo. Solo carenza di sonno.” le rispose con un sorriso falso.

Il corvo gracchiò un’ultima volta e scomparve nel nulla.

Regan deglutì, aspettandosi di vedere il demone, ma di lui nessuna traccia. Sospirò esausto, si passò le mani fra i capelli e si stropicciò le palpebre pesanti. Quando incrociò l’espressione apprensiva di Cecilia, sbuffò e indicò con gesti vaghi l’esperimento.

“Perdonami, lascia che ti aiuti.”

La campanella suonò. Regan raccolse libri e quaderni e si preparò per andare a mensa. Tuttavia, giusto fuori dall’aula, trovò Derek ad attenderlo, e non sembrava felice di vederlo.

Si lasciò afferrare per un polso e trascinare verso l’aula di arte, l’unica con le luci spente. Derek chiuse la porta dietro di sé e sospinse Regan su uno dei banchi. Si intrufolò tra le sue gambe divaricate, lo afferrò per il bavero del maglione e lo obbligò a piegarsi all’indietro, torreggiando su di lui con tutto il corpo. Regan era troppo stanco per opporre resistenza. Inoltre, non sarebbe servito a nulla, eccetto alimentare la rabbia dei Derek. Si concesse solo di fare una smorfia quando la pietra di luna si conficcò nel suo collo.

“È vero quello che si vocifera?”

“Eh?”

“Che sei andato a letto con Lorie, sabato sera.” aggiunse non appena registrò la sua perplessità, “Che ci hai fatto sesso. Che hai infilato il tuo cazzo nella sua-”

“No.”

Derek serrò sia le labbra che la presa ferrea sui suoi vestiti: “Non mentire. Non funziona con me, lo sai.”

Regan soffocò la voglia di roteare gli occhi. Invece, avvolse la mano di Derek con le proprie e, con un piccolo sforzo, lo invitò ad appoggiare il palmo aperto sul suo cuore.

“No, non ci ho fatto sesso. Eravamo sul suo letto, ci siamo baciati, ma non è successo quello che pensi.”

“Allora perché tutta la scuola è convinta del contrario? Ho sentito due ragazzi che dicevano di aver udito gemiti inconfondibili provenire dalla camera di Lorie.” ringhiò a un centimetro dal suo naso.

Il moro si schiarì la gola, imbarazzato: “Potrei aver usato il controllo mentale per farle credere che stavamo facendo sesso… sai, per dare una spintarella in più alla mia nuova reputazione…”

Derek inarcò un sopracciglio. Subito dopo mollò la presa e si raddrizzò. Non era più arrabbiato, ma non era nemmeno completamente rilassato. I muscoli del collo e delle spalle guizzavano sotto la stoffa della felpa, la mandibola era contratta e la fronte corrugata.

“Sei incredibile. Mi assento per qualche giorno e tu… tu…”

“Oooh, frena! Risparmiami l’ennesima scenata di gelosia. Non stiamo insieme, quindi non esiste alcuna clausola di esclusività, fedeltà e devozione a cui mi devo attenere quando non ci sei.”

“Okay, allora parliamone.” propose scrocchiando il collo e le mani, quasi si stesse preparando a una lotta, “È evidente che ho dato certe cose per scontate, e ammetto di aver sbagliato. Perciò, chiariamoci subito.”

Regan rimase in silenzio a fissarlo come se fosse un alieno.

“Sai cosa provo per te.” disse Derek, “Non ne ho mai fatto un segreto.”

“A-ha…”

Il cacciatore sbuffò esasperato: “Sono innamorato di te, Regan. Comprendi?”

“Oh. Eh? Aspetta. Avevi detto che ti piacevo, non che mi amavi!”

“Per me è la stessa cosa!”

“E come potevo saperlo?”

“Beh, te lo sto dicendo adesso. Ora è il tuo turno. Cosa provi per me?”

“Ehm…” il cervello di Regan si attivò a piena potenza per trovare le parole giuste, conscio che il minimo errore gli sarebbe costato l’alleanza e la fiducia di Derek, “Non so bene cosa provo.”

“Non… lo sai?”

“Mi hai mai invitato fuori per un appuntamento? Mi hai mai fatto regali per dimostrarmi il tuo affetto? Mi hai mai detto chiaro e tondo che mi ami? E, soprattutto, hai mai reso note le tue intenzioni su come far evolvere il nostro rapporto? Risposta: no. Quindi perché dovrei riempirmi la testa di stupide fantasie romantiche?”

Derek restò di sasso per qualche secondo, poi si rianimò e tornò alla carica: “Ti ho salvato la vita! Ti ho fatto bere il mio sangue! Ti ho protetto dai cacciatori, ti sto aiutando con il demone, sono sempre presente, ti ascolto quando vuoi sfogarti… che altro devo fare? Non sono una persona romantica e non ho mai avuto una relazione.”

“Perché, io sì? Ma mi hai visto? Mi conosci almeno un po’?”

“Oh.” esalò con aria colpevole, “Scusa, io… non avevo realizzato che… cioè, so che sei vergine, che non hai mai avuto una storia, o persino una cotta. Però finora non ci avevo mai davvero pensato. Ho preteso e continuo a pretendere da te cose che non sai come dare, oppure che ancora non sai se vuoi dare e… perdonami. Non voglio farti fare nulla che tu non voglia, Regan.”

Regan schioccò la lingua, distolse lo sguardo e incrociò le braccia sul petto.

“Che ne dici di ricominciare?” offrì Derek con un debole sorriso.

“In che senso?”

“Regan, sono innamorato di te. Ti va di diventare il mio ragazzo?”

“Se accetterò, uno di noi due finirà tre metri sottoterra.”

“Perché?”

“Sei anche idiota. Tu cacciatore, io ibrido di vampiro… ti viene in mente qualcosa?”

“Non faremo la fine Romeo e Giulietta!” esalò Derek esasperato.

“E chi sei tu per dirlo? Puoi darmi qualche garanzia?”

“Okay, hai ragione. Allora, ti propongo un compromesso.”

“E sarebbe?”

“Terremo la nostra relazione segreta.”

“Come abbiamo fatto fino ad ora?”

“Ehm…”

“E per mettere a tacere qualunque sospetto, è meglio che uno di noi venga scoperto a pomiciare occasionalmente con qualcun altro.”

“Eh…”

“In questo modo, renderemo la nostra non-relazione più verosimile.”

“Ah, ehm… non-”

“Perciò, sarà esattamente come è sempre stato, solo con un’etichetta. Okay, ci sto.” Regan saltò giù dal banco e, prima che Derek potesse iniziare a protestare, gli scoccò un bacio a stampo su una guancia, “Sono felice che abbiamo risolto. Ci vediamo, orsacchiotto!”

Si lanciò verso la porta e uscì, sbattendosela alle spalle con forse un po’ troppa enfasi. Non se ne curò. Sarebbe stato saggio se, da quel momento in poi, gli amici gli fossero rimasti alla larga, a meno che non volessero offrirsi volontari come cavie per far sfogare a Regan la rabbia che gli ribolliva nelle vene.

Era un miracolo che le zanne non gli fossero scese mentre parlava. Derek aveva messo veramente a dura prova la sua pazienza. Di questo passo, avrebbe finito con l’ucciderlo spinto da un moto di irritazione.

A cena, Regan raccontò a Deirdre cosa aveva visto durante la lezione di chimica, sperando che potesse rivelarsi un dettaglio utile. Lei nascose la faccia tra le mani e scosse il capo sconsolata. A quanto pareva, i demoni legati ai corvi erano persino più di quelli legati ai serpenti. Per non parlare di quelli associati sia ai corvi che ai serpenti.

“Ho bisogno di una vacanza.” borbottò cupo.

Poe sbadigliò e si raggomitolò meglio sul calorifero del salotto.

 
*

Evelyn stava stirando con aria pacifica le camicie del marito, mugugnando una vecchia canzone a bassa voce. Una colorita bestemmia la strappò ai suoi pensieri. Fissò a bocca aperta l’uomo spaparanzato sulla poltrona di fronte alla tv, impegnato a insultare i giocatori di baseball sullo schermo. La creatività di Gerard in quanto a parolacce non avrebbe mai smesso di stupirla.

“Era fallo, porca puttana! L’ho visto io, che sono quasi cieco! L’arbitro è corrotto, Evelyn cara, credimi. Ormai, per assistere a un gioco pulito serve un miracolo!”

La donna lo squadrò con sussiego, poi scosse il capo e sospirò. Più di cinquant’anni di matrimonio passati ad ascoltarlo ripetere le medesime cose avrebbero dovuto farla sentire afflitta. Invece, suo malgrado, continuava a divertirsi.

“Ha telefonato Josephine, stamattina. Te l’ho detto?”

“Mh? No.” borbottò Gerard, senza distogliere lo sguardo dal gioco.

“Ci ha invitati da lei per Natale.”

“Se ci sarà anche quel lavativo del suo ex marito, può scordarselo.”

Evelyn grugnì e levò gli occhi al cielo: “Non puoi rifiutarti per sempre, è tua figlia!”

“Non è colpa mia se ha sposato un coglione. Non ha neanche un lavoro serio! Ai miei tempi, se non ti spaccavi la schiena non mangiavi.”

“Tom gestisce un ente di beneficenza. Quello è un lavoro.” lo difese Evelyn.

“Avrei preferito che facesse il notaio, così ora non ci ritroveremmo tagliati fuori dal testamento di tuo padre. Quel bastardo! Nonostante sia sottoterra da una settimana, seguita a prenderci per i fondelli. Giuro, Evelyn, se non ti avessi amata più delle mie palle da baseball autografate, ti avrei mollata quel giorno alla fiera, quando quel pazzo mi minacciò di evirazione.”

“Fai uno sforzo. Se non per Josephine, almeno per Cecilia. Da quant’è che non vediamo la nostra nipotina? È assurdo. Viviamo pure nella stessa città!”

“Cecilia è in gamba.” concesse Gerard, “Tuo padre, invece, rimane una testa di-”

“Gerard!”

Evelyn sbuffò contrariata, ma, in fondo, era d’accordo: suo padre era stato un vero bastardo per tutta la sua lunga vita. All’epoca, le coppie miste non erano viste di buon occhio, così lei e Gerard avevano dovuto lottare per trovare qualcuno disposto a sposarli. E dopo il matrimonio era stato arduo non cedere alle pressioni di una società che considerava la loro unione un brutto scherzo. Gerard era quello che aveva sofferto di più: veniva da una famiglia di minatori, discendenti degli schiavi deportati in America nel Seicento, senza un’istruzione e denaro. Durante il corteggiamento, Evelyn aveva rischiato di venire diseredata. A quanto pareva, suo padre aveva attuato la minaccia in punto di morte.

“Andremo da Josephine per Natale.” decretò categorica, “E tu ti comporterai civilmente. Lei e Tom avranno anche divorziato, ma lui resta il padre di Cecilia e parte di questa famiglia.”

Gerard bofonchiò scontento dalla sua poltrona, ma non protestò.

A un tratto, Evelyn udì un rumore provenire dal piano di sopra. Poggiò il ferro da stiro e tese le orecchie.

“Hai sentito?” chiese al marito.

“Cosa?”

“Mmm… niente, me lo sarò immaginato.”

Riprese a stirare. Ripiegò le camicie con cura, attenta che non si spiegazzassero, e passò ai calzini. Due minuti più tardi, lo sentì di nuovo. Occhieggiò in direzione di Gerard, che guardava tranquillo la tv. Storse le labbra e osservò perplessa le scale che conducevano al piano di sopra. Decise di andare a controllare. Spense il ferro da stiro e accese le luci delle scale. Salì lentamente, aggrappandosi alla ringhiera di legno, perché l’anca sinistra aveva cominciato a darle problemi la scorsa primavera.

Aprì le porte di camere e bagno, verificando che non ci fosse nessuno. Dopo aver richiuso l’ultima stanza, fece per tornare di sotto, quando captò ancora quel rumore. Stavolta era forte e chiaro. Proveniva dalla soffitta. Magari era un topo o un procione. In passato, era capitato che si intrufolassero dalle travi marce del tetto.

Si fermò in mezzo al corridoio per tirare la cordicella e abbassare la scaletta della botola. Si arrampicò su e si affacciò in soffitta. L’oscurità permeava la stanza, rendendole impossibile distinguere i contorni degli oggetti. Sapeva che alla sua destra c’erano degli scatoloni pieni di vecchio ciarpame e che davanti e alla sua sinistra Gerard aveva ammassato alcune cose appartenenti ai suoi defunti genitori, ma non riusciva a scorgere alcunché.

Emerse dalla botola, le labbra piegate in una smorfia per il dolore all’anca. Accese la luce. Ebbe giusto qualche secondo per guardarsi intorno prima che la lampadina si fulminasse. Sussultò spaventata e si portò una mano al petto, dove il cuore batteva impazzito. Uno strano senso di pericolo le annodò lo stomaco.

Il gracchiare di un corvo per poco non le provocò un infarto. Era appollaiato sul bordo esterno della piccola finestra rotonda dalla parte opposta della stanza. Gracchiò un’altra volta e sbatté ali e becco contro il vetro. Forse era lui a fare tutto quel baccano.

“Sciò!” disse, agitando con enfasi una mano.

Il corvo volò via. Evelyn sospirò di sollievo. Si girò per tornare giù, ma non terminò mai il movimento.

Una mano scheletrica si avvolse attorno al suo collo, bloccandole l’ossigeno in gola, e la strattonò in avanti. Prima di capire cosa stesse succedendo, venne risucchiata nel buio.

In salotto, Gerard lanciò l’ennesima imprecazione contro l’arbitro, snocciolando qualche commento caustico a beneficio della moglie. Non si era accorto che non era più a stirare dietro di lui. Un calo di tensione fece sparire le immagini dallo schermo, sostituendole con strisce grigie e rumore bianco. Si alzò, sentendo le vertebre scrocchiare. Diede un paio di colpetti alla tv e aspettò che il segnale tornasse. Soddisfatto, adagiò di nuovo le terga sulla poltrona e si lasciò riassorbire dalla partita.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Fear of the dark ***











Hillary inspirò a fondo ed esalò lentamente. Le sue spalle erano afflosciate, la schiena ingobbita. La sua faccia era una maschera di disperata sconfitta, tale da far venire a Deirdre un tuffo al cuore. Nemmeno la voce soave di Dinah Washington, proveniente dallo stereo, sembrava riuscire a distenderle i nervi. Deirdre le riempì la tazza di altro tè e si accomodò sul divano accanto a lei.

Regan era seduto a gambe incrociate sul pavimento, con Poe acciambellato in grembo, intento a scrutare Hillary con aria corrucciata. Odiava vederla ridotta in quello stato, divorata dall’ansia e dall’impotenza.

“Nessuno se lo aspettava. Non c’è stato alcun segnale, niente di strano che lasciasse presagire che sarebbe accaduto.” proseguì Hillary, riallacciandosi al discorso, “Ramirez era una brava poliziotta, una gran lavoratrice, sempre positiva e solare. Il martedì era il giorno che tutti attendevamo con ansia ogni settimana, perché arrivava con contenitori pieni zeppi dei suoi biscotti alla cannella fatti in casa e li offriva a chiunque senza chiedere nulla in cambio. Aveva una bella casa, un marito, una figlia… non so come sia potuto succedere…”

La sua voce si spezzò e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Si coprì la bocca con una mano per non scoppiare in singhiozzi.

“Ma la cosa peggiore… la cosa peggiore non è stata vederla spararsi un proiettile nel cranio in mezzo alla centrale, davanti a tutti. È stato dover riferire la notizia alla sua famiglia. Vederli crollare, senza poter fare nulla. So cosa pensano tutti, ma Ramirez non era depressa. Aveva dei progetti. Sarebbe andata in Inghilterra questa estate, in vacanza. Era così emozionata. Non ha senso che si sia… non ha il minimo senso!”

Poe miagolò e andò ad acciambellarsi vicino a Hillary, strusciando la testa sulla sua coscia in un gesto di conforto. Deirdre le accarezzò la schiena con ampi movimenti circolari. Regan abbassò lo sguardo.

Il funerale di Alma Ramirez si era tenuto quella mattina. Regan aveva saltato la scuola per andarci assieme a Deirdre. Se la veglia – rigorosamente a bara chiusa, dato che Deirdre, pur con tutta la sua rinomata esperienza, non poteva certo fare miracoli quando si trattava di una testa spappolata – era stato un evento strappalacrime, il funerale si era rivelato ancor più straziante. In teoria, non avrebbe dovuto esserci alcun funerale, i suicidi non ne avevano diritto, ma a nessuno sembrava importare. Alma meritava una degna sepoltura e un altrettanto degno addio.

Come accadeva per ogni decesso nelle forze dell’ordine, la funzione era stata resa pubblica. Così, il cimitero si era presto popolato di gente che avanzava in processione per porgere le proprie condoglianze ai Ramirez. Oltre ad alcuni compagni di scuola, Regan aveva scorto pure Derek tra la folla. Il cacciatore gli aveva scoccato giusto un vago cenno di saluto e si era accodato ad un gruppo di adulti dall’aspetto familiare.

Amici, conoscenti, colleghi, in molti erano saliti sul piccolo podio per raccontare al microfono piccoli aneddoti sul Alma. Il primo era stato il sindaco, seguito da Hillary, in quanto sceriffo, e poi da altri agenti. Questi ultimi sfoggiavano una fascia nera posta orizzontalmente sopra il distintivo, in segno di lutto. Le loro uniformi erano pulite, le armi scintillanti, gli stivali lucidati. Impettiti, erano rimasti allineati intorno alla bara con espressioni solenni, mentre i Ramirez piangevano abbracciati alla destra del podio.

Il pastore aveva letto dei passi dalla Bibbia e invitato gli astanti a pregare con lui, ma solo pochi avevano risposto. Appena la bandiera americana era stata ripiegata sulla bara, alcuni poliziotti scelti si erano messi in formazione, imbracciando i fucili. Dopo lo sparo cerimoniale, la bara era stata calata nella fossa e le cornamuse avevano intonato Amazing Grace. Le note si erano sparse nell’aria, per poi venire catturate dal vento e trasportate verso l’oceano. A quel punto, i convenuti si erano alternati per lanciare fiori nella fossa e dare l’ultimo addio ad Alma.

Regan e Deirdre avevano atteso la fine della processione prima di farsi avanti. Deirdre aveva borbottato una preghiera in gaelico e versato sul terreno lo scotch preferito di Alma. Regan, invece, aveva fissato impassibile la bara per un tempo indefinito, finché non aveva visto Deirdre riporre la bottiglia vuota nella borsa. Allora aver gettato la sua rosa nella fossa, aveva abbracciato Hillary, ricordandole di fermarsi da loro nel pomeriggio, e se n’era andato via con sua nonna.

“A volte queste cose non si possono prevedere, Hillary.” disse Deirdre, “Se c’è qualcosa che possiamo fare, non esitare a chiedere.”

“Fare cosa? È andata!” sbottò Hillary, “Oh, e volete sentire un’altra stranezza? Prima di ammazzarsi, ha detto che il ‘discendente di re’ ci farà bruciare tutti all’inferno. Ma Ramirez era atea. Parlare di inferno e paradiso non era da lei. Credo che sia il clima che si respira in città ad averla fatta impazzire, sapete? Ieri, per esempio, un tizio ha investito un cane in pieno centro, davanti a dei testimoni. È sceso, lo ha afferrato per la coda come se niente fosse e lo ha scaricato sul marciapiede ancora agonizzante, abbandonandolo lì. Per fortuna, un passante è intervenuto.”

Regan scambiò un’occhiata fugace con sua nonna. Deirdre abbassò di nuovo lo sguardo dopo appena un secondo, confermando ciò che Regan stava pensando: il suicidio di Alma Ramirez, così come gli altri delitti che continuavano ad avere luogo in città, non era ciò che sembrava. Una forza oscura stava masticando con gusto gli abitanti di Ashwood Port, per poi risputarli con qualche rotella in meno.

“Sei riuscita a scoprire qualcosa sulle persone scomparse?” domandò Regan ad Hillary, nella speranza di distrarla.

Hillary inspirò col naso e si asciugò frettolosamente le lacrime che le bagnavano le ciglia. In un attimo si ricompose, grata per la scappatoia che Regan le offrì.

“La tua intuizione sembrava ottima, ma si è rivelato l’ennesimo buco nell’acqua. Ho interrogato di nuovo le famiglie delle vittime e tutte mi hanno confermato di essere andate a vedere la mostra alla Fondazione il giorno della scomparsa, proprio come ci aspettavamo. Però mi hanno assicurato di non aver parlato con nessuno mentre erano lì. Non hanno notato niente fuori dall’ordinario. E Petra Sthenos è pulita. Non ha neanche una multa per eccesso di velocità. Inoltre, dalle ricerche sui rapimenti a porta chiusa non è emerso nulla. Nei casi che mi sono pervenuti manca il dettaglio dei sette giorni tra il lutto e la scomparsa, che è il nostro indizio principale al momento.”

Regan rimase in silenzio. Non sapeva più cosa pensare adesso che un’altra pista si era dissolta. Il mistero si infittiva sempre di più.

L’ultima a sparire era stata Evelyn Richardson, la nonna di Cecilia. Il marito, Gerard, aveva riferito alla polizia di non aver visto niente. Un attimo prima sua moglie era dietro di lui a stirare le camicie, quello dopo era svanita. Come le altre vittime, anche Evelyn era stata colpita di recente da un lutto. Suo padre era morto di infarto nella sua casa a Lawrence, sette giorni prima che lei scomparisse, lasciandola senza eredità. Cecilia non era più venuta a scuola da quando era accaduto. Regan non poteva biasimarla.

“Tra un paio di giorni arriverà l’FBI e il caso passerà a loro.” dichiarò Hillary.

“Cosa?!” esclamò Regan.

“Non mi taglieranno fuori dall’indagine, se è questo che temi. Ma non potrò più condividere informazioni con persone estranee alle forze dell’ordine.” la donna sorrise con amarezza, “Mi dispiace, Regan. È la procedura. Anzi, avrei dovuto chiamarli subito. Al più tardi, quando è scomparso Timothy Bruce.”

“E credi che loro risolveranno il caso?” domandò, palesemente scettico.

“Dobbiamo avere fiducia. Hanno molte più risorse, magari scoprono qualcosa che a noi è sfuggito.”

“Sono sicura che tutto si aggiusterà.” la rassicurò Deirdre con un sorriso dolce.

Regan inarcò un sopracciglio, ma si astenne dal commentare. Distruggere le speranze di Hillary non avrebbe fatto altro che acuire il suo sconforto.

Quella notte, Deirdre si svegliò di soprassalto, richiamata dai ringhi del nipote. Appena si affacciò nella sua camera, lo vide contorcersi tra le coperte come se stesse lottando. Le luci della strada filtravano attraverso le tende della finestra e si riflettevano sulle zanne snudate, mentre ombre sinistre danzavano sulla sua fronte corrugata e imperlata di sudore. Riuscì a strapparlo all’incubo dopo una decina di tentativi.

Regan si calmò solo un’ora più tardi, di fronte a una camomilla. Le sue occhiaie marcate lo facevano assomigliare a un panda e il pallore spettrale del suo viso le rammentò vividamente il periodo che aveva trascorso incatenato in soffitta in preda all’astinenza da sangue.

Prima di riaccompagnarlo a letto, gli diede un pezzo di calcedonio da mettere sotto il cuscino, in modo da scacciare gli incubi e la paura. Tuttavia, la mattina seguente a colazione, Regan le disse che non aveva funzionato. Anzi, gli incubi lo avevano tormentato ancora di più, se possibile.

Deirdre si fece riconsegnare il calcedonio e lo osservò attentamente, cercando di capire quale fosse il problema. Quando esercitò una leggera pressione con pollice e indice sulla pietra, essa si sbriciolò. Fissò allibita i resti per qualche secondo, dimentica delle uova strapazzate che aveva nel piatto.

“Regan.”

“Mh?”

“Hai un problema.”

“Ne ho più di uno, in realtà.” mugugnò ironico.

“Fa’ poco lo spiritoso e ascoltami. Gli incubi che hai potrebbero essere sul serio visioni.”

“Visioni?”

“Nessun amuleto protettivo funziona, o almeno non come dovrebbe. Ciò può significare due cose: o il demone è più potente di quanto immaginiamo, che non è da escludere, o i tuoi poteri psichici sono talmente forti da annullare l’effetto di qualsiasi amuleto. Pare che il tuo istinto stia cercando di avvisarti nel sonno, che è l’unico momento in cui le tue difese, cioè la ragione, sono abbassate. Durante il sonno si è più ricettivi e, al contempo, più vulnerabili. Il raggio percettivo della mente si amplia, come… una diga. Essa si apre mentre dormi, per poi richiudersi e riassorbire tutta l’acqua quando ti svegli. La diga è la razionalità, la tua ancora durante il giorno. La notte, però, siccome non ne hai bisogno, essa si addormenta con te, lasciando l’acqua, cioè l’inconscio, libera di fluire. E il tuo inconscio, Regan, vuole dirti qualcosa. Te lo sta urlando da mesi, in quello che tu chiami ‘incubo’.”

“Quindi che devo fare?”

“Non lo so. Possiamo tentare con una pietra runica. Magari le visioni si faranno più chiare. Oppure verranno smorzate abbastanza da permetterti di riposare come si deve.”

Deirdre spostò il piatto da una parte per liberare lo spazio davanti a sé. Dalla pila di scatole alla sua destra, ne scelse una con dei fregi intagliati sul bordo. All’interno vi erano riposte pietre di varia grandezza e colore, e tutte presentavano una runa incisa sopra. Deirdre ne prese una azzurra con sopra incisa una freccia che puntava verso l’alto.

“Perché proprio quella?” le chiese Regan, che di rune non ci capiva niente.

“Questa runa si chiama Tiwaz. Quando le cose vanno per il verso storto da troppo tempo, o quando ci si trova in una situazione incerta che si trascina più del dovuto, Tiwaz può essere usata per ribilanciarla e incanalare gli eventi nella giusta direzione.”

“Qual è la direzione giusta, nel mio caso?”

“Convincere il demone a stare lontano da ciò che è tuo: il tuo corpo, i tuoi sogni, il tuo spirito, la tua casa, i tuoi cari; ma anche la tua città, la tua terra, e tutto quello che reclami come tua proprietà.”

“Sembra perfetto. Come facciamo ad attivarla?”

“La stringeremo tra le mani e la impregneremo della nostra volontà condivisa. Se le nostre intenzioni sono sufficientemente forti, la runa si attiverà.”

“Come capiremo che si è attivata?”

“Lo capiremo. Concentrati, adesso. Incanala le tue intenzioni e dammi le mani.”

Regan si impegnò per infondere i propri intenti nella pietra. Un minuto più tardi, vide Deirdre raddrizzarsi per osservarla. Lui non avvertiva nulla di diverso, né dentro né intorno a sé. Nessuna energia cosmica, nessuna vibrazione, nessun surriscaldamento. Ma quando sbirciò la faccia soddisfatta della nonna, abbandonò lo scetticismo e decise di fidarsi.

Quella notte, prima di andare a dormire, mise la pietra runica sotto il cuscino e pregò che funzionasse. Voleva sognare il lupo, non quelle maledette tenebre, che parevano risucchiarlo sempre più in profondità ogni volta che vi si addentrava.

La pietra fece la stessa fine del calcedonio: Deirdre e Regan la trovarono polverizzata la mattina dopo. Ormai era chiaro che i metodi “convenzionali” erano inutili. Serviva qualcosa di più potente, vera magia. Purtroppo, Deirdre non era una strega.

 
*

La settimana scivolò via veloce e giunse sabato. Regan non ricordava più quando era stata l’ultima volta in cui aveva dormito più per di due ore di fila. Ne aveva all’attivo quindici in tutto, contando da lunedì. Di conseguenza, il suo umore era peggiorato al punto da far invidia persino al Grinch. Prendere voti bassi agli ultimi test non aveva aiutato. Anzi, lo aveva reso ancor più indisponente. Nemmeno il sangue delle ragazze lo rinvigoriva più come prima.

Erano appena le nove quando il campanello suonò. Regan era seduto al tavolo di cucina in pigiama, occupato a sbocconcellare il suo toast e scrutare il vuoto, mentre Deirdre stava lavando le tazze della colazione, già pronta per la giornata.

Il ragazzo si alzò con un grugnito e andò ad aprire. Lorie entrò come un tornado e, senza dargli modo di spiccicare parola, gli ordinò di vestirsi, ignorando la sua faccia ebete. Poi si girò verso Deirdre e le spiegò che le serviva suo nipote per una “missione importante”, e che glielo avrebbe restituito incolume prima di cena. Deirdre, esibendo un’aria perplessa e vagamente divertita, assentì e permise che Lorie smaterializzasse Regan con un semplice “Divertitevi!”.

La missione si rivelò essere uno sfrenato shopping natalizio al centro commerciale. Regan non fece troppe storie. Si sarebbe assoggettato a tutto lo shopping del mondo, piuttosto che venire schiavizzato per aiutare nell’organizzazione della festa di Natale della scuola, come invece era toccato a Mike e ad altri membri della squadra di football. La festa si sarebbe tenuta il 22 dicembre in palestra e Lorie era stressata come Regan non l’aveva mai vista. Il suo cervello, però, non colse l’antifona e si ritrovò a chiederle stupidamente a che punto fossero i preparativi.

“Mancano meno di due settimane e gli addobbi che avevo ordinato non sono ancora arrivati!” strepitò Lorie, stritolando il volante tra le mani come se al suo posto ci fosse il responsabile della sua miseria, “Sono circondata da lavativi e incompetenti! Ieri ho litigato pure con il preside, che voleva convincermi ad anticipare la festa per poter andare prima in vacanza con sua moglie! Ma ti rendi conto?”

Sui sedili posteriori, Vanessa, Claire e Mary sospirarono e levarono gli occhi al cielo. Evidentemente, non era la prima volta che ascoltavano lo sfogo di Lorie. Charlotte e Jennifer la scamparono perché erano assenti. Mary gli riferì che le due ragazze li avrebbero raggiunti al centro commerciale più tardi.

Così, Regan si accodò alle cheerleader per trascorrere una meravigliosa giornata all’insegna del consumismo. Decise di pensare positivo. Infatti, doveva ancora comprare un regalo per sua nonna, e quale occasione migliore per farlo se non quando poteva avvalersi in abbondanza di consigli femminili?

Finì per trasformarsi in un porta-borse. Avrebbe dovuto prevederlo. Se non fosse stato per la sua forza sovrumana, le braccia avrebbero cominciato a dolergli già dopo mezzora, per via della quantità indecente di buste di cui le ragazze lo caricarono. E non sembravano propense a smettere tanto presto.

Verso le una, pranzarono con un panino e un frappè a uno dei tanti fast-food del centro commerciale. Lorie approfittò della pausa per incollarsi al telefono a litigare con gli operai che stavano montando le luci in palestra.

“Non me ne importa un fico secco se è sabato! Non vi pago per starvene seduti a girarvi i pollici! Montate quelle dannate luci entro oggi, chiaro?!”

Vanessa nascose il viso tra le mani e sospirò. Charlotte si accasciò sulla panca. Jennifer e Claire si scambiarono un’occhiata preoccupata. Mary seguitò a imboccare Regan con pezzettini di prosciutto.

Assieme a loro, quel giorno, c’era anche il resto del corpo delle cheerleader. Regan non aveva mai parlato più di tanto con le altre ragazze, essendosi mantenute nelle retrovie per settimane prima di raccogliere il coraggio di rivolgergli la parola. E anche allora, tutto ciò che erano riuscite a fare era stato balbettare giusto un semplice saluto a mensa o se si incrociavano in corridoio a scuola.

Crystal, Bethany, Stacy ed Elena erano al secondo anno. Come le loro compagne, erano belle e atletiche, con capelli messi in piega, trucco impeccabile e unghie fresche di manicure. L’unico difetto era che non vantavano una personalità coinvolgente. Regan pensò che avessero il carisma di una patata. Paragonate a Lorie e al suo carattere esuberante, risultavano noiose e banali. In realtà, chiunque risultava noioso se paragonato a Lorie.

Regan sorrise a tutte a loro più di una volta per metterle a proprio agio, senza grossi risultati: o arrossivano perdendo l’uso della voce o lo ignoravano del tutto. Crystal, però, sembrava che stesse cominciando a sciogliersi, col passare delle ore. A Regan piacevano molto i suoi occhi, di un marrone chiaro che sfociava nel verde intorno alla pupilla.

Nel pomeriggio, Regan riuscì finalmente ad acquistare un bel paio di guanti per Deirdre. Gli avanzò giusto qualche spicciolo per fare un pensierino a Roman. Con una decisa, e alquanto stizzita, scrollata di testa, mise a tacere la vocina molesta che gli bisbigliava che non aveva fatto regali a nessun altro dei suoi cosiddetti “amici”, e disturbarsi con Roman era un grande passo avanti. Sciocchezze, Roman non era così importante. Gli avanzavano solo un po’ di soldi, tutto qui. Non gli avrebbe fatto nulla di speciale. E comunque, che male c’era a fargli un regalo? Erano migliori amici, in fondo.

Charlotte adocchiò un cappello per Zack, Jennifer scelse un maglione per Roman, e le altre si sbizzarrirono per cercare il regalo perfetto per le loro famiglie. E per Regan, ovvio. Spesso lo cacciarono dai negozi proprio per poterne discutere senza che lui origliasse.

In una di quelle occasioni, mentre Regan stava aspettando in piedi fuori da una boutique, tra la folla scorse il profilo inconfondibile di Derek. E non era solo. Alla sua destra c’erano Gregory e Kevin. La triade stava seguendo un gruppo di quattro adulti, tre uomini e una donna. Lei e l’uomo a cui stringeva la mano avevano lineamenti asiatici, perciò dovevano essere imparentati con Kevin. Gli altri due uomini erano grossi, più di Gregory, e con gli stessi capelli color carota del ragazzo.

Regan deglutì e trattenne il respiro, cercando di rendersi invisibile. Purtroppo, Derek lo localizzò in cinque secondi netti, come se avesse un radar apposta per Regan incorporato nel cervello, sincronizzato sulla sua aura.

Derek si bloccò a metà di un passo. Regan restò immobile come uno stoccafisso accanto alla vetrina, gli occhi fuori dalle orbite e il viso di un pallore cadaverico. Derek si sentì gelare il sangue in solidarietà. Poi vide le buste e assottigliò le palpebre.

“Oh, guarda chi c’è.” disse Gregory, le labbra curvate in un ghigno predatorio.

Kevin e gli adulti si girarono incuriositi. Regan desiderò che la terra si aprisse e lo inghiottisse in quel preciso istante.

“Ci penso io.” borbottò deciso Derek, prima che i cacciatori potessero partire alla carica, e gli andò incontro a passo di marcia.

La donna lo osservò come se al posto di Regan ci fosse uno scarabeo stercorario. I tre uomini, invece, si limitarono a ucciderlo ripetutamente, e male, con la sola forza dello sguardo. Al contrario di Gregory, che era avanzato di un metro, impaziente di saltargli alla gola, Kevin pareva annoiato. Era difficile capirlo a causa dell'espressione granitica.

“Ciao. Che ci fai qui?” domandò Derek, fissandolo con evidente agitazione.

Senza distogliere l’attenzione dai cacciatori, Regan sollevò lentamente una mano e indicò col dito l’interno della boutique, dove le ragazze si stavano provando alcuni vestiti. Di nuovo.

“Shopping natalizio! Ti hanno nominato attaccapanni, vedo.” scherzò, in un tentativo di alleggerire l’atmosfera, ma la tensione rimase palpabile.

Regan annuì, muto come un pesce, occhieggiando atterrito il gruppetto di cacciatori.

“Tranquillo, non ti faranno niente. Siamo in un luogo pubblico.” lo rassicurò Derek.

“Credo che a Gregory non interessi…”

Come se lo avesse udito, Gregory ampliò il ghigno e compì altri due passi verso di loro. Derek si voltò e mulinò le braccia alla “Che diavolo fai, a cuccia!”. Gregory mostrò i denti nell’imitazione di un ringhio. Regan deglutì.

“Va bene, ti lascio alle tue compere. Ti chiamo stasera, okay?”

Regan non ebbe la possibilità di rispondergli, perché due mani emersero dalla porta della boutique e lo acciuffarono per il giubbotto, risucchiandolo come fa un buco nero con l’indifeso asteroide.

“Regan, devi provarti questa camicia. Sono sicura che è della tua taglia, anche se Vanessa dice che è troppo grande.”

“Lorie, è il doppio di lui! Gli serve quella più piccola. Sul manichino si vede che il modello deve aderire al corpo. Lì ci naviga!”

“Non hai notato che ha messo su muscoli? Se continueranno ad aumentare, tempo due settimane e questa non gli entrerà più! Quando si fa acquisti per i ragazzi, bisogna pianificare perlomeno fino a cinque mesi più in là. E se prendessero qualche chilo? O se crescessero di spalle?”

“Non puoi comprargli una camicia di due taglie più grande adesso! Anche se le tue previsioni si rivelassero giuste, finirebbe per indossarla tra un mese. E allora che senso ha?”

“Se gli prendiamo la tua, invece, la indosserà per un mese e poi mai più!”

“Ehm… prendetele entrambe?” propose Regan, senza smettere di tenere d’occhio l’entrata del negozio.

Lorie e Vanessa si chetarono, riflettendo sul da farsi. Poi, dopo essersi scrutate in cagnesco per un altro paio di secondi, annuirono all’unisono e ripiegarono gli indumenti nei rispettivi cestini.

Regan si affacciò cauto dal negozio per sbirciare fuori. Quando appurò che Derek e gli altri cacciatori non fossero più nei paraggi, tirò un sospiro di sollievo.

Rivedere Gregory e Kevin lo aveva scosso più di quanto voleva ammettere. Il ricordo dell’ultima aggressione era ancora vivido nella sua mente. Credeva di esserselo lasciato alle spalle, ma, a quanto pareva, gli era rimasto il trauma. Non si biasimò. Una persona normale, come minimo, sarebbe andata in terapia dopo aver rischiato di venire sgozzata. Era già tanto che Regan non si fosse messo a tremare come una foglia, mantenendo invece una parvenza di contegno.

Si augurò di non imbattersi in loro mai più. Speranza vana, dato che vivevano nella stessa città, e Ashwood Port non era certo una metropoli. Ma sognare non costava niente.

 
*

Le zampe affondavano nel terreno con tonfi ritmici, attutiti dall’erba e dalle foglie bagnate. Le narici si dilatavano a intermittenza, annusando l’aria satura dell’odore di pioggia. Il respiro si condensava in piccole nuvolette di vapore, che venivano infrante dal suo stesso corpo alla successiva falcata. La pelliccia si mimetizzava nel paesaggio notturno, ma gli occhi gialli brillavano come due piccoli fari nel buio.

Il bosco era immerso nell’oscurità. Le luci della città erano troppo lontane per penetrare fin lì e quella emanata dalla sottile falce di luna nel cielo non era abbastanza per illuminare il cammino. Ma Vincent non aveva bisogno di vedere, perché il suo naso gli diceva tutto ciò che gli serviva sapere. Adesso lo stava guidando attraverso un sentiero che aveva percorso ben quattro volte da quando era ad Ashwood Port. Un sentiero che aveva pregato non dover calcare mai più.

Al suo passaggio, scoiattoli, conigli e volpi scapparono, rifugiandosi nelle loro tane. Il silenzio diventava più assordante più gli alberi si infittivano, l’atmosfera pregna di un’energia negativa che teneva alla larga persino gli insetti. Un gufo gli lanciò un monito quando Vincent sfrecciò sotto l’albero su cui era appollaiato, ma lui lo ignorò. Non poteva fermarsi, né tornare indietro.

Pochi attimi più tardi, emerse da un cespuglio e si arrestò accanto a Ruby. Anche lei era in forma di lupo. Il suo manto color mattone era sporco di fango sulle zampe e sul fianco destro. La salutò sfregando il muso sul suo collo e lei abbassò il capo in segno di rispetto.

Poi l’attenzione di Vincent venne catturata da un movimento a pochi passi da loro, in prossimità di un fossato. Vide Sean arrampicarsi lungo il crinale con agilità, scavalcare un tronco caduto e atterrare accucciato su mani e piedi. Era in sembianze umane, essendo lontani dalla luna piena. In bocca stringeva qualcosa.

Il lupo mannaro incrociò il suo sguardo e lo sostenne per un po’. Dopodiché, sputò il bottino e arretrò, portandosi vicino alla compagna.

Vincent chiuse gli occhi e avviò la trasformazione. Le sue ossa scricchiolarono, la pelliccia venne riassorbita dalla pelle e gli arti si allungarono. Di nuovo umano, incurante della propria nudità, camminò fino alla cosa che aveva trovato Sean. Che era anche il motivo per cui li aveva raggiunti in quell’ormai familiare angolo di bosco.

Si accovacciò per esaminare l’oggetto. Stavolta si trattava di un piede. Protese una mano e lo afferrò, confermando che era fatto di pietra. Era liscio al tatto, levigato, e orribilmente dettagliato, come se fosse stato riprodotto fedelmente sullo stampo di uno reale. Non era un pezzo di una statua. Nessuno scultore, per quanto talentuoso, avrebbe mai potuto ricreare tanti particolari.

“Era nello stesso punto degli altri quattro pezzi?” chiese a Sean.

“No, circa un centinaio di metri più a est.”

“Ce n’erano altri, oltre a questo?”

“Non li ho visti, ma è possibile. Il letto del fiume è pieno di rocce e sassi.”

Vincent inclinò la testa per ascoltare lo sciabordio dell’acqua in fondo al fossato. Ruby uggiolò ansiosa.

“Odori strani?” chiese ancora l’alfa.

“No. Quello dell’acqua e del muschio è troppo forte, là in basso. E la pioggia di oggi pomeriggio ha cancellato qualunque scia.”

Vincent mugugnò un assenso. Finora avevano recuperato un avambraccio, una mano, un ginocchio e una spalla. Quella notte un piede. Tutti differivano per dimensione, quindi era da escludere che appartenessero ad un’unica statua… persona. Quelli erano resti di persone.

Il silenzio era denso come melassa. Nemmeno il vento faceva stormire le fronde degli alberi. All’apparenza erano soli, eppure Vincent si sentiva osservato. Almeno un paio di occhi si nascondevano nel buio, ne era certo.

“Andiamocene.” ordinò e lanciò il piede a Sean per ritrasformarsi e tornare a casa.

Non scalpitava alla prospettiva di essere latore di altre cattive notizie. Tamara, ultimamente, era più stressata del solito e scattava per un nonnulla. Una delle cause era il disaccordo in fatto di priorità: per lei era più urgente la questione dei cacciatori, per lui il mistero che avvolgeva quei resti, che continuavano a spuntare dal nulla e sempre in quel dannato fossato.

Se solo ci fosse stato Declan, avrebbero scovato qualunque creatura fosse responsabile in meno di una settimana. Il suo primogenito aveva un fiuto eccellente, e una mente altrettanto sveglia.

Scrollò il capo e si impose di non pensare a lui. Aveva sprecato già abbastanza tempo in quel modo, ora doveva focalizzarsi su cose più importanti, come la sicurezza del branco.

Le parole di Tamara riecheggiarono nel suo cervello, suggerendogli di mettere al corrente Roman della situazione, così che potesse fornire il suo aiuto. Vincent, però, non lo avrebbe fatto. Roman era ancora immaturo. Aveva sicuramente del potenziale, era innegabile, ma non era pronto.

Non. Era. Pronto.

È ancora un cucciolo, come Trevor e Nina, pensò con amarezza. Non occorre che sappiano. Sono io l’alfa ed è mio dovere proteggerli.

Ululò per richiamare a sé Ruby e Sean e li condusse a casa sani e salvi.

 
*

Domenica mattina, gli abitanti di Ashwood Port si svegliarono sotto un cielo grigio. L’aria era fredda e satura dell’odore di neve. Le temperature erano calate drasticamente, lasciando intendere che presto le strade si sarebbero imbiancate.

I marciapiedi e i negozi pullulavano di persone che facevano a gara a chi riusciva a finire di comprare i regali di Natale per primo. I negozianti ne approfittavano per fare sconti o alzare i prezzi, ma questo poco importava quando i clienti sgomitavano per accaparrarsi l’ultimo peluche rimasto nella cesta o i rimanenti maglioni appesi in vetrina. Nessuno guardava il cartellino sul prodotto, l’importante era raggiungere con esso la cassa senza che qualcun altro te lo sfilasse dalle mani mentre casualmente ti passava accanto. 

Casa McLaughlin era immersa nella quiete. Deirdre stava lavorando nel seminterrato, Poe si stava pulendo meticolosamente il pelo, spaparanzato in mezzo al salotto, e dallo stereo provenivano le note allegre di Let it snow! Let it snow! Let it snow! di Frank Sinatra.

Regan se ne stava in piedi nel corridoio al piano di sopra, immobile, con gli occhi fissi sulla botola della soffitta. Era lì da almeno dieci minuti, concentrato a elaborare un piano su come tirare giù l’albero finto e tutte le scatole degli addobbi senza provocare un disastro.

L’opzione che gli pareva più attuabile era arrampicarsi sulla scalettina, prendere la prima scatola che gli capitava sotto mano e scaraventarla giù pregando gli apostoli e tutti i santi che non si rompesse niente. Deirdre era molto affezionata alle sue palle. Terribili punizioni si sarebbero abbattute sul colpevole, se avessero subito dei danni.

Però non poteva nemmeno fare su e giù venti volte. O meglio, poteva, ma non aveva voglia. Calarsi da quegli stretti scalini reggendo uno scatolone era come lanciare una sfida all’universo, pur sapendo che suddetto universo aveva un senso dell’umorismo distorto e che non aspettava altro che farsi due risate a tue spese. Figuriamoci calarsi giù con un albero delle dimensioni di quello in soffitta. Non ricordava come lo avesse rimesso lassù, l’anno scorso. O come lo avesse tirato giù. Eppure, in qualche modo lo faceva tutti i sacrosanti Natali. Uno penserebbe che ormai avesse imparato. Invece no. Ogni dicembre lo stesso dilemma.

Fu distratto dal campanello. Si sporse dalla ringhiera di legno e, senza disturbarsi a scendere, chiese a gran voce chi fosse. In risposta, gli giunse “Sono Derek!” e, contemporaneamente, “Sono Roman!”. Un coretto che lo lasciò alquanto perplesso, oltre che provocargli sudore freddo.

“Derek o Roman?”

“Tutti e due.” disse Derek, e non parve contento.

“Entrate pieni di speranza.”

Roman fu il primo a comparire nell’ingresso, sfoggiando un’aria lievemente confusa: “Ehm… non era ‘Perdete ogni speranza, o voi ch’entrate’? Dante, giusto?”

“Il fatto che tu abbia colto il riferimento meriterebbe un elogio pubblico, ma non mi va di perdere altro tempo. Orsù, lesti, venite meco.”

“Come diavolo parli?”

“Taci, Derek. Non ho bisogno della tua bocca, ma dei tuoi muscoli. Anche tu, Roman. Hop hop!”

Qualcuno si schiarì la gola. Regan si riaffacciò. Non appena vide chi c’era sulla soglia, sbiancò.

“Ciao, zombie.” lo salutò Gregory, il solito ghigno sardonico a stirargli le labbra.

Kevin lo precedette all’interno senza dire una parola, seguito dalla stessa donna che Regan aveva scorto al centro commerciale. Un uomo biondo e nerboruto, sulla sessantina, chiuse la fila. Regan lo aveva già visto da qualche parte, ma non ricordava dove.

“Regan, abbiamo ospiti?” urlò Deirdre dal seminterrato.

“Codice giallo!” rispose in fretta il ragazzo.

“Ho lasciato le lasagne nel forno?”

“Quello è il codice rosso!”

“Ho dimenticato i panni fuori?”

“Quello è il codice blu!”

“Poe ha di nuovo fatto la cacca nel vaso della salvia?”

“Quello è il codice verde!”

“Che diamine è il codice giallo? E perché abbiamo così tanti codici?”

“Il codice giallo sta per ‘ospiti indesiderati’! Ti devo riscrivere la lista?”

Stavolta fu Derek a tossicchiare. Regan non capì se lo fece per nascondere una risata o per attirare la sua attenzione.

“Ma gli ospiti indesiderati sono morti? Se sì, portameli giù. Ho le mani impegnate.”

Regan levò gli occhi al cielo e trasse un lungo respiro. Poteva farcela.

“Regan?” lo chiamò Deirdre.

“Eh?”

“Regan!”

“Eh!”

“L’ho spento il forno?”

“Sì!”

“Hai portato fuori la spazzatura?”

“Sì!”

“Hai preparato i sacchi di vestiti vecchi da dare in beneficenza?”

“Non è il momento! Ho per le mani un codice giallo misto a un potenziale codice nero!”

“Che è il codice nero?”

“Moriremo tutti!”

“Hai dato fuoco un’altra volta ai miei centrini?!” strillò nel panico.

“Quello è il codice arancione!”

“Ehm… Regan? Potresti, non so, smettere di urlare?” chiese gentilmente Derek, salendo le scale.

“Non ora, Derek. Sono nel bel mezzo di un codice giallo-nero. Più nero che giallo.”

Derek represse a stento una risata: “Non ti faranno niente. Nessuno vuole farti del male, né a te né a tua nonna. Puoi fidarti. Volevano solo farti una visita di cortesia.”

“Che succede?” indagò allarmato Roman.

“Succede che io devo fare l’albero di Natale e ho tutti i miei ex bulli in casa. Ecco cosa succede.” sbottò Regan, gesticolando all’indirizzo di Gregory e Kevin.

“Regan!” lo chiamò Deirdre.

“Che c’è?!” berciò seccato.

“Li hai fatti i biscotti?”

“No! Mi sto occupando degli addobbi!”

“Guai a te se li rompi! Se ne trovo uno solo danneggiato, ti spezzo le gambe!”

Regan esalò un sospiro afflitto. Subito dopo, raddrizzò la schiena e squadrò le spalle per fronteggiare i cacciatori. Doveva stare attento a non farsi sfuggire niente, dato che c’era Roman. Già l’amico appariva sospettoso, non voleva che la situazione degenerasse ulteriormente.

“Salve, ben trovati. Vi ringrazio per la visita, ma, come vedete, sono alquanto occupato. È stato un piacere rivedervi, Gregory e Kevin, ed è stato un piacere ancora più grande conoscervi, tizi dall’aria losca che accompagnano Gregory e Kevin. La porta sapete dov’è.” li congedò sbrigativo, poi si rivolse al licantropo, “Roman, ho una missione speciale da affidarti.”

“Di che si tratta…?” domandò titubante e occhieggiò nervoso il quartetto ancora fermo nell’ingresso, non sapendo che nome dare alla sensazione che stava provando.

Quando li aveva incrociati sul vialetto, aveva avvertito una strana tensione serpeggiargli nelle ossa. Ma essa non era paragonabile all’atmosfera pesante che aleggiava in quel momento nella casa. Sembravano tutti sul piede di guerra. Si chiese se ci fosse una storia dietro a quel teatrino, oltre agli episodi di bullismo. Non aveva mai visto Regan così stressato. Puzzava di ansia.

“Ti arrampicherai su queste scalette traballanti e un po’ arrugginite, ti inoltrerai nell’antro oscuro e mi passerai il bottino.” spiegò Regan.

“Eh?”

“In altre circostanze, troverei la tua faccia ebete molto affascinante, ma non ora. Obbedisci in silenzio.”

Il campanello suonò. Regan imprecò e tornò ad affacciarsi alla ringhiera.

“Chi è!”

“Regan?” rispose Lorie.

A giudicare dal cicaleccio in sottofondo, non era venuta da sola. Regan colse al volo l’occasione.

“È aperto!”

Lorie aprì la porta con una spallata. Claire la richiuse con un calcio non appena Vanessa, Crystal e Mary le passarono accanto. Tutte erano cariche di buste, le quali portavano stampati sopra i loghi di famosi negozi di vestiti.

“Che diavolo ci fanno loro qui?” pretese di sapere Lorie quando si accorse di Gregory e Kevin, “Sei per caso diventato loro amico? Dopo tutto quello che ti hanno fatto? Sei troppo buono, Regan! Poi la gente se ne approfitta. Devi imparare a dire di no. Dato che non ci riesci, lo farò io per te.” marciò verso di loro con cipiglio agguerrito, avanzando con movimenti aggraziati nonostante le buste, e puntò l’indice contro il petto di Gregory, “Sparisci. Lascialo in pace. Anche tu, Kevin. E questi chi sono? Criminali fuggiti dal braccio della morte? Non siete i benvenuti.”

La donna inarcò un sopracciglio, per nulla impressionata. Si vedeva che era imparentata con Kevin. L’uomo, invece, curvò un angolo della bocca verso l’alto, palesemente divertito.

“Regan!” urlò Deirdre dal seminterrato, “Abbiamo ospiti?”

“Codice rosa!”

“CHI HAI MESSO INCINTA?”

“Cos- No! NO! Non abbiamo un codice per quello! E che diavolo ti viene in mente?” sputacchiò, pallido sulle guance e rosso sulle orecchie, indeciso se sentirsi inorridito o in imbarazzo.

Roman e Derek, incapaci di trattenersi oltre, scoppiarono a ridere.

“Li hai fatti i biscotti?” continuò imperterrita Deirdre.

Regan masticò l’ennesima imprecazione.

“Oh, tua nonna è di sotto?” chiese Lorie, “Venite, ragazze, ve la presento.”

“Sta imbalsamando un cadavere.” le avvertì Regan, “D’accordo, adesso state tutti fermi e zitti. Che nessuno muova un muscolo.” gesticolò e inspirò con calma varie volte, “Roman, va’ di sopra e fa’ come ti ho detto. Smettila di ridere. Non ci trovo nulla di divertente. Derek, smetti di ridere pure tu e diventa un tutt’uno con il muro. Ragazze, accomodatevi in salotto. Non accarezzate il gatto, morde. Gregory, Kevin, tizi loschi, se restate mi aiuterete a decorare l’albero. Altrimenti, la porta è quella.”

“Ma devi provarti i vestiti!” insisté Claire.

“I vestiti. Sì. Dunque. Mmm… me li provo mentre preparo i biscotti.”

“Si macchieranno.” gli fece notare Lorie.

“Okay. Allora, prima preparo i biscotti. Derek e Roman faranno l’albero. Gregory, Kevin e i tizi loschi si fonderanno con l’arredamento finché non decideranno se vogliono rendersi utili. Dopo aver infornato i biscotti, andiamo in camera e mi provo i vestiti. Obiezioni? Nessuna. Ottimo.”

“Ma-”

“Taci, Roman. Ho detto nessuna obiezione.”

“Regan!” gridò Deirdre dal seminterrato.

Il ragazzo roteò gli occhi: “Oh, grazia divina. Che c’è?!”

“Dove sono le mie forbici?”

“Le ho prese per fare i riccioli ai nastri dei pacchetti regalo!”

“Con le forbici che uso sui cadaveri?”

“Non trovavo quelle di cucina!”

“E dove le hai messe le mie, ora?”

“In cucina!”

Sghignazzando, Derek assestò a Regan una pacca sulla spalla e seguì Roman in soffitta.

“Gabbia di matti.” borbottò Gregory.

“Torneremo in un altro momento.” disse l’uomo, “A presto, Regan. E buon Natale.”

Regan tirò un sospiro di sollievo nel vederli infilare la porta. Ancora non sapeva bene come interpretare la loro visita estemporanea. Derek aveva detto che erano venuti per cortesia, ma secondo lui c’era sotto qualcos’altro. Forse volevano fare un giro di ricognizione, o metterlo con le spalle al muro per intimorirlo come si deve, ricordandogli che era vivo solo grazie a Derek.

Gregory e Kevin, almeno, li conosceva, non serviva una laurea per immaginare cosa volessero, cioè trasformarlo in uno sfilatino di Emmental. I due adulti, invece, non si erano neanche presentati. Ma cosa si aspettava da dei cacciatori? Finora, non gli avevano dato l’impressione di possedere le buone maniere. Derek compreso. Entravano in casa sua e si comportavano come se fosse la loro, incuranti del suo disagio e privi di qualsiasi parvenza di educazione. Regan si sentiva un po’ come un criminale in libertà vigilata, costretto a subire visite a domicilio non richieste da parte degli agenti. Rivoleva indietro i suoi diritti costituzionali.

Scrollò il capo e si recò in cucina per preparare i biscotti. L’impasto era già pronto, doveva solo plasmarlo in forme carine. I movimenti familiari risultarono utili per sublimare lo stress. In tutto gli occorsero giusto una ventina di minuti, esattamente il tempo che impiegarono Roman e Derek per tirare giù dalla soffitta albero e addobbi. Le ragazze si tennero occupate spettegolando del più e del meno sul divano.

A un certo punto, udì qualcosa rotolare sul pavimento. Pensò subito a un paio di formelle per biscotti, cadute giù dal tavolo a causa di un movimento sbagliato della sua mano. Quando abbassò lo sguardo per raccoglierle, però, vide che c'erano dei cubetti di ghiaccio sparsi su tutto il pavimento.

Sbatté le palpebre, alquanto perplesso. Da dove veniva quel ghiaccio? Tempo di porsi la domanda e i cubetti erano già spariti, come se non ci fossero mai stati. Scosse la testa con veemenza e accantonò l'accaduto relegandolo nella sezione “strane allucinazioni”.

Infornati i biscotti, impostò il timer e si diresse in camera per provare i vestiti. Ce la mise tutta per sbrigarsi, poiché non voleva lasciare Roman e Derek soli troppo a lungo. Chissà, a Derek poteva venire voglia di spezzatino di licantropo.

Le ragazze non furono felici di vederlo scappare dopo appena una mezzora. Siccome aveva sete e i loro odori erano molto invitanti, si rivelò uno sforzo titanico resistere alle loro lusinghe. Non poteva permettersi di correre stupidi rischi. Nessuno sapeva che si nutriva di loro. Era meglio mantenere un profilo basso finché era a casa.

Tornato in salotto, sorprese Roman carponi, con una pelliccia rossa attorno al collo, che annaspava in cerca di ossigeno. In ginocchio dietro di lui, Derek stava impugnando suddetta pelliccia dalle estremità per stringerla sempre più forte.

“Derek, mollalo subito.” comandò in un sibilo.

Il biondo ubbidì. Roman cadde riverso sul tappetto, in preda a un violento attacco di tosse, e fissò Regan stralunato.

“Che succede?” chiese Lorie, comparendo accanto a lui.

“Questi due idioti stavano facendo la lotta, invece di lavorare.” disse e guidò la ragazza verso la porta, “Grazie per la visita. Quei vestiti erano tutti stupendi. Grazie davvero, siete state tutte meravigliose.”

Claire, Crystal, Vanessa e Mary arrossirono. Lorie gli stampò un bacio casto sulle labbra. Lo salutarono e gli diedero appuntamento a scuola il giorno successivo.

Quando udì la macchina di Lorie allontanarsi, Regan andò in salotto e squadrò severo Derek e Roman, ancora fermi ai piedi dell’albero. Scatole di addobbi li circondavano come un fortino. Alcune erano aperte, un paio erano rovesciate. Li fulminò con un’occhiataccia.

“Avete danneggiato gli addobbi di mia nonna?” domandò minaccioso.

“Voleva uccidermi!” esclamò Roman e gattonò veloce verso di lui, senza mai dare le spalle a Derek, “Ho fatto una battuta sui suoi capelli e lui ha tentato di strozzarmi!”

Regan roteò gli occhi sbuffando: “Stava solo giocando. Dobbiamo decorare l’albero, forza. Voglio finire entro oggi.”

“Voleva uccidermi!” reiterò Roman.

Allo sguardo interrogativo di Regan, Derek scrollò una spalla. Il moro gli tirò un calcio negli stinchi.

“Per la cronaca, i due tizi loschi erano la madre di Kevin e mio padre.” lo informò il cacciatore, scoccandogli un sorriso divertito, “Erano venuti per dirti che è tutto a posto. Sai, in generale. Non devi più scappare appena li vedi.” aggiunse vago, conscio della presenza di Roman, poi ammiccò scherzoso, “Credo che la scenetta con tua nonna abbia convinto persino Gregory e Kevin.”

Regan si buttò sul divano a pancia in giù e, con la faccia premuta su un cuscino, emise un verso simile a un guaito. Roman lo fissò interrogativo.

Poe si stiracchiò sul calorifero e si appisolò, indifferente ai problemi del suo padroncino.

 
*

Il 22 dicembre, tutti gli studenti si presentarono a scuola per la consueta festa di Natale. Era l’ultima occasione per salutarsi prima della pausa invernale, poiché molti sarebbero partiti per visitare i parenti in altre città o per fare una gita in famiglia.

Faceva molto freddo e nell’aria c’era odore di neve. Aveva nevicato parecchio il giorno addietro, sebbene non tanto da bloccare il traffico o provocare danni. Ma anche in quel caso, i tetti imbiancati, le lucine colorate e gli addobbi che abbellivano le strade conferivano un’aura così fiabesca alla città che gli abitanti sarebbero stati disposti a chiudere un occhio pur di godersi l’atmosfera.

Roman parcheggiò l’auto davanti al cancello della scuola. Avvolto nel cappotto, scese e si accodò ai ragazzi che stavano entrando in palestra. Mentre camminava a passo sostenuto, scandagliò la folla per individuare Regan. Gli aveva detto che sarebbe venuto in bici, ma non a che ora. Controllò il cellulare per vedere se c’erano nuovi messaggi, ma niente. In fondo, erano solo le sette e mezzo. La festa si sarebbe protratta fino alle undici, c’era tempo.

Charlotte lo notò e gli corse incontro con un gran sorriso. Indossava un soffice maglione rosso e un paio di jeans. I capelli castani erano sciolti sulla schiena e il viso era abbellito da un velo di trucco.

“Roman, finalmente! Mi chiedevo quando saresti arrivato.” lo salutò con un gran sorriso e un abbraccio.

“Ciao. Gli altri sono già qui?”

“Siamo io e Jennifer, per ora. Zack arriverà intorno alle otto insieme a Derek. Regan avvertirà quando sarà per strada. Farà ritardo perché gli hanno portato un corpo un’ora fa e sua nonna ha chiesto il suo aiuto.”

“Ah, okay. Lorie, Mike e gli altri?”

“Sono corsi a casa a cambiarsi, torneranno fra poco. Abbiamo finito di allestire la palestra giusto un paio d’ore fa. Lorie era nel panico, credeva di non farcela, così i ragazzi le hanno dato una mano.”

“Perché nessuno me lo ha detto? Avrei potuto aiutare anch’io.”

“Oh, quanto sei dolce! Non preoccuparti. Come vedi, abbiamo finito in tempo. Ti piace?”

Dal soffitto pendevano delle lampade a forma di fiocco di neve, che diffondevano una soffice luce dorata per tutta la palestra. Sugli stipiti delle finestre era stato attaccato del cotone per simulare la neve, intrecciato a dei nastri rossi e oro. Le tovaglie erano rosse, con dei vischi ricamati lungo gli orli. I centritavola erano bouquet di vischio con una candela bianca in mezzo. Il club di arte aveva tappezzato i muri con opere a tema natalizio, dal classico albero alle renne, da focolari domestici a pupazzi di neve. Uno striscione con gli auguri di buon Natale era stato appeso sopra il palco, dove una band composta da studenti si stava esibendo con delle cover delle più famose canzoni di Natale. I colori predominanti erano il rosso e l’oro, con qualche spruzzata di verde qua e là.

Roman fischiò ammirato. Avevano fatto tutti un lavoro fantastico e lo disse a Charlotte, che arrossì lusingata. Si guardò intorno, indeciso se aspettare Regan fuori al gelo o piazzarsi vicino alle porte per intercettarlo non appena avesse varcato la soglia. Voleva dargli il suo regalo lontano da occhi curiosi.

“Vieni, il nostro tavolo è laggiù.” disse Charlotte, indicandogli un tavolo da cinque a ridosso del muro, “Posa il cappotto e vieni a mangiare qualcosa al buffet. Jennifer è lì che ti aspetta.” lo informò con un sorrisetto ammiccante.

Roman ricambiò con uno falso e si sforzò di non roteare gli occhi.

I minuti passarono lenti. Presto l’orologio segnò le otto. Zack e Derek apparvero puntuali. Il primo diede subito il suo regalo a Charlotte, che squittì nel vedere che le aveva comprato una nuova borsa firmata. Lo ringraziò con un bacio lungo e bagnato.

Derek si sedette all’altro capo del tavolo, di fronte a Roman. Jennifer prese posto accanto a quest’ultimo e ignorò tutti i tentativi di conversazione del biondo. Roman poteva fiutare il leggero interesse della ragazza nei confronti di Derek, ma sapeva che lei non avrebbe agito. Se per paura di offendere Roman e perdere il suo favore, o per timidezza, il lupo non ne era sicuro. Credeva di aver messo in chiaro di non essere interessato.

Dal canto suo, Derek non sembrò prendersela. Era rilassato, a suo agio. Roman lo squadrò con sospetto. Una strana agitazione lo coglieva sempre quando gli stava vicino. Non sapeva dare un nome a ciò che sentiva, ma sapeva che non era nulla di buono. Perché Regan aveva voluto diventare amico del suo ex bullo? Si vedeva che non era una brava persona, Roman poteva fiutarlo.

Derek ghignò al suo indirizzo, uno stiramento di labbra appena accennato che scomparve con la stessa velocità con cui era apparso, quasi fosse un segreto tra lui e Roman. Al lupo non piacque affatto la scintilla predatoria che lesse negli occhi di Derek.

Alle otto e mezzo, Regan fece il suo ingresso in palestra. Roman lo individuò con il naso ancor prima che con lo sguardo. Si alzò con un sorriso e, senza dire niente, abbandonò il tavolo. Si fece largo tra gli studenti assiepati tra i tavoli e raggiunse Regan.

“Ciao!” esclamò abbracciandolo.

Regan ricambiò per due secondi netti, poi si scansò: “È tanto che sei qui?”

“No.” mentì Roman.

Quando prese atto dell’abbigliamento di Regan, rimase senza fiato. Indossava un golf nero sopra una camicia blu cobalto, che gli faceva risaltare l’incarnato pallido e gli occhi di quell’intrigante sfumatura che ricordava un ghiacciaio artico. Le gambe erano fasciate da jeans neri aderenti e ai piedi portava degli anfibi con le borchie. I capelli erano acconciati con il gel, tirati tutti indietro, tranne che per un ricciolo che gli accarezzava la fronte. La sua era una bellezza tenebrosa, delicata, lunare. Roman amava la luna.

“Stai bene?”

Regan lo riportò con i piedi per terra. Roman scosse il capo e si augurò di non essere arrossito.

“Sì, scusa. Sei… sei molto carino.” balbettò imbarazzato.

“Grazie. Ci sono anche gli altri?”

“Sono seduti al tavolo. Aspetta! Prima vorrei darti questo. È solo un pensiero, ma… insomma, tieni.”

Infilò una mano nella tasca del cappotto, gli consegnò un pacchettino e ritirò velocemente le mani sudaticce, incrociandole dietro alla schiena per resistere all’impulso di accarezzargli il viso. Anche la tentazione di catturargli le labbra con le proprie era parecchio forte. Ora che ci faceva caso, aveva invaso il suo spazio personale senza alcuna remora, quasi avesse un bisogno viscerale di respirare la sua stessa aria. Il suo lupo lo stava addirittura pregando di saltargli addosso per imprimere il suo odore sul loro alfa. Non aveva mai provato un’attrazione tanto potente per qualcuno. Il magnetismo di Regan talvolta lo lasciava ancora esterrefatto e intontito.

“Oh. Grazie. Anch’io ho qualcosa per te.” disse Regan e gli porse una busta.

Roman lo guardò a bocca aperta, non aspettandosi minimamente di ricevere qualcosa in cambio. Sorrise raggiante e il suo battito accelerò in un attimo. Non voleva aggrapparsi a false speranze, ma come poteva restare indifferente? Regan non era il tipo che si abbandonava ad atti di gentilezza. Se non andava errato, non aveva fatto regali a nessun altro, salvo Deirdre. Si sentì speciale.

Incapace di trattenere oltre la curiosità, Roman fu il primo a scartare il suo regalo. Osservò meravigliato la maglietta bianca che stringeva tra le mani, cercando di memorizzarne ogni dettaglio. Sopra c’era la stampa di una testa di lupo che ululava. Ma non era un lupo qualsiasi, era lui! Il colore della pelliccia e degli occhi, la forma del muso e delle orecchie… non poteva sbagliarsi.

“Regan…” esalò commosso.

“Sì, sei tu. Ho stampato un disegno che ho fatto quando mi hai mostrato le tue foto e te l’ho messo su una maglietta. Non è chissà cosa, ma non sapevo cosa regalarti. E poi volevo che fosse una specie di… offerta di pace? Sto attraversando un periodo stressante, ho tante cose per la testa, ma non ce l’ho con te. Perciò, ecco… buon Natale.”

“Voglio abbracciarti.”

“Ti prego, no.”

“Non puoi fermarmi.”

Roman lo abbracciò di slancio. Affondò il naso tra i suoi capelli per inalare il suo odore sublime, l’unico in grado di farlo rimescolare dentro come se avesse le classiche farfalle nello stomaco. Non badò alle tracce che Deirdre, le ragazze e Derek avevano lasciato di recente su di lui. Il suo lupo prese ad ululare gioioso e ripetere AlfaMioCompagno a oltranza, simile a un disco rotto.

Non avrebbe voluto scostarsi, ma alla fine lo fece, perché Regan doveva ancora aprire il suo regalo. Lo guardò scartare il pacchettino e rigirarsi tra le dita una scatoletta di legno, non più grande del palmo della sua mano.

“Cos’è?”

“Aprilo.”

All’interno c’era un braccialetto. Era semplice, fatto con un laccio di cuoio e una chiusura di metallo. Nel centro c’era una fascetta d’argento con uno strano simbolo in rilievo: un cerchio perfetto, interrotto sui quattro punti cardinali da delle punte di freccia rivolte verso l’esterno.

“È lo stemma del branco dei Sinclair.” spiegò Roman, “E la fascia è d’argento. Come sai, è veleno per noi. Ho pensato che, se mai dovessi trovarti a fronteggiare un altro licantropo con cattive intenzioni, potrebbe tornarti utile.”

Regan si accigliò: “Non avevi detto che fiutarlo ti provocava reazioni allergiche? Come farai a starmi vicino se lo indosso?”

“Ci farò l’abitudine.” rispose con una scrollata di spalle.

“Grazie, Roman.” mormorò con un piccolo sorriso, avvertendo uno strano tepore sciogliere il ghiaccio nel suo petto, “È un regalo davvero utile. Al contrario della mia maglietta.”

“Una maglietta non si rifiuta mai. Almeno so cosa indossare durante l’estate. E il disegno è… mi mancano le parole. Hai un grande talento. Lo avevo già notato nei tuoi scarabocchi, quelli che riempiono le pagine dei tuoi libri e quaderni, ma questo… wow. Hai mai considerato di coltivare la passione per il disegno? Secondo me, ne varrebbe la pena.”

“Non lo so. Per ora è solo un hobby.”

“Ragazzi, che fate lì impalati?” li chiamò Zack.

“Regan, vieni qui!” esclamò Mike da un tavolo lì vicino.

Lorie e le altre cheerleader entrarono in quell’esatto istante in palestra, agghindate in maniera impeccabile. Sarebbero state degne di sfilare sulle più celebri passerelle. Lorie, in particolare, era da togliere il fiato. Indossava un lungo vestito dorato che contrastava squisitamente con la sua pelle color ebano. I polsi erano ornati con grossi bracciali e i capelli erano stati piastrati e legati in un’elaborata crocchia sulla nuca, abbellita da un fermaglio a forma di vischio.

Regan legò il braccialetto sul polso sinistro e si incamminò verso il tavolo di Mike. Il broncio di Roman nel vederlo allontanarsi si sciolse in un piccolo sorriso quando si ricordò della maglietta che stringeva nella mano. Dopo averla annusata un’ultima volta, la ripiegò veloce, la infilò nel sacchetto e tornò da Zack.

La band attaccò con Jingle Bell Rock e la pista si riempì dei primi ballerini.

 
*

Da dietro il tavolo del buffet, Joshua osservava i suoi compagni di scuola divertirsi sulla pista da ballo, amareggiato dai loro sorrisi e invidioso del semplice fatto che avessero amici con cui scherzare. Non avevano idea del lutto che stava attraversando. Suo nonno era morto a causa di un malore la settimana scorsa e nessuno gli aveva fatto le condoglianze, mentre a Cecilia Burns spariva la nonna e tutti a sommergerla di attenzioni.

Quando l’anno era cominciato, Joshua aveva sperato di conoscere qualcuno come lui, amante della matematica, del violino e degli scacchi, e uscire dalla spirale di solitudine che lo aveva fagocitato alle medie. Presto, però, aveva realizzato di essere stato relegato in fondo alla catena alimentare, come uno dei tanti secchioni sfigati dai quali si era impegnato a rimanere lontano. La depressione si era riaffacciata prontamente, quasi non se ne fosse mai andata. Ora, per ordine del medico, doveva prendere delle pillole per scongiurare eventuali episodi di autolesionismo o il ritorno delle vecchie tendenze suicide.

Posò gli occhi su Regan McLaughlin e sospirò, grattandosi distrattamente la cicatrice a forma di mezzaluna sul mento. Non capiva cosa avesse di tanto speciale da essere diventato il beniamino dei popolari. Sì, era bello e intelligente, ma a Joshua non sembrava così carismatico. Se lo ricordava sin dalle medie come un ragazzo taciturno, magrolino, perennemente imbronciato, normale, privo di attrattiva. Per questo aveva creduto che fossero anime affini. Per un misero istante, aveva addirittura accarezzato l’idea di diventargli amico. Ma Regan lo aveva liquidato subito, il primo giorno, con un’occhiata omicida.

Non ne aveva fatto un dramma. Infatti, siccome Regan aveva tre bulli affezionati che gli ronzavano sempre intorno, ed essendo Joshua un pragmatico – il suo motto era “Tieniti lontano dai guai finché ti riesce e non andare a cercarli” – alla fine aveva provato sollievo a venire scaricato. Se avesse stretto amicizia con Regan, si sarebbe ritrovato pure lui con tre bulli alle calcagna. No, grazie.

“Hey, tu. Abbiamo finito il ghiaccio. Va’ nell’aula di Inglese a fare rifornimento. Sbrigati.” gli disse una ragazza dello staff.

Joshua non reagì a venire apostrofato in quel modo, ci era abituato.

Scoccando un’ultima occhiata verso Regan, che quella sera sembrava brillare di una luce sensuale e intossicante, lasciò la sua postazione un po’ ingobbito e con aria mesta. Uscì dalla palestra a passi lenti, gli occhi saturi di tristezza e il cuore colmo di solitudine.

Entrò nell’aula di Inglese, che era stata adibita a magazzino, accese l’interruttore e si richiuse la porta alle spalle. Sulla cattedra c’erano contenitori di cibo, sui banchi degli scatoloni pieni degli addobbi avanzati. Il frigo portatile, posto a ridosso del muro, era una cassa lunga un metro e mezzo. Si avvicinò con un secchio e una paletta, si inginocchiò e iniziò a travasare il ghiaccio.

Un rumore metallico improvviso lo fece squittire di paura. Il suo sguardo saettò verso l’armadietto in cui, di solito, si conservava il materiale di classe: libri in più, gessi, pennarelli, fogli. Si bloccò a metà di un movimento, la paletta sospesa a mezz’aria sopra il secchio, e aggrottò le sopracciglia. Quando il silenzio si protrasse per un minuto abbondante, scrollò una spalla e tornò a riempire il secchio.

Il rumore lo distrasse di nuovo mentre era in procinto di alzarsi. La luce si spense di colpo. Joshua si irrigidì e cominciò a sudare freddo. Aveva sempre avuto paura del buio e, crescendo, invece che svanire, essa era aumentata.

Deglutì a vuoto. Puntò gli occhi sbarrati sull’armadietto, il battito alle stelle. L’anta si accostò con un lieve cigolio. Joshua sbiancò non appena intravide la densa oscurità attraverso lo spiraglio. Represse a fatica un singhiozzo.

“Non è divertente!” rantolò, terrorizzato.

Strinse la presa sul manico del secchio, chiuse il frigo e arretrò cauto. Se quello era l’ennesimo scherzo ideato dai ragazzi del terzo anno ai danni delle matricole, giurò che si sarebbe vendicato. Giocare con le paure del prossimo era un gesto meschino.

Ormai era vicino alla porta. Allungò una mano per abbassare la maniglia e la aprì. Un fascio di luce tagliò le tenebre, che sfrigolarono. Joshua non vi badò, troppo spaventato per mettersi ad analizzare ciò che gli accadeva intorno. E poi, il sibilo nelle orecchie non gli rendeva facile udire altri suoni.

In quel momento, una forza invisibile si abbatté sulla porta, che si chiuse alle sue spalle con un tonfo assordante. L’aula precipitò di nuovo nell’oscurità.

Joshua si pietrificò e trattenne il fiato.

L’anta dell’armadietto finì di ruotare sui cardini con un cigolio sinistro.

Joshua registrò a malapena i passi compiuti dalle proprie gambe, come se qualcuno lo stesse manovrando con un telecomando. In pochi secondi, fu di fronte all’armadietto.

Una mano scheletrica emerse fulminea dal buio e si avvolse attorno al suo collo, strozzandogli in gola il grido in procinto di formarsi, così che non venisse mai al mondo.

Boccheggiò in cerca di ossigeno, anche se l’istinto gli suggeriva che sarebbe stato inutile. Sapeva di non avere scampo. Non avrebbe neppure potuto dire addio alla sua famiglia.

Emise un debole singhiozzo e fece scivolare le braccia lungo i fianchi, rassegnato all’inevitabile. Le lacrime gli solcarono le guance. Infine, il buio lo mangiò.

La luce si riaccese proprio mentre il secchio cadeva a terra con un tonfo. Il ghiaccio si sparse tra i banchi in una cascata di bianche palline deformi. L’armadietto si richiuse con uno scatto secco.

 
*

Regan stava ascoltando con una smorfia annoiata l’accesa discussione tra Roman e Zack a proposito di uno degli ultimi allenamenti di basket. Il primo insisteva che il coach avesse fischiato un fallo inesistente, il secondo che il fallo ci fosse stato eccome. Lorie e le ragazze stavano ballando fra loro sulla pista, i giocatori di football chiacchieravano di sport e Derek era tornato a casa un quarto d’ora prima, dopo un veloce pomiciata nei bagni.

Per una volta, nessuno lo stava considerando. Era la sua occasione per svignarsela. D’altronde, erano circa le undici, si stava facendo tardi.

All’improvviso, la sua pelle si accapponò e un familiare sibilo gli penetrò nelle orecchie. Si pietrificò sulla sedia, conscio del motivo di quella reazione.

Il demone era tornato. Era lì, a scuola.

Roman si interruppe e si voltò a fissare Regan, confuso dall’odore che stava emanando a ondate: paura, rabbia, allarme. Era lo stesso che aveva fiutato su di lui alla festa a casa di Lorie.

“Che c’è?” gli domandò sottovoce.

Regan si alzò bruscamente, allontanandosi dal tavolo ad ampie falcate, diretto Dio solo sa dove. Gli altri ragazzi interruppero la conversazione e lo guardarono basiti, non capendo cosa fosse successo.

“Che ha?” indagò Mike e fece per alzarsi pure lui.

Roman lo fermò con un gesto della mano: “Ci penso io. Torno subito.”

“Ma…”

“Tranquilli, sarà l’indigestione. Prima mi ha detto di avere bruciore allo stomaco.” si inventò su due piedi e, senza aspettare risposta, corse dietro all’amico.

Regan uscì dalla palestra e imboccò il corridoio. Lo percorse rapido, concentrato sulla sensazione di pericolo e sul sibilo. Quando lo percepì aumentare d’intensità, appurò di essere sulla strada giusta.

Si arrestò di fronte all’aula di Inglese. Il sibilo, adesso, era assordante. Protese una mano verso la maniglia, ma la voce del suo fedele licantropo lo bloccò.

“Regan, che stai facendo?”

Roman comparve alle sue spalle e gli poggiò una mano sul braccio per farlo voltare. Regan non si mosse. Allora gli girò attorno per incrociare il suo sguardo. Appena scorse la sua faccia, compì un balzo indietro.

Le zanne di Regan protrudevano dalle labbra pallide, il suo incarnato era cinereo e le occhiaie marcate sembravano lividi. Tuttavia, per quanto quella vista fosse agghiacciante, fu il colore dei suoi occhi, due tizzoni ardenti circondati da laghi di tenebra, a scuoterlo profondamente. Mentre fissava le due biglie infuocate, gli parve di precipitare nella bocca di un vulcano in eruzione. Gli si rizzarono tutti i peli del corpo e il lupo cominciò a ululare spaventato.

Regan, incurante dello sgomento dell’amico, avvolse la mano attorno alla maniglia. La porta si aprì, ruotando silenziosa sui cardini. L’aula era deserta e buia. L’unica luce proveniva dalla finestra in alto e dal corridoio. C’era un secchio abbandonato sul pavimento. Piccoli pezzi di ghiaccio erano sparsi ovunque.

Il sibilo era forte, talmente tanto da rendergli impossibile individuarne la fonte. Snudò le zanne e avanzò cauto.

“Regan?” lo chiamò incerto Roman.

“Come osa?” bisbigliò furioso.

“Chi?”

“Hey, voi! Che state facendo?”

Roman sussultò. Fece appena in tempo a scansarsi, prima che una professoressa lo spintonasse di lato per affacciarsi nell’aula.

“McLaughlin, a meno che tu non sia un membro dello staff, esci subito da qui.” gli ordinò.

Regan storse le labbra e ringhiò, ma alla fine tornò sui propri passi e uscì di nuovo nel corridoio, diretto al parcheggio. Non aspettò Roman, sapeva che lo avrebbe seguito. Aveva con sé cappotto e beni personali, poiché pianificava di andarsene già da un po’, quindi evitò di tornare in palestra.

“Regan!”

“È successo ancora. Cazzo!”

“Successo cosa?”

Regan si impose la calma. Rilassò le spalle e reclinò il capo all’indietro, puntando lo sguardo verso il cielo coperto di nubi. Quando tornò a fissare dinanzi a sé, il suo battito era tornato regolare.

“Scusa, Roman, devo andare a casa. Ci sentiamo.” borbottò, per poi inforcare la bici e allontanarsi a razzo dalla scuola.

“Regan, aspet-”

Regan pedalò adagio per le strade bagnate. Soffici fiocchi di neve si depositarono sul cappotto e sul viso e un leggero vento gelido gli scompigliò i capelli. Ma niente, nemmeno la temperatura, sembrava riuscire a placare il fuoco che bruciava nel suo petto.

Entrando in casa, vide che sua nonna era ancora sveglia. Stava guardando una telenovela alla tv, con Poe acciambellato sulle ginocchia.

“Già qui, leprotto? Come è… che è successo?” indagò agitata e gli si fece incontro.

“Sangue. Subito.” scandì Regan mentre si liberava del cappotto.

La donna corse al frigo ed estrasse una siringa piena. Fece per versare il contenuto in un bicchiere, ma Regan le agguantò il polso in una morsa d’acciaio, costringendola a mollare la siringa. Essa cadde nella mano libera del ragazzo, che si spruzzò il sangue direttamente in gola. Trasse un profondo respiro e, sbottonandosi il colletto della camicia, gettò la siringa vuota nell’acquaio.

Si aggrappò al bordo del tavolo, la testa incassata nelle spalle. I muscoli contratti guizzarono sotto i vestiti. Passò interminabili minuti in quella posizione, con le sopracciglia aggrottate, le labbra serrate in una linea retta e le palpebre strizzate, come se soffrisse. Poi, pian piano, la tensione lo abbandonò.

“Cosa è successo?” ripeté Deirdre.

“Era a scuola. Il demone. Ha preso qualcun altro.”

“Chi?”

“Non lo so.”

“Lo hai visto?”

“No, ma l’ho sentito. Ho avvertito la sua presenza. Dobbiamo fare qualcosa. Non possiamo restarcene con le mani in mano mentre questa creatura va a caccia nel mio territorio! È un affronto imperdonabile.”

“Non abbiamo i mezzi per combatterlo. Non sappiamo nemmeno che tipo di demone sia.”

“Stiamo battendo la fiacca!” ruggì con voce cavernosa, inumana, e sbatté un pugno sul tavolo, provocando il miagolio allarmato di Poe, “Non permetterò che continui a razzolare nel mio giardino. Lo troverò… oh, sì. Lo smembrerò, lo scuoierò, lo squarterò, fosse l’ultima cosa che faccio.” decretò e marciò di sopra per chiudersi in camera a rimuginare.

Deirdre deglutì a vuoto. Era sotto shock, sia a causa della collera del nipote che dello sproporzionato aumento della sua forza mentale e fisica. Una parte di lei si ostinava ancora a rifiutare la realtà, convinta di poter gestire la situazione da sola. L’altra, invece, era consapevole che fosse giunto il momento di svelare a Regan l’unico dettaglio della sua eredità che gli aveva tenuto nascosto. C’era un demone da bandire. Regan doveva imparare come farlo e gli unici che potevano insegnarglielo erano loro.

Ricambiando con un sorriso ansioso lo sguardo indecifrabile di Poe, seduto sullo schienale del divano, si accarezzò distrattamente il livido a forma di dita sul polso.

 
*

“Roman, vieni ad aiutarci ad addobbare l’albero.” lo chiamò Tamara dal salotto.

In camera sua, seduto alla scrivania, Roman roteò gli occhi con un grugnito. Perché dovevano sempre ridursi al giorno prima della Vigilia per decorare?

Chiuse il libro di algebra e scese le scale con passo elefantino, per nulla incline a partecipare ai preparativi. Ma suo padre era stato chiaro: il branco aveva bisogno di rilassarsi in un clima sereno, dopo la tensione delle ultime settimane. Perciò, tutti erano caldamente invitati a non pensare a nient’altro che alla gioia di trascorrere del tempo assieme in allegria, raccolti intorno al focolare domestico. Nessuna eccezione.

Non appena entrò in salotto, vide i cugini seduti a gambe incrociate ai piedi dell’albero finto, immersi in una profonda discussione su dove fosse meglio appendere le campanelle. Sua madre sorvegliava da vicino l’evolversi del dibattito, mentre avvolgeva i rami con pellicce dorate. Udì Ruby e Sean affaccendarsi in cucina. Suo padre, invece, era al telefono in biblioteca, impegnato a scambiare auguri di buon Natale con gli alfa di altri branchi.

L’unico che mancava all’appello, di nuovo, era Declan. Roman aveva provato a chiamarlo, stavolta. Suo fratello non avrebbe osato snobbarlo pure a Natale. Purtroppo, la chiamata era stata diretta sulla segreteria telefonica. Ascoltare il messaggio registrato era ormai il solo modo per ricordare che suono avesse la sua voce. Roman non capiva perché lo stesse ignorando.

Si riscosse e raggiunse la madre in salotto. Prendendo posto accanto a Nina, allungò una mano nella scatola e, per l’ora seguente, aiutò ad addobbare l’albero. Tuttavia, i suoi pensieri ruotavano attorno a ciò che era accaduto a scuola la sera precedente.

Aveva ponderato l’idea di parlarne col padre, magari lui sapeva qualcosa a proposito di ibridi che riuscivano a far brillare gli occhi, poi l’aveva scartata. Già Vincent tollerava a malapena Regan, nonostante affermasse il contrario. Storceva il naso disgustato ogni volta che fiutava il suo odore su Roman.

Il giovane licantropo non aveva più avuto notizie di Regan dalla festa. Il suo cellulare era spento. Era stato tentato di andare a trovarlo a casa, ma alla fine aveva optato per mantenersi a distanza, almeno per un giorno. E poi, doveva restare concentrato sugli allenamenti col padre.

Questi stavano diventando sempre più sfiancanti, fisicamente e psicologicamente. Più sottoponeva il proprio corpo a sforzi inumani, più la sua mente si indeboliva, lasciandolo vulnerabile agli attacchi dell’avversario e alla perdita di controllo.

“Ti serve un’ancora solida. Non puoi continuare così.” gli ripeteva Vincent dopo le sessioni, “Trova un’ancora, e fallo presto. Non c’è posto per i cani rabbiosi nel mio branco.”

La questione dell’ancora guidò i suoi pensieri di nuovo su Regan. Non poteva più negare i sentimenti che si agitavano in lui: desiderio di vicinanza, lealtà incondizionata, smania di compiacere e provvedere ai suoi bisogni, quali essi fossero. Sembrava quasi che un uragano caldo infuriasse senza sosta nelle sue viscere. Quei sentimenti alimentavano la natura selvaggia del lupo, lo spingevano a dare la caccia e reclamare il mezzo vampiro come suo in ogni modo possibile. Alfa, Compagno, erano le parole che gli sussurrava la bestia, sia durante il sonno sia mentre era sveglio.

Roman aveva perso il conto dei sogni erotici che lo avevano tormentato nell’ultimo periodo. In essi si vedeva sopra Regan, ipnotizzato dalla sua pelle candida e liscia, perfetta per essere morsa. A volte erano faccia a faccia, a volte lo montava da dietro come un animale, e a volte era Regan a cavalcarlo con passione. In quelle visioni, il moro gridava il suo nome in preda all’estasi, spronandolo a dare sfogo a tutti gli impulsi che lo governavano. Non appena raggiungeva l’apice, Roman si svegliava con i pantaloni imbrattati di sperma.

“Andatevi a lavare le mani, la cena sarà pronta fra poco.” disse Tamara, strappandolo alle fantasie oscene che gli vorticavano nel cervello, “Roman, stai bene?”

“Sì… scusa, sono un po’ stanco.”

Non era una bugia, ma neanche la verità. Doveva smettere di sognare a occhi aperti, o la sua famiglia se ne sarebbe accorta. Se solo Vincent avesse sospettato il suo coinvolgimento emotivo con Regan, non aveva dubbi che lo avrebbe diseredato. O ucciso.

La cena passò tra chiacchiere allegre, risate e buon cibo. Ruby e Sean si erano superati. Il merito del successo, però, era soprattutto dello zio: dopo Declan, era lui a vantare il miglior naso del branco, e sapeva come usarlo quando era assegnato in cucina. La commistione di sapori, la cottura, era tutto perfetto.

“Voglio altro pollo!” esclamò Trevor.

“Ne hai già presi due pezzi.” ringhiò Nina, gelosa del trattamento di favore che suo fratello riceveva perché era un maschio e più grande di lei di due anni, “Mamma, non è giusto!”

Ruby le sorrise bonaria mentre serviva un’altra porzione al figlio: “Tesoro, perché ti arrabbi? Scommetto che sei piena. Non riusciresti a mangiare un altro boccone nemmeno se lo volessi.”

“Non è giusto lo stesso!” si lamentò con più fervore.

“Tuo fratello sta crescendo, Nina. I maschi mangiano di più, lo sai. Se hai ancora fame, aspetta il dessert. C’è il dolce al cioccolato, il tuo preferito.”

Al che, Nina si tranquillizzò.

Dopo cena, andarono tutti in salotto per guardare un film. I bambini squittirono estasiati quando appresero che avrebbero visto Rudolph.

Roman, che non aveva aperto bocca durante il pasto, si sforzò di partecipare di più, in modo da non insospettire i genitori. Tuttavia, qualcosa dovette trasparire dal suo odore, perché Tamara si accostò a lui sul tappeto e gli cinse le spalle con un braccio.

“Cosa c’è, amore? Perché sei tutto corrucciato?”

“Niente. Pensieri.”

“Questi pensieri riguardano tu-sai-chi?”

Roman rifiutò di rispondere. Sua madre non aveva ancora collegato la faccenda del Compagno a Regan, e lui sperava che non avvenisse mai. Non si sarebbe salvato dal giudizio che si sarebbe abbattuto su di lui se la verità fosse venuta a galla.

“Va bene. Quando vorrai parlarne, io sono qui.” sospirò e tornò a chiacchierare a bassa voce con Ruby sul divano.

Un’ora più tardi, Roman era già sepolto sotto le coperte. Si girò e rigirò per minuti interi, senza riuscire a trovare la giusta posizione per favorire il sonno. Si sentiva irrequieto. Il suo lupo non aveva cessato un solo secondo di uggiolare per la mancanza di Regan al suo fianco, ma il lato umano era diffidente dalla sera addietro, quando aveva scorto gli occhi di Regan brillare in quel modo sinistro.

Sfilò la maglietta con il ritratto del lupo da sotto il cuscino. Se si concentrava, poteva ancora percepire l’odore di Regan sulla stoffa. Con enorme rammarico, notò che stava svanendo in fretta, rimpiazzato dal proprio. Aveva bisogno di annusarlo di nuovo, possibilmente dalla fonte.

Afferrò il cellulare e digitò un messaggio conciso.

A Regan:
Dobbiamo parlare. Dopo la luna piena verrò da te, fatti trovare a casa.

Inviò e attese col fiato sospeso una risposta. Quando il cellulare gli segnalò una notifica, quasi non credette ai propri occhi.

Da Regan:
OK.

Si addormentò con un piccolo sorriso sulle labbra, sentendosi un po’ più sereno.

 
*

Chiuso in biblioteca, Vincent fissava lo schermo con occhi sbarrati e labbra socchiuse. Era l’unico ancora sveglio, il branco si era coricato da un pezzo. Era rimasto in piedi per mettere i regali sotto l’albero, poi, dato che non aveva sonno, aveva acceso il computer per controllare le e-mail. Quando aveva visto il nome di Declan nella lista di quelle in arrivo, era rimasto sorpreso. Non si aspettava di ricevere una risposta tanto presto.

Col cuore in gola, rilesse l’e-mail per l’ennesima volta per sincerarsi di non avere le allucinazioni.

Da declan.wolfygrin@gmail.com
Oggetto: Vacanze
 
Papà,
 
Ti ho già detto e ripetuto mille volte che sono impegnato. Smettila di chiedermi di tornare a casa, perché non posso. E sappiamo entrambi che non finirebbe bene. Quante volte ancora dovremo confrontarci prima di capire che non vediamo il mondo allo stesso modo? Io ho imparato la lezione, vorrei solo che la imparassi anche tu. Mi dispiace, mi piacerebbe che le cose fossero diverse. Vi voglio bene, questo non cambierà mai, ma NON. TORNERÒ. Fattene una ragione.
 
Ora, prima di rispondere alla domanda che hai inserito nel post-scriptum della tua precedente e-mail, permetti a me di fartene una: siete diventati tutti degli emeriti imbecilli????
Da Sean me lo aspetto, non è mai stato una cima, ma da te! Possiedi una delle biblioteche più fornite di tutti i branchi del nord America e conosci quasi tutte le creature che popolano il globo, quindi mi spieghi come ha fatto a sfuggirti?
Io non ho dovuto spulciare un singolo libro per capire con che cosa avete a che fare, è talmente ovvio! Due più due, papà.
 
Corpi umani trasformati in pietra? È una cazzo di Gorgone!
 
Non partirò a chiederti come diavolo avete fatto a capitare in una città dove una Gorgone ha fatto il nido, rischierei di scrivere un papiro. Oh, per non parlare dei cacciatori! Complimenti, sto applaudendo. Piuttosto, vorrei portare alla tua cordiale attenzione che le Gorgoni sono dannatamente facili da uccidere, se non le guardi negli occhi. Basta decapitarle. Ergo, non vi serve il mio aiuto. Un consiglio per la questione dei cacciatori? Fate le valige e andatevene.
 
Buona fortuna.
 
Dec
 
Vincent non riusciva a distogliere lo sguardo dalla parola “Gorgone”. Che cavolo. Era ovvio. Aveva ragione suo figlio, si erano tutti rimbecilliti, lui compreso. Perché non ci aveva pensato subito?

Sospirando, si massaggiò le tempie e cercò di elaborare un piano di attacco. La stanchezza, però, si fece sentire dopo appena due minuti, così optò per tornarci sopra l’indomani, o direttamente dopo la luna piena. D’altronde, una Gorgone era facile da uccidere. Non c’era nulla di cui preoccuparsi.









 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Paradox ***










 
Il 27 dicembre Regan si svegliò di buon mattino per ripulire la cucina e portarsi avanti con i compiti, in attesa dell’arrivo di Roman. Non aveva avuto modo di studiare nei giorni precedenti, men che meno rimettere in ordine. Durante le feste natalizie toccavano a lui le faccende di casa.

Aveva festeggiato la Vigilia con Deirdre e Hillary, che, adesso che l’FBI si occupava dei casi di persone scomparse, aveva un po’ più di tempo libero. Il giorno di Natale lo aveva trascorso da solo con Deirdre, eccetto per un paio d’ore nel pomeriggio, in cui Derek era passato per fare gli auguri e rinnovare a Regan la promessa che nessun cacciatore lo avrebbe più preso di mira. Il 26 aveva celebrato il compleanno della nonna a pranzo, insieme ad Hillary, e poi era andato al bowling con le ragazze.

Aveva procrastinato finché aveva potuto, e così ora si ritrovava con una pila di stoviglie sporche nell’acquaio e un post-it appiccicato sulla credenza in cui Deirdre gli ricordava di tirare tutto a lucido. Dopo aver pulito, si sedette alla scrivania a studiare fino alle tre.

L’orologio segnava le tre e venti quando Regan udì il motore della macchina di Roman spegnersi di fronte al vialetto. Controllò che camera sua fosse in relativo ordine, indossò una felpa sopra il pigiama e scese di sotto. Sua nonna era andata a far visita alla signora Greenwood e non sarebbe rincasata prima di sera.

Prima che Roman suonasse il campanello, aprì la porta e lo invitò a entrare senza proferire verbo. Era di pessimo umore, dato che quella notte aveva avuto l’ennesimo incubo.

“Ciao.” lo salutò gioviale Roman, guardandosi intorno.

Sapeva che erano soli, essendo il battito di Regan l’unico nella casa, ma controllò comunque. Di Poe non c’era traccia, il che gli dispiacque. Soffermando l’attenzione sull’amico, notò che il suo aspetto era trascurato. Oltre a indossare il pigiama, che emanava una scia di sudore mista a paurarabbiamarmellatadimore, il pallore spettrale del suo viso avrebbe ghiacciato il sangue a chiunque. Roman lo trovò comunque bellissimo. Sorrise soddisfatto quando scorse il braccialetto ornare ancora il polso del moro.

Regan gli fece cenno di seguirlo in camera. Si sedette sulla sedia della scrivania, mentre Roman si accomodò sul letto, come la prima volta che era stato lì.

Osservando la stanza, si compiacque nel notare che non era cambiato niente. Gli oggetti erano disposti allo stesso modo, la luce filtrava dalla finestra dalla medesima angolazione. Soltanto una cosa era diversa: l’odore che appestava la stanza. Lì la scia di paura, rabbia, frustrazione, sudore e sangue fresco che impregnava i vestiti di Regan era più forte. Si allarmò all’istante.

“Regan, che succede?”

Regan incrociò le braccia sul torace e abbassò il capo. I riccioli ricaddero sul suo viso, oscurandolo alla vista. Conficcò i denti nel labbro inferiore, in un tic nervoso che Roman aveva imparato a riconoscere.

“Sono stressato. Dormo male e la mia sete è aumentata.”

“Intendi che…”

“No, è sotto controllo. Ho solo dovuto incrementare le dosi. Sono un adolescente, ho bisogno di energie da bruciare. Ma stare in mezzo alla gente non aiuta.”

“È per questo che mi eviti? Temi di saltarmi addosso alla prima occasione e strapparmi la giugulare?” scherzò.

“Più o meno.”

Roman piegò la testa di lato, ascoltando il ritmo del suo battito. Lo sentì distintamente accelerare. Si rabbuiò, perdendo subito il sorriso e l’aria rilassata.

“Regan. Non. Mentirmi.” scandì, serrando le mani a pugno sulle ginocchia, “Primo: non me lo merito. Secondo: è inutile. Sono un licantropo, conosco l’odore e il suono delle bugie. Terzo: alla festa della scuola, mentre eri fermo davanti all’aula in cui è stato visto entrare Joshua Pryce, prima che pure lui sparisse nel nulla, i tuoi occhi hanno cominciato a brillare! Avevi un aspetto… raccapricciante. Non ho mai visto nulla di simile. Quindi risparmiami le tue patetiche scuse e sputa il rospo.”

“I miei occhi hanno brillato? Sul serio? Di che colore erano?”

Roman aprì e chiuse la bocca un paio di volte, preso in contropiede: “Non sapevi di esserne capace?”

“No.”

“Oh. Beh, erano…” gesticolò enfaticamente, cercando di comunicare colore, forma e tutta la gamma delle sensazioni che aveva provato con le mani.

“Roman, usa le parole, da bravo.”

“Come due piccoli tizzoni ardenti. Immagina il legno che viene appoggiato sul fuoco quel tanto che basta ad accendere la prima scintilla. Intorno all’iride, la sclera era completamente nera. Le tue occhiaie erano parecchio marcate, violacee, e si estendevano fino agli zigomi. La tua pelle era pallida, ma più… come posso dire… della stessa sfumatura della cenere. Eri terrificante.”

Regan assimilò l’informazione in silenzio. I suoi occhi non avevano mai brillato prima d’ora, altrimenti sua nonna glielo avrebbe detto. Da un lato pensava che fosse una cosa figa, dall’altro si sentiva turbato. Che cosa significava? Era forse un’altra delle abilità degli ibridi? Di certo, i vampiri non ne erano capaci, o Regan ne avrebbe letto qualcosa sui libri che Vincent gli aveva prestato. Per quanto sintetici, erano parecchio dettagliati.

“Okay, ora torniamo al motivo principale per cui sono qui. In che razza di guaio ti sei cacciato, Regan?”

“Non so di cosa parli.”

“Senti, ho rispettato il tuo silenzio e il tuo bisogno di spazio, ma ora è giunto il momento di dirmi cosa c’è che non va. Qualunque cosa sia, sono sicuro che la risolveremo, se ti confidi con me.”

Regan sbuffò e lo guardò scettico.

“Almeno fa’ un tentativo.” lo pregò il lupo.

Regan sospirò e scosse il capo, le spalle afflosciate e le mani intrecciate in grembo.

“Mi è difficile aprirmi con qualcuno che non sia mia nonna. Non sono abituato a… insomma, hai capito.” 

“Siamo amici e gli amici si aiutano a vicenda. O te ne sei dimenticato?”

Regan continuò a esitare.

“Se devo essere sincero.
 proseguì Roman, prendendo atto con tristezza della sua riluttanza, “Non sei il solo a comportarsi in modo strano, di recente. Anch’io ho vari pensieri per la testa che mi provocano stress.”

Il moro sciolse la posa chiusa e lo scrutò con interesse. Per un attimo, il ricordo di come essi avevano brillato riemerse nella memoria di Roman e la sua pelle si accapponò.

“Mio padre.” si schiarì la gola a disagio, “Due giorni fa ero in biblioteca, a casa. Siccome la usa come studio, la scrivania è tappezzata di documenti e post-it. Normalmente, non mi sarei soffermato a sbirciare. Non ci capisco un accidente di roba legale, e poi ho imparato sin da piccolo a non ficcare il naso dove non mi compete. Però una cosa ha attirato la mia attenzione: un volantino. Se non lo avessi visto spuntare da sotto un plico di fogli, ci sarei passato accanto senza guardare.”

“Che volantino?”

“Ce n’era più di uno, in realtà. Erano quelli relativi alle persone scomparse. Sta indagando.”

“Oh. E perché ti preoccupa?”

Roman lo trafisse con un’occhiata gelida: “Se mio padre ha sentito la necessità di indagare, significa che c’è di mezzo il soprannaturale.”

Regan si impietrì e strinse un pugno sulla coscia. Dal suo linguaggio del corpo, dall’odore irradiato dalla sua pelle e dal ritmo frenetico del suo battito, Roman arguì che la notizia non aveva colto l’amico impreparato. Sgranò gli occhi, raddrizzò la schiena e boccheggiò.

“Tu lo sapevi. Tu… tu lo sapevi!” lo aggredì, saltando in piedi, “Perché non hai detto niente?! Da quanto lo sai?”

“Qualche mese.”

“Qualche mese?! Spero che tu abbia una giustificazione valida per non avermelo detto.”

“Tuo padre cos’ha scoperto?”

“Non lo so, glielo domanderò appena torno a casa. Ora voglio sapere cosa sai tu. E non mentire, sono stanco delle bugie.” ringhiò, stringendo i pugni fino a conficcare gli artigli nella carne dei palmi.

Regan si morse l’interno di una guancia per impedirsi di scoppiare a ridere. Si concentrò per emanare nervosismo e boccheggiò come uno che non ha idea da che parte cominciare. Tutto stava andando come aveva pianificato ed era esilarante.

“So che è un demone, ma non che tipo di demone.” rivelò succinto.

Roman ammutolì, scioccato. Cadde di nuovo a sedere sul letto, pallido come un fantasma.

“Un demone.” esalò flebilmente, per poi scoppiare in risolini isterici, “Ma dai!”

“È vero.”

“Ne sei sicuro? Al cento percento?”

“Temo di sì.”

Roman si focalizzò sul suo battito. Quando lo scoprì regolare, tornò serio. Giunse le mani tremanti sotto il mento e poggiò i gomiti sulle ginocchia in una posa riflessiva.

Un demone. Era una gran brutta storia. Sapeva che esistevano, ma era più un sentito dire. Non ne aveva mai visto uno, né conosceva altri che avevano avuto un incontro ravvicinato. Erano creature misteriose, sulle quali non si trovavano molte informazioni. Tra tutte le creature soprannaturali, erano quelle più insidiose e letali. Ce n’erano di diversi tipi, tanti quante erano le culture e i paesi nel mondo. Suo padre, in passato, oltre ai vampiri lo aveva messo in guardia sui demoni. “Se mai dovessi imbatterti in un demone”, gli aveva detto, “scappa senza voltarti indietro”. E adesso scopriva di averne uno proprio sotto il suo naso. Come aveva potuto passare inosservato per mesi? Come aveva fatto suo padre, il potente alfa, a non accorgersene?

“Come sei giunto a questa conclusione?”

“L’ho visto un paio di volte. Tre, per l’esattezza.”

Il licantropo si passò le mani tra i capelli. Si alzò e cominciò a misurare la stanza ad ampie falcate, andando avanti e indietro dalla porta alla libreria.

“Lo dirai a tuo padre?”

“Ovvio che lo dirò a mio padre! C’è un demone a zonzo per la città! Deve essere ucciso o, perlomeno, scacciato.”

“Hai ragione.”

“Il primo contatto. Quando è avvenuto?”

“Era la notte di Halloween. Mi trovavo qui, in camera, seduto alla scrivania. La corrente è saltata. Il demone mi è apparso nello schermo del computer. Un braccio è uscito dallo schermo come se fosse stato un portale dimensionale e una mano si è stretta intorno alla mia gola. Mi sono sentito attirare verso di lui. In qualche modo, sono riuscito a liberarmi. Non chiedermi come, perché non lo so. Subito dopo, è scomparso. Il secondo episodio è avvenuto sempre qui. Ero solo, mia nonna era a cena dalla vicina. Il demone è apparso in giardino. Però, quando sono uscito, non c’era più. Il terzo è stato alla festa a casa di Lorie. Quando mi hai trovato, era davanti a me. La tua presenza deve averlo fatto scappare, perché quando mi sono girato era sparito. Non so perché mi sia apparso proprio in quei momenti, visto che non era lì per rapire qualcuno. A parte ad Halloween.”

“Che aspetto aveva?”

“Era altissimo e scheletrico. La sua pelle era nera e grinzosa. Le braccia erano lunghe sino ai polpacci, le mani adunche, munite di artigli. La testa era calva. E non aveva faccia: né occhi, né naso, né bocca. Il collo era molto sottile e le spalle ossute.” deglutì e si toccò la gola, “Durante il primo contatto mi ha lasciato un livido sul collo, dove mi aveva afferrato. Per questo mia nonna mi ha dato l’amuleto che hai visto il giorno in cui ti sei trasformato davanti a me e questa collana. Avrebbero dovuto proteggermi, respingere il male.”

“Ha funzionato?”

“No, purtroppo.”

Roman rifletté in silenzio per qualche istante, poi chiese: “La sera della festa di Natale… lo hai percepito, vero?”

“Sì. Non so come, ma sento quando è vicino.”

“Che sensazione provi?”

“Rabbia.”

Roman mugugnò. Strofinò le mani sui jeans, ponderando il da farsi. I pensieri tornarono sul volto stampato sul volantino che aveva trovato sulla scrivania del padre.

“Secondo te, come marchia i suoi bersagli, come li sceglie?”

“Non è casuale?”

“Più ci penso, più mi convinco che li scelga con un preciso criterio.”

“Non capisco.”

“Teresa Meyers, diciassette anni, liceale. Timothy Bruce, otto anni, studente delle elementari. Rupert Gullon, ultrasettantenne, contadino, vedovo. Evelyn Richardson, settantaquattro anni, sposata. Joshua Pryce, quindici anni, liceale.” elencò, “Se contiamo pure te, anche se sei sopravvissuto, la lista di domande rimane comunque invariata. Non mi stupisce che la polizia stia brancolando nel buio. È un fottuto rompicapo. Ma deve esserci un filo conduttore.”

“Tu hai mai letto libri sui demoni? Ne avete nella biblioteca di casa?”

“Non ho mai avuto ragione di leggerli, ma di sicuro ci sono. Vedrò cosa trovo.”

Regan nascose un ghigno soddisfatto facendo finta di grattarsi una guancia.

“Ti farai aiutare da tuo padre?”

“Non abbiamo altre opzioni, Regan. Non è una battaglia che possiamo combattere da soli. E non sappiamo chi sarà la prossima vittima. Cavolo, potrei essere io!” scherzò, ma i suoi occhi tradirono paura.

Regan si irrigidì di botto. Le voci riemersero dai remoti recessi della memoria, bombardandolo da ogni direzione.

 
"Aiutami!"

“Che ti prende?” domandò preoccupato il licantropo.

Scrollò la testa e le voci svanirono di nuovo nell’oblio: “Niente. Solo… niente.”

“Non è il momento di mantenere segreti, Regan. Parla. Cosa c’è?”

Il moro aprì la bocca, ma nessun suono ne uscì. Riprovò altre quattro volte, invano.

“Regan…”

“Io… no. Non è niente. Davvero. Solo la cara, vecchia paranoia. Lo stress e la carenza di sonno mi stanno uccidendo.”

Roman non parve convinto, ma lasciò cadere l’argomento.

“Riferirò ciò che mi hai detto a mio padre, appena torno a casa. Ti aggiorno in serata, okay?”

“Okay.”

Qualche minuto dopo, Regan accompagnò l’amico alla porta e, quando furono sulla soglia, si sporse per abbracciarlo. Roman si paralizzò al sentire le mani di Regan stringersi sul suo giubbotto per attirarlo di più a sé. Restarono immobili per interminabili secondi, finché il clacson di una macchina in lontananza non li ridestò. Si staccarono e si sorrisero impacciati.

“Ti chiamo stasera.” ribadì Roman.

“Sì.”

“Okay.” si morse un labbro, incapace di distogliere lo sguardo da quello di Regan, “Okay.”

“Ciao, Roman.”

“Sì. Ciao.”

Solo quando Regan richiuse la porta riuscì a scollarsi dal portico. Corse verso la propria auto, aprì la portiera e si sedette al posto di guida. Attese un paio di attimi prima di sbattere la fronte sul voltante, dandosi dell’idiota.

 
*

Roman bussò e si affacciò alla porta della biblioteca per sbirciare all’interno. Nell’aria fiutò l’odore di legna bruciata, misto a quello della cellulosa emanato dai libri ordinati sugli scaffali, che percorrevano tutto il perimetro della stanza.

Suo padre era seduto alla scrivania, davanti al computer. Le sue dita correvano veloci sui tasti, mentre i suoi occhi saettavano dallo schermo a due fascicoli aperti lì accanto.

“Papà, ce l’hai un minuto?”

“Sono impegnato, come puoi vedere.”

“Fidati, qualunque cosa tu stia facendo, questo è parecchio più importante.”

Vincent sollevò lo sguardo e lo scrutò a lungo, senza tradire alcuna emozione. Poi sospirò, spense il computer e lo invitò con un cenno a sedersi sulla poltrona di fronte al caminetto acceso.

Roman chiuse la porta alle sue spalle, onde evitare che gli altri origliassero la conversazione. Il padre lo notò e inarcò un sopracciglio, ma non commentò.

Il fuoco scoppiettava allegro su una pila di ciocchi di legno, spargendo una luce calda e soffusa sulle pareti. La danza delle fiamme ricordò a Roman la visione di cui era stato succube mentre guardava negli occhi brillanti di Regan. Si era sentito risucchiare in un vortice, avvolgere da zampilli di lava e bruciare nell’anima. Nelle orecchie, aveva percepito il rombo di un vulcano in eruzione.

Non appena l’alfa si accomodò sulla seconda poltrona, Roman si irrigidì. Quando lo vide accavallare le gambe e intrecciare le mani in grembo, si umettò nervoso le labbra.

“Ti ascolto.”

“Okay. Ehm… so che stai indagando sulle sparizioni in città. E credo di avere alcune risposte.” esordì cauto, serrando a pugno le mani sudate.

L’espressione di Vincent divenne granitica: “Come sai che sto indagando?”

“Ho visto un volantino sulla tua scrivania. È capitato, non l’ho fatto apposta. Lo avevi lasciato lì.”

“E cosa credi di sapere a riguardo?”

“Si tratta di un demone.” confessò senza tante cerimonie, preferendo andare dritto al punto.

Vincent sbarrò le palpebre in un moto di sorpresa e panico, una piccola crepa nella sua maschera. Roman, però, non ebbe modo di godersela appieno, perché il padre riacquisì il contegno nell’arco di due secondi netti, in un grande sfoggio di autocontrollo. Le sue labbra si piegarono in un sorrisetto divertito, dando al figlio l’impressione di essere l’ignara vittima di uno scherzo. Roman si corrucciò, confuso.

“Elabora.”

“È stato Regan a scoprirlo. Sta indagando da molto più tempo di te.”

Vincent assottigliò le palpebre e le labbra, irrigidendo la postura: “Molto più tempo? Quanto, di preciso?”

“Da settembre.”

L’alfa sbuffò e storse la bocca in un ghigno beffardo. Regan era di sicuro un ragazzino sveglio, ma non era ferrato nel soprannaturale. A malapena conosceva la specie da cui aveva ereditato la sete di sangue.

“Cosa pensa di sapere, quell’ibrido? Ha mai incontrato un demone, prima d’ora?”

“Regan lo ha visto di persona tre volte, la prima delle quali il demone lo ha attaccato. In camera sua, mentre sua nonna era in casa.”

Vincent ammutolì e lo fissò senza battere ciglio per incalcolabili istanti. Il crepitio del fuoco era l’unico suono che spezzava il silenzio, altrimenti così pesante da risultare palpabile.

“Mi ha descritto il suo aspetto.” continuò Roman, “Potrei disegnarlo, se vuoi.”

“Mh. Che altro?” domandò Vincent.

“Pare che ce l’abbia con Regan per qualche motivo. Forse perché è il solo che gli è sfuggito, forse perché gli sta dando la caccia… non lo so. Inoltre, le vittime appaiono casuali, ma siamo convinti che… cioè, io sono convinto che siano accomunate da qualcosa, anche se non so cosa.”

“Regan ha scoperto che si tratta di un demone quando esso lo ha attaccato nella sua camera? E da allora lo ha visto altre due volte?” ripeté serio, scandendo bene le parole.

“Ehm, sì…? Il punto è che, se ci aiutassimo a vicenda, penso che potremmo riuscire a scacciarlo o intrappolarlo.”

“No, non lo coinvolgeremo. Se ciò che mi hai detto è vero, cioè che questo demone ce l’ha con lui, è chiaro come il sole che Regan è compromesso.”

“Scherzi, vero? Regan non… lui non… oh, andiamo! Se fosse un burattino del demone, credi sul serio che mi avrebbe spiattellato tutto?”

“L’ha fatto? Ti ha detto proprio tutto?”

Vincent inarcò un sopracciglio, in attesa di una risposta. Si compiacque nel vedere il dubbio piantare le radici nella coscienza del figlio, come dimostrava il suo improvviso silenzio.

La storiella di Regan non quadrava. Dietro alla scomparsa di quelle persone c’era una Gorgone, non un demone. Le prove parlavano chiaro. Vincent non capiva cosa avesse spinto Regan a rifilare a Roman tutte quelle sciocchezze, oltre a stupirsi del fatto che suo figlio ci fosse cascato. Vincent lo aveva cresciuto meglio di così, Roman non era un credulone. Gli aveva insegnato a fare affidamento sui suoi sensi, a prendersi il suo tempo per esaminare parole, linguaggio e temperatura corporea, odore, battito cardiaco. Possibile che non avesse colto la menzogna in Regan, che fosse talmente accecato dall’amicizia da non riuscire a scorgere la verità? Oppure, più probabilmente Regan aveva usato qualche trucchetto per manipolare Roman. C’era da aspettarselo da un vampiro. O mezzo vampiro. Ma, anche se lo avesse fatto, a che pro?

“Ricorda che i demoni sono fatti per metà di inganni e per metà di tenebra. Non puoi fidarti, Roman. D’ora in poi ti proibisco di avere contatti con lui. Non possiamo rischiare che il demone, ammesso che esista, ti prenda di mira solo perché gli stai vicino.”

Vincent osservò Roman scattare sull’attenti, i lineamenti del viso e i muscoli contratti in una posa agguerrita, pronto a correre in difesa di colui che chiamava “amico”. Era disgustoso. Certo, Regan sembrava un ragazzino garbato e onesto, e Vincent, nonostante i borbottii stizziti e la repulsione che provava al pensiero di vivere nella stessa città, non lo considerava un nemico. Ma era pur sempre un ibrido di vampiro. Roman avrebbe dovuto avvertire l’istinto di attaccarlo, o quantomeno stargli lontano. Invece, suo figlio andava e ci faceva amicizia!

L’alfa era consapevole che, se si fosse seduto a ragionare con Roman per convincerlo a rompere il legame con Regan, non sarebbe stato ascoltato. Roman aveva bisogno di prove concrete, di gustare il sapore del tradimento sulla sua stessa lingua per venire finalmente a patti con la realtà delle cose. Proibirgli di vedere Regan avrebbe avuto l’effetto contrario, lo sapeva, ed era proprio ciò su cui contava. Quando, non se, Roman avesse visto con i suoi occhi la vera natura di Regan, Vincent era sicuro che sarebbe rinsavito.

“Non posso smettere di parlargli di punto in bianco. Lui si è fidato di me!” protestò Roman.

“La tua lealtà è verso questo branco, non verso un mezzo vampiro manovrato da un demone assetato di morte. Resterai lontano da lui, mi hai capito? Se verrò a sapere che hai disobbedito, ti rinchiuderò in camera tua finché la minaccia non sarà stata debellata. Ora va’, ho del lavoro da fare.”

Roman emise un ringhio basso, frustrato. Si alzò bruscamente e sfrecciò verso la porta, richiudendosela alle spalle con più forza del necessario. L’eco del tonfo rimbalzò sui muri e richiamò l’attenzione della madre, che si affacciò dalla cucina con un piatto e uno strofinaccio tra le mani.

“Tutto bene?”

“No. Niente va bene.” grugnì tra le zanne.

“Devo parlarci io?”

“Non servirebbe. È così… testardo.”

“Testardo è un eufemismo.” commentò tra sé e sé Tamara, per poi sparire di nuovo in cucina.

Roman si rifugiò in camera. Si sedette sulla sponda del letto e agguantò il cuscino. Il primo pugno si abbatté sulla stoffa morbida provocando un suono a stento udibile, seguito da un altro e un altro ancora. Gli sarebbe occorso tutto un altro metodo per riacquistare la calma, ma qualcosa gli suggeriva che un’estemporanea corsetta nel bosco a quell’ora non sarebbe stata accolta senza domande moleste.

La cosa che lo impensieriva e devastava di più era che avrebbe dovuto avvisare Regan degli ultimi sviluppi: avrebbe dovuto dirgli della decisione del padre e non sapeva come l’amico avrebbe reagito. Roman era terrorizzato all’idea di perdere la sua fiducia e la sua amicizia, perché questo sarebbe accaduto. Chiunque si sarebbe sentito tradito, se fosse stato nei panni di Regan.

Avrebbe tradito il suo alfa, il suo Compagno.

Piuttosto la morte, pensò deciso.

Adesso cominciava a comprendere da dove avessero origine l’astio e l’insofferenza di Declan, e perché il fratello desiderasse rimanere lontano mille miglia da loro padre. Nemmeno lui avrebbe più chinato il capo ed esposto la gola. Regan aveva bisogno di aiuto, e in un branco ci si proteggeva a vicenda.

In un vero branco, nessuno veniva abbandonato.

 
*

Derek era sopra di lui, ansimante e a torso nudo, gli avambracci a incorniciare la testa di Regan e il corpo spalmato sul suo come una coperta. Il bacino ondeggiava sensualmente tra le sue cosce, mentre l’erezione intrappolata nei jeans strusciava di tanto in tanto sul suo stomaco. Regan mugolò nel bacio e arpionò una gamba sui suoi fianchi.

Era il pomeriggio del 28 dicembre. Dal cielo plumbeo cadevano grossi fiocchi di neve, che imbiancavano tetti, strade, giardini e macchine. Anche se non tirava vento, le barche ormeggiate al porto avevano il divieto di salpare per quel giorno. Dalla finestra della camera filtrava la luce giallognola dei lampioni, essendo il sole tramontato da circa un’ora.

Derek spinse il bacino contro quello di Regan con più vigore. Il suo respiro accelerò, così come il battito del suo cuore e il calore emanato dalla sua pelle, imperlata di sudore e arrossata là dove il moro aveva conficcato le unghie.

Regan grugnì sotto l’ennesimo assalto delle sue labbra e portò una mano su una natica del biondo. Fece scivolare le dita sulla stoffa dei jeans, lentamente, solo per stuzzicarlo un po’. Dopodiché, senza preavviso, premette il medio sulla cucitura centrale, centrando con precisione il bersaglio. Il corpo di Derek si contorse in un leggero spasmo, i suoi fianchi si mossero con più impeto e dalla sua bocca emerse un gemito roco. Si afflosciò su Regan annaspando e lo abbracciò stretto.

Regan non si stupiva più del bisogno di coccole che coglieva Derek dopo un orgasmo. Non era piacevole sentirsi schiacciare dal suo peso, ma si sforzava di sopportare. Anche perché il cacciatore era più disponibile e rilassato se riceveva la sua dose di casto affetto e rassicurazioni.

Una volta recuperato il fiato, Derek si scostò quanto bastava per condurre una mano verso il cavallo dei pantaloni di Regan. Questi lo fermò prima che raggiungesse la cintura, imprigionandogli il polso in una morsa ferrea. Schioccò la lingua per comunicare il proprio dissenso e lasciò che il biondo rotolasse su un fianco.

“Perché non mi permetti di-”

“Sto bene. Non preoccuparti.”

“Non mi piace essere sempre l’unico che-”

“Non sei l’unico. Sono soltanto meno vocale di te.” lo prese in giro Regan.

“Non sono vocale! Ho emesso a malapena un suono.”

“Io mi ricordo grugniti e gemiti a volontà.”

Derek contrasse la mascella e lo fissò con aria di sfida: “Uno di questi giorni ti farò urlare.”

“O-ho! Quanta arroganza, signor cacciatore.” lo provocò con un ghigno.

“Se solo mi lasciassi-”

“Credi di esserne degno?” lo interruppe di nuovo Regan, “Non mi hai nemmeno comprato un regalo di Natale.”

“Neanche tu, se è per questo.”

“Io sono povero.” si giustificò con una scrollata di spalle.

“Dai, sul serio. Non vuoi che usi la mia bocca, per esempio? Non lo immagini mai?” bisbigliò, accarezzandogli in punta di dita il torace nudo, “Io sì. Vorrei farti tante di quelle cose che a volte è difficile trattenermi.”

“Sono contento che tu lo faccia. Non sono pronto, Derek. Per quanto farlo con un ragazzo mi metta più a mio agio, dato che abbiamo le stesse parti intime, sento che è meglio aspettare. Quello che facciamo è piacevole e per ora mi basta. Quando vorrò passare al livello successivo, te lo farò sapere, okay?”

“Sì, scusami. Non voglio metterti pressione. È solo che ti voglio così tanto…” si issò su un gomito per guardarlo dall’alto e gli sfiorò una guancia con reverenza, in punta di dita, mentre i suoi occhi si addolcivano e un tenue sorriso gli sbocciava sulle labbra, “Non avrei mai creduto che fosse possibile tutto questo: io e te, nonostante le nostre differenze e i nostri trascorsi. Baciarti è come una droga. Il tuo odore è una droga. Quando ti sono vicino, non ne ho mai abbastanza. Quando ti sto lontano, non faccio che pensarti e desiderare di averti con me. Ma sai qual è la cosa che adoro di più?”

“Il mio spiccato senso dell’umorismo? Il mio invidiabile gusto musicale? Il mio charme vampiresco?”

“Tutte queste cose e... poterti dire ‘ti amo’ quando voglio. Poterlo sussurrare nel tuo orecchio, sulle tue labbra, sulla tua pelle.” si piegò per scoccargli teneri baci sulla fronte, sul naso, sulla guancia e sul collo, “Non mi stancherò mai di ripeterlo. Non mi importa se ti verrà a noia sentirlo di continuo, io lo ripeterò ancora e ancora. Ti amo, Regan.”

Regan accolse la sua lingua nella propria bocca, circondò le sue spalle con le braccia e si lasciò avviluppare in quelle dell’altro. Resistette all’impulso di mordergli la giugulare e strappargli il cuore dal petto a mani nude soltanto grazie a un grande sfoggio di forza di volontà. Si meritava un premio. Quantomeno una medaglia.

Un tonfo al piano di sotto li costrinse a staccarsi bruscamente. Udirono i passi di Deirdre in cucina, un fruscio di plastica e poi altri passi su per le scale. Si rivestirono e presero posizione ai lati opposti della camera, Regan sul letto e Derek sulla sedia della scrivania.

“Regan, sei qui?” domandò Deirdre, affacciandosi sulla porta, “Oh, ciao, Derek.”

“Salve, signora McLaughlin. Come sta?”

“Bene, grazie. Regan, potresti mettere a posto la spesa, per favore? Vorrei farmi una doccia.”

“Certo.”

“Derek resta a cena?”

“No, se ne sta andando.”

“Sì, devo tornare a casa.” confermò Derek.

“Okay.”

Derek attese che la donna se ne andasse prima di placcare Regan per stampargli un altro bacio sulla bocca. Quando il moro socchiuse le labbra per la sorpresa, Derek ne approfittò per infilare la lingua ed esplorare ancora una volta ogni anfratto di quell’antro caldo e umido, mai sazio del suo sapore.

Cinque minuti dopo, si salutarono e Regan chiuse la porta con un calcio, per poi strofinarsi con foga la bocca con una manica della maglia. Al solo sentire l’eco del chili che Derek aveva mangiato a pranzo, fece una smorfia disgustata. Almeno si era rivelato utile durante lo scambio di informazioni.

A quanto pareva, lo zio di Gregory era amico di John Bennett, uno degli agenti dell’FBI venuti ad indagare, pure lui cacciatore. Ergo, lo zio aveva accesso ai fascicoli del caso tramite Bennett. A Regan aveva fatto piacere apprendere che anche loro erano a un punto morto. E finalmente, d’ora in avanti, avrebbe potuto acquisire nuovi dettagli sull’indagine grazie alle manie ficcanaso di Derek, visto che Hillary si ostinava a mantenere il silenzio. Rispettosa della legge fino in fondo.

Seconda di poi, lo zio di Gregory aveva detto a Bennett che non si trattava di scomparse normali, ma dell’opera di un demone. Siccome aveva le mani legate, essendo la sua squadra all’oscuro del soprannaturale, Bennett non avrebbe potuto partecipare alla caccia vera e propria. Questo, però, non voleva dire che non avrebbe scavato per conto suo e contattato altri cacciatori per scoprire quale fosse il demone in questione. Se avesse avuto successo, avrebbe condiviso le informazioni ottenute con i cacciatori di Ashwood Port. Quindi Regan sarebbe venuto a saperle tramite Derek.

Terzo, Derek gli aveva riferito che Bennett, messo al corrente della presenza di un ibrido di vampiro in città, aveva espresso il forte desiderio di interrogare Regan. Era convinto che fosse lui il colpevole, perché, stando alla sua esperienza, “i mostri sono tutti uguali”. Lo zio di Gregory aveva scagionato Regan portando all’altro le prove della sua innocenza. Ciononostante, Bennett non aveva cambiato idea e, di sicuro, avrebbe fatto visita a Regan. Buono a sapersi, così non si sarebbe fatto cogliere impreparato.

Poe gli sfrecciò tra le gambe con un miagolio bellicoso, rischiando di farlo inciampare e cadere di faccia sul pavimento. Regan ebbe giusto il tempo di masticare un’imprecazione, perché un istante più tardi scorse un altro gatto, dal pelo candido e morbido, correre a razzo dal salotto al piano di sopra.

Assunse un’aria perplessa. Salì pure lui e, entrato in camera, vide solo Poe acciambellato sul cuscino a occhi chiusi. Si chinò sulle ginocchia per guardare sotto al letto e nell’armadio, ma del gatto bianco non c’era traccia. Perlustrò pure la stanza di sua nonna, ma niente. Il ripostiglio era chiuso a chiave, non c’era verso che fosse entrato lì.

Deirdre uscì in quel momento dal bagno, agghindata con una vestaglia rosa antico e i capelli legati nella solita crocchia. Gli scoccò un’occhiata interrogativa e aspettò che Regan spiegasse come mai lo aveva visto uscire a passi felpati dalla sua camera.

“Ehm… hai per caso adottato un altro gatto? Bianco, dal pelo lungo…”

“No. Perché?”

“Mi era sembrato di vederlo correre al piano di sopra. Devo essermi sbagliato.”

Deirdre indurì lo sguardo: “Oppure è come con il corvo.”

Regan sbarrò le palpebre, poi si passò una mano sul viso e grugnì rassegnato.

 
*

La famiglia Hammond si stava dirigendo alla fiera natalizia che era stata allestita sul promontorio che aggettava sul porto. L’indomani sarebbe stato Capodanno e gli Hammond avevano deciso di visitarla adesso per timore di trovare la ressa il giorno successivo. Non era lontana, solo dieci minuti a piedi. Sarebbe durata sino al 2 gennaio e avrebbe ospitato attrazioni per persone di tutte le età, compresi spettacoli di equilibristi e giocolieri.

Albert e Molly Hammond avevano promesso ai bambini che li avrebbero portati, augurandosi che la distrazione sortisse il suo effetto e li distogliesse dal lutto che li aveva colpiti la settimana addietro. Soprattutto la piccola Lucy. L’avevano pure accompagnata alla mostra della Fondazione Sthenos quella mattina, ma alla vista di una statuetta stilizzata di un gatto era scoppiata in lacrime e avevano dovuto portarla via. Dylan, più grande di due anni, aveva resistito fino a casa, poi anche lui era crollato. La dolce Flake mancava a tutti.

Le strade erano gremite di coppie, gruppi di ragazzi e famiglie dirette a o di ritorno dalla fiera. I bambini che gli Hammond incrociarono erano sorridenti, eccitati. Alcuni stringevano tra le mani lo zucchero filato, altri mele caramellate, altri ancora dolciumi dall’odore invitante più grossi dei loro visi. Sulle teste sfoggiavano cappelli buffi e la faccia era pitturata per assomigliare a qualche animale.

“Mamma, sbrigati!” esclamò Dylan, saltellando dieci passi più avanti.

“Non correre!”

Piccoli fiocchi di neve cadevano pigri dal cielo e si scioglievano sull’asfalto, rendendolo scivoloso. L’aria del tardo pomeriggio era fredda e umida, si infilava sotto i vestiti e penetrava sin nelle ossa.

Lucy, seppur imbacuccata nel piumino più pesante che aveva, non riuscì a reprimere un brivido.

“Lucy, dove hai messo la sciarpa?” le chiese suo padre.

La bambina si fermò e lo fissò con aria persa, prima di ricordarsi di averla dimenticata sul letto in camera sua.

“Ops.”

Albert Hammond sospirò sconfitto, nascondendo sotto un velo di seccatura la tenerezza che il sorriso birichino della figlia gli suscitava ogni volta.

“Va bene, torniamo indietro a prenderla. Molly, tu e Dylan andate avanti. Vi raggiungeremo alla fiera.” disse alla moglie e al figlio.

“Sicuro?” gli chiese Molly.

“Sì, faremo presto. Andiamo, Lucy.”

Padre e figlia si rincamminarono verso casa. Un quarto d’ora dopo, Albert aprì la porta e si arrestò nell’ingresso, mentre Lucy correva di sopra a recuperare la sciarpa.

“Fa’ presto, o non ce la faremo a vedere gli equilibristi!” disse Albert.

Lucy squittì e lo pregò di aspettarla.

Albert non si curò di reprimere un sorriso dolce. Vedere la figlia sprizzante di gioia era un toccasana per la sua anima. Forse si era preoccupato troppo e aveva sottovalutato l’incredibile pragmatismo della sua bambina.

La settimana precedente, quando l’aveva aiutata a seppellire in giardino Flake, la loro gatta, aveva temuto che Lucy non avrebbe più smesso di piangere. Flake era stata una specie di madre-amica-sorella per Lucy. In particolare, l’aveva aiutata molto nel lungo periodo in cui era rimasta confinata in casa per via dei brutti episodi di asma, che le impedivano di mettere il naso fuori. La gatta si era presa cura di lei, accudendola come se fosse sua. Albert e Molly, scherzando, avevano detto di non aver bisogno di una tata fintanto che c’era Flake. La sua morte aveva devastato Lucy, ma sembrava che la stesse superando.

Lucy spalancò la porta di camera. Individuò subito la sciarpa sul letto e la afferrò di slancio, finalmente pronta per andare alla fiera. Fece dietrofront e avanzò di un paio di passi verso il corridoio. Tuttavia, la porta le si chiuse in faccia con violenza prima che potesse oltrepassare la soglia, sigillandola all’interno. Strinse il pomello e lo strattonò, ma la porta non si smosse di un millimetro.

“Papà!” chiamò spaventata, bussando con foga sulla superficie di legno.

Il suo respiro era affannato, come se avesse corso una maratona. L’attacco d’asma incombeva su di lei. Purtroppo, non aveva con sé l’inalatore: lo aveva consegnato a suo padre per paura di perderlo, sbadata com’era.

Un rumore la fece voltare bruscamente. Lì per lì non vide nulla, complice il buio che ammantava la camera.

Lo sguardo le scivolò sul tappeto. Il fiato le si mozzò in gola e copiose lacrime di puro terrore le rigarono le guance.

Pensò di sfuggita che se Flake fosse stata ancora viva, l’avrebbe protetta con le zanne e con gli artigli. Ma lei non c’era più e Lucy era sola.

Una mano emerse piano da sotto il letto. Era nera, scheletrica, attaccata a un braccio così sottile da sembrare uno stecco, troppo lungo per essere umano.

Lucy avrebbe voluto urlare, ma i polmoni bruciavano e le labbra stavano diventando blu. Si sentiva soffocare. Le ginocchia cedettero e cadde prona sul pavimento.

Quando alzò di nuovo lo sguardo dinanzi a sé, si scontrò con una creatura che pareva uscita da una di quelle fiabe che suo padre le raccontava prima di addormentarsi. Però in quelle storie c’era sempre un eroe che, con il suo coraggio e una spada magica, sconfiggeva il mostro. Dov’era il suo eroe, ora?

Ebbe giusto il tempo di esalare un singhiozzo. Poi la mano della creatura le cinse il collo e la sollevò.

Mentre penzolava sospesa a mezz’aria, un’ultima lacrima eluse la barriera delle ciglia.

Infine, l’oscurità la reclamò.

 
*

Regan si svegliò di soprassalto. Non si era reso conto di essersi appisolato. Un grido gli risuonava nelle orecchie, una voce infantile che strillava “Papà!” a ripetizione, in un’eco che pian piano si affievoliva.

Sbatté le palpebre e mise a fuoco l’ambiente. Era seduto alla scrivania, davanti al computer. Si era addormentato mentre guardava Sweeney Todd. Poe sonnecchiava in fondo al suo letto, raggomitolato in una palla.

L’orologio sullo schermo indicava le cinque e venti del mattino. Aprì il sito del giornale locale e scandagliò le notizie. Non c’era ancora niente sulla nuova scomparsa, ma era sicuro che l’attesa non si sarebbe protratta a lungo.

Un’ora dopo, la notizia apparve sul sito. Il titolo dell’articolo riportava a lettere cubitali “L’Ombra di Ashwood Port reclama la sua quinta vittima”. L’Ombra, questo era il soprannome che i giornalisti avevano dato al “misterioso rapitore”. Guarda caso, era anche l’epiteto che aveva usato la donna di colore nella sua filastrocca per riferirsi al demone.

“Ieri pomeriggio, intorno alle sei, Lucy Hammond, 9 anni, è scomparsa mentre il padre, Albert Hammond, era in casa con lei.

Secondo la dichiarazione rilasciata dalla polizia, la famiglia stava andando alla fiera, quando la piccola Lucy si è accorta di aver dimenticato la sciarpa. Lei e il padre sono tornati a casa per recuperarla. Il signor Hammond afferma di aver atteso cinque minuti prima di raggiungere la figlia in camera. La porta era chiusa, ma non a chiave. Quando l’ha aperta, di Lucy non c’era traccia e la sciarpa era abbandonata sul tappeto.

Come negli altri casi, le finestre erano sigillate dall’interno e la perizia non ha riscontrato alcun segno di effrazione o impronte digitali sconosciute.

Con Lucy Hammond, il conteggio delle sparizioni sale a cinque. L’FBI sta valutando di dichiarare un coprifuoco.


Se qualcuno dovesse avere notizie di Lucy, è pregato di contattare il numero qui in basso.”

Regan esalò un sospiro stanco. Chiuse gli occhi e si passò le mani fra i capelli con crescente frustrazione. Si sentiva impotente, solo, senza nessuno su cui poter contare davvero.

Quando aveva letto il messaggio di Roman, qualche giorno prima, aveva provato rabbia. Non si era illuso di ricevere la piena collaborazione di Vincent, ma un po’ ci aveva sperato. Invece, l’alfa lo aveva tagliato fuori, ordinando a Roman di troncare qualsiasi contatto con lui. Roman gli aveva assicurato che non avrebbe obbedito al volere del padre, ma a Regan non era questo che interessava.

Regan voleva i libri. Voleva le informazioni. Non se ne faceva un bel niente di Roman se non poteva fornirgli queste due cose. Doveva trovare il modo di ottenerle da solo.

Il giorno seguente, per Capodanno, tutti si sarebbero radunati alla fiera. Nessuno se la sarebbe persa, specialmente con la promessa di uno spettacolo pirotecnico. Regan non aveva dubbi che i Sinclair si sarebbero uniti alle celebrazioni, cogliendo l’opportunità per mostrarsi per la prima volta a un evento pubblico come una famiglia. La gente già speculava su di loro, li consideravano una specie di setta hippie. Se desideravano costruirsi una solida reputazione e smentire le voci, dovevano venire alla fiera.

Un messaggio da Roman glielo confermò. Vincent Sinclair non gli sarebbe sfuggito.

 
*

“Sei pronto, leprotto?”

“Quasi.”

Regan finì di vestirsi, afferrò chiavi, portafoglio e cellulare e la raggiunse. Lei lo studiò con cipiglio critico, poi abbozzò un sorriso soddisfatto.

“Quel maglione grigio ti dona. Si abbina ai tuoi occhi.”

“Nessuno lo noterà, dato che terrò il cappotto per tutto il tempo.” sbuffò annoiato.

Deirdre ghignò saputa: “Non mi inganni, nipote. Lo vedo che sei impaziente. Oserei dire emozionato.”

“Pff! Ma fammi il favore.”

“Suppongo che Roman sarà alla festa.” disse in tono casuale, specchiandosi con finta aria indifferente nello specchio portatile che teneva in borsa per aggiustarsi l’impeccabile acconciatura.

“È probabile.” rispose neutro.

“Va tutto bene fra voi? Ti ho visto cupo negli ultimi giorni.”

“A meraviglia. Andiamo?”

“Non sei divertente.”

“È uno dei miei innumerevoli talenti.”

Deirdre roteò gli occhi, per poi fare una carezza sulla testa di Poe, che la osservava adorante appollaiato sul tavolo di cucina.

“Tu fa’ la guardia alla casa mentre non ci siamo.”

Il gatto miagolò e si strusciò sul suo braccio, avvolgendole la coda attorno al polso mentre faceva le fusa.

“Oh, ma quanto sei tenero! Piccolo e dolce amore della mamma. Chi è il più tenero felino del mondo? Sì, sei tu!”

“Nonna!” la richiamò spazientito Regan, fermo sull’uscio di casa.

“Arrivo, arrivo.” richiuse la borsetta, si abbottonò il cappotto e indossò guanti e sciarpa, “Ecco fatto. Su, in marcia.”

Giunsero alla fiera alle dieci. Le strade pullulavano di persone, famiglie con bambini, coppie, gruppi di amici. Tutti sorridevano. Alcuni passeggiavano tra le bancarelle di dolciumi, altri erano in fila per vedere le varie attrazioni. Due volanti della polizia e un’ambulanza stazionavano appena fuori dal cerchio di tendoni, nell’eventualità che qualcuno ne avesse bisogno.

Poco dopo, in mezzo al viale che separava le due file di bancarelle, Regan scorse i Sinclair. Ruby e Sean tenevano Trevor e Nina sulle spalle per dar loro la possibilità di ammirare il panorama dall’alto. Vincent e Tamara camminavano a braccetto, fermandosi di tanto in tanto a parlare con i venditori o assaggiare le leccornie esposte. Di Roman, però, non c’era traccia.

Ad un tratto, Regan vide Sean irrigidirsi. Seguì l’istinto e si nascose dietro un nutrito gruppo di marinai, che puzzavano di alcool da quattro soldi e pesce. Sean levò il naso per aria, ma poi scosse il capo e tornò ad ascoltare quello che diceva la figlia.

Regan esalò un sospiro di sollievo, prima di rimproverarsi e darsi del vigliacco. Perché diavolo si era nascosto? Lui voleva parlare con i Sinclair, non evitarli come la peste.

“Regan, che stai facendo?” gli chiese la nonna.

“Nulla. Tu che fai?”

“Penso che andrò a tenere compagnia alle altre vecchie comari. Tu hai già localizzato i tuoi amici?”

“Sì.” mentì.

“Ottimo. Non metterti nei guai. Ci vediamo dopo.”

“A dopo.”

Rimasto solo, decise di gironzolare per la fiera. Con un po’ di fortuna, avrebbe captato la scia di Roman prima che la festa raggiungesse l’apice. O che Lorie, Mike e le loro rispettive corti lo localizzassero tra la folla. Non aveva proprio nessuna voglia di farsi sballottare in qua e là e assordare dal cicaleccio.

Individuò Roman un’ora più tardi, di fronte al tendone colorato che ospitava gli equilibristi, non lontano dalla giostra. Era in compagnia dell’intera combriccola, meno qualche giocatore di basket.

Erano tutti laggiù, i popolari, un capannello di liceali impegnati a ridere e scherzare come se niente fosse e ingozzarsi di zucchero filato.

Strizzato tra due bancarelle, Regan osservò la scena con indifferenza. Era uno di loro anche lui, adesso. Avrebbe potuto raggiungerli, reclamare il suo posto, pretendere la loro attenzione e nascondersi lì in mezzo, ma respinse l’idea non appena si affacciò alla mente. Non era dell’umore adatto per fare il carino e fingere interesse.

Tornò ad osservare Roman. Lo vide immerso in una fitta discussione con Zack, mentre Jennifer gli stava attaccata al braccio come un parassita. Sbuffò, un pochino incredulo e parecchio deluso. Come poteva divertirsi, quello stupido di un licantropo, quando c’era un demone a piede libero?

Esalò un sospiro, infilò le mani nelle tasche del cappotto e voltò loro le spalle. Si addentrò nella bolgia a testa bassa, confondendosi tra la marea di gente assiepata sulla strada, incurante della direzione che aveva imboccato. Voleva solo allontanarsi. Non si accorse di come Roman dilatò le narici e fece saettare lo sguardo nel punto in cui si trovava pochi secondi prima, solo per scontrarsi con vuote ombre.

Il suo fiato si condensava in piccole nuvolette di vapore, che si disperdevano nell’aria dopo pochi secondi. Gli schiamazzi dei bambini e le voci concitate degli adulti facevano da sottofondo alla sua fuga attraverso bancarelle, giostre e tendoni.

Regan alzò lo sguardo verso il cielo, ma non c’erano stelle da ammirare. Spesse nubi si erano ammassate sulla città, oscurando gli astri. Almeno la neve aveva smesso di cadere.

Aveva appena superato la ruota panoramica quando inciampò su un bambino. Barcollò di lato e borbottò delle scuse, che gli morirono in gola nel momento in cui le sue orecchie registrarono l’ormai familiare sibilo. L’ansia gli annodò lo stomaco.

Si girò di scatto e cominciò a pedinare il bambino. Zigzagò per le bancarelle senza mai perderlo di vista. Sembrava che il bambino avesse una meta precisa in mente. Lo condusse lontano dalla fiera, in vicoli secondari deserti.

Presto, il rumore della folla venne inghiottito dal silenzio e Regan poté udire soltanto il ticchettio ritmico dei propri passi. Stranamente, quelli del bambino non producevano alcun suono.

Svoltò un’ultima volta a destra, nell’ennesimo vicolo a ridosso del porto. Si arrestò di colpo quando si rese conto che pure il bambino era immobile, di schiena. Con grande sconcerto, notò che indossava un pigiama azzurro con delle astronavi rosse. Non proprio l’abbigliamento più adatto per la stagione.

Regan smise di respirare nell’esatto istante in cui il bambino si girò.

Era Timothy Bruce, impossibile sbagliarsi. Aveva memorizzato il suo viso dopo averlo visto su decine di volantini. Eppure, appariva più emaciato, pallido e magro. I corti capelli biondi erano tagliati a scodella e la frangia incorniciava due occhi vitrei, privi di vita, e una bocca cucita con del filo nero.

Mentre Regan guardava, gli occhi bianchi di Timothy si infossarono, cedendo il posto a due orbite nere.

Teresa apparve alla destra di Timothy. Anche lei aveva le labbra cucite e gli occhi completamente bianchi, che si infossarono dopo qualche secondo.

Successivamente, dall’oscurità emersero Rupert, Evelyn, Joshua e la piccola Lucy.

I lampioni intorno a loro sfarfallarono e si spensero, precipitandoli nel buio.

Regan ci mise qualche istante per abituarsi al cambiamento. Non appena la sua vista si adeguò all’assenza di luce, si pietrificò e avvertì il sangue gelarsi nelle vene.

Il demone si stagliava innanzi a lui, alle spalle delle sue vittime. Il sibilo crebbe d’intensità, cancellando persino il suono del respiro e del battito di Regan.

I suoi sensi andarono in tilt. Le zanne scesero dalle gengive, le unghie si trasformarono in artigli affilati e le sue iridi rifulsero di un bagliore infernale.

“Chi sei?” proferì con voce cavernosa.

Il sibilo si trasformò in un coro cacofonico di urla, che pian piano presero forma. Più Regan ascoltava, più riusciva a distinguere lettere e sillabe. Infine, la sua mente elaborò ciò che quelle voci stavano ripetendo a oltranza.

“Io nasconderò loro il Mio volto e vedrò la loro la fine; sguinzaglierò demoni su di loro e i denti delle bestie velenose che strisciano nella polvere.”

Anche se non aveva mai sentito qualcuno parlare la lingua che stava ascoltando, il suo cervello tradusse subito senza alcuna fatica.

Quando le grida divennero assordanti, costringendolo a tapparsi le orecchie con le mani, il demone e le sue vittime scomparvero. I lampioni si riaccesero e i rumori della fiera riempirono di nuovo l’aria. Il vicolo era deserto.

Ancora scosso, si sforzò di regolarizzare il respiro. La cosa più saggia da fare sarebbe stato avvertire sua nonna. Tuttavia, decise di aspettare. Deirdre meritava di godersi la notte di Capodanno in pace. L’avrebbe informata l’indomani.

Il trillo del telefono lo fece sobbalzare. Borbottò imprecazioni colorite. Sfilandolo dalla tasca con mani tremanti, vide che aveva ventidue di messaggi non letti e una decina di chiamate perse da parte di Roman, Derek, Lorie, Mike e Deirdre. Da lontano, sentì un coro di gente che intonava il conto alla rovescia.

“…tre… due… uno…”

Fuochi d’artificio esplosero nel cielo, sopra il porto, e urla di giubilo si innalzarono per tutta la città.

 
*

La mattina seguente, Regan portò in cucina uno dei libri che gli aveva prestato Vincent, i suoi appunti personali sul demone, i volumi di demonologia che aveva preso in prestito giorni prima dalla biblioteca comunale e il computer. Deirdre, invece, piazzò sulle sedie la cappelliera con le erbe e le scatole dei cristalli. Lo scrigno dei tarocchi venne posato sul tavolo, nel caso in cui le venisse voglia di leggerglieli di nuovo.

“Allora, di cosa volevi parlare?” esordì la donna, occhieggiando curiosa il materiale che Regan stava ancora organizzando sul tavolo.

“Ieri, alla fiera, mi è successa una cosa. Ci arriverò per gradi. Per cominciare, lo vedi questo libro? Me lo ha prestato il signor Sinclair.” Regan brandì un tomo rilegato in pelle marrone, “Parla solo di vampiri, non di ibridi, ma durante la lettura mi sono imbattuto in un passaggio che ho trovato comunque utile per capire l’origine dei miei poteri. In un capitolo c’è scritto che alcuni vampiri possiedono capacità psichiche simili alle mie. Per esempio, sono in grado di mettersi in contatto con l’aldilà o vedere i fantasmi. È un potere raro, vantato solo dai più anziani. Detto ciò, la mia teoria è: o i vampiri che hanno ucciso mia madre erano anziani e mi hanno inavvertitamente trasmesso tali capacità, o io sono potente quanto un anziano. Entrambe sono alquanto improbabili, ma non impossibili.” sfogliò il libro e lo aprì al capitolo che menzionava l’argomento, “Il punto che ho trovato più interessante è qui, dove spiega l’origine delle capacità psichiche. Esse sono riscontrabili in una modesta gamma di creature, ma mai nei vampiri. Quelli che le possiedono, oltre a essere anziani e molto potenti, erano streghe o stregoni che sono stati vampirizzati.”

Alzò lo sguardo sulla nonna per studiare la sua reazione. La scoprì impassibile. Continuando a fissarla in silenzio, notò un leggero irrigidimento degli arti.

“So che io e te non siamo imparentati, perciò ti chiedo: devi dirmi qualcosa?”

“No.” rispose Deirdre, troppo sbrigativamente per risultare convincente.

“Nonna.”

“Va’ avanti.”

Regan si morse la lingua per impedirsi di insistere. Se sua nonna non voleva parlare, niente l’avrebbe smossa. Non significava che Regan avrebbe accantonato la questione, doveva solo aspettare il momento giusto per ritirarla fuori. Per ora schiacciò la curiosità in fondo alla coscienza e si impose di restare concentrato.

“Secondo questo libro, i poteri psichici sono un’arma a doppio taglio: permettono di vedere ciò che è celato e, al contempo, espongono la persona agli influssi del mondo spirituale. Della serie, se guardi dentro l’abisso, l’abisso guarderà dentro di te. Se questo è vero, esiste la concreta possibilità che il demone non solo sappia chi sono, ma che mi stia anche usando per aggiungere un po’ di pepe al suo gioco.”

“Stai dicendo che ti conosce?”

“Non so se mi conosce, ma non è da escludere. Non sappiamo di cosa sia capace, cosa abbia visto, o da quanto tempo sia in circolazione.” disse, lasciando che Deirdre unisse i puntini da sola, “Credo che mi abbia provocato sin dall’inizio, a partire dal primo incubo.”

“Non capisco, Regan.”

“Le voci? La musica orientale? Le visioni? Le apparizioni? Specchi per le allodole, provocazioni belle e buone, e tutte egualmente inutili. Non mi hanno condotto mai a niente. E poi i fantasmi non parlano, nonna. Perché hanno cominciato proprio pochi giorni prima della scomparsa di Teresa?”

“Vogliono avvisarti del pericolo.”

“Infatti ho salvato tutte le vittime, grazie a loro.” sbuffò sarcastico, “Per favore, rifletti. Riporta alla mente tutte le occasioni in cui un fantasma mi ha parlato, il momento e le loro parole.”

Deirdre tacque per un paio di minuti, il viso contratto in un’espressione assorta. Poi, pian piano, essa mutò in una maschera di sgomento.

“Eri sempre solo. A parte nel caso di Elizabeth, che si è mostrata a te mentre eri con Derek. Ma Derek non vede i fantasmi, quindi non c’era pericolo che interferisse. Quando sono sopraggiunta io, Elizabeth è scomparsa. Pensi che… quelli non fossero fantasmi?”

“Esatto. Sappiamo che gli spiriti dei defunti vengono portati via dai Mietitori subito dopo il funerale. Quelli che riescono a non farsi prendere diventano spettri e si dilettano a tormentare i vivi. Quelli che ho visto io non erano spettri, ma nemmeno fantasmi. Tutti mi sono apparsi giorni dopo essere stati sepolti.”

“Allora, cosa…?” balbettò confusa Deirdre.

Regan mise da parte il libro, aprì il quaderno degli appunti e sfogliò le pagine finché non trovò ciò che voleva.

“Ho pensato a due possibilità: o quelli erano fantasmi e il demone riesce a manipolarli, nonché a tenerli nascosti ai Mietitori, o sa come crearne un’illusione realistica, tanto da distorcere le mie percezioni. Gli indovinelli, le filastrocche, le frasi senza senso: non dovevano aiutarmi, ma farmi credere che volessero aiutarmi. Focalizzandomi su questo, intrigato sia dall’insolito avvenimento che dalle loro parole ingarbugliate e sconclusionate, convinto che avessero un significato, la mia confusione non ha fatto che aumentare. Mi ha mandato fuori strada o mi ha costretto a girare in tondo, mentre lui continuava a banchettare indisturbato.”

Deirdre scosse il capo: “La filastrocca parlava di Timothy. Perché fornirti un indizio se vuole solo confonderti?”

“Quand’è che ho capito che si trattava di Timothy?” 

“Quando era già troppo tardi.” sospirò consapevole la donna.

“Quand’è che ho capito che Matthew parlava di Teresa, o che Elizabeth parlava di Rupert, o che il corvo aveva un ruolo nella scomparsa di Evelyn e il gatto in quella di Lucy? Stessa risposta. Erano inganni camuffati da indizi. Sapeva che non avrei mai capito in tempo chi sarebbe stata la prossima vittima. È un gioco. Il suo gioco. E io sono una semplice pedina. Anzi, un giullare.” sibilò tra i denti, “Come osa? Venire a caccia nel mio territorio e prendermi per i fondelli così? Come osa?”

“Ma se è stato tutto in inganno… insomma, che senso ha? A cosa mira?”

“Divertirsi a mie spese mentre si riempie la pancia, magari.”

“Perché proprio te?”

“Questa è la vera domanda. Ma andiamo avanti.” indicò la pila di libri della biblioteca, “Sui libri di demonologia che ho consultato, ho trovato parecchi riferimenti a demoni che si manifestano come serpenti, ma mi sono reso conto che non è quello che cerco.”

“Perché no?”

“Innanzitutto, il demone non si è mai manifestato a me o ad altri in forma di serpente. Sì, c’è stato quel tizio di cui ha parlato Hillary, che ha detto che i serpenti gli avevano ordinato di suicidarsi, ma li ha visti davvero? O ha udito soltanto dei sibili, come è successo a me? Inoltre, la filastrocca diceva che un’ombra ha catturato un serpente e gli ha strappato la voce. Ergo, si serve di un serpente, ma non lo è.”

“Se così fosse, il campo si allargherebbe.”

“Non esattamente.” le rivolse un piccolo sorriso e girò verso di lei lo schermo del computer, “Ieri notte, le vittime del demone mi sono apparse. Tutte quante e nello stesso momento. Con il demone al seguito, ovvio. Quando gli ho chiesto chi fosse, nell’aria ho sentito un coro di voci urlanti, che presto si sono messe a recitare un breve passo del Deuteronomio, uno dei libri del Tanakh, la bibbia ebraica.”

Deirdre si mise a leggere il pezzo di testo evidenziato. Via via che proseguiva nella lettura, le sopracciglia si aggrottarono in palese confusione.

“La frase che ti hanno detto viene proferita da Dio. Il demone non è Dio.”

“Grazie, lo so. Ma guarda a che proposito la dice.”

“Gli ebrei avevano adorato divinità straniere…?”

“La parola ebraica è Shedim. Indica entità demoniache.” Regan prese uno dei libri di demonologia, lo aprì al segno che aveva lasciato e si mise a leggere, “Esistono tre tipi di Shedim: i Ruchot, che sono una specie di spiritelli, i Masiqim, responsabili delle epidemie, e i Chabalim. Il significato del nome di questi ultimi è ‘distruttori’, e solo loro nuocciono agli uomini. Sono legati ai serpenti, parlano con la loro lingua.”

“I sibili.”

“A-ha.”

“D’accordo, mettiamo che sia un Chabalim.” Deirdre intrecciò le mani sul tavolo e assunse un’aria pensierosa, “Perché avrebbe dovuto dirtelo? Insomma, non credi sia sospetto che ti abbia fornito la risposta con tanta facilità? Prima hai detto che ti ha ingannato con i fantasmi.”

A quelle parole, Regan si bloccò: “Oh. In effetti…”

“Abbiamo appurato che hai una connessione psichica con il demone. E lui lo sa, Regan. Deve saperlo, altrimenti qual è il motivo di tutti quegli inganni? Forse è stato il demone stesso a instaurarla volontariamente. Non credi che la userebbe a suo vantaggio? Se io fossi al suo posto, vorrei continuare a cacciare indisturbato. Per farlo, dovrei togliere di mezzo chiunque ostacoli il mio cammino. Dato che sono un demone, la mia arma principale è l’inganno, perciò lo sfrutterei per confondere le acque e indirizzare su una falsa pista coloro che mi minacciano.”

“Quindi?”

“C’è la possibilità che non sia un Chabalim, ma vuole che tu lo creda per farti cadere in trappola. I demoni sono subdoli per natura.”

“Oppure è sul serio un Chabalim e sapeva che, dicendomelo, non ci avrei creduto e mi sarei messo a girare in tondo in cerca di un’altra verità.” replicò.

“Sembra il paradosso dei cretesi.” mormorò Deirdre tra sé e sé.

“Cos’è?”

“Un giorno, un cretese disse ‘Tutti i cretesi sono bugiardi’. È la verità, nonostante lui sia cretese e, quindi, un bugiardo, oppure è una menzogna, dal momento che è cretese e bugiardo? Nel primo caso, il cretese è un bugiardo che, per una volta, dice la verità; nel secondo, è un uomo onesto che, per una volta, mente. Come si fa a capire quale è delle due?”

“Mi si sta intrippando il cervello.”

“Abbiamo a che fare con un paradosso. Il demone, attraverso le voci delle sue vittime – perché, secondo me, non sono state loro a decidere spontaneamente di parlare – ti ha fornito una risposta. Data la sua natura, è assai probabile che ti abbia mentito. Oppure, potrebbe averti detto la verità per una volta, tanto per vedere cosa avresti fatto. Però, rifletti. Quando rivelo al mio nemico le mie debolezze, è perché sono sicura di batterlo comunque. Lo faccio solo per soddisfare una curiosità, per scoprire come trarrà vantaggio dalla conoscenza e divertirmi un po’, sebbene io sappia già che i suoi sforzi, alla fine, saranno vani. Il demone forse sta facendo lo stesso con te. In caso contrario, ti ha semplicemente rifilato una menzogna per lasciarti, come hai detto tu, a girare in tondo su te stesso in cerca di indizi che non esistono. Devi stare attento, Regan. Non hai a che fare con un umano, ma con una creatura forte e molto intelligente.”

Al ricordo delle parole di Vincent che gli aveva riferito Roman, Regan raddrizzò la schiena e fissò Deirdre scioccato.

“Sono compromesso.” realizzò con un fil di voce, “Non posso più fidarmi di ciò che vedo, sento, sogno… merda. Nonna, che faccio?”

“Calmati. Cedere al panico non ti aiuterà. Cosa ti ho detto a proposito delle emozioni?”

“Che saranno la mia rovina se non le controllo. Hai ragione, scusa.”

Prese ampi respiri e si concentrò sul battito del proprio cuore, incoraggiandolo gentilmente a tornare regolare. Imbrigliò l’ansia, la paura e la rabbia in una rete e le trascinò giù, nei recessi della coscienza. Infine, spazzò via i dubbi e le incertezze e immaginò di trovarsi in mezzo a un deserto arido, freddo, dove nulla poteva toccarlo. Quando riaprì gli occhi, era di nuovo padrone di se stesso.

Il campanello suonò. Deirdre gli scoccò un’occhiata eloquente. Raccolse erbe, cristalli e libri e andò a nasconderli velocemente dentro gli sportelli della cucina. Regan spense il computer e andò ad aprire a Roman.

“Ciao. Scusa se ti ho chiamato così presto, ma è urgente.”

Roman borbottò parole insensate e si trascinò dentro casa come uno zombie. Deirdre salutò calorosamente il licantropo, poi salì le scale per andare in camera a vestirsi, dato che era ancora in vestaglia.

“Spero che sia importante. Ho dovuto rifilare una scusa a mio padre e non credo che se la sia bevuta. Se scopre che sono qui, saranno dolori.” disse Roman mentre si lasciava cadere a peso morto su una delle sedie in cucina.

“Ciò che ho scoperto gli sarà utile.”

Roman grugnì. Quando Regan lo aveva chiamato, strappandolo brutalmente a un bellissimo sogno, era saltato giù dal letto per correre da lui. Dalla voce gli era parso agitato, ma a vederlo ora era il ritratto della calma. Annusandolo, Roman captò una vaga scia di ansia, coperta da strati e strati di completo e terribilmente inquietante nulla. Aggrottò le sopracciglia, confuso.

“Ma tu sei venuto ieri alla fiera? Non ti ho visto.”

“Ero con mia nonna.” rispose Regan, “Ora sta’ zitto e ascoltami. Ieri notte, il demone mi ha contattato una quarta volta. Ha usato Timothy Bruce per attirarmi in un vicolo, lontano dalla fiera. Lì le sue vittime mi hanno rivelato la sua natura. È uno Shedim, come ti ho accennato al telefono. Un demone della mitologia ebraica.”

Tenne per sé i nuovi dubbi che Deirdre aveva fatto sorgere in lui poco prima. Infatti, se Roman avesse adottato la pista dello Shedim, Regan sarebbe stato più libero di vagliare altre ipotesi senza distrarsi.

 “Ti ha contattato ieri notte?” esclamò, improvvisamente sveglio.

Regan gli lanciò un’occhiata carica di sussiego: “Buongiorno, Roman. Gradisci una tazza di tè per svegliarti?”

“Non è colpa mia se sono rallentato, hai interrotto il mio sonno. Sono andato a letto alle quattro del mattino e adesso sono appena le…” guardò l’ora sul cellulare, “Ma che cazzo, Regan. Sono le nove!”

Il moro roteò gli occhi e gli diede un paio di schiaffetti leggeri sulla guancia.

“Sorgi e splendi, principino. Comunque, dicevo, si tratta di uno Shedim. In particolare, ritengo sia un Chabalim. Non ne ho le prove, ma vale la pena tentare questa strada. Riferiscilo a tuo padre, così-”

“Dov’è Poe?” lo interruppe Roman.

“Chi se ne frega del gatto!” sbottò il moro.

Il licantropo sussultò per lo spavento: “Wow. Non ti ho mai visto ridotto in questo stato.”

Regan si massaggiò l’attaccatura del setto nasale con due dita e inspirò lentamente.

“Sei insopportabile.”

“Da che pulpito! Okay, sono sveglio. Ti ascolto. Non fissarmi con quella faccia da serial killer! Dico davvero, ci sono. Puoi riassumermi i punti principali della tua scoperta?”

“Che cosa ti ricordi?”

“Demoni ebraici… championship…”

“Chabalim.”

“Ci sono andato vicino.”

Regan rilasciò un sospiro esasperato. Quindi ricapitolò le sue scoperte, narrando di nuovo gli eventi della notte di Capodanno.

“Timothy Bruce è vivo?”

“No, è morto.”

“Ma se era davanti a te, in piedi… ha pure camminato! Oh! Era uno zombie?”

“Penso che fosse un’illusione, o un retaggio visibile della sua anima. Il demone li divora, Roman. Quello era… un rigurgito. Un’esca. Per me.”

Roman fece una smorfia disgustata quando immaginò il demone che vomitava un pezzo di anima.

“Okay. Shedim. Chabalim. Ricevuto.”

“C’è anche un’altra cosa, Roman.”

“Mh?”

“Forse tuo padre ha ragione. È probabile che il demone abbia qualcosa in serbo per me, dato che sono l’unico a cui si è manifestato più di una volta. Sono compromesso.”

“Regan, non-”

“Dirai a tuo padre di cercare tutte le informazioni che esistono sui Chabalim. E tu, caro lupacchiotto,” puntò lo sguardo deciso su Roman, “d’ora in poi dovrai starmi lontano. Se il demone ha in mente qualcosa per me, non si farà scrupoli a coinvolgere le persone che mi ronzano intorno. Contattami pure per telefono, ma non avvicinarti. Non puoi prevedere che cosa potrei fare sotto l’influsso di una creatura tanto maligna. Promettimelo.”

“Regan, ho giurato che avremmo affrontato questa sfida insieme. Non ti volterò le spalle per salvarmi la pelliccia.” ribatté, alzandosi in piedi, “Non puoi sconfiggerlo da solo. E se davvero sei una sua marionetta, avrai bisogno di qualcuno che tagli i fili.”

Regan lo afferrò per il giubbotto e lo sospinse con decisione verso la porta: “Ti chiamerò. Abbi cura di te. Se ci saranno novità, ci aggiorneremo a vicenda.”

Roman puntò i piedi sul portico e fece resistenza, ma, prima che potesse aprire bocca per protestare ancora, Regan gli sbatté la porta in faccia.

Rimasto solo, Regan strinse i pugni e si morse a sangue la lingua. Si ripeté che aveva fatto la cosa giusta. Allontanandolo, avrebbe tenuto Roman al sicuro. Non aveva idea di come o quando fosse successo, ma si era affezionato a quel cucciolo rognoso. Non voleva che gli accadesse qualcosa.

La giornata passò lenta, all’insegna di ricerche sulla demonologia e mitologia ebraica. Nel pomeriggio, Deirdre riemerse dal seminterrato e andò a farsi una doccia. Quando si fu rivestita, invitò Regan a raggiungerla in cucina. Nell’attesa, si mise a preparare il tè.

Seduto a tavola con una tazza di tè bollente fra le mani, Regan notò la sua espressione e si preoccupò.

“Di che si tratta?” chiese esitante.

Deirdre prese posto sulla sedia accanto a lui e tergiversò. Questo, più della postura rigida e dello sguardo sfuggente, allertò Regan.

“C’è una cosa che ti ho tenuto nascosta da quando sei nato.” mormorò nervosa, “Prima hai detto che le abilità psichiche si riscontrano nei vampiri che, una volta, erano streghe o stregoni.”

“Sì. E…?”

“Tua madre, Shannon, era una strega.” dichiarò senza mezzi termini, scoccandogli un’occhiata intensa, “Ciò fa di te uno stregone. La magia è ereditaria, come sai. Sono rarissimi i casi come il mio, in cui il figlio di una strega e uno stregone nasce privo di poteri. Tu sei uno stregone vampirizzato. In un modo anticonvenzionale, ma sei stato vampirizzato. Sangue di stregone più sangue vampiro, uguale: poteri psichici.”

Regan sbatté le palpebre varie volte, faticando a digerire la notizia.

“Una strega.” ripeté scettico dopo un minuto di totale silenzio.

“Il suo nome non era Shannon Tally, ma Shannon Morgan. La congrega Morgan discende dall’antica dinastia dei Morrigan, che ha radici in Irlanda e in Galles. I Morgan sono ancora molto riveriti in tutti i circoli di streghe del mondo. Sono una leggenda. Anche in passato erano considerati come una specie di famiglia reale. Si dice che la prima strega Morgan, o Morrigan, come dir si voglia, sia vissuta all’epoca dei vichinghi e che la più potente abbia dato il nome alla congrega: colei che è passata alla storia come Fata Morgana. Secondo la tradizione, il loro potere ha origine da niente meno che Arawn, il dio gallese dell’oltretomba. Dopo aver seguito i primi coloni in America, scelsero di chiamarsi Morgan, che era più diffuso e meno altisonante, sia per mimetizzarsi tra la gente comune, sia per non attirare le attenzioni dei cacciatori e di altre creature che si erano inimicati.”

Regan la scrutò per lunghi istanti, aspettandosi di vederla scoppiare a ridere da un momento all’altro. Ma Deirdre mantenne l’aria solenne, segno che era mortalmente seria.

“Mia madre era una strega.” articolò, scandendo bene le parole.

“Sì. Una strega Morgan, per l’esattezza.” ripeté paziente, “Quando arrivò ad Ashwood Port, cambiò il suo cognome in Tally. Mi disse di essere stata disconosciuta per la sua tresca con tuo padre e per tale motivo non poteva più fregiarsi del nome dei Morgan.”

“Perché me lo stai dicendo solo adesso?” le domandò in tono pacato, anche se dentro ribolliva di rabbia e delusione.

“Avevo paura che reagissi male alla scoperta. Te lo avrei rivelato, credimi, ma più avanti, quando avessi compiuto diciotto anni. Se non fosse per questo dannato demone…” scrollò il capo e gli rivolse un sorriso amaro, “Per sconfiggerlo ti serviranno armi che ancora non possiedi, che io non posso darti. Io so dove risiedono oggi i Morgan, ti manderò d loro. Condividi con loro il sangue, appartieni alla congrega per diritto di nascita. Va’, impara l’arte occulta e scopri come bandire un demone.”

Regan si rabbuiò e prese a mordicchiarsi l’unghia del pollice: “Nonna.”

“Mh?”

“Quei due vampiri l’hanno uccisa perché era una strega?”

“Non lo so.”

“E se era una strega, perché non ha usato la magia per proteggersi?”

“Ti stava partorendo. Il suo corpo era già sotto sforzo. Non ne ha avuto la possibilità.”

“Dici che hanno aspettato che fosse vulnerabile per attaccarla?”

“Io non lo so.” reiterò in un sussurro Deirdre, “Ma, forse, i Morgan potranno rispondere alle tue domande.”

“Non credo. Hai detto che Shannon è stata disconosciuta. Io sono suo figlio, non ho alcun diritto di reclamare il mio posto tra loro. Non penso che mi accoglieranno a braccia aperte.”

“Non si dovrebbe ritenere i figli responsabili degli errori dei propri genitori.”

“No, ma spesso è così.”

“Fa’ un tentativo.”

“Pensi che potrebbero davvero aiutarmi con il Chabalim, o quello che è?”

“La magia è come un albero che affonda le radici in tutte le religioni del mondo. Una cosa richiama a un’altra, e un’altra ancora. È tutto collegato. Bisogna solo capire quale rituale usare e quali ingredienti. Ma, in particolare, occorre il potere. Se tu lo nutrirai, sono certa che diventerai abbastanza forte da contrastare il demone. E ti aiuterebbe anche a controllare la sete.”

“Perché?”

“Sei un ibrido. Il segreto sta nel trovare il giusto equilibrio nella tua duplice natura. Finora, la parte vampira ha regnato indiscussa sull’altra, poiché non sapevi di avere sangue magico nelle vene. Credo che, se svilupperai la parte che hai ereditato da Shannon, sarai in grado di bilanciare il vampiro. Allora, non avrai più problemi di gestione della rabbia o degli impulsi animali che governano il vampiro.”

“Sembra allettante. Dove abitano i Morgan?”

“Athens, Ohio.”

Mentre Regan riaccendeva il pc per prenotare i biglietti dell’autobus, mormorò: “Non posso ancora perdonarti per aver taciuto. Ci vorrà un po’, suppongo.”

“Certo, lo capisco. Mi dispiace.”

Regan mugugnò distrattamente. Il sito che stava consultando diceva che la partenza più vicina sarebbe stata il 5 gennaio, ossia lunedì. Il pullman sarebbe partito da Salem nel tardo pomeriggio.

“Cosa farai fino a lunedì?” chiese Deirdre.

“Devo finire i compiti delle vacanze.”

“Non sei divertente quando sei così responsabile.”

“È uno dei miei pochi difetti.”

Deirdre mascherò il sorriso dietro uno sbuffo scocciato e accolse Poe sulle ginocchia.

La sera, dopo cena, Regan scrisse un messaggio a Roman, dove lo informava che si era messo in contatto con un rabbino di una sinagoga in Ohio, nella speranza di ricevere ulteriore aiuto e delucidazioni sulla minaccia che stavano fronteggiando. Si sarebbe recato lì per un consulto a partire da lunedì e sarebbe stato via al massimo una settimana. L’amico ci rimase male, perché Regan si sarebbe perso il suo diciottesimo compleanno, ma alla fine capì. Sconfiggere il demone era più importante.

Rifilò la storiella anche a Derek, quando il cacciatore venne a trovarlo domenica. Gli raccontò quanto era accaduto a Capodanno e si scusò per non aver fatto rapporto subito, ma voleva essere sicuro della sua teoria. Se la fortuna lo avesse assistito, avrebbe trovato le conferme che cercava in Ohio. Cosa che pianificava di fare, tra le altre cose, quindi non era una bugia. Derek non parve contento, avrebbe voluto accompagnarlo, ma Regan rifiutò.

Lunedì pomeriggio, in piedi in mezzo all’ingresso con un borsone sulla spalla, Regan salutò Deirdre con un freddo cenno del capo. Lei lo abbracciò stretto e gli raccomandò di stare attento. Regan non le rispose. Ce l’aveva ancora con lei per avergli nascosto un dettaglio tanto importante sulle sue origini. Non capitava spesso di scoprire di essere figlio di una strega. Tutto quel tempo sprecato, quando avrebbe potuto iniziare a studiare la magia sin da bambino!

Porca vacca, sono mezzo stregone! È una figata pazzesca! Mi daranno una bacchetta magica?

Fischiettando C’est Si Bon di Louis Armstrong, uscì e raggiunse a piedi la stazione degli autobus, per prendere quello diretto a Salem. Da lì, sarebbe salito sul pullman per l’Ohio.

Destinazione: Athens.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Coven ***








 
Il pullman raggiunse la stazione con venti minuti di ritardo, alle dieci e quaranta della notte del 5 gennaio. Aveva fatto una lunga sosta a Boston, di almeno un’ora, e poi altre fermate intermedie.

Regan chiuse il blocco da disegno, sul quale aveva abbozzato il lupo del suo sogno, lo rinfilò nel borsone e stiracchiò i muscoli indolenziti. Fece una smorfia e grugnì quando sentì un paio di vertebre scrocchiare. Indossò il giubbotto, si caricò in spalla il borsone e si accodò agli altri passeggeri per scendere dal pullman.

Non appena mise i piedi a terra, una folata di vento gli scompigliò i capelli. Alzò lo sguardo sul pannello di benvenuto della stazione, sul quale c’era scritto “Benvenuti ad Athens – Ohio”. Esalò un sospiro stanco e si diresse al banco informazioni per chiedere quanto distava il motel più vicino.

Lo raggiunse dopo dieci minuti, camminando spedito a testa bassa, le mani seppellite nelle tasche del giubbotto. Percepiva qualcosa nell’aria, come una corrente elettrica. Attraversò il parcheggio semi deserto del motel in direzione della reception. L’uomo dietro il divisorio di plexiglass aveva una barba incolta e i capelli unti e indossava una camicia da boscaiolo azzurra su una maglietta bianca sporca di ketchup. Regan nascose il disgusto e si impose di respirare dalla bocca.

Il tizio neanche gli chiese i documenti, gli fece solo firmare il registro degli ospiti e gli consegnò la chiave. Regan la prese e, per il resto della notte, si barricò in camera. Sdraiandosi sul letto cigolante dopo una veloce capatina in bagno, si augurò di riuscire a riposare, poiché il giorno successivo sarebbe stato alquanto stressante.

Siccome desiderava una notte tranquilla, l’incubo tornò a fargli visita. Avanzando nel buio, a un certo punto scorse il solito grammofono e udì le solite voci e i sibili. Fin qui tutto normale. Ma quando i sibili cedettero il posto alla melodia orientale, in lontananza registrò un movimento. Lì per lì credette di esserselo immaginato. Non appena lo vide di nuovo, si rese conto che somigliava a una figura prona, rannicchiata, con uno strano cappello fatto di aculei. O forse erano i suoi capelli, acconciati come aculei. Oppure aveva aculei al posto dei capelli. Impossibile dirlo, data la densa oscurità che circondava la figura. Non riuscì a vedere nient’altro, perché la mano scheletrica del demone afferrò la punta di lettura del grammofono e interruppe la melodia, e così il sogno.

La sveglia sul cellulare suonò alle sette e mezzo. Regan grugnì e si avvolse di più nelle coperte che odoravano di muffa. Sottili lame di luce filtravano dalle tende tirate, rischiarando la camera quel tanto da distinguere i contorni dell’arredamento spartano: comodino, tavolo, due sedie di legno, televisione, cassettone e specchio a figura intera. Il suo borsone giaceva sul letto accanto, assieme al giubbotto.

Le immagini dell’incubo continuarono a venire riprodotte in loop dietro le sue palpebre chiuse. Grugnì seccato e aprì gli occhi cisposi, scalciando le coperte in fondo al letto. Ancora mezzo addormentato, afferrò il cellulare dal comodino e scrisse a Deirdre un breve messaggio. Senza attendere risposta, si alzò e andò in bagno. Dopo una doccia veloce, si rivestì, prese il borsone e lasciò il motel per andare a fare colazione.

Comprò un caffè e un muffin al bar all’angolo, optando per mangiare lungo la strada. Camminò a passo sicuro, avendo già memorizzato il nome della via e il percorso per raggiungere la casa di colei che, secondo Deirdre, era la sua vera nonna: Sheila Morgan. Shannon non aveva mai fornito a Deirdre altri dettagli oltre al nome. Regan si augurò che non gli sbattesse la porta in faccia. Aveva bisogno di alleati, un mentore, delle risposte, non di un altro nemico.

Arrivò all’indirizzo un’ora più tardi. Era una piccola casa a due piani, con un minuscolo giardino sul davanti e un delizioso cancello in ferro battuto che si affacciava sulla strada, accanto a una cassetta delle lettere. I muri esterni erano color indaco. Sui davanzali di ogni finestra c’erano vasi di gerani e, sul lato destro del giardino, un albero di limoni. Sembrava una di quelle villette pubblicizzate sulle riviste immobiliari.

Il cancello era aperto, così entrò, ma senza abbandonare la prudenza. Quella era la casa di una strega, e Regan non aveva idea di quanto fosse potente. Per quel che ne sapeva, potevano esserci incantesimi di protezione che lo avrebbero incenerito non appena avesse messo un piede in fallo.

Percorse lo stretto e corto vialetto lastricato fino alla porta. Non venne respinto da alcuna barriera e la contò come una vittoria. Tuttavia, la vera impresa sarebbe stata farsi invitare a entrare in casa senza insospettire Sheila. Deirdre gli aveva ripetuto che tra vampiri e streghe, come tra vampiri e licantropi, scorreva cattivo sangue. A quel punto, iniziò a domandarsi se i vampiri avessero amici, o se fossero i perdenti del mondo soprannaturale.

Trasse un profondo respiro e sollevò una mano per premere il campanello. Attese qualche secondo. Le sue orecchie colsero il battito di un cuore e il rumore di passi in avvicinamento. Perlustrò la strada con lo sguardo, appurando di non essere osservato. Quando la porta si aprì, si voltò di scatto con un sorriso nervoso.

Una donna sulla settantina si stagliava nell’ingresso, una mano stretta attorno alla maniglia e l’altra sullo stipite, a bloccare il passaggio. Aveva lunghi e lisci capelli neri, appena striati di grigio, raccolti in una coda bassa tramite un fermaglio alla base del collo. I suoi occhi erano di un azzurro tenue, gli zigomi alti, il naso dritto e affilato. Agli angoli della bocca e intorno alle orbite esibiva sottili rughe d’espressione. Indossava un vestito borgogna e pantofole rosa. Alle orecchie sfoggiava un paio di orecchini a forma di farfalla. Una fede le ornava l’anulare sinistro e un anello con una pietra nera il medio della mano destra.

“Sheila Morgan?” chiese, una volta terminato di farle la radiografia.

“Sì?”

La sua voce era bassa, un po’ roca. Regan annusò l’aria con discrezione. A giudicare dal tanfo di nicotina che appestava la casa, Sheila era una fumatrice incallita.

“Sono Regan McLaughlin, vengo da Ashwood Port.” si presentò educato.

“Cosa posso fare per te, Regan?”

Regan ponderò la risposta per qualche secondo. Non voleva rischiare di dire la cosa sbagliata e farsi cacciare in malo modo. Se Sheila era potente come Regan credeva, sarebbe bastato un niente per finire nel mirino della congrega, situazione che puntava a evitare a tutti i costi. Invece, rivelando subito un pezzo di verità, e dandogli così prova della sua buona fede, magari l’avrebbe convinta ad ascoltarlo.

Non avrebbe rinunciato solo per paura di innescare l’ira di una strega. Aveva fatto troppa strada per fermarsi al primo ostacolo e, se c’era un tratto della sua personalità di cui andava fiero, era la determinazione.

“Sono il figlio di Shannon.” snocciolò in fretta, prima che potesse rimangiarsi le parole.

La donna sbiancò, impietrendosi sul posto. Siccome non pareva propensa a uscire dallo stato di shock in cui era piombata, Regan continuò a spiegare.

“Sono qui per chiedere aiuto, non per creare problemi. Se non sono il benvenuto in casa sua, possiamo parlare qui fuori. Ma la questione è estremamente urgente.”

Sheila richiuse la bocca con uno scatto e contrasse la mandibola. Poi assottigliò le palpebre e si prese qualche istante per studiarlo da capo a piedi.

“Quanti anni hai?”

“Sedici, signora.”

“Come mi hai trovata?”

“La donna che mi ha adottato quando Shannon è morta, Deirdre McLaughlin, mi ha parlato della vostra congrega. È stata la necessità a spingermi a cercarvi, altrimenti non vi avrei disturbati. Ho davvero bisogno di aiuto.”

Sheila rimase immobile, soppesandolo con il suo sguardo di ghiaccio. Dopodiché, si fece da parte in silenzio.

Regan occhieggiò nervoso la cornice della porta: “Posso entrare?”

“Hai bisogno di un invito scritto?”

Il sospetto che Regan lesse in fondo a quelle iridi azzurre gli suggerì che lei sapeva, o perlomeno intuiva la sua diversità. Disse addio a ogni speranza di mantenere il segreto sulla sua natura. Chiuse gli occhi, preparandosi a un rifiuto.

“Temo che debba dirlo ad alta voce. Giuro che non voglio farle del male. Se si sentirà minacciata in qualsiasi modo, non mi difenderò da nessun incantesimo che lei deciderà di usare contro di me. Le ripeto che desidero il suo aiuto.”

Regan la vide contrarre i lineamenti in una smorfia impressionata.

“Molto bene. Puoi entrare.”

Il ragazzo mise un piede oltre la soglia. Quando non accadde niente, entrò e si fermò nell’ingresso, poggiando il borsone accanto al muro.

“Gradisci una tazza di tè?”

“Solo un po’ d’acqua, se non le dispiace.”

Sheila gli disse di accomodarsi in salotto e sparì in cucina.

Mentre l’aspettava, Regan osservò l’ambiente. C’erano quadri di ignoti paesaggisti appesi alle pareti e vasi di fiori ovunque. Le tende della finestra erano di un giallo spento, semitrasparente. Il pavimento era ricoperto dal genere di tappeti che potevi trovare al mercato delle pulci. Non c’era una televisione, ma, in compenso, Regan poté ammirare una notevole libreria, colma di romanzi gialli e d’avventura. Riconobbe molti dei titoli. Non notò, però, alcun volume relativo all’arte occulta. Probabilmente, Sheila li teneva in un’altra stanza, al riparo da occhi indiscreti.

Il divano su cui era seduto era comodo, ricoperto da un telo bianco con camelie rosse. I cuscini erano ricamati a mano con motivi di vago gusto orientale. C’era un posacenere pieno sul mobiletto vicino alla finestra. Emanava un olezzo nauseante, appena attenuato da quello dolciastro dei fiori.

Sheila tornò un paio di minuti dopo con un bicchiere d’acqua e una tazza di tè verde. Li depose entrambi sul tavolino basso di fronte al divano e si sedette sulla poltrona, senza perdersi alcun movimento del suo inatteso ospite. Il vestito borgogna svolazzò brevemente attorno ai suoi polpacci.

Regan accettò l’acqua. Si concentrò sul battito cardiaco della strega, scoprendolo accelerato. I suoi muscoli erano contratti, la sua espressione tesa. Il suo odore era mascherato dalla nicotina, che permeava i suoi vestiti da cima a fondo, quasi ci avesse fatto il bagno.

“Ebbene?” lo incalzò Sheila, sfiorando con uno sguardo fuggevole il bicchiere d’acqua.

Regan si bloccò a metà di un sorso e annusò l’acqua con circospezione: “Mi ha avvelenato?”

“Ho lanciato sull’acqua un incantesimo della verità.” ammise tranquilla, come se stesse parlando del tempo.

“Tipo il Veritaserum di Harry Potter?” indagò curioso, schiacciando l’indignazione sotto uno strato di calma forzata.

“Quella era una pozione. Io ho detto di aver usato un incantesimo.”

A Regan sarebbe piaciuto bombardarla di domande, esigere la formula dell’incantesimo, strappargliela dal cervello se necessario, ma resistette. Si consolò pensando che prima o poi lo avrebbe comunque scoperto da solo, ora che ne conosceva l’esistenza. Gli sarebbe stato di grande aiuto.

“Ti ho offeso, per caso?” domandò affabile.

Nel suo sguardo Regan colse una scintilla di sfida. Poiché non c’era nulla ormai che potesse fare, si limitò a sorriderle serafico. Gli insegnamenti di Deirdre sul controllo delle emozioni risultarono un grosso vantaggio: non provava alcunché, a parte un lieve fastidio per essere stato raggirato in modo tanto plateale. Non che non si fosse aspettato un attacco o un test di qualche tipo, ma la consapevolezza di averlo subito davvero senza rendersene conto gli provocava un prurito nello sterno, là dove la rabbia ribolliva selvaggia. Aveva abbassato le difese e peccato di ingenuità. Per fortuna era solo un incantesimo della verità, non una fattura.

“No, affatto. Un po’ me lo aspettavo.”

“Perdonami se non ti credo sulla parola, ma sai com’è.”

“Beh, a questo punto, da me non riceverà altro che la verità. Chieda pure ciò che desidera.”

“Chi sei?”

“Sono Regan McLaughlin, figlio di Shannon Morgan.”

Sheila sbarrò le palpebre e boccheggiò. Passò numerosi attimi a scrutare Regan da capo a piedi, come se cercasse segni di somiglianza. A quanto pare li trovò, perché si portò una mano davanti alla bocca e con occhi lucidi balbettò uno sfiatato “Per la Madre…”, prima di venire interrotta da un singhiozzo.

“Non sapevo che Shannon… credimi, non lo sapevo. Se lo avessi saputo, io… come è possibile…?”

Regan le diede tempo per digerire la notizia. Benché il suo sguardo penetrante lo mettesse a disagio, si costrinse a rimanere immobile per farsi esaminare.

“Perché sei qui, Regan?” domandò con voce tremante.

“Non per riallacciare i rapporti con la famiglia di Shannon, se è questo che sta pensando. Ho appreso il suo nome solo pochi giorni fa e, nonostante sia un po’ curioso, al momento ho faccende più pressanti di cui occuparmi. E no, non intendo restare ad Athens più del dovuto. Senza offesa, ma la mia vita è ad Ashwood Port.”

Sheila annuì con aria contrita: “Capisco. Hai parlato di faccende pressanti. Di che si tratta?”

“Un demone sta terrorizzando la mia città. Ha già mietuto sei vittime, tra cui due bambini. Ritengo che sia un Chabalim, appartenente alla stirpe degli Shedim. Non so come affrontarlo, mi mancano informazioni e mezzi. Può aiutarmi?”

Sheila boccheggiò di nuovo, palesemente scossa.

“Aspetta, facciamo un passo indietro. O più di uno, magari. Un demone della mitologia ebraica? Ne sei certo?”

“Quasi.”

“Devi esserlo completamente.”

“Perché?”

“Scommetto che hai pensato di condurre un esorcismo.”

“È il metodo più sicuro per scacciare un demone.” rispose in tono ovvio.

“Certo. Tuttavia, dovresti sapere che esistono tanti tipi di esorcismo quanti sono i popoli della terra. Un esempio lampante è la Chiesa cattolica. Con il tipo di esorcismo che praticano, per mezzo della Bibbia, combattono i demoni legati alla mitologia cristiana. Ma cosa succederebbe se un prete si scontrasse con… bah, diciamo un djinn?”

“Il rituale non avrebbe effetto, perché il djinn appartiene alla cultura araba?”

“Esatto. Se tenti di combattere un demone di un’altra cultura con i mezzi che la tua ti fornisce, l’esito è uno soltanto: fallimento. Spesso seguito da una morte cruenta. Per tale ragione ti ho chiesto se sei sicuro di avere a che fare con un Chabalim. Ti servono prove concrete e inconfutabili. Se è davvero un Chabalim, devi rivolgerti a un rabbino.”

“Lei non può fare niente, in quanto strega?”

“Per favore, chiamami Sheila e dammi del tu. Comunque, no, non posso. Le streghe non si confrontano mai con i demoni, solo con gli spiriti maligni. Sono due cose diverse. A prescindere dalla mia preparazione e dai miei poteri, non avrei alcuna speranza contro un demone, non importa da quale cultura proviene. Fallirei perché non possiedo la fede necessaria a fronteggiarlo. Le streghe non seguono alcuna religione, non l’hanno mai fatto. Invece, onorano la terra, gli spiriti e gli elementi. Perciò, metti caso che entrassi in conflitto con un demone della mitologia cristiana: cosa potrei fare? Non credo in Dio, negli angeli e nei santi. Un prete è la persona più indicata a cui rivolgersi, perché attraverso la sua fede attinge alle forze della luce di cui lui è servo.”

“Intendi dire che Dio esiste? E anche gli angeli?”

Sheila ridacchiò e scosse debolmente il capo: “Questa è una domanda da un miliardo di dollari.”

Regan sbuffò e, in barba all’incantesimo, trangugiò l’acqua sino all’ultima goccia.

“Venire qui è stato inutile, allora. Devo cercare una sinagoga.”

“Aspetta. Forse posso aiutarti a trovare le prove che cerchi. La congrega Morgan è molto potente. Ciò significa che abbiamo una biblioteca molto fornita. Quanto avevi pianificato di restare?”

“Fino a domenica.”

“Ottimo. Mi farebbe piacere presentarti alla congrega, se sei d’accordo. E in città abbiamo una sinagoga, puoi farci un salto quando vuoi.”

“Non lo so…”

“Ah, giusto, quasi dimenticavo.”

Sheila posò la tazza di tè sul tavolino e si sporse verso di lui, trafiggendolo con un’occhiata intensa.

“Come mai hai avuto bisogno del mio invito per entrare?”

“Sono un ibrido di vampiro.”

Sheila sbarrò le palpebre e lo scrutò con sgomento: “Come sei venuto al mondo?”

“Due vampiri hanno ucciso Shannon sedici anni fa. L’hanno aggredita mentre mi stava partorendo in casa. Deirdre non è arrivata in tempo. Ha praticato un cesareo su di lei e mi ha tirato fuori. A quel punto, però, il veleno dei vampiri era già entrato in circolo nel mio corpo.”

Sheila impallidì e premette di nuovo una mano sulla bocca per impedirsi di scoppiare a piangere.

“Perché hanno preso di mira mia figlia…?”

“Non lo so, Sheila.”

La donna chiuse gli occhi, deglutì ed inspirò a fondo. Nonostante si sentisse soffocare dal lutto, dal rimpianto e dal senso di colpa, si sforzò di restare ancorata al presente. Aveva già pianto la sua Shannon, molto tempo fa, convinta che fosse morta a causa di un incidente. Così le era stato riferito, almeno. Quella menzogna adesso accese una miccia in lei, ma non era il momento adatto per soccombere all’ira. Strinse denti e pugni e raddrizzò la schiena.

“Andiamo avanti. Bevi sangue umano?”

“Sì, proprio come i vampiri, ma ho imparato a controllare la sete grazie a Deirdre. Posso mangiare anche cibo normale senza problemi.”

“In che modo controlli la sete?”

“Deirdre mi nutre con sei dita del suo sangue al giorno. Me lo versa nel succo o nell’acqua durante i pasti tramite una siringa.”

“McLaughlin, hai detto? Per caso, è imparentata con la congrega McLaughlin in Irlanda?”

“Sì, ma ha tagliato i ponti con loro quando era giovane, perché non ha ereditato i loro poteri.”

“Capisco.”

Il silenzio si protrasse per non più di un minuto, finché Regan non cedette alla curiosità.

“Ti va di raccontarmi qualcosa di Shannon?”

Sheila gli rivolse il primo, vero sorriso da quando era arrivato: “Certo. Cosa desideri sapere?”

“Che tipo era?”

“La mia Shannon era una ragazza intraprendente, spavalda, testarda. Molto dotata nell’arte magica e molto intelligente. La prima della classe al liceo. Con mio grande rammarico, scelse di non continuare gli studi al college, preferendo imbarcarsi in un’avventura che la portò da un capo all’altro del paese. Le interessava parecchio il folclore delle varie etnie. Sai, le storie, le leggende, la musica. Partì non appena ricevette il diploma. Salì in macchina e stette via per tre anni, collezionando esperienze che trascrisse nei suoi diari. Ce li ho ancora, se vuoi leggerli.”

“Volentieri. Poi è tornata ad Athens?”

Una maschera di rabbia calò sul viso di Sheila.

“Sì, in compagnia di un uomo. Il suo nome era Stefan Black. C’era qualcosa di strano in lui, emanava un’energia negativa. La congrega non lo accolse. Shannon insisté, ma quando Fiona le negò il permesso, se ne andò in esilio con Black. Non l’abbiamo più rivista. Un anno e mezzo dopo, ci giunse la notizia che era morta. La Prima ci disse che si era trattato di un incidente.” terminò in tono tagliente, il viso contratto in una smorfia bellicosa, “Oh, adesso mi sentirà. Come ha osato mentirmi?”

“La Prima?”

“È la strega più potente, una specie di capo. Fiona amministra e guida la congrega da circa vent’anni.”

“Okay. Tornando a Stefan Black, avete più saputo nulla di lui? È… è mio padre?”

“Non lo so. Il giorno in cui Shannon venne bandita, non era ancora incinta.”

“Aspetta. Perché ora dici bandita, quando un minuto fa hai detto che scelse l’esilio?”

“Beh, suppongo che si possa dire che siano vere entrambe. Siccome Shannon scelse l’esilio pur di stare con Black, la Prima la bandì, spogliandola del nome dei Morgan.”

Regan posò il bicchiere vuoto sul tavolino e si accasciò sul divano a braccia conserte, profondamente turbato.

“Ti presenterò alla congrega nel pomeriggio.” disse Sheila, “Nel frattempo, mi piacerebbe se tu pranzassi con me e mi raccontassi della tua vita.”

Le ore passarono veloci. Regan le parlò della scuola, dei suoi amici, delle feste, tralasciando di rivelare la presenza di un branco di licantropi e tre famiglie di cacciatori in città, nonché la sua innata abilità di vedere i fantasmi. Tenne per sé pure i dettagli più macabri relativi al demone, poiché li avrebbe esposti una sola volta al cospetto della congrega.

Sheila ascoltò con ovvio interesse. Quando il tema virò sulle relazioni sentimentali, Regan parlò di Derek, Roman e Lorie. Sheila si rilassò e addolcì l’espressione, per poi raccontargli che anche Shannon aveva avuto diversi spasimanti di entrambi i sessi durante l’adolescenza.

Verso le tre del pomeriggio, montarono in macchina per recarsi alla casa della congrega. Sheila gli spiegò che i vari membri avevano le proprie dimore e che la casa era solo un luogo di ritrovo dove apprendere l’arte occulta in sicurezza. Il perimetro era circondato da potenti incantesimi atti a respingere il male. Era una sorta di fortezza inespugnabile che li avrebbe protetti in caso di pericolo, magico e non. Inoltre, se un novizio avesse sbagliato un rituale e provocato un incidente, le rune incise su ogni parete della casa avrebbero debellato la minaccia sul nascere. Era il posto perfetto dove imparare e sperimentare.

“Una specie di piccola Hogwarts, insomma.” commentò Regan.

“Ecco, questo non devi dirlo quando ti troverai davanti alla Prima. Detesta Harry Potter.”

“Beh, io stesso sono più un tipo da Tolkien.”

“Detesta pure Tolkien.”

“Ha l’aria di essere una donna terribilmente noiosa.”

Sheila ridacchiò. Pochi minuti dopo, parcheggiò sul ciglio di una strada di periferia, davanti a un’imponente villa che si innalzava su tre piani. I muri erano di pietra, le finestre alte e strette. Il cortile sul davanti era curato come quello di Sheila, con roseti e siepi di alloro. Un sentiero di ciottoli conduceva alla porta d’ingresso. Ai lati dell’edificio si innalzavano due torrette, che lo facevano apparire come un castello in miniatura.

“Wow. Mi sembra di essere stato catapultato in Europa.”

“I nostri avi venivano dall’Europa.” disse Sheila, “I primi Morgan arrivati con i coloni costruirono questa villa.”

Regan seguì Sheila in silenzio, incapace di smettere di boccheggiare meravigliato. Giunti davanti alla porta di legno intarsiato, con un battimano di ferro a forma testa di cervo, la donna l’aprì senza bussare.

“Ho già avvisato la Prima del nostro arrivo, per farle rimuovere la barriera. Vieni, entra. Appendi pure il giubbotto nel guardaroba.”

Il ragazzo obbedì. Mentre si guardava intorno, annusò l’aria. Percepì un lieve effluvio di erbe e un odore che, dopo un po’, comprese essere ozono. Era l’odore che annunciava una tempesta e accompagnava i fulmini. La sua pelle formicolò e tutti i peli del corpo si rizzarono, allertandolo sulla presenza di energie estranee, potenzialmente pericolose. Realizzò che era la stessa sensazione che aveva provato quando era sceso dal pullman.

Una donna sulla cinquantina, con folti capelli rossi e ondulati sciolti sulle spalle e occhi neri, sbucò da una stanza in fondo al corridoio e si fece loro incontro. Indossava una camicetta bianca e pantaloni rossi che le fasciavano le gambe lunghe e magre. I piedi erano nudi, le unghie laccate di blu.

“Sheila. E lui deve essere Regan, il figlio di Shannon.” esordì con voce neutra quando fu loro vicina.

“Fiona.” proferì Sheila, la postura era rigida e i lineamenti del viso tesi, per poi sospingere Regan in avanti, “Regan desidera chiedere il nostro aiuto a proposito della questione che ti ho accennato per telefono.”

“Il demone, certo. Andiamo nel mio studio.”

Non fu solo l’atteggiamento di Sheila a provocare disagio in Regan. C’era qualcosa in Fiona che stava mettendo a dura prova i suoi nervi. Nonostante l’apparente disponibilità, la sua voce era fredda e il suo sguardo ostile. Era chiaro che non fosse felice della sua visita, anche se tentava di mascherarlo dietro una facciata di cordialità. E la tensione che aleggiava su Sheila e Fiona parlava di un conto in sospeso, probabilmente relativo alla menzogna sulla morte di Shannon.

Regan seguì le due donne lungo il corridoio. Ad ogni passo, catalogò odori, colori e forme, senza lasciarsi sfuggire alcun dettaglio. L’ozono permeava pareti, soffitto e pavimento, impregnava ogni singolo centimetro della casa. Sembrava quasi che la magia palpitasse al di sotto delle superfici, emettendo una lievissima vibrazione che faceva allo stesso tempo cantare e ribollire il sangue di Regan.

La sensazione di claustrofobia lottava contro l’esaltazione di trovarsi al centro di un nodo di potere. Quel posto era intriso di possibilità, abbastanza mature da far venire a Regan l’acquolina in bocca e l’impulso di coglierle, come frutti che ciondolano invitanti dai rami di un albero. Ma c’era anche un substrato di pericolo, trappole invisibili, che non aspettavano che un suo passo falso per cibarsi di lui.

Entrarono in una stanza a metà del corridoio, grande all’incirca come il suo salotto di casa ad Ashwood Port. Sul soffitto, attorno al lampadario antico, c’era un affresco che ritraeva le fasi lunari e alcune costellazioni. I colori predominanti erano l’oro e il blu cobalto. A est, di fronte all’unica finestra, c’era una grossa scrivania in legno di quercia. Nell’angolo sulla destra, Regan vide un tavolino d’antiquariato e una teca, all’interno della quale c’erano bottiglie dall’aspetto costoso e porcellane. Il resto dei muri era tappezzato di scaffali e scaffali ricolmi di tomi, rilegati e non.

Fiona si sedette sulla poltrona dietro la scrivania, ponendosi di spalle alla finestra. Spostò il computer, liberò lo spazio da fogli e appunti sparsi e li invitò ad accomodarsi sulle sedie davanti a lei. Non appena furono seduti, intrecciò le dita e prese la parola.

“Ebbene, Regan. Parlami di questo demone.”

Regan lanciò un’occhiata smarrita a Sheila, che annuì incoraggiante.

“Okay. Dunque, tutto è iniziato i primi di settembre.”

Le narrò i fatti, cercando di restare oggettivo, ed elencò le sue teorie. Quando giunse alla parte dello Shedim, si gettò in un racconto particolareggiato delle sue ricerche. Tuttavia, non parlò delle visioni, di come temesse l’inganno del demone e, di conseguenza, non fosse sicuro al cento percento di essere sulla strada giusta.

“Ho paura che, se non troverò presto una soluzione, Ashwood Port piangerà molte altre vittime. Potete aiutarmi?”

Fiona si appoggiò allo schienale della poltrona e assunse un’aria meditabonda. Dopo un po’, si raddrizzò e annuì.

“Gli eventi che hai descritto indicano senza dubbio la presenza di un demone. Senza contare che lo hai visto con i tuoi occhi. Se sia o meno uno Shedim, questo è da capire. Nel frattempo, ti do il permesso di leggere alcuni libri della nostra biblioteca in merito alla simbologia dei serpenti, corvi, ragni, mosche e altri animali normalmente associate ai demoni. Magari li troverai utili.”

“Quelli sono libri per bambini, Fiona. I libri che gli servono non sono in biblioteca.” disse Sheila.

“Per leggeri i libri a cui ti riferisci, Regan dovrebbe essere un membro della congrega.”

“Regan è un membro, anche se non ufficialmente. È il figlio di Shannon e mio nipote, vanta un diritto di sangue.”

Fiona la trafisse con un’occhiata raggelante: “Molto bene. Allora, offro ufficialmente a Regan un posto nella congrega. Anche se porta un cognome diverso, è pur sempre un Morgan. Se lo vorrà, inizierà l’apprendistato domani.”

Entrambe si voltarono a fissare Regan, che si corrucciò.

“Mi state dicendo che l’unico modo per leggere i libri che mi servono è diventare un novizio?”

“Esatto.” annuì Fiona, “Il contratto di apprendistato ti impedirà di divulgare informazioni senza il mio esplicito consenso o parlare a estranei di tutto ciò che vedrai, farai o sentirai mentre sei con noi. È per motivi di sicurezza, spero tu capisca. Prendere o lasciare.”

Regan si morse un labbro. Percepiva qualcosa di strano intorno a sé. Il suo istinto gli spediva segnali di allarme da quando era entrato in quella villa. Non era sicuro di potersi fidare di quelle streghe. O meglio, di Sheila si fidava. Con lei provava la stessa sensazione di quando era vicino a Deirdre. Senza contare che Sheila era la sua vera nonna, condividevano il sangue. Erano una famiglia.

Fiona, invece…

“Posso rifletterci per una notte, per favore? Ci sono alcune cose che devo considerare, prima di decidere.”

“E sarebbero?” domandò Fiona.

“Non posso assentarmi troppo a lungo da casa. Un demone è a caccia e ha già mietuto sei vittime. In più, ho promesso a Deirdre che sarei tornato al massimo entro domenica. Oggi è martedì, perciò mi restano giusto cinque giorni. Quanti ne occorrerebbero per diventare un novizio della vostra congrega?”

“Sette.”

“Allora devo rifiutare. Mi dispiace, non ho tempo.”

“Fiona, il demone è più importante.” si intromise Sheila, “Diamogli tutto ciò che gli serve per combatterlo e lasciamolo tornare ad Ashwood Port. Poi, se avrà successo, lo inviteremo qui per essere iniziato.”

Fiona serrò le labbra, palesemente in disaccordo. Dopo qualche secondo, sospirò e rilassò le spalle.

“È quasi ora di cena. Regan, sarai mio ospite finché rimarrai ad Athens. Riprenderemo il discorso domattina e vedrò cosa posso fare per aiutarti.”

“Grazie.”

“Sheila, mostragli una camera. La cena verrà servita alle sei in punto.”

Detto ciò, vennero congedati.

Mentre Regan si arrampicava lentamente sui gradini per accedere ai piani superiori, non poté esimersi dall’ammirare l’architettura.

La casa era enorme. Le ampie rampe di scale erano delimitate da un lato da una parete tappezzata di ritratti di giovani donne, i più antichi risalenti al Settecento, dall’altro da una robusta ringhiera in legno di noce dalla forma avvitata, che imitava il movimento spiraleggiante della scalinata. Le finestre toccavano quasi il soffitto ed erano ornate da tende color porpora. Su ogni piano, a partire dalle scale, quattro corridoi si diramavano a raggera, tutti costellati da porte di uguale fattura, poste a uguale distanza l’una dall’altra. Sugli stipiti in alto, però, l’intonaco esibiva decorazioni personalizzate, probabilmente per aiutare a distinguerle. I loro passi risultavano attutiti sul tappeto che ricopriva il parquet, anche se talvolta le assi scricchiolavano.

Sheila si fermò al terzo e ultimo piano, davanti a una normalissima porta con pomello in ottone. Sullo stipite erano stati dipinti tralci di vite.

“Eccoci arrivati.”

Nella camera c’era un letto a una piazza e mezzo con lenzuola fresche, un cassettone con sopra uno specchio ovale e un armadio. I muri erano spogli e tristi, privi di quadri, ritratti o qualsivoglia abbellimento. A parte il verde delle coperte, il porpora delle tende e il grigio del tappetino ai piedi del letto, tutto era bianco come in un ospedale.

“Il bagno è in fondo al corridoio. Io andrò a casa a recuperare il tuo borsone, sarò di ritorno per cena.” disse Sheila.

“Grazie.”

Non appena Sheila si richiuse la porta alle spalle, Regan estrasse il cellulare per mandare un messaggio a Deirdre e dirle che aveva trovato la congrega. Lei gli rispose di stare attento e gli augurò buona fortuna.

Per passare il tempo, esplorò la camera. I cassetti erano vuoti, l’armadio pure. Nessun mostro sotto al letto. Si accostò alla finestra. Il sole era basso sull’orizzonte e innaffiava di luce infuocata gli alberi e le case che scorgeva in lontananza. La stanza aggettava sulla strada, così Regan poteva osservare il giardino, il via vai di macchine e parte della cittadina. Athens non possedeva un panorama degno di nota. Nessun edificio spiccava in mezzo agli altri, eccetto, forse, per quello in cui Regan già si trovava.

Ad un tratto, il suo sguardo venne attirato da degli strani simboli sulla cornice della finestra, oltre il vetro. Li studiò meglio e, con stupore, riconobbe alcune rune di protezione. Aprì la finestra e passò i polpastrelli sopra le rune, ritraendoli di scatto quando una scarica elettrica li ustionò.

Annoiato, andò a sdraiarsi sul letto. Ponderò se uscire e bighellonare qua e là o rimanere in camera. Alla fine, optò per la seconda, dato che non voleva dare l’impressione di essere un ficcanaso.  Trascorse l’ora successiva a giocare al cellulare, finché Sheila non bussò per consegnargli il borsone e avvertirlo che la cena era servita. Le si accodò e si lasciò scortare giù per le scale.

Quando i piedi si posarono sulla seconda rampa, delle voci sconosciute gli giunsero alle orecchie, accompagnate in sottofondo da battiti diversi, alcuni accelerati e altri regolari.

“Quanti saremo a cena?” domandò a Sheila.

“Una ventina. Mancano un paio di famiglie, che avevano già altri impegni, e i sei membri del Consiglio.”

“Avete un Consiglio?”

“Ne parleremo domani.”

“Okay.” si arrese, anche se era faticoso tenere a freno la curiosità, “Mangiate sempre qui, tutti assieme?”

“No, questa è un’occasione speciale.”

“Cioè?”

Sheila gli sorrise e spiegò: “Il figlio di Shannon è venuto a farci visita e ha bisogno del nostro aiuto. Chi non sarebbe curioso di conoscerti?”

“Sai, all’improvviso ho come questa strana voglia di tornare in camera e ordinare una pizza a domicilio.”

La donna ridacchiò. Posandogli una mano sulla spalla, lo pilotò verso una stanza molto grande, sormontata da un lampadario di cristallo. Al centro c’era un lungo tavolo rettangolare, incorniciato da poltroncine imbottite prive di braccioli.

Il fuoco scoppiettava nel camino sul lato destro della sala. Sopra di esso troneggiava il ritratto di una donna dai capelli neri e occhi simili a punte di spillo, vestita secondo la moda del diciottesimo secolo. Sul muro opposto all’entrata e quello adiacente, due paia di finestre si affacciavano sul cortile sul retro, che Regan non aveva ancora visto. Gli parve di scorgere una piccola serra.

Il brusio lo distolse dalla contemplazione dell’arredo. Si focalizzò immediatamente sulle persone raccolte nella sala. Erano una ventina, di età compresa tra i quindici e gli ottant’anni, più o meno. Regan contò quattordici donne e sette uomini. In disparte, appoggiata al caminetto, c’era Fiona. Era vestita uguale a quel pomeriggio, ma i capelli erano stati legati in una crocchia sulla nuca e ai piedi indossava dei mocassini rossi.

Sheila sospinse Regan verso gli altri ospiti. Il ragazzo avvertì subito la magia che vorticava intorno a loro. Era meno intensa rispetto a quella che avvolgeva Fiona, ma comunque rimarchevole. La maggior parte erano streghe potenti, non aveva dubbi.

“Regan, ti presento la congrega Morgan. Congrega, questo è Regan, figlio di Shannon. È venuto dal Massachusetts per chiedere il nostro aiuto e, spero, cominciare l’apprendistato.”

Dopodiché, Regan venne sommerso da nomi e formule di benvenuto. Prima di sedersi a tavola, aveva già dimenticato come si chiamavano almeno una quindicina di quelle streghe.

Sheila lo indirizzò verso una sedia sul lato sinistro del tavolo, vicino al centro. Lei si sedette alla sua destra e una ragazzina di circa sedici anni dall’altra parte. Il posto di fronte a lui fu preso da un uomo sulla trentina. Aveva i capelli neri e gli occhi azzurri, due sopracciglia folte, la mascella allungata e il naso affilato.

“Regan, lui è mio figlio Andrew, fratello minore di Shannon. Tuo zio.” gli disse Sheila.

“È un piacere.” esalò frastornato.

“Questo è da vedere.” rispose Andrew, stendendo il tovagliolo sulle ginocchia.

“Non ascoltarlo.” lo rassicurò Sheila, “È nato scorbutico.”

Fiona, seduta a capotavola, si schiarì la gola per richiamare l’attenzione dei convitati.

“Stasera accogliamo Regan fra di noi. Che la sua permanenza possa portargli consiglio.”

“Che la Madre lo benedica.” recitarono in coro gli altri.

Poi Fiona agitò la mano. Come per magia, sui piatti comparve un antipasto di crostini e salmone.

Regan boccheggiò e si girò fulmineo verso Sheila: “Proprio come…”

“Non dirlo!” lo ammonì sottovoce.

“Giusto.” tossicchiò imbarazzato.

Le streghe cominciarono a mangiare e conversare tra di loro. Sheila venne coinvolta in una discussione su una ricetta dalla donna accanto a lei, Andrew si distrasse a parlare di sport con il vicino.

La ragazza alla sinistra di Regan gli diede una leggera gomitata sul braccio e gli rivolse un sorriso timido. I capelli castani erano tagliati corti e gli occhi marroni erano grandi e ornati da lunghe ciglia nere. Sembrava un folletto.

“Quanti anni hai?”

“Sedici.”

“Anch’io! Da dove vieni, di preciso?”

“Ashwood Port, vicino Salem.”

“Oh. Brutta zona, quella.”

“Per i processi alle streghe?”

“Già. Qual è la tua materia preferita?”

“Sono indeciso tra Francese e Latino.”

“Anch’io studio Latino! Avete già affrontato la metrica?”

“No, siamo fermi alla grammatica.”

“Fidati, quella è una passeggiata. Sono Poppy, comunque. Nel caso non te lo ricordassi.”

“Ehm… grazie per averlo ripetuto. Sei una strega da molto?”

“Sono ancora una novizia. Ho iniziato l’anno scorso.”

“Credevo che l’apprendistato durasse una settimana…”

“No, è il test che dura una settimana. Ti introducono alle varie discipline per analizzare il tuo livello di partenza. Non serve che eccelli in ognuna di esse, siamo tutti diversi, con diverse inclinazioni. Occorre soltanto vedere se possiedi il talento necessario per apprenderle.”

“Perché proprio una settimana? Sì, sette è un numero sacro, ma c’è una ragione precisa?”

“Esistono cinque tipi di magia. Sette sono i giorni che si impiegano per completare i test. Il primo giorno ce ne sono due, sull’erbologia e sulla cristallomanzia. Si deve dare prova, cioè, di saper maneggiare le erbe e le pietre. Queste discipline sono le più comuni rappresentanti della magia curativa e divinatoria. Vengono trattate insieme perché non richiedono un eccessivo dispendio di energia.”

“Ho capito. Quali sono le altre discipline?”

“Ci stavo arrivando. Oltre alla curativa e alla divinatoria, abbiamo la magia elementale, alchemica e negromantica.” elencò, “Quella elementale, come puoi intuire, si basa sulla manipolazione degli elementi. La magia alchemica è lo studio della metamorfosi della materia, chiamata trasmutazione. La magia negromantica ha a che fare con la morte. Il secondo giorno, quindi, dovresti mostrare di saper controllare l’elemento del fuoco, il terzo quello dell’aria, il quarto quello dell’acqua e il quinto quello della terra. Il sesto giorno devi trasmutare degli oggetti. Infine, il settimo giorno devi riuscire a riportare in vita un piccolo animale e ripetere il processo al contrario. È il test più difficile, quasi nessuno lo supera.”

“Queste discipline hanno un nodo di congiunzione? Oppure sono branchie separate?”

“Il nodo di congiunzione è la magia elementale. Essa è universale e molto versatile, poiché può essere associata agli altri quattro tipi senza alcun problema. Gli elementi, all’occorrenza, vengono usati per trattare le erbe, per la divinazione, per trasmutare la materia e per operare incantesimi di negromanzia. In quest’ultimo caso, viene usato specialmente il potere della terra e del fuoco.”

“Ma la negromanzia non è magia oscura?”

“Non necessariamente. Dipende che uso ne fai, come tutto. Ci sono piante velenose che puoi usare per uccidere qualcuno, pietre che incrementano l’energia di una fattura, la divinazione ti si può ritorcere contro se provi ad alterare il futuro. Senza contare che tutti gli elementi sono potenzialmente pericolosi, se non si sa come controllarli.”

“E quale sarebbe un uso benevolo della negromanzia?”

“Beh, a volte capita che la congrega venga contattata da persone che hanno problemi con un testamento di eredità. La strega incaricata resuscita il defunto per parlare di suddetto testamento, poi lo restituisce al sonno eterno.”

“Niente apocalisse zombie?”

“Niente apocalisse zombie.” sbuffò divertita.

“E tu in quale magia sei più versata?”

“Curativa. Ho preso da mia madre. È quella lì, accanto al tizio con la testa rasata.”

Regan osservò di sottecchi la donna indicatagli da Poppy. Era bassa, magrolina, con un cespuglio di crespi capelli castani e occhi a palla. L’unico dettaglio del suo aspetto che Poppy aveva ereditato era il naso.

“E tuo padre?”

“È a Los Angeles, adesso. Lavora nelle telecomunicazioni. Ed è umano, non uno stregone.”

“I matrimoni misti sono accettati, quindi.”

“Certo. Se non lo fossero, le streghe si sarebbero già estinte.”

La cena trascorse tra chiacchiere superficiali e portate deliziose. Regan non aveva mai assaggiato nulla di così buono. Deirdre era un’ottima cuoca, ma non a questi livelli.

“Chi ha cucinato?” chiese a Poppy.

“Fiona. È bravissima, eh?”

“Non la credevo un tipo da cucina.”

“In che senso?”

“Mi sembra più una di quelle padrone di casa che danno ordini a uno stuolo di servi.”

“In passato era così. Ogni Prima veniva trattata come una vera regina.”

“Poi che è successo?”

“Siamo entrati nel ventunesimo secolo.”

“Ah.”

“Regan.” lo chiamò Andrew mentre gustavano il dessert.

“Mh?” mugugnò con la bocca piena di gelato alla crema.

“Mia madre mi ha detto cosa è successo a Shannon. È la verità? È stata uccisa da due vampiri?”

Il silenzio calò sulla tavola. Persino Fiona smise si mangiare.

“È quello che mi ha raccontato Deirdre, mia nonna adottiva. Era la vicina di casa di Shannon, quando abitava in un condominio nella periferia di Ashwood Port. Ha sentito dei rumori ed è intervenuta. Ha visto i due vampiri scappare, ma non ricorda che aspetto avessero, perché l’appartamento era buio. Prima che Shannon morisse, le ha praticato un cesareo. Mi sono salvato grazie a lei.”

“Perché non si è difesa con la magia? Mia sorella era una delle streghe più dotate della congrega.” pretese di sapere Andrew.

“Andrew.” sibilò Sheila, scoccandogli un’occhiata ammonitrice.

“Mi stava partorendo.” rispose Regan, senza interrompere il contatto visivo.

Rannuvolandosi, Andrew domandò: “Perché questa Deirdre non ha mai cercato di rintracciarci, dopo la tua nascita? Mia madre mi ha detto che è stata Deirdre a informarti della nostra esistenza. Significa che ha sempre saputo che eravamo ad Athens. Sei il figlio di mia sorella. Anche se lei è stata bandita, resti un Morgan. Appartieni alla congrega.”

“Voleva proteggermi.”

“Perché?”

“Perché Regan è un ibrido di vampiro.” rispose Fiona al suo posto.

Tutti guardarono Regan con occhi fuori dalle orbite. Poi, come il ragazzo si aspettava, un paio di streghe si alzarono di scatto e puntarono il dito contro di lui.

“Abominio!”

“Fiona, come puoi accoglierlo fra di noi? Non dovrebbe nemmeno esistere! Che importa se è il figlio di Shannon, non può restare qui!”

“Regan è un Morgan da parte di madre.” enunciò fredda, “E, come tale, gli spetta di diritto un posto nella congrega, come ha detto Andrew.”

“Ma…”

“Non è una bestia, sa controllare la sua sete. Inoltre, lo avete visto mangiare il nostro cibo, camminare sotto il sole. Le rune intorno alla casa hanno reagito alla sua natura vampira, allertandomi della potenziale minaccia; tuttavia, quelle sulla porta non lo hanno respinto, segno che non ha cattive intenzioni. Credete che lascerei entrare un mostro in casa mia?” sibilò, inchiodandoli sulle sedie con la forza dello sguardo.

“Ma…” fece per protestare quella che aveva gridato il primo insulto.

Fiona inarcò un sopracciglio in un velato avvertimento. L’altra ammutolì e si sedette di nuovo.

“Regan ha bisogno del nostro aiuto e della nostra guida. Non è qui per farci del male, ma per capire come sconfiggere un demone che sta terrorizzando la sua città. Lo istruirò personalmente, supervisionerò la sua ricerca e lo sorveglierò per tutta la durata del suo soggiorno.”

Un mormorio basso si diffuse tra le streghe. Alcune erano alquanto scettiche, altre parevano tranquillizzate. Poppy aveva smesso di guardarlo e si era scostata di qualche centimetro da lui. Andrew lo fissava senza battere ciglio, l’espressione imperscrutabile, mentre Sheila aveva poggiato una mano sulla sua gamba in un gesto di conforto.

“Per stasera è tutto. Grazie di essere venuti. Se ci saranno novità, vi aggiornerò.” li congedò Fiona.

Gli ospiti si alzarono e, dopo essersi salutati a vicenda, uscirono alla spicciolata dalla villa. Poppy non gli elargì nemmeno un’occhiata. Andrew, invece, soffermò lo sguardo su di lui per un momento, prima di infilare la porta in silenzio. Rimasero soltanto Sheila, Regan e Fiona.

“Penso che mi ritirerò per la notte.” disse Regan, ansioso di tornare nel suo temporaneo rifugio.

“Certo. Ci vediamo domani.” gli sorrise Sheila e lo abbracciò per sussurrargli all’orecchio, “Non preoccuparti di loro. Sono scioccati, ma vedrai che gli passerà presto.”

Regan annuì poco convinto. Si staccò, diede la buonanotte a Fiona e salì le scale, diretto alla camera che gli era stata assegnata.

Giunto al secondo piano, udì Sheila che diceva a Fiona che dovevano parlare di Shannon, e la Prima che rimandava il loro colloquio a un altro giorno. Non gli fu difficile immaginare come si sentisse Sheila, soprattutto quando una zaffata potente di rabbia lo investì da dietro. Se qualcuno avesse liquidato lui così, su un argomento tanto delicato come la morte di una figlia, non sarebbe rimasto zitto. Ma Sheila non era come lui, perciò la strega non reagì e, pochi istanti più tardi, la porta della villa sbatté con forza.

Regan entrò in camera. Si spogliò, indossò il pigiama e si recò in bagno. Valutò se farsi una doccia, ma era stanco e di pessimo umore. L’avrebbe fatta la mattina.

Tornò in camera e frugò nel borsone alla ricerca delle siringhe di sangue. Deirdre gliene aveva date sei. Se Regan non avesse insistito e giurato che se le sarebbe fatte bastare, la nonna gliene avrebbe consegnate almeno una decina. Non poteva chiederle così tanto sangue tutto in una volta, avrebbe messo a rischio la sua salute.

Ne prese una, tolse il tappo e scolò il contenuto in tre sorsi. Si sentì subito meglio. Infine, si infilò sotto le coperte e, dopo aver spento la luce del comodino, scrisse un messaggio alla nonna e uno a Derek.

A Deirdre:
Mi aiuteranno. Come previsto, resterò fino a domenica.

A Derek:
Parlerò a breve col rabbino. Ti tengo aggiornato xxx
 
Ponderò se mandarne uno anche a Roman, ma poi scelse di non farlo: non aveva niente di nuovo da dirgli e non aveva nessun obbligo di contattarlo, come invece era nel caso di Derek.

Inserì il silenzioso e si imbacuccò nel piumone. Il riscaldamento era acceso, però la temperatura era parecchio bassa. Si addormentò pochi minuti più tardi, cullato dal lieve fruscio del vento fra gli alberi del giardino.

Quella notte sognò un incendio, in cui arti abbrustoliti si agitavano tra le fiamme e cercavano di afferrarlo, mentre nell’aria risuonavano grida disumane.

 
*

Regan era seduto sul letto a gambe incrociate quando Sheila bussò alla porta il mattino dopo per invitarlo a scendere per colazione. Era sveglio già da molte ore, ancora scosso dall’incubo che aveva fatto. Intorno a lui giacevano due siringhe vuote. Le aveva usate per placare la sete che lo aveva colto non appena si era destato, assottigliando la sua già esigua scorta.

Mentre aspettava che il sole sorgesse, era rimasto a rimuginare sull’incubo, esaminandolo da ogni angolazione possibile. Poteva trattarsi di un’altra visione creata dal demone per alimentare la sua ansia e lo stress – e, a giudicare dalla sete che gli aveva provocato, aveva funzionato – oppure era stato solo un parto della sua mente fiaccata dalla stanchezza. La sola cosa di cui era assolutamente certo era che il sogno gli aveva lasciato una sensazione di incombente pericolo addosso, oltre al sapore del fumo sul palato. Era stato vivido, come se lo avesse vissuto in prima persona.

Si strofinò la faccia con le mani per scacciare il torpore e si alzò per vestirsi. Nascose le siringhe vuote nel borsone, poi fece una breve sosta in bagno prima di scendere in cucina.

Quando le raggiunse, Fiona e Sheila lo accolsero con un “Buongiorno” e gli servirono tè e biscotti. Erano ancora caldi, appena sfornati. Emanavano un odore divino, che gli fece venire l’acquolina in bocca.

“È cannella?”

“Sì. Questo, invece,” Fiona gli porse un foglio su cui erano state vergate a mano delle frasi in una calligrafia spigolosa ed elegante, “è il contratto di apprendistato. Leggilo e firmalo col sangue. Se hai domande, Sheila risponderà. Appena hai finito, vieni in biblioteca.”

Fiona si dileguò nel corridoio, lasciando Regan e Sheila da soli.

“Hai dormito bene?” gli chiese lei.

“Non proprio. Ho avuto un incubo.” rispose sincero.

Sheila si accigliò, ma per fortuna non indagò.

Regan approfittò della pausa nella conversazione per leggere il contratto. Era semplice, chiaro, dritto al punto. In pratica, recitava più o meno le stesse cose che gli aveva detto Fiona il giorno prima: se avesse firmato, sarebbe stato vincolato dalla segretezza con tutti i non membri della congrega e non avrebbe potuto praticare la magia al di fuori della villa. In compenso, avrebbe avuto pieno accesso alle risorse della congrega e, se necessario, avrebbe potuto richiedere assistenza negli incantesimi.

Alzò lo sguardo su Sheila: “Tu che mi consigli di fare?”

“Firma. Questo consoliderà la tua appartenenza alla congrega. Non sarai più solo. Potrai contare su tutti noi in caso di bisogno.”

“E i test? Non ce la farò mai a completarli in tempo.”

“Ho parlato con Fiona, a tal proposito, e siamo giunte a un compromesso. Anche se non riuscirai a completare i test prima di tornartene a casa, verrai comunque considerato un novizio. Ti assisteremo nella lotta contro il demone, per quanto possiamo, e ti proteggeremo. Una volta risolto il problema, verrai di nuovo ad Athens per finire i test. A quel punto, verrai affiancato da un mentore, che ti istruirà in maniera più approfondita nelle varie discipline.”

“Mi sembra perfetto… troppo perfetto.”

“Le tue sono circostanze speciali, Regan. Hai un demone per le mani.”

Regan fissò il foglio per qualche istante, poi annuì.

“Ce l’hai una penna?”

Sheila gli rivolse un sorriso sghembo. Si alzò, prese un coltello dal cassetto delle posate e gli incise con un gesto fulmineo la carne di un polpastrello.

“Si firma col sangue, caro nipote.”

Un paio di gocce caddero sulla parte bassa del foglio. Un attimo dopo, vennero assorbite dalla carta, che tornò bianca. Regan rimase paralizzato sulla sedia, in attesa di non sapeva cosa. Ma non successe niente. Non si sentiva nemmeno diverso.

“E questa è fatta. Benvenuto nella congrega, Regan Morgan.” proferì Sheila con un grande sorriso.

“Ehm… grazie.”

“Bene. Ora ho qualcosa da farti vedere.” disse e poggiò sul tavolo un album fotografico, “Ti andrebbe di conoscere la storia della congrega?”

Regan annuì con enfasi. La donna aprì l’album sulla prima pagina. Al centro campeggiava uno strano simbolo, costituito da due rombi che si intersecavano. All’interno c’erano due spade incrociate, sormontate da una corona di alloro.

“È il nostro stemma.” spiegò Sheila, per poi iniziare a raccontare, “La congrega Morrigan è originaria della Scandinavia. Secondo i nostri registri, venne formata all’epoca dei vichinghi. Allora non era che uno sparuto gruppo di sacerdotesse e druidi. La magia curativa era la loro specialità, poiché era quella di cui c’era più bisogno in un periodo di guerre e invasioni. Nel tempo si spostarono in Galles – fu un periodo molto prospero per la congrega – e dopo ancora in Irlanda, per sfuggire al bigottismo del governo, prima quello romano e poi quello britannico. Pian piano la congrega si ampliò e, con essa, le branchie di magia praticate dai suoi membri. Cambiò persino la gerarchia interna.”

“In che senso?”

“In principio, tra i membri vigeva la democrazia e ognuno era padrone delle proprie scelte: poteva decidere se usare la magia o se mantenersi imparziale. Ma quando i numeri si infoltirono, fu necessario eleggere dei capi per preservare l’ordine. Così, ne furono nominati sei, tre donne e tre uomini. Questo gruppo assunse poi il titolo di Consiglio dei Sei. Essi dovevano giurare di restare fedeli alla congrega e non mettere al mondo alcuna discendenza, al fine di impedire lotte interne tra i figli per ereditare la posizione di prestigio. Potevano sposarsi, certo, ma non procreare.”

“Nessuno di loro ci ha mai provato?”

“Oh, sì. Non è mai finita bene. Di conseguenza, prima di eleggerli, la congrega cominciò a sterilizzare le donne e castrare gli uomini facenti parte del Consiglio. Questo pose fine a qualsiasi tentativo di aggirare le regole. È una tradizione che si è protratta sino ai giorni nostri.”

“Vuoi dire che sei tra voi sono stati…”

“Sì. Ieri sera non erano presenti, perché al momento non sono ad Athens.”

“Ma è proprio necessario? Insomma, basterebbe usare i contraccettivi.”

“La sterilizzazione dei Sei è parte della nostra tradizione. Non è dolorosa, se è questo che pensi.”

“Okay… e di cosa si occupa questo Consiglio?”

“È un organo governativo di massima importanza nel mondo delle streghe. Si occupano di diplomazia, diffusione del sapere magico ed eradicazione delle minacce alla congrega.”

“Ogni congrega ha un Consiglio dei Sei?”

“Quelle più grandi, sì. E una volta ogni tre anni, i vari Consigli dei Sei delle più potenti congreghe di tutto il mondo si incontrano in un luogo isolato per passarsi informazioni e discutere di diverse questioni. Ciascuno dei Sei, sin da quando il loro gruppo è stato creato, è specializzato in una e una sola disciplina. Si può dire che tutti loro siano dei veri maestri nell’arte occulta che rappresentano.”

Sheila sfogliò l’album e puntò il dito su una foto di una tavoletta di pietra, che raffigurava sei sagome umane stilizzate assise su altrettanti troni.

“Intorno al primo secolo, siccome il numero pari impediva di trovare una maggioranza durante le votazioni, si decise di scegliere un settimo capo, puramente simbolico. Venne scelta Dolores, una giovane strega vergine di appena quindici anni. Nonostante la sua età, si dimostrò formidabile, tanto che i Sei decretarono di comune accordo di porla in cima alla piramide gerarchica. In questo modo nacque la Prima. Da quel momento, il ruolo venne sempre assegnato a una donna.”

“Perché?”

“C’è una ragione per cui le congreghe, nell’immaginario comune, sono considerate una sorta di matriarcato. Nel Medioevo, gli uomini credevano che fosse perché le donne avevano una predisposizione naturale alla magia. In realtà, erano le donne a comandare perché di indole più pacifica rispetto ai maschi.”

“Ma non è vero. Le donne sanno essere spietate quanto e più dei maschi.”

“Esatto. Per tale motivo il Consiglio dei Sei, a un certo punto, sancì che la candidata Prima dovesse superare specifici test per essere considerata degna della posizione.”

“Che tipo di test?”

“Alcuni servivano a valutare il suo talento magico, che doveva spiccare in mezzo agli altri. Altri servivano a misurare la sua stabilità psicologica.”

“Per appurare che non fosse una psicopatica.”

“Sì.” sorrise Sheila, “Sono rimasti in vigore sino ad oggi. Fiona, ad esempio, per diventare Prima ha dovuto superare quei test.”

“Era l’unica candidata al ruolo?”

“No. C’era anche sua sorella, Siobhan. Erano gemelle.”

“Cosa le è successo?”

“È morta durante uno dei test.”

“Oh. E tra il Consiglio e la Prima, chi ha più potere?”

“Sono bilanciati. I Sei combinati insieme possiedono il medesimo potere della Prima. Al contempo, la Prima si rimette ai Sei per gestire i rapporti con le altre congreghe e l’apprendistato dei novizi. La Prima è come una madre, raramente si sposta o lascia la casa. I Sei, invece, viaggiano di continuo in missioni diplomatiche. Il fatto che non possano mettere su famiglia li rende perfetti per questo tipo di compiti.”

“E questo sistema funziona sempre?”

“No. Con il cambiamento della gerarchia, sorsero i primi problemi. Trovare dei compromessi in una congrega costituita da una decina di membri non è difficile, ma quando dieci diventano cento…” sospirò e fece un gesto vago con la mano, “Presto iniziarono gli scismi. Dei gruppi di streghe e stregoni si separarono dalla congrega madre e ne formarono altre, con le loro leggi e le loro tradizioni. Molti migrarono altrove, soprattutto in Germania, per risparmiarsi inutili dispute sul territorio.”

“Vuoi dire che le streghe sono pacifiche?” sbuffò sarcastico.

“Di solito sì, Regan. Le streghe amano la tranquillità e la solitudine, perché esse favoriscono l’intimità con la natura, che è la fonte del nostro potere.”

“Allora che mi dici della Fata Morgana? Mia non- cioè, Deirdre mi ha detto che è stata lei a dare il nome alla vostra congrega, e la storia non la dipinge certo come una santa.”

“È vero. Morgana era una donna parecchio piena di sé, potente e colta, e purtroppo anche votata alla vendetta. Morgana non era nemmeno il suo vero nome, se lo diede da sola dopo aver battezzato la congrega con quello di Morrigan, che era la divinità irlandese associata alla guerra, alla morte e al fato. Lei si sentiva come la sua emissaria in terra, così scelse di chiamarsi Morgana. Voleva trasformare la congrega nel suo esercito, al fine di reclamare il dominio sulle terre governate dagli uomini. Nella sua corsa al potere imboccò il sentiero del male, ma questo non significa che tutte le altre streghe Morrigan fossero come lei.”

“Ce ne sono state altre come Morgana?”

“Sì, ahimè, anche se i loro nomi sono andati perduti, poiché la storia viene scritta dai vincitori e quelle streghe non ebbero fortuna nei loro propositi nefandi.” spiegò, poi si focalizzò di nuovo sull’album, mostrando a Regan altre foto, “I Morrigan continuarono a vivere in armonia sul suolo irlandese per anni, finché non cominciarono le prime migrazioni alla volta dell’America. Il cattolicesimo avanzava, la repressione si stava facendo soffocante, così fecero i bagagli e fondarono una piccola comunità in Virginia, là dove ora sorge New Orleans.”

La foto che gli mostrò era di un quadro che ritraeva un gruppo di donne vestite alla moda settecentesca. Tutte indossavano graziosi cappellini e abiti di sartoria, con corsetti tanto stretti da far loro il vitino di vespa. Erano tutte di razza bianca.

“Non vedo uomini.”

“Eccoli qui.” Sheila girò la pagina e gli mostrò la foto di un dipinto identico al precedente, solo con soggetti maschili, “Poi i Morgan si spostarono a nord. Viaggiarono per lungo tempo, senza mai insediarsi in modo permanente da nessuna parte. Non perché non apprezzassero il panorama, ma perché scoprirono che i cacciatori li avevano seguiti.”

Regan si finse confuso, per vedere in che modo una strega gli avrebbe presentato i cacciatori. Aveva ascoltato la versione di Derek, ora desiderava ascoltare quella di Sheila.

“All’epoca dei vichinghi, si facevano chiamare Berseker. Riteniamo che siano il frutto dell’unione di comuni mortali con i figli di streghe nati senza poteri, come la tua Deirdre. Questo li rende ricettivi al soprannaturale, ma non capaci di maneggiare la vera magia. Così, col passare dei secoli, hanno compensato con un addestramento anormale, in maniera tale da divenire guerrieri provetti. Il sangue di strega che scorre loro nelle vene li rende anche immuni alla maggior parte degli incantesimi e persino ai veleni prodotti da alcune creature soprannaturali.”

“Sembrano pericolosi.”

“Lo sono. E la loro scelleratezza peggiorò quando misero piede in America.”

“Come mai?”

“Sterminarono intere tribù di nativi mischiandosi ai plotoni umani e rapirono i giovani maschi sopravvissuti per reclutarli tra le loro fila, facendo loro il lavaggio del cervello. Quei poveri ragazzi erano già devastati dalla perdita delle loro famiglie e della loro terra, così ai cacciatori non occorse chissà quale sforzo per piegare la loro fragile volontà.”

“Sono tutti maschi?”

“Diciamo di sì.”

“Ma allora come fanno a incrementare il loro numero, a parte il rapimento? Cioè, possono sposare donne normali? Ci sono anche donne nei loro ranghi?”

“In linea di massima, i cacciatori usano prendere in moglie delle donne umane col solo scopo di usarle come fattrici. I figli che non ereditano il sangue dei loro padri, vengono uccisi. Gli altri vengono addestrati. Tra i ‘fortunati’, talvolta, ci sono anche delle femmine. Per impedire che il sangue si disperda, vengono costrette ad accoppiarsi con i fratelli o, addirittura, con i padri. La pratica si è rivelata un successo sin dal primo tentativo. Anzi, pare che più il sangue si mischi attraverso l’incesto, più diventi forte, ritornando alla primigenia purezza. È un’usanza in voga tutt’ora. E i loro capi, come puoi immaginare, sono esclusivamente maschi. La loro comunità è l’esatto opposto di una congrega: patriarcato contro matriarcato, guerrieri contro pacifisti, odio contro tolleranza, morte contro rispetto per la vita. Disprezzano qualsiasi cosa sia connesso al soprannaturale, poiché considerato contro natura.”

“Beh, da un lato non li biasimo.” ammise Regan.

“Prego?”

“Se fossi un semplice umano, avrei paura dei vampiri. Si nutrono di sangue, vivono di notte, uccidono senza pietà…”

“Regan, ascoltami.” Sheila adagiò con delicatezza una mano sulla sua e lo fissò dritto negli occhi, “I vampiri sono tra le creature della notte più terrificanti, te lo concedo. Non per questo sono tutti malvagi. Sì, molti di loro lo sono, così come esistono umani malvagi, streghe malvage, eccetera. Ma non dimenticare che, prima di diventare ciò che sono, erano umani. A volte, tracce di quella umanità sopravvivono, perché loro non vogliono distaccarsene. Di conseguenza, conservano i sentimenti e i tratti caratteriali che li rendevano le persone che erano.”

“Faccio fatica a crederci. Solo per quello che hanno fatto a mia madre, non sono propenso a dar loro il beneficio del dubbio.”

“Allora prendiamo te. Non sei malvagio. D’accordo, la tua metà umana probabilmente è la causa principale, ma allo stesso tempo sei stato tu a compiere una scelta. Hai scelto di non essere un mostro, di non cedere alla sete. Ed è grazie a questa scelta che sei qui oggi. Il tuo cuore è ancora puro e intendo proteggerlo, a qualsiasi costo. Ho perso mia figlia, non perderò anche la sua eredità.”

Regan impedì a stento a un ghigno beffardo di sbocciare sulle sue labbra.

Sheila sfogliò l’album e lo aprì su una pagina verso la fine, indicando la foto di una ragazza. Aveva i capelli neri e lisci e gli occhi azzurri, un viso ovale dai lineamenti dolci, labbra carnose e un naso piccolo e all’insù.

“Lei è Shannon. Questa foto è stata scattata quando aveva la tua età. Aveva appena terminato l’apprendistato. Non è bellissima? Hai ereditato la sua fronte e la forma dei suoi occhi.” commentò Sheila a bassa voce, scostandogli un ricciolo dietro l’orecchio.

Regan osservò la foto con aria rapita, cercando di imprimersi nella memoria ogni dettaglio.

L’ora successiva la trascorsero a parlare di Shannon. Sheila gli raccontò alcuni aneddoti sulla sua infanzia e adolescenza, come le piacesse rifugiarsi nella natura quando era turbata e come si rimpinzasse di dolci quando era felice. Amava la musica rock, l’autunno, i frutti di bosco e il suo colore preferito era il verde. Odiava il cibo piccante, il caldo, l’odore della benzina e gli scarafaggi. Da piccola, era solita portare a casa gatti randagi, uccelli feriti e volpi malnutrite, occupandosi di loro finché non guarivano. Possedeva un’intelligenza scientifica, era un vero genio della matematica. Era una persona gentile, amichevole, ma selettiva quando si trattava di scegliere le vere amicizie. Shannon era anche molto curiosa, sempre affamata di nuove esperienze, avventurosa, intraprendente; era una testa dura, non si lasciava intimidire dalle sfide e amava il rischio.

Mentre Sheila parlava, Regan dipinse nella sua immaginazione un ritratto sempre più particolareggiato della madre che non aveva mai conosciuto, scoprendosene irrimediabilmente affascinato.

Quando l’orologio segnò le undici, si alzarono per recarsi in biblioteca. Era composta da cinque stanze: una centrale, di forma rotonda, dalla quale si diramavano a raggera quattro stanze rettangolari, in una riproduzione dei piani superiori della villa. Tutte le pareti erano ricoperte di scaffali e scaffali colmi di libri, da cima a fondo. Degli scalei di ferro erano arpionati agli scaffali tramite dei ganci e scorrevano su dei tubi per mezzo di piccole rotelline. In ciascuna delle stanze laterali c’era un lungo tavolo con delle sedie, mentre in quella centrale ce n’era uno rotondo, posto sotto un grosso lampadario in ottone. In un angolo, Regan vide un mappamondo, accanto al quale c’era una teca di vetro contenente pestelli, mortai, fialette, candele e altri oggetti.

Fiona era nella stanza che aggettava a nord. Sul tavolo c’erano una pila di libri, dei pezzi di stoffa, un paio di candele, un mortaio con pestello, una brocca d’acqua, un vaso con della terra, un pentolino adagiato sopra un fornello da campeggio, delle forbici e una scatola piena di vari tipi di pietre e cristalli.

“Vieni. Siediti.” gli disse, indicando una sedia, “Sheila, tu vuoi assistere?”

“Se a Regan non dispiace.”

Il ragazzo scrollò una spalla, troppo nervoso per parlare. Si accomodò sulla sedia e attese istruzioni.

“Per prima cosa, valuteremo la tua attitudine nella manipolazione delle erbe e dei cristalli. Dovrai creare un decotto per accelerare la crescita di questi semi con le erbe che ti fornirò. Ma fa’ attenzione: non tutte possono essere usate per tale scopo, perciò dovrai scegliere quelle giuste. Inoltre, dovrai calcolare in che dosi usare ognuna di esse e il metodo di preparazione più adatto. Avrai a disposizione tre tentativi. Fin qui è tutto chiaro?”

“Sì. E cosa devo fare con i cristalli?”

“Potrai avvalerti del loro aiuto per creare il decotto. Altrimenti, più tardi ti chiederò di usarli per trovare un oggetto che nasconderò in questa biblioteca.”

“D’accordo. C’è solo un problema.”

“Quale?” 

“Non so niente di erbe o cristalli.”

“Lo immaginavo. Ecco a cosa servono questi libri. Sono compendi di facile consultazione, di solito i preferiti dei novizi.”

Regan deglutì, osservando la pila con crescente abbattimento: “Quanto tempo ho?”

“Fino al tramonto. Se lo vorrai, potrai fare una pausa per uno spuntino.”

“Ricevuto, capo.” rispose facendole il saluto militare.

“Ti lasciamo solo, adesso.”

Regan afferrò il primo libro della pila. Passò almeno due ore a sfogliarli, uno ad uno, e imparò le definizioni, le caratteristiche, le ricette e gli incantesimi di ogni pianta. Quelli sui cristalli li accantonò, perché voleva vedere se sarebbe stato capace di creare il decotto senza il loro aiuto.

Annusò, tagliuzzò, bollì, mischiò, sperimentando tutte le possibili combinazioni che gli venivano in mente. Usò pestello e mortaio, pentolino e forbici, divenendo più frustrato di minuto in minuto.

I primi due tentativi fallirono: un seme marcì, l’altro esplose. Consultò di nuovo i libri per sicurezza, ma era certo che le erbe che aveva scelto fossero quelle giuste. C’era solo qualcosa di sbagliato nella preparazione.

Fu allora che adocchiò le candele. Erano bianche, semplici e sottili. L’istinto lo spinse ad accenderne una. Fissò le erbe disposte ordinatamente davanti a sé, le sfiorò con i polpastrelli e, infine, ne prese una. La scaldò sulla fiamma finché non si annerì, poi la sminuzzò nel mortaio con le dita. Aggiunse due erbe bollite, tagliò con le forbici una radice in minuscoli pezzettini e versò nel composto un cucchiaio di acqua bollente. Dopodiché, piantò il seme nel vaso con la terra e ci fece cadere sopra tre gocce di decotto.

Aspettò. Col passare dei secondi, il timore di aver sbagliato crebbe. Ma poi, di fronte ai suoi occhi sgranati, il seme germogliò, sbocciando in una bellissima orchidea gialla.

“Ho finito!” esclamò eccitato.

Fiona e Sheila comparvero al suo fianco in un attimo. Analizzarono l’orchidea in silenzio, tastandone delicatamente i petali. Regan restò col fiato sospeso. Il suo cuore batteva come un tamburo nello sterno.

“Ce l’hai fatta.” lo lodò Sheila.

“Ottimo lavoro.” disse Fiona, “Bene, ora passiamo al test dei cristalli. Ho già nascosto l’oggetto, ma non ti dirò cosa è. Usa i cristalli per trovarlo. Hai tempo fino a mezzanotte.”

“Regan, vuoi mangiare qualcosa? Hai saltato il pranzo.” gli fece notare Sheila.

“No, sono a posto.”

“Puoi fermarti per uno spuntino quando lo desideri.” gli ricordò Fiona.

Regan si sedette di nuovo e prese i libri che aveva messo da parte. Li lesse con attenzione, rigirandosi tra le mani una pietra diversa per ogni capitolo. Come le erbe, anche i cristalli avevano vari usi e potevano essere combinati a seconda dello scopo. Alcuni si armonizzavano, altri si respingevano come poli opposti. Tutto si basava sull’energia, ma era diversa da quella delle piante: queste ultime erano vive, organiche, mentre i cristalli erano rocce.

Alla fine, scelse quattro cristalli. Li posizionò sul tavolo e li guardò per svariati minuti, valutando il da farsi.

Colse un movimento con la coda dell’occhio e, quando si voltò, vide che Sheila e Fiona lo stavano osservando. Dalle loro espressioni traspariva sorpresa, curiosità e scetticismo. Regan dedusse che non erano affatto convinte della sua decisione, ma non gli importava. L’istinto gli diceva che era sulla strada giusta.

Inspirò ed espirò finché il battito non rallentò. Chiuse gli occhi e proiettò tutta la sua concentrazione sui cristalli. Senza sollevare le palpebre, ne strinse uno nel palmo e, senza preavviso, lo lanciò in una direzione a caso. Il cristallo rimbalzò su scaffali e libri, zigzagando per la stanza. Rotolò sul pavimento e si fermò all’angolo con quella adiacente.

Regan si alzò. I suoi occhi erano ancora chiusi. Si portò dietro le tre pietre rimanenti e seguì il percorso del cristallo che aveva lanciato. Non si chinò a raccoglierlo quando ci passò accanto.

Entrò nella stanza che guardava ad est e si fermò. Le sue orecchie fischiavano e una strana energia si agitava nel suo petto, sospingendolo in più direzioni nel medesimo istante. Schioccò la lingua infastidito.

Impugnò il secondo cristallo e infilò gli altri due in tasca. Lo lanciò in aria tre volte, ascoltando il suono che emetteva durante la rotazione, l’ascesa e la discesa. Ad ogni lancio cambiava posizione, scansandosi di pochi passi. Non appena si ritenne soddisfatto, gettò il cristallo dietro di sé e avanzò sulla destra, a ridosso degli scaffali.

A quel punto, estrasse le due pietre rimanenti dalla tasca. Appartenevano alla categoria di quelle che si respingevano a vicenda. Le avrebbe usate per localizzare tramite esclusione il luogo esatto del nascondiglio. Le sollevò e le fece cozzare tra di loro. Non accadde niente. Così, le mandò a sbattere l’una contro l’altra con forza. L’impatto scatenò una vibrazione che somigliava al suono di un diapason. La vibrazione rimbalzò qua e là, come le pietre, che ricaddero sul pavimento con schiocchi netti.

Regan piegò il capo, in ascolto. I piedi seguirono la vibrazione, la mano destra protesa verso i libri. Li sfiorò mentre passava, percependo la vibrazione aumentare via via che si avvicinava al bersaglio.

Si arrestò davanti a un libro rilegato in pelle. Lo sfilò dallo scaffale e lo aprì. Quando le dita toccarono un quadratino di carta incastrato tra due pagine, finalmente spalancò di nuovo le palpebre. Sul foglietto c’era una frase in latino. La lesse a voce alta.

Vi Veri Veniversum Vivus Vici.”

“Con la forza della verità, in vita, ho conquistato l’universo.” tradusse Fiona.

“Sei stato fenomenale, Regan!” si complimentò Sheila, “Non avevo mai visto niente di simile. È stato affascinante. Shannon impiegò fino alle undici per completare il test, e iniziò all’alba. Sono davvero colpita!”

“Devo ammettere che anch’io sono sorpresa.” disse Fiona, “Il modo in cui hai maneggiato i cristalli è stato rozzo, ma efficace.”

“Ho improvvisato.” confessò Regan, per poi guardare confuso il foglietto, “Cosa devo farci con questo?”

“Quello che vuoi. Conservalo, buttalo, facci gli origami…” rispose Fiona con un’alzata di spalle, “Ora vieni, devi mangiare.”

“Che ore sono?”

“Le sei di sera.”

“Wow. Non mi sono accorto del tempo che passava. In effetti, muoio di fame.”

Sheila gli circondò le spalle con un braccio, un sorriso orgoglioso a illuminarle il viso, e lo sospinse fuori dalla biblioteca.

“C’è dell’arrosto con patate che ti aspetta in cucina.”

Regan mugugnò il suo apprezzamento, anche se non gli sarebbe dispiaciuta una dose di sangue.

Si sentiva esausto, ma tutto sommato soddisfatto di quella giornata. Aveva appreso la storia della congrega, scoperto di possedere del talento magico, superato il primo test imparando due trucchetti utili e, soprattutto, la sua mente era sgombra da qualsiasi preoccupazione. Si augurava che almeno quella notte gli incubi si astenessero dal tormentarlo.

Un’ora dopo, mentre era in camera, si ricordò del compleanno di Roman. Prese il cellulare, indeciso se scrivergli un messaggio o telefonare. Alla fine, cliccò sulla rubrica e inoltrò la chiamata.

 
*

Roman esultò alla seconda vittoria di fila a Super Mario contro Zack. Jennifer e Charlotte brindarono alla sua salute con due lattine di soda, mentre Derek continuò a sbocconcellare salatini stravaccato sul divano.

Quando il cellulare di Roman squillò, si scusò con gli altri e andò in cucina per parlare con più tranquillità.

“Ciao! Come sta andando la ricerca?”

“Nessuna novità, per ora.” rispose Regan, “Buon compleanno.”

“Grazie! Sai, per un attimo ho temuto che te ne fossi dimenticato.”

“Sono stato impegnato. Come festeggi?”

“Tra poco esco con i ragazzi, andiamo a mangiare la pizza.”

“Chi viene?”

“Zack, Charlotte, Jennifer, Crystal, Mary, alcuni ragazzi della squadra di basket e un paio di quella di football. Gli altri sono tutti partiti per le vacanze, poco dopo Capodanno. Lo sapevi che Lorie ha una casa a Marta’s Vineyard? Mike e altri tre, invece, sono negli Hampton, Vanessa e Claire a Cape Cod. Siamo rimasti in pochi.”

“Ti divertirai lo stesso. Hai già ricevuto regali?”

“I miei mi hanno regalato un nuovo computer. I miei zii dei vestiti. Stasera, forse, ne riceverò altri.”

“Mi sembri felice.”

“Lo sono. È un peccato che tu non ci sia.”

“Mi dispiace, Roman. So quanto sia importante un diciottesimo. Prometto che mi farò perdonare. Dimmi, è scomparsa altra gente da quando sono partito?”

“Tutto tranquillo.”

“Okay. Ora devo andare. Buona serata.”

“Anche a te. Grazie per la telefonata.”

“Prego. Salutami gli altri.”

“Vuoi davvero che lo faccia?” domandò sorpreso.

“No, era solo per dire. Ancora buon compleanno. Ciao.”

Roman ridacchiò, tornò in salotto e riprese posto sul tappeto davanti alla televisione.

“Chi era?” indagò Jennifer.

“Regan.”

“È andato a un raduno di sassofonisti, giusto?”

Roman tossì: “S-sì. Già.”

“Io ho fame.” si intromise Derek, salvando il lupo per un soffio.

“Prima i regali.” decretò Charlotte.

Gli cantarono la canzoncina, facendolo morire di imbarazzo, e scattarono delle foto di gruppo da postare su Instagram. Infine, presentarono a Roman una pila di regali.

“Jen, comincia tu.” la incoraggiò Charlotte.

La ragazza prese un pacchetto e lo diede a Roman, che lo aprì con un sorriso. Era un maglione azzurro di lana grossa, morbido e lungo fino a metà coscia.

“Grazie, Jennifer. È bellissimo.” disse sincero.

Lei arrossì e rispose che non era niente di speciale.

Poi fu il turno di Charlotte e Zack. La coppia gli aveva comprato un pallone da basket e lo avevano fatto firmare a tutta la squadra. Roman percepì gli occhi inumidirsi.

“Ragazzi… questo è… grazie.”

“Non piangere.” lo ammonì Zack, fingendo di commuoversi.

“Non sto piangendo.” ribatté con voce tremante.

Entrambi scoppiarono in un pianto teatrale, abbracciandosi come due idioti.

Derek, invece, gli presentò un album fotografico con i colori della squadra di Ashwood Port: “Così potrai riempirlo con le foto delle tue partite. Dietro la copertina ho già incollato quella della prima. Ci sei tu insieme a tutta la squadra.”

Roman lo fissò impassibile per qualche secondo. Poi si sciolse in un debole sorriso e gli assestò una pacca sulla spalla, ringraziandolo per il pensiero carino. L’astio tra di loro era ancora evidente, ma stava scemando pian piano.

Derek li salutò prima di cena, perché aveva promesso ai suoi che sarebbe tornato a casa per rimettersi in pari con i compiti, visto che le lezioni sarebbero ricominciate presto. I quattro rimasti uscirono per recarsi al ristorante, dove si sarebbero riuniti agli altri invitati.

Si sedettero a un tavolo vuoto accanto alle finestre. L’ambiente si riempì subito del vociare dei ragazzi, che parevano aver fatto del parlarsi sopra a vicenda un vero sport. Ordinarono hamburger e chiacchierarono animatamente dei film da vedere al cinema, dei compiti, di quanto fossero bacchettoni i loro genitori e dei compleanni che Roman aveva festeggiato mentre viveva a Brooklyn.

Jennifer pendeva dalle labbra del licantropo. Si era calmata, non flirtava più platealmente come all’inizio, ma non sembrava intenzionata a mollare l’osso. Per di più, Charlotte non faceva che spingerla verso di lui ad ogni occasione, cieca al rifiuto di Roman. Quando il cibo arrivò, il ragazzo colse l’opportunità per scambiare qualche parola con gli altri.

Una volta finito di mangiare, il conto venne diviso tra i presenti, eccetto Roman, che era il festeggiato. I compagni di squadra, compreso Zack, lo invitarono a continuare la serata al molo con una bottiglia di tequila, ma Roman rifiutò gentilmente. Era stanco, dato che la notte scorsa l’aveva passata a scorrazzare assieme al branco per il bosco per celebrare il compleanno. Voleva solo sdraiarsi sul letto e chiudere gli occhi.

Uscirono e a gruppetti salirono sulle auto parcheggiate nello spiazzo davanti al ristorante, per poi immettersi in strada a calcson spianati e altri auguri rivolti a Roman. Anche Charlotte e Zack salutarono, perché la ragazza aveva il coprifuoco: i suoi genitori erano preoccupati per l’aumento di crimini in città e non volevano che Charlotte rimanesse fuori fino a tardi.

Così, Roman e Jennifer rimasero soli. Il lupo sapeva che era un’altra delle trovate di Charlotte, c’era la sua firma inconfondibile. Piccolo genio del male in minigonna.

Osservò con la coda dell’occhio Jennifer portarsi una ciocca bionda dietro l’orecchio, in un gesto nervoso. Lei si schiarì la gola e si strinse nel cappotto beige, elargendogli un sorriso speranzoso.

“Ti riaccompagno a casa?” le domandò.

“Grazie. Se non è un disturbo. Altrimenti, posso chiamare un taxi.”

Roman annuì. Tastandosi le tasche in cerca delle chiavi dell’auto, si accorse di aver dimenticato il cellulare dentro il ristorante.

“Torno subito. Aspetta qui.”

La strada era deserta, vista l’ora tarda. Per non assiderare, Jennifer si avviò verso la macchina di Roman, il ticchettio dei suoi tacchi l’unico suono distinguibile nel silenzio.

Ad un tratto, un rumore proveniente dal vicolo dietro il locale la paralizzò. Si girò lentamente, sondando l’oscurità con lo sguardo. Vide dei cassonetti e suppose che si trattasse di un gatto randagio. Non era raro che bazzicassero intorno ai ristoranti. Scrollò il capo e continuò a camminare verso la macchina.

A un metro dal traguardo, il medesimo rumore la costrinse a voltarsi ancora.

“Chi c’è? Roman?” chiamò incerta.

Colse un movimento nel vicolo. Deglutì e si strinse di più nel cappotto.

I lampioni del parcheggio tremolarono e si spensero all’improvviso, lasciandola al buio. Estrasse il cellulare e attivò la torcia, puntandola di fronte a sé.

L’ennesimo tramestio giunse dal vicolo.

“Chi c’è?”

Quando una risposta tardò ad arrivare, arretrò. In quell’istante, pure la torcia del cellulare si spense. Agitata, si sbilanciò e inciampò sui tacchi, finendo distesa sull’asfalto. Occhieggiò febbrilmente in direzione delle finestre del ristorante e vide Roman frugare tra i sedili. Non si era accorto del calo di corrente. Anzi, il locale era ancora perfettamente illuminato.

Jennifer si issò a sedere e si alzò con un grugnito. Si era sbucciata un ginocchio e il gomito pulsava.

All’improvviso, qualcosa l’agguantò per la gola e l’ossigeno le venne strappato via bruscamente dai polmoni. Sbarrò le palpebre quando l’orrenda sagoma della creatura invase il suo campo visivo. Tentò di urlare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono.

Sarebbe morta.

Quella certezza, assieme alla paura, prese d’assedio e piantò le crudeli radici nella sua coscienza. I suoi occhi si riempirono di lacrime.

“Roman…” rantolò a fatica.

La vista si sfocò e il buio calò su di lei.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** The song of the abyss ***










Jennifer si risvegliò a causa di uno strattone violento, che la scaraventò sull’asfalto. All’impatto, la bocca si spalancò per incamerare ossigeno e un gemito sofferente le raschiò la gola. La vista era ancora sfocata. Presto, avvertì un liquido caldo colarle sulla nuca. Una voce nella sua mente le suggerì che era sangue, ma preferì non ascoltarla, altrimenti avrebbe rischiato di avere un attacco di panico e non era decisamente il momento adatto.

Tossì e rotolò su un fianco, cercando di capire dove fosse e cosa stesse succedendo. Ringhi animaleschi le perforarono le orecchie, sovrastando il sibilo che le aveva prese d’assalto. Puntò lo sguardo allucinato sulle due figure che stavano lottando a pochi passi da lei e per poco il suo cuore non si fermò.

“Roman…”

Ma quello non poteva essere il ragazzo che le piaceva. Era grottesco, peloso, con lunghe zanne affilate, artigli al posto delle unghie e uno spesso strato di pelliccia intorno al viso. I suoi occhi, poi, erano gialli, simili a quelli di un lupo.

La lotta si fece subito accesa. Roman era in svantaggio. La creatura, il mostro, qualsiasi cosa fosse, era più forte e più veloce, ogni colpo andava a segno. I vestiti del ragazzo erano a brandelli, dalle ferite sgorgava sangue. Il suo respiro si stava facendo sempre più affannato. In un paio di minuti sarebbe stato troppo stanco per combattere e il mostro li avrebbe presi entrambi.

Jennifer agì d’istinto. Si tolse i tacchi, si disfò della borsa e si lanciò contro la creatura, aggrappandosi come un koala alla sua schiena, le braccia attorno al suo collo e le gambe attorno al bacino. Il terrore minacciò di sopraffarla, ma tenne duro. Doveva aiutare Roman. Lui l’aveva salvata, stava lottando per lei, non poteva lasciare che quella cosa lo uccidesse senza fare niente. Represse a stento un conato quando il tanfo di sangue e putrefazione le aggredì le narici.

Una mano scheletrica le arpionò una caviglia. Un attimo più tardi, Jennifer si scoprì a ciondolare a testa all’ingiù, sospesa a mezz’aria. Il ringhio bellicoso di Roman le diede il coraggio di dimenarsi. Sferrò un calcio in faccia al mostro e pugni nel suo basso ventre. Tuttavia, pareva di colpire l’acciaio. Le sue nocche si sbucciarono, lividi e sangue le ricoprirono. Allora urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, sperando di richiamare l’attenzione di qualcuno.

Roman compì un balzo. Spalancò le fauci, mirando al polso del demone, quello attaccato alla mano che teneva prigioniera Jennifer. Però, quando fu a pochi centimetri dall’arto, il demone la lasciò. Le zanne affondarono nel polpaccio della ragazza, bucando pelle, muscoli e tendini. Si conficcarono talmente in profondità da sfiorare l’osso.

Precipitarono entrambi sul cemento in un groviglio di corpi, gemiti e grugniti.

I lampioni si riaccesero, illuminando il parcheggio vuoto.

Appurando che il demone se n’era davvero andato, Roman indietreggiò fulmineo da Jennifer, fissandola con orrore. Sentiva il sapore del suo sangue sulla lingua, l’odore della sua paura nel naso. Gli venne voglia di vomitare. Scosse con veemenza il capo e si sforzò di tornare in forma umana. Non aveva tempo per lo shock. Doveva occuparsi di Jennifer, chiamare i soccorsi, suo padre, Regan…

Jennifer emise un gemito strozzato, la mano avvolta attorno alla ferita del morso sul polpaccio. Roman si coprì la bocca per soffocare i singhiozzi, l’adrenalina che ancora pompava feroce nelle vene.

“Jennifer… mi dispiace. Dio, mi dispiace… non volevo…”

La ragazza scoppiò a piangere. Roman guaì, a corto di idee. Si tolse il cappotto e si avvicinò cauto per posarglielo sulle spalle, che erano scosse da violenti singulti.

“Chiamo mio padre. Vedrai, presto starai meglio. Resisti ancora un po’.”

Selezionò con dita febbrili il nome del padre sulla rubrica e si accostò il cellulare all’orecchio.

“Pronto?”

“Papà…” articolò con voce rotta.

“Roman. Che è successo? Dove sei?”

“Jennifer… il demone… ha cercato di prenderla, così io… io…”

“Dimmi dove sei. Arrivo subito.”

Roman gli diede l’indirizzo.

“Resta lì. Non muoverti.”

Quando Vincent riattaccò, Roman abbandonò il cellulare sull’asfalto e si accucciò accanto a Jennifer. Protese le mani per toccarla, ma lei si scansò bruscamente. Il senso di colpa lo soffocò.

“Non ti farò del male. Lo giuro. Mi dispiace tanto. Mi dispiace.” balbettò.

Singhiozzando, lei studiò il morso con occhi fuori dalle orbite: “Cosa…?”

“Ti spiegherò tutto dopo. Ora devi stare tranquilla, il pericolo è passato. Siamo vivi. Concentrati su questo. Starai bene, te lo prometto.”

Qualche minuto dopo, una BMW nera entrò nel parcheggio sgommando. I fari illuminarono la coppia accovacciata all’imboccatura del vicolo. I freni stridettero, le portiere dei sedili anteriori si aprirono. Tamara e Vincent li raggiunsero in un baleno. Non appena videro il morso sul polpaccio di Jennifer, assunsero un’espressione sgomenta.

Vincent si inginocchiò davanti al figlio, gli prese il visto tra le mani e lo costrinse a guardarlo.

“Cosa è successo?” domandò pacato, infondendo nella sua voce una scintilla dell’autorità di alfa.

“Il demone ha aggredito Jennifer. Io ho attaccato il demone. Lui la teneva per una caviglia, a testa in giù. Io… volevo morderlo sul polso, ma lui l’ha lasciata per primo. Così ho morso lei per sbaglio…”

“Dov’è ora questo… demone?”

“Se n’è andato.”

Tamara si accostò alla ragazza. Le rivolse un sorriso gentile e le accarezzò dolcemente i capelli spettinati. Notò che sul retro erano sporchi di sangue.

“Hai battuto la testa?”

“Sì…”

“Come ti senti?”

“Ho paura…” singhiozzò e tirò su col naso.

“Dimmi quante dita vedi.” disse, mostrandogliene due.

“Due.”

“Puoi dirmi il tuo nome completo e la tua data di nascita?”

“Jennifer Elizabeth Dawry. Sono nata il 30 novembre.”

“Bene. Non sembra che tu abbia una commozione cerebrale. Ora fammi vedere il morso, cara.”

“Mi fa male…”

“Lo so.”

La lupa esaminò la ferita, prima osservandola, poi annusandola da vicino. Stava già guarendo. Questo significava che Jennifer si sarebbe trasformata in un lupo mannaro, come Sean.

“Cosa ne sarà di me? E cos’era quel mostro?”

“Jennifer, voglio che mi ascolti attentamente.” proferì calma Tamara, trattenendo il suo sguardo spiritato fisso nel proprio, “Starai bene. Non sei in pericolo. Però, durante la prossima luna piena, ti trasformerai in un lupo mannaro.”

Se fosse stata lucida, se non avesse visto con i suoi stessi occhi l’aspetto animalesco di Roman, Jennifer sarebbe scoppiata a ridere.
“È questo che siete? Lupi mannari?” pigolò.

“No. Noi siamo licantropi.” si intromise Vincent, “Il morso di un licantropo trasforma l’essere umano in un lupo mannaro. Ma non hai nulla da temere, piccola. Verrai accolta nel branco e ti insegneremo a controllarlo.”

“Mi riempirò di peli ad ogni luna piena?!” 

“Non è così male.” la consolò Tamara con un sorriso incerto, continuando ad accarezzarle la schiena, “Adesso rilassati. Ti porteremo a casa nostra per parlarti più nel dettaglio dei cambiamenti a cui andrà incontro il tuo corpo. Dopodiché, se lo vorrai, ti riaccompagnerò a casa tua. Altrimenti, potrai dormire nella camera degli ospiti. Sarai al sicuro, te lo prometto. I lupi proteggono il loro branco a costo della vita. Tu sei una di noi, ora.”

Jennifer boccheggiò. Poi si girò a guardare Roman, che aveva le guance rigate di lacrime come lei.

“Mi dispiace. Credimi. Non avrei mai voluto farti questo. Non è così che dovrebbe andare.”

“Che intendi?”

“Il morso viene dato solo se c’è il consenso. Tu non ne hai avuta la possibilità. Io non te l’ho data. Ti ho strappato l’umanità senza chiederti il permesso.” singhiozzò, ricominciando a piangere, “Mi dispiace, Jennifer.”

“Mi hai salvata. Se non fosse stato per te… beh. Meglio un lupo mannaro che un cadavere, suppongo. Mi ci abituerò.” disse con un sorriso amaro.

Senza dubbio era lo shock a farla parlare così, come se diventare un lupo mannaro non fosse chissà cosa. Allargò le braccia e Roman ci si tuffò in mezzo di slancio, stringendola a sé come se temesse di vederla sparire.

“Cosa dirò ai miei genitori?” chiese, mentre passava pigramente le dita fra i capelli del ragazzo.

Vincent serrò le labbra, riflettendo sulla risposta.

“Ti sarei grato se tacessi. La sopravvivenza della nostra specie si basa sul segreto della sua esistenza. Se gli umani dovessero scoprirci, ti lascio immaginare le disastrose conseguenze. So che sono i tuoi genitori e tu ti fidi di loro, ma noi non li conosciamo. Un minimo errore di giudizio potrebbe gettarci nel caos, o in pasto ai cacciatori. Sì, c’è una fazione umana che adora infilzarci con proiettili d’argento e torturarci per sport. Comprendi il motivo della mia richiesta?”

“Va bene, manterrò il silenzio. Ma come farò per la luna piena? E se perdessi il controllo?”

“Trascorrerai le lune piene con noi, dove sarai al sicuro. Se seguirai i nostri insegnamenti, non dovrai temere di perdere il controllo. Sean, lo zio di Roman, è un lupo mannaro come te e vanta una grande esperienza. Ti affideremo a lui.”

“Okay.” mormorò, per poi puntare l’attenzione sul vestito strappato e pieno di sangue, “Accidenti! Amavo questo vestito.”

Tamara, Vincent e Roman sbuffarono una risata e, come per magia, l’atmosfera si rasserenò un poco.

 
*
 
Quando Jennifer venne fatta entrare nel salotto di casa Sinclair, Ruby e Sean si alzarono dal divano per accoglierla. Ruby, vedendola nervosa, pallida e tremante, nonché ricoperta di sangue, le elargì un sorriso e la invitò a sedersi, per poi recarsi in cucina a prendere un panno per pulire le ferite.

Tamara le chiese se desiderasse qualcosa da bere e, appena Jennifer propose un bicchiere d’acqua, sparì anche lei in cucina.

Vincent e Sean presero posto sul divano opposto a quello su cui era seduta Jennifer, le loro espressioni neutre, mentre Roman rimase in piedi, leggermente in disparte.

Trevor e Nina dormivano, ignari del dramma che si stava svolgendo al piano di sotto.

“Ecco qua, tesoro.” le disse Tamara, porgendole il bicchiere d’acqua.

“La ringrazio, signora Sinclair.”

“Chiamami Tamara.”

Ruby si inginocchiò ai piedi del divano e cominciò a lavare via il sangue. Tamara le adagiò una coperta sulle spalle tremanti e gliele accarezzò con dolcezza.

“Allora, Jennifer.” esordì Vincent, “Scommetto che hai delle domande.”

“Un po’, in effetti. Non so da dove cominciare. Sembra tutto così… folle.”

Vincent restò in silenzio per qualche secondo, a riflettere su come introdurre l’argomento. Poi, quando lo sguardo gli cadde sul figlio, gli venne un’idea.

“Roman, va’ in biblioteca a recuperare i due volumi sui lupi mannari che ha letto Sean quando si è unito a noi. Potrebbero tornare utili anche a Jennifer.”

Roman colse l’occasione per concedersi una meritata pausa. Era ancora scosso per lo scontro con il demone e, al contempo, dispiaciuto per Jennifer. La vita della ragazza sarebbe cambiata drasticamente e non poteva fare a meno di incolparsi. Se fosse stato meno avventato, se avesse pensato a una strategia prima di buttarsi nella mischia… no, si era svolto tutto troppo rapidamente per permettergli elaborare un qualsiasi piano. Aveva dovuto agire subito, non c’era stato tempo per tergiversare. Il problema era che a pagare il prezzo della sua inettitudine sarebbe stata Jennifer. Accoglierla nel branco era il minimo che potessero fare per lei. Il periodo di aggiustamento sarebbe stato lungo e difficile, ma non c’erano altre opzioni.

Entrò nella biblioteca e marciò deciso verso gli scaffali dietro la scrivania. Scandagliò i titoli dei volumi dall’alto verso il basso, stropicciandosi più volte le palpebre per spazzare via la stanchezza. Individuati i testi che cercava, li sfilò e si voltò.

Fece per superare la scrivania, quando qualcosa attirò il suo sguardo. Sopra il volantino di Teresa Meyers c’era una mano mozzata, fatta di pietra. Aggrottò le sopracciglia e si piegò per annusarla. Registrò l’odore del padre e quello di Sean, come se l’avessero toccata spesso, e qualcos’altro che non riusciva a definire.

Un bozzo sotto un plico di fogli catturò la sua attenzione. Li scostò e stavolta si imbatté in un piede di pietra. Il tallone copriva la faccia di Evelyn Richardson stampata sul volantino.

Posò i libri sulla poltrona e scostò con urgenza le scartoffie che tappezzavano la scrivania, finché non scoprì cosa c’era sotto: sei volantini e sei parti del corpo fatte di pietra. Impallidì.

“Papà, vieni qui.” sussurrò.

Non c’era bisogno di alzare la voce, dato che aveva lasciato la porta della biblioteca socchiusa. Aspettò qualche secondo, poi udì i passi di Vincent avvicinarsi veloci. Quando si affacciò, Roman non gli diede tempo di parlare. Gli indicò la scrivania e lasciò che afferrasse da solo la situazione.

Vincent sospirò e contrasse la mascella. Chiuse la porta dietro di sé e si accostò al figlio.

“Sono proprio quello che pensi.” disse, dritto al punto.

“Me lo avresti mostrato, prima o poi?” gli chiese Roman, privo di inflessione, lo sguardo carico di risentimento.

“No. Meno ne sai, meglio è.”

“Stasera abbiamo appurato che è una stronzata. Io e Jennifer abbiamo rischiato di morire.”

L’alfa si irrigidì per un momento, poi emise un altro sospiro e annuì: “D’accordo. Cosa vuoi sapere?”

Roman non si godette la vista della posa sconfitta del padre come avrebbe fatto in altre circostanze, né si concesse il tempo di provare stupore. Era esausto e c’erano questioni più importanti da discutere.

“Da dove vengono questi… pezzi?”

“Sean li ha trovati in un fossato, nel bosco.”

“Perché ne hai associato uno a ciascuna persona scomparsa?”

“Perché appartengono a loro. Sono parti dei loro corpi.”

“Come lo sai?”

“Ho spedito dei campioni al laboratorio gestito da Alfa Wu Xian, a New York. Ha trovato tracce di DNA. Corrispondono a quelli delle vittime.”

“Mi stai dicendo che… che il demone li trasforma in pietra e poi li getta in un fosso?”

“Non è un demone, Roman.” borbottò spazientito, “Si tratta di una Gorgone.”

“Gorgone? Tipo, come si chiama… ah, Medusa?”

“Sì.”

“Scherzi?”

“No.”

Roman aggrottò le sopracciglia: “Non può essere. Quello che abbiamo visto stasera non era certo una Gorgone. Era identico alla descrizione del demone che mi ha fornito Regan.”

“Beh… forse abbiamo due gatte da pelare, non una.” considerò Vincent.

“Lavorano insieme? Uno caccia e l’altro mangia?”

“Non lo so.” sospirò l’alfa, “Prova a descrivermi l’aspetto del demone che hai combattuto.”

Roman lo fece e Vincent si impensierì.

“Devo fare qualche ricerca più approfondita.”

“D’accordo, ma d’ora in avanti voglio essere tenuto aggiornato. Sai, non mi va di morire giovane.”

“Mi sembra giusto.”

“E lo diremo a Regan.” pronunciò secco.

“No.”

“Sì, invece. Dobbiamo. Ci ha aiutati molto e siamo in debito, non puoi negarlo.”

Vincent grugnì scontento: “Okay. Chiamalo e informalo degli ultimi sviluppi.”

Roman annuì e corse verso le scale. La madre, però, lo intercettò sul secondo gradino.

“Dove vai?”

“Devo chiamare Regan.”

“No, devi stare con Jennifer. Non dirò che è colpa tua se siamo in questa situazione, ma hai lo stesso delle responsabilità nei suoi confronti. Va’ in salotto, falle compagnia. Poi accompagnala nella camera degli ospiti e aspetta che si addormenti. Ho già cambiato il letto e appoggiato in bagno gli asciugamani puliti.”

Roman roteò gli occhi e si trascinò in salotto, preparandosi psicologicamente a un’altra nottata in bianco.

 
*
 
Giovedì mattina, la sveglia strappò Regan all’ennesimo incubo di urla e fiamme. Grugnendo, tastò sul comodino per spegnerla. Quando le sue sinapsi si attivarono, realizzò che il trillo non era quello della sveglia, ma la suoneria che aveva impostato per Roman. Afferrò il cellulare e accettò la chiamata senza guardare il display.

“Buongiorno, lupacchiotto.”

“Regan.”

Scattò a sedere, allarmato dal tono di voce dell’amico: “Cos’è successo?”

“Ieri notte, Jennifer è stata aggredita dal demone vicino al ristorante in cui abbiamo cenato. L’ho salvata per un soffio. Il demone è fuggito, ma per sbaglio l’ho morsa. Ora è un lupo mannaro.”

Regan sbatté le palpebre ed emise un verso interrogativo.

“Non farmelo ripetere, ho poco tempo.”

“Okay, con calma. Fammi pensare.”

“No, Regan, non ho tempo. Volevo dirti anche un’altra cosa: oltre al demone, dovremo occuparci di una Gorgone. Nel bosco, in un fosso, mio zio ha trovato i resti di pietra delle persone scomparse. Mi ha raccontato di aver trovato i primi resti mesi fa, ma mio padre me lo ha tenuto nascosto fino a ieri sera. Se non avessi scoperto per puro caso la mano mozzata sulla sua scrivania, avrebbe continuato a tacere.” ringhiò frustrato.

A Regan tornarono subito in mente alcuni versi della filastrocca del fantasma, quella che avrebbe dovuto avvisarlo dell’imminente pericolo in cui si trovava Timothy.

L’ombra il serpente curioso acchiappò
La sua superbia nel palmo schiacciò
La sua voce con gli artigli strappò.
Nella notte i suoi sibili nitidi
Sulla pelle fan nascere brividi.

La Gorgone, realizzò. Oh, merda… ha posseduto una Gorgone!

E cos’era che diceva la seconda parte della filastrocca?

Scappa, lesto, a più non posso
Non guardare dentro al fosso.
 
Perché non doveva guardare dentro al fosso, se là in fondo lo zio di Roman aveva trovato indizi fondamentali?

Inganni. Nient’altro che maledetti inganni. E Regan ci era cascato.

Se tutte le cose che erano uscite dalla bocca dei fantasmi, o quel che erano, erano inganni, allora la risposta era fare esattamente il contrario: stare fermo, guardare dentro al fosso… non trovare il cerchio nascosto? Era un dannato rompicapo. Un paradosso, come gli aveva detto Deirdre. Cosa doveva fare? Credere alle parole dei fantasmi o no?

“Roman, aspetta.”

“Scusa, non posso. Volevo solo aggiornarti sulla situazione. Hai già parlato con il rabbino?”

“Frena! Voglio i dettagli dello scontro che hai avuto con il demone.”

Roman gli riassunse la dinamica. Quando finì, calò il silenzio.

“Non ha senso.” disse Regan, riflettendo a voce alta, “Perché avrebbe dovuto fuggire? Era più forte di te. Avrebbe potuto ucciderti, o tramortirti, e prendere Jennifer. Che abbia paura dei licantropi? No, è assurdo. Tu eri in svantaggio, non ci sarebbe voluto niente a toglierti di mezzo. Ma perché lasciarvi andare? Lo avete visto, ora sapete che aspetto ha. Non teme che possiate dargli la caccia o dare l’allarme? E perché ha attaccato proprio Jennifer?”

“Perché ha attaccato tutte le sue altre vittime? Non lo sappiamo, Regan.” sospirò scocciato, “Sbrigati a tornare con delle risposte, non voglio che i nostri amici diventino i prossimi volti su quei dannati volantini!”

“Farò il possibile. Ti scrivo se trovo qualcosa.”

Regan abbandonò il cellulare sulle coperte e si passò stancamente le mani fra i capelli. Aveva il cervello pieno zeppo di domande. Era stato tentato di chiedere a Roman se per caso Jennifer avesse subito un lutto di recente e fosse stata a vedere la mostra alla Fondazione Sthenos, ma alla fine era rimasto zitto. Hillary aveva ripetuto che quella teoria era un vicolo cieco, perciò Regan non avrebbe sprecato tempo a rimuginarci su.

Tornando al demone, l’elemento che non quadrava con il modus operandi era che Jennifer e Roman erano sopravvissuti. Anche Regan era sopravvissuto. Ma, mentre Regan era sicuro di aver vinto il round grazie alla sua forza – o ai suoi poteri, o una combinazione delle due – costringendo il demone a battere in ritirata, Roman ne era uscito illeso solo perché il demone aveva dato forfait.

Come aveva potuto un essere tanto scaltro e potente commettere un errore così stupido come quello di lasciarli andare? Non aveva senso che iniziasse a compiere passi falsi proprio ora. Ciò indicava che voleva essere visto, e probabilmente Roman e Jennifer non erano nemmeno le sue vere prede, visto che li aveva risparmiati. Ma perché scegliere proprio loro?

Perché io li conosco.

Oh. Erano un messaggio. Per lui. Forse un modo per attirarlo di nuovo a casa e riprendere a giocare.

Perché ce l’hai con me, demone?

Un bussare alla porta lo distolse dalle sue elucubrazioni.

“Regan, sei sveglio? La colazione è pronta.” disse Sheila.

“Sì, scendo.”

Aspettò che se ne andasse, poi radunò i vestiti puliti e si recò in bagno a farsi una doccia. Una volta pronto, tornò in camera a prendere cellulare e portafoglio e raggiunse Sheila in cucina. Gli vennero serviti due toast caldi e una tazza di tè al limone.

“Ho qui una cosa per te.” gli disse la strega e gli porse una pila di taccuini, “Sono i diari di viaggio di Shannon. Dentro non c’è molto, sono perlopiù appunti, ma ho pensato che, magari, avresti voluto leggerli.”

Regan li accettò e se li strinse al petto: “Grazie. Lo farò.”

“Tienili pure. Io li conosco a memoria ormai.”

“Grazie.”

Dopo colazione, Sheila lo invitò a fare un giro della città. Fiona era impegnata, quindi il test era sospeso fino al pomeriggio. Invece che lasciarlo a morire di noia alla villa, Sheila lo convinse a mettere il naso fuori. Regan si fece pregare giusto un pochino, scoraggiato dalle nubi che si stavano ammassando sulla città, ma poi la curiosità ebbe la meglio.

Sheila gli mostrò la tavola calda in cui lei, Shannon, Andrew e Carl, il defunto marito di Sheila, erano soliti andare a mangiare quando i figli erano piccoli. Gli raccontò altri piccoli aneddoti di vita quotidiana e gli fece vedere il parco in cui Shannon aveva imparato ad andare in altalena, le scuole che aveva frequentato, il canile in cui aveva fatto volontariato durante il liceo. Poi, dal portafoglio, estrasse una foto di Shannon con la toga, che risaliva al giorno della cerimonia della consegna del diploma.

“Eravamo tutti così fieri di lei. La prima della classe, presidente del comitato studentesco e un’ottima giocatrice di pallavolo. Se solo fosse andata al college, l’avremmo vista studiare all’MIT.”

“In che ramo della magia era più versata?”

“Alchemica.” rispose con orgoglio, “Il suo talento per la matematica e la fisica l’ha sempre predisposta a quello specifico ramo. Era eccellente nei calcoli, non sbagliava mai.”

Pranzarono fuori con un hamburger, dopodiché Sheila lo scaricò di nuovo davanti alla villa e sgommò via dicendo che aveva delle commissioni da fare.

Regan si recò in biblioteca per sfogliare dei libri nell’attesa del terzo e quarto test. Anche se cercava di non darlo a vedere, era agitato. Stando al programma, avrebbe dovuto dimostrare la sua abilità nella manipolazione dell’aria e del fuoco e, onestamente, non aveva la minima di idea di come fare. Sperò che Fiona gli fornisse qualche indicazione, perché stavolta, al contrario della divinazione con le pietre, non avrebbe potuto improvvisare.

Mentre leggeva distrattamente i titoli dei libri, scovò su uno scaffale un tomo che trattava della creazione di amuleti e talismani e si mise subito a leggerlo. Magari avrebbe trovato qualcosa di utile per contrastare l’influenza del demone.

Apprese che la maggior parte di essi erano composti da erbe e pietre, tutto sommato abbastanza facili da costruire. L’unico ostacolo era l’energia che le erbe apposite sprigionavano: dato che erano designate per uso umano al fine di proteggere dal male, Regan veniva respinto come un polo negativo. Ciascuna combinazione suggerita dal libro avrebbe condizionato pure lui, indebolendolo fino a renderlo simile a un guscio vuoto.

Due ore dopo, Fiona lo trovò stravaccato su una sedia nell’ala sud della biblioteca, una smorfia costipata sul volto e le mani intrecciate in grembo.

“Che cosa stai combinando?”

“Studio gli amuleti contro il male.” mugugnò Regan, facendo un cenno col capo in direzione del libro.

“Sei metà vampiro, non puoi maneggiare gli amuleti. Coraggio, metti tutto a posto, così possiamo cominciare il test dell’aria.”

Il ragazzo obbedì. Si sentiva rallentato e un po’ intontito. Cosa non avrebbe dato per un litro di sangue caldo. Pregò che la debolezza non inficiasse il risultato del test.

Fiona lo guidò nella stanza che puntava a est e lo invitò a sedersi. Gli mise di fronte un foglio di carta, una sfera di plastica e una manciata di segatura.

“Concentrati e incanala l’energia nelle tue mani. Non appena la sentirai ammassarsi sui tuoi palmi, spingi con la mente e immagina che questi tre oggetti prendano il volo.” lo istruì.

“Ma come? Nessun abracadabra?”

“Questo è un test attitudinale. Imparerai gli incantesimi legati agli elementi se e quando inizierai l’apprendistato.”

Dubbioso, Regan chiuse gli occhi, trasse un profondo respiro e si impose la calma. Doveva solo concentrarsi. L’aveva fatto un milione di volte, non era diverso dalla meditazione. Per prima cosa, si impegnò a regolarizzare il battito frenetico del suo cuore. Dopodiché, si focalizzò sull’energia che gli scorreva nelle vene. Quando, dopo svariati minuti, si accorse di non sentirla ancora, iniziò a preoccuparsi.

“Ehm… come faccio a trovare la concentrazione? Ci sono degli esercizi che potrebbero aiutarmi?”

“Ognuno ha il suo metodo, Regan. Rilassati e lascia che il potere fluisca in te.”

“È più facile a dirsi che a farsi.” borbottò.

Ripeté gli esercizi di respirazione finché non ritrovò la calma. Quindi protese le mani verso gli oggetti, immaginandoseli sospesi a mezz’aria, e spinse. Spinse. Spinse. Riaprì gli occhi e si afflosciò sulla sedia.

“Non funziona.” esalò imbronciato.

“Evidentemente, hai poca affinità con questo elemento. Proviamo con il fuoco.”

Fiona lo ricondusse nella stanza a sud e gli mise di fronte una candela, un fiammifero e una teglia ignifuga.

“Perché mi hai fatto cambiare stanza?”

“I quattro punti cardinali possono essere associati ai quattro elementi: est con l’aria, sud col fuoco, ovest con l’acqua e nord con la terra. Ti ho fatto sedere a est per facilitarti nel test dell’aria, ora ti ho portato a sud per aiutarti in quello del fuoco.”

“E cosa devo fare con questa teglia?”

“Accendere una candela o un fiammifero, oggetti di per sé infiammabili, non è difficile. Dar fuoco a qualcosa che, invece, dovrebbe essere refrattario a tale elemento è la vera prova. I primi due servono come riscaldamento, il terzo confermerà il tuo potere.”

“Okay. Cosa devo fare? Entrare in contatto con l’etere ed evocare lo spirito del fuoco?”

Fiona lo fissò con sussiego, chiaramente non apprezzando il suo sarcasmo.

“Devi concentrarti, come prima. Non appena avvertirai l’energia raccogliersi sulla punta delle tue dita, spingi con la mente.”

“Sei proprio sicura che si debba fare così?”

“Hai tempo fino al tramonto.”

“Mi è permesso uno spuntino?”

“No. Su, comincia.”

“Resti qui?”

“È meglio che ti sorvegli, per sicurezza. Ho disegnato dei sigilli nella stanza per scongiurare gli incendi, ma non si sa mai. Non è un trattamento speciale, lo facciamo con tutti i novizi. Il fuoco è il più pericoloso degli elementi.”

“Okay. Potresti guardare da un’altra parte, però? Mi innervosisco se mi sento osservato.”

La strega roteò gli occhi e gli diede le spalle. I pantaloni bianchi le fasciavano le gambe a pennello e la camicetta blu metteva in risalto il rosso dei suoi capelli, che ricadevano sciolti sulla schiena in morbide onde.

Regan serrò le palpebre e inspirò profondamente. Non appena il battito rallentò, finse che Fiona non fosse presente e, come per magia, la tensione abbandonò i suoi muscoli. Così andava già meglio. Galleggiò nel nulla per qualche minuto, indeciso su come procedere.

L’immagine di una soffitta lo distrasse. Prima di rendersene conto, venne risucchiato nei ricordi dell’infanzia. Navigò sia tra quelli belli che quelli brutti, affogò in essi finché le emozioni non lo travolsero, caricandolo con un ruggito assordante. Si tappò le orecchie con le mani e gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Il ruggito si quietò e il silenzio lo avvolse.

Quando riaprì gli occhi, si scoprì a fluttuare in uno spazio buio, parecchio simile a quello dei suoi incubi. La sua mente era sgombra. Sebbene i pensieri relativi al mondo esterno continuassero a tentarlo, sbattendo sulla bolla protettiva che lo circondava, mantenne i nervi saldi.  

Avanzò nelle tenebre in una direzione a caso, alla ricerca di non sapeva neanche lui cosa. Una scintilla? Una sfera di luce? Una bacchetta magica? Ad ogni passo il buio si infittiva sempre di più, arrivando a diventare soffocante come un miasma tossico.

Il bisogno di uscire da quella dimensione si fece impellente. Si girò e proiettò in avanti la coscienza, assieme alla più infinitesimale briciola di volontà. Doveva localizzare al più presto il punto d’accesso, per attraversarlo di corsa senza guardarsi indietro.

Il paesaggio mutò. Un secondo prima nuotava perso nell’oscurità, quello dopo era in piedi in mezzo a un deserto di roccia. Il cielo era un oceano liquido del colore del sangue, la terra una distesa piatta, arida, grigia e piena di crepe. Non tirava un alito di vento, tutto era immobile, morto.

Il suo respiro accelerò, la paura serpeggiò nelle sue viscere e gliele attorcigliò per mezzo di quello che sembrava filo spinato ricoperto di acido. Boccheggiò e compì un paio di passi indietro, barcollando come un ubriaco. Recuperato l’equilibrio, poggiò le mani sulle ginocchia. Ansimò per lo sforzo. Gli occhi sgranati erano fissi sul terreno, ma in realtà non lo vedeva. Il panico lo pervase.

Si impose di riflettere. Quel posto non era reale, quindi non doveva temere che gli accadesse qualcosa. Si trovava dentro la sua mente. Non che tale consapevolezza non lo sconcertasse – insomma, la sua mente doveva essere alquanto malata per creare un simile mondo – ma almeno sapeva che poteva abbandonarlo. Dopo quella che gli parve un’eternità, riuscì a calmarsi.

Decise di studiare meglio lo strano paesaggio. Non percepiva né caldo né freddo, forse a causa dell’assenza di temperatura. Era inquietante. Sollevò lo sguardo per scrutare il cielo. Piccole e liquide onde scarlatte si muovevano sinuose sopra la sua testa, in una danza ipnotica che, per qualche momento, gli fece dimenticare il motivo per cui era lì.

Conficcò le unghie nei palmi per scacciare il torpore e si concentrò sul fuoco. Doveva trovare la fonte dell’energia, incanalarla nelle dita e accendere uno di quegli oggetti, per cominciare. Poteva farcela.

Aprì le mani e fletté le dita. Immaginò una fiammella sospesa a pochi centimetri dalla pelle, ma non accadde niente. Sbuffò frustrato. Scrocchiò il collo e riprovò, invano. Era evidente che doveva cambiare metodo.

Regan colse un movimento nell’oceano rosso sopra di lui. Alzò il capo di scatto, sondandolo con occhi sgranati. Era certo di non esserselo sognato. Tuttavia, non notò nulla di strano. Aggrottò le sopracciglia e si morse un labbro. Poi scrollò una spalla e si rimise al lavoro.

Ritentò l’evocazione del fuoco improvvisando mosse ridicole. Schiacciato dall’umiliazione, ma anche grato di non avere testimoni, accantonò ogni speranza. O gli stava sfuggendo qualcosa, o non possedeva la magia elementale. Il fallimento pure del quarto test sarebbe stato un duro smacco da digerire, però non poteva pretendere da se stesso l’impossibile. Era chiaro che avesse dei limiti, non era mica un dio!

Un tuono rimbombò dappertutto, anche se nessun fulmine lo aveva annunciato. Il rumore inaspettato lo fece sobbalzare. Si accucciò e si coprì le orecchie con le mani, sperando di non venire colpito.

Quando il silenzio si protrasse abbastanza da convincere Regan che il pericolo era passato, si rialzò lentamente. Osservò il cielo a lungo, domandandosi perché fosse così e cosa si celasse al di là.

Come se avesse udito i suoi pensieri, un’ombra si avvicinò alla superficie, ingrandendosi a poco a poco, fino a diventare gigantesca. Aveva forma umana ed era di dimensioni spropositate. I suoi piedi poggiavano sul pelo dell’acqua rossa, dall’altro lato. Le ginocchia erano piegate e il busto era sporto in avanti, quasi che l’essere si fosse accovacciato per guardare qualcosa in basso. Per guardare lui. Dalla sua prospettiva, Regan avrebbe dovuto trovarsi capovolto a testa in giù.

Il gigante d’ombra aveva un fisico magro e tonico, anche se era difficile delinearlo a causa del tremolio delle onde, che distorcevano i contorni della sua figura. Regan notò che sulla testa spuntavano sette corni. Essi componevano una corona o una specie di copricapo, del tipo che di solito vedevi sul cranio dei capi tribù indiani. Era impossibile capire da dove partissero, ma Regan notò che erano posizionati a raggera e sembravano curvati all’indietro, simili ad aculei che molleggiavano al minimo movimento. Probabilmente, erano fatti di un materiale elastico o la combinazione di più pezzi di qualcosa, a giudicare dalla forma vagamente seghettata.

Regan deglutì e piegò la testa da un lato. L’ombra lo imitò nello stesso instante. Regan agitò una mano in segno di saluto. L’ombra, di nuovo, imitò il gesto, come davanti a uno specchio.

“Chi sei?!” urlò.

Non gli giunse risposta. Non che si fosse illuso di riceverla.

“Tu sai come si manipola il fuoco?”

Si sentiva così stupido. Chiedere a un’ombra gigante, che la sua mente aveva creato in un mondo di fantasia, di aiutarlo a superare il test… bah. Si consolò pensando che tentar non nuoce. Magari l’ombra era la chiave. Regan non aveva la pretesa di conoscere il funzionamento del proprio subconscio, perciò tutto poteva essere.

L’ombra sollevò un dito completo di artiglio e lo abbassò verso la superficie dell’oceano. Essa si dilatò e un vortice discese verso Regan, accompagnando l’incedere del dito. Non seppe cosa lo spinse a protendere a sua volta una mano. Appena avvenne il contatto, un boato riecheggiò nella landa desolata.

Fiona osservava attenta Regan. Si era immobilizzato più di un’ora prima e, se non avesse già appurato che respirava ancora, avrebbe creduto che fosse morto.

Per un bel po’ non ci fu alcun cambiamento, proprio come si aspettava. Il sigillo di annientamento sul soffitto stava compiendo il suo lavoro egregiamente, come aveva fatto poco prima durante il test dell'aria. Poi, però, l’aria attorno a Regan cominciò a sfrigolare, come accade quando un oggetto diventa rovente. La temperatura aumentò. Presto Fiona iniziò a sudare, ma il ragazzo non pareva risentire degli effetti del caldo. I suoi riccioli ricadevano sulla fronte in una zazzera corvina indomabile. Il suo viso pallido, segnato da profonde occhiaie, era asciutto. Persino la sua espressione era pacifica, come se stesse facendo un bel sogno.

In quel momento, un terremoto scosse la terra. Fiona barcollò e si aggrappò a uno scaffale per non cadere. I libri, invece, precipitarono sul pavimento con tonfi sordi. Il lampadario nella sala circolare oscillò in maniera allarmante. Gli incantesimi che circondavano la villa si spezzarono con un boato assordante, scatenando le grida delle streghe radunate in salotto.

“Impossibile…” esalò sconvolta Fiona.

Sheila irruppe in biblioteca e perlustrò l’ambiente con sguardo febbrile: “Fiona, che sta succedendo?!”

“Non avvicinarti!”

Non appena Sheila posò gli occhi su Regan, si mise a boccheggiare scioccata.

Un vortice di fuoco lo avvolgeva da capo a piedi, incenerendo qualsiasi cosa si trovasse ad almeno due passi di distanza. Gli scaffali dietro di lui e il tavolo erano in fiamme. Le lingue infuocate avanzarono rapidamente verso le tende della finestra e sul soffitto, dove un sigillo che Sheila conosceva, ma che non aveva mai visto lì, si stava sgretolando.

“Cos’è quello? Che cosa significa?” indagò, scoccando a Fiona un’occhiata accusatoria.

“Te lo spiego dopo. Ora aiutami a estinguere l’incendio, prima che divampi su tutto il piano!”

Le due streghe cominciarono a recitare incantesimi all’unisono, evocando il potere dell’acqua. L’aria si riempì di umidità e, pochi secondi più tardi, piccole particelle d’acqua calarono sul fuoco per combattere la sua furia selvaggia. Le fiamme ruggirono con più violenza e rinnovarono i loro sforzi.

“Non funziona!” urlò Sheila.

“Chiama gli altri, ci serve più potere.”

“Regan, fermati!”

“Non ti sente, è in trance. Va’, sbrigati!”

Fiona attinse alle sue riserve di energia e scagliò una potente ondata di particelle d’acqua direttamente su Regan. Spesse volute di fumo si alzarono, ma il fuoco, in ritorsione, bruciò il resto dell’ossigeno. Fiona tossì e cadde in ginocchio.

Sheila tornò con altre dieci streghe al seguito. Non fecero domande, mettendosi subito all’opera. Unirono le loro voci in un canto e le parole dell’incantesimo rotolarono fuori dalle loro labbra veloci e chiare. Evocarono un tornado d’acqua e lo sguinzagliarono contro Regan, che venne colpito in pieno e scaraventato fuori dalla finestra. Il vetro si frantumò in una miriade di schegge.

Le fiamme nella biblioteca si estinsero in una manciata di attimi, ma fuori, in giardino, Regan continuava a produrle senza sosta. Lambirono le siepi e i cespugli, annerirono l’erba e il terreno, in un inferno incandescente che non sembrava propenso ad accettare la sconfitta.

Le streghe si misero in fila di fronte alla finestra, Fiona in cima. Posarono le mani sulle spalle della strega davanti e incanalarono il potere verso la Prima, per darle modo di compiere un incantesimo ancora più forte.

Il cielo si rannuvolò, fulmini e saette squarciarono le nubi e un vento freddo si alzò. Una pioggia fitta si abbatté sulla terra, torrenti e torrenti d’acqua gelida che evaporavano in spirali di fumo non appena venivano a contatto con Regan. Questi era immobile, al centro di un cerchio perfetto di erba morta, ancora immerso nella trance.

Fiona grugnì. Attinse più energia ed evocò una tempesta così violenta da sradicare gli alberi dal suolo e divellere i tetti delle case più vicine. La quantità d’acqua che ricoprì Regan, a quel punto, divenne troppa per il fuoco. Lo videro estinguersi pian piano e svanire, risucchiato nel corpo di Regan. Allora terminarono l’incantesimo e arretrarono, esauste, all’interno della biblioteca.

Sheila corse fuori, ignorando deliberatamente i richiami di Fiona. Incurante della pioggerellina che le inzuppò i vestiti, circumnavigò la casa e raggiunse il cortile sul retro, dove Regan giaceva inerte, in mezzo ai resti del caos che aveva provocato.

Si inginocchiò cauta accanto a lui e allungò una mano per toccarlo. La sua felpa era umida e fresca, intatta, come i pantaloni e le scarpe. Non v’era alcuna ustione a sfregiare la sua pelle candida. Strinse la presa attorno a una delle sue spalle e lo scosse gentilmente.

“Regan. Regan!”

Il ragazzo mugugnò e contrasse il viso in una smorfia.

“Regan! Apri gli occhi.”

Non ricevendo risposta, Sheila lo afferrò da sotto le ascelle e lo tirò su. Aveva una certa età, ma la magia aveva un effetto rinvigorente sul corpo. Non importava quanto in là con gli anni fosse una strega: finché la magia scorreva in lei, la forza fisica non l’avrebbe abbandonata. Così riuscì a sollevare Regan e a portarsi una delle sue braccia attorno al collo per sorreggerlo.

Lo trascinò verso l’entrata della villa e, con l’aiuto di altre due streghe, lo depose su uno dei divani del salotto. Fatto ciò, tutte e tre si riunirono al resto delle streghe in biblioteca.

“Cosa è successo durante il test?” esordì Savannah, la madre di Poppy.

“Ha perso il controllo.” rispose Fiona.

“Un simile potere non dovrebbe vagare libero sulla terra.” borbottò un’altra strega con aria cupa, “Ve l’avevo detto: questo essere è un abominio. Non gli dovrebbe essere permesso di vivere.”

“Fiona, possiamo parlare in privato?” le chiese Sheila, usando il tono più duro del suo repertorio, “E stavolta non accetterò un no come risposta.”

La Prima serrò le labbra e annuì e facendole cenno di seguirla nello studio.

“Lasciate Regan a riposare.” ordinò dalle scale, “Tornate alle vostre case.”

“E gli incantesimi di protezione attorno alla villa?” la interrogò Savannah.

“Li erigerò di nuovo più tardi, non preoccupatevi.”

Quando la porta dello studio si chiuse alle spalle di Sheila, Fiona rilasciò un sospiro esausto. Mentre si massaggiava il collo, si avvicinò al mobile degli alcolici per estrarre due bicchieri e una bottiglia di scotch.

Il suono delle sirene penetrò nella stanza, pur con le finestre chiuse.

Sheila accettò il bicchiere che Fiona le porse, si accomodò su una poltrona e attese che l’altra facesse altrettanto prima di partire all’attacco.

“Ebbene? Perché c’era un sigillo di annientamento sul soffitto? Non c’è mai stato.”

“Era necessario.”

“Ne ho abbastanza delle tue frasette enigmatiche e delle tue bugie!” sbottò, stritolando il bicchiere tra le mani, “Qual è il tuo piano? Che senso ha iniziarlo all’arte occulta, se poi fai di tutto per scoraggiarlo e ostacolare il suo apprendimento? E perché mi hai nascosto la vera causa della morte di Shannon?”

Fiona posò il proprio bicchiere sulla scrivania e si afflosciò sullo schienale della poltrona, voltata di tre quarti verso la finestra. Il suo sguardo era fisso sul panorama esterno. Vigili del fuoco stavano prestando soccorso dove la distruzione della tempesta aveva colpito di più; ambulanze e macchine della polizia sfrecciavano per le strade a sirene spianate; civili si aiutavano a vicenda a spostare rami e veicoli per liberare il passaggio.

“C’è una cosa che non sai, Sheila. Pianificavo di portarmi questo segreto nella tomba, ma le circostanze mi forzano adesso a rivelartelo.”

“Di cosa si tratta?”

Fiona incrociò i suoi occhi e si adombrò: “Il padre di Regan è Stefan Black.”

“Il negromante?!” esclamò inorridita, “Come lo sai?”

“Me lo disse Shannon. Aveva tagliato tutti i ponti con te, ma, di tanto in tanto, continuava ad aggiornare me sui suoi spostamenti e… beh, per fartela breve, lui la lasciò poco prima che lei scoprisse di essere incinta. Scomparve nel nulla, abbandonandola ad Ashwood Port. Quando Shannon si accorse di aspettare un bambino, mi chiamò per chiedermi aiuto. Era al primo mese, eppure i sintomi della gravidanza si erano già manifestati. Così, la raggiunsi.”

Sheila si coprì la bocca con una mano e gli occhi le si riempirono di lacrime.

“Lei mi confermò che l’ultimo uomo con cui era stata era Stefan Black.”

“Menzogne!” sibilò indignata, “Lei non avrebbe mai… mia figlia non… con uno sporco negromante, per giunta! No, non la mia Shannon.”

“Sheila…” Fiona si umettò le labbra e la fissò intensamente, “Stefan non era un negromante.”

Sheila ricambiò il suo sguardo con uno colmo di smarrimento, combattuta tra il desiderio di sapere e quello di tapparsi le orecchie.

“In che senso…?”

“Quando la visitai, capii subito che il bambino non era umano. La creatura che Shannon portava in grembo… Regan è sempre stato un mostro. Cercai di convincerla ad abortire, ma lei non volle sentire ragioni. Pareva sotto un l’effetto di un incantesimo. Mi disse che il suo bambino era innocente, che non era colpa sua se aveva ereditato la natura del padre…”

“Che genere di natura? Fiona, cos’era Stefan?”

“Un demone.”

 
*
 
Era da poco passata la mezzanotte, ma le strade principali erano ancora abbastanza trafficate. Regan percorse di soppiatto i vicoli secondari, attento a restare nell’ombra e non emettere un fiato. I piedi nudi non facevano rumore sull’asfalto, i suoi movimenti erano aggraziati e silenziosi come quelli di un felino. Indossava solo un paio di pantaloni della tuta e una canottiera bianca, ma, nonostante fosse dicembre, non percepiva il freddo.

I suoi sensi erano sovraccarichi. La sete di sangue premeva e graffiava nel suo sterno, simile a una belva inferocita. Le sue narici, sature degli odori più disparati, fremevano a ogni passo, conducendolo sempre più vicino alla meta. I muscoli si muovevano col pilota automatico, i pensieri erano annebbiati e gli occhi erano vigili, animati da una scintilla ferale.

Non era più un ragazzino alla soglia della pubertà, ma un predatore a caccia.

Quando giunse in prossimità dell’ospedale, inalò l’aroma ferroso del sangue a pieni polmoni. La salivazione aumentò all’istante, i canini si allungarono e i muscoli guizzarono, pronti a scattare.

Evitò le entrate principali, optando per acquattarsi accanto a una delle porte riservate al personale. Il vicolo in cui si affacciava non era frequentato e nessun mezzo poteva passare. Era il posto perfetto per attendere l’arrivo di una preda.

E così, Regan aspettò. Presto perse la nozione del tempo, focalizzato soltanto sulla porta e le entrate del vicolo. La luce verde al neon sopra la porta era l’unica fonte di luce, poiché quelle dei lampioni delle strade intorno non riuscivano a penetrare l’oscurità fino a lì.

Ad un tratto, la porta si aprì e ne uscì una giovane donna. Indossava la divisa blu da infermiera, con lo stetoscopio appeso al collo e il tesserino di riconoscimento attaccato al petto. I capelli neri erano legati in una coda alta, il viso privo di trucco era pallido e le labbra stirate in una linea sottile. Borse violacee incorniciavano due grandi occhi scuri da cerbiatta.

Regan la vide estrarre da una tasca un pacchetto di sigarette. Le mani le tremavano e il suo respiro era irregolare, come se fosse sull’orlo del pianto. Tutto ciò che Regan sentiva era la melodia del suo sangue e il ritmo ipnotico del suo battito.

Deglutì la saliva in eccesso ed elaborò una strategia. Non poteva nutrirsi di lei in quel vicolo, chiunque avrebbe potuto scoprirli. Quindi avrebbe dovuto attirarla in un luogo isolato. Ma come? E dove? Un’idea gli balenò fulminea nella mente e ghignò famelico nel buio.

Non appena l’infermiera spense la sigaretta sotto la scarpa, Regan le comparve a fianco, cercando di farsi più piccolo possibile. Non gli occorse chissà quanto sforzo per apparire fragile e innocuo, data la sua magrezza e l’aria da cucciolo abbandonato. Inoltre, adesso sfoggiava pure del sangue sulla pelle, là dove ore prima la frusta di sua nonna si era abbattuta. I tagli si erano rimarginati, ma il segno era rimasto.

“Oh, cazzo!” sbottò l’infermiera, sussultando vistosamente, “Scusa, mi hai spaventata… oddio, cosa ti è successo?”

Regan fece tremolare il labbro inferiore. Continuò a guardare in basso per dare tempo alle lacrime di ammassarsi dietro le ciglia, in modo tale che la recita risultasse più convincente.

La donna si inginocchiò di fronte a lui e gli sorrise: “Tranquillo, sei al sicuro. Come ti chiami?”

“Ryan…”

“Okay, Ryan. Io sono Zoe. Che ne dici di venire dentro con me, così ti do un’occhiata?”

“No… non mi piacciono gli ospedali… ti prego, non voglio…” singhiozzò.

“D’accordo. Intanto, dimmi: c’è qualcuno che posso chiamare? I tuoi genitori?”

“Non ce li ho...”

“Oh. Allora chi si prende cura di te?”

Regan scosse il capo, si strinse nelle spalle e tirò su col naso.

L’infermiera sospirò e guardò l’orologio sul polso: “Sei fortunato, il mio turno è finito. Ti va bene se ti porto a casa mia per medicarti e poi ti accompagno alla centrale di polizia?”

“Po-polizia?!”

“Okay, okay, calmati. Per stanotte starai con me, va bene? Ma domattina andremo in centrale, altrimenti mi accuseranno di rapimento di minore. Lo capisci, vero?”

Regan annuì.

“Ottimo. Quanti anni hai, piccolo?”

“Undici.”

“Okay. Vieni, ti porto alla macchina. Aspetterai dentro mentre io vado a recuperare la mia borsa. Farò in fretta, promesso.”

Quando Zoe si sporse per prendergli una mano, Regan si scansò. Con quella mossa ottenne l’effetto desiderato, ossia farle credere che avesse paura. I lividi lasciati dalle corde sui polsi contribuirono a convincerla che qualcuno avesse abusato di lui e per questo non apprezzasse il contatto fisico, poiché lo associava al dolore. In realtà, voleva solo evitare che la sua temperatura corporea la insospettisse.

“Puoi fidarti, Ryan, non ti farò del male.” lo rassicurò, “Perdonami se ti ho spaventato.”

Gli sorrise e lo invitò a seguirla nel parcheggio. Regan lo fece senza esitare, mantenendo la testa bassa per nascondere il lieve ghigno che gli curvava le labbra.

Venti minuti dopo, Zoe spense il motore della macchina davanti a una graziosa casetta dai muri bianchi. Si ergeva su un solo piano e non aveva giardino. Le finestre erano buie, le tende tirate e all’interno Regan non udì altro che silenzio, segno che l’infermiera viveva sola. Perfetto.

“Vieni, entra.” lo incoraggiò con un altro sorriso.

A giudicare dal suo comportamento durante il tragitto, in cui lo aveva riempito di chiacchiere superficiali per metterlo a suo agio, era caduta in pieno nella trappola.

Regan fu lesto a obbedire, smanioso di rifugiarsi in casa per evitare di farsi scorgere dai vicini della donna. Le abitazioni adiacenti erano immerse nell’oscurità, ma la prudenza non era mai troppa.

Venne condotto in salotto e fatto sedere sul divano. Mentre Zoe andava a prendere il kit di primo soccorso in bagno, Regan ne approfittò per esaminare meglio il proprio corpo. Deformò le unghie in piccoli artigli e provvide a rinnovare i tagli dove il sangue gli macchiava la pelle. Non li fece troppo profondi, dato che Zoe li aveva osservati di sottecchi già parecchie volte da quando l’aveva avvicinata nel vicolo. Piccole stille di sangue sbocciarono dalle ferite e imbrattarono la pelle.

Zoe tornò e si sedette sul tavolino di fronte a lui. Poi aprì il kit e ispezionò i tagli con cipiglio critico, ma senza abbandonare il sorriso.

“Sono ferite superficiali, non rimarrà neanche la cicatrice. Adesso ti disinfetto, va bene?”

Indossò i guanti di lattice, prese cotone e alcool e si mise al lavoro. Una volta terminato il compito, applicò bende e cerotti sulle zone interessate. I suoi gesti erano esperti, misurati e attenti, come se lo avesse fatto un milione di volte.

“Ecco qua. Hai sete, fame?”

Regan si costrinse a tenere a bada l’istinto di strapparle la giugulare e negò: “Sono a posto, grazie. Sono solo stanco.”

“Allora ti preparo il letto. Ti sta bene dormire qui? Il divano si può aprire ed è spazioso.”

“Sì, grazie.”

“Perfetto. Torno subito con cuscino e lenzuola. Se hai bisogno del bagno, è l’ultima porta in fondo a quel corridoio.”

Regan accolse la proposta. Si chiuse in bagno e ascoltò i rumori provenienti dal salotto, così da uscire non appena Zoe avesse finito di preparare il letto. Rimase immobile come una statua, senza muovere un solo muscolo. Pareva un manichino privo di vita, pallido come uno spettro. Si sarebbe volentieri avvicinato al lavandino per lavarsi mani e viso, tanto per passare il tempo, ma non voleva rischiare di lasciare impronte digitali in giro.

Dieci minuti dopo era sdraiato sul divano-letto, sotto tre diverse coperte di lana.

“Comodo?” gli chiese Zoe.

“Sì, grazie.”

“Okay. Buonanotte, Ryan. Per qualsiasi cosa, la mia camera è la porta accanto al bagno, sulla destra.”

Regan annuì. La guardò spegnere la luce del salotto e ritirarsi nel corridoio, per poi sparire oltre la porta sulla destra. A quel punto, tendendo bene le orecchie, attese che Zoe si coricasse.

Passò circa un’ora prima che il respiro di Zoe si facesse regolare e profondo. Regan scostò le coperte, si alzò e si affacciò sul corridoio buio. Era molto tardi, il silenzio regnava sovrano. Le tende delle stanze che poteva scorgere dalla sua posizione erano tutte tirate, perciò non correva alcun pericolo di venire spiato da qualche vicino nottambulo.

La sete si era acuita così tanto che era praticamente impossibile tentare di controllarla. Se avesse prestato attenzione, si sarebbe accorto che il suo cuore batteva una volta ogni due minuti, che aveva smesso di respirare e che il suo corpo non emanava più calore. Era un cadavere animato da un istinto primitivo che doveva saziare e subito, altrimenti sarebbe impazzito.

Impugnò la maniglia attraverso la stoffa della canottiera e si intrufolò nella camera di Zoe, silenzioso come un’ombra. Fermandosi ai piedi del letto, si concesse qualche secondo per osservarla dormire. Aveva un’aria serena, rilassata, ignara del mostro che torreggiava su di lei e dell’orrenda fine che la aspettava. I capelli neri erano sciolti sul cuscino e la maglia del pigiama le fasciava spalle e braccia. Il resto del suo corpo era nascosto sotto il piumone, ma Regan poteva indovinare facilmente le sue forme snelle. Era una bella donna, gentile, con un grande cuore. Era un vero peccato che avesse incontrato proprio lei.

Si inumidì le labbra, poggiò i palmi ai lati della sua testa e si chinò verso il suo collo, annusando l’odore della sua pelle. Spalancò le fauci e, in un attimo, conficcò le zanne nella vena pulsante. Infastidito dagli improvvisi e bruschi tentativi di liberarsi di Zoe, le tappò la bocca con una mano e succhiò con più voracità, inghiottendo con mugugni deliziati il liquido caldo che gli inondava la gola a fiotti.

Durò pochi minuti. Regan, inebriato e delirante, non si rese conto del tempo che passava. Non appena udì il cuore di Zoe cessare di battere e il suo corpo smettere di lottare, capì di doversi staccare. Non sapeva perché il suo istinto gli avesse suggerito una linea d’azione simile, poiché nelle vene dell’infermiera c’era ancora sangue. Obbedì riluttante e si pulì le labbra sporche con la lingua. Quando appurò di non aver sprecato neanche una goccia, ghignò compiaciuto e si chinò di nuovo per lappare la ferita, che si rimarginò dopo poco.

Fu allora che l’adrenalina lo abbandonò. Si sentiva forte, invincibile, ma stava tornando anche la lucidità. Fissò sconvolto i sottili rivoli di sangue che sporcavano la federa del cuscino. Si coprì la bocca per reprimere un conato e arretrò barcollando, la vista appannata a causa delle lacrime, domandandosi in preda al panico cosa avrebbe dovuto fare. Chiamare la polizia era fuori questione, come anche l’ambulanza. Non poteva coinvolgere le autorità, questo era ovvio. Restava solo un’opzione.

Prima che potesse afferrare il cellulare di Zoe per chiamare Deirdre, il buio inghiottì la camera, e Regan con essa. Si ritrovò avvolto dall’oscurità, ignaro di che direzione prendere.

Un rumore ritmico, come di passi in avvicinamento, lo spinsero a voltarsi. Scorse una figura venirgli incontro. Sembrava un ragazzo. Era nudo e pallido. Vestiva con degli abiti rossi, lacerati e pieni di buchi. No, non erano abiti, ma sangue. Il suo intero corpo era ricoperto di sangue. Così magro, scheletrico, che le costole, le clavicole e le ossa iliache sporgevano come spigoli affilati.

Quando la distanza si accorciò, realizzò con sgomento che era lui, ma di un’età compresa tra i sedici e diciotto anni. I capelli erano corti come i suoi, con la frangia appena un po’ più lunga. Le iridi ricordavano i ghiacciai perenni, pervasi da un gelo artico e una scintilla ferale, circondati da occhiaie violacee. Dalle sue labbra spuntavano zanne aguzze, anch’esse sporche di sangue.

Confuso, abbassò lo sguardo per studiare le proprie mani. Notò che erano leggermente più scure del normale, come se la sua carnagione fosse passata da chiara a olivastra. Erano pure calde. Il suo corpo emanava un tepore umano che non gli era per nulla familiare. Ora che si osservava, vide di essere nudo come la sua controparte.

“Chi sei?” gli chiese.

“Vampiro.” rispose l’altro Regan.

La sua voce era roca, graffiante. Somigliava al suono che produceva una sega sulla pietra.

Regan lo squadrò sbigottito. Capì che quel mucchietto d’ossa rachitico e inquietante era la parte di sé che stava lasciando morire di fame, denutrita, torturata e sofferente sin dalla nascita. Rabbrividì e, per qualche ragione, gli venne da piangere, in pena per lui, per se stesso, per loro.

“Se tu sei il vampiro, io chi sono?”

“Stregone.”

In effetti, aveva senso. Possedeva due nature, quindi era ovvio che ci fossero due Regan.

Il buio venne rischiarato da una fiammella. Entrambi si girarono a fissarla con palese perplessità. Sotto i loro sguardi, la fiamma si ingrandì. O forse furono loro ad avvicinarsi ad essa. Lentamente, una figura apparve al suo interno. Braccia, gambe, busto, spalle e testa, la figura emerse dal fuoco con un tintinnio di campanelle.

Regan strizzò le palpebre e si sforzò di distinguere il suo aspetto nelle tenebre, ma la figura stessa pareva fatta di tenebra. La pelle, infatti, era nera come la pece, i contorni dei muscoli si fondevano col buio e i lineamenti del viso erano invisibili. L’unica cosa che arguì fu che era un uomo, snello e alto.

Lingue di fuoco danzavano sul suo corpo nudo in prossimità dei genitali e sulle cosce. Indossava gioielli d’oro a polsi, braccia e caviglie. Attorno al collo sfoggiava un girocollo dorato a più anelli, che lo fasciava dalla gola al torace. Sulla testa aveva una specie di copricapo a sette aculei, disposti a raggera, con rubini incastonati nell’oro. No, non proprio. L’oro era… erano ossa. Ossicini intrecciati, infusi nell’oro e abbelliti con rubini.

Avanzò fino a fermarsi davanti a Regan. I suoi movimenti erano aggraziati e flessuosi, pregni di un’eleganza che scaturiva da ogni singolo poro della sua figura. Aveva un che di regale.

“E tu chi sei?” chiese Regan, sempre più frastornato.

L’uomo ombra ingioiellato gesticolò, ma né Regan né il suo doppio vampiro capirono cosa stesse dicendo. Allora schioccò le dita e dal silenzio eruppe il rumore cadenzato di un tamburo.

A Regan ricordava qualcosa. Gli bastò ascoltare finché un flauto e uno strumento a corde non si unirono alle percussioni per realizzare che era la melodia orientale del suo incubo. Si guardò intorno, aspettandosi di vedere un grammofono. A parte lui, il Regan vampiro e l’uomo ombra ingioiellato avvolto dalle fiamme, però, non c’era nient’altro che fitta oscurità.

Lo scenario cambiò bruscamente. Non ci fu né uno spostamento d’aria né alcun segnale prima che il buio venisse rimpiazzato da un rosso deserto di rocce e sabbia, che si estendeva a perdita d’occhio in ogni direzione. Il cielo notturno comparve sopra le loro teste, punteggiato di stelle. Un fuoco si accese poco lontano e, attorno ad esso, si delinearono tre sagome umane.

C’erano tre uomini seduti in cerchio, intenti a scrutare le fiamme. I loro visi erano rugosi e incavati, il mento ricoperto di barba e il cranio avvolto in un turbante lercio. Anche i loro vestiti erano sporchi e a brandelli. I piedi erano scalzi, le mani piene di calli.

In sottofondo, il tombak, il ney e il qanun, suonati da mani invisibili, continuavano a diffondere la melodia.

Uno dei tre uomini sollevò la testa e alzò gli occhi verso il firmamento. La sua espressione era triste, affranta. Le fiamme illuminarono meglio i solchi sulle sue guance, rivelando due strisce di sangue che partivano dagli zigomi e terminavano nella barba, nell’imitazione di due scie di lacrime. Regan si accorse che pure le rocce attorno a loro erano imbrattate di sangue.

L’uomo iniziò a cantare, accompagnando la musica con una voce profonda, simile a un lamento, in una lingua che Regan non conosceva, ma che, in qualche modo, comprendeva.

 
Ascolta il canto, il canto di Aharman
Che dall’abisso sorse in forma di rettile
Che non parla, non pensa, non vede
Che tutto sente e tocca e possiede.
 
Ascolta il canto, il canto di Aharman.
Che dall’abisso sorse in forma di rettile
Che ombre di sé dal buio creò
Che sulla terra, tra le genti, sguinzagliò.
 
Quando si chetò, il ritmo delle percussioni accelerò. La pausa durò forse un minuto, poi il secondo uomo intonò un altro paio di strofe con voce tagliente. I suoi occhi neri, incassati in un ovale affilato, erano fissi sulla danza delle fiamme. I tratti del viso erano severi, decisi, riflesso di una forza interiore che il primo uomo aveva perduto. Sulle guance esibiva due linee orizzontali insanguinate.
 
Ascolta il canto, il canto di Aharman,
che dall’abisso sorse in forma di rettile
che creò Akôman, affamato di discordia
Andar, assetato di eresia
Sâvar, messaggero di anarchia
Nâîkîyas, portatore di agonia.
 
Ascolta il canto, il canto di Aharman,
che dall’abisso sorse in forma di rettile
che liberò Zâîrîk, colui che veleni impasta, e Taprêv, colui che li somministra
Tarômat, colui che corrompe, e Mîtôkht, colui che mente
Arask, colui che insidia, e Vîzarêsh, colui che divora
Uda, colui che sporca, e Akâtâsh, colui che consuma.
 
La sua voce sfumò e il tombak riprese il sopravvento. Il ney e il qanun gli arrancarono dietro, diffondendo nell’aria note marcate, più sinistre.
 
Il terzo uomo non sollevò lo sguardo dal proprio grembo. Regan scorse un ghigno sulle labbra dipinte di sangue. La sua voce era più allegra e alta di quella dei suoi due compagni.
 
Ascolta il canto, il canto di Aharman,
che dall’abisso sorse in forma di rettile
che plasmò Zarmân il decrepito e Kîshmak il tiranno
Varenô il lussurioso e Bûshâsp il goloso
Sêg il distruttore e Nîyâz il persecutore
Âz l’avaro e Pûs l’avido.
 
Ascolta il canto, il canto di Aharman,
che dall’abisso sorse in forma di rettile
che incitò Nas a inquinare e Frîftâr a ingannare
Spazg a sbeffeggiare e Arâst a camuffare
Aîghâsh a punire e Bût a profanare
Astô-vîdâd a falciare e Apâôsh a inondare.
 
Gli strumenti si accavallarono gli uni sugli altri per scandire un ritmo frenetico, martellante, come un maratoneta che, in vista del traguardo, dà fondo a tutte le energie per compiere un ultimo scatto.
 
Le voci dei tre uomini si fusero insieme, creando un’armonia soave e, al contempo, inquietante.
 
Ascolta il canto, il canto di Aharman,
che dall’abisso sorse in forma di rettile
che chiamò i Deava e insieme li cucì
che risputò Aeshm e il mondo perì.
 
E il mondo perì
E il mondo perì

E il mondo perì… perì… perì…
 
Regan si premette le mani sulle orecchie e gridò, ma nemmeno le sue urla riuscirono a sovrastare l’eco che gli perforò il cervello.
 
*
 
Sheila smise di respirare per svariati secondi. Quando il bisogno di ossigeno si fece pressante, inspirò e liberò un singhiozzo. Piegata in due sulla poltrona, le unghie conficcate nei braccioli, lottò contro la terribile verità di Fiona facendo leva sull’istinto materno. La sua dolce Shannon non si sarebbe mai unita carnalmente a un demone. Era sempre stata intelligente, sveglia, di sicuro non si sarebbe lasciata ingannare da un figlio del male.

“L’ha manipolata… quel mostro le avrà fatto il lavaggio del cervello!”

“Non è da escludere.” disse Fiona, “Comunque, alla fine decise di tenere il bambino. Sconfitta, tornai qui e attesi sue notizie. Quando esse non giunsero, andai di nuovo a cercarla. Litigammo. Era spaventata, ma determinata più che mai a non abortire. La avvertii che il bambino avrebbe richiamato il male, mettendola in pericolo. Non volle ascoltarmi. Le dissi che, se per caso avesse cambiato idea, le sarebbe bastato chiamarmi. Non lo fece mai. Qualche mese dopo, Shannon morì di parto.”

“Non di parto, ma uccisa da due vampiri!”

“Richiamati dall’abominio che dimorava nel suo ventre!” sibilò Fiona a denti stretti, gli occhi accesi di gelida collera.

Sheila ammutolì, pallida come un fantasma.

“Rifletti. Shannon viveva in un condominio pieno di persone, eppure i vampiri hanno dato la caccia solo a lei. Hanno ignorato tutti gli altri inquilini, puntando a Shannon senza alcuna esitazione. Volevano distruggerla, quasi che anche loro, pur divorati dalla follia omicida, avessero percepito qualcosa di sbagliato nel bambino.”

“Come sai queste cose?” le chiese in un sussurro.

“Ho visto il corpo, prima che lo cremassero. L’hanno dilaniata. Non avevo mai assistito a una simile crudeltà. Quelli non erano vampiri, ma bestie. Bestie prive di intelletto, guidate dalla sete di sangue e da un bisogno primitivo di morte. È per questo che ti ho mentito, Sheila. Non volevo darti altro dolore… non volevo…”

Sheila si asciugò sbrigativa le lacrime che le rigavano le guance. Inspirò e deglutì il groppo che le si era formato in gola, sforzandosi di trovare le parole.

“Sapevi che Regan era sopravvissuto?”

“No, ma circa tre anni fa, appena ho sentito il male risvegliarsi, ho cominciato a sospettare. Il mio presentimento si è rivelato fondato, a quanto sembra.”

“Perché lo hai accolto, allora? Cosa speri di ottenere?”

Fiona inghiottì l’ultimo sorso di scotch e si abbandonò a un sospiro esausto.

“Ero sincera quando gli ho proposto l’apprendistato. Volevo metterlo alla prova e vedere con i miei occhi di cosa fosse capace. Avrebbe potuto diventare un valido alleato per la congrega. Ma pare che questo non accadrà mai. Quello non è un ragazzo: è un abominio, il peggiore di tutti.”

“Cos’hai in mente?”

 
*
 
Il silenzio lo avvolse di nuovo, dandogli sollievo. Regan abbassò con cautela le mani e si guardò intorno.

Regan vampiro comparve subito alla sua destra e gli strinse una mano.

L’uomo ombra ingioiellato arrivò da sinistra e intrecciò le dita alle sue.

Sebbene l’identità dell’uomo ombra gli fosse ancora ignota, Regan sapeva che era il pezzo mancante che aveva sempre cercato e mai trovato. Avvertiva anche una specie di chiara consapevolezza, come se avesse acquisito conoscenze che finora lo avevano eluso.

Le fiamme divamparono tutto intorno, una pozza di sangue si allargò sotto i suoi piedi e fumo nero evaporò dalla sua pelle in sottili volute. Regan vampiro e l’uomo ombra scomparvero, il primo sciogliendosi nel sangue e il secondo risucchiato dal vortice di fuoco. Poi, assieme al fumo nero, entrambi si lasciarono riassorbire dentro Regan.

Purtroppo, non poté godersi la sensazione di completezza a lungo.

Un muro di fiamme si levò dal nulla, formando una spessa cupola incandescente intorno a lui. Erano ovunque: sui vestiti, sui muri, sui mobili, sulle persone incatenate al muro da funi invisibili. Le loro grida sovrastavano il crepitio, i loro corpi pieni di piaghe si dimenavano in modo ipnotico.

Come quando si osserva col fiato sospeso un funambolo camminare sulla corda e ci si chiede se perderà l’equilibrio o arriverà incolume dall’altra parte, Regan si domandò: quelle persone si sarebbero accasciate inerti, a un certo punto, o avrebbero continuato a danzare con il fuoco per sempre?

Stranamente, non provava alcuna emozione di fronte a quel macabro spettacolo. Era indifferente alle urla o ai corpi arsi vivi in una lenta agonia. Né rimpianto, né disgusto, né orrore, né rabbia. Vuoto.

All’improvviso, un volto emerse dalle fiamme. Fiona lo fissò con un odio talmente intenso che Regan lo percepì colargli nel sangue alla stregua di acido. Gli occhi della strega erano due biglie nere e profonde, incastonate in una maschera di ustioni, carne viva e ossa.

L’istante successivo, l’incendio divorò tutto quanto.

 
*
 
“Dovrò parlare con il Consiglio per discutere dei dettagli, ma la decisione è presa, Sheila. Non esistono alternative. Ti prego di capire.”

“Che cosa vuoi fargli?”

Fiona trafisse Sheila con un’occhiata raggelante. Nella penombra della stanza, il pallore del suo incarnato, il rosso dei capelli e il nero delle iridi si accentuarono, facendola assomigliare a una creatura ultraterrena, una dea implacabile e austera.

“Regan deve morire.”









 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Delving deeper ***










 
Regan si destò di soprassalto. Aveva il respiro affannato, sudore freddo gli imperlava la fronte e la gola era secca. Sul palato, stranamente, avvertiva il sapore del fumo.

Si guardò intorno, aspettandosi di vedere i contorni familiari della sua stanza. Quando si accorse di essere sdraiato su uno dei tre divani del salotto, si corrucciò. Come ci era finito lì? E che ore erano?

Sbirciò fuori dalle finestre. Il cielo era buio, ma l’orizzonte era schiarito da una sottile striscia di luce. Escluse che fosse sera a causa del silenzio che permeava l’intera casa. Quindi mattina presto. Per quanto aveva dormito? Cos’era successo? Stava facendo il test del fuoco in biblioteca e poi…

Ricordò la piana arida sormontata da un oceano di sangue. Ricordò l’ombra gigantesca e la scarica di energia che lo aveva pervaso appena le loro mani si era sfiorate. Ricordò il fuoco, che lo aveva avvolto come uno scudo incandescente.

Scattò a sedere e strinse con forza la felpa all’altezza del cuore, come se, in quel modo, potesse convincerlo a smettere di martellare freneticamente nella gabbia toracica.

Aveva sognato la sua prima e unica vittima, Zoe Rogers, un’infermiera. Erano anni che non pensava più a lei. L’aveva uccisa poco dopo che la sua natura vampira si era risvegliata. Assetato, smanioso di respirare aria fresca, si era liberato dalle corde ed era fuggito dalla soffitta di nascosto per andare a caccia. Aveva trovato Zoe nel vicolo dietro l’ospedale. L’aveva ingannata, dandole un nome e un’età falsi. Si era fatto portare a casa sua. L’aveva aggredita mentre dormiva. L’aveva prosciugata e uccisa.

Il ricordo, nel sogno, si era interrotto lì, ma Regan sapeva come continuava. Aveva chiamato Deirdre con il cellulare dell’infermiera e l’aveva aspettata per più di un’ora vicino al corpo. Al suo arrivo, si erano infilati i guanti senza dire una parola e avevano ficcato Zoe, le coperte del divano-letto, le federe dei cuscini e il suo cellulare nel sacco per cadaveri. Dopodiché, avevano ripulito per sicurezza le stanze in cui era passato Regan e spruzzato un deodorante per ambienti che Deirdre aveva scovato in cucina. Avevano trasportato il sacco verso la macchina che Deirdre aveva noleggiato apposta, parcheggiata sul retro dell’abitazione, e, dopo averlo caricato nel bagagliaio, erano tornati a casa per gettarlo nel forno crematorio.

Deirdre lo aveva aiutato a coprire l’omicidio e non ne avevano più parlato, non ce n’era stato bisogno. Perché, da quel momento, Regan non era più uscito dalla soffitta finché non aveva imparato a controllare la brama di sangue.  

A quel punto, rammentò le visioni che si erano susseguite al ricordo: l’incontro col suo alter-ego vampiro e l’uomo ombra ingioiellato, la melodia orientale e la canzone dei tre uomini attorno al falò. Essa si era impressa nella memoria come un marchio indelebile. Sapeva che era importante, ma ancora non riusciva a comprenderla. Non tanto per la lingua: quella, chissà perché, l’aveva capita. Non aveva idea di quale fosse, forse un dialetto mediorientale, ma il suo cervello aveva registrato le parole come se fossero state pronunciate nella sua lingua madre. Piuttosto, era il significato che gli sfuggiva. C’erano tanti nomi strani, uniti da un unico filo conduttore: Aharman. Chi o cosa era? Regan non si era mai imbattuto in quel nome, prima d’ora.

E la visione finale, con l’incendio e i corpi in fiamme e Fiona? Era un presentimento o una visione sul futuro? Era opera del demone? Pur a quella distanza, aveva ancora tanta influenza su di lui?

Trasse un lungo respiro e si impose la calma. Mentre si strofinava la faccia con le mani per scacciare via gli ultimi strascichi di sonno, tese le orecchie. Individuò un solo battito, da qualche parte nel cuore della villa, e scrollò una spalla disinteressato.

Si irrigidì quando si rese conto che nell’aria permaneva un chiaro odore di fumo. Si alzò e si recò in biblioteca. Quando vide i danni, si tappò la bocca con una mano e sgranò gli occhi. Il soffitto era nero, un’intera fila di scaffali e libri erano ridotti in cenere. Il tavolo era un ammasso di legno carbonizzato, la finestra era rotta.

Doveva assolutamente scusarsi con Fiona. Ma prima salì in camera per bere un po’ di sangue e attenuare così l’arsura che sentiva in gola. Colse l’occasione per cambiarsi e appallottolare i vestiti in un mucchietto maleodorante sul pavimento, in modo da ricordarsi di lavarli.

Afferrò il cellulare e scrisse a Deirdre e Derek che stava bene, nessuna novità. Raggiunse l’armadio, prese una siringa dal borsone e, svuotatala in due sorsi, la gettò di nuovo dentro insieme alle altre. Fece una sosta in bagno per darsi una sistemata, poi si appropinquò giù per le scale in cerca di Fiona.

La trovò nel suo studio, seduta sulla poltrona dietro la scrivania. La porta era aperta. Bussò per annunciarsi.

“Entra.” gli ordinò Fiona in tono neutro, senza distogliere lo sguardo da dei fogli che stava visionando.

Il sole era sorto. Timidi raggi invernali filtravano dalla finestra, indorando la stanza.

Regan la raggiunse esitante e si accomodò davanti a lei. Si schiarì la gola, impacciato.

“Vorrei scusarmi per…” fece un gesto vago con la mano in direzione della biblioteca, “Mi dispiace. Non l’ho fatto apposta. Anzi, non ricordo nemmeno di averlo fatto. State tutti bene?”

“Nessuno si è fatto male.”

“Okay.”

Restarono in silenzio per qualche minuto, finché Regan non prese di nuovo la parola. L’atmosfera tesa lo stava innervosendo.

“Che è successo?”

“Hai perso il controllo. La tua affinità con l’elemento del fuoco è notevole.”

“Scusa per i libri. E la mobilia.”

“Non fa niente, si possono sostituire. I libri rari non sono conservati in biblioteca, per motivi di sicurezza. E i mobili erano dell’Ikea.”

“Menomale. Vi è già capitato con altri novizi?”

“Sì, Regan. Non preoccuparti, è tutto a posto.”

“D’accordo.” esalò un sospiro di sollievo, “Sheila è tornata a casa?”

“Sì.”

“Okay.” prima che il silenzio tornasse a regnare sovrano, Regan proseguì, “Ora che si fa? Continuiamo i test?”

Fiona mise da parte i fogli, intrecciò le dita sotto il mento e si mise a fissarlo. La sua espressione era indecifrabile. Persino Regan aveva qualche difficoltà a cogliere un misero barlume di emozione nei suoi occhi scuri. L’ansia che provò mentre ricambiava lo sguardo di Fiona lo spronò a non abbassare la guardia. La strega non era benevola nei suoi confronti, l’istinto gli suggeriva di tenersi alla larga.

“Oggi sarò impegnata. Sei libero di consultare tutti i libri che vuoi e mangiare gli avanzi che troverai in frigo. Se desideri uscire, prima informarmi sulla tua destinazione e l’orario in cui intendi rincasare. È tutto.” snocciolò con voce priva di inflessione.

Regan la scrutò impassibile per un paio di secondi. Quindi annuì, si alzò e lasciò lo studio, più confuso che mai. Dopo una colazione veloce a base di latte e cereali, per il resto della mattinata si rintanò in biblioteca.

Evitando la stanza distrutta, raccolse una pila di libri dagli scaffali e si sedette a leggerli a un altro tavolo. Un libro era sulla telecinesi, altri due sulla divinazione, gli ultimi tre sul controllo degli elementi.

La telecinesi sembrava semplice nella teoria, ma la pratica era una questione completamente diversa. Non gli riuscì di sollevare nemmeno un granello di polvere. Così lasciò perdere e si mise a sfogliare i manuali sulla divinazione. Conosceva già quella tramite i tarocchi, le foglie di tè, i cristalli e le viscere degli animali, ma la lista continuava per pagine e pagine, illustrando una caterva di metodi, a seconda dei paesi e delle culture.

Presto si stufò anche di quell’argomento e aprì i libri sugli elementi. Passò subito al capitolo dell’acqua. Era tra gli elementi più ostici da manipolare, poiché l’energia che richiedeva era più del doppio rispetto al fuoco e all’aria.

Decise di tentare. Chiuse gli occhi, si concentrò e richiamò a sé il potere. Sussultò eccitato non appena lo percepì ribollire nel sangue. Realizzò che era come un muscolo: più provava, più gli veniva facile evocarlo. Lo sentì fluire e prendere a vorticare, sempre più veloce. All’improvviso, però, svanì, rimpiazzato da una stanchezza innaturale.

C’era qualcosa di sbagliato. L’aria era densa, quasi elettrificata, e una forza invisibile premeva sulla sua pelle, inchiodandolo sulla sedia. Scrollò il capo per scacciare i puntini neri che gli costellavano la vista e sbatté le palpebre. Rimase immobile per minuti interi, ignorando la ragione per cui si sentiva tanto spossato. Forse non si era ancora ripreso dal test del fuoco.

Mise da parte i libri. Si recò al mobiletto nella sala rotonda, lo aprì e afferrò un foglio bianco e una biro nera. Si era pentito di non essersi portato appresso il quaderno degli appunti. Trascrivere i propri pensieri sulla carta, invece che lasciarli a zonzo nel cervello, spesso lo aiutava a vedere le cose da prospettive diverse. Così, tornato al tavolo, buttò giù una lista.

1 – Incubi: frutto della mia fervida immaginazione, premonizioni o provocazioni del demone?
      1.1 – Sono frutto della mia immaginazione: prendi appuntamento da uno psichiatra.
    1.2 – Sono premonizioni: da prendere alla lettera o interpretare? L’abilità di prevedere il futuro deriva dalla natura che ho ereditato da Shannon o da quella vampira?
         Chi è mio padre? Cosa ho ereditato da lui?
     1.3 – Sono provocazioni del demone: cerca incantesimo per rafforzare barriere mentali. Alla peggio, fatti esorcizzare.
     1.4 – Ma come posso scoprire quale delle tre è quella giusta? A chi posso chiedere?
         No Fiona!
         Sheila? Forse.
2 – Canzone dei tre uomini: che lingua è? Perché la capisco? È da prendere alla lettera o devo interpretarla?
      Fai ricerche sui nomi, vedi se compaiono da qualche parte.
3 – Chi è l’uomo ombra ingioiellato? Amico/alleato o nemico? È il demone che mi sta ingannando? Devo fidarmi? Perché mi ha fatto ascoltare la canzone? Perché proprio adesso?
4 – Teoria dello Shedim: affidabile? Fai una capatina in sinagoga e chiedi, servono prove.
5 – Cerca testi di demonologia. Se serve, minaccia di morte una strega e fatti dire dove sono.
6 – Non dire a Derek che stai imparando la magia!!! Profilo basso.
7 – Non dire a Deirdre che hai firmato il contratto di apprendistato e sei parte della congrega. Non ancora. Vediamo come va.

Rilesse i vari punti un paio di volte, poi si focalizzò su quelli di cui poteva occuparsi al momento. Il quarto era l’unico che gli avrebbe portato risposte più immediate. E poi gli avrebbe dato la scusa perfetta per uscire e prendere un po’ d’aria. Cominciava a sentirsi soffocare, in quella villa.

“E sinagoga sia.” mormorò tra sé e sé.

Estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans e guardò il sito della sinagoga locale per vedere orari e indirizzo. Ce n’erano tre o quattro, così scelse quella più vicina. Si affacciò nello studio di Fiona per dirle che andava alla sinagoga e che sarebbe tornato prima di cena, quindi uscì.

Il cielo era plumbeo e faceva freddo. Camminò a passo spedito in direzione della sinagoga, la testa bassa e le mani infilate nelle tasche. Un paio di volte si fermò sul marciapiede a osservare i vigili del fuoco e la polizia unire le forze per riparare i danni provocati da un uragano. Regan non ricordava ci fosse stato un uragano il giorno prima. Che fosse accaduto mentre era in trance?

Superò un chiosco di giornali e lesse distrattamente la testata di quello locale. A quanto pareva, sì, una violenta tempesta si era abbattuta sulla città il pomeriggio precedente, causando danni a case, macchine e giardini. Per fortuna, non c’erano state vittime.

Giunse alla sinagoga intorno all’ora di pranzo. Era una villetta bianca, circondata da un giardino molto curato. Non sembrava una sinagoga, quanto una comunissima abitazione. Perplesso, Regan si avvicinò alla porta, trovandola socchiusa. Scivolò all’interno guardingo, osservando l’ambiente.

Quello che sembrava un rabbino stava pulendo il pavimento di una stanza vuota. Regan gli si avvicinò titubante e attese che l’uomo, a occhio e croce sulla cinquantina, posasse l’arnese. Era alto e magro, con due lunghi boccoli castani a incorniciargli il viso, un cespuglio di barba sul mento, guance incavate e occhi marroni. Vestiva con una semplice camicia bianca e pantaloni neri. Sul cranio indossava una kippah nera.

Memore della regola secondo cui i maschi dovevano indossarla in tutti i luoghi di culto, Regan si calcò il berretto di lana sulla testa e sperò che andasse bene lo stesso. L’ultima cosa che desiderava era risultare offensivo.

Non appena lo vide fermarsi e poggiare lo scopettone a ridosso del muro, Regan si schiarì la gola.

“Ehm, salve. Mi chiamo Regan. Avrei bisogno di consultare alcuni dei vostri testi, se possibile.”

L’uomo lo fissò sorpreso, squadrandolo dalla punta dei capelli a quella dei piedi. Regan si prestò di buon grado all’esame e attese paziente il verdetto.

“Ciao, Regan. Sono Rabbi Joseph. Dimmi, sei praticante?”

“No. Ho solo bisogno di visionare dei titoli per una ricerca. Sono uno studente del liceo.”

“Quali sono questi titoli? Hai il permesso scritto di un insegnante?”

“Diciamo che è più un interesse personale. E ho qui una lista approssimativa di argomenti, non so i titoli.”

Il rabbino la lesse velocemente. Quando arrivò in fondo, la sua espressione era irriconoscibile. Infatti, se prima era apparso disponibile e pacato, ora emanava un’aura diffidente e severa che non si sposava con la sua giovane età.

“A cosa ti servono?”

“Come ho detto, è per interesse personale.”

L’uomo soppesò per qualche secondo la sua richiesta, poi gli fece cenno di seguirlo attraverso una porta. Regan gli si accodò subito, sperando di sbrigarsela entro sera.

Venne condotto nella biblioteca. Non era grande come quella della congrega, ma pareva abbastanza fornita. Grossi tomi occupavano gli scaffali, alcuni dei quali erano protetti da una grata e un lucchetto.

“Aspetta qui.” gli ordinò il rabbino, indicandogli una sedia.

Regan si sedette e appoggiò i gomiti sul tavolo. Udì il tintinnio di un mazzo di chiavi, un cigolio e dei fruscii. Poco dopo, i rumori si ripeterono in ordine inverso. Rabbi Joseph riapparve nella salettina di lettura con sei tomi tra le braccia. Li posò sul tavolo, li spinse verso di lui e si mise a scrutare Regan con scetticismo.

“Sai leggere l’ebraico?”

Regan fece per rispondere negativamente, ma all’ultimo ci ripensò. Aprì il primo tomo e lasciò scorrere gli occhi sui simboli stampati sulla pagina. Tentò di non tradire lo sconcerto quando il suo cervello tradusse senza fatica la scrittura ebraica, così come aveva tradotto i versi del Tanakh pronunciati dalle vittime del demone.

“Sì, nessun problema. Grazie.”

Siccome aveva lo sguardo puntato sul libro, non si accorse dei movimenti del rabbino. Quando sentì qualcosa venire premuto sulla propria guancia, sussultò e si scansò bruscamente.

“Cosa sta facendo?”

L’uomo si raddrizzò e giocherellò con la stella di David per qualche istante, per poi riporla in tasca.

“Volevo accertarmi che tu non fossi posseduto.”

“E lo sono?”

“Sembrerebbe di no. A cosa ti servono questi libri?”

“Gliel’ho già detto. Sono per interesse personale.”

“Un ragazzino come te, a meno che non nutra un fascino perverso per la demonologia, non si avvicina a questi testi.”

“La ringrazio per l’aiuto, ma da qui in avanti posso fare da solo.” lo congedò con un sorriso tirato.

Il rabbino non demorse. Si sedette accanto a lui e, sporgendosi verso i libri, ci adagiò sopra una mano.

“Se pensi di essere in pericolo, forse posso aiutarti. Credi che ci sia un demone intorno a te? Avverti la sua presenza?”

“Lei crede a queste cose?” domandò con sussiego.

“Sono un uomo di fede, certo che ci credo.”

Regan si mordicchiò un labbro, indeciso se parlare o far finta di essere un normale adolescente con la mania per l’occulto. L’espressione preoccupata dell’uomo lo convinse a propendere per la prima. Non aveva più molto tempo e aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile.

“Cosa sa degli Shedim?”

“Gli Shedim.” scandì incuriosito e, appoggiandosi sullo schienale della sedia, incrociò le mani sulle gambe accavallate, “Sono spiriti maligni. Ne esistono di tre tipi…”

“Sì, lo so. A me interessano i Chabalim. Cosa può dirmi di loro?”

Rabbi Joseph si adombrò e lo trafisse con un’occhiata penetrante. Regan ebbe l’impressione che gli stesse scavando nell’anima.

“Tormentano gli uomini. Talvolta li conducono alla pazzia, talvolta li possiedono per trascinarli all’inferno. Per combatterli occorre operare un esorcismo, che può essere condotto solo da sacerdoti esperti col permesso degli alti prelati, e solo dopo aver ottenuto prove inconfutabili.”

“Qui nessuno è posseduto, Rabbi Joseph. Non si tratta di possessione, ma di caccia.”

“Caccia?”

“Questo demone sta cacciando nella mia città. Rapisce le persone e le fa svanire nel nulla.”

“Non sei di qui?”

“Vengo dal Massachusetts.”

“Hai fatto tanta strada per leggere questi testi... che puoi trovare facilmente in qualsiasi sinagoga.”

“Sono venuto a trovare alcuni parenti e ho deciso di approfittarne per approfondire le ricerche.”

“Mh.” mugugnò, poco convinto, “Credi che il tuo demone sia un Chabalim, quindi?”

“Non lo so. Per questo sono qui. Conosco soltanto il suo aspetto e-”

“Hai visto un Chabalim? Lo hai guardato in faccia e sei sopravvissuto?” balbettò incredulo.

“Non ha una faccia.” replicò in tono piatto.

Regan lo vide assumere un’aria meditabonda. Si vedeva che era restio a credere alle sue parole.

Rabbi Joseph lo invitò a narrargli gli eventi. Quando Regan terminò di elencargli i fatti principali, compresa la sua capacità di percepirlo, l’uomo si era fatto pallido come uno spettro.

“E questa non è possessione? Eccome se lo è! Anche se di un tipo completamente diverso, molto raro e difficile da individuare.”

“Non sono io che ho preso quelle persone!”

“Il demone non agisce attraverso di te, ma sei comunque posseduto. Tra voi c’è un legame che deve essere assolutamente spezzato, prima che si solidifichi.”

“E come posso fare?”

“Occorre un esorcismo, ovviamente.” Rabbi Joseph afferrò un paio di libri dalla pila e li aprì, mostrandogli alcune immagini, “Un demone può accedere al piano materiale solo se viene attivato un portale e ha a disposizione un ospite da abitare. Innanzitutto, bisogna capire dove e cosa è il portale. Se è un oggetto, deve essere a portata di mano durante l’esorcismo. Poi si individua l’ospite e lo si esorcizza. Tieni presente che più il demone si nutre, più diventa forte. Nell’estrema evenienza in cui si sia nutrito troppo, l’ospite deve essere ucciso. In tal caso, dopo la sua morte, il demone ne cercherà un altro. Il rituale finale di purificazione gli impedirà di ripetere la possessione e lo scaccerà nella dimensione dalla quale è arrivato. Una volta fatto, il portale deve essere distrutto.”

Regan immagazzinò tutte quelle informazioni come un assetato alla fonte.

“E l’esorcismo non può condurlo chiunque, avvalendosi del testo apposito?”

“No, deve essere un sacerdote. È la fede nelle forze del Bene che scaccia il Male nelle profondità da cui è strisciato fuori. Non siamo che esseri umani, deboli e soggetti alle tentazioni, ma grazie alla fede ci trasformiamo in strumenti divini che Dio usa per sconfiggere il maligno.”

“Perciò mi servirà un prete.”

“O un rabbino, se il tuo demone è davvero un Chabalim. L’importante è che sia qualcuno dalla morale integerrima, puro nel corpo e nello spirito, così che il demone non abbia appigli a cui aggrapparsi per tentarlo e, così, rovinare il rito.”

“Lei sarebbe disposto a farlo?”

“Non posso. Non sono puro. Durante la mia giovinezza ho perso di vista la retta via e ho peccato. La fede ora mi guida, mi sono riappacificato con Dio, ma sulla mia anima ci sarà sempre una macchia indelebile.”

“A chi posso chiedere, allora?”

“Presenterò il tuo caso agli altri rabbini. Puoi tornare domani in mattinata?”

“Sì, certo. Aspetti, ho un’altra domanda.”

“Prego.”

“Per caso, il nome Aharman le fa venire in mente qualcosa?”

Rabbi Joseph rimase in silenzio a riflettere per un minuto, poi scosse debolmente il capo: “L’ho già letto da qualche parte, forse, ma non ricordo dove. Mi dispiace.”

“Ho capito. Grazie per l’aiuto.”

“Non ti ho ancora aiutato. Torna domani.”

Regan si alzò e se ne andò con un vago cenno di saluto, vibrando di eccitazione e impazienza. Era vicino a ottenere la risposta che cercava, assieme ad un aiuto concreto. Forse quel viaggio non si sarebbe dimostrato un vicolo cieco.

 
*

“Dov’è Regan?” chiese Sheila, irrompendo nello studio con passo deciso.

“È uscito per andare alla sinagoga.”

Fiona non distolse lo sguardo dallo schermo del computer, come se non ritenesse Sheila neanche degna di un’occhiata fugace.

“E tu lo hai lasciato uscire da solo?”

“Non farà nulla che possa mettere in pericolo la sua posizione. Non è stupido.”

Sheila si sedette su una delle poltroncine davanti alla scrivania e si lisciò la gonna sulle ginocchia.

“Novità dal Consiglio?”

Fiona finì di scrivere un’e-mail, poi scostò la poltrona in modo da fronteggiare meglio Sheila senza la barriera dello schermo, e intrecciò le dita delle mani sulla scrivania.

“Mi hanno dato il via libera per procedere. Martha si è offerta di tornare per aiutarci, io le ho detto che non ce ne sarà bisogno. Regan è potente, ma non invulnerabile. Per indebolire la sua parte vampira basterà somministrargli dell’aglio e per la parte umana gli scaglierò addosso una fattura.”

“E per la parte demoniaca?”

“Quella è l’unica incognita, ma non credo sarà un problema. Disegnerò un pentacolo di contenimento sotto il tappeto e un altro sul soffitto, per intrappolarlo. L’aglio lo indebolirà, la fattura lo immobilizzerà e lo renderà muto. A quel punto, gli taglierò la gola. Semplice, no?”

Sheila si morse il labbro inferiore e assunse un’aria corrucciata: “Quando hai in mente di mettere in pratica questo piano?”

“Non appena avrò finito di raccogliere gli ingredienti per la fattura. Un giorno, due al massimo.”

“E se non dovesse funzionare? Se, in qualche modo, la parte demoniaca fosse più forte di quel che pensiamo?”

“In quel caso ci sarà bisogno dell’aiuto della congrega. Io inviterò Regan nel mio studio e farò come ti ho detto. Tu e gli altri entrerete mentre lui è con me, distratto e debole, e rimarrete in attesa in salotto.”

“Non lo so, Fiona.” sospirò Sheila, scostandosi una ciocca di capelli corvini dietro l’orecchio, “Ho un brutto presentimento.”

“Non preoccuparti. Regan si fida di noi, sarà facile ingannarlo e farlo cadere in trappola.”

“Sento che lo stiamo sottovalutando.”

“Più che prendere tutte le possibili precauzioni, non possiamo fare altro.”

“E se scoprisse il piano in anticipo?”

“Non accadrà. Ho già dato predisposizioni affinché resti impegnato per la maggior parte del tempo. Non ne avrà per andare a ficcare il naso in giro.”

Sheila puntò lo sguardo fuori dalla finestra, richiamando alla memoria il giorno in cui Regan aveva bussato alla sua porta. Ricordò la felicità e la commozione che l’avevano pervasa quando si era presentato, la speranza che le aveva riempito il cuore al pensiero di avere avuto indietro un pezzo della sua Shannon. Perderlo così presto dopo averlo ritrovato le sembrava una terribile crudeltà.

“Sei proprio sicura che non esistano alternative? Insomma, Regan non ha mai fatto del male a nessuno… potremmo insegnargli a controllarsi.”

“Se fosse solo un ibrido di vampiro e strega, sicuro. Ma dimentichi il suo lato demoniaco. Non puoi insegnare a un demone a non essere, beh, un demone. E i demoni sono tutti malvagi, questo è un dato di fatto.”

“Lo stregone che è in lui, però, potrebbe essere in grado di tenere a bada il demone, così come sta già facendo con il vampiro. Se coltiviamo quella parte e lo costringiamo a trascurare le altre…”

“Per quanto tempo resisterebbe, mh? Un anno? Due? Dal momento che Regan porta in sé un demone, per quanto esso sia ancora dormiente, è troppo pericoloso fare come dici tu. Chissà quando si risveglierà, o quali cataclismi innescherà il risveglio. Non possiamo prevederlo, e ciò lo rende una minaccia.”

Sheila storse la bocca in una smorfia: “Parli come un cacciatore.”

“Sono la Prima.” replicò seccamente Fiona, irrigidendosi sulla poltrona, “Il mio compito è proteggere la congrega, costi quel che costi. Sommergere Regan di affetto e lusinghe non gli impedirà, un giorno, di sguinzagliare il suo potere contro di noi o degli innocenti. È nella sua natura, Sheila. Mi dispiace, credimi. Capisco che tu veda in lui tua figlia, che la loro somiglianza abbia ridestato in te l’istinto materno. Ma Regan non è Shannon e mai lo sarà. Accettalo subito, così sarà più facile-”

“Cosa? Ucciderlo?”

“Sì. Dobbiamo. Per il bene della congrega, persino del mondo intero.”

Sheila era incerta. Si guardò bene dal dare voce ai dubbi e alle paure che le assediavano il cervello, per timore di renderli reali. Il senso di colpa, tuttavia, le strappò il fiato.

 
*

Dopo la visita alla sinagoga, Regan si fermò ad un bar per prendere un tè. Era un locale piccolo e poco frequentato, dall’aspetto confortevole. Si sedette a un tavolo accanto alla finestra e si incantò a osservare le persone per la strada.

I suoi pensieri andavano a mille all’ora, divisi su più fronti contemporaneamente: il demone, i test di magia che gli mancavano, gli incubi, la trasformazione in lupo mannaro di Jennifer, la Gorgone, come liberarsi di Derek una volta risolto il problema demoniaco, come organizzarsi con la scuola quando avesse cominciato l’apprendistato, come dire a Deirdre che era parte della congrega e come gestire Roman e il suo branco dopo che il pericolo fosse passato.

Ogni questione lottava contro le altre per accaparrarsi la sua completa attenzione, alimentando lo stress e la sete di sangue. Gli restava una siringa, solo una misera dose prima di rivedere Deirdre domenica sera. La carenza di sangue acuiva la sensazione di debolezza, lo rallentava nella mente e nel corpo. Purtroppo, non poteva nutrirsi come faceva ad Ashwood Port, non con gli occhi della congrega puntati addosso.

Si sentiva costantemente osservato. Anche ora aveva l’impressione che degli occhi stessero scavando solchi profondi sulla sua schiena. Si girò di scatto. Nell’angolo del bar c’era un uomo anziano che leggeva il giornale e sorseggiava il caffè, ma non era lui a provocare in Regan quella fastidiosa sensazione.

Si afflosciò sulla panca imbottita e si portò il tè bollente alle labbra, ostentando una tranquillità che non provava. Nel frattempo, acuì l’udito per localizzare “il guardone”. Catalogò tutti i rumori, prima quelli all’interno del bar, poi quelli provenienti dalla strada: il cozzare di stoviglie e posate, il ronzio della macchina del caffè, lo sfrigolio della piastra nelle cucine, il rombo dei motori delle macchine, il chiacchiericcio dei passanti, lo scampanellio delle porte dei negozi. Pochi secondi più tardi, registrò un battito cardiaco familiare. Veniva dal marciapiede opposto al bar.

Poppy sobbalzò quando i loro occhi si incrociarono, mentre il ragazzo alla sua destra si irrigidì e impallidì. Regan sollevò la tazza verso la finestra ed elargì loro un piccolo cenno di saluto. Alcuni secondi dopo, i due entrarono nel bar e si sedettero al tavolo di Regan.

Lei continuava a ricordargli un folletto. Sulla testa aveva un berretto di lana rossa e intorno al collo indossava una sciarpa bianca, come il cappotto. I jeans erano di una tonalità molto chiara di azzurro e i piedi erano infilati in un paio di stivaletti neri.

Poppy emanava tensione da ogni poro. Regan avrebbe cercato di alleggerire l’atmosfera, se non avesse trovato spassoso osservarla muoversi impacciata e tentare di evitare il suo sguardo.

“Come mai mi stavate spiando?”

“Non ti stavamo spiando.” negò Poppy, ma le sue guance si imporporarono e il suo battito accelerò a causa della bugia.

Regan non glielo fece notare, preferendo sentire quale fosse la sua giustificazione. Era interessante ascoltare che tipo di scuse propinavano le persone per nascondere i misfatti: comunicavano sempre, e inavvertitamente, molti più dettagli sul loro carattere e il loro metodo di ragionamento, rispetto alla pura verità. La menzogna, per Regan, era la chiave per comprendere il mondo circostante e trarne anche un po’ di divertimento, perché ricca di sfaccettature e in evoluzione perenne. Se avesse dovuto conferirle un aggettivo, avrebbe scelto “dinamica”; la verità, invece, era un monolite che gravava sulle spalle dei viventi, schiacciandoli sotto al suo peso, resa sopportabile soltanto se la persona accettava di trasformarsi in una roccia altrettanto pesante.

“Stavamo facendo shopping e ti abbiamo visto dalla finestra. Quando ci hai notati, stavamo decidendo se venire a disturbarti o lasciarti in pace.”

Priva di inventiva, constatò Regan. Ancora giovane e ingenua, manipolabile.

“Mi fa piacere avere un po’ di compagnia.” le sorrise pacato, poi si rivolse al ragazzo, “Scusa, non credo che ci abbiano mai presentati. Sono Regan.”

“Cole.” rispose e strinse la mano che Regan gli aveva porto.

Un ciuffo di capelli biondi sbucava fuori dal berretto nero e i tiepidi raggi di sole che filtravano nel locale creavano strani giochi di luce nei suoi occhi, facendoli apparire a tratti verdi, a tratti azzurri.

“Non dovreste essere a scuola?”

“Le lezioni sono finite.” disse Poppy e il suo cuore accelerò di nuovo.

In quel momento, Regan capì che i due erano stati mandati da qualcuno a sorvegliarlo. Forse era stata Fiona.

“Okay. Beh, prendete qualcosa?”

Poppy ordinò una cioccolata calda con panna, Cole un caffè e un muffin.

“Che hai fatto di bello oggi?” gli chiese Poppy.

“Sono stato alla sinagoga a parlare con un rabbino per quella faccenda…” snocciolò, scoccando occhiate esitanti Cole per scoprire quanto sapeva.

“Tranquillo, gli ho parlato del demone di cui ti stai occupando.” lo rassicurò Poppy, “Lo sanno tutti.”

“Bene. Insomma, sono andato lì e ho incontrato un rabbino. Mi ha detto che avrebbe sottoposto il mio caso ai rabbini più anziani. Dovrei tornare domani per conoscere il verdetto.”

“Pensi che sia un Chabalim, giusto?” domandò Cole.

“È una teoria. Purtroppo, non ho prove per confermarla.”

“Hai altre teorie?”

“Non credo che questo sia il posto adatto per discuterne.”

I due ragazzi assentirono. Trascorsero la mezzora seguente a scambiarsi opinioni su musica, film e scuola. Più che altro, fu Regan a dominare la conversazione. Non era il genere di persona che amava perdersi in chiacchiere superficiali, ma, se non fosse stato per lui, avrebbero passato interminabili minuti immersi in un silenzio imbarazzante.

Terminate le bevande, Regan ritenne fosse giunta l’ora di congedarsi. Si alzò e fece per rivestirsi, quando Poppy lo fermò.

“Ti va di fare un giro della città?”

La sua voce grondava nervosismo. Regan non impiegò che un istante per capire che i due ragazzi non solo erano stati mandati a sorvegliarlo, ma dovevano anche tenerlo lontano dalla villa per un po’. Avrebbe voluto domandare il motivo di quella farsa e porvi fine, perché non aveva tempo per trastullarsi quando c’erano delle ricerche da fare, ma forse stare al gioco gli avrebbe fornito alcune risposte.

“L’ho già fatto con Sheila.”

“Ti ha mostrato anche il nostro altare?” si intromise Cole.

Quello catturò il suo interesse: “No. Di che si tratta?”

“Lo vedrai.”

Pagarono e lasciarono il bar. Dopodiché, Poppy e Cole gli fecero strada verso il bosco, facilmente raggiungibile in meno di mezzora se si seguiva il fiume. Una volta lì, procedettero con cautela per evitare di inciampare nelle radici degli alberi o in avvallamenti del terreno, ricoperto di foglie secche.

L’aria era fredda e umida. Il sole filtrava a malapena, nonostante i rami fossero spogli. Gli alberi sul confine erano giovani, ma più si addentravano nel bosco, più diventavano vecchi e alti, con il tronco robusto e rami tanto spigolosi quanto spessi.

Poppy e Cole avanzavano a passo sicuro, come se seguissero un sentiero invisibile. Regan non li perse mai di vista, anche se talvolta si lasciò distrarre dai leggeri tramestii provocati dagli animali o dai loro flebili richiami.

“Non rimanere indietro, Regan.” gli disse Cole, “Ci sono i cinghiali in quest’area.”

Il sole era basso all’orizzonte quando finalmente raggiunsero delle rovine. Nonostante la mancanza di simboli sacri, Regan realizzò che erano i resti di una piccola cattedrale gotica. Tre muri erano ancora in piedi, così come cinque colonne e l’altare. Il tetto e quella che doveva essere una torre, invece, avevano ceduto chissà quanti secoli prima. I blocchi di pietra si erano fusi con il terreno, trasformandosi in tumuli ricoperti di soffice muschio. Le poche finestre sopravvissute all’incedere del tempo, alla furia degli elementi e alla voracità della vegetazione, erano a sesto acuto, frammentate da colonnine abbellite con deliziosi fregi, prigioniere di fitti tralci di edera.

I raggi del sole disegnavano lame di luce sui contorni delle rovine, conferendo allo scenario un che di fatato, sospeso nel tempo. Il cinguettio degli uccellini e i rumori delle zampe degli animali nel sottobosco riempivano il silenzio saturo di magia.

“Wow…” esalò Regan, guardandosi intorno con genuina meraviglia.

“Secoli fa era un monastero gesuita, che poi venne convertito in chiesa.” spiegò Cole, “Ma quando è stata abbandonata, la nostra congrega l’ha reclamata.”

“Perché non lo avete ristrutturato?”

“Non trovi che sia più bello così?” replicò Cole, puntando lo sguardo sulle mura e i pinnacoli mozzati.

“Ammetto che ha un certo fascino.” concordò Regan, “Quindi questo è un altare delle streghe?” chiese poi, mentre indicava la grossa tavola di pietra in fondo ai resti della navata centrale.

“È il nostro altare. È stato benedetto dai primi Morgan che si insediarono ad Athens ed è rimasto alla congrega da allora. Veniamo qui durante le festività più importanti, per celebrare riti e unirci in comunione con la natura.” rispose Poppy.

Regan si accigliò: “In che senso?”

“Non balliamo nudi intorno a un fuoco, se è questo che stai pensando.” sbuffò divertito Cole, “Non sai proprio niente di stregoneria?”

“No. La donna che mi ha adottato, Deirdre, è nata in una congrega ma non ha ereditato il potere magico. Le hanno insegnato solo come maneggiare le erbe, i cristalli e i tarocchi, nulla di più. Perciò non ha mai potuto insegnare molto a me. Non che avesse senso farlo, dato che non pensavamo che possedessi il dono della magia.”

“Deirdre non sapeva che avevi sangue di strega nelle vene?” domandò Poppy.

Regan la osservò sedersi su un masso e fissarlo con curiosità. Cole restò in piedi, le mani affondate nelle tasche e il mento dentro il colletto del giubbotto.

“Lo sapeva.”

“Come? Vuoi dire che te lo ha nascosto per sedici anni?”

“A-ha. Non l’ho ancora perdonata per questo. Mi ha tenuto lontano non solo da un’importante parte di me, ma anche dalla famiglia di mia madre. La mia vera famiglia. Sheila è mia nonna, Andrew mio zio. Ho un legame di sangue con loro. Non aveva il diritto.”

“Vorresti rimanere con noi?” proferì pacata Poppy, finalmente priva della tensione che l’aveva accompagnata per tutto il pomeriggio.

Regan puntò gli occhi verso il cielo, che aveva assunto tinte color indaco e rosa. Inspirò a pieni polmoni l’odore di terra smossa, erba, muschio e pietra, crogiolandosi nella sensazione di serenità che lo avvolgeva. Le sue spalle si afflosciarono e i muscoli si rilassarono.

“Non sarebbe così male. Confesso che sono molto tentato. Se restassi, potrei imparare parecchie cose, sia su me stesso che sulla magia; potrei ricongiungermi veramente alla mia famiglia e ottenere quel che mi è stato negato dalla nascita; potrei finalmente deporre le armi o addirittura smettere di lottare contro il mondo, perché avrei a disposizione la forza e l’amore della mia congrega.” elencò con un sorriso, che divenne amaro quando incrociò lo sguardo di Poppy e Cole, “Per tutta la vita sono stato solo. Prima per mancanza di accettazione da parte del prossimo, poi per necessità, infine per scelta. Non conosco un’alternativa. Finora mi ero sempre rifiutato di desiderarla, in realtà. Convincersi di non volere qualcosa è meglio che volerla e fallire nell’ottenerla.”

Poppy e Cole si scambiarono un’occhiata fugace carica di sottintesi. A Regan non sfuggì, anche se finse di non accorgersene. Trattenne un ghigno sardonico e continuò a imbottire le loro orecchie di parole degne di una commedia drammatica. D’altronde, aveva bisogno di alleati.

“So di essere un mostro, un abominio. La mia esistenza sfida le leggi della natura, spingendo i più a pensare che, per mantenere un qualche equilibrio cosmico, io debba morire. E lo capisco, davvero. Credetemi: se potessi, mi libererei del vampiro che è in me in un batter d’occhio, così da poter abbracciare per intero la magia. Ma non posso. Sono nato così, e così mi tocca rimanere. Spero soltanto che un giorno capirete che non sono una minaccia per voi. Io proteggo con zanne e artigli le persone a cui tengo, come un pastore protegge il suo gregge, perché ne ho il potere e possiedo la volontà per farlo. Sono più forte di un umano, più spietato e con meno scrupoli morali. Non esiterei a uccidere per coloro che amo.” dichiarò, scrutando entrambi i ragazzi intensamente, “Nel momento in cui ho firmato il contratto di apprendistato col sangue, ho deciso di legarmi alla congrega Morgan. Ciò significa che, in quel preciso istante, siete tutti entrati a far parte della cerchia dei miei cari. Non c’è nulla che non farei per voi e con voi, perché adesso siete la mia famiglia. Deirdre mi ha insegnato che non esiste legame più forte, più fondamentale per un individuo, e io mi sono sempre trovato d’accordo. Non esiterei mai ad accordare i miei favori alla famiglia, qualunque sia la situazione.”

Poppy si alzò e si avvicinò a Regan. Si fermò di fronte a lui, sollevò le braccia e lo attirò a sé, nascondendo il viso rigato di lacrime nel suo collo.

“Scusa per come mi sono comportata con te, la prima sera.” bisbigliò con voce rotta.

“Non devi scusarti.” la rassicurò, cingendole i fianchi, “Avevi paura. È comprensibile. Anch’io avrei avuto paura, nei tuoi panni.”

Cole si accostò a loro con espressione combattuta: “Non avverti la voglia di nutrirti del nostro sangue?”

“La sete è una costante della mia vita, non potrò mai sbarazzarmene.” rispose, scostando Poppy da sé delicatamente, “Ma ho imparato a controllarla, con l’aiuto di Deirdre. Non vi farei mai del male, lo giuro. Siete la mia famiglia e io proteggo sempre ciò che considero mio. Anche da me stesso.”

Cole annuì soddisfatto e assestò un paio di pacche sulla spalla di Regan.

“So di non essere il benvenuto, non ancora.” proseguì.

Poppy scosse il capo: “No, Regan, certo che lo sei.”

“Bugia.” la rimproverò e le diede un buffetto affettuoso sulla guancia, “Ma mi sta bene, lo capisco. Prego solo che mi venga data una chance per provare la mia lealtà. La più difficile da convincere sarà Fiona. Si è sempre dimostrata disponibile da quando sono qui, ma percepisco la sua ostilità, la sua diffidenza.”

“Le parleremo noi.” promise Poppy.

“Lascia stare. Tra un paio di giorni devo comunque tornare ad Ashwood Port per risolvere il problema con il demone. Non c’è fretta. Magari il periodo di lontananza l’aiuterà a mettere le cose in prospettiva e, quando tornerò, sarà più propensa ad accettarmi. Preoccuparsene ora aggiungerebbe ulteriore stress a quello che già ho per tutte le altre questioni di cui devo occuparmi.” le disse e, vedendola incerta, continuò, “Davvero, Poppy. Ti ringrazio, ma sto bene.”

Detto ciò, li squadrò entrambi con un sorrisetto divertito e incrociò le braccia sul torace.

“Adesso posso chiedervi perché non volete che torni alla villa? Per quanto mi piaccia questo posto, vorrei approfondire le ricerche sul mio demone. Ogni minuto è prezioso.”

I due si irrigidirono, sentendosi colti in flagrante.

“Ehm, ecco… Fiona ci ha detto di avere una cosa importante da fare e aveva bisogno della casa libera.” balbettò Poppy, imbarazzata.

“Una cosa che riguarda me, suppongo.”

“Questo non lo sappiamo.” disse Cole.

“Se non riguardasse la mia bella personcina, me lo avreste detto al bar. Non avrei avuto problemi ad acconsentire a un giro turistico, se avessi saputo che Fiona voleva la casa tutta per sé per qualche altra ora per fare le sue cose. Invece avete usato delle scuse per tenermi lontano. Ergo, o sta parlando di me con qualcuno o mi sta preparando una festa a sorpresa. Dubito che sia la seconda. Sul serio non sapete niente?”

Poppy e Cole scossero la testa in sincrono.

“Gli ordini della Prima non si discutono.” recitò Cole, “È una cosa che ci insegnano sin da bambini.”

“Nemmeno se sono sbagliati? Nemmeno se vanno contro i vostri ideali?”

“La Prima sa cosa è meglio per la congrega.”

“Se ciò che è meglio per la congrega è dannoso per il singolo, lo accettate lo stesso?”

Cole serrò le labbra e distolse lo sguardo, a disagio: “Anche se non siamo d’accordo, non possiamo contestarla. Siamo solo novizi.”

“Capisco.” sospirò Regan, “Beh, per quanto ancora devo restare fuori?”

“Fiona ha detto fino all’ora di cena.”

“Okay. Mancano…” estrasse il cellulare dalla tasca e controllò l’orologio sullo schermo, “un paio d’ore circa. Che facciamo?”

“Potrei insegnarti un piccolo incantesimo!” propose Poppy con un sorriso eccitato.

Regan rizzò le antenne: “Che genere di incantesimo?”

Poppy frugò nella tasca interna del giubbotto ed estrasse un sacchettino di stoffa rosa: “Hai mai visto Harry Potter?”

“Ho letto i libri.”

“Hai presente quando Hermione tira fuori una borsetta tipo questa, incantata per contenere oggetti all’infinito? O quando Harry va con gli Weasley a vedere una partita di Quidditch e, entrando nella tenda, scopre che le dimensioni interne sono più grandi di quelle esterne? Oppure puoi pensarla come la borsa magica di Mary Poppins. Questa qui è una cosa simile. In realtà, non serve che sia per forza un sacchetto o una borsa. Puoi scegliere uno scrigno, una scatola, una stanza, eccetera.”

“Tipo la Stanza delle Necessità? Un attimo… intendi dire che quello che hai in mano è una specie di magazzino gigantesco?”

“Già.”

Regan boccheggiò, gli occhi accesi da una scintilla infantile: “Insegnami!”

“Okay.” Poppy ridacchiò, “Innanzitutto, scegli il contenitore. Hai nulla con te che potrebbe fare al caso nostro?”

Regan si tastò addosso, ma non trovò altro che portafoglio e cellulare. Poppy gli aprì il giubbotto.

“Mh, vediamo… ah! Potresti usare una tasca, per esempio. L’importante è che si possa chiudere con una cerniera o più di un bottone. Insomma, deve restare chiusa se non la usi.”

Regan si tolse il giubbotto e le indicò la tasca interna, completa di cerniera: “Questa può andar bene?”

“Perfetto. Poi devi visualizzare nella tua mente lo scopo che vuoi dare alla tasca: vuoi che diventi l’accesso a quella che io chiamo ‘dimensione magazzino’ e vuoi che lo spazio sia infinito. Se lo desideri, puoi creare delle sezioni: libri, vestiti, cartoleria, quello che ti pare. Così, quando vorrai qualcosa di specifico, ti basterà visualizzare la sezione che ti interessa prima di infilare la mano. Secondo me, è molto meglio che buttare tutto alla rinfusa. Se tu dovessi mettere nella tasca, che so, penne e libri e una delle penne si rompesse spargendo inchiostro ovunque, i libri si rovinerebbero. Oppure, nel caso di, boh, un mobile, è possibile che, sotto al suo peso, qualcosa di più fragile si rompa.”

“È uno spazio soggetto alle leggi di gravità, quindi. Le cose non fluttuano nel vuoto.”

“Dipende da te, in realtà. Se vuoi che fluttuino nel vuoto, possono farlo. Ma sarebbe il caos.”

“E ordine sia. Che altro devo fare?”

“Hai visualizzato lo scopo e le sezioni?”

“Sì.”

“Okay. Ora devi dire la formula.”

“È in latino?”

Cole sbuffò una risata.

“Se vuoi usare il latino per aggiungere una nota di solennità, puoi farlo, ma non è necessario.” rispose Poppy.

“Ma se la formula è nella nostra lingua, chiunque potrebbe usarla, no?”

“Chiunque dotato di magia. Se le persone normali la pronunciassero, non accadrebbe niente.”

“Oh, okay. Qual è la formula?”

Evoco il potere di conservare e proteggere. Dalla mia mente alla tasca, che spazio illimitato mi venga concesso.” recitò, “Ho usato la parola ‘tasca’ perché è il contenitore che tu hai scelto. Posaci sopra la mano, concentrati e di’ la formula.”

“Sembra facile.” borbottò Regan e, poggiando la mano sulla tasca, ripeté l’incantesimo.

Per lunghi momenti non accadde niente. Poi, all’improvviso, Regan avvertì un piacevole tepore irradiarsi nel palmo e udì un lieve pop. Ritirò la mano e osservò con cipiglio critico la tasca.

“Ha funzionato?”

“Scoprilo. Infila la mano nella tasca.” lo incoraggiò Poppy.

Regan obbedì. Aprì la cerniera e infilò due dita, tastando le pareti di stoffa. Inarcò un sopracciglio e guardò Poppy con una smorfia delusa, ma lei gli ordinò di continuare. Allora Regan seppellì tutta la mano dentro la tasca, poi il polso, l’avambraccio. Via via che proseguiva, i suoi occhi si sgranavano.

“Porca miseria! È una figata pazzesca! Potrei infilarmici con tutto il corpo?”

“Non te lo consiglio.”

“Perché?”

“Perché non riusciresti più a uscirne. Sei tu che evochi fuori dal magazzino gli oggetti, perché tu lo hai creato. Se ti ci infili dentro, non puoi evocarti fuori. Senza contare il fatto che, siccome la dimensione non è fatta per sostenere la vita, non avresti ossigeno. In pratica, moriresti.”

“Ah. Perciò è meglio evitare di ficcarci dentro esseri viventi. Ricevuto. È lo stesso una figata.”

Per fare una prova, decise di metterci dentro il portafoglio. L’oggetto scomparve nella tasca, senza lasciare traccia. Quando Regan la toccò dall’esterno, notò che sembrava vuota. Immerse di nuovo la mano nella tasca, pensò al portafoglio e, in un attimo, si ritrovò a stringerlo tra le dita. Lo estrasse con aria meravigliata e un sorriso trionfante.

“Grazie, Poppy. Questo incantesimo mi sarà utilissimo! Non dovrò più preoccuparmi di venire schiacciato dal peso dello zaino o di non avere più posto per i libri sugli scaffali.”

Regan era su di giri. Il suo cervello stava lavorando a pieno ritmo, immaginando i numerosi scenari in cui avrebbe potuto usare l’incantesimo della “dimensione magazzino”. Finalmente aveva il posto perfetto per nascondere gli appunti sul demone dalle manie ficcanaso di Derek, gli amuleti protettivi di Deirdre, i libri di magia di cui sarebbe entrato in possesso al più presto e una miriade di altre cose. 

“Inoltre, ricorda: puoi accedere a questa dimensione magazzino solo attraverso la tasca del tuo giubbotto. Se perdi il giubbotto, perdi la dimensione e tutto ciò che essa contiene.” aggiunse Poppy.

Regan strinse spasmodicamente al petto il giubbotto, giurando che non se ne sarebbe mai separato, nemmeno per andare a dormire. Poi gli balenò in testa un’altra domanda.

“Esiste un incantesimo per sigillare la dimensione, o eliminarla?”

“Ehm… non che io sappia.”

“Okay, ora credo che sia meglio tornare. È tardi.” disse Cole.

Regan indossò di nuovo il giubbotto e seguì lui e Poppy attraverso il sentiero invisibile tra gli alberi. Il sole era tramontato e i rami proiettavano ombre sinistre intorno a loro.

Affiancandosi a Poppy, tanto per riempire il silenzio le domandò come mai avesse iniziato l’apprendistato da ragazza, invece che da bambina.

“Quando si è bambini, è difficile controllare il potere.” spiegò Poppy, “Quando avevo sei anni, mi arrabbiai e diedi fuoco alla mia bambola preferita. Due giorni dopo, mentre giocavo al parco, evocai per sbaglio l’elemento dell’aria per scaraventare un bambino antipatico contro un albero. Si ruppe il braccio.”

“A maggior ragione, sarebbe più intelligente iniziare in tenera età.”

“Manca la maturità per gestire il potere, Regan. Da bambino sei facile preda delle emozioni. Basta un nulla per perdere il controllo e provocare incidenti.”

“E allora cosa fate? Vi chiudono in casa finché non raggiungete la pubertà?”

“Appena il potere si manifesta, la Prima compie un rito sul bambino per limitare l’uso della magia fino a renderla dormiente.”

“Ci viene disegnato un sigillo sul corpo.” intervenne Cole, “Il sigillo di contenimento. Ne esistono due: uno per gli esseri viventi e uno per gli oggetti. Sicuramente hai visto i sigilli disegnati sul soffitto della biblioteca, alla villa.”

“Sì, li ho visti. Fiona ha detto che sono lì per evitare incidenti.”

“Esatto.”

“Ma sono riuscito lo stesso a causare danni, durante il test del fuoco.”

“Ne abbiamo sentito parlare. È raro che accada, ma non impossibile. Vuol dire che hai una grande affinità con l’elemento del fuoco. Posso chiederti di che segno sei?”

“Leone.”

“Un segno di fuoco.”

“È già successo che un novizio perdesse il controllo?” chiese Regan.

“Certo. Le nostre cronache riportano vari incidenti simili a quello che hai provocato tu. Streghe che perdono il controllo di un elemento o che sbagliano gli ingredienti per una pozione, o addirittura le parole di un incantesimo. Nessuno è perfetto.” Poppy gli scoccò un sorrisetto e abbassò la voce, “Sai, anche Fiona ha provocato qualche danno nella sua giovinezza.”

“Tipo?”

“Mia madre mi ha raccontato che quando Fiona aveva quindici anni, ha evocato per gioco uno spirito maligno attraverso una tavoletta Ouija. Sembra la tipica trama di un film horror, eh?”

“Cos’è successo?” domandò curioso.

“Le streghe anziane e la precedente Prima sono intervenute dopo che la sorella di Fiona, Siobhan, è stata posseduta dallo spirito. Lo hanno intrappolato e costretto alla resa. Allora lo spirito ha cercato di uccidere Siobhan in ritorsione, ma le streghe lo hanno fermato e bandito prima che potesse farlo. Siobhan, però, non è uscita indenne dall’esperienza.”

“È impazzita?”

“Diciamo di sì. Soltanto il suo grande potere, che rivaleggiava con quello di Fiona, le ha permesso di accedere al test per diventare la futura Prima, anche se non lo ha superato.”

“È morta, giusto?”

“Sì. Fiona porta ancora il lutto, nonostante siano passati anni. Nel giorno della morte della sorella, va sempre alle rovine per meditare e purificarsi. È convinta che sia colpa sua se Siobhan è morta durante la prova. La possessione aveva distrutto una parte della sua mente, rendendola vulnerabile a certi attacchi.”  

Regan mugugnò, soprappensiero. Per il resto del tragitto nel bosco rimase in silenzio. Quando imboccarono di nuovo la strada per il centro, decise di provare a estorcere qualche informazione sulla villa, in particolare sul luogo in cui erano nascosti i libri più preziosi della congrega.

“Perché ti interessa?” gli chiese Poppy.

“Vorrei consultare dei libri di demonologia. Nella biblioteca non ho trovato niente. Mi servirebbero dei testi più specifici, così da capire che cosa dovrò affrontare al mio ritorno. Non voglio morire, sai com’è.”

“Dovrai domandare il permesso a Fiona, dato che è lei il tuo supervisore fintanto che resterai qui.”

“Non sembra molto propensa ad aiutarmi…” bofonchiò imbronciato, “Ha detto che lo avrebbe fatto, ma finora non mi ha fornito nessun libro o consiglio in merito al demone. Per questo sono andato alla sinagoga. Mi rimangono due giorni e sto cominciando a sentire una certa ansia alla prospettiva di tornare a casa a mani vuote. O con informazioni vaghe e teorie non confermate.”

“Hai chiesto a Sheila?” lo interrogò Cole.

“No, ma lo farò. Il posto in cui sono conservati i libri che mi interessano si trova nella villa?”

“No. È una dimensione magazzino. Il punto di accesso si trova nella villa. Nei sotterranei, per la precisione. Personalmente, non l’ho mai visto. Ai novizi è proibito scendere laggiù.” disse Poppy.

“Come è fatta? La biblioteca segreta, intendo.”

La ragazza fece spallucce: “Non lo so. Mia madre dice che è un piccolo labirinto, protetto da potenti incantesimi. Se stai pensando di intrufolarti lì dentro, toglitelo dalla testa. Ti scoprirebbero subito o ti perderesti.”

“Quel posto è immenso e ben protetto.” spiegò Cole.

“Se è una dimensione magazzino come dite, allora non serve entrarci. Basta evocare il libro giusto da fuori.”

Regan realizzò che i due ragazzi si erano fermati quando finì di attraversare il passaggio pedonale. Si girò e li vide immobili sul marciapiede opposto, le espressioni scioccate di chi ha appena ricevuto un’epifania. Si riscossero dopo qualche secondo e lo raggiunsero correndo.

“Regan, sei un genio!” esclamò Cole, “Sai da quanto è che sogno di scoprire cosa c’è là dentro?”

“Frena l’entusiasmo.” lo blandì Poppy, “Se hanno usato quell’incantesimo, solo chi lo ha lanciato può evocare gli oggetti dalla dimensione magazzino.”

“Quella specie di libreria è lì da secoli, eppure Fiona e le altre streghe anziane ci sono entrate spesso, anche se non sono state loro a crearla.” le fece notare Cole.

“Si può passare il testimone?” si intromise Regan, “Insomma, si può consegnare le chiavi a qualcuno per far sì che possa accedere alla dimensione magazzino, nel caso in cui il suo creatore sia impossibilitato a farlo di persona?”

Poppy e Cole rifletterono in silenzio. Poi Poppy, aggrottando le sopracciglia, scoccò a Regan un’occhiata incerta.

“Credo di sì. Non conosco l’incantesimo del passaggio del testimone, però.”

“Sarà simile a quello per creare la dimensione magazzino. Stessa tipologia, almeno.”

“Stai pensando di provare?” bisbigliò Cole, guardandosi intorno con aria febbrile, “Se ti beccano, ti puniranno.”

“Ho un demone da cacciare e innocenti da salvare. Venire punito per questo è l’ultimo dei miei problemi.”

“Le tue intenzioni sono nobili, Regan, ma…”

“Ti beccheranno di sicuro.” Poppy scosse il capo con veemenza, come se l’idea fosse una fastidiosa mosca da scacciare, “Se mancherà un solo libro all’appello, se ne accorgeranno. Basta che vadano a controllare una volta e sei fritto. E non sappiamo quali incantesimi di protezione ci sono. Potrebbero aver piazzato un allarme, che scatta non appena un estraneo tenta di evocare qualcosa. O, addirittura, uno che avverte direttamente Fiona se un novizio sfiora per sbaglio la porta dei sotterranei. Ci sono troppe incognite, Regan. E non puoi rischiare di inimicarti Fiona proprio adesso.”

“Conoscete un incantesimo che mi permetta di copiare dei libri in poco tempo? Tipo su un quaderno.” domandò Regan, ignorando le proteste di Poppy.

“C’è un incantesimo che ti consente di rendere le pagine di un libro o un quaderno infinite. È molto simile a quello per creare la dimensione magazzino.” rispose Cole.

“Qual è?”

Cole glielo recitò e Regan lo memorizzò subito.

“Okay. Ma per copiare esiste niente?”

“Forse…”

“No, Cole. Non si può.” lo rimproverò Poppy.

“Beh, meglio che rubare i libri originali, non trovi?” sbuffò il biondo, “E non vuole consultare quei libri per nuocere a qualcuno, anzi, è esattamente il contrario. Ne ha bisogno, Poppy. Se le cose dovessero andargli male, sei sicura che ne usciresti con la coscienza pulita?”

Poppy si morse il labbro inferiore, incrociò le braccia sul petto e puntò gli occhi sulla vetrina del negozio alle spalle di Regan.

“Non conosco un incantesimo per copiare, purtroppo, né mi viene in mente dove potrei cercarlo. Ma ne so un altro che potrebbe fare al caso tuo.” disse allora Cole, rivolgendosi a Regan, “Ti suggerisco soltanto di usarlo con estrema prudenza.”

“Perché?”

L’atmosfera tesa e solenne che all’improvviso era calata su di loro provocò a Regan un certo disagio.

“Si tratta di un incantesimo che ti permette di assorbire le parole di un libro. Qualche volta l’ho usato per prepararmi ai test scolastici. Lo so che è come barare, ma non sono certo l’unico che usa sotterfugi quando ci sono test o esami in vista.” rivelò Cole e gli cinse le spalle con un braccio per spronarlo a camminare, per poi inclinare la testa verso la sua in modo da poter sussurrare nel suo orecchio.

Regan si impose di resistere all’impulso di scrollarsi di dosso il suo braccio e azzannarlo alla gola.

“E come mai mi vuoi mettere in guardia? Mi pare che sia perfetto.”

“Pensa alla tua mente come un contenitore, tipo quelli di plastica che si usano per conservare il cibo. La capacità di quei contenitori è limitata, più di un tot non ci puoi infilare. Mi segui?”

“Sì.”

“Vale lo stesso per il tuo cervello. Per far posto a nuove informazioni, spesso quelle vecchie e inutili vengono rimosse.”

“Vuol dire che se assorbo troppi libri, perderei dei ricordi?”

“Esatto. E li perderesti all’istante, senza nemmeno rendertene conto. Inoltre, non puoi sapere quali ricordi spariranno, è un processo casuale. È un po’ il prezzo da pagare per ottenere la conoscenza attraverso simili scorciatoie.”

“E una volta assorbiti, non posso riversarli su un quaderno, in modo da liberare spazio? Come quando sul computer hai la scheda di memoria piena. Prendi i file e li sposti da un’altra parte.”

“Beh, nessuno ti vieta di trascrivere quei file su dei quaderni in un secondo momento.”

“Intendevo tramite un incantesimo. Non ho abbastanza tempo per fare l’amanuense.”

“No, mi dispiace. Ma anche se li trascrivi, i ricordi persi rimarranno persi.”

Mentre annuiva, Regan iniziò subito a elaborare varie strategie. I rischi erano alti, ma aveva già deciso di tentare. Nulla lo avrebbe distolto dai suoi propositi.

“Regan, ti consiglio vivamente di non fare ciò che stai pensando.” intervenne Poppy, affiancandosi a lui dal lato opposto a Cole.

“È pericoloso, lo so, ma-”

“Fiona potrebbe rescindere il tuo contratto di apprendistato ed esiliarti, come è successo a Shannon.” lo ammonì.

Regan contrasse la mascella e indurì lo sguardo.

“Questo è un colpo basso, Poppy.” commentò Cole.

“No, ha ragione. Non posso alienarmi la benevolenza della Prima. Sto camminando sul filo del rasoio da quando sono arrivato.” disse Regan e le sorrise con aria sconfitta, “D’accordo, chiederò a Sheila di evocare dei libri per me. Non ci sarebbe nulla di male, giusto?”

Poppy rilassò le spalle e sospirò: “Mi sembra la mossa più ragionevole.”

Giunti in prossimità del cancello, Regan salutò gli altri due e diede loro le spalle. Appena mise piede sul vialetto d’ingresso, notò che la villa sembrava deserta. Una volta entrato, prese atto della semi oscurità che regnava nelle stanze e si impensierì. Acuì l’udito. Con un misto di sollievo e preoccupazione, colse i battiti di Sheila e Fiona nello studio. Decise di non disturbarle e si recò in camera per spogliarsi.

Mentre indossava una tuta comoda, rifletté sul da farsi. Non voleva agire alle spalle della congrega, perché se lo avessero scoperto avrebbe perso la loro fiducia. Ma se continuavano a ignorarlo, non gli restava che risolvere il problema del demone da solo. Avrebbe chiesto a Sheila un consiglio durante la cena, tanto per tener fede alla promessa fatta a Poppy. Se in cambio non avesse ricevuto niente, allora sarebbe sgattaiolato nel seminterrato quella stessa notte.

Era venuto ad Athens per un motivo preciso, d’altronde. Apprendere la manipolazione delle erbe, dei cristalli e del fuoco si era rivelata un’esperienza mistica e senza dubbio utile, però non era mai stato ciò che voleva. Sentiva di stare perdendo tempo prezioso. Paradossalmente, era stata più d’aiuto una misera ora in compagnia di un rabbino che quattro giorni trascorsi a vivere sotto lo stesso tetto di una potente congrega di streghe.

Roman non gli aveva riferito di altri attacchi da parte del demone. Derek diceva che i cacciatori erano a un punto morto. Eppure, qualcosa gli diceva che non era ancora finita. Non che Regan contasse di fare la differenza, ma almeno lui poteva percepire il demone.

Forse il legame psichico era la chiave. Non doveva reciderlo, poteva sfruttarlo a suo vantaggio, alimentarlo per trovare il demone e usarlo contro di lui, ripagandolo con la stessa moneta. Quel legame andava in entrambe le direzioni: se il demone lo usava per mandargli incubi e scombussolare i suoi sensi, magari Regan avrebbe potuto fare lo stesso. L’unico problema era che non possedeva l’esperienza o la scaltrezza di un demone antico di chissà quanti anni.

Tirò fuori il borsone dall’armadio e frugò all’interno in cerca di una siringa di sangue. La sua mano si strinse sull’ultima della scorta. La fissò combattuto, con l’acquolina in bocca. Gli rimanevano ancora due giorni, sabato e domenica. Non poteva sprecarla.

Si umettò le labbra, ipnotizzato da quel denso colore rosso. Inspirò, riempiendosi i polmoni dell’effluvio ferroso che gli faceva sempre gorgogliare lo stomaco e prudere le gengive. Rimpianse di aver rifiutato la proposta di Deirdre di dargliene dell’altro. Serrò le palpebre, deglutì e sollevò la siringa per portarsela alle labbra.

Solo un sorso, si disse. Uno piccolo, un misero assaggio.

Premette lo stantuffo e accolse avidamente sulla lingua quel poco che si era concesso. Dovette farsi violenza per non bere tutto il sangue, fino all’ultima goccia. Ingoiò e gettò di nuovo la siringa mezza piena nel borsone, per poi richiudere in fretta la cerniera per evitare di cadere in tentazione.

Alle sette, Sheila venne a chiamarlo per cena. Erano solo loro due, perché Fiona era impegnata. Si sedettero al tavolo di cucina e mangiarono in silenzio le lasagne. Non erano buone come quelle di Deirdre, ma Regan le mangiò lo stesso con gusto.

Mentre masticava, osservò di sottecchi Sheila per capire la ragione del suo mutismo. La strega teneva lo sguardo fisso sul piatto, le spalle tese e l’espressione vagamente contrita. Onestamente, Regan non sapeva se rompere il ghiaccio o lasciarla in pace.

“Sheila.” la chiamò esitante.

“Mh?”

“Vorrei chiederti una cosa.”

“Dimmi.”

Sheila non alzò mai gli occhi dalle lasagne mentre gli rispondeva a monosillabi. La sua voce aveva un’inflessione dura, aggravata.

“Okay. Ehm… ecco, pensi che potresti procurarmi dei libri di demonologia? Fiona ha detto che li avete. Li consulterei e basta, se vuoi anche davanti a te.”

“Perché?”

Regan inarcò un sopracciglio: “Come perché?”

“Con quei libri non si scherza, Regan.”

“Lo so. Ma ti ricordo che c’è un demone che sta terrorizzando la mia città. Sono venuto ad Athens proprio per cercare una soluzione. O lo hai dimenticato? Non sono qui per giocare alla congrega felice.”

Sheila ingoiò il boccone di lasagna che stava masticando e bevve un sorso d’acqua. Quando posò il bicchiere sul tavolo, sospirò e finalmente incrociò lo sguardo di Regan. Il suo era velato da un’emozione che il ragazzo interpretò come rammarico. Confuso, la scrutò attentamente e ciò che vide non gli piacque affatto.

“Sheila, che succede?” domandò pacato, i sensi all’erta e i muscoli tesi, pronti all’azione.

“Niente.” rispose Sheila e scosse il capo, poi parve ripensarci, “È che…” si bloccò, sospirò e sventolò una mano, “Lascia stare. Che libri ti interessano? Hai dei titoli?”

“Sheila.”

“Non è nulla.” gli rivolse un sorriso falso e lo incoraggiò a elencargli i titoli.

“In realtà, non sono ferrato in materia.” disse Regan, “Tu hai qualche lettura da consigliarmi?”

“Dipende dal tipo di demone. Hai capito qual è?”

“No. Oggi sono stato alla sinagoga, perché speravo che la pista del Chabalim mi avrebbe condotto da qualche parte. Tornerò là domani per avere delle risposte chiare, ma non ci conto molto.”

“In tal caso, nemmeno io posso aiutarti. Esistono tanti libri di demonologia quante sono le culture del mondo, Regan. Devi restringere il campo.”

“So che è legato all’oriente. Asia, credo.”

“Restringi ancora.”

“Eh… boh.”

“Uhm.”

Sheila si alzò per riporre i piatti nell’acquaio e cominciò a lavarli.

“Davvero non c’è niente che tu possa farmi leggere? Non hai alcun suggerimento?” insisté Regan.

“Mi dispiace.” mormorò sottovoce.

Regan ebbe la netta impressione che non si stesse scusando solo per il mancato aiuto nella sua ricerca. Gli stava nascondendo qualcosa, ormai era chiaro.

“Volete che me ne vada, vero?”

Sheila perse la presa su una forchetta, che precipitò nell’acquaio con un tintinnio assordante. Si voltò verso di lui con la bocca socchiusa, in procinto di negare. All’ultimo momento, però, sigillò le labbra e le strinse con forza, come se volesse impedire alle parole che si agitavano nella sua gola di uscire.

Regan la fissò incredulo: “Mi avete praticamente ricattato per firmare il contratto di apprendistato, e ora non mi volete più? Che ho fatto di male?”

Sheila rimase in silenzio.

“Perché non parli? Perché fatichi pure a guardarmi? Fino a ieri mi pareva che avessimo instaurato un buon rapporto. Cos’è cambiato nell’arco di ventiquattro ore?” indagò con una veemenza a stento controllata, “È per l’incendio che ho causato durante il test del fuoco? Se è così, ho già detto che mi dispiace.”

“Regan, io…” balbettò turbata, “Non posso spiegarti, ma-”

“Non mi merito nemmeno una spiegazione, dunque. Mi cacciate su due piedi perché vi va. Della serie ‘Addio, Regan, grazie per essere passato e non farti più vedere’.” sputò con palese sdegno, per poi rannuvolarsi, “Non mi dirai che è per la mia natura. Una cosa su cui non ho mai avuto scelta, peraltro.”

“È per il tuo bene, Regan.”

“Risparmiami le stronzate, Sheila.” la sedò brusco, “Non sono un ragazzino idiota. Nella vita ho ingoiato parecchi bocconi amari e so riconoscere una menzogna quando mi sta di fronte. Quando usa come veicolo la mia vera nonna per ferirmi dove fa più male. Dimmi cosa sta succedendo. Ora, se possibile, di grazia e per favore.” sibilò tra i denti.

Regan vide Sheila impallidire. La vide appoggiare le mani tremanti sul bordo dell’acquaio e stringere finché le nocche non divennero bianche. La vide incassare la testa fra le spalle, chiudere gli occhi e contrarre i muscoli del viso. Infine, la udì singhiozzare, inspirare sonoramente ed esalare un sospiro carico di profonda sofferenza.

“Non sei al sicuro con noi. Ti prego, vattene. Raccogli le tue cose, corri alla stazione e salta sul primo pullman.”

“Sono in pericolo? Qualche strega sta pensando di attaccarmi?” chiese Regan mentre si alzava.

La sedia provocò uno stridio quando strusciò sul pavimento, ma nessuno dei due vi badò.

“Non stai simpatico a Fiona.” sbuffò Sheila, “Ti teme, per quello che potresti fare. Che sei capace di fare.”

“E cosa sarei capace di fare, Sheila?”

Lei scrollò di nuovo il capo. Quando tornò a parlare, nella sua voce c’era più urgenza.

“Regan, ascoltami. Devi andartene.”

Il ragazzo assottigliò le palpebre e la trafisse con un’occhiata gelida.

“No.” proferì, chiaro e conciso.

Sheila si girò di scatto, una protesta pronta sulla punta della lingua, ma Regan non le permise di esprimerla. Era stanco di enigmi e giochetti, adesso avrebbe fatto sul serio.

“Non finché non avrò ottenuto le risposte che cerco. Indicami dove posso trovarle, poi me ne andrò.”

“Non le avrai. Non da me.”

“Perché? Vuoi che altri innocenti muoiano? Vuoi lasciare a piede libero un demone senza fare niente?”

“Non si tratta del tuo demone, Regan, ma di te!” sbottò spazientita.

“Di me? In che senso?”

Sheila grugnì e si passò le mani sulla faccia: “Ti prego. Ti scongiuro. Vattene. Scappa.”

“Da chi?”

“Da tutti noi…”

 
*
 
Jennifer urtò con la schiena il tronco di un albero e cadde carponi con un gemito. Le costole rotte guarirono in pochi istanti e il dolore svanì altrettanto velocemente. Si fermò a riprendere fiato.

Il suo respiro si condensò in piccole nuvolette di vapore davanti al viso, ma lei non sentiva freddo. La sua temperatura corporea, adesso, era più alta e il clima esterno non la scalfiva più. Vincent le aveva detto che d’ora in avanti non si sarebbe più ammalata, le sue difese immunitarie l’avrebbero protetta e guarita da qualsiasi cosa. Eccetto il cancro.

“Basta così, per oggi.” le disse Sean.

“No, ce la faccio.” ansimò, rimettendosi faticosamente in piedi.

I piedi nudi affondarono nel suolo gelido, ricoperto da un sottile strato di neve. Con gesti esperti si legò di nuovo i capelli spettinati in una coda e si scrocchiò il collo.

Si allenavano da ormai sei ore. Il sole stava per tramontare, ma era impossibile scorgerne la sagoma attraverso il denso banco di nubi che oscurava il cielo.

“Sei un lupo mannaro da appena qualche giorno, Jennifer. Strafare ti porterà al fallimento. Prenditela con calma, non c’è fretta.”

“Ma la luna piena è vicina.” protestò e, al solo pensiero, rabbrividì, sentendo l’ansia montare.

“Verrai incatenata nel bunker e io resterò con te per tutto il tempo. Non hai nulla da temere.”

Jennifer non nascose la propria ansia. Tutta quella faccenda era a dir poco assurda. Faticava a venire a patti con la nuova realtà, a volte le sembrava di stare sognando. Inoltre, mantenere il segreto con la sua famiglia e con Charlotte era più difficile di quanto avesse immaginato. Non le era mai venuto naturale mentire. Se solo ci provava, cominciava a balbettare e ridacchiare nervosamente, smascherandosi subito.

L’unica nota positiva che la spronava a non abbandonarsi a una crisi isterica era la presenza di Roman. Adesso che facevano parte dello stesso branco – quella parola le provocava ancora una buffa sensazione alla bocca dello stomaco – passavano più tempo insieme. Jennifer aveva avuto modo di osservare il ragazzo sotto una luce diversa, notando per la prima volta piccoli dettagli che prima le erano sfuggiti.

A cominciare dal suo odore. Roman aveva un odore buonissimo, che la attraeva come un’ape sul miele. Anche se ogni volta che la guardava il senso di colpa aggiungeva una nota amara alla sua essenza di base, Jennifer non poteva esimersi dal riempirsene i polmoni.

Il rapporto che Roman aveva con i familiari non era semplice. C’era tensione tra lui e Vincent, mentre con la madre era più aperto. Con Ruby e Sean non parlava molto e giocava con i cugini assai di rado. Era un branco molto diviso, nonostante cercassero di salvare le apparenze, soprattutto quando c’era lei. Questo la intristiva, non le piaceva vedere soffrire Roman, così coglieva ogni occasione per tirarlo su di morale.

Roman non si era ancora rilassato in sua compagnia, però. Manteneva le distanze, i suoi sorrisi erano forzati e le rivolgeva a malapena la parola, accrescendo la frustrazione di Jennifer. Non aiutava il fatto che Roman trovasse sempre il modo di infilare Regan nelle loro conversazioni, non importava di cosa stessero parlando.

Ecco, una cosa curiosa era che, da quando era stata morsa, la sua opinione su Regan era cambiata. Ricordava di averlo sempre considerato un tipo strambo, inquietante, da cui il suo istinto le suggeriva di tenersi alla larga. Poi, un giorno, quasi come per magia, aveva iniziato a rispettarlo e trovarlo simpatico, persino tenero. Se qualcuno osava offenderlo in sua presenza, lo difendeva come se fosse stato il suo migliore amico. Ora, invece, era tornata al punto di partenza. Anzi, peggio. Pensare a Regan non solo la metteva a disagio, ma le suscitava pure un irrazionale ribrezzo. Jennifer non dubitava che, appena lo avesse rivisto, avrebbe tentato di azzannarlo.

“Jennifer, andiamo.” la esortò Sean, indicandole con un cenno del capo il sentiero.

Lei gli si accodò svelta. Mentre osservava la sua schiena, ipnotizzata dai movimenti fluidi dei muscoli, ponderò l’idea di parlare di Regan con Sean, chiedergli se fosse normale desiderare di uccidere qualcuno che avrebbe dovuto essere tuo amico. Alla fine, desistette. Magari era solo un problema di autocontrollo. Se avesse imparato a tenere a bada gli istinti animaleschi, forse la voglia di squarciare la gola di Regan a morsi sarebbe sparita.

D’altronde, Regan non era parte del branco. In quanto lupo mannaro appena trasformato, Jennifer aveva già manifestato un certo astio nei confronti degli esterni, anche con i suoi genitori. Una volta abituatasi alla sua nuova natura, sarebbe riuscita a convivere con gli altri pacificamente.

Forte dei pensieri positivi, accelerò il passo e si affiancò a Sean, che le rivolse un sorriso paterno.

Tornata a casa Sinclair, fece la doccia nel bagno degli ospiti e si rivestì con indumenti puliti nella camera che le era stata assegnata.

I Sinclair l’avevano accolta a braccia aperte, come se fosse già di famiglia. Era libera di mangiare quello che voleva e di leggere tutti i libri della biblioteca. Se aveva domande, non doveva far altro che chiedere.

Non si era mai sentita tanto benvenuta e benvoluta. La bestia in lei si quietava quando era in compagnia del branco e l’aura dell’alfa le dava una sicurezza che non aveva mai provato prima d’ora. Vincent era dalla sua parte, l’amava incondizionatamente, e approvava il suo interesse per Roman. Jennifer trovava un po’ imbarazzante sentirsi spingere tra le braccia del ragazzo con tanto genuino entusiasmo, ma era anche lusingata.

Trevor e Nina erano adorabili. La chiamavano già “sorellona” mentre giocavano. Ruby era fantastica, Sean premuroso, Vincent affidabile e disponibile e Tamara era come una seconda madre. Jennifer si sentiva davvero fortunata.

Dopo aver raccolto le proprie cose, salutò il branco e salì in macchina con Tamara per farsi riaccompagnare a casa. Durante il tragitto, la lupa la rassicurò di nuovo sulla luna piena, dicendole che sapevano ciò che facevano e non le sarebbe accaduto nulla di male. Jennifer la ringraziò, un po’ più tranquilla, ma ancora lontana dalla vera pace interiore.

Salutò Tamara quando lei la scaricò di fronte al vialetto. Poi si girò ed entrò in casa con le chiavi. Non c’era nessuno. I genitori le avevano scritto per messaggio che sarebbero usciti per cena. Le avevano lasciato i soldi per ordinare una pizza, nel caso non le fosse andato di finire gli avanzi nel frigo.

Le dispiacque non vederli. Di recente, si incrociavano sempre più di rado. Jennifer sapeva che non la stavano evitando, ma entrare nove volte su dieci in una casa vuota e buia cominciava a deprimerla.

Prima di salire in camera, mise i vestiti sporchi in lavatrice e la accese. Quindi si afflosciò sul letto, la faccia premuta contro il cuscino, e inalò l’odore che impregnava la federa. Adesso poteva sentire tutto, dall’ammorbidente all’odore di sua madre e il proprio. In principio, l’abilità di poter fiutare ogni singola fragranza l’aveva destabilizzata. Per non parlare dei suoni. Sentirsi bombardare notte e giorno da una marea di rumori molesti aveva messo a dura prova il suo autocontrollo. Sean aveva trovato la soluzione.

Con un piccolo sorriso afferrò dal comodino le cuffie imbottite che il lupo mannaro le aveva regalato e le indossò. Sospirò di sollievo non appena il tanto agognato silenzio la avvolse.

Sonnecchiò per un’ora circa, finché il trillo del cellulare non la disturbò. Guardò il nome di Charlotte brillare sullo schermo e avvertì lo stomaco contrarsi. Si era tenuta distante dall’amica negli ultimi giorni per paura di farle del male. Vederla incupirsi ogni volta che la liquidava con un pretesto qualsiasi era stato come ricevere una pugnalata nel petto, ma non aveva avuto scelta.

Esitò, poi afferrò il cellulare e accettò la chiamata.

“Ciao.”

“Sono qui fuori. Apri, lo so che sei in casa.”

Jennifer si raddrizzò di scatto, rigida e tesa. I suoi occhi saettarono per la stanza con crescente panico.

“Ehm, non mi sento tanto bene. Forse è meglio che-”

“Apri questa dannata porta! Sono stanca delle tue scuse!”

“Char-”

“Ho detto apri!”

Jennifer udì un singhiozzo mischiarsi alle sue parole. Il senso di colpa ebbe la meglio. Corse di sotto e, prima ancora che la porta finisse di aprirsi, si ritrovò la migliore amica aggrappata alle sue spalle tipo koala. Il suo profumo speziato le invase le narici. La bestia lottò per divincolarsi, ma Jennifer soppresse l’impulso di ringhiarle in faccia e ricambiò l’abbraccio.

“Che cosa ti succede, Jen?” le chiese Charlotte con voce rotta, “Ti prego, parlami. Ho fatto qualcosa di male?”

Jennifer deglutì e scosse il capo: “No, tu non c’entri nulla.”

“Allora cosa c’è? Perché mi ignori?”

“Non è come pensi. È solo che…” si bloccò, memore della promessa che aveva fatto al branco.

“Cosa?”

“Non posso. Mi dispiace, Charlotte, non posso.”

“Sì che puoi. Siamo migliori amiche dall’asilo, ci siamo sempre dette tutto.” replicò Charlotte, scrutandola con un’intensità tale che Jennifer si sentì rimescolare, “Qualunque cosa sia, non ti giudicherò, lo sai.”

Jennifer si scostò e arretrò di un passo.

“Ha che fare con Roman, per caso? È successo qualcosa quella sera, dopo la cena di compleanno, vero?” insisté la mora.

Quando Jennifer non negò, Charlotte le sorrise raggiante, per poi tornare subito seria.

“Okay, presumo che non sia stato qualcosa di bello. Ti ha trattata male? Ti ha messo le mani addosso? Dimmelo e gli faccio un occhio nero.”

“No! No, tranquilla. Roman è stato… lui mi ha salvata. Come un vero eroe.”

“Salvata? Cristo, Jen, che diavolo è successo?”

“Sono stata… aggredita. Nel parcheggio. Ma lui è arrivato e ha messo in fuga… l’altro.”

“Oh. E hai denunciato l’aggressione alla polizia? Hanno preso quel pervertito?”

“No, non… non l’ho visto in faccia. Ero troppo spaventata.”

“Okay. È per questo che sei nervosa? Oddio, anch’io lo sarei se il mio aggressore fosse ancora a piede libero. Questa città sta andando in malora, giuro.”

Charlotte osservò l’amica, il modo in cui si impegnava a non ricambiare il suo sguardo, in cui si molleggiava sulle gambe e si torturava le unghie, la sua espressione chiusa e vagamente ansiosa. Capì che le stava nascondendo qualcosa. Jennifer non era mai stata brava a mentire.

“Che altro c’è? Puoi dirmelo.” la incoraggiò, invitandola a seguirla in salotto per sedersi sul divano.

Ormai frequentava casa Dawry da troppi anni per ricordare di non esserne la padrona. Quando la vide esitare, la sospinse con una mano sulla schiena. Jennifer si lasciò trascinare sul divano con riluttanza e si accomodò dal lato opposto. Notandolo, Charlotte si accigliò.

“Jen, sono stufa dei tuoi silenzi. Parla.” ordinò e, non ricevendo risposta, decise di cambiare tattica, “Sono molto preoccupata per te. Dico sul serio. Ti comporti in maniera così strana… ho creduto alla balla dell’influenza quando al rientro a scuola ti ho vista fuggire in bagno a più riprese, ma ora è chiaro che c’è di più. Per caso ti droghi?”

“Co- no! Niente droga!” protestò con veemenza la bionda.

“Bene. Allora dimmi di che si tratta. Merda, non sarai mica malata di cancro?!”

Jennifer sbuffò divertita e scosse la testa.

“Non ho voglia di trascorrere il resto della serata a farti l’interrogatorio, quindi rispondi. Cosa c’è che non va?”

A quel punto, Jennifer perse la pazienza. Considerava Charlotte una sorella, le voleva un bene dell’anima, ma la sua nuova natura la pensava diversamente. Charlotte era l’intrusa che aveva osato invadere la sua seconda tana andando contro il suo volere. Desiderava che se ne andasse, che la lasciasse in pace, che smettesse di toccarla e rivolgersi a lei con tanta familiarità, come se fosse branco. Charlotte non era branco.

Un ringhio rotolò fuori dalle sue labbra. Le pupille si dilatarono, inghiottendo l’azzurro delle iridi. Le dita si contrassero sulle ginocchia, smaniose di avvinghiarsi attorno alla gola di Charlotte. Le zanne e gli artigli, per fortuna, rimasero nascosti. Sean le aveva spiegato che si sarebbe trasformata esclusivamente durante la luna piena, mentre per il resto del tempo avrebbe avuto solo la forza e i sensi del lupo dalla sua parte.

“Jen…?”

“Vattene.” grugnì.

“No. Qualunque cosa sia, l’affronteremo insieme, come abbiamo sempre fatto.” si oppose, testarda come un mulo.

Un ringhio più forte rimbombò nella stanza. Charlotte trasalì, balzò in piedi e indietreggiò, più sconvolta di quanto riuscisse a esprimere. Non aveva mai visto Jennifer in quello stato, né l’aveva mai sentita emettere simili versi.

“Voglio che tu te ne vada.” proferì Jennifer a fatica, sforzandosi di tradurre i pensieri in parole in modo che avessero un senso.

“Di… di cosa stai parlando?”

“Charlotte. Vattene.”

“No!” esclamò, ignorando le lacrime che scesero a solcarle le guance.

In un attimo, Jennifer si avventò su di lei. L’impatto della schiena contro il pavimento tolse a Charlotte il respiro, mentre la fitta lancinante alla nuca le offuscò la vista per svariati secondi. Gemette e si agitò, il dolore più forte persino della paura o dell’adrenalina.

La presa ferrea sulle sue spalle svanì un secondo più tardi, permettendole di raggomitolarsi in posizione fetale e recuperare il fiato. Quando ci riuscì, rotolò di nuovo sulla schiena e puntò gli occhi sul soffitto. Appena mise a fuoco, li sgranò, percependo il sangue defluirle dal volto così velocemente da lasciarle la testa leggera, dandole l’impressione di stare galleggiando nel vuoto.

Jennifer era sul soffitto.

C’erano talmente tante cose sbagliate in quella frase che non sapeva nemmeno da dove cominciare per elencarle tutte. Restava il fatto che Jennifer era sul soffitto. Accucciata su di esso, per giunta. E la fissava dall’alto, la testa rovesciata e gli occhi iniettati di sangue.

Finalmente, la voce le tornò e la rilasciò in un’unica volta. L’urlo riecheggiò per tutta la casa, acuto, assordante. Jennifer guaì e scattò, gattonando sui muri con un’agilità mai vista. Ricordava un ragno. Scomparve nel ripostiglio e sbatté la porta dietro di sé.

Charlotte rimase pietrificata sul pavimento per almeno due minuti. Il dolore alla nuca e alla schiena si era trasformato in un sordo pulsare, ma se solo provava a muoversi tornava alla carica dandole il capogiro. Aspettò ancora un po’. Quando i suoi arti ripresero a collaborare, si mise seduta.

Nella casa regnava il silenzio. Charlotte scoccò un’occhiata fuori dalla finestra, stupita che il suo grido non avesse richiamato i vicini.

Lentamente, si appoggiò al divano e si tirò su, le orecchie tese e gli occhi fissi sulla porta chiusa del ripostiglio. Deglutì, inspirò a fondo e si impose di smettere di tremare.

Barcollò in avanti, il corpo manovrato da un automatismo che affondava le radici nei ricordi dell’infanzia: la sua migliore amica stava male, doveva raggiungerla e aiutarla. Fece una smorfia all’ennesima fitta alla schiena.

Dopo due passi si fermò, realizzando l’anormalità di ciò che aveva visto. Il pensiero di chiamare un esorcista le attraversò il cervello, ma lo scartò subito. Sì, la scena a cui aveva assistito rivaleggiava con il più spaventoso dei film horror. Non tanto per il gesto di Jennifer in sé e per sé, perché di mostri che si contorcevano in pose strane o facevano acrobazie strambe ne aveva visti a bizzeffe sullo schermo, quanto perché una cosa del genere era avvenuta nella realtà, non era frutto di effetti speciali. Ma da lì a credere che Jennifer fosse posseduta… insomma, i demoni non esistevano mica, giusto? Magari se lo era immaginato.

No, non era pazza. Era accaduto davvero. Jennifer era saltata sul soffitto e poi aveva gattonato verso il ripostiglio, sfidando tutte le leggi di gravità. Riprese in considerazione l’esorcista.

Un singhiozzo attirò la sua attenzione. Era flebile, soffocato, ma nel silenzio tombale risuonò nitidamente. Il suo cuore saltò un battito. Si premette una mano sulla bocca per impedirsi di gridare ancora.

Uscì dal salotto a passi felpati, adagiando piano le scarpe sul parquet. Ebbe l’accortezza di evitare le travi scricchiolanti, nonostante il terrore e il dolore. Quando giunse innanzi al ripostiglio, si arrestò un’altra volta e acuì l’udito.

Jennifer stava piangendo. Quello mise a tacere del tutto la paura e cancellò la teoria della possessione.

“Jen…?”

I singhiozzi cessarono di colpo.

“Jen, hey. Sto… sto bene. Puoi venire fuori, se vuoi.”

In risposta le arrivò un guaito disperato.

“Mi hai fatto paura, prima, ma adesso sto bene. Esci. È tutto a posto.”

“Mi dis-dispiace…”

“Tranquilla, lo so. Dai, vieni fuori.”

“No…”

“Posso venire dentro io?”

“No.”

“Jen, va tutto bene. Sono qui.” le disse e si sedette con la schiena alla porta, “Resto qui con te finché non ti senti pronta, okay?”

“V-Va’ vi-via.”

“Non lo farò. Sorelle per sempre, ricordi? Ce lo siamo giurate all’asilo.”

“Non v-voglio f-farti del m-male!”

“Lo so. Non me ne farai. Mi fido di te.”

“Non c-capisci…”

“Non capisco, no.” sospirò Charlotte, “Perché non mi spieghi? Magari posso aiutarti.”

“Non puoi.”

“Cosa ti è successo?”

“I-Io… Roman ha…”

“Roman? Che cosa ti ha fatto?”

“Mi ha salvata, ma… mi ha morsa.”

“Morsa? In che senso? Ti ha attaccato la rabbia? Le pulci? No, aspetta, le pulci non ti fanno saltare sul soffitto.”

“Sono un lupo mannaro.”

Charlotte ammutolì. Le sue sinapsi ci misero parecchio a processore l’informazione, tanto che dopo qualche minuto Jennifer la chiamò esitante.

“Sono qui. Sto bene.” la rassicurò l’amica in tono assente, “Lupo mannaro. Certo. Perché no? Non è affatto pazzesco o totalmente assurdo. Suona verosimile.”

“È la verità… anche se non avrei dovuto dirtelo. Ho promesso di mantenere il segreto. Se scoprono che ho parlato…”

“Chi dovrebbe scoprirlo?”

“I Sinclair. Sono un branco. Un branco di licantropi. Se un licantropo morde un umano, questo si trasforma in lupo mannaro. Lo zio di Roman, Sean, è come me.”

“Oookay.”

“Charlotte, sono seria!”

“Credevo fossi un lupo mannaro.”

Jennifer sbuffò una risata. Charlotte sentì del movimento nel ripostiglio e poi un peso appoggiarsi dall’altro lato della porta.

“Scusa se ti ho spaventata. Ho perso il controllo. Tutto questo è nuovo per me, devo ancora abituarmi.”

“A-ha.”

“Va bene se non mi credi. L’unica cosa che ti chiedo è di non dirlo ad anima viva. Puoi promettermelo?”

“Io… Jen, ti rendi conto che ciò che dici sembra…”

“Sembrano le farneticazioni di una pazza? Sì, lo so. Ma te lo sto chiedendo in nome della nostra amicizia.”

“Okay. Starò zitta.”

“E non avvicinarti a me per un po’. Verrò io a cercarti quando sarò meno… selvaggia.”

“Okay.”

“Non chiamarmi e non chiedermi di rivelarti altre informazioni.”

“Ora stai esagerando.”

“Fallo per me, Charlotte. Ne ho bisogno. Ho bisogno di sapere che sei al sicuro, lontana da me.”

Charlotte si arrese: “D’accordo. Ma non sparire, okay? Solo… ogni tanto, fammi sapere che sei viva e stai bene. Io ti aspetterò.”

“Grazie. Lo apprezzo molto, davvero.”

“Ho solo una domanda.”

“Dimmi.”

“Cosa farai durante la luna piena?”

“I Sinclair mi incateneranno nel loro bunker.”

“Cosa?!”

“Non c’è altra scelta. Non voglio diventare una bestia assetata di sangue e morte. Nessuno lo vorrebbe, ma è la mia realtà, ormai. Tutto quello che posso fare è cercare di evitare con ogni mezzo possibile di far del male a degli innocenti. Spero soltanto che le catene tengano.”

Charlotte si accasciò contro la porta ed esalò un sospiro incredulo. Poi chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal silenzio, esausta sin nel midollo.

La mia migliore amica è un lupo mannaro, pensò. Ah! Divertente. Dovrò fare al più presto una maratona di film a tema per imparare qualcosa.

Le due ragazze si concentrarono sul ritmo dei rispettivi respiri, sincronizzandoli senza accorgersene, consapevoli che ci sarebbero sempre state l’una per l’altra. Il vero confronto sarebbe giunto più in là, una volta che le acque si fossero calmate. Per adesso, potevano accontentarsi del legame indissolubile che le univa, attingendo da esso la forza per rimanere ancorate al presente. Almeno finché il mondo là fuori non fosse tornato a bussare alla porta.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** The dance of fire ***









 
Regan percepì un’ondata di calore bruciante diffondersi nelle sue vene. Gli fece ribollire il sangue e ardere le ossa, scatenando forti vampate che si riverberarono in tutto il suo corpo. Una piccola parte del suo cervello era curiosa di scoprire se stesse andando a fuoco. Il resto, invece, era concentrato su Sheila e sulla propria mano, ora avvolta attorno al collo della strega.

Lei boccheggiò, si aggrappò al suo braccio e lo guardò con occhi sbarrati. Tuttavia, non tentò di liberarsi come Regan si aspettava. Rimase passiva, le ciglia umide di lacrime e le labbra tremolanti.

“Dimmi. Come. Accedere. Alla vostra. Biblioteca. Segreta.” scandì Regan.

L’ordine perentorio venne espresso con una voce che non aveva nulla di umano. Era bassa, cavernosa, sinistra. Sembrava provenire dalle viscere della terra, là dove la lava dei vulcani giace in attesa della spinta che la farà eruttare con violenza per spandere distruzione ovunque.

Sheila ebbe uno spasmo, il suo sguardo si fece vacuo e i suoi arti si afflosciarono, come privati di colpo dell’energia che li aveva animati sino a un istante prima.

Le iridi di Regan si rifletterono in quelle azzurre della donna, due biglie del colore delle braci sonnecchianti circondate da una sclera nera, a sua volta incorniciata da occhiaie scure che delineavano i contorni delle orbite.

“Si deve recitare una formula e offrire un tributo di sangue.” gli disse in tono piatto.

“Un tributo? Io potrei offrirlo senza far scattare l’allarme?”

“No. Solo le streghe anziane possono.”

“E tu fai parte di quella cerchia fortunata, immagino.”

“Sì.”

“Molto bene. Congratulazioni, Sheila, hai vinto un viaggetto nei sotterranei.”

La strattonò per la gola, aderì con il torace alla sua schiena e le intimò di fargli strada.

“E mi raccomando, fa’ piano. Non vogliamo che Fiona ci scopra, giusto?” le sussurrò all’orecchio, “Prova a gridare e te ne pentirai. Non voglio farti del male, ma se mi costringi non avrò scelta.”

Lasciarono la cucina senza ulteriori indugi. I loro passi felpati producevano un lievissimo tud tud sul parquet, un suono che nessun orecchio umano avrebbe mai potuto cogliere, a meno che non si trovasse negli immediati paraggi. Regan tenne le sue ben aperte e non abbandonò mai la prudenza, arrestandosi subito se solo sentiva uno scricchiolio sospetto.

Via via che avanzavano, le ombre presero il sopravvento, arrampicandosi voraci sui loro vestiti e sulla loro pelle per divorarli in un sol boccone. L’alone freddo emanato dai lampioni in strada, che filtrava attraverso le finestre con pigrizia, era l’unica fonte di luce a tenerle a bada.

Raggiunsero e superarono un salottino dall’atmosfera accogliente, con tanto di caminetto, quadri di nature morte, divano di broccato e poltroncine imbottite. Svoltarono a sinistra in un altro corridoio e imboccarono una scorciatoia attraverso una grande camera stipata di vecchi mobili polverosi, ammonticchiati gli uni sugli altri in delle pile dall’aspetto più che precario, alte fino al soffitto. Regan non aveva dubbi che un minimo sfioramento avrebbe provocato una frana. Infine, si fermarono di fronte a una semplice porta di legno dipinta di bianco, situata in cima all’ennesimo corridoio.

Regan fece un passo indietro per dar modo a Sheila di aprirla. Lei poggiò la mano destra sul pomello di ottone, lo girò e spinse. La porta si spalancò su una rampa di scale che si tuffava nel buio. Scesero piano, attenti a non inciampare. Arrivati in fondo, Sheila gli fece strada verso una porticina, incassata tra due torrette di scatoloni ammuffiti. Non c’era maniglia o serratura. Adagiò un palmo sulla superficie scrostata.

Gofynnaf am fynediad.” pronunciò, e Regan tradusse senza problemi la richiesta di accesso, anche se non aveva idea di che lingua fosse.

Sheila si ferì di proposito sulle schegge che costellavano la porta. Il sangue la macchiò e venne assorbito dal legno, che scricchiolò in maniera inquietante. Un attimo dopo, uno schiocco riecheggiò per il seminterrato e uno spiraglio si aprì. Sheila spinse l’anta e Regan la seguì oltre la soglia, nell’oscurità più fitta che avesse mai visto.

Quando Sheila bisbigliò altre parole in quella lingua sconosciuta, grosse lanterne di vetro soffiato dalle forme eleganti e bombate si accesero come per magia, illuminando l’ambiente con la loro soffice luce bianca. Erano appese tramite dei ganci di ferro, posti a uguale distanza in cima agli alti scaffali che assiepavano una sala così enorme da non riuscire a scorgerne la fine.

Nemmeno il soffitto era visibile, o forse non esisteva. Gli scaffali erano immersi in un mare di fitta tenebra, tanto soffocante da far venire voglia di aggrapparsi alla solida mobilia per rimanere ancorati al presente, alla realtà, e impedire al vuoto di risucchiarti via.

Suddetti scaffali erano posizionati in modo da creare degli stretti passaggi, talmente intricati che Regan comprese da dove scaturisse l’idea del labirinto. Il pavimento era liscio e nero, macchiato qua e là con precisione maniacale dalle ombre proiettate su di esso dalle lanterne.

Regan deglutì e si guardò intorno basito. C’erano così tanti libri! Il suo cervello salivò alla prospettiva di mettere le mani su tutta quella conoscenza. Le ginocchia gli tremarono e il fiato si mozzò. Recuperò il controllo con un grande sforzo, rinserrò la presa attorno alla gola di Sheila e la sospinse in avanti.

“Cerca i libri di demonologia.” le ordinò brusco, frustrato all’udire il leggero tremolio nella propria voce.

La strega iniziò a camminare a passo sicuro attraverso i passaggi. Regan lesse alcuni titoli sulle costole dei libri che gli scorrevano a fianco, ma erano davvero troppi. Ci sarebbero volute almeno dieci vite per leggerli tutti.

Dopo un po’, Sheila si fermò di fronte a degli scaffali identici agli altri, fatti dello stesso legno e illuminati dall’alto dallo stesso tipo di lanterna. Tuttavia, i libri che li gremivano sprigionavano un’energia che gli fece accapponare la pelle. Quella che provava Regan non era paura, ma piacere. Seppe all’istante, appena li sfiorò con occhi avidi, che quei libri erano destinati a essere suoi.

“Prendine uno alla volta, assorbi il contenuto nella tua mente e rimettilo al suo posto.” comandò a Sheila.

Lei afferrò un tomo a caso, rilegato in pelle e leggermente consumato sui bordi. Lo aprì alla prima pagina e vi adagiò sopra una mano. Pronunciò a bassa voce la formula. Il suo corpo ebbe uno spasmo e la testa si riversò all’indietro, gli occhi chiusi e la bocca spalancata in un grido muto.

Durò una manciata di secondi, ma a Regan parve passare una piccola eternità. Poi Sheila tornò lucida. Ripose il libro dove lo aveva trovato, ne prese un altro e ripeté la formula. Continuò finché non assorbì tutti i libri della prima sezione.

A un certo punto, un gemito spezzò l’assordante silenzio e le sue ginocchia cedettero. Regan l’agguantò di slancio, proteggendole la testa con un braccio affinché non sbattesse sul pavimento duro. La sdraiò adagio e la esaminò con cipiglio critico. Notò che stava perdendo sangue dal naso e dalle orecchie e le iridi erano diventate quasi bianche.

Si morse un labbro e valutò la prossima mossa. Evidentemente era impossibile, nonché fatale, assorbire tanta conoscenza in così poco tempo. Doveva liberare spazio.

Si guardò intorno in cerca di un’idea. Lo sguardo gli cadde su un libricino che giaceva sullo scaffale più basso alla sua sinistra. Lo prese e lesse velocemente per appurare che non contenesse nulla di significativo. C’erano delle formule e dei pentacoli, ma non sembrava prezioso. Lo aprì all’ultima pagina, adagiò il palmo su di essa e recitò a memoria l’incantesimo per creare una dimensione magazzino nella carta.

Per conservare e proteggere, invoco spazio infinito.”

Pregò che, con l’aumento delle pagine, il libro non aumentasse pure di dimensioni, altrimenti non ce l’avrebbe mai fatta a trasportarlo fuori.

Sorreggendo Sheila da sotto le ascelle, la costrinse ad assumere una posizione seduta. La schiaffeggiò dolcemente per svegliarla. Non appena lei si destò, le ordinò di riversare le informazioni assorbite nel libro che le mise tra le mani. Seppur debole, Sheila ubbidì.

Sotto gli occhi meravigliati di Regan, le pagine del libro crebbero di numero e si riempirono di parole e simboli. Per fortuna, le dimensioni restarono quelle originali. Quando Sheila finì, Regan richiuse il libro e le pagine in più scomparvero alla vista. Schioccò la lingua soddisfatto e piegò le labbra in un ghigno.

“Ricomincia ad assorbire. Quando senti di essere vicina a raggiungere di nuovo il limite, trasponi le informazioni qui dentro.” le disse in tono più gentile e paziente.

Sheila riprese da dove aveva interrotto. Regan aspettò in silenzio al suo fianco, pronto ad afferrarla nel caso avesse perso l’equilibrio per via della stanchezza.

Dopo quelle che sembrarono ore, benché fosse impossibile scandire lo scorrere del tempo in quella dimensione, Sheila copiò anche l’ultimo volume di demonologia nel libricino. Era esausta, lo si vedeva chiaramente dalle occhiaie, dal respiro affaticato e dal pallore cadaverico del suo viso.

Regan si fece consegnare il libricino e lo nascose sotto la felpa, poi terse il sangue che colava dalle orecchie e dal naso della strega con una manica. Cinse la vita di Sheila con un braccio, le strinse una mano nella propria e, sorreggendola, la condusse fuori dalla biblioteca. Dopo averle ordinato di richiudere la porta, la guidò su per le scale del seminterrato. Ripercorse il tragitto che avevano fatto all’andata e, giunti in cucina, la depositò con estrema delicatezza su una delle sedie intorno al tavolo.

L’orologio a muro segnava le nove di sera, segno che non era passata che una misera oretta. Regan acuì l’udito e, con sollievo, appurò che Fiona era ancora nel suo studio.

Prese lo straccio abbandonato accanto all’acquaio e lo bagnò con acqua fredda. In ginocchio davanti a Sheila, mentre le teneva fermo il mento con due dita, terminò di ripulire la sua pelle dal sangue. Qualche goccia aveva macchiato il colletto del maglioncino color senape.

“Sheila, guardami.” le ingiunse con voce autoritaria e, appena lei obbedì, le diede l’ultimo ordine, “Vestiti e torna a casa. Assicurati di avvolgere bene la sciarpa attorno al collo prima di uscire, per celare le macchie di sangue. Non salutare Fiona quando te ne vai. Guida con prudenza, anche se sei stanca e l’unica cosa che desideri è rannicchiarti sotto le coperte e dormire per almeno un giorno intero. Se qualcuno te lo chiede, abbiamo parlato di Shannon per tutta la sera. Non siamo mai scesi nella biblioteca sotterranea, tutto quello che è successo là dentro non è mai avvenuto. Ripeti.”

Sheila ripeté, lo sguardo vacuo fisso in quello di Regan. Poi si alzò e Regan la seguì nell’ingresso, dove la osservò con il cuore pesante indossare cappotto e sciarpa. I suoi movimenti, compiuti in religioso silenzio, erano meccanici, come se fosse telecomandata. Regan non la salutò quando lei oltrepassò la soglia della villa. Avrebbe voluto ringraziarla, scusarsi, abbracciarla, ma si trattenne e aspettò che si chiudesse piano la porta alle spalle.

Rimasto finalmente solo, rilasciò un sospiro. Afflosciò le spalle, chiuse gli occhi e si strofinò la faccia con le mani. Un minuto dopo, aprì la porta della sua camera e scivolò all’interno senza emettere alcun rumore.

Estrasse da sotto la felpa il libro e lo nascose nella tasca interna del giubbotto, assieme ai diari di Shannon. Si inginocchiò di fronte all’armadio, aprì il borsone e tirò fuori l’ultima siringa per trangugiare in due sorsi il resto del contenuto. Non lo aiutò a sentirsi meglio, la debolezza seguitava ad assediare le sue membra come un ostinato invasore, ma gli restituì la lucidità mentale necessaria per fare i conti con un altro grosso problema: Fiona.

La Prima stava architettando qualcosa per toglierlo di mezzo. L’avvertimento di Sheila gli rimbombava ancora nel cervello, facendo risuonare migliaia di campanelli d’allarme. I motivi per cui all’improvviso Regan era diventato un bersaglio gli sfuggivano. Fiona non era sembrata spaventata dalla sua natura ibrida, all’inizio. Lo aveva accolto, seppur con qualche incertezza, lo aveva incoraggiato a inserirsi nella congrega e lo aveva convinto a cominciare i test per l’apprendistato. Allora perché adesso ce l’aveva con lui?

Qualsiasi fosse la ragione, Regan sapeva di non poter rimanere fino a domenica. L’indomani sarebbe passato dalla sinagoga in mattinata per sentire cosa avesse da dirgli il rabbino. Dopodiché, avrebbe fatto i bagagli per tornare a casa con un giorno di anticipo.

Si sdraiò sotto le coperte, afferrò il cellulare e controllò i messaggi. Ne aveva uno da parte di Roman, in cui il lupo gli chiedeva se ci fossero novità. Regan rispose che era riuscito a raccogliere del materiale. Copiò e incollò il messaggio per inviarlo anche a Deirdre e a Derek. Quest’ultimo gli rispose con parole entusiaste, aggiungendo che non vedeva l’ora di riabbracciarlo.

Regan poggiò il cellulare sul comodino e serrò le palpebre, conscio che i tarli molesti non lo avrebbero lasciato in pace finché non li avesse esaminati uno per uno. Aveva ancora numerosi interrogativi da vagliare: per esempio, come aveva fatto a usare il controllo mentale su una strega, dal momento che avrebbe dovuto essere impossibile esercitarlo su altre creature soprannaturali; oppure, quanto sarebbero durati gli effetti di suddetto controllo.

Sospirò sfinito. Era stata una giornata stressante, benché ricca di successi. Il sonno lo vinse in pochi minuti e l’ennesimo incubo lo avviluppò tra le sue spire, trascinandolo in un inferno infuocato.

 
*

Regan chiuse la cerniera del borsone, se lo caricò in spalla e abbandonò la camera senza voltarsi indietro. I piedi infilati nei calzini non producevano alcun suono sulla moquette del corridoio. Fece attenzione a evitare le assi scricchiolanti, perché la prudenza non era mai troppa. La mano libera stringeva gli anfibi, che avrebbe indossato solo quando avesse raggiunto la porta.

Era consapevole di non avere più tempo. Aveva già elaborato almeno quattro diversi piani di fuga, più altri cinque o sei di riserva nel caso fossero sorti degli imprevisti.

La prima tappa era nascondere il borsone in un luogo sicuro e non troppo lontano. L’opzione migliore sarebbe stata pagare un armadietto alla stazione e lasciarlo lì fino alla partenza, così da non portarsi dietro pesi ingombranti alla sinagoga, dove Rabbi Joseph lo aspettava per comunicargli il verdetto dei suoi superiori. Se però Fiona lo avesse intercettato prima, avrebbe dovuto lasciarlo alla villa, idea che non lo entusiasmava per niente perché avrebbe dovuto tornare a recuperarlo, ponendosi di nuovo nella linea di tiro della strega. Non solo, avrebbe anche dovuto spiegare i motivi per cui aveva anticipato il viaggio, rifilarle una balla abbastanza credibile da fugare ogni sospetto.

Scese le scale, piano ma deciso, le orecchie tese per captare il battito cardiaco di Fiona. Lo individuò nello studio, calmo e regolare. Trasse un bel respiro e camminò spedito verso la porta della villa. Attraversò a passi felpati lo spazio che lo separava dalla sala da pranzo, svoltò nel salotto e giunse in vista della porta d’ingresso. Mancavano giusto una ventina di passi al traguardo. Poteva farcela.

“Dove stai andando così furtivo?”

Regan non squittì. Il verso che rotolò fuori dalle sue labbra fu una manifestazione assolutamente virile della sorpresa che gli irrigidì i muscoli e gli trasformò il sangue in ghiaccio. Si portò una mano al petto e si girò lentamente.

“Fiona. Mi hai spaventato.”

La donna era in piedi sulla soglia del salotto, la schiena dritta e le braccia conserte. I suoi occhi scuri scavavano solchi nell’anima di Regan, come se stesse tentando di sviscerarlo dall’interno.

“Sto andando di nuovo alla sinagoga per parlare col rabbino.”

“E perché ti porti dietro il borsone?”

Regan mise in moto il piano B e riprese il controllo.

“Pensavo stessi dormendo. Avrei lasciato un messaggio a Sheila, così ti avrebbe avvertito lei della mia partenza anticipata. Ma ora che sei qui, lo dico direttamente a te. Sto partendo, come puoi vedere.”

“Ma ti resta ancora un giorno. E non hai completato i test.”

“Lo so, ma il demone ha attaccato di nuovo. Deirdre mi ha chiamato ieri sera, era terrorizzata. Devo tornare.”

“Rimani almeno per cena. Puoi prendere il pullman delle dieci ed essere ad Ashwood Port domenica mattina presto.”

Regan scosse il capo e si passò una mano fra i capelli, fingendosi combattuto.

“Dimmi una cosa, Fiona, e ti prego di essere onesta. Sei in grado di aiutarmi con il demone?”

Fiona serrò le labbra e strinse i pugni sulle costole, spiegazzando la stoffa della camicetta viola.

“No. Non ho esperienza con loro, solo con gli spiriti maligni.”

“Che differenza c’è?”

“Gli spiriti maligni erano umani, un tempo, soggetti alle leggi di Madre Natura. Con un rituale di purificazione e uno di esilio possono essere rispediti oltre il Velo. I demoni, al contrario, non vengono da Madre Natura. Sono il seme dell’Oscurità, dimorano in un mondo parallelo privo di vita e luce. Sono anche il triplo più potenti degli spiriti, quindi occorre altrettanto potere per scacciarli. Io, da sola, non potrei fare niente. L’intera congrega forse avrebbe una chance, ma ci sono troppe cose che potrebbero andare storte e non posso mettere a rischio la vita di coloro che ho giurato di proteggere.”

Regan annuì solenne, affatto stupito da quella risposta. Evitò di farle notare che lui stesso, da quando aveva firmato il contratto col sangue, faceva parte del gruppo di persone che Fiona doveva proteggere. Era ovvio che la Prima non lo considerasse allo stesso livello delle altre streghe, perciò era inutile insistere. Contratto o meno, Regan non sarebbe mai stato un Morgan agli occhi di Fiona.

“Allora credo che non abbiamo nient’altro da dirci. Non completerò l’iniziazione, ho cose più importanti a cui pensare. Ora vado alla sinagoga per parlare col rabbino, poi salirò sul primo pullman per il Massachusetts.”

“Un rabbino!” sputò sprezzante Fiona, “Le persone normali non saprebbero distinguere un demone da un folletto.”

“Ha detto che avrebbe presentato il mio caso ai suoi superiori e mi avrebbe fatto sapere. Siccome hai appena ammesso che non puoi aiutarmi, questa è un’opportunità che non posso lasciarmi sfuggire. Ho apprezzato quello che avete fatto per me, davvero, ma dovete capire che ho un demone di cui occuparmi. Degli innocenti stanno morendo, la mia famiglia e i miei amici sono indifesi contro quell’essere. Non posso far finta di nulla. Devo aiutarli con ogni mezzo disponibile, non importa quale prezzo sarò chiamato a pagare. D’ora in avanti, se un altro bambino sparirà, sarà colpa mia, perché non sono intervenuto quando potevo.”

Si aggiustò il borsone sulla spalla e si girò per andarsene, quando Fiona lo fermò.

“Resta comunque per cena, così potrai salutare per bene Sheila e i ragazzi. So che hai stretto amicizia con Poppy e Cole.”

“Mi dispiace, non ho tempo.”

“Un tè, allora.” insisté in tono più urgente, “Lascia pure il borsone, verrai a riprenderlo dopo.”

Regan si morse la lingua per impedirsi si sbottare che non voleva rimettere piede in quella villa mai più. Invece, si stampò un sorriso educato sulla bocca e annuì.

“D’accordo, vada per il tè. Prenderò il pullman delle sei.”

Posò il borsone dentro il guardaroba dell’ingresso, indossò gli anfibi e salutò la strega con un cenno. Uscì rapidamente, ansioso di respirare aria fresca e frapporre quanta più distanza possibile tra sé e Fiona. La sua aura lo metteva a disagio, vuoi per l’ostilità che emanava a dispetto della maschera di cordialità, vuoi per il monito di Sheila, grazie al quale aveva la certezza che Fiona stesse tramando qualcosa.

Sapeva che ritornare dopo alla villa non era una buona idea. Anzi, era chiaro come il sole che fosse una trappola. Tuttavia, non poteva abbandonare i suoi effetti personali tra le grinfie della congrega. Non che ci fosse chissà cosa nel borsone, eccetto vestiti e siringhe vuote. Pensandoci, non avrebbe perso niente lasciandolo a loro.

Scrollò con veemenza il capo, conscio della triste, e terribile, verità. I Morgan erano streghe e stregoni, ergo non ci avrebbero messo molto a scagliargli contro una fattura di qualche tipo se avessero messo le mani su qualcosa che gli apparteneva. Non aveva nemmeno la garanzia che Fiona non ne avrebbe approfittato mentre lui era alla sinagoga. Si era già reso vulnerabile, ormai, non aveva vie d’uscita.

Giunto alla sinagoga, trovò la porta accostata. Entrò, chiamò il rabbino e si diresse verso la sala dove lo aveva incontrato il giorno prima. La casa sembrava deserta. C’era solo un cuore che batteva da qualche parte nelle vicinanze.

Joseph non lo fece attendere più di qualche minuto. Emerse dalla stessa porta laterale che conduceva alla biblioteca, sfoggiando un’espressione funerea. La kippah era ben calcata sulla testa, la camicia bianca piena di grinze; la giacca nera pareva essere stata indossata in fretta e furia. Regan si augurò che la chiacchierata con i rabbini più anziani avesse dato i suoi frutti, altrimenti sarebbe stato di nuovo punto e a capo.

“Ah, Regan. Eccoti qui.”

“Salve. Sono tornato come mi aveva chiesto. Ci sono novità?”

Joseph si incupì: “Temo di no. Mi dispiace.”

“Perché?” domandò, trattenendosi dall’imprecare.

“Innanzitutto, hai detto di venire da un’altra città, perciò il tuo caso non rientra nella nostra giurisdizione. Dovresti rivolgerti alla sinagoga locale. Seconda di poi, praticare un esorcismo per scacciare un Chabalim è estremamente pericoloso. Nel senso che si rischia la morte. Tra i rabbini di Athens, nessuno è abbastanza preparato per combattere una creatura tanto potente. Terzo, mancano le prove che si tratti veramente di uno Shedim.”

“Ha spiegato loro che ci sono in ballo vite innocenti?”

“Sì, ma devi capire che sono spaventati. Esistono sacerdoti esperti in grado di praticare un esorcismo, ma, da quanto ne so, non risiedono negli Stati Uniti al momento. Se vuoi, posso contattarli a nome tuo ed esporre loro il tuo caso. Ti ricordo che, anche se accettassero di ascoltarmi, non c’è alcuna garanzia che si assumano l’incarico.”

Regan si afflosciò con la schiena contro il muro, schiacciato dalla frustrazione. L’unica soluzione, a quel punto, era rimboccarsi le maniche e calarsi nell’abisso di persona.

Ironico come, per un misero attimo, si fosse illuso di ricevere aiuto. Era stato un ingenuo a credere che l’universo avrebbe avuto pietà di lui, fornendogli soccorso. Adesso sapeva, con inoppugnabile certezza, che si sarebbe ritrovato ad affrontare le tenebre da solo. Prima digeriva il boccone amaro del rifiuto, prima avrebbe racimolato il coraggio di agire.

“Il massimo che posso fare è fotocopiare i rituali dai libri. Però mi raccomando: non azzardarti a praticare l’esorcismo da solo, non compiere azioni impulsive e, soprattutto, non credere a ciò che vedi. Cerca sempre le prove, indaga a fondo e non distorcere i fatti affinché si accordino alle tue teorie. Devi essere sicuro al cento percento, altrimenti non finirà bene.”

“Gradirei avere quei rituali. Non posso promettere di non usarli, ma posso giurare di stare attento.”

Joseph esalò un sospiro e si massaggiò le palpebre: “Se deciderai di tentare l’esorcismo, almeno assicurati di avere un uomo di fede al tuo fianco. Prete o rabbino, non importa. Non farlo da solo, capito?”

“Sì.”

“Bene. Seguimi.”

Si recarono in biblioteca, dove Joseph si prodigò subito a recuperare i testi giusti per fotocopiarli. Mentre la macchina lavorava, riempiendo il silenzio con ronzii e fruscii, Regan si sedette e iniziò a tamburellare le dita sul tavolo.

“Rabbi Joseph.”

“Mh?”

“Ha trovato qualcosa su Aharman?”

“Ah, giusto. Ricordavo di aver incontrato quel nome da qualche parte e, dopo una lunga ricerca, ho scoperto che Aharman è uno dei modi in cui è chiamato colui che incarna il Male nel culto dello zoroastrismo. Nei testi più recenti è conosciuto come Ahriman. Il suo appellativo originale, invece, era Angra Mainyu. Secondo la mitologia persiana, Ahriman era il gemello cattivo di Ahura Mazda, o Ohrmuzd, il dio creatore e portatore di luce.”

“Mitologia persiana?”

“Sì.”

Regan rifletté sulle implicazioni della scoperta. Se lo strano sogno che aveva fatto era una visione, allora forse la risposta alle sue domande risiedeva nella mitologia persiana, non in quella ebraica. Ma se era l’ennesimo inganno ad opera del demone per depistarlo, era meglio restare fedele alla teoria dello Shedim.

“Lei è proprio sicuro che io non potrei officiare l’esorcismo?”

“Hai fede in Dio, ragazzo?”

“No.”

“Come mai? Dato che credi nei demoni, perché non credere anche in Dio?”

Regan lo trafisse con un’occhiata raggelante, tanto affilata che l’uomo si pietrificò sul posto.

“Se esiste, di certo quelli come me non godono del Suo favore.”

“Cosa intendi?”

Regan ghignò e, abbandonando la prudenza, gli mostrò le zanne. La rabbia che provava stava offuscando il suo giudizio, ne era consapevole, ma era stanco di nascondersi, di mantenere il controllo, di fingersi normale. Desiderava solo sguinzagliare il suo vero io ed espellere la bolla di negatività che gli corrodeva l’anima.

Joseph boccheggiò, arretrando di un paio di passi, fino ad aderire con la schiena a uno scaffale. Il pallore del suo incarnato risaltava ancora di più in contrasto con la barba scura. L’uomo era il ritratto dello sgomento. Dopo qualche minuto, tuttavia, si riscosse e osservò Regan come se lo vedesse per la prima volta.

“Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa celato oltre il velo della realtà quotidiana. La fede tiene la mia mente aperta, mi rende più incline a credere a ciò che gli altri reputano una mera fantasia o superstizione. Eppure, mai avrei immaginato…”

Lasciò la frase in sospeso e gli si accostò titubante, ogni passo lungo una piccola eternità. Quando gli fu di fronte, allungò una mano verso la guancia di Regan. Sussultò al contatto con la pelle fredda e vellutata. Nei suoi occhi ardeva una scintilla curiosa, rapita, quasi avesse ricevuto un’epifania.

“Come sei venuto al mondo?”

“Da grembo di donna, ovviamente. Una strega.”

“E tuo padre?”

“Non so chi sia.”

“Le zanne… sei un… un vampiro?” gli costò molto pronunciare quelle parole.

“Mia madre è stata uccisa da due di loro. Il veleno è penetrato in me attraverso il sangue e il cordone ombelicale. Sono sopravvissuto per miracolo.”

“Tu sei un miracolo.”

“Certo, come no.” replicò in tono neutro, per poi puntare lo sguardo sulla fotocopiatrice, “A che punto siamo?”

“Ti prego, non andartene. Ho così tante domande…”

“Magari un’altra volta.” Regan tagliò corto e si scansò dal tocco di Joseph, che era passato ad accarezzargli le orecchie e la nuca, dimentico delle buone maniere.

Joseph ritirò lentamente la mano e si voltò come in trance per radunare i fogli e spillarli. Appena consegnò a Regan tutto l’occorrente, estrasse una penna dal taschino della camicia e vergò velocemente un numero di telefono.

“Restiamo in contatto. Risponderò a qualsiasi domanda sul rituale e ti guiderò al meglio delle mie possibilità. Se avrai successo, in cambio ti chiedo il permesso di venire a farti visita nella tua città per… approfondire la nostra conoscenza.”

Regan lo squadrò dall’alto in basso con sussiego, la bocca storta in una smorfia scettica.

“Che cosa desidera davvero, Rabbi Joseph?”

Joseph si umettò le labbra e trasse un ampio respiro: “Questa vita mi è sempre stata stretta. Ho tentato di obbedire agli insegnamenti sacri, vivendo giorno dopo giorno nella luce di Dio, ma non mi basta.”

“E…?”

“Se… se me ne darai l’opportunità, ti dimostrerò che sono degno.” balbettò febbrile e gli afferrò le spalle in una morsa d’acciaio, “Posso offrirti cose… ti insegnerò tutto ciò che so. Sarò il tuo servo finché lo vorrai.”

Regan si scostò bruscamente, ignorando il suo sguardo spiritato, e gli schiaffeggiò le mani con rabbia.

“Vuoi essere come me? È questo che stai dicendo?” lo apostrofò invelenito, accantonando a sua volta l’educazione, “Preferiresti camminare nelle tenebre per sempre, senza alcuna speranza di redenzione, piuttosto che vivere una vita serena e piena di amore?”

“Sì.”

Lo sguardo del ragazzo si indurì, diventando simile a un ghiacciaio perenne.

“E così sia. Quid pro quo. Mantieni la tua parte dell’accordo e io manterrò la mia. Ammesso che io sopravviva al demone.”

Il sorriso che curvò le labbra di Joseph ricordò a Regan quelli dei fanatici zelanti. Sbuffò internamente. Che quello sciocco scambiasse pure la luce con le tenebre, non era affar suo. Se Joseph era convinto, non lo avrebbe dissuaso. Una persona con una salda morale avrebbe provato a fargli cambiare idea, ma Regan non vantava sani principi quando trattava con gente che per lui contava meno di zero.

In tutta onestà, non sapeva se il suo morso fosse in grado di trasformare un essere umano. Beh, poco male. In caso di fallimento, avrebbe comunque avuto una sacca di sangue a sua completa disposizione. L’unico obiettivo che gli premeva ora era sconfiggere il demone.

Strinse al petto il pesantissimo plico di fotocopie e se ne andò senza salutare. Tornò alla villa poco dopo pranzo. Di nuovo, la trovò vuota, eccetto per Sheila e Fiona, entrambe rintanate nello studio.

Aprì il guardaroba dell’ingresso per riporre le fotocopie nel borsone. Non sembrava che qualcuno lo avesse toccato, non solo perché i vestiti erano appallottolati nel medesimo modo, ma anche perché su di essi c’era soltanto il suo odore. Poi si recò in cucina. Indossava ancora il giubbotto, non volendo separarsene per nulla mondo dato che all’interno conservava il libro incantato e i diari di Shannon.

Stava rovistando nel frigo, quando Sheila apparve sulla soglia con un sorriso tirato.

“Ciao.” disse Regan, scrutandola da capo a piedi con una lunga occhiata per valutare le sue condizioni.

Sheila era rigida, il viso contratto in un’espressione severa e guardinga. Regan si mise subito in stato di allerta. Chiuse il frigo e la fronteggiò.

“Fiona vorrebbe parlarti nel suo studio.”

Ci siamo, pensò Regan.

“A proposito di cosa?”

Sheila si limitò a fargli cenno di andare, in un palese indizio che le cose stavano per mettersi male. Regan decise di agire a sua volta, prima che fosse troppo tardi.

In un lampo la raggiunse, le avvolse il collo in una mano e, serrando la presa, la fissò dritta negli occhi, come aveva fatto la sera precedente. Ignorando il suo squittio sorpreso, si concentrò e richiamò a sé l’energia rovente che aveva percepito nel sangue e nelle ossa quando l’aveva soggiogata. Quella rispose prontamente e lo avviluppò in una bolla calda, che lo rinvigorì in pochi istanti.

“Va’ in biblioteca a prendere un quaderno vuoto, poi scendi nel seminterrato ed entra nella biblioteca segreta. Memorizza i libri più utili e i grimori più potenti e riversa il contenuto nel quaderno. Quando le pagine finiscono, pronuncia l’incantesimo per renderle infinite e continua a riempirle. Non farti scoprire. Quando hai finito, metti il quaderno nel mio borsone, nel guardaroba dell’ingresso. Se qualcuno ti chiede qualcosa, rispondi che sono i miei appunti di erbologia.”

Sheila rabbrividì, lo sguardo vacuo e le labbra socchiuse. Regan la osservò annuire e ritirarsi in direzione della biblioteca. Aspettò. Non appena la vide camminare verso il seminterrato con un quaderno sottobraccio, si preparò ad affrontare Fiona.

Di fronte alla porta dello studio, squadrò le spalle. Dopo un momento di esitazione, sollevò una mano e bussò. Fiona lo invitò a entrare e gli disse di accomodarsi su una poltrona. Il suo viso era indecifrabile, la sua postura statuaria. Soltanto i suoi occhi neri rilucevano di vita.

“Sheila ha detto che desideri parlarmi.”

Invece di rispondere, la strega si alzò dal suo trono e andò alla teca dove conservava le stoviglie per il tè, deliziose tazze di porcellana e cucchiaini d’argento. Versò acqua fredda in due tazze e le scaldò con un incantesimo. Sollevò il coperchio della scatola delle bustine con i filtri e lo inclinò verso di lui per farglielo vedere.

“Rosa selvatica o limone?” gli domandò.

“Ehm… limone?”

“Latte? Zucchero o miele?”

“Un cucchiaio di miele e un goccio di latte, grazie.”

Regan avvertiva la tensione nella stanza, tanto forte da risultare quasi palpabile. Si impose di essere prudente e analizzare ogni singolo gesto di Fiona, così come la disposizione degli oggetti e della mobilia. La via per la porta era libera, ma quando i suoi occhi si posarono sugli stipiti scorse delle rune intagliate nel legno. Rune che prima non c’erano, ne era certo. Quello, più di tutto il resto, confermò che qualcosa bolliva in pentola.

Una volta che entrambi ebbero una tazza di tè fumante davanti al naso, Regan si schiarì la gola.

“Volevi parlarmi?”

“Com’è andata la visita alla sinagoga?”

“Non mi aiuterà con l’esorcismo, ma il rabbino mi ha fornito delle copie di alcuni rituali. Non so ancora cosa ne farò, ma è meglio di niente. Almeno non tornerò a casa a mani vuote.”

Sorseggiò il tè. Il sapore aspro del limone era attenuato dal miele e dal latte. Il calore sprigionato dalla bevanda lo riscaldò dall’interno, a partire dallo stomaco, facendogli accapponare la pelle.

“Oh, c’è una cosa che vorrei chiederti, Fiona. Per caso, sai come si fa a distinguere i sogni normali da quelli premonitori?”

“Perché lo vuoi sapere?”

“Faccio degli incubi molto vividi.”

“Mmm… non esiste un metodo comprovato. Più che altro, è una questione di istinto. Coloro che possiedono la chiaroveggenza, dicono di sentire quando hanno una visione. Grazie all’esperienza, diventa sempre più facile distinguere fra sogni e visioni. Ma a chi, come te, è alle prime armi dico ‘chi vivrà, vedrà’.”

Regan esalò un sospiro stanco. Non aveva idea di quante volte avesse ripetuto quel verso durante i giorni trascorsi con la congrega, ma gli sembravano tante. Era stufo marcio dell’innata capacità di Fiona di imitare alla perfezione una Sibilla. Cosa doveva fare per ottenere risposte sensate, o quantomeno utili? Pregarla in ginocchio? Offrirle vergini in sacrificio?

Sbadigliò. Confuso, scrollò il capo e si massaggiò le palpebre per scacciare il torpore.

“Sono esausto.” farfugliò, posando la tazza mezza vuota sulla scrivania.

Si accasciò sulla poltrona, i muscoli ridotti a gelatina e i nervi pervasi da un formicolio fastidioso. Le tempie pulsavano, pallini colorati gli punteggiavano la vista. I contorni degli oggetti vennero avvolti dalla nebbia e il mondo si capovolse e vorticò come se fosse a bordo di una giostra.

“Che cosa…” biascicò, faticando persino ad articolare le parole, “Fi-Fiona…?”

La udì bisbigliare qualcosa. Ci mise un po’ a registrare la formula magica, ma, quando accadde, gelò sul posto.

La carne è pietra, il sangue è ghiaccio, la voce è muta.” disse in una lingua che suonava parecchio simile a quella che aveva usato Sheila per aprire la biblioteca segreta.

Nella penombra della stanza, Regan scorse il baluginare di una lama ricoperta di rune. La mano stretta sull’elsa del pugnale era pallida e magra, le unghie laccate di rosso. Gli occhi offuscati colsero una saetta d’argento piegarsi in una rapidissima parabola, diretta verso la sua gola. Non avrebbe potuto evitarla, il suo corpo era pesante come un macigno.

Domande come “Perché Fiona brandisce un pugnale?” o “Perché non riesco a muovermi?” attraversarono la sua mente simili a effimere comete, prima di cedere lo spazio a pensieri più pressanti, tipo come sopravvivere a una gola tagliata. L’ultima volta, Derek lo aveva salvato facendogli bere il suo sangue. Ma adesso Derek non c’era e, a parte Fiona, non aveva riserve di sangue a portata di mano.

All’improvviso, il formicolio si fece più acuto e pungente, quasi che il suo sangue si fosse trasformato in acido e stesse sfrigolando nelle vene. Un sapore aglioso gli esplose sul palato, sovrastando quello del limone. I respiri si trasformarono in agonizzanti rantoli muti, che non videro mai la luce a causa dell’incantesimo.

La lama del pugnale adesso era premuta sul suo collo, appena sotto il pomo d’Adamo. Al contatto, la sua pelle si lacerò e bruciò. Fiona gli girò intorno e si fermò dietro di lui.

“Lo senti, non è vero? L'arsenico che entra in circolo e avvelena ogni parte di te. Inodore, letale per un normale essere umano. Ma non per il nostro Regan. Tu non sei umano, dico bene?” sibilò al suo orecchio, “Per un terzo vampiro. Per un terzo stregone. Per un terzo demone.”

Regan sbarrò le palpebre, gli occhi puntati sul soffitto, su cui era dipinto un intricato sigillo. Perché prima non lo aveva notato? I simboli emettevano un bagliore cangiante, segno che stavano adempiendo al loro scopo, così come l'arsenico. Perché aveva bevuto il tè? Prima regola di sopravvivenza: mai accettare cibi o bevande da qualcuno che sai che vuole ucciderti. Quanto era stato idiota!

Fiona entrò nel suo campo visivo e lo scrutò dall’alto con una smorfia sprezzante.

“Hai ereditato più dei capelli da Stefan Black.” sputò quel nome come se avesse un gusto ripugnante, “L’oscurità che dorme in te inghiottirà la terra e tutte le sue creature se non la rispedirò nell’abisso da cui è nata. Peccato che quei vampiri non siano riusciti a terminare il lavoro. Quando li ho scelti, credevo avessero il giusto potenziale, ma…”

Passò la lama sull’altro lato del collo di Regan e ghignò quando lo vide contorcersi in spasmi. O, quantomeno, provare a contorcersi, dato che era costretto all’immobilità dal suo incantesimo.

“Ti rivelerò un segreto.” sussurrò, poggiando la guancia sulla spalla di Regan, e lo scrutò di sbieco, “La cara Shannon cercò di ucciderti quando alla fine si accorse che il bambino che portava in grembo era un mostro. Provò e riprovò, arrivando a usare persino un coltello per aprirsi il ventre e tirarti fuori. Ahimè, tu non volevi morire. La tua energia guariva ogni ferita che lei si procurava, mantenendola sana e forte. Nemmeno il digiuno forzato o l’insonnia funzionavano. Nessun incantesimo. È per questo che ho mandato i vampiri. È colpa tua. Il tuo attaccamento alla vita è risultato nella morte di tua madre.”

Gli occhi di Regan non erano più appannati per via del veleno, ma per le lacrime che si stavano velocemente ammassando dietro le ciglia. Il dolore che gli era esploso nel petto gli aveva mozzato il fiato. E la rabbia, anzi, la furia che gli ruggiva dentro non aveva eguali.

Percepì una vampata di energia fresca montare nel suo ventre, serpeggiare nello stomaco e diramarsi fino alla punta delle dita. Capì che il suo corpo stava combattendo il veleno e l’incantesimo, con risultati promettenti. Così si impegnò a nasconderlo a Fiona, imponendosi di rimanere fermo, anche se avrebbe tanto voluto spaccarle il cranio sulla prima superficie disponibile.

“In fondo, si è quel che si è, Regan. Tua madre era una strega, tuo padre un demone… e tu non sei altro che un abominio.”

Abominio. Regan stava iniziando a odiare in maniera viscerale quella parola. Bruciava come un marchio a fuoco sull’anima, lo soffocava come un cappio di filo spinato attorcigliato attorno alla gola, lo appesantiva come una palla di piombo legata alla caviglia. Non riusciva a liberarsene, non importava dove andasse. Simile a una lettera scarlatta incisa sulla pelle, una “A” che non aveva nulla a che vedere con l’adulterio, sembrava l’unica cosa che lo indentificasse agli occhi degli altri esseri soprannaturali, fossero essi streghe, licantropi o cacciatori.

Era stufo marcio.

Senza alcun preavviso, le sue mani presero fuoco. Le fiamme lambirono la poltrona e si innalzarono feroci in un vortice rovente, distruggendo il sigillo sul soffitto.

Fiona strillò spaventata e si lanciò verso la porta, una mano premuta davanti alla bocca per non inalare il fumo e l’altra ancora stretta attorno all’elsa del pugnale.

Con la forza della mente, Regan bloccò la porta e fece scattare la serratura. Poi fletté le dita per incoraggiare la circolazione, scrocchiò il collo e, lentamente, si alzò in piedi, stagliandosi al centro di quell’inferno di fuoco come il Diavolo in persona.

E un diavolo fu proprio ciò che vide Fiona. Avvolto dalle fiamme, la sua figura magra e pallida pareva uscita da un incubo. Occhiaie violacee occupavano tutta l’orbita, e viola erano pure le labbra sottili. Gli occhi erano due tizzoni ardenti in due laghi neri, privi di emozione. La sua ombra, proiettata sui quattro muri dello studio in uno strano gioco di luci, si ingrandì poco a poco e torreggiò su di lei, facendola sentire in trappola. Dalle dita emersero artigli e sulla testa dell’ombra spuntarono sette spine ricurve che la incorniciavano come una sorta di corona.

Fiona rinserrò la presa sul pugnale. Pronunciò un incantesimo e lo scagliò contro Regan. Le rune rifulsero, cariche di energia. Tuttavia, il pugnale non arrivò mai a colpire il bersaglio, perché una barriera di fuoco si erse davanti a Regan e lo disintegrò.

La distrazione valse comunque allo scopo. Fiona pronunciò un contro-incantesimo per aprire la porta e barcollò nel corridoio, già invaso dal fumo. Corse verso il salotto. Le altre streghe erano lì come programmato, pronte all’azione.

“Attivate i sigilli, presto!” ordinò Fiona.

In quel momento, Regan si affacciò dallo studio. Prima fecero capolino gli occhi, poi una mano, che artigliò lo stipite, e infine il resto del corpo. Ovunque toccasse, il fuoco divampava, spietato e implacabile.

Le streghe serrarono i ranghi. Scostarono i divani e i tavoli e cominciarono a intonare incantesimi. Eressero una barriera che li proteggesse dagli attacchi di Regan e, al contempo, permettesse loro di attaccarlo impunemente. La loro forza combinata risultò in una barriera forte e spessa, che li avvolse sotto una cupola trasparente. Fiona era davanti al gruppo, le braccia protese, pronta a scagliare incantesimi offensivi non appena Regan fosse apparso.

Il suo arrivo venne annunciato dal fuoco. Lingue arroventate lambirono muri, mobilia, tende, e salirono fino al soffitto e ancora più su, verso i piani superiori. Poi Regan svoltò l’angolo, camminando come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo. Il pavimento si incendiò sotto i suoi anfibi, e con esso i tappeti.

“Prestatemi la vostra energia!” gridò Fiona.

Le streghe si strinsero intorno a lei e posarono le mani sulle sue spalle.

Nascosta dietro la porta della sala da pranzo, Poppy osservava con occhi sgranati l’inferno che circondava le streghe, le membra pietrificate dalla paura. Tra di loro c’erano anche i suoi genitori.

Non avrebbe dovuto essere lì. Le avevano ordinato di restare a casa. Ma appena aveva capito cosa avevano intenzione di fare a Regan, dopo aver origliato una conversazione privata tra sua madre e suo padre, non aveva potuto nascondere la testa nella sabbia.

Il piano era semplice: convincerli della bontà di Regan e pregarli di lasciarlo tornare a casa sano e salvo. Peccato che fosse andato in fumo, letteralmente, non appena era arrivata. Il fuoco, infatti, le aveva sbarrato il cammino un minuto dopo essersi intrufolata nella villa dalla finestra.

Il pensiero che Cole l’avrebbe raggiunta a breve la riscosse. Estrasse il cellulare e gli scrisse un messaggio conciso, dicendogli di non venire. Conoscendolo, l’amico non l’avrebbe ascoltata, ma valeva la pena fare un tentativo. Quando puntò di nuovo lo sguardo sulle streghe, implorò la Dea affinché avesse pietà di loro.

Poco dietro Fiona, Andrew contrasse i muscoli e digrignò i denti, cercando di mantenere i nervi saldi per non infrangere la barriera protettiva. I suoi occhi saettarono per la stanza in cerca della madre. Non trovandola, un brutto presentimento serpeggiò in lui.

“Fiona, dov’è mia madre?”

“Non è qui?”

“Non te lo avrei chiesto, se lo fosse.”

All’insaputa di tutti, Sheila si era rintanata nel guardaroba accanto all’ingresso. Non sapeva bene perché fosse lì. Era come se una forza invisibile la bloccasse, impedendole di uscire. Ai suoi piedi c’era il borsone di Regan. Inalò il fumo e tossì, mentre gli occhi si riempivano di lacrime.

Il fuoco si propagò per le stanze con una rapidità allarmante e il fumo dilagò dappertutto, formando una cappa irrespirabile nel salotto. I primi incantesimi vennero lanciati con inaudita precisione, ma si schiantarono contro un’impenetrabile parete di fiamme e si dispersero in scintille colorate.

Allora, Fiona decise di combattere il fuoco con il fuoco. Attinse all’energia delle altre streghe e agguantò l’elemento per piegarlo al suo volere. Creò un arco e una freccia e li lasciò sospesi dinanzi a sé. Quindi mirò e scoccò.

Regan afferrò la freccia infuocata con la mano e la spezzò nel mezzo, guardandola dissolversi nuovamente in scintille con espressione annoiata.

“Fiona.” la chiamò con voce cavernosa, inumana.

“Datemi altra energia!”

“La barriera si romperà!” l’avvertì Andrew, ormai allo stremo.

“Maledizione.” imprecò e si guardò intorno con occhi animati da una luce febbrile, “D’accordo, non ci resta che scappare. Non oserà seguirci in strada.”

A quelle parole, Regan ghignò. In risposta a un tacito ordine mentale, tutte le serrature della villa scattarono, tagliando ogni via d’uscita. I sigilli magici disegnati su pareti e soffitti si sgretolarono, i lampadari caddero sul pavimento con boati assordanti. La terra tremò.

“Fiona, Fiona, Fiona.” cantilenò Regan, la bocca piegata in un finto broncio, “Non hai ancora capito che non uscirai viva di qui?”

“Taci, mostro! Voi altri, concentratevi sulla barriera!” comandò, cercando di sovrastare il rombo dell’incendio combinato a quello del terremoto.

La porta del guardaroba si aprì cigolando e Sheila, finalmente, barcollò fuori tossendo.

“Sheila, corri! Presto!” la spronò Fiona, invitandola con cenni urgenti a raggiungerla, “Non sta funzionando!”

Regan fissò Sheila con iridi di brace, prive di qualsivoglia parvenza di amore: “Oh, Sheila. Mia cara e dolce nonna.”

“Mi dispiace…” singhiozzò la donna, “Ho tentato di avvertirti, ma…”

Al che, i lineamenti di Regan si ammorbidirono: “Lo so. Per questo ti risparmierò. Va’ in cucina e lascia gli altri a me.”

“Cosa…?”

“Va’. Non temere, il fuoco non ti farà del male.”

“Ti prego, risparmia anche Andrew! Ho già perso una figlia!” supplicò piangendo.

Regan diresse lo sguardo sullo zio, valutandolo con cipiglio critico.

“Non abbandonerò mai la mia congrega!” replicò sprezzante Andrew, quasi la sola idea di battere in ritirata lo disgustasse.

“Perfetto, abbiamo risolto. Forza, Sheila. Non vorrai farmi arrabbiare...” proferì Regan con un sorriso serafico.

Sheila indietreggiò, il cuore già in lutto. I suoi singhiozzi accompagnarono la corsa verso la cucina e, presto, furono inghiottiti dal crepitio delle fiamme.

“E ora veniamo a te, Poppy. Credevi che non ti avessi notata?” disse Regan, voltandosi verso la sala da pranzo.

Poppy si affacciò tremando, pallida come uno spettro. Deglutì e, sforzandosi di non svenire dalla paura, fronteggiò Regan.

“Poppy! Che ci fai qui?!” urlò Savannah, atterrita quanto lei, “Non ti azzardare a toccarla, abominio, o te la farò pagare!”

“Mi dispiace, Poppy.” sospirò Regan, “Non avrei mai voluto che mi vedessi in questo stato. Anche se non so di preciso cosa mi stia succedendo, ad essere onesto. Bah, dettagli.”

“Ti prego, non far loro del male.” lo implorò con voce rotta la ragazza, “So che non sei un mostro. Dimostra loro che si sbagliano. Sii migliore e lasciali andare.”

Regan scosse debolmente il capo: “È troppo tardi. Anche se lo facessi, continuerebbero a darmi la caccia. So come pensano le persone come loro, come agiscono. Nessuna azione, nessuna parola mi redimerà mai ai loro occhi. Non si ragiona con i fanatici.”

“Non vuol dire che devi per forza ucciderli. Potresti, ehm, potresti cancellare loro la memoria! Ecco, sì! Io non conosco l’incantesimo, ma di sicuro sarà scritto in uno dei grimori di Fiona. Rimuoverai dai loro ricordi quelli relativi a te e sarà fatta!”

“Sei così ingenua.” Regan le sorrise intenerito, “Non finirebbe con loro, Poppy. Se ho inquadrato bene Fiona, avrà certamente già avvertito il Consiglio dei Sei, allertato tutti i suoi alleati e ideato dei piani di riserva in caso questo fallisse. Cosa che accadrà. Non ho scampo, prima o poi verranno a prendermi. Ma se sfoltisco sin da ora i ranghi dei miei nemici, forse avrò una chance di salvarmi, alla fine di tutto.”

Poppy cercò gli occhi della Prima. Quando in essi lesse la conferma alle parole di Regan, smise di trattenersi e scoppiò a piangere.

“La-lascia andare almeno i m-miei genitori…”

“Non posso, lo sai. Ora raggiungi Sheila, io devo portare a termine l’opera.”

“Cosa?”

“Tu non mi hai fatto niente.” spiegò Regan, “Anzi, hai provato ad essermi amica, mi hai ascoltato e mi hai teso una mano. Simili atti di sincera gentilezza hanno un valore particolare per me. La tua ricompensa sarà la vita. Promettimi soltanto che non verrai mai a cercarmi con cattive intenzioni. Se lo farai, non avrò pietà. Non sono un fan delle terze possibilità.”

“Poppy, va’ da Sheila.” le ordinò Savannah, “Non morirai oggi, tesoro.”

Poppy scosse il capo, lo sguardo deciso nonostante i brividi di paura che l’assediavano.

“Ascolta tua madre, Poppy. Va’.” scandì lo stregone accanto a Savannah, mentre accarezzava con sguardo triste la figura della figlia un’ultima volta.

La gentile esortazione di suo padre ebbe più effetto dell’ordine prepotente di sua madre. Poppy scoppiò in singhiozzi. Realizzando di non avere alternative, corse verso la cucina e ci si chiuse dentro.

Regan sospirò, ruotò le spalle e scrocchiò il collo. Non appena batté le mani, l’impatto palmo contro palmo sprigionò una nuvola di scintille incandescenti. Le streghe rifocalizzarono l’attenzione su di lui.

“Bene, dove eravamo?”

Le streghe non persero tempo: si riunirono in un fronte compatto e ricominciarono a formulare incantesimi. Mulinelli di vento sferzarono l’aria e diradarono il fuoco; sfere d’acqua si abbatterono sulla barriera che avvolgeva Regan; il fumo si addensò fino a formare armi impalpabili, ma non meno letali.

Regan parò ogni assalto con una smorfia seccata. Si chiese quanto ancora avrebbe dovuto aspettare prima che le streghe esaurissero l’energia. A giudicare dal pallore sui volti di più della metà, non molto.

Dopo qualche minuto, stufo dell’inettitudine di quel branco di incapaci, li scaraventò contro il muro con la sola forza del pensiero e li immobilizzò, sospesi a un metro da terra.

Si accostò a Fiona, alitandole in faccia per godere da vicino del suo disgusto e annusare meglio il dolce odore della sua paura.

“Hai commesso due errori fatali, strega: primo, sei stata impaziente e, secondo, mi hai sottovalutato.”

Fiona assottigliò le palpebre e spinse il petto in fuori, in un ultimo, patetico tentativo di apparire padrona della situazione. Se solo non fosse stata incatenata al muro da corde invisibili, senza alcuna speranza di salvezza, Regan sarebbe rimasto colpito.

“Non sono tanto stupida da non capire di aver perso. È chiaro che non sarò io a infliggerti il colpo di grazia, ed è un peccato. Ma un giorno, che sia domani, tra dieci anni o venti o più, incontrerai la fine che meriti, Regan. Il tuo è un destino da cui non puoi fuggire. Se tu amassi davvero questo mondo, ti strapperesti il cuore dal petto da solo; perché morire è l’unico modo che hai per proteggere chi dici di amare. Adesso non mi credi, e va bene. Ma ricorda le mie parole quando i tuoi cari ti tradiranno, quando l’oscurità che hai dentro estinguerà le vite di quelli che ti sono rimasti fedeli, quando i loro corpi cadranno come mosche e il loro sangue inzupperà la terra su cui cammini.” sibilò, per poi sputargli in faccia.

Regan si asciugò la guancia senza tradire alcuna emozione. Dopodiché, sollevò una mano, premette fra di loro medio e pollice e schioccò le dita. Le streghe vennero fagocitate da vortici di fiamme, che mangiarono i loro vestiti e le loro carni con estrema ferocia, riducendole ad arti bruciacchiati e rantoli di dolore.

Fu in quell’istante che Regan realizzò che il suo sogno si era appena svolto di fronte ai suoi occhi, fotogramma per fotogramma, con una precisione tanto maniacale da lasciarlo scombussolato.

Si guardò intorno, realizzando di non avere tempo per rimuginare. La casa stava crollando e, in lontananza, poteva udire già le sirene dei vigili del fuoco. Gli rimanevano pochissimi minuti per filarsela.

Corse al guardaroba e, dopo essersi assicurato che Sheila ci avesse messo dentro il quaderno, si caricò in spalla il borsone. Quindi andò in biblioteca per arraffare quanti più manuali riusciva a trasportare, poiché perdere una simile fonte di conoscenza era un peccato. Ignorò i libri di facile reperibilità, favorendo piuttosto quelli rari e dall’aspetto antico. Fece una tappa nello studio di Fiona per scoprire se ci fosse ancora qualcosa di salvabile, ma era stato tutto ridotto in cenere.

Acuì l’udito e appurò che i vigili del fuoco erano giusto a un isolato di distanza. Rapido, si diresse in cucina per dare il via libera a Sheila e Poppy. Le vide dalla parte opposta della stanza, sedute con la schiena al muro, strette l’una all’altra. Piangevano e singhiozzavano, i corpi scossi da potenti singulti e attacchi di tosse.

“In piedi. I soccorsi stanno arrivando.” le esortò.

Poppy aiutò Sheila ad alzarsi, prendendo su di sé la maggior parte del peso della donna.

Non compirono che tre passi prima che il forno esplodesse. L’onda d’urto le scaraventò con violenza contro la parete di destra e il fuoco bruciò le loro carni. Morirono sul colpo, lasciando un allibito Regan a boccheggiare con aria smarrita in mezzo alla cucina.

Per lunghi momenti rimase a fissare i corpi delle due streghe, ridotti ad ammassi carbonizzati. I bulbi oculari si erano sciolti. Le orbite erano due piccole voragini buie e fumanti. Brandelli di stoffa erano ancora incollati qua e là sulla pelle annerita. Lo scalpo era esposto, eccetto per qualche sparuto ciuffo di capelli sopravvissuto per miracolo. Puzza di carne bruciata aleggiava per tutta la stanza.

Lo shock lo costrinse all’immobilità durante gli agonizzanti secondi che l’immagine impiegò per scavare un nido nella sua memoria.

Le urla dei vigili del fuoco si intrufolarono nel ronzio che gli aveva preso in ostaggio le orecchie. Scrollò il capo, distolse lo sguardo e si aggiustò il borsone sulla spalla con mani tremanti. Si avvicinò alla finestra per guardare fuori. Una volta confermato che non ci fosse nessuno, scavalcò il davanzale e uscì in giardino.

I vigili erano assiepati nel cortile che aggettava sulla strada, perciò l’unica soluzione era fare il giro largo, strisciando raso terra come un soldato in trincea. Si calò il cappuccio della felpa nera sulla testa, si sdraiò a pancia in giù sull’erba e, pian piano, si fece strada verso la casa sulla sinistra, distante appena un centinaio di metri.

Da lontano udì la voce disperata di Cole chiamare il nome di Poppy e una fitta di rimorso gli mozzò il fiato. Cacciò quel sentimento in fondo alla coscienza e continuò ad avanzare.

Il suo cuore, adesso, era calmo e neanche una goccia di sudore gli imperlava la fronte. Non provava niente. La morte di Sheila e Poppy era stato un fuori programma, eppure non si sentiva scosso. Sapeva di essere ancora sotto shock, che il vero incubo sarebbe iniziato nel momento in cui avesse deciso di affrontare la realtà.

Non ora, si ripeté.

Aggirò la casa dei vicini dei Morgan, scoprendoli impegnati a fissare con orrore dalla veranda l’incendio alla villa. Poi attraversò la strada di corsa e sgattaiolò in vicoli secondari, attento a non attirare gli sguardi dei passanti. I suoi vestiti puzzavano di fumo, ma, con un po’ di fortuna, nessuno lo avrebbe collegato all’incendio.

Le sirene della polizia risuonarono per tutta la città, disturbando la quiete di Athens. La gente si affacciò alle finestre per osservare il cielo tinto di arancio. Alcuni uscirono in strada, le mani premute sulla bocca e gli occhi sgranati.

Regan accelerò il passo. In poco tempo raggiunse la stazione. Il pullman che doveva prendere stava già imbarcando i passeggeri. Si mise in fila, mostrò il biglietto e si sedette in uno dei posti in fondo. Fulminò con lo sguardo un uomo che tentò di appropriarsi del sedile accanto a lui, poi indossò le cuffie e si spruzzò il deodorante sui vestiti con quanta più discrezione possibile. Infine, scrisse a Deirdre che stava partendo con un po’ di anticipo.

Accese il lettore mp3 e chiuse gli occhi, deciso a non pensare. Si sarebbe crogiolato nel senso di colpa quando avesse frapposto quante più miglia possibili tra sé e Athens. Ma non ora.

 
*

La cantina di casa Sullivan era spaziosa, in grado di contenere almeno una cinquantina di persone. Si estendeva ben oltre il perimetro della casa vera e propria, superando i confini di proprietà delle abitazioni adiacenti. La sua esistenza era nota esclusivamente a un ristretto gruppo di persone, le stesse che adesso si trovavano lì, in attesa che la riunione cominciasse.

Derek era appoggiato al muro con una spalla, le braccia conserte e l’aria forzatamente annoiata. I suoi occhi, però, non si perdevano alcun movimento, le sue orecchie nessuna parola. Suo padre era in piedi dietro un tavolo, sul quale erano sparse mappe frammiste a fascicoli. Una lampada lo illuminava dall’alto, disegnando la forma della sua testa e delle spalle sulle carte.

Derek sapeva che i fascicoli appartenevano a Regan e ai Sinclair, mentre le mappe ricalcavano i quartieri in cui abitavano. L’unico fascicolo ancora chiuso, abbandonato vicino al bordo sinistro del tavolo, era quello relativo al demone.

Gli occhi del giovane cacciatore saettarono su Gregory e Kevin, seduti su delle sedie di plastica pieghevoli dall’altro lato della stanza. Derek avrebbe voluto raggiungerli, ma non poteva. Presto si sarebbe riconnesso a loro, avrebbe spiegato il motivo delle proprie azioni e ripreso il suo posto nella triade, ma non era ancora il momento. Subire il loro rifiuto, ricevere il loro disprezzo non era stato facile. Anzi, lo stava uccidendo. Se la loro ignoranza non fosse stata necessaria per il suo piano, avrebbe svelato le sue carte tempo fa.

Quando gli ultimi due cacciatori del clan Chou entrarono in cantina e si richiusero la porta alle spalle, Augustus si schiarì la gola. Nella stanza calò il silenzio e tutti gli sguardi si appuntarono su di lui.

“Ora che ci siamo tutti, possiamo iniziare. Fatima, rapporto.”

Fatima Chou, la madre di Kevin, squadrò le spalle e si fece avanti. Un movimento brusco del capo scostò alcune ciocche dal suo viso diafano e i capelli ricaddero morbidi sulla schiena in una cascata color pece. I suoi occhi, simili a opali duri e freddi, dardeggiarono fra i presenti. Quando spinse il petto in fuori, la maglietta nera si stirò sui seni piccoli, evidenziando la pancia piatta e i fianchi stretti. Un piccolo passo in avanti fece sì che il ticchettio dei tacchi degli stivali riecheggiasse per la cantina.

Il suo aspetto delicato e minuto aveva spinto molti a sottovalutarla, a credere di potere avere la meglio su di lei. Ma Derek, come la maggior parte dei cacciatori lì radunati, sapeva che sottovalutare Fatima era un errore che avrebbe potuto costare la vita persino al più coriaceo dei veterani. Fatima Chou era una cacciatrice coi controfiocchi, letale, tagliente come la lama della spada che spesso la vedevi lucidare e affilare con la stessa cura che si riserverebbe a un figlio. Era una forza della natura imprigionata nel corpo di una donna.

“Regan McLaughlin si trova ad Athens, come sappiamo. Al suo arrivo, è entrato in contatto con la congrega Morgan per chiedere aiuto contro il demone. Presumo sia venuto a sapere di loro da Deirdre, ma resta ignoto il come sia riuscito a convincerle ad aiutarlo. Inoltre, vi porto notizie allarmanti: le mie spie sono certe che le streghe lo abbiano iniziato alla magia. Significa che Regan ha sangue magico nelle vene. Se lo abbia ereditato dal padre o dalla madre, non lo so, ma di certo da uno dei due.”

Un brusio concitato si diffuse per la stanza. Derek avvertì il sangue gelarsi nelle vene. Gregory emise un basso ringhio e chiuse le mani a pugno sulle ginocchia. Kevin rimase impassibile, come la madre.

Augustus sedò i mormorii con un gesto secco della mano e invitò Fatima a continuare.

“A questo punto, è chiaro che Regan non è tanto un ibrido, quanto uno stregone vampirizzato. L’aver conservato la parte umana lo rende più ricettivo alla magia, perciò più che capace di imparare a maneggiarla. Stando così le cose, avanzo ufficialmente la proposta di alzare di almeno due tacche il suo profilo, portandolo da un bersaglio di categoria gialla a uno di categoria rossa.”

“Rossa? Non ti sembra di esagerare?” domandò Isaiah Ferguson, uno dei cugini di Gregory.

Il suo atteggiamento strafottente irritò i Chou, che gli scoccarono occhiate torve. Fatima, però, mantenne un aplomb invidiabile. Squadrò con cipiglio severo Isaiah, prendendo nota dello strato di barba incolta sul viso e dell’appena visibile gonfiore sulla pancia. La mancanza di azione si traduceva sempre nell’aumento di peso nei Ferguson, un tipico tratto di famiglia di cui non erano mai riusciti a liberarsi. Bastava che rimanessero inattivi per qualche mese e subito i muscoli cominciavano a liquefarsi in grasso. Forse perché mangiavano come bisonti.

“Un ibrido di vampiro è già pericoloso di suo.” spiegò, guardandolo dritto negli occhi, “Se aggiungiamo il suo retaggio magico, Regan diventa una creatura imprevedibile e potenzialmente letale. Non possiamo più permettergli di gironzolare indisturbato.”

Augustus avvicinò a sé il fascicolo di Regan per sfogliarlo. Era pieno zeppo di foto fatte di nascosto e rapporti dei vari cacciatori che si erano alternati nel sorvegliarlo. Compreso Derek.

“Voi che ne pensate?” domandò Augustus a Noah, capoclan dei Ferguson, e a Edward, capoclan dei Chou.

I due uomini si accostarono al tavolo, il primo con l’espressione tipica di una bestia assetata di sangue, il secondo con una smorfia indecifrabile.

“Approvo la richiesta di Fatima Chou.” dichiarò Noah, accarezzandosi la folta barba rossa.

Derek colse con la coda dell’occhio un ghigno ferino allargarsi sulla faccia di Gregory.

“Mi astengo.” disse invece Edward, alternando lo sguardo tra Fatima e Augustus, “Non voglio agire senza prove concrete che Regan McLaughlin è una seria minaccia per la comunità. Mia moglie ama le mosse preventive, e molto spesso mi trovo d’accordo con lei. Ma non stavolta. Regan è benvoluto, adesso. Toglierlo di mezzo potrebbe provocare conseguenze inaspettate, che potrebbero ritorcersi contro di noi.”

Potrebbero, esatto.” sputò Noah, “Ho sempre ammirato la tua prudenza, Eddy, è una delle tue migliori qualità. Onestamente, però, nel caso di Regan mi permetto di dissentire. Avremmo dovuto ucciderlo nella culla.”

Augustus mugugnò sovrappensiero, lasciando scivolare gli occhi dalla figura snella di Edward a quella più grossa e imponente di Noah. Infine, sbirciò in direzione del figlio e lo vide irrigidirsi. Fu un cambiamento impercettibile, quasi impossibile da cogliere. Se Augustus non avesse conosciuto Derek come le sue tasche, nemmeno lui lo avrebbe notato.

“Tu che ne pensi, Derek? Sei quello più coinvolto.”

Derek strinse i pugni e si impose di restare dove era. Gli sguardi di tutti i cacciatori gli pesavano addosso come un macigno: quelli dei Ferguson erano sdegnati e disgustati, quelli dei Chou granitici, imperscrutabili. Non li ricambiò, mantenendo l’attenzione fissa sul padre.

“Sottovalutare Regan sarebbe un grosso errore. Ha dimostrato più e più volte di essere un eccellente attore e stratega. Ma è pur vero che, finora, non ha mai fatto del male a nessuno. Gli ho dato numerose occasioni per pugnalarmi alle spalle, eppure sono ancora vivo. Non dubito che attaccherebbe se si sentisse minacciato, ma chi non lo farebbe? La mia opinione è di lasciarlo stare finché non commetterà un passo falso. Se accadrà, sarà nostro diritto fare ciò per cui siamo nati, senza temere ripercussioni.”

“Sporca troietta.” sussurrò cattivo Gregory, ma nessuno lo udì a parte Derek, che non reagì.

“Perché aspettare?” si intromise Fatima, “Perché non tendergli una trappola per incoraggiarlo a compiere quel passo falso?”

Augustus inarcò un sopracciglio e piegò le labbra in un sorrisetto colpito: “La tua spietata arguzia è lodevole. Prenderò in considerazione la proposta se mi porterai una strategia infallibile.”

“Sarà fatto.”

Derek serrò le labbra, mordendosi l’interno di una guancia per tenere a freno la lingua.

“Bene, andiamo avanti col prossimo argomento: i Sinclair. Che facciamo con loro?”

“Innocenti.” grugnì Noah, palesemente scontento, mentre si passava una mano tra i corti riccioli color carota, “Potremmo tendere una trappola anche a loro. Ma se attacchiamo senza essere provocati, rischieremo di trovarci il Consiglio degli Alfa alla nostra porta.” 

Edward annuì grave, gli occhi a mandorla puntati sul fascicolo: “Se fosse un branco sconosciuto, non credo batterebbero ciglio. Ma stiamo parlando dei Sinclair. Sebbene il loro branco conti appena una manciata di membri, il loro nome incute ancora rispetto nelle alte cerchie.”

“Con loro ci andremo cauti, allora.” sancì Augustus, “Sanno della nostra presenza?”

“Probabilmente no, ma non ne siamo certi.” rispose Fatima.

“Okay.” Augustus sospirò e agguantò il fascicolo al bordo del tavolo, aprendolo con gesto brusco e un’espressione cupa, “Per quanto riguarda il demone, ci sono novità? Derek?”

“Regan è convinto che si tratti di un Chabalim. Tuttavia, non ha prove a sostegno della sua teoria.”

“Cos’ha intenzione di fare?”

“Da quello che ho intuito, vuole raccogliere informazioni per praticare un esorcismo.”

“Avrà bisogno dell’aiuto di un sacerdote.”

Derek scrollò una spalla.

“Nessuno è riuscito a scoprire nulla di più?” insisté Augustus.

Il silenzio che piombò sui cacciatori fu una risposta sufficiente.

Augustus sbuffò spazientito: “Così non va.”

“Posso suggerire di aspettare il ritorno di Regan?” disse Derek, “Lasciamogli tentare un esorcismo. Dal risultato, sapremo con che cosa abbiamo a che fare. Se avrà successo, significa che era davvero un Chabalim e ce lo saremo tolti di torno senza alzare un dito. Se fallirà, otterremo informazioni in più e ci porteremo in vantaggio.”

“Concordo con la strategia di Derek.” disse Kevin, aprendo bocca per la prima volta.

Derek gli rivolse un cenno di gratitudine e distolse velocemente di nuovo lo sguardo.

“Mi sembra ragionevole. Ci sono obiezioni?” chiese Augustus.

“No, nessuna.”

“Strategia approvata.” decretò, chiudendo il fascicolo, “Se non ci sono altre questioni di cui discutere, aggiorno la prossima riunione a tre giorni a partire da oggi.”

I cacciatori sciolsero i ranghi, raccolsero le proprie cose e uscirono alla spicciolata. Soltanto Derek e suo padre rimasero indietro, i loro occhi incatenati in una lotta di sguardi.

Appena furono soli, Augustus guardò con apprensione il figlio: “Come sta procedendo il tuo piano?”

“Bene. Devo ancora mettere a punto gli ultimi dettagli, ma in linea generale direi che ci siamo. Tutti i pezzi sono al loro posto. O ci andranno presto.”

“Ti sei già accordato con lei?”

“Sì. Collaborerà. Almeno per quanto riguarda Regan. Non ho nemmeno dovuto convincerla. Quando le ho spiegato le mie intenzioni, ha accettato subito. Con il demone, però, non vuole avere nulla a che fare.”

“Comprensibile. Comunque, sei fortunato ad aver ottenuto l’aiuto di una Vila. Alle ninfe non piacciono i cacciatori.”

“E a chi piacciono?” sbuffò con un sorriso amaro.

“Vero.”

“La mamma?”

“Torna domani.”

Roman si passò una mano fra i capelli ed esalò un lungo sospiro.

“Cosa c’è?” gli chiese Augustus.

“Vorrei avere i miei fratelli al mio fianco. Non mi piace avere segreti con loro.”

“Hai deciso tu di agire da solo.”

“Lo so, ma…”

“Gregory e Kevin capiranno, non preoccuparti. E se il tuo piano andrà a buon fine, anche Regan ti sarà grato. Potremmo persino accoglierlo in famiglia.” disse con un lieve sorriso incoraggiante.

Derek fece una smorfia e scrollò una spalla: “Questo è da vedere. Ma sarebbe bello.”

Augustus lo invitò a sedersi al tavolo e andò a recuperare una bottiglia dall’armadietto vicino all’entrata. La stappò e prese un’ampia sorsata, per poi passarla al figlio. L’odore dell’aneto gli stuzzicò le narici, l’alcool gli bruciò la gola.

“Brindiamo a te, figlio mio. Diventerai un grande capoclan, un giorno. Non ho dubbi.”

Derek si sforzò di sorridere e tracannò un sorso di liquore.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Burning soul ***








 
Quella domenica mattina, il cielo sopra Ashwood Port sfoggiava un inquietante color piombo. Vento gelido soffiava dall’oceano verso la terra ferma, penetrando tra le case e ululando tra le chiome degli alberi. Grosse onde si infrangevano con violenza sulla scogliera su cui si stagliava il faro e facevano rollare le barche attraccate al porto, lasciando impronte spumose miste ad alghe sulla banchina. La bandiera rossa era issata e garriva selvaggia. I gabbiani si erano rifugiati nelle insenature tra gli scogli o sulla spiaggia ciottolosa per sfuggire alla furia degli elementi.

Rintanato nella sua stanza, Regan fissava il paesaggio fuori dalla finestra con espressione vacua. Ma, al posto dei tetti spioventi delle case, vedeva edifici di pietra di vago gusto goticheggiante fagocitati dalle fiamme; invece delle nubi scure che incombevano sulla città, simili a fumosi mostri affamati, vedeva un cielo tinto delle sfumature del rosso e dell’arancio.

Gli abitanti del quartiere, quelli abbastanza temerari da uscire con quel tempaccio, cambiavano aspetto non appena il suo sguardo si posava su di loro, assumendo a turno il volto di Fiona, Poppy, Sheila, Andrew, e di tutte le streghe e gli stregoni Morgan che aveva incontrato. E quei volti, tutti quanti, erano carbonizzati; la carne viva e sanguinolenta, non più celata dalle ombre della notte, era esposta senza alcuna dignità o pudore alla luce del giorno, testimone e giudice delle sue colpe.

Regan sapeva che era un trucco della sua mente, rivoltatasi contro di lui per sbattergli in faccia la cruda verità, il suo imperdonabile crimine. Eppure, da un momento all’altro, si aspettava di vedere davvero quelle persone, quelle streghe, radunarsi in mezzo alla strada per marciare in massa verso la sua casa, l’indice puntato su di lui in accusa. E insieme a loro, in mezzo a loro, la polizia, Hillary in testa, in tenuta da battaglia. Non si sarebbero disturbati a bussare; avrebbero appiccato un incendio dal vialetto, intrappolando lui e sua nonna all’interno, per guardarli bruciare e morire in un’atroce agonia.

Un rantolo gli si incastrò in gola. Si sentiva esausto, sia nella mente che nel corpo. I suoi occhi erano sbarrati, il respiro lento. Il battito del cuore era lento ma forte, un martellare sordo che somigliava al rintocco di una campana che suona a morto. Il pallore del viso era accentuato dalle occhiaie, simili a due mezzelune nere. Un sottile rivolo di sangue sgorgava dal piccolo foro sul labbro inferiore, dove un canino si era conficcato con forza per impedire alle corde vocali di vibrare nell’urlo disperato che gli raschiava il petto, o di scoppiare in una cacofonia di singhiozzi.

Durante il viaggio da Athens a Salem era riuscito a tenere a freno le emozioni, focalizzandosi, piuttosto, sui rituali fotocopiati. Dopo essere sceso dal pullman, aveva deciso di farsela a piedi fino ad Ashwood Port, convinto che una camminata nel freddo di gennaio lo avrebbe aiutato a scaricare la tensione e schiarirsi i pensieri.

Era bastato imboccare il sentiero che costeggiava il bosco, lontano dalla strada quel tanto da dargli l’illusione di essere solo, per crollare. Era bastato il ricordo dei visi rigati di lacrime di Poppy e Sheila per sentire qualcosa in lui spezzarsi. La sua maschera, assieme a tutte le sue difese, si era sgretolata.

Era caduto carponi su un tappeto di foglie umide e rametti, schiacciato da un peso che gli impediva di respirare. Circondato da alberi, buio e silenzio, aveva sguinzagliato il caos che infuriava in lui e gridato sino a irritarsi la gola. Aveva pianto, sferrato pugni sul terreno, maledetto un dio in cui non aveva mai creduto. Con unghie incrostate di fango, si era graffiato ripetutamente la pelle delle braccia, nella speranza che il dolore fisico cancellasse quello che gli ruggiva dentro: ma, grazie alla sua natura soprannaturale, le ferite erano guarite dopo pochi secondi, incuranti del suo bisogno, delle sue suppliche di restare aperte.

Tutto ciò era servito soltanto a stremarlo. La rabbia, il senso di colpa, la tristezza, la solitudine non erano arretrate di un passo, come ostinati soldati decisi a non porre fine all’assedio per niente al mondo. Anzi, si erano aggrappate ai suoi organi interni con rinnovata determinazione, artigliando la sua anima, divorandola come voraci parassiti.

Una volta tornato a casa, dopo essersi assicurato che Deirdre stesse dormendo profondamente, si era chiuso a chiave in camera, cacciando fuori Poe. Non si era nemmeno svestito a parte per le scarpe, seppellendosi lesto sotto le coperte in un vano tentativo di nascondersi da tutto e tutti.

Adesso, imbacuccato in un bozzolo di stoffa, in gabbia tra le mura della sua camera, riviveva in loop l’incendio alla villa dei Morgan, incapace di sottrarsi al vortice che lo risucchiava giù, sempre più giù, in un abisso nero da cui non c’era via d’uscita.

Non vedeva che oscurità e fiamme intorno a sé. Nelle sue orecchie riecheggiavano ancora le urla strazianti delle streghe. Le avrebbe anche ignorate se non fossero state accompagnate dai singhiozzi di Poppy e Sheila.

Non sapeva cosa lo spaventava di più: venire rintracciato dalla polizia e accusato di incendio doloso e omicidio, oppure il delirio di onnipotenza che lo aveva pervaso quando aveva mietuto le vite delle sue vittime con il fuoco.

Mentre osservava i corpi delle streghe bruciare, lì per lì non aveva provato niente. Vuoto totale, indifferenza. Più tardi, ripensandoci, aveva avvertito una risata folle ribollire in gola. Per quanto volesse negarlo, si era sentito eccitato, invincibile. La brama di vendetta aveva offuscato tutto il resto, lasciandolo in balia di un istinto primitivo che lo spingeva a reclamare il sangue di coloro che gli avevano fatto un torto, senza mostrare alcuna pietà.  

Una grossa parte di lui non era affatto pentita di aver preteso giustizia, specialmente da Fiona. La strega aveva confessato di aver ucciso sua madre e aveva tentato di uccidere pure lui, perciò si era meritata quella fine. Dove avesse trovato i due vampiri, Regan non lo sapeva. Ma se c’era una cosa su cui non nutriva alcun dubbio, questa era che Fiona aveva firmato da sola la sua condanna quando aveva deciso di orchestrare l’omicidio di Shannon.

Le cose che gli aveva sussurrato nello studio lo avevano scosso ancora di più: per un terzo stregone, per un terzo vampiro, per un terzo demone. L’ennesima prova che Regan non possedeva neanche una briciola di purezza. Più ci rimuginava, più lo trovava assurdo, agghiacciante. Era già venuto a patti con la propria natura abominevole quando aveva scoperto il retaggio vampiresco, poi quello magico, e ora disperava al pensiero di dover ricominciare da capo. Se Fiona aveva detto il vero – e Regan sentiva che non era una menzogna – allora la sua esistenza assumeva tutto un altro peso sulla bilancia morale, che già prima pendeva verso la zona grigia.

Altre domande fecero capolino nella sua mente, fiaccata dal rimorso e dal lutto: suo padre era ancora vivo? Era al corrente di avere un figlio? Il suo nome era davvero Stefan Black? Il Consiglio dei Sei gli avrebbero dato la caccia, non aveva dubbi, ma quanto ci avrebbero messo a stanarlo?

E Deirdre… lo avrebbe scoperto. La notizia dell’incendio di sicuro sarebbe finita sui notiziari, data l’alta conta delle vittime. Non importava che fosse stata legittima difesa, almeno per quanto concerneva Fiona. Oltre a non provare alcun rimorso durante e dopo l'atto, c'era stato un momento in cui aveva addirittura goduto nel trucidarli tutti. Rabbrividì, domandandosi cosa diavolo ci fosse di sbagliato in lui.

Era un assassino.

Si seppellì di più nel bozzolo caldo delle coperte, che nulla poteva contro il gelo che gli aveva invaso le ossa. La prospettiva di restare lì per almeno una settimana era allettante, ma dopo un'oretta si impose di alzarsi.

Mentre si faceva la doccia, si arrovellò per imbastire una storia convincente, tralasciando l’omicidio di massa e i segreti che gli aveva rivelato Fiona. Se Deirdre avesse saputo che Regan aveva anche sangue di demone nelle vene, temeva che non avrebbe accolto la “lieta novella” con un sorriso entusiasta. 

Si asciugò in fretta, si vestì con una tuta e scese in cucina a fare colazione. Non si stupì nel trovare Deirdre intenta a sorseggiare il suo tè davanti ai fornelli, fasciata dall’immancabile vestaglia lilla. I capelli rossi erano legati in una crocchia disordinata, le palpebre semi chiuse.

Poe saltò sul tavolo e lo salutò con un miagolio. Regan curvò le labbra nella brutta imitazione di un sorriso. Non appena lo prese in braccio per fargli le coccole, scusandosi tacitamente per il trattamento che gli aveva riservato la notte prima, il gatto produsse un concerto di fusa che sciolse una parte dello strato di ghiaccio che gli ricopriva il cuore.

“Buongiorno, leprotto. Sei rincasato tardi. Non ti ho sentito.”

Regan si sedette a tavola, usando Poe come scudo contro le occhiate indagatrici della donna.

“Sì, intorno alle tre del mattino. Il viaggio è andato bene.”

“E il soggiorno? I tuoi messaggi erano parecchio sintetici…”

“Prima posso avere qualcosa da mangiare? Sto morendo di fame.”

“Toast e succo? Non ho preparato i pancake perché non sapevo quando ti saresti svegliato.”

“Va bene, grazie.”

Deirdre ignorò la smorfia mesta del nipote e gli pose di fronte un piatto con due toast imburrati e un bicchiere di succo d’arancia corretto con del sangue. Regan si fiondò subito su quest’ultimo, non badando ai tentativi furtivi di Poe di rubare uno dei toast.

“I Morgan sono stati molto ospitali. Mi hanno insegnato un paio di trucchetti e mi hanno aiutato a capire come bandire il demone.” snocciolò velocemente in tono distaccato, simulando una calma che non provava, “Ho conosciuto Sheila, la madre di Shannon. È stata gentile. Mi ha raccontato alcuni aneddoti su di lei. Il cibo era ottimo, la compagnia piacevole…”

Deirdre prese posto dall’altro lato del tavolo. Posò la tazza, intrecciò le dita e lo guardò con sussiego.

“Non sono nata ieri, Regan. Dimentichi che ti conosco come le mie tasche? Lo vedo che sei turbato.”

Poe riuscì ad appropriarsi di un toast e balzò giù dalle ginocchia del padroncino per andare a sgranocchiarselo sul termosifone in salotto.

Regan si morse un labbro, percependo montare l’agitazione. Voleva raccontarle cosa aveva fatto. Voleva togliersi quel peso dallo stomaco, ricevere la giusta punizione. Voleva purificarsi, disfarsi del male che lo ricopriva come una seconda pelle. Ma le parole sembravano non avere alcuna intenzione di venire fuori. La verità rimase bloccata da qualche parte tra lo sterno e la coscienza, una massa infetta che bruciava come sale su una ferita. La paura di perdere l’affetto dell’unica persona che lo amava, dell’unica famiglia che aveva, e diventare bersaglio del suo disgusto, disprezzo e ira, assunse la forma di una muraglia invalicabile. Al contrario, le bugie saltarono sull’attenti e si appropriarono senza indugio del palcoscenico, reclamando con facilità ancora una volta lo spazio che erano convinte di meritare. Dopo aver rapito un paio di verità per camuffarsi meglio, diedero inizio allo spettacolo.

“All’inizio erano tutti cordiali, ma quando hanno scoperto cosa sono… non erano felici di avermi lì con loro. C’era un’atmosfera tesa. Non ero il benvenuto. L’unica che mi trattava con gentilezza era Sheila. Ieri, la strega a capo della congrega mi ha fatto capire che avrei fatto meglio a non farmi vedere mai più. Fine della storia, titoli di coda.”

Deirdre assottigliò le palpebre, sospettosa, ma poi la sua espressione si ammorbidì e gli rivolse un sorriso triste.

“Mi dispiace, Regan. Mi dispiace moltissimo. Speravo che questo viaggio ti avrebbe giovato, non che ti strappasse il sorriso. Però, guardiamo il lato positivo: almeno hai trovato qualcosa che possa aiutarti a combattere il demone, giusto?”

Per una frazione di secondo, Regan fu tentato di chiedere “Quale? Quello dentro di me o quello che sta infestando la città?”, ma si morse la lingua in tempo.

“Ho delle fotocopie di alcuni rituali di esorcismo.”

Deirdre si accigliò: “Per compiere un esorcismo serve-”

“Un sacerdote, lo so.” la interruppe, “Comunque, prima devo procurarmi delle prove.”

“Prove?”

“Non siamo certi che si tratti di uno Shedim. Quindi, finché non avremo trovato delle prove, non ci sarà alcun esorcismo.”

“Mi sembra ragionevole. E rischioso. Aspettare ancora significa restare inerti mentre altre persone vengono divorate dal demone. È un prezzo che sei disposto a pagare?”

“Ho altra scelta?”

“Temo di no.”

La donna sospirò e si alzò. Prima di mettere la tazza sporca nell’acquaio, si chinò per scoccare un bacio tra i capelli ancora umidi del nipote.

“Bentornato a casa, leprotto. Mi sei mancato.”

Regan l’abbracciò e, col naso affondato nell’incavo del suo collo, si riempì i polmoni del suo odore di gelsomino e miele, cercando di imprimerselo non solo nella memoria, ma anche nell’anima.

Deirdre, sorpresa da quello slancio di affetto, rimase paralizzata per qualche istante. Poi si rilassò e lo abbracciò di rimando, conscia che c’era qualcosa che il nipote non le stava dicendo. Decise di non indagare, per ora, e lasciargli tempo per digerire qualunque cosa lo turbasse.

Tornato in camera con Poe alle calcagna, Regan si chiuse la porta alle spalle. Il gatto andò a raggomitolarsi sul letto, mentre lui rimase in piedi in mezzo alla stanza a ponderare il da farsi. Un’occhiata al giubbotto abbandonato sulla sedia e la decisione fu presa.

Aprì la cerniera della tasca interna ed evocò dalla dimensione magazzino il libro che conteneva tutto il sapere che Sheila aveva assorbito per lui. Si sedette alla scrivania e cominciò a sfogliarlo. Notò subito che molti dei testi trascritti erano in altre lingue. Nonostante non le conoscesse, il suo cervello le tradusse senza problemi, svelandogli gli arcani segreti di cui erano depositarie.

Si imbatté anche in una caterva di rituali, sia per evocare che per bandire i demoni. Come Sheila gli aveva detto, i rituali erano diversi a seconda delle culture, o addirittura del rango dei demoni. Se questi erano deboli, i rituali erano piuttosto semplici; se erano forti, i rituali apparivano più complicati, con ingredienti di difficile reperibilità.

Appuntò sul quaderno che aveva dedicato al demone di Ashwood Port i dettagli che gli sembrarono più utili, dalle formule ai pentacoli, persino liste di probabili ingredienti. Poi comparò i rituali a quelli fotocopiati che gli aveva fornito Rabbi Joseph. Notò subito delle somiglianze.

A quel punto, un’idea audace si fece strada nel suo cervello. Infatti, se, in qualche modo, fosse riuscito a creare un rituale di esorcismo pseudo-universale, in grado di cacciare demoni di culture diverse, non avrebbe più corso il pericolo di rimanerci secco nel caso in cui avesse sbagliato a catalogare un demone. Cioè, se lo Shedim alla fine si fosse rivelato qualcos’altro, poco male, il rituale avrebbe funzionato comunque. Era un azzardo, però. Un solo errore poteva costargli la vita. Un solo simbolo errato, un ingrediente sbagliato, o la mancanza di un simbolo o un ingrediente fondamentale avrebbe potuto rivelarsi fatale.

Trascorse ore a leggere, studiare e memorizzare, perdendo la nozione del tempo. Quando il cellulare squillò, sussultò ed inspirò violentemente. Sullo schermo c’era il nome di Derek. Non aveva alcuna voglia di parlarci, ma non poteva sottrarsi. Così accettò la chiamata e si portò il cellulare all’orecchio.

“Ciao.”

“Ciao. Ti disturbo?”

“No. Dimmi.”

“Come stai? Scusa se non ti ho mai chiamato in questi giorni… ho avuto da fare.”

“Tranquillo. Anch’io sono stato molto impegnato.”

“A che ora torni oggi?”

“A notte fonda.”

“Ti vengo a prendere a Salem in macchina?”

“No, lascia stare. Ci vediamo domani a scuola.”

“Che hai? Ti sento un po’ mogio.”

“Ho parlato con il rabbino. Dice che per compiere un esorcismo serve un sacerdote.”

“Questo avrei potuto dirtelo io.”

“E che devo trovare delle prove a sostegno della mia teoria. Finché non sarò sicuro al cento percento, l’esorcismo non potrà essere praticato. Il rabbino mi ha fatto intendere che, se andiamo avanti alla cieca, la morte è una possibilità concreta.”

“Come pensi di trovare queste prove?”

“Non lo so. Non è successo più niente da quando sono partito?”

“Tutto tace.”

“Mmm. E l’agente Bennett? Pianifica ancora di farmi una visitina?”

“No, è sotto controllo. I cacciatori, però, iniziano ad agitarsi. Se il demone attaccherà di nuovo, non credo di esagerare dicendo che ti daranno carta bianca per cacciarlo. Io dovrò essere al tuo fianco quando e se accadrà, ma non mi metterò fra te e qualsiasi cosa tu voglia fare. A patto che il demone venga definitivamente distrutto o bandito.”

Regan si passò una mano tra i capelli e sospirò. Era tentato di rivelare a Derek che il demone in questione aveva posseduto una Gorgone, ma qualcosa glielo impediva, come se il suo sesto senso gli stesse suggerendo di non fidarsi. Gli venne voglia di sbuffare. Non si era mai fidato di Derek, non c’era bisogno che il suo subconscio lo mettesse in guardia di nuovo.

“Farò altre ricerche, anche se non ti prometto nulla. Ci vediamo domani.”

“Okay. A domani. Oh, Regan?”

“Mh?”

“C’è altro che devi dirmi?”

A Regan non sfuggì il tono insinuante. La prima cosa che gli balenò in mente fu l’incendio alla villa dei Morgan. Poi rivide le facce bagnate di lacrime di Poppy e Sheila, i loro corpi carbonizzati riversi sul pavimento, simili a bambole rotte. Il suo naso si riempì dell’odore di carne bruciata, le sue orecchie delle grida agonizzanti delle streghe. E la sua gola si chiuse.

“No.” rispose.

“D’accordo. A domani, allora.”

“Sì, a domani.”

Regan spense il telefono e lo gettò con malgarbo sulla scrivania. Nascose la faccia tra le mani, i denti stretti fino a farsi dolere la mandibola e un urlo di rabbia, impotenza e frustrazione incastrato nello sterno.

 
*

Giunto a scuola lunedì, il primo ad approcciarlo fu Roman. Il licantropo gli corse incontro e lo avviluppò in un abbraccio spaccaossa, il naso affondato nell’incavo del collo di Regan e le dita artigliate al suo giubbotto.

Regan gli diede un paio di leggere pacche sulla schiena mentre aspettava che Roman lo annusasse per bene. Poi si staccò e si lasciò esaminare dal suo sguardo critico, cercando di sopprimere le emozioni come Deirdre gli aveva insegnato. Stranamente, gli risultò difficile. Da quando era tornato, l’unica cosa che desiderava nel profondo era qualcuno con cui confidarsi totalmente, aprire il suo cuore senza timore di venire giudicato male e vomitare tutta la tempesta emotiva che gli infuriava dentro.

“Stai bene?” gli chiese Roman, una smorfia preoccupata stampata in viso.

“Sono solo stanco. Il viaggio è stato lungo.”

Roman corrugò la fronte e piegò la testa. Regan impose al proprio cuore di rallentare e al cervello di bandire qualsiasi ricordo relativo ai giorni scorsi.

“Okay.” pronunciò lentamente il lupo, senza smettere di scrutarlo, “Novità?”

“Te lo dico dopo, questo non è il posto adatto. Con Jennifer come sta andando?”

“Se la cava, tutto sommato. Si sta ancora abituando alla situazione. Mio padre è più che soddisfatto, invece. È convinto che lei sia la compagna perfetta per me. Non ti starò a elencare tutti i momenti imbarazzanti che si sono susseguiti uno dietro l’altro da quando è entrata nel branco. Ci manca solo che ci afferri entrambi per la collottola come due cuccioli e dica ‘Ora baciatevi’.”

Regan soppresse una risatina: “E tu? Come te la passi?”

“Rimpiango i giorni tranquilli e la libertà. Senza contare che tra poco ci sarà la luna piena…”

“Programmi?”

“Io andrò a correre. Jennifer resterà con mio zio nel bunker.”

Si incamminarono lentamente verso l’entrata, dove un nutrito gruppo di popolari li stava aspettando. Le ragazze non persero tempo. Si fiondarono subito su Regan, appiccicandosi a lui con le ventose, e squittirono eccitate nelle sue orecchie.

Accorgendosi di come il loro odore stesse inesorabilmente coprendo il suo, Roman represse a stento un ringhio di gelosia.

 “Regan! Mi sei mancato! Come hai passato le vacanze?” partì alla carica Lorie.

“Regan, vieni qui, abbracciami!” si intromise Mary, stampandogli un bacio su una guancia.

“Ragazze, non lo monopolizzate.” le redarguì James.

“Fate largo, arriva il fratello maggiore.” disse Mike, sgomitando tra i coetanei, e cinse con un braccio le spalle di Regan per pilotarlo dentro la scuola, “Ti trovo in forma, sei fantastico, mi sei mancato, eccetera. Ora, bando ai convenevoli e parliamo di cose serie. A breve avremo un’altra partita. Come l’ultima volta, voglio vederti sugli spalti a fare il tifo.”

“Non dovreste studiare?”

Peter abbaiò una risata: “Ben detto! Il coach ci ha minacciati, sai? Se non abbiamo la sufficienza in tutte le materie, ci sbatterà fuori dalla squadra.”

“Io sono sotto a Chimica e Biologia.” ammise Mike, d’un tratto moscio.

“Io a Storia.” disse James.

“Io a Matematica e Letteratura.” mormorò Tyler.

Uno ad uno, tutti i membri della squadra di football elencarono le materie in cui avevano l’insufficienza. Poi fu il turno di quelli di basket. Lo stupore dilagò quando Roman rivelò di avere una media abbastanza alta.

“Come diavolo fai?” pretese di sapere Zack.

“A volte Regan mi aiuta. È avanti rispetto a noi, anche se è al primo anno.”

“Oh, un genietto!” chiocciò Mike, spettinandogli i capelli con una mano, “Daresti ripetizioni anche a m-”

La campanella suonò. Gli studenti imprecarono, corsero verso gli armadietti per prendere i libri e si precipitarono verso le rispettive aule, con la promessa di ritrovarsi a mensa.

Regan e Roman, avendo Francese insieme alla prima ora, si diressero in classe come meno furia, dato che Miss Rochelle arrivava sempre con cinque minuti di ritardo.

Sedendosi al banco, Regan realizzò che non aveva visto né Derek né il duo Charlotte-Jennifer. O, almeno, non erano stati presenti al comitato di benvenuto.

“Dove sono Jennifer, Charlotte e Derek?” domandò a Roman.

Lui scrollò una spalla: “Jennifer è nei paraggi, sento il suo odore. Charlotte e Derek… non ne sono sicuro.”

Miss Rochelle entrò in classe sventolando un plico di fogli.

Bonjour! Pronti per un test a sorpresa?”

Tutti grugnirono, tranne Regan, che accettò il test con aria tranquilla.

“Mi sa che ho parlato troppo presto.” borbottò Roman, “Un’insufficienza a Francese non me la leverà nessuno.”

Regan occhieggiò in direzione del suo compito e bisbigliò: “Coniugazione dei verbi in -ir, aggettivi possessivi e domande. Li abbiamo ripassati meno di un mese fa, ricordi? Ti avevo fatto gli schemi sul quaderno.”

Roman si illuminò e i suoi occhi brillarono di rinnovata speranza.

Alla seconda ora si diresse a Chimica. Condivideva la classe con Jennifer, Charlotte e Derek. Appena Regan entrò, notò che il cacciatore era assente. Jennifer, invece, puntò lo sguardo su di lui e annusò l’aria. Subito dopo, Regan scorse la luce riflettersi su un canino appuntito. Charlotte non se ne accorse, occupata a digitare qualcosa sul cellulare.

Regan diede loro le spalle e fece del suo meglio per non badare a Jennifer, anche se era dura ignorare i solchi che la sentiva scavare nella sua schiena con gli occhi. Non si illudeva di riuscire a evitarla per sempre. Presto si sarebbero trovati faccia a faccia e allora, senza dubbio, la verità sarebbe venuta a galla. Fino a quel momento, tuttavia, si sarebbe impegnato a restare fuori dalla portata del radar lupesco della ragazza, per quanto possibile.

Alla terza ora, Regan si diresse in biblioteca a studiare. Aveva un test di latino dopo pranzo. Anche se non aveva bisogno di ripassare, decise che era un buon modo per tenere la mente occupata e smettere di pensare all’incendio.

Si sedette a un tavolo vuoto in mezzo a due file di scaffali e tirò fuori i libri. La biblioteca era semi deserta. Ogni tanto udiva il fruscio delle pagine di un libro o il picchiettare di dita su una tastiera, i classici rumori di sottofondo che riuscivano sempre a favorire la sua concentrazione. Ma non oggi, a quanto pareva, perché non faceva che distarsi al minimo suono.

Dieci minuti dopo, percepì un battito cardiaco in avvicinamento, accompagnato da un odore familiare. Si sforzò di non tradire alcuna emozione e incanalare pensieri positivi. Soprattutto, si ripeté di non pensare all’incendio.

Derek si sedette sulla sedia accanto alla sua e si sporse a scoccargli un casto bacio su una guancia.

“Ciao.”

“Ciao. Dov’eri?” gli chiese Regan.

“Sono entrato poco fa. I soliti impegni di famiglia. Che studi?”

“Latino.”

“Perché? Scommetto che sai già tutto.”

“Sto cercando di non pensare a ciò che mi aspetta.”

“Cioè?”

Regan gli lanciò un’occhiata in tralice: “Esorcismo? Demone? Ti ricorda niente?”

“Hai un piano?”

“Sai, potresti renderti utile invece che stare a girarti i pollici e lasciare a me tutto il lavoro sporco.”

“Che vuoi che faccia?”

“Aiutami a raccogliere prove.”

“Okay. Da dove cominciamo?”

“E io che ne so? Sei tu l’esperto di queste cose.”

“Mi sopravvaluti.” Derek fece passare un braccio attorno alle spalle di Regan e lo trasse a sé, “Rilassati. Respiri profondi.”

Regan si scostò in malo modo e sibilò: “Rilassarmi è proprio la cosa che non voglio più fare. Devo agire. Non c’è più tempo.”

“Chi lo dice?”

“Lo sento.”

Derek sospirò, scansò di poco la sedia e si girò a fronteggiarlo, sfoggiando un’espressione seria che poco si addiceva alla sua giovane età.

“Che è successo ad Athens?”

Regan si irrigidì. Aveva controllato i siti dei giornali di Athens appena si era svegliato e, come si aspettava, aveva visto la notizia dell’incendio campeggiare su tutte le testate di ogni singolo quotidiano e telegiornale locale. Non era traspirato ancora niente, però, al di fuori dell’Ohio, quindi non era certo che Derek sapesse. In ogni caso, il suo fiuto si era spesso dimostrato eccellente, perciò se non lo sapeva ancora, lo avrebbe saputo presto.

“Qualcosa ti turba, lo vedo. Avanti, cosa c’è?” insisté il cacciatore.

“Niente. Sono solo… stressato. Il viaggio non è andato come speravo. Sono tornato con un pacco di rituali fotocopiati e più incertezze di quando sono partito. Volevo trovare risposte, invece sto ancora affogando nelle domande. Desidero soltanto liberarmi di questo demone e riavere indietro la mia vita. Nonostante tutto, era tranquilla, serena…”

“Noiosa…”

“La noia è sottovalutata. Non sai quante volte l’ho rimpianta nell’ultimo periodo.”

“Ti penti di come sono andate le cose?”

“In parte, sì. Avrei potuto gestire meglio alcune situazioni, evitarne delle altre… col senno di poi siamo tutti bravi a pentirci di certe scelte.”

Derek mugugnò un assenso e, dopo qualche secondo di silenzio, chiese: “Ti sei mai pentito di noi due?”

“Spesso. Quello che abbiamo è così complicato che rimuginarci su mi provoca il mal di testa. I nostri mondi non sono capaci di coesistere come vorremmo. Sono sicuro all’80 percento che finirà in tragedia.” rispose schietto.

“Wow, non ti facevo così ottimista: solo l’80 percento.” scherzò, e il tentativo per sdrammatizzare funzionò.

Regan sbuffò una risata e, un po’ più rilassato, lo guardò negli occhi. Le lampade al neon sul soffitto li facevano apparire più scuri, tanto che la pupilla si confondeva con l’iride. I capelli biondi erano cresciuti di un paio di centimetri, dandogli un aspetto più adolescenziale e meno da uomo vissuto. La mascella squadrata incorniciava due labbra carnose curvate in un lieve sorriso.

Il cacciatore azzerò la distanza che li separava e lo baciò con trasporto. Una mano andò a posarsi sulla nuca di Regan, le dita intrecciate nei riccioli corvini, e l’altra si ancorò al bordo del tavolo. Sospirò sulla sua bocca, come se avesse finalmente ricevuto una nuova dose della sua droga preferita dopo un interminabile periodo di astinenza.

“C’è una cosa che devo dirti, Regan.” sussurrò sul suo collo, alitandogli sulla pelle.

“Cosa?”

Derek non fece in tempo a rispondere, perché la campanella che segnalava la fine dell’ora suonò. Sobbalzarono entrambi e si staccarono con una smorfia.

“Non importa. Te lo dirò più tardi.” disse il biondo, anche se il suo tono di voce comunicava il contrario.

“Okay. Ci vediamo in mensa?”

“No, approfitterò della pausa pranzo per ripassare Storia.”

Regan annuì, raccolse i libri e si caricò nuovamente lo zaino in spalla. Si accodò a Derek per uscire dalla biblioteca. Giunti in corridoio, si salutarono con un cenno e imboccarono direzioni diverse.

Più tardi, prima di recarsi a mensa, Regan fece una sosta in bagno. Mentre svuotava la vescica, lasciò la mente libera di vagare su pensieri di poco conto, godendosi miseri attimi di agognata pace. Qualche divinità non dovette gradire, perché all'improvviso Regan udì un rumore secco provenire da uno dei cubicoli. Si tirò su la zip e si voltò di scatto, in tempo per vedere una bottiglia di whiskey rotolare sulle piastrelle e fermarsi in mezzo al bagno.

Con i muscoli contratti per la tensione e l’adrenalina, Regan si avvicinò al cubicolo da cui la bottiglia era sbucata fuori. Posò un palmo sulla superficie liscia della porta. Esercitando una lieve pressione, la costrinse ad aprirsi. I cardini emisero un cigolio sinistro che rimbalzò su tutte le pareti. Regan rilasciò il fiato di colpo quando vide che il cubicolo era vuoto.

Un momento dopo, la porta del bagno venne spalancata bruscamente, provocandogli un vistoso sussulto e un principio di infarto.

“Cazzo!” imprecò.

“Regan, stai bene?” domandò Roman.

Sfoggiando un’espressione preoccupata, il licantropo gli si avvicinò e posò lo zaino sul pavimento. Regan abbassò lo sguardo e vide che la bottiglia era sparita. Scrollò la testa e si diresse ai lavandini per lavarsi le mani.

“Sto bene.” grugnì.

L’altro annusò l’aria e fece una smorfia disgustata: “Puzzi di Derek.”

“E tu di cane bagnato. Perché non sei in mensa?”

“Potrei farti la stessa domanda.”

Regan si sciacquò velocemente la faccia e prese un paio di salviette per asciugarsi.

“Dovevo pisciare. C’è altro che vuoi dirmi, oltre a commenti non richiesti sul mio odore?”

Roman sospirò e infilò le mani nelle tasche dei jeans: “Jennifer.”

“A-ha?”

“Aveva promesso di mantenere il segreto della mia famiglia, ma credo che lo abbia spifferato a Charlotte.”

“Da cosa lo hai capito?”

“Ho incrociato Charlotte in corridoio pochi minuti fa. Oltre a restare a debita distanza, mi ha guardato dall’alto in basso, come se cercasse qualcosa, ed era… non lo so, rigida, in all’erta, quasi si aspettasse di essere attaccata. È evidente che sa.”

“Non mi stupisce.” disse Regan.

“Cosa?” domandò il licantropo, mettendosi sulla difensiva.

“Che Jennifer abbia sputato il rospo. Non mi sarei mai fidato di lei a prescindere. Ti aspettavi davvero che una ragazzina di sedici anni avrebbe mantenuto un segreto così grande con la sua migliore amica? Lei e Charlotte si conoscono dall’asilo, sono pappa e ciccia. Si dicono tutto. Non mettere in conto una simile eventualità è stato un errore da parte tua. Anzi, di tutto il branco.”

Roman assottigliò le labbra e distolse lo sguardo, puntandolo sul loro riflesso nello specchio. Regan appoggiò un fianco ai lavandini e incrociò le braccia sul torace.

“Se può consolarti, Charlotte è più brava a tenere la bocca chiusa. Non dico che il segreto è al sicuro con lei, perché adesso che sta con Zack è possibile che un giorno si lasci sfuggire qualcosa. Sono ragazzini, Roman, non puoi riporre su di loro assurde aspettative.”

“Tu sei un ragazzino, eppure mi fido ciecamente.”

“Io sono speciale.” ghignò, “E ti ricordo che ho affidato a te il mio segreto come garanzia. Ho da perdere tanto quanto te se venisse fuori.”

Roman fu su di lui in un attimo, le braccia avvolte attorno al suo busto e il naso affondato tra i suoi riccioli. Regan si impietrì, gli occhi sbarrati fissi sul muro.

“È vero, mi hai dato la garanzia che non avresti parlato. Ma anche se non mi avessi affidato il tuo segreto, so che non avrei avuto nulla da temere. Se c’è una cosa di te che ho capito, è che sei leale con chi ritieni degno della tua lealtà. È un dono che non ho mai dato per scontato, e mai lo farò.”

Si scostò di qualche centimetro. Il suo sguardo intenso di specchiò in quello di Regan. Le loro fronti aderirono. Le mani di Roman salirono ad accarezzargli le guance fredde a palmi aperti, i pollici a sfiorare le ciglia nere e gli zigomi.

Il momento si protrasse per incalcolabili istanti, sospeso nel tempo e nello spazio, finché Roman non lo spezzò facendo la prima mossa. Chinò il capo, abbastanza da portare le labbra alla stessa altezza di quelle di Regan, e le sfiorò leggero, quel tanto da saggiarne timidamente la consistenza.

Il ricordo dell’unico bacio che avevano condiviso, alla festa di Halloween, si era impresso a fuoco nella sua memoria. Da allora, aveva desiderato spesso ripeterlo. Lo aveva sognato, addirittura, insieme a tante altre cose. E adesso che stava accadendo, doveva sforzarsi il doppio per impedire ai propri arti di mettersi a tremare.

Regan, sorprendentemente, non si ritrasse, né lo insultò. Rimase immobile a scrutarlo con una maschera granitica. Nemmeno il suo odore trasmetteva niente. Pareva una statua.

Roman deglutì e si umettò le labbra. Inspirò la fragranza della sua pelle per riempirsene i polmoni, nel caso in cui quella fosse l’ultima volta che Regan gli avrebbe concesso di farlo. Le sue ciglia sfarfallarono per il piacere, le palpebre scesero a mezz’asta, le pupille si dilatarono e il cuore accelerò.

“Sai che il mio lupo ti considera branco?” bisbigliò dopo qualche istante, spezzando il silenzio che si era protratto fin troppo per i suoi gusti, e subito dopo maledisse il tremolio nella sua voce.

“Lo immaginavo. Non sei sottile come pensi.” sbuffò Regan in tono piatto.

“Perché non hai mai detto niente?”

“Perché non esiste che tuo padre mi accetti nel suo branco, Roman. Quindi che senso ha parlarne?”

“Non il branco di mio padre. Il mio branco.”

Regan aggrottò le sopracciglia e sollevò il capo per scoccargli un’occhiata confusa. Roman lesse senza difficoltà la domanda che aveva scritta in faccia.

“Il branco di mio padre non è più il mio da quando ti ho conosciuto. Ci ho messo un bel po’ a capirlo. Tu hai cambiato tutto, Regan. Mi hai fatto dubitare, hai polverizzato le mie certezze, ma mi hai anche dato ciò di cui non sapevo di avere bisogno.”

“E sarebbe?”

Regan si sentiva leggermente a corto di fiato, non sapeva se per la tensione che Roman gli stava trasmettendo con le sue confessioni o per l’atmosfera solenne che era piombata su di loro tutto d’un tratto.

“Un vero alfa. Un capo degno della mia lealtà. Un compagno a cui posso affidare la mia vita. Un amico per cui sarei disposto a sacrificarla.”

In quel momento, Regan ebbe un tuffo al cuore. Emozioni che non sapeva di poter provare ancora, non dopo il severo addestramento a cui Deirdre lo aveva sottoposto, tornarono a galla prima che riuscisse a fermarle. Gratitudine, serenità, speranza lo investirono con la forza di una valanga.

Roman non era più solo un amico, era diventato un pilastro della sua esistenza, come Deirdre e Hillary. La sua amicizia era stata una costante sin da quando era arrivato, e non lo aveva mai deluso. Roman c’era sempre stato, in un modo o nell’altro, anche quando Regan aveva tentato di allontanarlo, o quando lo aveva sminuito e umiliato. Roman era rimasto con lui tra alti e bassi, con una fedeltà che Regan trovava scioccante.

Fu sconcertante realizzare di non essere più solo. Ora aveva qualcuno su cui poter contare veramente, una creatura soprannaturale come lui, che comprendeva le sue angosce meglio di chiunque altro. Per quanto amasse Deirdre, lei non era abbastanza potente per aiutarlo ad affrontare i pericoli disseminati sul suo cammino; e Hillary, nonostante la sua posizione di sceriffo, non poteva accompagnarlo nella strada che aveva imboccato. Roman, invece, aveva tutte le carte in regola per seguirlo ovunque, persino nelle profondità più remote della notte.

Erano un branco. Composto solo da due persone, sì, ma non meno unito e importante. Aveva perso la famiglia di sua madre e l’unico legame di sangue che gli era rimasto, ma con Roman ne aveva guadagnata un’altra che andava al di là del sangue, altrettanto forte e compatta.

E Roman lo considerava il suo alfa, una guida e un protettore. Regan avrebbe fatto di tutto per non deluderlo, per dargli ciò di cui aveva bisogno e, al contempo, prendere da lui la forza per restare ancorato al suo vero io. Allora seppe che sarebbe morto per Roman, che si sarebbe preso cura di lui finché avesse avuto fiato in corpo e che niente avrebbe mai potuto spezzare il loro legame.

Deglutì e ricacciò a fatica le emozioni nel caveau da cui erano saltate fuori. Una parte di esse, però, continuò a indugiare nel suo cuore, riluttante ad abbandonarlo.

“So che mi avevi ordinato di starti lontano per via del demone, ma non posso, Regan. Non posso. Io-”

“Roman.”

Roman interruppe i suoi balbettii e ammutolì.

“Grazie.” proferì serio Regan.

Si accostò di più a lui, sollevò il mento e premette le labbra sulle sue in un bacio casto e intenso. Notò che Roman stava tremando, così gli artigliò le spalle per rassicurarlo. Quando si staccò, gli elargì un piccolo sorriso.

“Se lo vorrai, sarai il mio braccio destro nella battaglia che verrà. Come mi hai ripetuto giorni fa, non posso combattere il demone da solo.”

“Sono con te, alfa.” rantolò, sopraffatto dall’euforia, e le sue iridi si tinsero di giallo, “Sempre.”

“Bene. Passa da me mercoledì pomeriggio. Dobbiamo elaborare un piano di attacco.”

“Perché mercoledì?”

“Oggi ho da fare e domani tu hai gli allenamenti di basket.”

“Ah, giusto. Hai già in mente qualcosa?”

“Forse. Ne parleremo mercoledì, a casa mia.”

“Okay…”

“Piuttosto, potremmo avere un problema ora che Jennifer è un lupo mannaro.” disse Regan.

“Quale?”

“Se non lo ha già fatto, mi fiuterà presto. Capirà subito che ho qualcosa di diverso. Oggi, a Chimica, mi ha guardato in modo strano.”

“Temi che possa diventare ostile?”

“Basta ricordare come ha reagito la tua famiglia quando sono venuto a casa tua quella volta.”

“Io non ho reagito male.”

“Tu non hai reagito affatto, perché sei tonto.”

“Hey!”

“Non avresti mai capito cosa sono se non te lo avessi scandito a chiare lettere. Inoltre…”

Si bloccò prima di terminare la frase, perché Roman non sapeva che Regan aveva usato il controllo mentale su Jennifer. Comunque, dal momento che era diventata un lupo mannaro, ergo una creatura soprannaturale, era più che probabile che adesso Jennifer sarebbe stata immune. E se avesse già realizzato che Regan le aveva fatto qualcosa? Se fosse tornata a quando non lo sopportava? In tal caso, non ci avrebbe messo molto a trascinare Charlotte dalla sua parte e, insieme a lei, tutte le altre ragazze del gruppo. Ad aprire loro gli occhi, per così dire. Regan non poteva permetterglielo.

“Niente. Andiamo a mensa, siamo già in ritardo.”

Roman gli lanciò un’occhiata confusa, ma non indagò.

A mensa, si sedettero al tavolo dei popolari. Regan venne accerchiato dalle cheerleader in un lampo, mentre Roman venne coinvolto in una discussione accesa sul basket dai suoi compagni di squadra.

Di Jennifer e Charlotte non c’era traccia. Ad ogni modo, Regan non abbassò mai la guardia, convinto che Jennifer sarebbe spuntata fuori alla prima occasione da qualsiasi anfratto in cui si stava nascondendo per saltargli alla gola. Non era una bella sensazione sentirsi braccati, e non c’era molto altro che potesse fare a parte restare vigile.

Okay, un problema alla volta. Mi occuperò di Jennifer dopo che avrò esorcizzato il demone e mi sarò sbarazzato dei cacciatori. Mi serve un piano.

“Regan, questo sabato verrai con noi a fare shopping.” dichiarò Lorie, e tutte le amiche annuirono d’accordo.

“Eh… e se avessi già altri impegni?”

“Sciocchezze. Cosa c’è di più importante dello shopping? E a te mancano camicie.”

“E scarpe.” aggiunse Claire, “Non credere che non abbia notato che porti sempre quei brutti anfibi.”

“I miei anfibi sono bellissimi, grazie. E comodi.”

“Stanno cadendo a pezzi! Come fai a non vederlo?”

“Okay, se gli piacciono gli anfibi, ne compreremo un paio nuovi.” disse Lorie.

Regan le osservò battibeccare fino alla fine della pausa pranzo, senza davvero ascoltarle, il cervello impegnato a elaborare una linea d’azione per gestire demone, cacciatori e Jennifer in rapida successione, se non addirittura nello stesso momento. L’adrenalina che gli trasmise quel pensiero scacciò l’ansia e le sue labbra si piegarono in un minuscolo ghigno.

Roman lo intercettò e gli rivolse uno sguardo interrogativo. Regan gli fece l’occhiolino e trangugiò mezza borraccia di acqua corretta con sangue.

 
*

Roman scese dalla macchina e improvvisò una corsetta verso la porta di casa. Si sentiva galvanizzato, su di giri, e non solo per aver baciato Regan. Il suo alfa lo aveva accettato ufficialmente nel branco e il lupo in lui scalpitava dal desiderio di renderlo orgoglioso, dimostrargli di essere degno del suo nuovo posto. Certo, doveva mantenere segreti gli ultimi sviluppi e impegnarsi a non lasciar trapelare nulla a suo padre, ma questo non smorzava affatto la sua eccitazione.

Udì il battito di sua zia e dei cugini al piano di sopra, ma quelli di sua madre e Sean erano assenti. Si diresse subito in biblioteca. Bussò rispettosamente e aspettò che gli venisse dato il permesso di entrare. Quindi scivolò all’interno e raggiunse Vincent alla scrivania.

“Regan è tornato.” esordì, fermandosi dinanzi a lui con la schiena dritta e il mento alzato come un bravo soldatino.

Vincent interruppe ciò che stava facendo e lo squadrò per lunghi secondi. Notò subito la totale assenza di sottomissione. Corrugò la fronte e si raddrizzò. Avvertiva qualcosa di diverso, ma non riusciva a individuarne la fonte.

“E?” indagò con voce neutra.

“Intendo assisterlo contro il demone.”

L’alfa sbuffò: “Roman, non fare lo stupido. Cosa credono di poter fare due ragazzini come voi contro un demone?”

“E tu cos’hai fatto finora per risolvere questo casino, oh grande e potente alfa?” lo sfidò.

Vincent si alzò di scatto. I suoi occhi divennero gialli e dalle labbra stirate sui denti, leggermente più appuntiti del normale, rotolò fuori un ringhio.

“Il tuo tono non mi piace, Roman.”

“Ho detto solo la verità. Sei persone sono scomparse, e tu stai qui a rigirarti i pollici invece di pattugliare la città in cerca della tua Gorgone. Almeno Regan si è dato da fare per trovare una soluzione. Non dico che dovresti comprargli un cesto regalo, ma ringraziarlo sarebbe il minimo.”

L’uomo aggirò la scrivania e torreggiò sul figlio, fulminandolo dall’alto con sguardo minaccioso. Quello sguardo grondava potere, così come l’aura che lo avvolgeva. Eppure, Roman non si piegò. Non abbassò la testa né mostrò la gola. Rimase immobile, gli occhi fissi in quelli del padre e i pugni stretti lungo i fianchi. Non nascose di essere intimorito, chiunque lo sarebbe al cospetto di un alfa arrabbiato, ma non lasciò che quel timore avesse la meglio su di lui.

“Sai, papà, comincio a capire perché Declan si rifiuti di tornare. Non riesci nemmeno ad ammettere i tuoi errori. Non sei onesto né con te stesso né con il tuo branco. So che vuoi proteggerci. So che lotteresti per noi fino al tuo ultimo respiro. So quante energie spendi per tenerci tutti al sicuro. Il problema è che non ti fidi di nessuno eccetto che di te stesso. Ed è proprio questo, la mancanza di fiducia, che sta spezzando i legami interni al branco. Capisco non volersi fidare delle altre specie, ma noi siamo licantropi come te. E io e Declan condividiamo il tuo sangue. Pretendi che eseguiamo i tuoi ordini senza protestare e rifiuti di ascoltarci, di dare un peso alle nostre parole. Ci affidi dei compiti solo quando ti serviamo, mentre per il resto del tempo è come se non esistessimo.”

Roman trasse un profondo respiro per calmarsi. Il battito del suo cuore rallentò e le mani si rilassarono. Litigare con suo padre non avrebbe portato a niente, e non era neanche il suo vero scopo.

“Non sono arrabbiato con te, papà. Non ne ho il diritto. So di essere giovane e inesperto, di avere ancora molte cose da imparare. Ma sentirmi umiliare un giorno sì e l’altro pure non mi aiuta a crescere, anzi. Mi stai bastonando da mesi, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Se è così, dimmelo. Se non lo è, smetti. Non sono più un cucciolo, ormai. Non ti seguirò più ciecamente se prima non vedrò ragionevolezza dietro le tue azioni e decisioni. Mamma potrà anche mostrarti la gola e obbedire in silenzio, io no. Non sono dolce come lei, né freddo e letale come Sean, né abile come Ruby, né intelligente come Declan, ma non significa che tu mi debba scartare a priori. Non significa che io sia inutile.” scandì pacato e curvò le labbra in un minuscolo sorriso, “Regan me lo ha fatto capire. È stato lui a insegnarmi che non c’è niente di male ad essere come sono, e lo ha fatto accettandomi lui stesso per primo. Non ha mai cercato di cambiarmi, a differenza tua. Per questo motivo lo aiuterò, che tu lo voglia o meno. Te lo sto dicendo perché mi piacerebbe avere il sostegno del branco. Non posso forzarvi, ovvio, ma spero che ci penserai.”

Vincent tacque. Non boccheggiò come un pesce fuor d’acqua solo perché conservava ancora un briciolo di contegno, ma la bocca si schiuse comunque di qualche millimetro. Osservò Roman come se lo vedesse per la prima volta, percependo una fitta al petto che gli mozzò il fiato.

Lo guardò uscire dalla biblioteca e, appena il tonfo della porta riecheggiò nell’aria, sobbalzò. Il silenzio piombò sull’alfa come un macigno. Le sue spalle si afflosciarono ed esalò un sospiro tremolante.

L’occhio gli cadde sui volantini e i moncherini di pietra adagiati sulla scrivania. Il senso di colpa conficcò gli artigli ancor più in profondità, scavò con rinnovato zelo, per poi lasciarlo a corto di ossigeno, con i palmi poggiati sul ripiano, il busto piegato in avanti e la testa china, incassata tra le spalle. Prostrato come un uomo sconfitto.

 
*

La radio sulla mensola stava riproducendo Don’t Fence Me In di Bing Crosby, accompagnando i movimenti esperti di Deirdre. Regan la osservava lavorare seduto sul ripiano accanto al lavandino, passandole gli arnesi del mestiere al momento opportuno, senza che lei glielo dicesse. Poe sonnecchiava sulle sue ginocchia, sazio e contento.

“C’è una cosa che ieri non ti ho detto.” mormorò Regan, una mano intenta ad accarezzare il pelo nero e soffice del gatto e l’altra protesa verso la nonna.

Deirdre gli riconsegnò le forbici e lui le depositò nella bacinella, insieme agli altri strumenti usati durante l’imbalsamazione.

“E sarebbe?”

“Vincent ha trovato alcuni resti delle persone scomparse, tempo fa, abbandonati in un fossato nel bosco.”

Deirdre si bloccò e si voltò verso Regan. Si tolse i guanti di lattice sporchi di sangue, gettandoli nel cestino, per poi aggiustarsi l’acconciatura e riposizionare il fermaglio.

“Perché non me lo hai detto prima?”

“Me ne sono dimenticato.” ammise sincero, “Comunque, quei resti erano pietrificati. A quanto pare, è opera di una Gorgone.”

Deirdre boccheggiò: “Una Gorgone?! Qui, ad Ashwood Port?”

“No, a Las Vegas. Sì, una Gorgone. E sono certo che lei e il demone lavorino insieme. Anzi, non proprio insieme. Penso che lui la stia possedendo.”

“Hai prove?”

“Il sibilo. I serpenti. I resti pietrificati delle vittime mietute dal demone. Lo so, non ha senso che una Gorgone collabori con un demone, perché loro non cacciano donne e bambini, solo uomini adulti. Ma se il demone la sta usando, tutto quadra. Resta da scoprire chi sia e dove si trovi la sua tana.”

Deirdre lo fissò con palese shock. Dopo qualche secondo, scrollò la testa e andò al lavandino con la bacinella degli strumenti per lavarli e disinfettarli.

“Ripetimi tutto quello che sappiamo. Lentamente. Fai un elenco.”

Regan sospirò e adagiò la nuca sul muro freddo, senza mai cessare di accarezzare Poe.

“Il demone è attratto dal lutto. Un lutto che risale a non più di sette giorni nel passato. Viene annunciato da dei sibili. I corpi delle vittime sono stati tramutati in pietra e buttati in un fossato. In qualche modo, influenza le persone, facendole compiere azioni folli.”

“Cos’hanno in comune le vittime, a parte il lutto?”

“Niente. È questo il problema.”

“No, intendo i posti che hanno frequentato prima di sparire. Dicesti qualcosa su un ristornate, se non ricordo male, e-”

“Ristorante al molo, sì, ma soltanto per tre delle sei vittime. Il parco per due. La Fondazione Sthenos… bah, non lo so. Hillary dice che Miss Sthenos è pulita… nonna? Che ti prende?”

Regan la vide aggrottare le sopracciglia e bloccare qualsiasi movimento.

“Petra Sthenos… Sthenos…” ripeté sottovoce Deirdre, prima di sgranare gli occhi, “Petra Sthenos! È greco. Significa pietra robusta, o pietra forte, solida, o ancora pietra vigorosa, violenta.”

“Oh. Oh! Merda.”

“Dicesti che ha due sorelle, se non sbaglio.”

“Cora Thalassa e Phidya Kidemonas.” le riferì, incespicando su alcune sillabe.

“Cora Thalassa… pure questo è greco. Cora viene dalla parola ‘kore’, che significa ragazza o figlia, mentre ‘thalassa’ vuol dire ‘mare, oceano’. Phidya, invece, mi fa venire in mente lo scultore greco Fidia. Lo scultore lavora la pietra, o le rocce in generale. Ma in greco ‘phìdi’ significa ‘serpente’. La parola ‘kidemonas’ si traduce letteralmente con ‘guardiano’.”

Regan si agitò quando sentì il battito cardiaco della nonna accelerare e il suo odore tingersi di paura.

“Come diavolo ho fatto a non arrivarci prima?! È lei! Petra Sthenos è Steno, una delle tre Gorgoni. Detta anche la Corruttrice. Le altre due sono Euriale, la Viandante Urlatrice, e Medusa, la Guardiana degli Inferi. Si dice che siano figlie di due mostri marini, o di una ninfa e di un mostro marino, per questo spesso stabiliscono la loro dimora vicino all’acqua. Oh! I tarocchi. La Regina di Coppe: una donna importante, legata al mondo dell’arte e della cultura. Il Tre di Coppe: il cattivo presagio legato alla donna. E il Diavolo. Il demone. Regan, mi sa che hai ragione, il demone la sta possedendo. Come l’abbia catturata non lo so, ma la sta indossando come un vestito. Oh astri celesti, Hillary ci ha anche parlato!”

“Cazzo.” Regan scattò in piedi, disarcionando malamente Poe, che emise un miagolio indispettito, “Sapevo che c’era qualcosa di strano! Lo sentivo! Sapevo che la Fondazione aveva un ruolo in tutta la faccenda! Ce l’ho avuta sotto il naso per tutto questo tempo, accidenti! Okay, cosa facciamo?”

“Niente.” rispose pacata Deirdre, tornando a lavare gli strumenti.

Il repentino cambio di tono scombussolò Regan, che barcollò all’indietro come se qualcuno lo avesse schiaffeggiato.

“Come niente?”

“Che vorresti fare? Bussare alla sua porta e interrogarla sulle sparizioni? Il suo sguardo può trasformarti in pietra, è sufficiente che lei lo desideri. È meglio che resti alla larga, leprotto. Una Gorgone non è un avversario che puoi affrontare. Sono tutte feroci, prive di misericordia. E avide, molto avide. Per non parlare del fatto che è posseduta da un demone.”

“Deve esserci un modo!”

“Non che io sappia.”

Regan sbuffò rassegnato: “Okay. Cosa sai su Steno?”

“La caratteristica principale della Corruttrice è il totale disprezzo per ogni forma di moralità, quindi colleziona prede che ne possiedono tanta. Il che, ora che ci penso, spiegherebbe perché il demone l’abbia scelta. Uccidere donne e bambini non è nella natura di una Gorgone, è vero, ma forse il demone ha accentuato la fame di moralità di Steno.”

“Se prende persone di salda morale, allora io dovrei essere al sicuro.” scherzò sarcastico, “Ma perché le Gorgoni tramutano gli uomini in pietra? Me lo sono sempre chiesto.”

“Per mangiare, Regan. Per cos’altro sennò?”

“E cosa mangerebbero, scusa?”

Deirdre gli scoccò un’occhiata in tralice: “L’anima. La risucchiano via dal corpo attraverso i loro occhi. E mentre ciò accade, la carne si trasforma in pietra. Steno è una Gorgone particolare, però. Non caccia solo per mangiare, ma anche per mantenere un aspetto umano e mimetizzarsi. Più moralità mangia, più la sua maschera innocente si rafforza. Credo sia per questo che agli occhi della legge, o di chiunque la incontri, appaia pulita, una brava persona. Non sospetteresti di lei nemmeno se avessi le prove della sua colpevolezza. È così che sopravvive.”

“E le sue sorelle?”

“Sono diverse. Euriale è simile a una banshee. Sai cosa sono le banshee?”

“Messaggere di morte.”

“Esatto. Si sposta seguendo il vento, pur senza allontanarsi mai troppo dal mare. Si nutre per lo più di marinai. Spesso viene scambiata per una sirena. Medusa è la più famosa. È l’unica che si nutre degli umani soltanto perché li odia, e non le interessa minimamente assumerne l’aspetto per attirarli in trappola. Anzi, le sembianze umane le suscitano ribrezzo. Non vive sulla terra, ma negli Inferi, appena fuori dal portale d’accesso.”

“E dove si trova?”

“Io che ne so?”

Deirdre si tolse il grembiule per sciacquarlo. Regan canticchiò a labbra strette la canzone diffusa dalla radio, tamburellando le dita sul tavolo, quando all’improvviso gli tornò in mente un’altra cosa.

“Ah, mi sono dimenticato di dirti anche che Roman e Jennifer si sono scontrati con il demone la sera del compleanno di Roman. Sono sopravvissuti entrambi, ma, nella colluttazione, Roman ha morso per sbaglio Jennifer. Ora lei è un lupo mannaro.”

A Deirdre andò di traverso la saliva e si mise a tossire.

 
*

Mercoledì pomeriggio, Roman suonò il campanello di casa McLaughlin alle cinque in punto. Deirdre gli aprì e lo accolse con un sorriso materno.

“Ciao, Roman. Come stai?”

“Non c’è male, signora.”

“Oh, chiamami Deirdre e dammi del tu, caro.”

Roman arrossì imbarazzato e annuì: “Okay. Stai uscendo?”

Deirdre finì di indossare il cappotto e afferrò la borsa, frugando all’interno per appurare che ci fossero chiavi e telefono.

“Sarò dall’altra parte della strada, vado a fare compagnia alla signora Greenwood. Voi ragazzi fate i bravi, d’accordo?”

“Non prometto niente. Sai com’è Regan.” scherzò.

“Eccome se lo so!” rise lei, per poi aggirarlo e uscire dalla porta, “Torno per cena. Ti va di restare?”

“Eh…”

“Ottimo. C’è il polpettone.”

“Ehm, grazie.”

“A dopo!”

Roman la salutò e si richiuse la porta alle spalle: “Regan?”

“Di sopra.”

Lo raggiunse salendo i gradini a due a due. Quando si affacciò in camera, vide Regan seduto sul pavimento a gambe incrociate, circondato da una marea di libri e fotocopie. Stette immobile per svariati secondi, non sapendo dove mettere i piedi. Regan se ne accorse e gattonò con attenzione sui fogli per spostarli e creare un passaggio verso il letto.

“Cosa stai facendo?” gli chiese il lupo, arrampicandosi sul letto dopo essersi tolto le scarpe.

Regan lo fissò dal basso per qualche istante prima di sospirare. Si passò le mani fra i capelli, spettinandoli ancora di più, e si scrocchiò le dita.

“Okay. Innanzitutto, devi sapere che ci sono delle cose che ti ho taciuto. Il motivo per cui l’ho fatto è semplice: non mi fidavo di te.”

L’espressione di Roman somigliava a quella di un cucciolo bastonato. Regan soppresse una smorfia e proseguì. Non poteva farsi distrarre dagli occhioni dell’amico, un’arma letale in sé e per sé.

“Non ho dubbi che mi avresti aiutato in ogni caso. È solo che non avevo la tua completa lealtà. Tutto ciò che ti ho detto lo hai sempre riferito a tuo padre, e lo capivo, era il tuo alfa. Ma ci sono certe informazioni che non volevo arrivassero alle sue orecchie, perché anche se mi tollera, non siamo alleati. Adesso che mi hai scelto come tuo alfa, la situazione è cambiata. So che non andrai a spifferargli quel che verrà fuori oggi pomeriggio, a meno che io non te ne dia il permesso.” proferì lentamente, in modo che il messaggio giungesse a destinazione forte e chiaro, e notò Roman irrigidirsi, “Non sarò il tipo di alfa che ti ordina di fare questo o quello senza curarmi della tua opinione, di questo puoi stare certo. Ti chiedo solo di discuterne prima con me, per confermare che ciò che vuoi fare non sia stupido o pericoloso. Fin qui hai capito? Ci sono domande?”

Roman scosse debolmente il capo: “Ho capito. E… mi dispiace.”

“Per cosa?”

“Per averti lasciato solo. Per averti spinto a dubitare di me. Per aver tradito la tua fiducia senza accorgermene.”

“Non ti sto incolpando, Roman, e mai lo farò, non per simili motivi. Comprendo le dinamiche di branco, grazie a tutti i libri che ho letto, e so quanto i licantropi beta siano devoti al loro alfa. Tuo padre era il tuo alfa, a lui dovevi obbedienza e trasparenza. È normale che il tuo istinto favorisse lui a me. Francamente, avrei continuato a tacere se tu non mi avessi scelto come tuo nuovo alfa. So quanto questa azione sia importante per un licantropo. La scelta deliberata di un alfa non è da prendere alla leggera. Mi sento onorato e grato. E ora so che è a me che obbedirai, è a me che verrai a riferire tutto, non a tuo padre. Questo mi rassicura e mi dà il coraggio di rivelarti le informazioni che ti ho tenuto nascoste.”

“Okay. Quali sarebbero?”

“Per cominciare, di recente ho scoperto che mia madre era una strega.” sollevò subito una mano per bloccare qualsiasi domanda Roman fosse sul punto di fare, “Apparteneva a una congrega residente in Ohio. Ho ereditato da lei la magia, il che fa di me uno stregone vampirizzato. Anche se sarebbe meglio dire che sono mezzo stregone e mezzo vampiro. Va beh, non perdiamoci nella semantica. In quanto stregone vampirizzato, possiedo dei poteri psichici: vedo i fantasmi, ho delle visioni e sono perennemente sintonizzato sul mondo soprannaturale. Da qui si va all’informazione numero due: sin dall’inizio, a quanto pare, ho instaurato un contatto con il demone. Avverto quando è vicino, sento quando si nutre e ho delle visioni premonitrici sulle sue vittime.”

“Vuoi dire che sai in anticipo chi colpirà?!”

“Sì e no. Le visioni sono troppo vaghe per capirlo in tempo. Solo dopo la scomparsa delle vittime i tasselli vanno al loro posto. Ammetto che è frustrante. Ne ho avuta una oggi, per esempio: ho visto una bottiglia di whiskey rotolare sul pavimento del bagno, a scuola.”

Roman abbozzò una risata, per poi tornare serio quando si accorse che Regan non stava scherzando.

“E le altre?”

“Uhm, vediamo… ho visto il fantasma del cugino di Teresa e poi lei stessa con una faccia grottesca, simil cadavere; un fantasma mi ha cantato una filastrocca per avvertirmi di Timothy; il fantasma della moglie di Rupert Gullon mi è apparso per parlare di tubi; un corvo per Evelyn Richardson; cubetti di ghiaccio per terra per Joshua Pryce; un gatto bianco per Lucy Hammond. Ora una bottiglia di whiskey. Forse dobbiamo cercare un alcolizzato.”

“Oookay…”

“Dietro la vaghezza delle mie visioni c’è una ragione: credo sia il demone a farmele avere, per confondermi e divertirsi alle mie spalle. Che ce l’abbia con me è chiaro, anche se non so ancora il perché. Comunque, i poteri psichici ci portano al prossimo punto: il mio incremento di popolarità tra gli studenti è dovuto al fatto che ho esercitato un leggero controllo mentale sulle cheerleader e i membri della squadra di football. Non sono sempre stato in grado di farlo, bada bene, ma confesso di averne approfittato spudoratamente non appena l’ho scoperto.”

Roman puntò un dito contro di lui, sbigottito, ed esclamò: “Hai barato!”

“Sì, ho barato.” ridacchiò Regan, “Ma se avessi preso la via più difficile, ci avrei messo mesi a inserirmi. Ti ho già spiegato come mai mi serve circondarmi di persone popolari. Sono il mio scudo.”

“Regan, nessuno ti accuserà mai di-”

“Zitto e ascolta, non ho finito. Derek, Gregory, Kevin e le loro famiglie sono cacciatori. Sanno di me, di Deirdre, di te e del tuo branco. Ancora non sanno che ho sangue di strega nelle vene, e voglio che le cose restino così. Sono al corrente che c’è un demone in città, ma solo perché l’ho detto a Derek. Derek è il punto di contatto tra me e loro. Siccome è innamorato di me, sto recitando la parte del suo fidanzato, per questo ho sempre il suo odore addosso. In pratica, lo sto usando sia per pararmi il culo, sia per tenermi aggiornato su cosa accade tra i cacciatori. No, non fare quella faccia. Sappi che intendo uccidere lui e gli altri cacciatori alla prima occasione. Oh, a proposito, il tuo branco sa dei cacciatori, con l’eccezione di Trevor e Nina. Tuo padre mi ha chiesto di non dirtelo perché credeva che l’ignoranza ti avrebbe protetto.”

“Okay, devo fermarti.”  

Roman si sentiva sopraffatto dal rancore, dalla rabbia e dall’incredulità. Non era stupito del fatto che suo padre avesse deciso, per l’ennesima volta, di tacergli qualcosa di vitale importanza. Vincent aveva fatto del diritto di rimanere in silenzio una regola di condotta. Né lo sorprendeva venire a sapere che Derek, Gregory e Kevin non erano umani, dato che la loro presenza lo aveva sempre messo a disagio. Insomma, aveva intuito che nascondevano qualcosa ed era stato lui lo stupido a non capire cosa. Piuttosto, ciò che lo feriva era la rivelazione del rapporto tra Regan e Derek. Il solo pensiero gli faceva rivoltare lo stomaco.

“Stai con Derek?”

“Faccio finta di stare con Derek. Lui pensa che sia reale, ma non lo è.” precisò Regan.

“Oh.” sospirò, più tranquillo ma non meno geloso, “E le ragazze? Cioè, ti ho visto spesso con loro, so che ci hai almeno pomiciato… anzi, alla festa di Halloween ci hai fatto più di una innocente pomiciata!”

“Quella è stata la notte in cui ho scoperto e perso leggermente la presa sul controllo mentale. Mi hanno accolto a casa di Lorie mezze nude e mi è venuta sete. Sì, Roman, sete del loro sangue. Ho desiderato ardentemente che si offrissero a me. In un certo senso, lo hanno fatto. Ma non mi sono spinto troppo in là, tranquillo.”

“Non erano consenzienti!” sbottò scandalizzato.

“Non ho fatto niente! A parte sfinirle di orgasmi mentre mi nutrivo di loro, s’intende. È stato uno scambio equo, a mio parere. E poi ho tenuto i vestiti addosso tutto il tempo e non mi sono fatto toccare dove non batte il sole.”

“Ti sei nutrito di loro?”

“Un po’.”

“Ecco perché puzzavi di sangue fresco…” 

“Il loro sangue mi ha rinvigorito, rafforzando anche i miei poteri e il controllo che ho su di essi. Comunque, eccetto per bere da loro, non ho mai fatto del male a nessuna delle ragazze. A dirla tutta, è quasi un mese che non tocco una goccia del loro sangue. E non è che prima fossi tutti i giorni a prosciugarle. Bevevo solo qualche sorso, il tanto per restare in forze. Mi duole ammetterlo, ma la razione che mi fornisce Deirdre non è più sufficiente. Allo stesso tempo, non voglio chiedergliene di più, perché rischierei di compromettere la sua salute. Perciò ho dovuto cercare altre fonti. Più fonti ho, meno sangue prendo da ciascuna di esse.” al vedere Roman scuotere con veemenza la testa, sospirò, “Sono mezzo vampiro, Roman. Il sangue mi serve per sopravvivere. Come tu mangi coniglietti e cerbiattini, io bevo sangue umano. È la mia natura. Per fortuna, la mia parte umana attutisce di molto il bisogno di sangue, tanto che per conservare le energie ne bevo meno della metà della dose di un vampiro normale.”

“Regan, capisco quello che dici, davvero, ma non giustifica il fatto che ti sei approfittato di loro. È stupro, anche se di genere diverso.”

“Voglio vivere, Roman.” sibilò con voce fredda e dura, “E l’unico modo che ho per farlo è bere sangue umano, che ti piaccia o no. Se mi nutrissi di una singola persona, finirei per prosciugarla e ucciderla. Credimi, so di cosa parlo.”

Al che, Roman ammutolì, mentre il suo cervello immagazzinava e processava quell’informazione. Quando fu certo di aver compreso bene, esalò un sospiro e chiuse gli occhi. Si concentrò sul battito cardiaco di Regan, rimasto regolare per tutto il tempo, e sul suo odore familiare, venato di stanchezza, frustrazione e quello che Roman interpretò come un appena accennato senso di colpa. Quando riaprì gli occhi, lo soppesò con lo sguardo e gli pose la domanda.

“Chi hai ucciso, Regan?”

“Un’infermiera. Avevo tredici anni. È successo poco dopo il mio Risveglio. Fuggii dalla soffitta dove Deirdre mi aveva incatenato e andai a caccia. L’odore di sangue era più forte intorno all’ospedale, così mi ci diressi. Trovai lei. Zoe. Le raccontai una balla per farmi portare a casa sua e lei abboccò. Mentre dormiva, l’attaccai. Avevo sete, così tanta sete… realizzai cosa avevo fatto quando il mio stomaco fu finalmente pieno. Deirdre mi aiutò ad occultare il corpo. Lo bruciammo nel forno crematorio, giù nel seminterrato.”

Roman annuì a labbra strette e inspirò a fondo: “Grazie per avermelo detto. E sappi che mi dispiace che sia capitato a te.”

“Capitato?” domandò confuso Regan.

“Sì. Queste cose capitano a quelli come noi. I mostri.”

“Parli per esperienza?” indagò esitante, in un sussurro.

“Non ho mai ucciso nessuno, no, ma non mi illudo di restare innocente ancora per molto. Mio padre, mia madre, mio fratello e i miei zii, invece, hanno già le mani macchiate di sangue. In particolare mio zio Sean.”

“Che cosa ha fatto?”

“Era un lupo mannaro da appena un paio di lune quando perse il controllo. Fuggì dalla cella in cui Ruby lo aveva rinchiuso, corse per la città finché non si stancò. Vide una casa, fiutò gli umani. Uccise un’intera famiglia: genitori, nonni e tre bambini. Li massacrò senza pietà. Non era cosciente di quello che faceva. All’alba tornò in sé e ululò disperato. Lo trovammo al centro dei cadaveri dilaniati, intento a lacerarsi la pelle con gli artigli cercando di suicidarsi. Ruby lo fermò. Da allora, Sean è cambiato drasticamente: ha smesso di ridere, ha lavorato ancora più sodo sul controllo, si è dato da fare più di tutti gli altri messi insieme per essere un buon lupo, una risorsa indispensabile per il branco. Il senso di colpa è la sua ancora alla parte umana. Da quella notte, non ha più perso il controllo, neanche per un secondo.”

Roman sospirò, mentre i ricordi svanivano di nuovo nella nebbia e gli occhi rimettevano a fuoco il presente. Sbatté le palpebre e strusciò i palmi delle mani tra loro.

“La maggior parte delle creature soprannaturali sono predatrici. È la nostra natura. Col tempo, abbiamo imparato a non biasimarci per questi incidenti, prendendoli invece come le lezioni di vita che sono. E, da quanto mi hai detto, è proprio quello che hai fatto tu: hai imparato la lezione.” Si massaggiò le palpebre ed esalò un lungo respiro, “Non sono arrabbiato con te per esserti nutrito delle ragazze, comprendo le tue esigenze. Sono arrabbiato perché hai usato il controllo mentale. È una violazione della volontà simile allo stupro, Regan.”

“Oh, avresti voluto che glielo chiedessi gentilmente? ‘Ciao, Lorie, potresti lasciarmi bere il tuo sangue? Sai, sono mezzo vampiro e mi è venuta un po’ di sete’.” disse sarcastico.

Roman sbuffò: “Va bene, fa’ come vuoi. Non sono tuo padre, né il tuo alfa, non posso dirti cosa fare. Ti suggerisco soltanto di non cadere preda del delirio di onnipotenza. Controllare le menti può fare questo effetto.”

“Parli di nuovo per esperienza personale?”

“No, ho solo visto un sacco di film. Tutti i personaggi che abusano del controllo mentale sono degli stronzi psicopatici.”

“Chiamami Regan.”

“Non sto scherzando!”

“Nemmeno io. Informazione segreta numero… a che numero siamo?”

“Ehm… ho perso il conto.”

“Va beh. Dunque, come sai, sono andato in Ohio la scorsa settimana. Sono sì andato a parlare con un rabbino, ma il motivo principale per cui sono partito era per conoscere la famiglia di mia madre, la congrega. Per fartela breve, ho imparato a far germogliare i fiori a velocità supersonica, a trovare oggetti nascosti con i cristalli e a manipolare il fuoco, per poi venire pugnalato alle spalle e diventare il bersaglio di un tentativo fallito di omicidio. Sono scampato alla morte, come puoi vedere, ma la maggior parte della congrega è perita in un incendio. Ho perso la mia vera nonna e mio zio tra le fiamme.”

Roman boccheggiò scioccato: “Oh, merda. Regan, mi dispiace…”

“Risparmia le condoglianze. Sono stato io ad appiccare l’incendio.”

“Cosa…?”

“Li volevo tutti morti. Tranne mia nonna e un’altra strega adolescente, il loro è stato un tragico incidente.” snocciolò con voce distaccata, imponendosi di ignorare la fitta gli attorcigliò lo stomaco.

Fu difficile mantenere il contegno. Guardò con cautela l’espressione di Roman passare da incredula ad atterrita nell’arco di pochi istanti. Il proprio cuore martellava nel petto, le mani sudate stringevano spasmodicamente la stoffa dei pantaloni della tuta e l’ansia gli annodava le viscere.

Roman era pallido come un cadavere. Anzi, il suo colorito stava virando verso il verdognolo. Gli artigli erano spuntati fuori e li aveva conficcati nelle cosce. L’azzurro delle iridi stava iniziando a tingersi di giallo con sempre più frequenza.

La reazione del licantropo rafforzò la decisione di Regan di tacere sulla sua presunta natura demoniaca. Tuttavia, una parte di sé lo spinse a fare una cosa che il suo lato razionale disapprovava.

“Sei ancora convinto di volermi come alfa? Non ti biasimerò se ci ripensi.”

Roman aprì e chiuse la bocca un paio di volte prima di mormorare un incerto “Mi stai offrendo una via d’uscita?”.

“Sì. Come ho detto prima, non ti costringerò a fare nulla che tu non voglia. Se sceglierai me, lo farai sapendo chi sono e di cosa sono capace.”

Roman rimase in silenzio per qualche secondo, assorto nei suoi pensieri. Ricapitolò tutte le informazioni ricevute e le catalogò in ordine di importanza. Ce n’era una che non gli dava pace, un tarlo molesto che si era intrufolato nella sua coscienza e non lo lasciava andare. Prima era rimasto zitto, ma adesso aveva bisogno di sapere.

“Hai mai usato il controllo mentale su di me?”

“No.”

“Perché non ne sei in grado o perché non hai mai voluto?”

“Ammetto di aver tentato, all’inizio. Ma non funziona sulle altre creature soprannaturali, a quanto pare. Non ha funzionato né su di te né sui cacciatori. Invece, le streghe non sono immuni come pensavo. Ma sono umane, in fondo, quindi riesco a spiegarmelo.”

“Ci hai provato. Lo avresti fatto. Mi avresti strappato il libero arbitrio.”

Regan ignorò la sua faccia devastata e rispose con sincerità: “Non ti conoscevo ancora bene e non mi fidavo di te. Adesso è diverso. Non lo farei mai.”

“Su chi lo hai usato, a parte le ragazze e i giocatori di football?”

“Charlotte, Jennifer, Zack… tutti i popolari.”

“Deirdre?”

“No, mai. Mi fido ciecamente di lei. È la mia famiglia.”

“Io sono la tua famiglia, ora?”

“Se mi vuoi ancora come alfa, allora sì. Sei la mia famiglia. Io proteggo e mi prendo cura delle persone a cui tengo. È il mio principio base, la mia ancora. Per la mia famiglia morirei.”

Roman deglutì. Un po’ di colore gli tornò sulle guance, ma il suo sguardo rimase stralunato, lontano.

“Okay. Mi sa che mi occorrerà del tempo per digerire tutto ciò che mi hai detto, ma… sei il mio alfa, Regan. Non sei perfetto, le nostre nature sono incompatibili, a volte mi fai paura, ma sento che sto facendo la scelta giusta. Non so come spiegarlo, è una sensazione. L’importante è che tu mantenga la tua promessa: rispetterai la mia volontà, anche se andrà contro la tua.”

“Lo farò.” giurò Regan.

“Bene. Okay. Fiuuu… sono esausto.” scherzò.

“Oh, aspetta, non è finita.”

“Che altro c’è?” grugnì esasperato il lupo, levando gli occhi al cielo.

“Il demone che dobbiamo combattere ha posseduto una Gorgone. La Gorgone è Steno, conosciuta ad Ashwood Port come Petra Sthenos, la direttrice della Fondazione.”

Roman aprì e richiuse la bocca più volte prima di rantolare un flebile “Figo” e ammutolire di nuovo.

“Bene, ora andiamo al sodo. Il piano è questo: ci intrufoleremo nella Fondazione per trovare il portale, cioè il punto di accesso, che il demone ha usato per arrivare nella nostra dimensione e, dopo averlo preso, prepareremo il rituale di esorcismo, per il quale occorrerà un sacerdote e alcuni ingredienti. Oh, e il classico pentacolo disegnato sul pavimento per intrappolare il demone.”

Roman alzò timidamente la mano.

“Sì?”

“Cos’è il portale?”

“Non lo so.” ammise Regan, “La mia unica speranza è che lo capirò non appena lo vedrò. Se questo non accadrà, immagino che ci vorrà più tempo del previsto per scandagliare tutti gli oggetti contenuti nella Fondazione. Prossima domanda.”

“Come scoviamo un sacerdote disposto a compiere un esorcismo? Dubito che il pastore Higgins accetterà.”

“Non è detto che debba essere un pastore. Se la teoria dello Shedim è esatta, ci servirà un rabbino.”

“Perciò dobbiamo prima scoprire di che tipo di demone si tratta.”

“Sì. Ma dopo aver recuperato il portale. Se ce lo prendiamo noi, saremo in vantaggio. E magari ci fornirà qualche indizio.”

“Sarà ben protetto.”

“Può darsi. Prossima domanda.”

“Luogo dell’esorcismo? Serve compierlo in una chiesa, o in un cimitero?”

“Stando a quanto ho letto, no, può essere un posto qualunque. La prossima.”

“Perché ha scelto quelle particolari vittime?”

“Avevano subito una perdita sette giorni prima della loro scomparsa.”

“Non mi torna, Regan. Senza offesa. Se fosse così, il demone avrebbe dovuto prendere anche le loro famiglie. Rupert Gullon non ne aveva una, ma tutti gli altri sì. Senza contare che ha attaccato anche te, me e Jennifer.”

“Non credo che avesse intenzione di prenderci.”

“Ah, no?”

“Non corrispondiamo al profilo. Nessun lutto, nessuno di noi ha mai visitato la Fondazione. La mia migliore ipotesi è che gli attacchi contro me, te e Jennifer siano stati una provocazione. Ha attaccato me per dirmi ‘hey, sveglia, io sono qui, vuoi giocare?’, poi ha attaccato voi o per ripicca, perché me ne sono andato ad Athens di punto in bianco, o per richiamarmi ad Ashwood Port, o entrambe. Sapeva che mi avresti messo al corrente, sei il mio migliore amico. Questa ipotesi trova ancora più conferma se pensi che in quella settimana non ha mietuto vittime. Credo che abbia pensato qualcosa del tipo ‘se lui non c’è, che senso ha?’. Oppure mi sto montando la testa. Magari la mia presenza non c’entra niente e si è solo preso un breve periodo di vacanza.”

“Mmm… stranamente, la tua teoria suona plausibile. Sin dall’inizio, è stato ovvio che ce l’avesse con te per qualche motivo. Comunque, come mai ha preso solo quelle persone e ha risparmiato le loro famiglie?”

“Deve essere accaduto qualcosa che li ha resi un bersaglio.”

“Forse è successo alla Fondazione. Se Petra Sthenos è posseduta dal demone, quella è la sua tana.”

“Tutte le vittime sono andate a visitare la mostra, ergo le risposte sono lì.”

“Quando pensi di farci un salto?”

“Prima è, meglio è.”

“La luna piena è tra una settimana. Aspettiamo che passi?”

“No. Facciamolo venerdì notte.”

“Okay. E con Derek cosa vuoi fare? Portiamo anche lui?”

“Assolutamente no! Nessuno dei cacciatori deve sapere cosa abbiamo in mente.”

“Come mai? Cioè, non che non sia d’accordo, ma non capisco.”

“Il mio vero piano è usare la Gorgone per ucciderli tutti, anche se devo ancora elaborare i dettagli.”

“Oh. Furbo.” considerò Roman, impressionato, “Così faresti ricadere la colpa su di lei e tu ne usciresti con le mani pulite. Se qualcuno di loro dovesse sopravvivere o qualcun altro dovesse mettersi a indagare, sarà Miss Sthenos a venire cacciata.”

“Esatto.”

“Hai piani di riserva nel caso qualcosa dovesse andare storto?”

“Sì, non preoccuparti.”

“Ti va di dirmeli?”

“Non ora, devo mostrarti delle cose.” afferrò diversi plichi di fogli dal pavimento e glieli porse uno alla volta, “Questi sono alcuni dei rituali di esorcismo che mi sembrano più attuabili. Gradirei il tuo input.”

Discussero dei rituali finché Deirdre non li chiamò a tavola. La cena trascorse tranquilla, tra chiacchiere superficiali e qualche battuta a sfondo canino in onore di Roman, che le incassò tutte con classe. Deirdre propose di mettere agli atti che Roman era il suo preferito tra i nuovi amici del nipote. Verso le otto Roman salutò e montò in macchina per tornarsene a casa.

Regan aiutò la nonna a sparecchiare e lavare i piatti, poi andò a farsi una doccia e si preparò per andare a dormire. Non aveva ancora aggiornato Deirdre riguardo agli ultimi sviluppi nel rapporto tra lui e Roman, ma solo perché era stanchissimo. Lo avrebbe fatto l’indomani con calma, sperando che non le venisse un infarto. L’unica cosa su cui avrebbe mantenuto il silenzio era la retata alla Fondazione Sthenos di venerdì. Per un trenta percento non voleva farla preoccupare, per il restante settanta semplicemente non aveva voglia di sentirsi ordinare di rimanere a casa.

Prima di andare a letto, fece ordine sul pavimento, finì di scrivere un saggio per Letteratura e ripassò Biologia per il test del giorno seguente. Due ore dopo, si infilò sotto le coperte con un sospiro. Cercò la posizione giusta e chiuse gli occhi. Il sonno lo ghermì in pochi minuti.


 
Accostò la bottiglia di whiskey alle labbra e bevve un lungo sorso. L’alcool gli bruciò la gola e un formicolio simile a fuoco liquido raggiunse le estremità intirizzite dal freddo, dandogli un temporaneo sollievo.

Le luci del molo erano sfocate, piccoli aloni giallognoli disseminati lungo il percorso verso la sua barca come fuochi fatui. Le voci roboanti e roche di altri marinai riempivano il silenzio, seppur attutite dalle mura dei pub che incorniciavano la strada. Udiva anche della musica in sottofondo, un pezzo country diffuso sicuramente dal vecchio jukebox piazzato in un angolo del Martha’s Pitcher.

Se non fosse stato per il lutto che gli gravava sulle spalle, si sarebbe unito volentieri a loro. Passare il tempo in compagnia davanti a un boccale di birra, circondato da calore, risate e battute ridicole, di solito era un toccasana per la sua anima, nonché un modo per ammazzare le interminabili ore che era costretto a trascorrere sulla terra ferma. Ma non poteva. Non era più degno di ricevere sorrisi e pacche sulle spalle, non dopo quello che aveva fatto.

La bandiera rossa era ancora alzata dopo due settimane e nessuno sapeva quando sarebbe stata tirata giù. Il mare ruggiva in un’imitazione più selvaggia di quanto stava accadendo nel cielo, le onde si alzavano fin sopra la testa quando meno te lo aspettavi e le correnti erano così forti da strappare le reti. Quello era uno dei pochi momenti in cui ringraziava la globalizzazione. Se Ashwood Port avesse vissuto solo di pesca, sarebbero già morti tutti di fame. Dio benedica gli hamburger.

Abbracciò la bottiglia e barcollò con passo malfermo sulla banchina. La sua barca, la sua casa, distava solo una decina di metri. Non vedeva l’ora di trovare riparo dal freddo pungente e scolarsi il suo fedele amico alcool fino a ottenebrarsi la mente e cadere svenuto.

Salì piano le scalette di ferro attaccate al fianco della barca e si issò faticosamente sul ponte. Venne distratto dalla nuvoletta di vapore in cui si condensò il suo respiro, così non vide la fune arrotolata ai suoi piedi. Ci inciampò sopra e andò giù con uno squittio, finendo a gambe all’aria. La bottiglia rotolò lontano, svuotandosi quasi del tutto.

Imprecò e mise il broncio, ma non compì alcuno sforzo per alzarsi. Rimase a fissare il cielo nero e a farsi schiaffeggiare dal vento gelido che soffiava da nord. Il berretto di lana calcato sulla testa e il piumino non erano abbastanza per proteggerlo dalle temperature invernali, ma per fortuna l’alcool stava sortendo il suo effetto: tutto il corpo era intorpidito, il cervello leggero. Per un attimo dimenticò cosa fosse la morsa che gli stritolava il cuore. Grugnì e si girò su un fianco, lo sguardo vacuo puntato sulla bottiglia. Troppo lontana. Sbuffò e chiuse gli occhi.

Quella settimana era stata un vero incubo, e l’unico che poteva incolpare era se stesso. Se avesse dato ascolto a suo fratello, da sempre la voce della ragione… se non fosse nato così testardo, impulsivo, Darren sarebbe stato ancora vivo.

Darren, il suo fratellino. Più giovane di cinque anni, ma molto più maturo di lui. Sposato, padre, amico di tutti. Non come lui, un fallito lupo solitario che rovinava tutto ciò che toccava. Il loro vecchio glielo aveva ripetuto spesso sin da quando era bambino.

“Jackson,” gli diceva, “sei un cocciuto buono a nulla! Se non sapessi per certo che condividiamo il sangue, dubiterei che tu sia mio figlio. Guarda tuo fratello. È più piccolo di te, ma sembra già un ometto. È intelligente, quello scricciolo. Perché non prendi esempio da lui e ti dai una sistemata? Dio, ogni volta che ti guardo mi sale la delusione. Se solo ripenso a tutte le volte che ho dovuto tirare fuori il tuo culo dal fango…”

Per anni era stato la pecora nera, l’imbarazzo della sua famiglia. Sembrava non azzeccarne mai una. E quando il vecchio era morto, Darren aveva preso il suo posto, prendendosi cura del fratello maggiore come farebbe un vero padre. Senza cinghiate, senza urla o schiaffi, solo parole ben ponderate e prive di fronzoli.

Poi, come succede a ogni eroe delle favole, Darren aveva conosciuto una ragazza, si era innamorato e l’aveva sposata. Un anno dopo avevano già due gemellini schiamazzanti a correre per tutta la casa.

Ricordava bene come, fino a una settimana prima, Mercer lo accoglieva sempre con un sorriso e un bacio sulla guancia quando si fermava da loro per salutare i nipotini, prendere bonariamente in giro Darren e scroccare un pasto. Quella donna era un angelo incarnato. Lei e Darren erano la coppia perfetta.

Ma da quando suo fratello era morto, Mercer aveva perso il sorriso. Non riusciva nemmeno a guardarlo negli occhi. E quando per caso le loro strade si incrociavano, trovava una scusa per girare i tacchi e andarsene.

Era accaduto anche quel pomeriggio. Li aveva seguiti in macchina, lei e i gemelli, come una silenziosa guardia del corpo. Sentiva che era suo dovere vegliare su di loro adesso che Darren non c’era più. Aveva promesso sulla sua tomba che avrebbe fatto di tutto per aiutarli. Così li aveva pedinati fino alla Fondazione Sthenos. Aveva parcheggiato, era sceso dall’auto ed era entrato.

Per minuti interi li aveva osservati da lontano, indeciso se mantenere le distanze o provare ancora ad avvicinarsi, nella speranza di strappare loro un sorriso o due. Gli mancavano i suoi nipotini. Gli mancava Mercer. Gli mancava terribilmente la sua famiglia. L’assenza di Darren in quel quadretto era come un buco nero che risucchiava tutti i colori.

Aveva atteso una mezzora, un sorriso amaro e intenerito ad arricciargli gli angoli della bocca. Non aveva mai distolto lo sguardo dal trio, disinteressato agli oggetti antichi e preziosi che gli sfilavano accanto mentre camminava. Poi, raccogliendo il coraggio a due mani, li aveva raggiunti.

Mercer si era irrigidita all’istante. Il suono della sua voce era capace di far defluire tutto il sangue dal suo viso tondo in un battito. Si era sentito malissimo, per sé e per lei, così aveva rivolto l’attenzione ai bambini, che lo avevano guardato con identici sorrisi sdentati.
L’interazione era durata cinque minuti al massimo. Era finita con Mercer che gli sibilava contro in preda al rancore, accusandolo di aver ucciso Darren. E lui non si era difeso, perché sapeva che era la verità. I ricordi erano vividi, come se fosse successo ieri.

Il mare era mosso, cavalloni giganti si innalzavano per metri simili a muraglie, il vento ululava e la pioggia torrenziale rendeva difficile vedere. Per questo né lui né Darren si erano accorti dell’onda enorme che si era gonfiata oltre il parapetto finché essa non si era abbattuta con violenza sul ponte, trascinando in acqua Darren prima che lui potesse afferrarlo. Si era tuffato, certo che lo aveva fatto, ma era stato troppo tardi. Darren era affogato quasi subito, sospinto giù dalle correnti.

Poche ore prima della sua dipartita, suo fratello aveva cercato di farlo ragionare, ma no, lui voleva salpare, andare a pesca, inalare a pieni polmoni il profumo dell’oceano. Al diavolo il tempo e Madre Natura. E Darren non lo avrebbe mai lasciato solo in quella tempesta. E lui lo sapeva. Sapeva che Darren lo avrebbe seguito. Sapeva che non era abbastanza forte per dirgli di no. Si era approfittato di quella buon’anima di suo fratello una volta di troppo, e ora ne pagava il prezzo.

Mercer era fuggita, lasciandolo imbambolato di fronte a un tavolo disseminato di eccentriche anticaglie. Un cartello appeso al muro riportava la scritta “Questi oggetti si possono toccare. Maneggiare con cura!”. Sul tavolo c’erano ninnoli vari, accompagnati dalla targhetta descrittiva.

Ne aveva presi un paio e se li era rigirati tra le dita, tanto per fare qualcosa, ma la sua mente era altrove, in mezzo al mare e all’infuriare della tempesta. L’occhio gli era caduto su un vassoio di monete scheggiate. Ne aveva afferrata una manciata con aria distratta, lasciandole ricadere una per una sulle altre che riempivano il vassoio. Dopo averle liberate dal giogo delle proprie dita, per ultima rimase una moneta grande quanto il suo palmo. Aveva delle incisioni strane, disposte in cerchi concentrici, e al centro c’era una mano stilizzata. L’aveva ributtata nel mucchio con uno sbuffo annoiato ed era uscito a passo strascicato, sforzandosi di digerire l’ennesima sconfitta.

Adesso, scrutando il cielo nero, ebbro e devastato dal lutto, non poté impedire a un singhiozzo di valicare la barriera dei denti. Si prese la testa fra le mani e pianse, emettendo versi che suo padre avrebbe definito patetici. Ma lui non c’era più, Darren non c’era più, Mercer non lo voleva più… non c’era nessuno lì con lui, per giudicarlo o offrirgli conforto, quindi al diavolo! Se voleva piangere, avrebbe pianto.

Dopo quelle che gli parvero ore, esausto sia nello spirito che nel corpo, si puntellò su ginocchia e gomiti e si tirò su. Un conato fu tutto l’avvertimento che gli servì per abbandonare del tutto l’idea di rimettersi in piedi. Così, gattonò con la grazia di un cucciolo ubriaco fino alla porta ed entrò sottocoperta.

Il calore lo avvolse subito, ma non era abbastanza forte da scaldargli anche il cuore. Si sentiva svuotato, annichilito. Perso. Avrebbe dovuto essere lui a morire, non Darren. L’onda avrebbe dovuto prendere lui.

Si trascinò verso la panca imbottita. Si aggrappò al tavolo e si issò quanto bastava per sdraiarsi a pancia in giù sui cuscini. L’olezzo di stantio e unto gli invase le narici. Non era chiaro se provenisse da lui o dalla panca. Non gli importava.

L’unica fonte di luce che rischiarava l’ambiente era una lampadina al neon posta sul ripiano che Darren era solito usare per aggiornare il suo diario di bordo e consultare le mappe delle correnti. La sua sagoma si delineò con estremo realismo nella sua mente: lo rivide seduto sullo sgabello, la schiena incurvata in avanti, i gomiti sul tavolo, la mano che impugnava la penna che si muoveva velocemente sulla pagina del diario, lo sguardo concentrato sulle parole che scriveva, con quella punta di serenità nelle iridi azzurre che gli aveva sempre invidiato.

Fu sul punto di chiamarlo quando l’illusione svanì. Sospirò afflitto e tirò su col naso.

La lampadina sfarfallò e si spense. Grugnì scocciato, troppo stanco per alzarsi e sostituirla con una nuova. Ma che senso aveva farlo ora, mentre si stava per addormentare?

Mugugnò parole indistinte e cercò una posizione comoda sulla panca. Sulla soglia del mondo onirico, un rumore lo disturbò. Esalò un altro grugnito, aggrottò le sopracciglia e si strinse di più nel giubbotto. Era così ubriaco che il pensiero di spogliarsi, o anche muovere un dito, era inconcepibile.

Dopo qualche secondo, il rumore si ripeté. Sembrava un… sibilo? Cosa poteva emettere un sibilo? Un tubo? Un serpente?

Socchiuse appena le palpebre per guardarsi intorno. La stanza era immersa nell’oscurità più fitta che avesse mai visto. Nemmeno le familiari luci del molo filtravano attraverso i vetri.

“Ma che diavolo…”

Non terminò mai la frase. Qualcosa gli circondò la gola e strinse così forte da bloccare le vie respiratorie. Boccheggiò spaventato. Si aggrappò a quello che pareva un braccio, ma avrebbe tranquillamente potuto essere un accalappiacani. Lo strattonò per liberarsi, ma l’alcool in circolo nelle sue vene gli aveva sottratto tutte le energie.

Stava soffocando. Il solo suono che sentiva era quel dannato sibilo, ora divenuto assordante.

Qualcosa lo spinse giù dalla panca e lo rivoltò supino.

L’ultima cosa che vide fu una figura piegata su di lui. Era nera e scheletrica, altissima, senza faccia. Poi il buio lo divorò.



 
Regan si svegliò di soprassalto col fiatone, gli occhi sbarrati nel vuoto e una mano avvolta attorno al collo, là dove percepiva ancora il fantasma della mano del demone. Il sogno, se di questo si era trattato, era stato il più vivido che avesse mai avuto. Aveva assistito agli eventi attraverso gli occhi di qualcun altro, un marinaio di nome Jackson; aveva provato le sue emozioni e udito i suoi pensieri come se fossero i propri.

Rabbrividì e cercò di regolarizzare il respiro. Poe lo scrutava dal fondo del letto con i suoi occhietti gialli.

“Tranquillo, era solo un incubo…” gracchiò, la voce resa roca dall’indolenzimento che avvertiva nell’area della gola, “Spero.”

Era stato parecchio inquietante. Se era una visione, era di sicuro la più agghiacciante che il demone gli avesse mai mandato. Pregò che lo fosse, perché stavolta aveva un nome. Poteva salvare questo Jackson. Quanti marinai ad Ashwood Port si chiamavano Jackson e avevano un fratello recentemente defunto di nome Darren?

Incamerò ossigeno con una lenta boccata e aspettò che i polmoni bruciassero prima di soffiarla fuori. Determinato ad andare in fondo a quella storia, decise che la prima cosa che avrebbe fatto l’indomani dopo le lezioni sarebbe stata scovare Jackson.

Si sdraiò di nuovo, si sotterrò nelle coperte e si riaddormentò in un baleno.
 
 




 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Couldn't hear your screams ***









 
Giovedì, spinto dall’impazienza, Regan decise di saltare le lezioni per andare al porto, perché non avrebbe resistito per ore in classe sapendo che il demone avrebbe presto colpito ancora. Non aveva mai mancato un giorno di scuola volontariamente, per di più senza dirlo Deirdre. Perciò, mentre la salutava dal vialetto, si sentì un po’ in colpa. Ma, riflettendoci, con tutte le bugie e i segreti, uno in più che differenza poteva fare?

Scrisse un messaggio a Roman e Derek dicendo che sarebbe rimasto a casa a studiare il rituale di esorcismo e che non voleva essere disturbato, a meno che non si trattasse di una questione di vita o di morte. Dopo aver ricevuto due messaggi di assenso, spense il cellulare e lo rimise in tasca.

Quando vi giunse, il porto era in pieno fermento, nonostante il brutto tempo. Il mercato del pesce pullulava di persone e i pescatori si tenevano impegnati alle proprie bancarelle o sulle barche, districando nodi nelle reti e dedicandosi a piccoli lavoretti di manutenzione generale.

Regan camminò a testa bassa lungo la banchina, in cerca del peschereccio che aveva visto nel suo sogno. Lo scovò dopo una decina di minuti. Il Pesce Ammiraglio era di medie dimensioni, con i fianchi dipinti di blu e la chiglia ricoperta di alghe. La scaletta che collegava la piattaforma al ponte contava otto scalini di metallo, che Regan salì senza esitare. Nessuno lo fermò o gli chiese cosa stesse facendo.

Appena poggiò i piedi sul ponte, si sentì pervadere da una sensazione strana. Fiutò l’odore dell’alcool e della disperazione. Sotto di essi, colse una vaga scia di puro terrore. Fu in quel momento che notò la bottiglia vuota vicino alla porta che conduceva sottocoperta. Giaceva sdraiata su un lato, stappata, e rollava avanti e indietro al ritmo delle correnti che scuotevano la barca. Poi puntò lo sguardo sulle funi arrotolate vicino ai suoi piedi: sembrava che qualcuno ci avesse lottato.

Deglutì il groppo d’ansia che gli si era formato in gola e avanzò verso l’entrata della cabina. Quando la sua mano sfiorò la maniglia, un’ondata di malessere gli provocò un conato. Fu difficile ricacciarlo giù. Prendendo ampi respiri di aria salmastra, aprì la porta e scivolò all’interno.

La stanza era immersa nella penombra. La luce del giorno filtrava a malapena dalle finestre. Di fronte ad esse c’era un tavolo, con sopra mappe e matite sparpagliate alla rinfusa. Regan vide anche un taccuino, lo stesso del suo sogno. Si avvicinò e lo prese. Sulla prima pagina c’era scritto il nome di Darren.

Il senso di euforia che provò nell’appurare di essere nel posto giusto durò una manciata di attimi, per poi venire sostituito dalla frustrazione. Il tanfo della paura lo investì non appena si accostò alla panca imbottita dove Jackson si era steso a riposare. Annusò il materiale e l’aria circostante, realizzando che l’odore che stava fiutando, alcool e disperazione, appartenevano all’uomo.

Allora comprese che era arrivato troppo tardi. Il sogno non era stato un sogno, ma una specie di raccapricciante reality show a cui aveva assistito in qualità di spettatore impotente. Non aveva idea di come avesse fatto a infilarsi nella mente di Jackson e a vivere i suoi ultimi istanti di vita attraverso i suoi occhi, ma era proprio ciò che era successo. Aveva anche visto i suoi ricordi, udito i suoi pensieri, sentito le sue emozioni.

Arretrò di un passo e strinse le mani a pugno. Ripercorse velocemente il sogno, o visione, dall’inizio alla fine. Si soffermò sui dettagli, per capire come mai il demone avesse scelto Jackson. Ma nessuna delle sue azioni, da quando aveva imboccato la strada verso il molo fino al peschereccio, era rilevante.

Rammentò che era stato alla Fondazione, guidato dal desiderio di parlare con la moglie del fratello. E lì cosa aveva fatto? Dopo essersene andato a zonzo tra i reperti, si era avvicinato alla donna e ai bambini, avevano discusso e, infine, lei se n’era andata, piantandolo in asso davanti a un tavolo con sopra… monete. Jackson aveva toccato delle monete. Erano state le sole cose con cui era venuto a contatto alla Fondazione.

Regan inspirò sonoramente. Percepì di essere giunto a una svolta. Non sapeva ancora bene come funzionava, ma era certo che una di quelle monete c’entrasse qualcosa. La gitarella che aveva in programma alla Fondazione assunse all’improvviso contorni più nitidi.

Abbandonò Il Pesce Ammiraglio di corsa, risalendo il mercato per tuffarsi di nuovo nel traffico cittadino. I piedi lo condussero a casa, mentre i pensieri volarono verso la Fondazione.

Poe si arrampicò su di lui nell’esatto istante in cui la porta si spalancò e si acciambellò sulle sue spalle facendo le fusa. Una musica allegra filtrava dalla fessura sotto la porta del seminterrato. Regan riconobbe la canzone, Why Me? dei Big Bad Voodoo Daddy, una delle sue preferite.

Per un attimo valutò l’idea di nascondersi in camera e riemergere nel pomeriggio, ma alla fine decise di scendere e dire a Deirdre cosa aveva fatto e perché. C’era solo una certa quantità di segreti che poteva tenere per sé, e aveva già raggiunto il limite.

La porta ruotò sui cardini con un cigolio. Regan oltrepassò la soglia in silenzio, accarezzando con due dita della mano libera, quella che non reggeva lo zaino, il pelo morbido di Poe, che non aveva ancora smesso di fare le fusa. Pareva un piccolo trattore. Scese lentamente le scale, svoltò a destra e raggiunse la stanza delle imbalsamazioni.

Deirdre era lì, occupata a rivestire il cadavere di un uomo anziano con abiti freschi di bucato. Il fantasma dell’uomo stazionava accanto al forno crematorio, lo sguardo fisso nel vuoto, abbigliato con una vestaglia da ospedale.

“Dove sei stato?” domandò la donna in tono neutro prima che lui potesse aprir bocca, senza distogliere gli occhi da ciò che stava facendo.

“Al porto. Il demone ha mietuto la settima vittima, un pescatore di nome Jackson.”

“Come lo sai?”

“L’ho sognato.” la scrutò incerto e tossicchiò nervoso, “Non sembri sorpresa di vedermi a casa a quest’ora.”

“La segreteria della scuola mi ha chiamata. Ho detto che eri malato.”

“Sei arrabbiata.”

“Ovvio che sono arrabbiata, ma non per il motivo che pensi. Non mi interessa che tu abbia saltato le lezioni: hai una media alta, puoi permettertelo. Sono arrabbiata perché mi hai mentito.”

Regan si morse un labbro con una smorfia colpevole e incassò la testa nelle spalle.

“Sono anche triste e confusa. Ho passato la mattina a chiedermi perché mai tu abbia sentito il bisogno di mentirmi, soprattutto su una cosa del genere. Sai che ti avrei coperto comunque, che ti avrei lasciato andare al porto a indagare se me lo avessi detto.”

Regan ingoiò il groppo che gli ostruiva la gola e avvertì gli occhi iniziare a frizzare.

“Mi dispiace.”

Deirdre finì di abbottonare la camicia del cadavere e lisciò le grinze della stoffa. Solo allora si voltò a fronteggiarlo. La sua espressione era colma di rancore e tristezza. Regan inspirò a fondo per resistere all’impulso di scoppiare in singhiozzi.

“Sei distante, negli ultimi tempi. Ancora di più da quando sei tornato da Athens. E le tue emozioni, le stesse che ti ho insegnato non a reprimere, ma a bandire, stanno riaffiorando. Le vedo riflesse sul tuo viso d'angelo come putride macchie infette, disgustose. Ed è grazie a loro che so che c’è qualcosa che non mi stai dicendo. Che non vuoi dirmi.”

“Molte cose, in realtà.” gracchiò Regan, sentendo i muscoli contrarsi in spasmi e il respiro accorciarsi.

Deirdre sospirò afflitta. Le sue spalle si afflosciarono, come se un grande peso le fosse piombato addosso. Si avvicinò a lui lentamente e sollevò una mano per posarla con delicatezza sulla sua guancia. Non si ritrasse al contatto con la pelle fredda, anzi, appiattì il palmo e la scaldò col calore che esso emanava.

“Il nostro rapporto funziona perché tra di noi non ci sono segreti, Regan. Perché ci accettiamo l’un l’altra per come siamo, difetti inclusi. Siamo una famiglia. Non ti ho forse sempre protetto? Non ti ho sempre ascoltato quando avevi dei problemi? Non ti sono sempre rimasta vicina, sia nei momenti belli che in quelli più brutti della tua vita? E ora, invece, vengo a sapere che mi hai tenuto nascoste ‘molte cose’. Non ti fidi più di me?”

Regan scosse il capo per negare. Certo che si fidava di lei. Ma Deirdre fraintese. Tolse la mano e indietreggiò di mezzo passo. Regan represse un guaito alla perdita di contatto e calore.

“Lo so di aver sbagliato.” mormorò Deirdre, “So che l’informazione che ti ho nascosto, quella su tua madre e la congrega Morgan, ti ha ferito. Ma ti ho anche spiegato i motivi per cui ho deciso di tacere. Non voglio pensare che la mia scelta sia la causa della tua perdita di fiducia in me. Sai che ti voglio bene, e sempre te ne vorrò. E non ho altri segreti da rivelarti, nessun altro scheletro nell’armadio. Ma che mi dici di te? Ti piace avere segreti? Ti piace averne con me?”

“No…” rantolò con voce rotta, lo sguardo basso e le spalle rigide.

Deirdre prese il gatto e lo depositò sul tavolo di metallo alla sua sinistra. Dopo aver spento la radio, tornò dal nipote e gli strinse i bicipiti tra le mani, studiando con attenzione la sua faccia.

“Uno di quei segreti riguarda per caso l’incendio a villa Morgan?” indagò pacata.

Il sussulto di Regan, lo sgranarsi dei suoi occhi e il pallore spettrale del suo incarnato furono la risposta che le serviva. Serrò le labbra e chiuse gli occhi. Trasse un profondo respiro per calmare il battito frenetico del suo cuore. Le mani sciolsero la presa e cominciarono ad accarezzare le braccia di Regan, in un gesto automatico di conforto.

“Sei stato tu?”

Dopo un secondo di esitazione, il ragazzo annuì.

“Perché?”

“Hanno tentato di uccidermi.”

“Legittima difesa, dunque.”

“Più o meno…”

“Che intendi?”

“Mi è…” deglutì, inspirò ed espirò, “Mi è piaciuto.”

Il moto delle mani di Deirdre si interruppe. Risalirono su, verso le spalle, tracciarono il profilo del collo e ripresero posizione sulle guance di Regan. Una lieve pressione lo convinse ad alzare la testa e incrociare il suo sguardo, privo di alcuna traccia di disprezzo.

“Se ti è piaciuto come dici, allora perché stai piangendo?”

Un singhiozzo sfondò la barriera dei denti e riecheggiò per la stanza.

“Avrei voluto non doverlo fare…” confessò, abbandonando ogni riserbo, e lasciò il proprio corpo libero di tremare, “Avrei voluto… che loro non… avrei voluto…”

“Cosa avresti voluto?” domandò Deirdre in un sussurro, pure lei con gli occhi lucidi.

“Che mi accettassero davvero. Che… che mi amassero. Ma loro- loro mi hanno tradito. Sheila mi ha tradito. Non volevo ucciderla. Non l’ho fatto. Ma l’ho fatto. C’era- c’era fuoco ovunque e- e io l’ho mandata in cucina. Il fuoco ha danneggiato i tubi del gas e… c’è stata un’esplosione. E Poppy, anche lei era con Sheila. Era stata gentile con me, non le avrei mai fatto del male, ma- ma le ho mandate in cucina e… e…”

Le sue ginocchia cedettero e cozzarono sul pavimento duro. Le sue braccia trovarono subito un’ancora nelle gambe di Deirdre e il suo viso elesse a nascondiglio le soffici pieghe del vestito rosa chiaro. Le spalle scosse da forti singulti, Regan si concesse di piangere. Affidò il suo dolore e tutto il suo smarrimento a sua nonna e rimise nelle sue mani il giudizio finale. Si stupì quando realizzò che non cercava comprensione o un modo per espiare i suoi peccati; desiderava solo che Deirdre lo punisse, che abbattesse su di lui un dolore fisico tanto forte da espellere quello che gli ruggiva nell’anima.

“Regan, il rimorso che provi significa che non ti è piaciuto. Forse hai sperimentato un breve delirio di onnipotenza nel togliere la vita a coloro che volevano farti del male, ma nel profondo non ti è piaciuto. Altrimenti, adesso non ti sentiresti così. Ho cercato di insegnarti a bandire le emozioni anche per evitare una situazione come questa, perché odio vederti soffrire. Ti guardo e mi si spezza il cuore, perché tu dovresti essere al di sopra di un simile dolore, degli affanni che caratterizzano l'esistenza di qualsiasi altro mortale. Eppure, eccoti qui, a piangere per vite che non si meritano le tue preziose lacrime. Provi rimorso, dici. Allora rispondi a una domanda: se potessi tornare indietro, lo rifaresti?”

“I-Io… non lo so, forse… forse solo una parte. Ucciderei solo Fiona. Lei lo meritava. Solo lei. Oppure...” si graffiò la cute e scosse la testa, emettendo versi a metà strada tra singhiozzi e risatine isteriche, “Sto mentendo. Ah ah! Sto mentendo! Lo rifarei. Tutto quanto. Non perché mi sia piaciuto, in realtà non ho provato niente mentre bruciavano, ma perché la loro morte era necessaria sia al completamento del mio piano che alla mia sopravvivenza.”

“Esatto. Ecco perché il senso di colpa è soltanto un immeritato peso di cui ti devi liberare. Hai fatto ciò che dovevi, fine della storia. Ma dimmi, chi è Fiona?”

“La Prima. Ha mandato lei i due vampiri ad ammazzare Shannon.”

Deirdre si coprì la bocca con la mano, fissando Regan dall’alto con aria scioccata. Riuscì a recuperare il controllo con estrema fatica.

“Okay. Ma perché non hai voluto parlarmi dell’incendio? Anche solo per… per sfogarti? Tenerti dentro tutta questa negatività, beh, guarda come ti ha ridotto.”

“Avevo paura.” ammise Regan e si arrampicò con lo sguardo sulla sua figura, fino a incatenare gli occhi ai suoi, “Temevo di perdere il tuo amore. Sono un assassino. Un mostro. Ho ucciso a sangue freddo. Chiunque nei tuoi panni mi caccerebbe via, mi ripudierebbe.”

Lei gli sorrise e cinse la sua faccia umida di lacrime con le mani: “Io non sono chiunque, Regan. Hai già dimenticato ciò che ho fatto per te? Ho o non ho coperto l’omicidio di quell’infermiera?”

“Non è la stessa cosa…” protestò debolmente Regan.

Deirdre sospirò e si inginocchiò sul pavimento freddo di fronte a lui.

“Ascoltami bene, leprotto. Quando ti ho adottato, sapevo che non eri come gli altri e non mi sono mai aspettata che tu lo diventassi. Sei speciale, lo sei sempre stato. Quando la tua parte vampira si è risvegliata, l’ho abbracciata insieme a te. Non ti ho abbandonato. Non l’ho fatto nemmeno quando hai ucciso l’infermiera. E sai perché non lo farò neanche adesso?” aspettò che Regan scuotesse il capo prima di proseguire, “Perché tu, Regan McLaughlin, sei mio. Mostro o meno, sei mio. Mio nipote. Mio figlio. La mia famiglia. O almeno l’unica famiglia che conta per me. Io ti ho scelto. Io ti ho voluto. E ti ho amato dal primo momento in cui ti ho tenuto tra le mie braccia. Potresti massacrare questa intera città, e io continuerei ad amarti. Non mi importa se sei un mostro. Mi importa soltanto che tu sappia di essere amato incondizionatamente, da me, una vecchia strega senza poteri buona solo a imbalsamare cadaveri. Mi importa che tu sappia che io ci sarò sempre per te. Qualunque sentiero imboccherai, sia esso della luce o delle tenebre, io rimarrò al tuo fianco a offrirti consigli, se li vorrai, e una spalla su cui piangere se ne avrai bisogno. Tutto il resto è insignificante cenere.”

Regan trattenne il fiato e boccheggiò. La guardò incredulo, incapace di processare le parole che aveva appena udito. Parole che lo avevano sia annientato che curato. Aveva sempre saputo di essere fortunato ad avere una come Deirdre e ora quella consapevolezza assumeva tutto un altro spessore. La donna che aveva davanti era perfetta. Se solo fosse stata quarant’anni più giovane, Regan l’avrebbe presa come compagna. Ma Deirdre non sarebbe mai stata la sua compagna, perché occupava già un posto molto più alto e importante: era la sua famiglia. E Regan sapeva che lo sarebbe rimasta fino al suo ultimo respiro.

“Nonna.”

“Dimmi.”

“Sono in parte demone.”

Deirdre si bloccò a fissarlo come se gli fosse cresciuta una seconda testa.

“Eh?”

“Mio padre, un tizio di nome Stefan Black… Fiona mi ha detto che era un demone.”

“Oh. Capisco.” disse con voce priva di inflessione.

“Sicura?”

“Suppongo che dovremo affrontare la questione, prima o poi, ma può aspettare. Hai altre gatte da pelare, al momento, non è così?”

“Hai ragione. A tal proposito, io e Roman ci intrufoleremo alla Fondazione domani notte, per trovare il portale da cui è uscito il demone. Credo si tratti di una moneta. L’ho vista nel mio sogno, quello sul pescatore.”

“Va bene. Promettimi solo di stare attento. Se avverti il pericolo, non fare l’eroe. Scappa e torna da me. Siamo intesi?”

“Okay. Lo prometto. Oh, c’è un’altra cosa…”

“Ti ascolto.”

“Nei mesi passati mi sono nutrito delle ragazze. Sai, le cheerleader. Alcune di loro.”

Deirdre serrò le labbra e assottigliò le palpebre: “Sanno cosa sei?”

“No. Ho usato il controllo mentale. Ho scoperto questa abilità intorno ad Halloween. Più mi nutro, più controllo ho su di esso. Grazie a quel potere, sono entrato nella cerchia dei popolari. E ho anche scoperto che più persone ho a disposizione per nutrirmi, meno sangue prendo da ognuna di loro. Non ho mai fatto del male alle ragazze, giuro. Le ho solo soggiogate in modo che non capissero cosa stavo facendo. Lo so che è sbagliato, davvero, ma le razioni che mi dai tu non sono più sufficienti a sostenermi. Non voglio chiederti più sangue, la tua salute ne risentirebbe, quindi non pensare nemmeno di offrirmelo. L’unica opzione che mi resta è, insomma, prenderlo altrove. Però smetterò, se tu me lo ordini.”

Deirdre rimase in silenzio per un minuto abbondante.

“Non ti ordinerò di smettere.” disse infine, “Vorrei solo che tu dirigessi la tua sete su bersagli meno innocenti.”

“Intendi… i criminali?”

“Non quelli dietro le sbarre, non avresti modo di arrivare a loro. Mi riferisco alle persone con una condotta non proprio esemplare che finora sono riuscite a evadere il mirino della polizia. Gli spacciatori, per esempio. O, in generale, le persone violente. I cacciatori sarebbero una preda perfetta…” gli scoccò un’occhiata obliqua, “Hai già provato con loro?”

“Con Derek, Gregory e Kevin. Il controllo mentale non funziona.”

“Uhm. E hai mai…” esitò e si schiarì la gola, “Lo hai mai usato su di me?”

“No. E mai lo farò.” dichiarò serio.

“Bene.”

“Andrò a caccia solo dei malviventi d’ora in poi, promesso.” le disse con un lieve sorriso, “Diventerò una specie di vigilante. Il Batman di Ashwood Port!”

“L’uomo pipistrello. Direi che è appropriato.” scherzò, “Adesso torniamo a noi. Voglio che prima di intraprendere la tua ‘missione’ di domani, mi presenti un piano d’azione dettagliato. E voglio che mi dici sempre dove sei e con chi, soprattutto di questi tempi. Quando le acque si calmeranno, ti ridarò la tua indipendenza. Fino ad allora, desidero essere informata di qualunque tua mossa.”

“Ricevuto.”

“Okay. C’è altro o abbiamo finito? Devo mettere il povero signor Finnegan nella bara.”

“No, è tutto. Perciò non… non mi punirai per quello che ho fatto? Sai, per i segreti, le bugie… l’omicidio di massa…”

“Hai ragione. Facciamo, mmm… niente dessert per un mese.”

Regan sbuffò una risata: “Dai, sono serio.”

“Anch’io. Regan, hai già realizzato i tuoi errori, e ti stai già punendo da solo. Non serve che io ci metta del mio.”

“Ma-”

“Niente ‘ma’. Sei maturo abbastanza per capire che ogni azione ha delle conseguenze. Promettimi solo che in futuro parlerai con me quando ti senti giù. E continua ad allenarti a bandire le emozioni. Se proprio non ci riesci, almeno impara a controllarle, a compartimentalizzare. Lo dico per il tuo bene, lo sai.” gli disse mentre si alzava e si spolverava il vestito, “Coraggio, aiutami col signor Finnegan, poi mangiamo qualcosa.”

“È già ora di pranzo?”

Dierdre guardò l’orologio a muro appeso sopra la porta: “Mezzogiorno e venti. Hai frignato per poco meno di due ore.”

“Un record.”

“No, il tuo record è stato quattro ore filate quando avevi cinque mesi. Le coliche non ti davano tregua, povero leprotto.”

Regan spinse la barella fino alla sala delle veglie, la posizionò accanto alla bara e, con l’aiuto di Deirdre, adagiarono il corpo all’interno. Dopo aver chiuso il coperchio, salirono di sopra e si sedettero in cucina a mangiare dei panini.

Regan le espose il piano per il rituale e discusse con lei alcuni passaggi. Deirdre approvò la sua idea di apportare delle modifiche, di modo che l’esorcismo funzionasse a dispetto della categoria e dell’origine del demone. Gli fornì pure qualche consiglio in merito agli ingredienti da usare.

“Per quanto riguarda il sacerdote, forse non sarà necessario chiamarlo.”

“Cioè?” domandò Regan.

“Tu sei in parte stregone, e ogni stregone è, nel senso più ampio del termine, un sacerdote. Attraverso incantesimi, rituali e la creazione di pozioni lo stregone rende omaggio alle forze superiori che governano il mondo.”

“Come un sacerdote.”

“Sì.”

“Figo. Ottimo, un problema in meno.”

“Lieta di essere d’aiuto.”

Approfittando della loro distrazione, Poe si sporse oltre il bordo del tavolo, una zampina protesa per rubare un’erba dall’odore invitante. Deirdre se ne accorse in tempo e gliela schiaffeggiò. Il gatto soffiò indispettito e, con la coda ritta, riuscendo in qualche modo ad apparire insieme offeso e padrone della situazione, fuggì in salotto per raggomitolarsi sul calorifero.

 
*

“Direi che siamo pronti.” dichiarò Regan, giocherellando con una piccola torcia.

Deirdre occhieggiò la sua espressione seria, quasi corrucciata, e strinse le labbra. Comprendeva la necessità di quella missione, ma non voleva dire che le piaceva. Troppe cose sarebbero potute andare storte, troppe variabili non erano ancora state vagliate.

Osservò Roman indossare il giubbotto e gli rivolse un sorriso mesto quando lui incrociò il suo sguardo. Deirdre gli era grata per la sua lealtà e disponibilità. Era chiaro come il sole che non avrebbe abbandonato Regan per nulla al mondo. La sua presenza smorzava un po’ della preoccupazione che le annodava lo stomaco. 

“Avete tutto il necessario?” chiese ai due ragazzi, che annuirono all’unisono, “Okay. Non mi resta che augurarvi buona fortuna. Promettetemi che farete attenzione.”

“Andrà tutto bene, vedrai.” la rassicurò Regan, avvicinandosi a lei per abbracciarla, “Saremo di ritorno tra un paio d’ore al massimo.”

“Vi aspetterò alzata. Non riuscirei comunque a dormire sapendo che vi stare recando spontaneamente nella tana del mostro.”

Regan le sorrise, dispiaciuto per lo stress che stava scaricando addosso. Intascò la torcia e fece cenno a Roman di seguirlo.

Deirdre richiuse la porta di casa dietro di loro e rimase a guardarli camminare lungo il vialetto dalla finestra del salotto, stritolando un lembo della tenda tra le dita. Poe saltò sul calorifero e si accucciò al suo fianco, cercando di consolarla con esitanti miagolii.

Le strade deserte erano illuminate dall’alone giallognolo dei lampioni. Siccome era da poco passata la mezzanotte, le finestre di molte case erano buie. Qua e là, simili a lucciole solitarie, alcune erano ancora rischiarate dalla luce di una lampada.

Vento gelido sferzava le loro guance, ma né Regan né Roman lo sentivano. Lungo il percorso, un paio di macchine sfrecciarono sull’asfalto, abbagliando le loro figure con i fari, ma nessuno si fermò a chiedere cosa stessero facendo due ragazzini fuori al freddo a quell’ora di notte.

Roman tuffò le mani nelle tasche dei jeans e diede un colpetto di gomito al braccio di Regan per richiamare la sua attenzione.

“Sei silenzioso.”

“Sono concentrato.”

“Puzzi di tensione. Mi stai facendo salire l’ansia.”

“Bene. Abbassare la guardia sarebbe un errore da principianti. Non stiamo andando a fare un’allegra scampagnata.”

“Lo so.” borbottò Roman, imbronciato, per poi inalare l’aria notturna a pieni polmoni, “Ripetimi che andrà tutto bene.”

“Andrà tutto bene. E se dovesse andar male, ti proteggerò con la mia vita.”

Il licantropo rabbrividì e scosse con veemenza il capo: “Non dirlo. Andrà bene. Ci copriremo le spalle a vicenda. Non siamo fragili umani.”

“Esatto. Tu hai artigli e zanne, io ho il fuoco. Ce la faremo.”

“Sarebbero di qualche utilità? Artigli e zanne, intendo.”

“Probabilmente no.” ammise Regan.

“Moriremo tutti.”

“Di pessimista ce n’è già uno nel nostro branco. Il posto è preso.”

“Tu non sei un pessimista, Regan, ma un pragmatico. Sei sempre pronto a tutto. Non ti butteresti mai giù da un dirupo senza un piano per uscirne vivo.”

“Allora fidati di me. Non moriremo stanotte.”

Roman lo scrutò in silenzio, poi sorrise. Si chinò per stampargli un veloce bacio sulla guancia e si tirò su ancor più velocemente, sfoggiando un leggero ghigno. Regan gli scoccò un’occhiataccia. Ma il lupo colse una punta di compiacimento nel suo odore, e questo tolse ogni credibilità alla sua espressione.

“Sono con te, alfa.”

I lineamenti di Regan si ammorbidirono. Distolse lo sguardo e lo puntò innanzi a sé, sulla sagoma imponente della Fondazione Sthenos.

Si fermarono dall’altro lato della strada per osservare l’edificio nella sua interezza. L’intonaco beige sembrava grigio visto da lì e le porte in legno massiccio somigliavano a inquietanti accessi verso una dimensione oscura. Le finestre erano occhi neri e impenetrabili, focalizzati su di loro come quelli rapaci degli avvoltoi, in attesa di vederli cadere nelle loro grinfie.

Roman deglutì: “Ultima chance per tirarsi indietro.”

“Ho già fatto la mia scelta.”

“Sicuro?”

“Sì. E tu?”

“So che me ne pentirò…”

Prima di scendere dal marciapiede, Regan si bloccò. Mordendosi il labbro inferiore, gli posò una mano su una spalla per invitarlo a ricambiare il suo sguardo e parlò con convinzione.

“Non sei costretto, Roman. Se vuoi, puoi restare qui a fare il palo.”

“Non ti lascerò andare là dentro da solo. Sto morendo di paura, lo confesso, ma abbandonarti nel momento del bisogno è una cosa che non farei mai. Sei il mio alfa. Significa che ti seguirò sino in capo al mondo. Lo farò anche se mi dovessi pisciare sotto a più riprese.”

Regan sbuffò una risata e gli assestò una pacca sulla schiena: “Spero che la tratterrai.”

“Ce la metterò tutta.”

“Sappi che, se ti verrà voglia di filartela con la coda tra le gambe, non ti biasimerò.”

“Non lo farò.”

Scivolarono verso la Fondazione sfoggiando disinvoltura, il passo cadenzato, le spalle rilassate e le facce cristallizzate in maschere imperscrutabili. Se qualcuno li avesse visti, con un po’ di fortuna e l’aiuto delle tenebre avrebbe pensato che fossero semplicemente due ragazzi che stavano tornando a casa, non due loschi figuri in procinto di compiere un’effrazione.

Giunti in prossimità dell’entrata, la ignorarono a favore della stretta stradina sulla destra, dove la luce dei lampioni non arrivava, e raggiunsero una delle finestre. Si acquattarono accanto a dei cespugli e si scambiarono un cenno affermativo.

“Pronto?” domandò Regan.

“Prontissimo.”

“Sei terrorizzato.”

“Tu no?”

“Solo un idiota non avrebbe paura.”

“Okay.” Roman deglutì, acuì l’udito per verificare che non ci fosse nessuno nei paraggi e mosse la testa verso la finestra, “Va’. Ti copro le spalle.”

“Pensavo che la regola fosse ‘prima le signore’.”

Il licantropo lo folgorò con uno sguardo.

Regan estrasse un paio di forcine dalla tasca dei pantaloni e iniziò ad armeggiare con la chiusura della finestra. Non appena udì lo scatto, rinfoderò le forcine e spalancò le ante. Scavalcò il davanzale con grazia felina e si accucciò sul pavimento, scandagliando i dintorni.

Il silenzio ammantava l’edificio, non un singolo suono sfiorò le sue orecchie. Il che era strano. Edifici vecchi come quello erano famosi per produrre sinistri scricchiolii, figli di fondamenta e tubature ormai datate.

Roman planò al suo fianco e accostò la finestra.

“Sei sicuro che si tratti di una moneta?”

“Sì e so dov’è.” mimò Regan con le labbra, per poi spronarlo a seguirlo.

Avanzarono a passi felpati, le orecchie tese a captare qualsiasi rumore sospetto. Uscirono nel corridoio, dove le ombre erano più fitte, ma le torce rimasero spente per una questione di sicurezza: chiunque avrebbe potuto cogliere il fascio di luce in movimento dalla strada e tutti sapevano che la Fondazione non aveva un guardiano di notte.

Regan fece strada attraverso le varie sale, stipate di teche di vetro con dentro reperti antichi. Al contrario di Roman, che studiò con cipiglio critico quelli che gli passavano accanto, Regan non aveva occhi che per il premio finale. Entrarono in una salettina contenente vasi e ciotole. Lì, a ridosso del muro sulla sinistra, Regan scorse il tavolo delle monete.

Ci si diresse spedito, Roman incollato alla sua schiena. Gli occhi del lupo erano gialli e rifulgevano come fari in contrasto con l’oscurità che li circondava.

Regan si chinò sul vassoio delle monete e vi puntò sopra la luce della torcia. Attento a non fare rumore, le toccò una ad una. Presto si rese conto che quella che stava cercando non era lì.

“Non c’è.” sussurrò allarmato.

“Come sarebbe a dire che non c’è?”

“Nella mia visione era qui, mischiata alle altre. Qualcuno deve averla rimossa.”

“Qualcuno o… qualcosa?”

Regan schioccò la lingua frustrato: “Non so dove possa essere. Dobbiamo setacciare ogni stanza.”

“Avevi detto ‘toccata e fuga’!”

“Non abbiamo alternative. Ci serve quella moneta.”

Roman si morse la lingua per trattenere un ringhio. Quando Regan si mosse, lo seguì a ruota senza obiettare, schiacciando in un angolo della coscienza il disagio che era strisciato nelle sue ossa.

Ispezionarono sia il primo che il secondo piano, ma non ebbero successo. La tensione che aleggiava su di loro non li stava aiutando a rimanere lucidi. E quel maledetto silenzio stava logorando i nervi di entrambi, tanto assordante che a stento udivano i rispettivi respiri.

“Non ci resta che il piano inferiore e il magazzino.” disse Regan.

“Come ti pare. Basta che ce la filiamo presto.” abbaiò Roman, pur mantenendo la voce poco più di un bisbiglio.

Regan si girò per lanciargli un’occhiata apprensiva: “Stai bene?”

“No. Questo posto mi fa venire i brividi.”

“Puoi andartene, se vuoi.”

Al quel punto, Roman emise un vero e proprio ringhio scocciato: “Ne abbiamo già parlato. Concentrati e trova questa cazzo di moneta.”

Regan annuì e riprese a camminare.

Giunti alla porta che conduceva agli uffici dello staff, la oltrepassarono e imboccarono le scale. Regan riaccese la torcia e la puntò sui gradini. Il buio era così denso che poteva quasi gustarlo sul palato. Scesero lentamente, i respiri corti per via dell’adrenalina.

Riemersero in una specie di scantinato. Non c’erano finestre laggiù, e il silenzio era ancora più opprimente. I due ragazzi deglutirono e si guardarono, scambiandosi un cenno di intesa. Proseguirono lungo il corridoio, affacciandosi oltre le porte che incontravano per controllare cosa ci fosse nelle stanze di cui erano guardiane. Non videro nulla di interessante.

Quando raggiunsero l’ultima porta in fondo al corridoio, si fermarono. Regan abbassò la maniglia, ma la porta rimase sigillata.

“È chiusa a chiave.”

“Usa le forcine.”

“Reggimi la torcia, puntala sulla serratura.”

Porse la torcia a Roman, si inginocchiò ed estrasse le forcine, mettendosi subito al lavoro.

I secondi passarono lenti, scanditi dai ticchettii provocati dalle forcine. Una goccia di sudore solcò la fronte di Regan, che l’asciugò con il polsino della felpa, senza accorgersi della stranezza dell’evento. Infatti, da quando si era risvegliato come vampiro aveva smesso di sudare; o meglio, accadeva quando era pericolosamente a secco di energie, per cui necessitava di almeno due bicchieri di sangue per rimettersi in sesto. Si umettò le labbra e le serrò in una linea retta.

“Ci sei?” chiese Roman.

“Quasi.”

All’improvviso, il lupo avvertì i peli sulla nuca rizzarsi e un formicolio gli attraversò la schiena. Si voltò di scatto, puntando la torcia sul corridoio, ma non vide altro che ombre.

“Roman!”

Si girò di nuovo e indirizzò il fascio di luce sulla serratura: “Sbrigati.”

In quel momento, la serratura emise un sonoro toc, che riecheggiò sulle pareti con la forza di un tuono. Regan si rialzò vittorioso e aprì la porta. All’interno scoprirono un ufficio ammobiliato in modo spartano. C’erano un tavolo, una sedia, una piccola libreria e i classici cassetti di metallo tipici degli archivi.

A Regan si mozzò il fiato quando individuò la moneta. Era adagiata sul tavolo, circondata da fascicoli e tazze trasformate in portapenne. Pochi centimetri sopra il tavolo, appeso al muro tramite un chiodo, c’era un calendario. La stampa che campeggiava sopra il mese di agosto ritraeva un paesaggio campestre illuminato da un sole accecante.

Cerca, trova il cerchio nascosto
Che giace nel buio sotto il sole d’agosto.

Si avvicinò cauto, un passo dopo l’altro, il cuore in gola. Protese una mano verso la moneta. Prima di afferrarla, esitò.

“Che stai facendo? Prendila e andiamocene.” lo esortò Roman in un sussurro concitato.

Regan ingoiò il groppo di ansia che gli ostruiva la gola e agguantò l’oggetto. Non percepì niente. Sembrava una semplice moneta. Fredda al tatto, ruvida là dove c’erano gli intarsi, ma tutto sommato normale.

Un fruscio li fece scattare sull’attenti.

Roman rivolse la luce della torcia sul corridoio buio e soffiò: “Lo hai sentito?”

“Andiamocene.”

Uscirono dall’ufficio richiudendosi dietro la porta e rifecero la strada al contrario, i sensi all’erta e i muscoli tesi fino allo spasmo.

Un movimento tra le ombre in fondo al corridoio li costrinse ad arrestarsi. Roman puntò la torcia innanzi a sé. Entrambi i ragazzi videro distintamente qualcosa muoversi per evitare il fascio di luce. Si impietrirono.

“Cos’era?” chiese Roman, la voce ridotta a un pigolio strozzato.

“Non lo so e non mi interessa. Al mio tre, corri verso le scale.”

Avendo l’attenzione puntata sulla sagoma indistinta in fondo al corridoio, Regan non registrò il movimento sopra la propria testa. Roman, invece, lo captò grazie all’istinto animale, ipervigile da quando erano entrati nell’edificio. Nel levare lo sguardo, un grido muto si arrampicò a razzo su per la sua gola e rimase incastrato lì.

La… cosa sul soffitto, che un tempo doveva essere una ragazza dai capelli neri, spalancò la bocca cucita nella grottesca imitazione di un urlo, la mandibola chiaramente dislocata per essere capace di aprirsi in quella maniera esagerata. Le orbite vuote erano fisse su di lui, due buchi neri scavati in una faccia cadaverica. Gli arti erano scheletrici, le ossa sporgenti esposte alla vista grazie alla sua nudità. Non aveva odore. Non respirava. Non faceva alcun rumore. Poteva benissimo trattarsi di un’allucinazione.

Roman fece appena in tempo a inspirare bruscamente prima di essere spinto via con violenza da Regan. La schiena cozzò contro il muro e un paio di vertebre scricchiolarono all’impatto. La torcia rotolò a terra con un frastuono simile a un tamburo di guerra.

Fu allora che si scatenò l’inferno.

Altri esseri, simili alla ragazza ma diversi nella statura e nel sesso, strisciarono giù dai muri e dal soffitto, gattonarono rapidi sul pavimento, come ragni, e convergerono verso Regan.

“Scappa!” urlò Regan.

L’ordine perentorio riverberò in ogni cellula del corpo del licantropo, spronandolo all’azione. Non ci fu modo di protestare, qualsiasi parola morì sulla lingua nell’esatto istante in cui il cervello interpretò il volere del suo alfa. Acciuffò la moneta che Regan lanciò verso di lui un momento prima che la mano di uno di quegli esseri la prendesse. Poi si voltò e corse verso le scale.

Nonostante il suo cuore e la sua mente gli gridassero di tornare indietro e lottare fianco a fianco, l’istinto del lupo era debole contro un ordine diretto di Regan. Le sue gambe lo condussero su per le scale, oltre la porta, attraverso le varie salette, in direzione della via d’uscita. La vista era appannata dalle lacrime, la trasformazione sobbolliva sotto la pelle. Udiva solo il ritmo del suo respiro e il martellare frenetico del cuore nel petto. La moneta era gelida nel suo palmo.

Non osò girarsi per vedere se lo stessero inseguendo. Continuò a correre a perdifiato finché non scorse la finestra da cui era entrato. Ci si gettò contro a tutta velocità, incurante del rumore o delle schegge di vetro che gli ferirono la faccia e gli avambracci. Atterrò sull’erba, si accucciò e piroettò su se stesso per fronteggiare la finestra. La sola cosa che scorse fu buio pesto.

Snudò le zanne e scandagliò con lo sguardo i dintorni. Un odore familiare gli stuzzicò le narici. Prima che potesse reagire, però, sentì la canna di una pistola venire premuta sulla propria nuca e il click della sicura che veniva rimossa.

Torse la testa di tre quarti per guardare dietro di sé. Lo sconcerto lo pervase quando si ritrovò faccia a faccia con Derek. L’espressione gelida del cacciatore lo pietrificò.

“Dov’è Regan?”

Roman scoccò un’occhiata alla finestra e riportò veloce lo sguardo su di lui, per non perdersi neanche un movimento.

“Perché non è con te?”

“Mossshtri. Ordinato… di… shcappare.” grugnì tra le zanne, faticando a riassumere il controllo del lupo.

A quelle parole, Derek si rianimò. Abbassò la pistola e, con un’agilità che poteva essere soltanto soprannaturale, compì un balzo per scavalcare il davanzale della finestra. Il buio lo inghiottì in un secondo.

Roman rimase impalato a scrutare con crescente angoscia il punto in cui la figura del cacciatore era sparita.

 
*

Regan ghermì per i capelli Joshua Pryce e lo scaraventò lontano dalle scale, per poi pararsi di fronte ad esse a mo’ di scudo. Un attimo dopo, Roman sfondò la porta e corse via, la moneta ben stretta nel pugno.

Regan non ebbe tempo di provare sollievo, perché Teresa Meyers avviluppò con braccia e gambe ossute il suo busto e gli artigliò la faccia. Si liberò e le sbatté il cranio sul muro. Si guardò intorno. Non mancava nessuno all’appello. Tutte e sette le persone scomparse erano lì, ridotte a grotteschi e inutili burattini. Il burattinaio doveva essere vicino.

Era chiaro che lo stessero aspettando. Regan non era caduto nella trappola come uno stupido, affatto, perché quella era una eventualità che, ad essere sincero, aveva etichettato come “altamente plausibile, se non direttamente certa”, benché non l’avesse esposta né a Roman né a Deirdre. Infatti, dal momento che sembrava condividere un qualche legame psichico con il demone, era ovvio che le sue mosse non lo avrebbero mai colto di sorpresa. Regan sarebbe rimasto sempre dieci passi indietro se non avesse imparato a rivoltare i pezzi della scacchiera a suo vantaggio.

Schivò l’assalto di Timothy Bruce piegandosi all’indietro all’ultimo secondo. Salì rapido qualche scalino, piroettò piantando i piedi sulla parete e si tuffò in avanti per colpire con una ginocchiata Rupert Gullon in pieno viso. Quello compì un volo di tre metri e atterrò con grazia sul pavimento. Regan lo vide distorcere i lineamenti in una smorfia raccapricciante, arrampicarsi sul muro senza esitare e strisciare sul soffitto per attaccarlo dall’alto. Questo mentre Evelyn Richardson e Lucy Hammond lo caricavano da destra e da sinistra.

Regan doveva ammettere che erano veloci e organizzati, oltre che più forti di quanto apparivano. Le poche volte che riuscivano ad afferrarlo e mandare un colpo a segno lo lasciavano sempre un po’ dolorante. Ma lui era molto più veloce, molto più letale, soprattutto quando le circostanze non gli imponevano di trattenersi.

Si scansò di lato, evitando per un pelo Evelyn. Afferrò un braccio di Lucy in una morsa d’acciaio che avrebbe rotto le ossa a chiunque, glielo torse e la scagliò lontano da sé. Si acquattò per darsi lo slancio e, prima che Rupert lo raggiungesse, fece una finta a destra. Saltò e gli sferrò un calcio nel plesso solare. La forza del colpo raddoppiò dal momento che Rupert si era gettato su di lui con altrettanta rapidità.

Regan frenò la caduta con una capriola e balzò di nuovo, atterrando sulla schiena di Teresa. Le cinse la testa con le mani e le spezzò il collo. Un rumore secco riverberò nel seminterrato. Lasciò la presa per occuparsi di Timothy, che stava strisciando verso di lui per sorprenderlo alle spalle. Lo bloccò con un pugno in faccia e un calcio nello stomaco. Nel mentre, torse il busto, le zanne snudate, e morse il polso di Joshua. Con le fauci ben assicurate alla carne dura e fredda, ruotò il capo e lo scaraventò contro un muro.

Approfittando di un momento di pausa, arretrò sulle scale. Lasciò che la magia fluisse libera nelle sue vene ed evocò il fuoco. Fiamme incandescenti ricoprirono le sue mani, risalirono le braccia e lo avvolsero da capo a piedi, senza rovinargli i vestiti.

Evelyn e Lucy, le più vicine, si rifugiarono nelle ombre; gli altri si tennero a distanza. Regan avrebbe potuto cogliere l’occasione, la via era libera, ma i suoi piedi rimasero fermamente incollati dove erano.

Un sibilo gli accarezzò le orecchie. Si voltò. Laggiù, in fondo al corridoio, di fronte all’ufficio in cui aveva trovato la moneta, si stagliava nitida la figura del demone. La sua testa era china, le spalle ingobbite per non battere contro il soffitto. Le gambe e le braccia erano stecchi neri e grinzosi.

Regan gli mostrò le zanne, avvertendo l’adrenalina scorrergli nelle vene. Il sibilo aumentò di volume. Regan ebbe l’impressione che migliaia di aghi gli stessero perforando i timpani. Stavolta, però, invece di raggomitolarsi in posizione fetale con le orecchie tappate, accolse il suono e lo usò come combustibile per il fuoco. Esso divampò con ferocia, scacciando via il buio e gli esseri che indossavano le facce delle persone scomparse. Notò che Teresa si era già rialzata come se nulla fosse successo, il collo torto in un angolo innaturale.

“Tutto qui? Sai soltanto sibilare?” lo sfidò.

Teresa si lanciò su di lui. Le fiamme l’aggredirono prontamente, ma le carni rimasero intatte. Non appena Regan se ne accorse, comprese il proprio errore. Digrignò i denti, agguantò Teresa per il collo e la mandò a sbattere con violenza sul muro opposto.

Non ebbe il tempo di valutare la prossima mossa, perché Rupert gli fu subito addosso, seguito a ruota da Evelyn e Timothy. Lucy gli artigliò una caviglia. Regan perse l’equilibrio e cadde di schiena sul duro cemento. Joshua gli salì sul torace.

Il fuoco non cessò un attimo di attaccare, incapace di accettare la propria futilità. Lingue incandescenti e impetuose lambirono quegli esseri, ma essi parevano non sentirle nemmeno.

A corto di altre idee, Regan decise di fare un tentativo e appellarsi all’unica persona che avrebbe potuto dare una svolta alla situazione. Sempre se non era in combutta con il demone.

“PETRA STHENOS!” ruggì mentre cercava di divincolarsi dalle grinfie dei suoi assalitori.

Il sibilo divenne assordante. Con la coda dell’occhio, Regan vide le sagome di decine di serpenti neri strisciare lungo soffitto, muri e pavimento verso di lui. Uno rizzò la testa a pochi centimetri dal suo polpaccio. Il fuoco si riflesse sulle squame del rettile come in uno specchio. Regan scalciò. Zanne aguzze baluginarono nel buio e, un secondo più tardi, infilzarono la carne, trapassando la stoffa dei jeans. Regan grugnì di dolore.

“Steno! Lo so che puoi sentirmi! Fermalo!”

A Regan occorse un po’ per realizzare che il sibilo che gli rimbombava nel cervello non era un sibilo. Si fermò per ascoltare meglio, incurante delle mani che lo immobilizzavano a terra, del demone che si avvicinava a passi lenti e del fuoco che andava pian piano esaurendosi assieme alla sua energia. Il demone torreggiò su di lui e protese una mano adunca verso la sua gola.

Regan chiuse gli occhi.

Li riaprì in quella che sembrava una minuscola cantina. Una lampadina dondolava sul soffitto. La timida luce giallognola, protetta da una sottile barriera di vetro, sfarfallò, emise un paio di ronzii e si spense.

Regan si issò sui gomiti e analizzò lo spazio circostante. Ci vedeva abbastanza bene a dispetto dell’oscurità. Su una parete c’erano degli anelli di ferro, a cui erano appese spesse catene che terminavano con altrettanto robuste manette. Il ferro, così come il pavimento e il muro, era macchiato di sangue. La parete opposta era coperta da degli scaffali di metallo, appesantiti da ciarpame di vario tipo. In alto a destra c’erano delle scalette di legno e una botola, mentre a sinistra, per terra, accanto a un tavolino di legno con sopra due sedie rovesciate, Regan notò vari scatoloni polverosi. Su uno di questi troneggiava il grammofono del suo sogno.

Un singhiozzo attirò la sua attenzione. In un angolo scorse una figura umana rannicchiata. Le curve del corpo lasciavano intendere che si trattasse di una donna. Un singulto scosse le sue spalle e un violento tremito le attraversò le membra.

“Steno?” la chiamò in un sussurro cauto e si mise seduto senza distogliere lo sguardo.

La donna rabbrividì e si spalmò ancora di più contro il muro. Alcuni singhiozzi ruppero il silenzio in rapida successione.

“Steno.”

Continuando a singhiozzare, lei sollevò la testa. Regan trattenne il fiato quando vide un viso dolce e pallido rigato di lacrime. I suoi occhi verde marcio, con le pupille verticali da rettile, erano gonfi e arrossati. La testa era calva, il cranio rotondo esposto alla vista. Sembrava emersa da un incubo.

Con voce roca e tremante, le labbra martoriate dai denti, Steno parlò: “Aiutami… ti prego…”

Regan tradusse le sue parole all’istante, benché fossero state pronunciate in una lingua che non sembrava affatto inglese. Ipotizzò che fosse greco, date le origini delle Gorgoni.

Steno si staccò dal muro. Appoggiò i palmi sul pavimento e avanzò di mezzo metro. Regan si accorse che il suo stomaco era incavato, la pelle sottile sulle costole sporgenti, quasi fosse denutrita. Le braccia cedettero e lei si accasciò con uno squittio. Biascicò una seconda volta la richiesta di aiuto.

“Come posso aiutarti, se non so cosa sta succedendo?” balbettò Regan in preda allo shock.

Realizzò in un secondo momento che nemmeno i suoni che uscivano dalla sua bocca somigliavano a quelli della sua madrelingua. Accantonò quel dettaglio e si concentrò sul presente. Non sapeva dove diavolo fosse finito, cosa fosse quella stanza, ma non era importante. Steno era lì, davanti a lui. Doveva approfittarne per accaparrarsi qualche risposta.

Di punto in bianco, il grido di Steno lo investì come un’onda d’urto. Regan strinse i denti e si tappò le orecchie quando un sibilo fortissimo gliele trafisse. Appena il suono si disperse, rialzò il capo e fissò la donna con occhi sbarrati.

“Cosa…?” boccheggiò sgomento e ricadde seduto con un tonfo, “Il sibilo… eri tu?”

“Aiutami…”

“Rispondi: eri tu? Il sibilo che sentivo, eri tu che urlavi?”

Steno annuì, nascose il viso tra le mani ed emise un lamento: “Ha p-preso i m-miei se-serpenti… ha preso… la mia… voce…”

“Conosci il suo nome?”

Lei gridò di nuovo. Regan, pur con le mani ben premute sulle orecchie, colse una sfumatura frustrata sotto lo spesso strato di disperazione di cui il sibilo era intriso.

“Non posso…” sussurrò quando si fu calmata.

“Perché?”

“Non vuole.”

“Okay. Va bene.” tentò di rassicurarla, ma l’ansia che emanava da ogni poro sottrasse credibilità alle sue parole, “Perché ce l’ha con me? Questo puoi dirmelo?”

“Tesssst.” sibilò, mentre la lingua biforcuta faceva capolino tra le labbra pallide.

“Test? Intendi, una prova? Mi sta mettendo alla prova?”

“Sì.”

“Perché?”

“Lo sai già. Lui sa che tu sai. Siccome lui lo sa, anche io lo so.”

Regan la scrutò in silenzio, la confusione scritta a chiare lettere in faccia.

“Tu sai perché.” reiterò Steno e sollevò la testa per guardarlo con occhi imploranti, “Volevo avvisarti…”

Regan rifletté velocemente: “Avvisarmi? Con le tue urla?”

“Lui mi usa. Fin dall’inizio, usa tutto di me.” gli disse tra i sibili, prostrata da una lotta interiore che la stava pian piano consumando, e cominciò a strisciare verso di lui, “Ma io riesco a usare lui, qualche volta. Lui se ne accorge sempre… trasforma il mio aiuto in inganno. Per tenerti lontano dalla verità. Ti ho detto dove trovare il portale…”

“La moneta? Tu mi hai detto…? La filastrocca! Eri tu? Come?”

“Io uso i suoi poteri per avvisarti. Lui mi scopre. Non ho ancora finito. Lui contorce la verità in menzogna, indovinelli ingannevoli. Posso solo aiutarti per qualche secondo.”

“Le visioni…”

Si astenne dal dirle che non si erano rivelate utili per niente. In fondo, aveva provato, poverina. La guardò macinare la distanza che li separava, la sua pancia e i seni strusciare sul cemento, i gomiti fare leva per trascinarsi in avanti. Il respiro che scivolava fuori dalla barriera dei denti era un fischio affaticato. Regan si costrinse a restare immobile.

All’improvviso, i muri emisero un lungo grugnito, come quello che producono le assi di legno quando si piegano sotto un peso più grande di quanto siano in grado di sostenere. Una ragnatela nera si diramò su di essi a partire dagli angoli. I fili seghettati si liquefecero e melma nera colò giù, simile a pittura sciolta.

Steno, avendolo ormai raggiunto, afferrò Regan per le braccia e lo guardò dal basso: “Tu sai chi è. Conosci già il suo nome.”

“No, non è vero.” negò Regan, i polmoni compressi in una prigione di panico crescente.

Lei si issò con il busto per portare la bocca al suo orecchio. Il suo alito fetido gli accarezzò il lobo, spedendogli brividi freddi lungo la spina dorsale.

Grida, grida ciò che è omesso: la canzone dell’abisso.”

Regan sentì la morsa in cui erano costrette le proprie braccia serrarsi ancora di più. Inspirò e digrignò i denti per non gemere di dolore.

“La canzone.” esalò a fatica, “Sì, ho presente. Ma come-”

Steno si contorse in un repentino spasmo e cacciò un grido disumano. La melma nera le sommerse i piedi, risalì su per le gambe, la schiena, le spalle, sino a divorarle la testa. Regan si liberò appena in tempo, prima che la melma che ora ricopriva le mani della Gorgone prendesse anche lui attraverso il contatto.

Un boato scosse le fondamenta della stanza. Le pareti si riempirono di crepe.

Un secondo boato inghiottì le urla strazianti di Steno.

Un terzo aprì un cratere nel pavimento.

Un quarto risucchiò Regan indietro, nel presente.

Riaprì gli occhi nel corridoio, circondato dalle tenebre. Una sagoma scura torreggiava su di lui, ma gli dava le spalle. L’ennesimo boato riecheggiò ovunque, assordandolo, seguito da un brevissimo lampo di luce.

“Regan!”

“Derek…?” gracchiò incredulo, spaesato e intontito dal rumore.

Una mano del cacciatore lo agguantò per il bavero del giubbotto e gli diede un forte strattone. Regan si ritrovò in piedi, leggermente barcollante. Derek lo spinse con decisione verso le scale, urlandogli dietro qualcosa. Non aveva smesso un attimo di sparare. Regan pensò distratto che le cartucce sarebbero finite presto a quel ritmo.

“Corri, cazzo! Ci sono addosso!”

Le parole di Derek finalmente filtrarono attraverso il muro di ovatta. I muscoli guizzarono e si rimisero in moto, guidandolo su per le scale, fuori di lì. Derek era poco dietro di lui, occupato a sparare a raffica per guadagnare tempo.

Si catapultarono oltre la porta. Derek la sbarrò immediatamente, aggiungendo il peso del proprio corpo per bloccarla. L’anta tremò sotto l’assalto degli esseri che la colpivano dall’altro lato per uscire.

Regan si fermò giusto qualche istante per riprendere fiato. Poi si tirò di nuovo su per puntare gli occhi sul cacciatore. Derek era pallido, la faccia contorta in una maschera di terrore. Sudore gli imperlava la fronte, su cui spiccava un taglio obliquo e sanguinante.

“Come… perché sei qui?”

“Il GPS nel tuo cellulare.” grugnì, impegnato a tenere a bada gli scossoni che si abbattevano con sempre più frequenza contro la porta.

“Mi stavi pedinando?!”

“Non è il momento! Al mio tre. Uno. Due…” si lanciò su Regan e gli afferrò il polso, “Tre!”

Corsero a rotta di collo attraverso le sale, incuranti delle teche che urtavano a loro passaggio e del frastuono che si lasciavano dietro. Era un miracolo che non fosse ancora scattato alcun allarme.

Prima che Regan potesse imboccare un altro corridoio, si sentì strattonare. Non ebbe modo di chiedere a Derek cosa volesse fare, perché un attimo dopo vide il vetro di una finestra venirgli incontro alla velocità di un fulmine. Le schegge di vetro gli ferirono la faccia e l’aria notturna gli penetrò nei polmoni con la veemenza di un pugno nello stomaco. Poi ci fu l’impatto sul duro terreno, che gli strappò un gemito. Infine, silenzio.

Derek fu il primo a riprendersi. Rotolò sulla pancia e si issò su mani e ginocchia. Scrollò il capo per scacciare i puntini neri che gli costellavano la vista. Mentre con una mano cercava la pistola sull’erba, i suoi occhi si incatenarono alla figura supina di Regan. Vide il torace muoversi su e giù, le palpebre sfarfallare per aprirsi. Il viso era pieno di graffi, che si stavano già rimarginando.

Dei passi in avvicinamento lo fecero irrigidire. Sollevò di scatto lo sguardo. Scoprì Roman accovacciato a pochi metri da loro, i lineamenti distorti da un orrore che Derek sapeva essere riflesso pure nei propri. Le iridi del licantropo erano gialle, ma le zanne e gli artigli erano scomparsi.

Roman adagiò un palmo sull’erba umida e si sbilanciò in avanti. In quel momento, Derek trovò la pistola. Non esitò a puntarla contro il lupo, la sicura rimossa e il dito sul grilletto. Un ringhio si spanse nell’aria. Ebbe vita breve, però, perché un secondo più tardi Roman si chetò e piegò confuso il capo. Derek ci mise un po’ di più per rendersi conto che la propria mano stava tremando.

Un grugnito distrasse cacciatore e licantropo dalla lotta di sguardi che avevano ingaggiato. Derek abbassò la pistola, mentre Roman si avvicinò a razzo per accucciarsi accanto a Regan.

“Ahi… merda, che male.”

Roman lo sollevò da sotto le ascelle e condusse un braccio dell’amico a cingergli il collo: “Ti tengo. Andiamo.”

“As-Aspetta… ce l’hai?”

Il licantropo estrasse dalla tasca la moneta e gliela mostrò.

“Okay. Andiamo.” disse Regan, afflosciandosi su Roman a peso morto.

“Sanguini dalle orecchie.”

“Sopravviverò.”

“Hey.” li chiamò Derek.

I due si voltarono. Entrambi esibivano le tipiche facce di qualcuno che desidera soltanto strisciare sotto le coperte e dormire per i prossimi cinque secoli.

“Di chi è stata la brillante idea di non chiamare il cacciatore, addestrato a combattere mostri sin dalla nascita, prima di entrare in un fottuto covo di, fammi pensare… oh, sì: mostri?!” abbaiò, stringendo i pugni lungo i fianchi, e li raggiunse in tre ampie falcate.

“Il tuo invito si sarà perso nella posta.” biascicò Regan, esausto sin nel midollo, “Senti, non ho le energie per litigare. Voglio solo tornare a casa.”

“Cosa cazzo erano quei… quei cosi? E che cazzo ci facevi laggiù?” continuò imperterrito Derek.

“Non ora.” rispose Roman, “Dobbiamo andarcene da qui.”

“Chi sei tu per darmi ord-”

“Derek. Per favore.” mormorò Regan.

Derek contrasse la mascella e trasse un profondo respiro per calmarsi. L’adrenalina gli scorreva ancora nelle vene, ma non tanto da offuscare il suo giudizio.

“Okay, vi porto io. Sono venuto in macchina.” dichiarò e marciò fino al fianco sinistro di Regan per prendergli il braccio libero e avvolgerselo attorno al collo.

Regan sospirò sconfitto. Permise ai due ragazzi di sorreggerlo durante il tragitto verso l’auto senza pronunciare una sola lamentela, il che fu un indizio più che sufficiente per far capire a tutti quanto fosse stremato. Riemerse dal torpore quando si sentì depositare sul sedile. Roman scivolò al suo fianco con movimenti agili, un braccio a circondargli la vita e la mano fermamente aggrappata alla pelle fredda sotto i vestiti, riluttante a interrompere il contatto fisico. Derek si mise al volante e accese il motore.

Se Regan fosse stato abbastanza lucido, avrebbe cercato di smorzare la tensione che aleggiava nell’abitacolo con qualche commento caustico o frecciatina tagliente. Ma siccome era a un passo dal cedere al richiamo del meritato pisolino che lo tentava da svariati minuti, non notò le occhiate torve, sature di tacite e terribili minacce, che si scambiarono Roman e Derek per tutto il tempo che impiegarono a raggiungere sani e salvi casa McLaughlin. Per fortuna, nessuno uccise nessuno.

Mentre stavano barcollando sul vialetto – cioè, Regan barcollava, Roman e Derek facevano del loro meglio per non soccombere al suo passo strascicato – Deirdre accese la luce in veranda e spalancò la porta. Agitò con urgenza le mani per invitarli a entrare e i tre ragazzi inciamparono in casa con sospiri di sollievo.

Regan venne abbandonato sul divano, mezzo sdraiato, con la schiena sui cuscini e le gambe penzoloni. Deirdre corse in cucina a recuperare un bicchiere e ci versò dentro il sangue di una delle siringhe che conservava in frigo. Fatto ciò, si precipitò in salotto dal nipote e gli accostò il bicchiere alle labbra. Regan bevve avidamente.

“Cos’è successo?” indagò Deirdre, per poi scrutare Derek con aria sospettosa, “E lui cosa ci fa qui?”

“Abbiamo trovato il portale e il demone ci ha attaccati.” rispose Roman.

“Ve l’avevo detto!” lo interruppe, “Ma voi ‘noooo, fidati, Deirdre, andrà tutto a meraviglia’! Tzè. Dilettanti. Comunque, lui che c’entra?” insisté, additando il cacciatore.

“Ho salvato i loro culi.” disse Derek con una scrollata di spalle, come se fosse ordinaria amministrazione.

“Ne dubito.” proferì Deirdre, squadrandolo dall’alto in basso con palese sdegno.

“Si è messo a sparare come se fossimo nel Far West. Ha tenuto a bada il demone per qualche secondo.” intervenne a quel punto Regan, la voce gracchiante e gli arti ridotti a gelatina, “Non che ne avessi bisogno. Avevo tutto sotto controllo.”

“Certo. Perché infatti non ti ho trovato svenuto alla base di una pila di mostri umanoidi che cercavano di mangiarti.” sbuffò Derek.

“Non ero svenuto, oh mio valoroso cacciatore, ma in trance.”

“Ah, ora si chiama così?”

“Non sai distinguere una trance da un normale svenimento? Non ve lo insegnano al corso per diventare macchine assassine?”

“Prego, Regan, non c’è di che. Piuttosto, quello che voglio sapere è perché non mi hai chiamato. Sono addestrato per questo, ti ricordo. Ti avrei guardato le spalle. Non me la sarei data a gambe al primo sentore di pericolo, come ha fatto il nostro lupacchiotto.”

“Non avevo scelta!” Roman ringhiò, ponendosi sulla difensiva, e dopo un attimo si girò a guardare Deirdre, ansioso di spiegare, “Regan mi ha ordinato di scappare con la moneta e io ho ubbidito.”

“Bravo cucciolo.” lo schernì Derek.

Roman snudò le zanne e gli ringhiò in faccia.

“Moneta?” domandò Deirdre.

“Il portale.” rispose Regan, “Roman, mostragliela.”

Roman trasse un ampio respiro per calmarsi. Infilò una mano nella tasca dei jeans ed estrasse la moneta, consegnandola alla donna. Deirdre la prese e se la rigirò tra le dita. Aggrottò le sopracciglia, alquanto perplessa.

“Che ne pensi?” le chiese Regan.

“Non percepisco nulla di strano.”

“Già. Sembra una semplice moneta antica.”

“Questi simboli…”

“Faremo delle ricerche.”

Deirdre sospirò. Riportò l’attenzione su di lui e si sedette al suo fianco, la moneta dimenticata sul tavolino basso di fronte al divano.

“Sei esausto. Per oggi direi che può bastare.”

Roman e Derek aprirono subito la bocca per protestare, ma Deirdre li zittì con un gesto brusco della mano.

“Andate a casa, voi due. È molto tardi.”

“Ma il demone-”

“Roman.” lo interruppe Regan, fissandolo dal basso con sguardo implorante, “Va’ a casa. Ci sentiamo domani. Anche tu, Derek.”

Cacciatore e licantropo esitarono, entrambi combattuti. Alla fine, Roman esalò un sospiro arreso e annuì. Derek, seppur scontento, seguì il suo esempio.

Deirdre li accompagnò alla porta e diede a Roman la buonanotte. Derek non venne calcolato di striscio. Quando tornò in salotto, si riaccomodò accanto a Regan. Affondò le dita tra i suoi riccioli corvini e gli spostò alcune ciocche dalla fronte pallida. Poco dopo, intonò una dolce canzone a labbra strette.

Regan si godette le sue carezze e il suono della sua voce, lasciandosi cullare finché non avvertì le energie risalire pian piano. Riaprì gli occhi precedentemente chiusi e li puntò su di lei.

“L’ho vista, nonna.”

“Chi?”

“Steno. Mentre ero in trance.”

“Cosa? Come? Che ti ha detto?”

“Non se la sta passando bene.”

Le raccontò tutto ciò che la Gorgone gli aveva rivelato, premurandosi di non tralasciare alcun dettaglio. Le informazioni che erano trapelate erano a dir poco preoccupanti.

“Un test? Ma… perché?”

“Non lo so.”

Deirdre mugugnò soprappensiero: “Quindi era lei. Il sibilo… le visioni…”

“Sì.”

“Sembra che sia dalla tua parte.”

“Non direi. Vuole solo sopravvivere, e io sono l’unico che sta cercando di fare qualcosa di concreto. Se mi aiuta, è perché desidera essere salvata. Dopotutto, il demone sta usando i poteri di Steno contro la sua volontà, mietendo le vite di persone che lei non toccherebbe mai, come donne e bambini. Al suo posto, anch’io vorrei liberarmi il prima possibile, con ogni mezzo, a qualsiasi costo.”

Deirdre si trovò d’accordo. Gli occhi le caddero sulla moneta.

“Hai capito come ha scelto le sue vittime?”

“Proprio come pensavamo: devono essere persone colpite da un lutto da sette giorni.”

“Ma allora perché non ha preso anche le loro famiglie?”

“Perché le vittime sono state le uniche a toccare la moneta. Teresa è andata alla Fondazione con i suoi genitori, ma solo lei l’ha toccata. Stessa cosa per gli altri. È stato l’atto di toccare la moneta a disegnare un bersaglio sulle loro anime. Nient’altro.”

Deirdre restò in silenzio ad osservare la moneta per un minuto buono, quando, all’improvviso, il suo corpo venne attraversato da un brivido. La sua schiena si raddrizzò e i suoi occhi si sbarrarono.

“Regan… tu l’hai toccata.”

“Beh, sì.”

“Oggi è sabato. La mezzanotte è passata da un pezzo, ormai.”

“E?”

Deirdre si girò a guardarlo con espressione atterrita, il battito cardiaco alle stelle: “Athens. L’incendio. È successo sette giorni fa.”

Regan si pietrificò. Dire che il tempo si fermò in quell’esatto istante non sarebbe un’esagerazione. Il suo cuore smise pure di battere, mentre il sangue gli si gelò nelle vene. Deglutì.

“Non… non vuol dire che…” si tirò su a sedere, gli occhi puntati sulla moneta, che rifulgeva di bagliori sinistri sotto la luce irradiata dalla lampada del salotto, “Insomma, mi ha già attaccato una volta. Posso… posso sconfiggerlo ancora. Giusto? E poi, la prima volta che mi ha attaccato non ne aveva motivo, non avevo subito alcun lutto. È stata una provocazione…”

“Un test.”

“Un… test.” ripeté Regan in un bisbiglio incredulo.

Deirdre si alzò di scatto e marciò fuori dalla stanza.

“Nonna, dove vai…?”

“Torno subito.”

Dopo un paio di minuti, Deirdre ricomparve con in mano uno scrigno di legno e un coltello affilato. Si sedette sul divano e si mise immediatamente al lavoro, intagliando rune protettive su tutti i lati dello scrigno, all’interno e all’esterno. Poi prese la moneta e ce la chiuse dentro.

“La infilerò in un contenitore pieno di erbe che respingono il male, in soffitta. Circonderò il contenitore di cristalli e inciderò altre rune sul pavimento, per sicurezza.” spiegò.

“Dici che funzionerà?”

“Non ne ho idea. Quello che so è che per ventiquattro ore veglierò su di te. Se il demone arriverà, lo combatteremo insieme.”

“No. Non voglio che tu ti metta in mezzo. È pericoloso.” si oppose Regan.

“E io non ti lascerò gestire da solo questa cosa.” sancì categorica e gli rivolse un’occhiata che non ammetteva repliche.

“Okay… grazie.”

“Non dirlo nemmeno.”

“Nel frattempo cosa facciamo?”

Deirdre ci pensò su, poi afferrò il telecomando e accese la televisione. Poe scelse quel momento per farsi vivo e appallottolarsi sulle sue ginocchia.

“Ci guardiamo Chicago?”

Regan le sorrise e annuì. A metà del film si ricordò dell’impegno che aveva preso con Lorie.

“Oggi andrò con le ragazze a fare shopping.”

“No, resterai a casa.”

“Dovrei essere al sicuro durante il giorno, il demone ha sempre attaccato di notte. In più, sarò in un luogo affollato.”

Deirdre rifletté. Il ragionamento non faceva una piega.

“E poi tu devi lavorare. Non puoi sorvegliarmi ininterrottamente.” aggiunse Regan.

La donna sospirò sconfitta e assentì: “Ma se succede qualcosa, chiamami subito.”

“Promesso.”

Poe sbadigliò, profondamente annoiato.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Wolf moon ***


Questo capitolo è dedicato a baileyzabini90! Grazie per il tuo sostegno e la tua fedeltà, sei la mejo <3 love u!







 
Tra tutte le cose che Regan pensava potessero succedere quel sabato mattina, scoprire che Roman aveva dormito sotto la siepe di maonie in giardino per tutta la notte non era fra quelle. Fu Poe a individuarlo, mentre sgusciava tra i cespugli in cerca di topi.

Deirdre uscì a indagare, richiamata dai miagolii del gatto. Sostando di fronte alle maonie con le mani sui fianchi, osservò il licantropo dall’alto a metà tra lo sconsolato e l’affettuoso. Roman le rivolse un sorriso innocente. Deirdre sbuffò incredula e lo invitò dentro a fare colazione.

Con la faccia sbattuta di chi si è concesso un paio d’ore di riposo al massimo e gli stessi vestiti del giorno prima, solo umidi e macchiati di terra ed erba, Roman entrò in casa strascicando i piedi, per poi avviluppare Regan in un abbraccio soffocante.

“Buongiorno anche a te.” bofonchiò Regan, assestandogli un paio di pacche sulla schiena per comunicargli che l’abbraccio era durato abbastanza, ma Roman travisò e rafforzò la presa, “Okay, non respiro…”

Il lupo si staccò il tanto che bastava a catturargli le labbra in un bacio. Regan non poté far altro che sbattere ripetutamente le palpebre, rigido come un tronco, mentre l’altro gli respirava sulla bocca e spargeva il suo odore sui vestiti per marcare il territorio.

Deirdre scelse quel momento per emergere dalla cucina. La sua espressione curiosa si tramutò in un sorriso trionfante non appena li vide.

Roman pose fine al bacio e si accasciò su Regan con un sospiro esausto. Intontito, il moro lo afferrò per i fianchi per sostenerlo. Nessuno avrebbe immaginato che un corpo snello come quello di Roman potesse pesare così tanto. Dopo aver valutato le opzioni, lo trascinò in salotto, dove lo spinse a stendersi sul divano.

“Che ci fai qui?”

“Dopo quanto accaduto ieri notte, non me la sono sentita di lasciarti…” confessò mentre si stropicciava le palpebre.

Deirdre li raggiunse e offrì a Roman una tazza di tè per riscaldarsi. Il lupo l’accettò con un sorriso e lo tracannò in tre sorsi, incurante del fatto che fosse bollente.

Regan pensò che era un miracolo che non fosse morto assiderato là fuori. Probabilmente era stato solo grazie alla sua natura se si era salvato, visto che i licantropi non pativano troppo il freddo.

“Ti vanno bene uova e bacon, caro?”

“Sì, certo. Grazie, Deirdre.”

“Prego. E la prossima volta fammi un favore: bussa.”

Roman annuì arrossendo. Soddisfatta, Deirdre si ritirò verso la cucina. Sulla soglia, ammiccò all’indirizzo del nipote, un ghigno saputo sulle labbra. In risposta, Regan levò gli occhi al cielo. Roman non si accorse dello scambio, dato che dava le spalle alla cucina.

“Senti, oggi andrò a fare shopping con le ragazze. Vuoi venire?”

Roman mugugnò un assenso.

“Okay. Lorie dovrebbe passare di qui alle dieci. Le scrivo che ci sei anche tu.”

“Roman, è pronta la colazione!” chiamò Deirdre.

In cucina, Regan si sedette davanti a lui per fargli compagnia. La nonna li salutò e sparì nel seminterrato per occuparsi della salma di un’anziana donna morta di infarto.

Mentre lo guardava divorare uova e bacon alla velocità della luce, Regan ponderò se metterlo al corrente del pericolo che incombeva su di lui. Non voleva che Roman gli stesse col fiato sul collo tutto il santo giorno. Apprezzava la sua presenza e lo confortava sapere che era rimasto a fare la guardia in giardino durante la notte, ma non voleva che si incollasse a lui come una cozza.

Okay, non era giusto trattarlo come se fosse una seccatura, Regan ne era consapevole, perché si vedeva che l’amico, dopo il casino alla Fondazione, era ancora scosso. Regan avrebbe dovuto immaginare che sarebbe rimasto nei paraggi. Anzi, non avrebbe dovuto mandarlo via, punto e basta. Essendo non solo una creatura soggetta all’influsso degli istinti, ma anche un beta, era ovvio che Roman avesse bisogno di restare vicino al suo alfa per ritrovare una parvenza di equilibrio emotivo.

Era un comportamento da manuale, Regan non poteva fargliene una colpa. Solo che non gli veniva facile immergersi nella nuova dinamica, gli serviva un altro po’ di tempo per abituarsi e capire come dare a Roman ciò di cui necessitava, trovare il giusto equilibrio. Lo spirito di adattamento non gli era mai mancato, Roman stesso lo aveva definito un pragmatico, ma la questione era parecchio delicata, da gestire con le pinze.

Alla fine, decise di tacere.

Alle dieci in punto, Lorie suonò il clacson dalla strada. Roman e Regan salutarono Deirdre e montarono in macchina, il primo sui sedili posteriori insieme a Vanessa e Claire e il secondo su quello davanti. Lorie si sporse brevemente per baciare Regan sulla guancia.

“Accidenti, che facce. Avete fatto le ore piccole?” indagò Vanessa.

“Maratona di film.” si inventò Regan sul momento.

“Prenderemo un caffè quando arriveremo.” decretò Lorie, per poi immettersi nel traffico e guidare alla volta dei grandi magazzini.

Parcheggiarono in uno dei pochi posti liberi e marciarono veloci verso l’entrata. Era freddo, il cielo era coperto di nubi, ma almeno il vento si era placato. Lorie e Claire presero Regan a braccetto, Vanessa si aggrappò alla sua schiena stile koala e Roman li seguì con una smorfia costipata.

Regan sarebbe scoppiato a ridergli in faccia se non avesse saputo che la gelosia del licantropo non originava dal vederlo condividere baci e abbracci con altri, quanto dal fatto le ragazze stavano coprendo l’odore di Roman con il loro. Non era arduo immaginare quanto dovesse essere spiacevole, soprattutto dal momento che il legame tra lui e Roman era ancora fresco e instabile. Roman aveva bisogno di essere rassicurato, non stuzzicato.

Una volta dentro, si divincolò gentilmente dalla gabbia di corpi femminili e andò ad abbracciare Roman. Lorie, Vanessa e Claire chiocciarono intenerite e scattarono delle foto da pubblicare su Instagram.

Si fermarono alla caffetteria al secondo piano. Roman ordinò un caffè nero, Regan si astenne. Più che caffè, gli ci sarebbe voluto un litro di sangue. Ma non poteva appartarsi con le ragazze, non più. Aveva promesso a Deirdre che non si sarebbe più nutrito di innocenti. Si rassegnò a passare la giornata a ciondolare come uno zombie, in onore dei vecchi tempi.

Una ventina di minuti dopo, vennero raggiunti dalle altre cheerleader. All’appello mancavano solo Mary e Crystal, che erano a letto con l’influenza. Insieme a Jennifer e Charlotte c’era anche Zack.

Quando Regan incrociò lo sguardo di Jennifer, un brivido gli sfrecciò su per la spina dorsale. Lei spostò l’attenzione quasi subito su Roman e storse il naso. Si ancorò al suo braccio e strusciò il palmo della mano sui vestiti di lui in lievi carezze. Avrebbero potuto passare per caste dimostrazioni d’affetto tra amici, se non fosse che sia Regan che Roman avevano riconosciuto all’istante il tentativo di marcare il territorio, cancellare ogni traccia di Regan sul corpo del lupo.

Charlotte e Zack, mano nella mano, salutarono calorosamente le ragazze. Quando gli occhi di Charlotte si posarono su Regan e Roman, però, la sua espressione si indurì.

“Hey, Charlotte. Come stai?” le chiese Roman, leggermente nervoso.

“Bene. Tu?”

“Bene.”

Jennifer incatenò lo sguardo a quello dell’amica e mosse le sopracciglia in modo buffo, cercando di comunicarle qualcosa tipo “Sii gentile col ragazzo per cui ho una cotta”. Al che Charlotte sbuffò e scrollò una spalla. Zack la distrasse con un bacio e la tensione si dissipò un poco.

“Allora, gente.” esordì Lorie, “Siamo qui per un motivo preciso, ovvero la missione Salva Il Guardaroba Di Regan Prima Che Diventi La Ragione Della Sua Morte Sociale.”

Regan inarcò un sopracciglio, palesemente poco colpito: “Avrei da ridire sul nome…”

“Tu non hai voce in capitolo. Prima tappa, scarpe.”

La giornata trascorse tra compere e sfilate di moda improvvisate, in cui Regan venne usato come riluttante manichino per provare svariati abbinamenti di pantaloni e camicie. Quando rientrò per la cinquantesima volta nel camerino per l’ennesimo cambio, valutò seriamente l’idea di fingersi morto. O inscenare un malore. Mal di testa? Mal di stomaco? Troppe opzioni tra cui scegliere...

Jennifer non si scollò un secondo da Roman. A un certo punto, in uno sfoggio di audacia, cominciò addirittura a scoccargli baci sulle guance non appena lui si distraeva, l’attenzione calamitata da Regan e dal modo in cui i pantaloni gli fasciavano il sedere. Lì per lì il licantropo non vi diede troppo peso, scrollandosi di dosso Jennifer con una risatina. Quando i baci si fecero più frequenti, tuttavia, iniziò a sentirsi a disagio. Cambiò postura e si erse in tutto il suo metro e ottanta per restare fuori portata dalle labbra di Jennifer, pregando che la tortura finisse presto.

La ragazza non la prese bene. Raddoppiò gli sforzi per farsi considerare da Roman, arrivando persino ad avvolgergli le braccia intorno al collo per tirarlo giù, col chiaro intento di baciarlo sulla bocca. Scocciato, Roman si divincolò e la trafisse con un’occhiata gelida. Afferrandola per un polso, la condusse fuori dal negozio per avere un minimo di privacy. Una volta scovato un angolino appartato tra due boutiques, si girò a fronteggiarla.

“Si può sapere che ti prende?” le domandò senza preamboli, la voce poco più di un sussurro.

“Non so di cosa parli.”

“Le carezze, i baci…” 

“Sono solo carezze e baci.”

“Non sono stupido, Jennifer. So cosa stai facendo.”

“E cosa starei facendo?”

“Stai cercando di sedurmi. Posso fiutare la tua eccitazione, l’odore dei tuoi umori tra le cosce.”

Lei avvampò e distolse lo sguardo imbarazzata.

“E allora?” borbottò imbronciata.

Roman ne aveva davvero abbastanza. Era stufo di girarci intorno, di sperare che Jennifer cogliesse da sola il messaggio, di farsi in quattro per proteggere il suo cuore da adolescente invaghita. Era giunto il momento di prendere il toro per le corna.

“E allora pensavo di essere stato chiaro, Jennifer. Non sono interessato a te da quel punto di vista. Sei molto carina, non lo nego, ma non sono disposto a essere nulla più che un amico o un fratello per te.”

Jennifer deglutì. I suoi occhi frizzavano a causa delle lacrime trattenute. Non si permise di scoppiare a piangere, non ancora. Lo avrebbe fatto, certo, ma solo quando fosse stata al sicuro nella sua tana. Per un misero attimo fu prima sul punto di forzare una risatina, perché Roman non poteva dire sul serio, e poi di rimproverarlo, perché lei non apprezzava questo genere di scherzi. La totale assenza di divertimento nell'odore di Roman la convinsero a desistere, oltre a venire a patti con la dura realtà. Si rabbuiò e strinse i pugni, avvertendo la rabbia montare.

“C’entra Regan, non è vero?”

“Eh?”

“È per lui, non è così? Ti ha fatto diventare gay?” sputò in tono velenoso.

Roman la fissò incredulo: “Che razza di stupidaggini vai dicendo?”

“Pensi che sia cieca? Vedo come lo guardi! Come se fosse stato lui a disegnare la luna nel cielo, come… come se fosse la culla di tutte le cose belle che esistono nel fottuto universo! E sai una cosa? Sei patetico. È chiaro come il sole che la tua cotta non è corrisposta, Regan se la fa con Lorie.”

Il lupo contrasse la mascella e inspirò profondamente. Perdere le staffe non sarebbe servito a niente.

“Okay, le cose stanno così: se vuoi essere mia amica, dovrai scusarti per il tuo comportamento; se non vuoi, le nostre strade si dividono qui. Rifletti pure con calma, io torno da Regan.”

“Eh? No, aspetta…”

Roman le diede le spalle e rientrò nel negozio senza voltarsi indietro. Gli artigli minacciarono più volte di bucargli i palmi delle mani, ringhi frustrati vibrarono nel suo sterno. Fu solo grazie all’odore e al battito cardiaco di Regan, che poteva tranquillamente captare nonostante la folla e la miriade di scie olfattive diverse che lo circondavano, che riuscì a mantenere il controllo.

Per l’ora seguente, Jennifer non si fece vedere. Charlotte era preoccupata. Continuò a tentare di chiamarla e a scriverle messaggi, finché non convinse Zack ad accompagnarla per scoprire dove si fosse cacciata. Provò a persuadere anche Roman, ma lui rifiutò.

“Che succede?” indagò Vanessa quando vide Charlotte e Zack andarsene via.

“Jennifer è uscita a prendere aria, si sentiva poco bene.” rispose Roman.

Regan gli scoccò un’occhiata interrogativa. Roman scosse appena la testa. 

“Speriamo non sia l’influenza che circola in questa stagione.” commentò Claire.

Il gruppetto lasciò il negozio per andare a mangiare qualcosa. L’ora di pranzo era passata ed erano tutti affamati.

Dopo aver finito il suo panino, Regan si alzò dalla panca in cui era pigiato tra Roman e Lorie, dicendo che doveva fare una capatina in bagno. Entrando, notò che era vuoto. Si stava sciacquando le mani quando udì la porta aprirsi. Non registrò subito l’odore di cane bagnato. Quando se ne accorse, fu troppo tardi.

Jennifer lo agguantò per il giubbotto e lo scaraventò contro il muro. Non gli diede il tempo di reagire e si lanciò di nuovo su di lui. Gli ringhiò in faccia e lo spintonò più volte, facendogli cozzare ripetutamente la schiena contro le piastrelle. Era livida di rabbia.

“È colpa tua! Solo colpa tua!”

“J-Jennifer, cal-”

La ragazza lo schiaffeggiò così forte che lasciò l’impronta della mano sulla sua guancia. Le unghie lacerarono la pelle in tre graffi paralleli, ma le ferite si rimarginarono subito. Notandolo, Jennifer si bloccò.

“Cosa…?”

“Jennifer, ascoltami.”

“Cosa sei?”

“Non è il luogo ada-”

Lei ringhiò e si avvicinò per annusarlo meglio: “Hai un odore… orrendo. Mi fa venire voglia di sventrarti.”

Regan represse una risatina nervosa e si appiattì contro il muro.

“Preferirei che non lo facessi. Sai, mi piacerebbe che i miei organi interni restassero, beh, all’interno. Se non è un disturbo.”

Le mani di Jennifer gli cinsero il collo per premere sulle vie aeree. Presto, Regan si ritrovò a boccheggiare, a corto di ossigeno. Strinse i polsi di Jennifer in automatico. Avrebbe potuto liberarsi facilmente, ma scelse di non farlo. Riconosceva una ragazza dal cuore infranto quando la vedeva.

“Jen-Jennifer… devi… calmarti…”

“Lui non mi vuole ed è solo colpa tua. Sin dall’inizio non ha avuto occhi che per te. Onestamente, non so come abbia fatto ad accettarti come amico. O come abbia fatto io. Non me ne capacito. Sei sempre stato… strano. Inquietante. Quando ti vedevo, mi venivano i brividi. Cosa cazzo sei?”

“Sono in parte vampiro.”

“Eh?”

Appena sentì la presa sulla gola allentarsi, Regan colse l’opportunità per districarsi e spingerla lontano da sé.

“È una storia lunga. L’istinto che provi di farmi a brandelli scaturisce dal fatto che i vampiri sono la nemesi dei licantropi, e viceversa. Beh, licantropi, lupi mannari, non fa differenza.” alzò le mani in segno di resa e modulò la voce in modo che assumesse una sfumatura pacata, accondiscendente, “Non so cosa vi siete detti di preciso tu e Roman poco fa, ma posso immaginarlo. E mi dispiace. Mi dispiace che sia andata così. Sei ferita, è evidente. Ma io non c’entro nulla.”

“Sì, invece! Se non fosse per te, Roman sarebbe mio!”

“Roman non è mai stato interessato a te. E non a causa mia, ma perché non sei il suo tipo. Fattene una ragione e volta pagina.”

“Vuoi dire che sei tu il suo tipo? Non dovresti essere la sua nemesi?”

“Se vuoi crearti dei filmini mentali per giustificare il rifiuto, fa’ pure, ma lasciami fuori da questa storia. Roman è padrone di se stesso, libero di compiere le sue scelte. Se non ti ricambia, non è affar mio. Ti ha spezzato il cuore e ripeto che mi dispiace, non godo a vedere le ragazze piangere. Ma io non c’entro, okay?”

Jennifer ammutolì, persa nei propri pensieri. Regan non osò ancora tirare un sospiro di sollievo, perché la ragazza sembrava ben lungi dall’arrendersi.

“Roman sa che cosa sei?”

“Sì. E anche il resto del branco.”

“E ti hanno accettato?”

“Non mi hanno ucciso. Che è un po' come dire che mi considerano una specie di alleato. Credo. Spero.”

“Mh. Quindi i vampiri esistono.”

“Già.”

“Perché ne sono sorpresa? Non dovrei. Esistono licantropi, lupi mannari, demoni… era ovvio che esistessero anche i vampiri.”

“A-ha.”

“Sei la mia nemesi... significa che potrei ucciderti?”

“Tecnicamente…”

Jennifer gli perforò il cranio con un’occhiata omicida: “Voglio ucciderti.”

“No, grazie. Passo.”

“Allora stai lontano da Roman.”

“Stare con me è una sua decisione.”

“Fagli cambiare idea. Spezzagli il cuore come lui ha fatto con me e mandalo via.”

“No.”

“Come?”

“No. Non prendo ordini da nessuno, Jennifer, tanto meno da te.”

Jennifer mostrò i denti, ancora umani, e ringhiò. Gli saltò addosso con rinnovata determinazione, mirando alla gola. Regan le afferrò i polsi e le sferrò una ginocchiata nello stomaco.

La porta del bagno si spalancò. Roman apparve sulla soglia, lievemente trafelato. Non appena registrò cosa stava accadendo, corse dentro. Catturò con le braccia il busto della ragazza e la scollò da Regan, ignorando i calci e i pugni di protesta.

“Se non ti calmi, dovrò usare le maniere forti. Sei in un bagno pubblico, Jennifer, chiunque potrebbe entrare e vederti in questo stato. A mio padre non piacerà sapere che hai rivelato al mondo il nostro segreto perché non ti sai controllare.”

A quelle parole, Jennifer si placò un poco. Roman ne approfittò per trascinarla via, fuori dal bagno e, probabilmente, fuori dal centro commerciale.

Regan li osservò sparire in silenzio. Se Roman non fosse intervenuto, non aveva dubbi che avrebbe fatto a Jennifer qualcosa di cui poi si sarebbe pentito. Meglio che fosse andata così.

Si aggiustò i vestiti e uscì anche lui per riunirsi alle ragazze. Mentre la porta del bagno si chiudeva alle sue spalle, non si avvide di un serpente nero avvolto attorno al tubo sotto uno dei lavandini.

 
*

“Lasciami!”

“Prima ti calmi, prima ti lascio.”

Roman rinserrò la presa attorno alla mano di Jennifer. Attraversò il parcheggio e imboccò la strada di ritorno, sordo alle proteste della ragazza. Jennifer non smise nemmeno per un secondo di cercare di divincolarsi. Spazientito, Roman si fermò, mollò la sua mano e la strinse per le spalle. 

“Jennifer, respira. Per favore. Siamo all’aperto, ci sono umani ovunque.” la supplicò a bassa voce.

Lei si morse l’interno di una guancia e chiuse le mani a pugno: “Non ci riesco! Sono così… arrabbiata.”

“Ascolta il mio battito, sincronizzalo con il tuo.”

Jennifer ascoltò, eppure nemmeno questo l’aiutò a disfarsi della furia primitiva che le artigliava il petto.

“La luna piena è vicina, stai risentendo già dei suoi effetti.” spiegò Roman, “Col tempo diventerà più facile, credimi. Ma adesso devi respirare. Concentrati su pensieri che ti fanno stare bene. Per esempio, uhm, Charlotte? Siete come sorelle, giusto? Riporta alla mente come ti fa sentire la sua presenza al tuo fianco. Scommetto che è l’amica più leale del mondo.”

Jennifer sgranò gli occhi, guardando Roman con meraviglia. Percepì subito la rabbia recedere e abbandonarla. Inspirò a fondo e rilassò le mani.

“Oh.”

“Congratulazioni. Hai appena trovato la tua ancora.” la lodò Roman con un sorriso compiaciuto.

“La mia ancora è Charlotte?” domandò incredula.

“Non lei, ma le emozioni che l’amicizia con Charlotte ti trasmette. È raro che l’ancora di un lupo sia una persona. Può accadere, però è considerato pericoloso.”

“Perché?”

“Cosa succederebbe se quella persona morisse? O se scegliesse una strada diversa, che la porterà lontano dal lupo? Le emozioni legate a quella persona, invece, possono permanere per molto tempo. Chiaro, nessuna ancora è eterna. Come il lupo cambia a seconda delle esperienze di vita, anche la sua ancora è soggetta a cambiamenti. Quando ero un cucciolo, la mia ancora era la serenità che provavo quando il mio branco si riuniva per trascorrere una serata tutti insieme. Crescendo, essa è cambiata. Mio fratello è partito per il college, il clima in casa si è inasprito, sono entrato nella pubertà…”

“Qual è la tua ancora, adesso?”

Roman la scrutò serio per qualche attimo, valutando quante carte era saggio scoprire con la ragazza. Con un sospiro, decise che era meglio rivelarle qualcosina, nella speranza che comprendesse meglio la situazione e smettesse di prendersela con chi non aveva colpe.

“Il senso di completezza che mi pervade quando sto con Regan.”

Jennifer schiuse le labbra, esterrefatta.

“Regan ti fa sentire completo?”

“Sì. Cioè, più che completo, direi che mi fa sentire realizzato.”

“Ma lui è… insomma, un vampiro. Mi ha detto che vampiri e lupi non vanno d’accordo.”

“La nostra amicizia è decisamente anticonvenzionale, lo ammetto. Ed è un vampiro solo in parte.”

“È sbagliato!”

“L’ancora non è mai giusta o sbagliata, Jennifer. Non esistono regole o parametri e non è sottoposta al giudizio di altri. È una cosa solo tua.” proferì pacato, ma con una punta di durezza in più nella voce, “Regan sarà anche la mia nemesi da un punto di vista biologico, ma a livello spirituale è ciò di cui ho bisogno in questo momento. Non ho una cotta per lui, perché definire ‘cotta’ ciò che sento ne sminuisce l’importanza. Ciò che ho è un legame. È solido, vivo, vibrante, mi tiene a galla nei periodi più difficili e mi sprona ad essere la versione migliore di me stesso. È un legame senza nome, perché non è semplice amicizia, né una cotta, né un rapporto romantico. È solo qualcosa che innegabilmente c’è, e pulsa fra di noi, carico di potenziale. Cosa ne faremo, lo decideremo strada facendo, senza fretta.”

Jennifer distolse lo sguardo e lo puntò sull’asfalto del marciapiede.

“Dimmi, come ti sentiresti se io cercassi di separare te e Charlotte?” le chiese Roman.

La ragazza lo trafisse con un’occhiataccia ed emise un ringhio.

“Esatto. Perciò ti prego di lasciar stare Regan. Se proprio vuoi un bersaglio per la tua rabbia, ci sono io. È colpa mia se ti senti così.”

Jennifer tirò su col naso e incrociò le braccia sul petto, nella perfetta imitazione di una bambina petulante.

“Perché non ti piaccio?”

“Non sei il mio tipo.”

“Qual è il tuo tipo?”

“Non ne ho idea. Ho solo diciotto anni.”

“Se non lo sai, come fai a sapere che io non lo sono?”

“Il mio lupo non ulula per te.” rispose lapidario.

Jennifer sussultò. Incassò la testa nelle spalle e strinse i pugni.

“Ma ulula per Regan?”

“In un certo senso…”

Lei annuì e prese a mordicchiarsi il labbro. Roman non dovette annusare l’aria per capire che non era affatto soddisfatta. Rinunciando a farla ragionare, le fece un cenno col capo per intimarle di muoversi.

“Coraggio, torniamo a casa. Chiedi a Sean di allenarti per qualche ora, per sfogare l’energia repressa.”

Ripresero a camminare, stavolta uno accanto all’altra. E anche se il silenzio non era piacevole, non era più così pesante.

 
*

Carico di buste, Regan salutò le ragazze dal vialetto e le guardò sgommare via con un sorriso. Alla fine, non era stato male trascorrere del tempo con loro. A parte la breve colluttazione in bagno con Jennifer, era stata una bella giornata. Lorie era una trottola piena di energia e carisma, una leader nata. Vanessa e Claire, quando non facevano le gatte morte, erano molto simpatiche, come le altre cheerleader quando smettevano di preoccuparsi del giudizio altrui e si disfacevano delle maschere da dolci bamboline. Regan si sentiva un po’ in colpa per averle trattate come oggetti. Si ripromise che d’ora in avanti sarebbe stato un vero amico, le avrebbe protette e sostenute senza chiedere niente in cambio. Quel pensiero gli suscitò uno sfarfallio piacevole nello stomaco.

Aprì la porta di casa con le chiavi e chiamò a gran voce la nonna. Deirdre apparve dalla cucina. Vedendolo stringere una decina di buste, inarcò un sopracciglio.

“Con quali soldi hai comprato quella roba?”

“Con quelli delle ragazze. Prima che tu me lo chieda, no, non ho usato i miei poteri su di loro, hanno fatto tutto da sole. Tranquilla, le ho ringraziate. Sanno che non potrò mai ripagarle, perlomeno in denaro, ma hanno insistito che non devo.” posò le buste sul tavolo di cucina e levò lo sguardo su Deirdre, occhieggiando la sua smorfia, “Lo so, non le merito.”

“Hanno un grande cuore.”

“Lo so.” ripeté, “Non mi approfitterò più di loro. Ho compreso il mio errore e me ne pento.”

“Bene. Successo qualcosa di interessante, oltre allo shopping sfrenato?”

“Jennifer mi ha aggredito in bagno perché Roman ha rifiutato le sue avances. Ho dovuto dirle che sono in parte vampiro per spiegarle come mai il mio odore le risulta sgradevole. Roman l’ha trascinata via.”

Deirdre impallidì: “E tu stai bene?”

“Sì, certo. Perché non dovrei?”

Regan si sedette su una sedia. Non passarono che due miseri secondi prima che Poe gli saltasse sulle ginocchia per esigere la sua dose di coccole. Regan tuffò le dita nel pelo morbido e si mise a grattargli la testa e il collo, mentre il gatto faceva le fusa con un’espressione colma di pura beatitudine.

Appena Deirdre poggiò una tazza di tè mischiato a del sangue davanti al nipote, il campanello suonò. Regan tese le orecchie, poi annuì.

“Puoi aprire, è Roman.”

Deirdre lo accolse con un sorriso gioviale e lo condusse in cucina. Il lupo salutò Regan con un bacio fra i capelli e prese posto accanto a lui. Poe assottigliò le palpebre, sollevò una zampina e cominciò a picchiarlo sul braccio per mandarlo via.

“Anch’io sono felice di vederti, Poe.” disse Roman, privo di entusiasmo.

“Che è successo?” indagò Regan.

“Jennifer.” rispose funereo, e quell’unico nome bastò.

Regan non insisté e sedò sul nascere il terzo grado della nonna con un’occhiata carica di sottintesi. Lei sospirò e si girò verso la credenza per tirare fuori i biscotti, borbottando qualcosa su drammi adolescenziali e tragedie greche.

Dopo un minuto, Roman spezzò il silenzio: “Ti va di dirmi perché trasudi ansia da tutti i pori?”

A Regan occorse qualche secondo per realizzare che la domanda era diretta a lui. Scrollò una spalla e addentò un biscotto. Deirdre mise le mani sui fianchi e sbuffò scocciata. Regan interpretò il suo cipiglio severo come un rimprovero per aver taciuto, piuttosto che una esortazione a tenere la bocca chiusa. Infatti, Deirdre aveva sviluppato un sincero attaccamento per Roman, tipo quello che si instaura tra il padrone e il suo cucciolo randagio. 

Regan roteò gli occhi, esasperato, e capitolò: “Ti ho parlato di Athens, ricordi? L’incendio e… tutto quanto.”

“A-ha?”

“È stato sette giorni fa, lo scorso sabato.”

“E?”

Regan lo fissò come a chiedergli “Ma ci sei o ci fai?”. Quando Roman seguitò a esibire una faccia interrogativa, Regan ci rinunciò.

“La moneta.”

“Sì…?”

“L’ho toccata. Ho subito un lutto sette giorni fa. Ti suona familiare?”

Roman ammutolì, assorto nei pensieri. Poi una lampadina dovette accendersi, perché in un lampo saltò in piedi terrorizzato.

“Credi che il demone verrà a prenderti?!”

“È possibile. La scorsa notte non si è fatto vedere, ma mancano ancora circa otto ore a mezzanotte. Se il rintocco passa senza che appaia, dovrei essere fuori pericolo.”  

“Perché non me lo hai detto stamattina?” lo accusò.

“Non volevo farti preoccupare.”

“Odio quando fai così.” grugnì frustrato, passandosi le mani fra i capelli e sul viso pallido, “Resterò qui, oggi. No, non discutere.”

Regan sospirò e assentì. Deirdre li guardò entrambi con affetto.

“Ora che vi siete chiariti, andate di là, devo preparare la cena.” disse loro, facendo sciò sciò con le mani.

I due ragazzi salirono in camera di Regan, dove questi aggiornò Roman sul rituale che stava mettendo insieme. Ci sarebbero stati vari passaggi, che sarebbero culminati nell’evocazione e nell’esilio del demone. Il vero scopo, però, era liberare Steno dal suo giogo per usarla contro i cacciatori.

“Intendi sguinzagliarla subito dopo l’esorcismo?”

“Sì.”

“Sempre se il rituale funziona.”

“Già.”

“Cosa accadrebbe se non funzionasse?”

“Moriremo tutti. E a quel punto, non avremo più bisogno di preoccuparci dei cacciatori, dico bene?”

Roman si grattò il mento, osservando gli appunti e le fotocopie sparsi per terra.

“Hai detto che ti servono altre tre persone, giusto? Io ci sarò, quindi ne restano due.”

Seduto a gambe incrociate sul pavimento, Regan espirò, si umettò le labbra e fissò l’amico dal basso.

“Ci sarebbe la tua famiglia…” mormorò mentre giocherellava nervosamente con i polsini della felpa e, prima che Roman potesse aprir bocca, proseguì a illustrare il suo ragionamento, “Insomma, non posso chiedere a nessun altro. Deirdre non parteciperà, i cacciatori sono fuori discussione per ovvi motivi e i nostri compagni di scuola e mia zia Hillary non sanno nulla del soprannaturale. Ma se tu, adesso, mi dici di no, va bene. Il rabbino di Athens disse che avrebbe potuto aiutarmi, e con lui saremmo a tre. Forse potrei chiedergli di portare un collega…”

Terminò la frase con una nota esitante, sentendosi schiacciare dallo sguardo intenso di Roman.

“Dimmi solo una cosa: se dovesse andar male, che piani hai per proteggere quelli che sopravviveranno, cioè Deirdre e i membri del mio branco che non parteciperanno al rituale? Che garanzie offri per la loro salvezza? I cacciatori non esiteranno a farli fuori se noi dovessimo fallire. Non so per quale motivo ci abbiano lasciati in pace finora, ma so che non durerà.”

Regan si corrucciò. Dopo qualche secondo di riflessione, scosse debolmente il capo.

“Non posso garantire per loro. Comprendo le tue paure, io provo lo stesso per mia nonna, ma non posso farmi distrarre. Nel mio piano, il fallimento non è contemplato. Se succederà, moriremo. Allora non importerà se saranno i cacciatori o il demone a fare secchi tutti gli altri.”

“Okay. Grazie per la sincerità.” Roman gli sorrise debolmente, “Ne parlerò con mio padre. Tu, però, chiama comunque il rabbino.”

Regan abbozzò a sua volta un sorriso, che somigliava più a una smorfia costipata.

Trascorsero un’altra ora a battibeccare sul giorno del rituale. Regan voleva farlo il prima possibile, Roman voleva aspettare fino a dopo la luna piena.

“La luna piena di gennaio è chiamata Luna del Lupo per una ragione, Roman. Sarai più forte, la tua famiglia sarà più forte! E servirà la vostra forza per alimentare l’energia del cerchio di contenimento.”

“Più forza uguale meno controllo sulla parte animale! Non saremo abbastanza coerenti per aiutarti!”

“Non dovrete dire o fare nulla. Solo la vostra presenza conta. Penserò a tutto io. Fidati di me.”

Alla fine, l’argomentazione di Regan vinse solo perché sfoderò gli occhioni dolci.

“Okay, mi arrendo. Ma ti servirà più di qualche moina per convincere mio padre.”

“Accetto la sfida.”

Roman sbuffò, il fantasma di un sorriso sulle labbra, e indicò il suo cellulare: “Chiama il rabbino.”

Regan recuperò il foglietto con il numero dalla scrivania e lo digitò. La chiamata venne accettata dopo cinque squilli, ma la voce che rispose non era quella di Joseph.

“Ehm, salve. Cerco Rabbi Joseph?”

La donna dall’altro estremo della linea scoppiò in singhiozzi. Regan e Roman si guardarono con crescente apprensione.

“Sono la sorella. Joseph è morto tre giorni fa, ha avuto un incidente. Lei è della congregazione?”

“Che incidente?”

“È stato investito da un’auto mentre attraversava la strada. L’auto ha avuto un guasto improvviso, i freni non hanno funzionato.”

“Oh. Mi dispiace. Condoglianze.”

“Grazie. Posso conoscere il suo no-”

Regan riattaccò.

“Bene. Direi che la scelta si è ridotta drasticamente.”

Roman levò gli occhi al cielo.

Dopo una cena a base di pollo al curry e riso bianco, Regan, Roman e Deirdre si sedettero sul divano per guardare un po’ di tv. Scorrendo i canali per trovare un programma decente, capitarono sul notiziario serale. Quando le telecamere inquadrarono Hillary, Regan intimò a tutti di tacere.

Siamo in diretta dal centro commerciale di Harrington Lane ad Ashwood Port, dove un uomo armato si è asserragliato con degli ostaggi. Non sappiamo se l’uomo ha dei complici o è solo. L’FBI è entrata dieci minuti fa per negoziare il rilascio degli ostaggi.” stava dicendo la giornalista al microfono, “Ricordiamo che lo sceriffo Zimmermann sta collaborando con l’FBI per venire a capo delle scomparse avute luogo negli ultimi mesi, oltre che per arginare il picco di criminalità che sembra aver preso piede nella tranquilla cittadina di Ashwood Port, Massachusetts. Non c’è stata ancora alcuna svolta nelle indagini e- ecco, stanno uscendo! I civili sembrano illesi.”

La telecamera inquadrò un folto gruppo di persone che venivano scortate fuori dalle forze dell’ordine. Tutte sfoggiavano facce spaventate. La maggior parte furono guidate verso le ambulanze per un controllo generico sulle loro condizioni. Poi la telecamera offrì una panoramica degli agenti schierati dietro una barriera di volanti, armati di pistola e con la postura rigida di chi è pronto a far fuoco.

All’improvviso, uno sparo riecheggiò nel centro commerciale.

Oh mio Dio! Qualcuno ha appena sparato! Non riusciamo a capire cosa stia succedendo. L
’FBI è ancora dentro. Lo sceriffo sta dando istruzioni... dice che dobbiamo arretrare, non è sicuro.

La gente raccolta attorno alle ambulanze iniziò ad agitarsi e urlare in preda al panico. Alcuni agenti si adoperarono per farli allontanare il più possibile. Pochi secondi più tardi, l’FBI riemerse dalle porte del centro commerciale facendo ampi gesti in direzione dei paramedici.

I paramedici stanno entrando con una barella. È probabile che il criminale sia ferito o morto, e che lo sparo che abbiamo sentito, quindi, sia stato opera di uno degli agenti. Ecco, ecco! Stanno uscendo. C’è un corpo sulla barella. È infilato in un sacco per cadaveri. Gli agenti sono al completo, perciò vuol dire che il terrorista è morto. Adesso proveremo ad avvicinarci per saperne di più.”

La telecamera si focalizzò sugli agenti dell’FBI. Uno di loro si fece incontro ai giornalisti. Il volto pulito non tradiva alcuna emozione e la sua intera figura emanava un’aura professionale e intimidatoria. La stoffa dell’uniforme era tesa sui muscoli gonfi, il giubbotto antiproiettile gli fasciava il torace ampio e i fianchi stretti. Le luci che lo circondavano conferivano una tinta bionda ai suoi capelli, tagliati a spazzola, e le ombre facevano risaltare la spigolosità della mascella squadrata. Ad occhio e croce era sulla quarantina, se non più giovane.

Agente, può dirci cos’è successo?

Sono John Bennett, membro delle forze speciali dell’FBI. L’uomo che ha aperto il fuoco si chiamava Jack Shawn, era un impiegato delle poste. Aveva rubato la pistola a un membro della sicurezza, che è stato rinvenuto privo di sensi nel bagno degli uomini al secondo piano, con una ferita da corpo contundente alla testa. I motivi del gesto di Shawn sono ancora ignoti, poiché nessuna delle informazioni che siamo riusciti a strappargli aveva un senso. Ha risposto positivamente ai negoziati per gli ostaggi, ma poi ha iniziato a balbettare frasi sconnesse. Crediamo che fosse sotto l’effetto di stupefacenti. È stato abbattuto non appena ha puntato la pistola su uno dei nostri. Abbiamo dovuto agire tempestivamente, il soggetto era instabile. Il corpo verrà portato dal coroner per l’autopsia. Non ci sono feriti, Shawn ha sparato sempre e solo verso il soffitto per intimare silenzio agli ostaggi. Domani terremo una conferenza stampa per aggiornare i cittadini sul risultato dell’autopsia. È tutto.”

Bennett diede le spalle alla telecamera e camminò spedito verso lo sceriffo. La giornalista provò a richiamare la sua attenzione, ma degli agenti la fermarono e le ordinarono di andarsene.

Regan non aspettò di vedere gli sviluppi. Prese il telecomando e spense la televisione. Roman si girò a guardarlo con aria interrogativa.

“John Bennett.” scandì Regan, “Sta con i cacciatori.”

Deirdre mugugnò meditabonda. Roman aggrottò le sopracciglia.

“Non puoi far fuori anche lui. È dell’FBI.”

Regan assentì distratto, l'attenzione già puntata su Deirdre: “Nonna, vorrei che domandassi a zia Hillary di passarti il referto dell’autopsia di Shawn.”

“Perché?”

“Qualcosa mi puzza.”

“Credi sia stato il demone a influenzarlo?”

“Non è da escludere.”

“Vedrò che posso fare.”

Passarono le successive ore a giocare a UNO al tavolo di cucina. Deirdre era in vantaggio di tre vittorie su Regan e Roman, che ne vantavano una a testa. In un ultimo, disperato tentativo decisero di allearsi contro la donna, ma lei li batté di nuovo senza versare una singola goccia di sudore.

La tensione si fece sempre più palpabile via via che le lancette dell’orologio si approssimavano alla mezzanotte. Al primo rintocco, si pietrificarono all’unisono e aspettarono col fiato sospeso. Quando il conto alla rovescia terminò, si accasciarono esausti sulle sedie.

Roman si sporse verso Regan e lo abbracciò forte, inalando a pieni polmoni il suo odore. Deirdre lo imitò poco dopo, immensamente sollevata. Regan permise loro di soffocarlo, lieto che non fosse accaduto nulla.

Misero a posto le carte e si prepararono per andare a dormire. Dopo il suo turno in bagno, Roman comparve in camera di Regan con solo i boxer addosso. Senza dire una parola, il moro scostò le coperte in un tacito invito, che il lupo colse all’istante.

Si aggiustarono come poterono sul minuscolo materasso, finendo per incastrarsi schiena contro petto. Roman gli avvolse il busto da dietro e intrecciò le loro gambe, il naso affondato nei riccioli di Regan. Il sonno li reclamò in pochi minuti e caddero addormentati stretti l’uno all’altro.

Il mattino seguente, Roman tornò a casa dopo colazione per avvertire suo padre dell’arrivo di Regan. Questi, invece, si concesse un paio d’ore di relax prima di inforcare la bici e pedalare alla volta della dimora dei Sinclair.

Smontando dalla bici, trasse un profondo respiro per calmarsi. Poi salì le scale della veranda e bussò tre volte. Vincent aprì la porta con una faccia funerea. Regan rispose con un sorriso incerto.

“Buongiorno. Roman vi ha avvisati del mio arrivo, presumo.”

L’alfa lo squadrò da capo a piedi per interminabili attimi, protraendo il silenzio imbarazzante finché Regan non cominciò a molleggiarsi sulle piante dei piedi in evidente disagio. Allora, soddisfatto, compì un passo indietro e, con voce solenne, pronunciò un secco “Entra”.

Regan boccheggiò scioccato: “Sa cosa sta facendo, vero?”

“Sì.”

Il ragazzo, ancora incredulo, oltrepassò cauto la soglia. La porta si richiuse dietro di lui con un tonfo. Un fastidioso formicolio gli fece rizzare tutti i peli del corpo. Lo nascose come meglio poté, ma Vincent dovette cogliere qualche indizio dal suo odore, perché piegò le labbra in un ghigno.

“Vieni in biblioteca, Roman ci aspetta lì.”

Regan lo seguì, imponendosi di non incespicare come un cerbiatto appena nato. La rigidità che aveva preso d’assalto i suoi arti gli rendeva difficile qualsiasi movimento. Udì altri cinque battiti al piano di sopra, ma nessun rumore.

Quando entrò in biblioteca, Roman si alzò dalla poltrona e andò ad abbracciare velocemente Regan. Lui ricambiò con un’impacciata pacca sulla schiena.

“Sedetevi.” ordinò Vincent, e i due ragazzi obbedirono, “Allora, Regan. Mio figlio mi ha parlato di un rituale.” esordì, accomodandosi sull’unica poltrona libera.

“Sì. Ehm, ho qui uno schema…”

Regan rovistò nello zaino e tirò fuori un blocco. Lo aprì alla prima pagina e lo porse a Vincent, che si mise a studiarlo con attenzione.

“Affinché funzioni, mi servirebbero altre due persone.”

“E hai pensato di rivolgerti a noi.”

Regan si grattò la nuca e scrollò una spalla: “Non è che abbia molte altre alternative.”

Vincent continuò a sfogliare il blocco in silenzio, esaminando da vicino tutti i particolari. Lesse persino tutte le noticine a margine, al limite del puntiglioso.

Roman non disse una parola, preferendo lasciar parlare suo padre e Regan. D’altronde, era lì solo in funzione di supporto nel caso Vincent avesse perso le staffe.

“Mi sembra un buon lavoro. Hai pensato ad ogni possibile eventualità.” commentò l’alfa.

I due ragazzi si scambiarono occhiate stupite.

Vincent richiuse il blocco e se lo poggiò sulle ginocchia, per poi scrutare Regan con espressione corrucciata, in preda a un profondo conflitto interiore. Da un lato, desiderava liberarsi del demone come chiunque altro, dall’altro non voleva mettere in pericolo il suo branco. Era dura scegliere tra le vite di chissà quanti innocenti e quelle del suo piccolo nucleo familiare.

Spostò l’attenzione sul figlio, il quale ricambiò il suo sguardo con uno colmo di determinazione. Non gli era sfuggito il modo in cui sedeva, leggermente inclinato verso Regan. L’idea che la loro amicizia fosse più profonda di quanto appariva gli lasciava un gusto amaro in bocca, oltre a fargli venire voglia di ridurre in sottomissione Roman e ordinargli di stare lontano da Regan. Ma una minuscola, quasi infinitesimale, parte di lui era grata all’ibrido: stando al suo fianco, Roman era cresciuto, assumendo una consapevolezza di sé che non aveva mai avuto.

Vincent sapeva di trovarsi di fronte a un bivio. Regan sarebbe stato un’utile aggiunta al branco, era innegabile che fosse intelligente e capace. Il lupo era ancora incerto sulla sua bussola morale, ma per il momento Regan pareva intenzionato a percorrere la retta via e impegnarsi a non diventare un mostro succhiasangue, e tanto bastava. Il problema era che, se lo avesse accolto, avrebbe infranto le stesse regole che per tutta la vita aveva difeso; avrebbe peccato di incoerenza e perso la stima del branco, nonché la credibilità dinanzi agli altri alfa conservatori come lui. Inoltre, avrebbe dovuto richiamare i membri che negli anni aveva cacciato perché non condividevano la sua idea di branco, scusarsi con loro e prostrarsi per fare ammenda. Il pensiero gli suscitò una repulsione immediata.

Magari esisteva una via di mezzo. Non era raro, in fin dei conti, che un branco possedesse amici al di fuori di esso, alleati. E, ad essere onesti, a chi voleva darla a bere? Aveva già deciso di dare a Regan la sua fiducia quando lo aveva invitato a entrare in casa, offrendogli in questo modo le chiavi d’accesso alla sua tana.

Si accasciò sullo schienale della poltrona e accavallò le gambe, stringendo il bordo del blocco tra le dita per mantenerlo in equilibrio.

“D’accordo. Avrai la mia collaborazione.” dichiarò.

Roman si raddrizzò subito e rivolse al padre un sorriso d’approvazione. Regan fu più moderato nella sua reazione, ma anche lui gli lanciò un piccolo sorriso di gratitudine.

“Ovviamente, parlo per me. Dovrò discuterne col resto del branco e chiedere se ci sono volontari. Non costringerò nessuno di loro a partecipare.”

“Certo, capisco. La ringrazio, signor Sinclair.”

Vincent annuì e si alzò: “Aspettate qui.”

“Ci parli adesso?” domandò Roman, ancora basito per la tolleranza e comprensione del genitore.

“Sì. Torno presto.”

Attraversò la biblioteca a grandi falcate, uscì e si richiuse la porta alle spalle.

Regan notò che si era portato via il blocco. Sperò che glielo restituisse, dato che non aveva fatto delle copie del rito. Roman lo abbracciò di slancio e strusciò il naso tra i suoi capelli.

“Direi che è andata bene.” disse Regan.

“Già. Non me l’aspettavo.”

Regan fece scorrere lo sguardo sulle costole dei libri che riempivano gli scaffali. Le mani prudevano dal desiderio di agguantarli e leggerli.

“Hey, dici che tuo padre si arrabbia se…?” fece un gesto vago in direzione dello scaffale più vicino.

“Nah. Divertiti.”

Il moro non se lo fece ripetere. In un balzo raggiunse lo scaffale e arraffò quanti più libri poté con mani avide. Sedendosi di nuovo, ne aprì uno a caso e si lasciò assorbire dalla lettura.

Un’ora dopo, Vincent fece di nuovo il suo ingresso in biblioteca. Sean entrò dietro il suo alfa e richiuse la porta. Regan posò il tomo che stava leggendo sul bracciolo della poltrona e scattò sull’attenti. Roman non reagì, rimanendo seduto a gambe incrociate sul pavimento ai piedi dell’amico, le spalle incorniciate dai suoi polpacci.

“Sean si è offerto.” li informò Vincent, “Abbiamo anche pensato al luogo. Abbiamo un bunker in cortile, che usiamo durante la luna piena per i lupi che ancora non hanno acquisito sufficiente controllo sugli istinti. Andrebbe bene?”

“È insonorizzato?” chiese Regan.

“No. Ma, essendo sotto terra, dovrebbe comunque isolare i suoni.”

“Okay, può andare. Sapete già come vi organizzerete per quella notte? La luna sarà piena.”

“Tamara si chiuderà in cantina con Jennifer. Le somministrerà una piccola dose di argento liquido per tenerla debole fino all’alba e aspetterà lì con lei. Ruby e i bambini prenoteranno una camera in un motel a Salem. Anche Trevor e Nina riceveranno una dose di argento, per precauzione.”

“Perfetto. Allora…”

“Prepareremo il bunker per martedì.”

“Okay. Ehm, potrei riavere il blocco? Non ho altre copie. Se volete, potete scattare delle foto.”

“Oh, sì.”

Vincent glielo restituì dopo aver scattato delle foto col cellulare. Regan lo ripose nello zaino e si caricò quest’ultimo in spalla.

“Grazie ancora per l’aiuto.”

Vincent annuì con aria grave. Roman lo scortò fino alla porta, dove lo salutò con un altro abbraccio.

“Sei sicuro che non vuoi che resti con te?”

“No, devo prepararmi per il rito. La tua presenza mi distrarrebbe.”

“Non credevo di essere così importante.” ghignò Roman.

Regan gli tirò un pugno giocoso sul braccio e raggiunse la bici con una corsetta. Montò e, sventolando una mano, pedalò via.

Quella sera, chiamò Derek per metterlo al corrente degli ultimi sviluppi. Lui gli promise che i cacciatori sarebbero arrivati dai Sinclair all’ora prestabilita e si sarebbero focalizzati solo sul demone, nel caso in cui l’esorcismo non fosse andato a buon fine. Nessuno di loro era entusiasta di unire le forze con il branco, ma era quanto imponevano le circostanze.

“E Bennett?” indagò Regan.

“Non verrà.”

“Perché?”

“Non può lasciare la sua squadra, sarebbe sospetto. Vuoi che ci sia anche lui?”

“No! Sì…? È solo che sono un po’ in ansia. Insomma, se il rito andrà storto, voglio che ci siano più cacciatori possibili presenti per impedirgli di seminare ulteriore caos. Se potessi, chiamerei l’esercito.”

“Hey, calma, andrà bene. Ho fiducia in te.”

“Buono a sapersi. Ah, un’altra cosa: domani e martedì non verrò a scuola, devo prepararmi e mettere a punto gli ultimi dettagli. Non chiamare e non passare da casa mia, ci vedremo direttamente dai Sinclair.”

Derek sbuffò irritato: “Ma scommetto che Roman può venire a trovarti quando vuole, vero?”

“Ooooh, sento puzza di gelosia, per caso? Piantala, sai che mi dà fastidio. Comunque no, nemmeno Roman avrà il permesso di disturbare. Vedrò anche lui martedì. Ora sono stanco, voglio dormire.”

“Aspe-”

“Buonanotte, Derek.”

“Re-”

Regan spense il cellulare e lo adagiò sul comodino con un sospiro.

 
*

Lunedì mattina, Deirdre lo svegliò di buon’ora. Mentre Regan vegetava sul divano, la donna posizionò una piscina gonfiabile in mezzo al salotto e la riempì d’acqua, erbe e sali. Seguendo le sue direttive, Regan ci si immerse nudo e lasciò che l’aroma purificante gli offuscasse la mente. Cadde addormentato senza rendersene conto. Per la prima volta dopo settimane sognò il lupo dalla pelliccia color caramello e la macchia bianca intorno all’occhio. Corsero per la foresta onirica per quelle che parvero ore, poi si raggomitolarono l’uno sull’altro sotto i raggi della luna piena. Al risveglio, Regan si sentì rinvigorito.

Il resto del tempo lo trascorse insieme a Deirdre a rivedere i vari passaggi del rito. Ripassarono anche il piano nel dettaglio, per appurare di non aver tralasciato niente. L’ansia li stava mangiando vivi.

Verso sera, Deirdre chiamò Hillary per domandarle dell’autopsia su Jack Shawn. Hillary confermò i loro sospetti, dicendo che sulla coscia destra del soggetto era stato individuato il morso di un rettile, presumibilmente un piccolo serpente. Deirdre scansò con notevole abilità il terzo grado dell’amica, che voleva sapere come mai le interessava l’autopsia di Shawn, e riattaccò promettendole di invitarla a cena presto.

Martedì, Regan ripeté il bagno e, di nuovo, sognò il lupo. Per pranzo Deirdre gli offrì un bicchiere pieno di sangue. Non distolse lo sguardo finché Regan non lo tracannò sino all’ultima goccia.

Alle sette di sera, Regan raccolse tutto l’occorrente per il rito e lo ficcò nello zaino. Deirdre cercò di aiutarlo, ma il ragazzo la pregò di lasciargli qualche minuto di solitudine per schiarirsi le idee.

Quando tutto fu in ordine, si caricò lo zaino in spalla e marciò verso la porta come un condannato che si dirige al patibolo. La nonna lo coinvolse in un abbraccio che gli strappò tutto l’ossigeno dai polmoni e gli stampò un bacio sulla fronte.

“Torna da me.”

Regan deglutì il groppo che gli ostruiva la gola e annuì, a corto di parole. Dopodiché, uscì e inforcò la bici.

Deirdre osservò la sua figura allontanarsi lungo la strada esalando un sospiro tremante. Mentre chiudeva la porta, si premette una mano sul cuore e implorò qualunque divinità fosse in ascolto di proteggere Regan.

 
*

“Vince…”

A metà strada tra il corridoio e la porta d’ingresso, Vincent si fermò e si girò verso Tamara. L’espressione spaventata della compagna lo spinse a raggiungerla e avvilupparla in un abbraccio. Come se non avessero già passato tutto il giorno accoccolati l’uno sull’altra. Affondò il naso tra i suoi capelli ramati per inalare il suo odore e le baciò una guancia con affetto.

“Sta’ tranquilla. Andrà tutto bene.” cercò di rassicurarla, ma la scia di paura che la ricopriva da capo a piedi non svanì, “Fidati di me.” aggiunse, e infuse in quelle parole tutta la determinazione che possedeva.

Tamara annuì e si scostò con riluttanza: “Sta’ attento. Se qualcosa va storto, promettimi che non farai l’eroe. Prendi Roman e Sean e scappa, okay?”

Poco distanti dalla coppia, Roman e Regan li osservavano in silenzio. Il lupo si accostò all’altro per intrecciare una mano alla sua. Regan gli scoccò un sorriso tirato e diede una strizzatina di rimando.

Sean fece cenno all’alfa di muoversi. Vincent baciò Tamara sulle labbra, poi si voltò e marciò fuori, diretto al bunker. Sean, Roman e Regan si accodarono a lui.

Non appena furono usciti, Tamara chiuse la porta a doppia mandata e ci adagiò sopra la fronte, prendendo ampi respiri. La casa era silenziosa. Sua sorella e i bambini erano già arrivati a Salem. Se tutto fosse filato liscio, sarebbero tornati l’indomani.

Jennifer, invece, era incatenata nel seminterrato. Aveva dovuto sedarla al suo arrivo a metà mattina, per evitare che facesse del male a se stessa e al branco, e altre due volte nel pomeriggio, sia per aiutarla a contrastare la furia animale che per arginare i ringhi, così da non richiamare inavvertitamente le moleste attenzioni dei vicini, che avrebbero potuto rivolgersi alla polizia. Senza contare che le catene a cui era assicurata non erano robuste come quelle del bunker, quindi era stato necessario prendere ulteriori precauzioni.

Si raddrizzò e si fece forza. Il suo alfa contava su di lei per tenere Jennifer al sicuro, e questo avrebbe fatto. Camminò decisa verso la porta del sottoscala, l’aprì senza esitare e concesse al buio e all’aria umida di inghiottirla.  

 
*

La lampadina che penzolava dal soffitto proiettava ombre sinistre sui muri del bunker. Regan si guardò intorno incuriosito, prendendo atto della disposizione degli oggetti. Notando le catene incassate nel muro, ebbe un déjà vu.

Il fiato gli si mozzò in gola quando, in mezzo a degli scatoloni ammuffiti, scorse il grammofono del suo sogno. Era polveroso, la base leggermente ammaccata e la manovella rotta, ma era identico.

Subito dopo, realizzò che il déjà vu era dato dal fatto che lui era già stato lì, nella visione che aveva condiviso con Steno. Come se lei avesse già saputo dove tutto sarebbe finito. E se lo sapeva lei…

Un brivido gli percorse la spina dorsale e un brutto presentimento strisciò nelle sue viscere.

“Regan?”

Roman gli strinse la spalla in un gesto che voleva essere confortante, ma tolse solo l’aria a Regan, facendolo sentire in gabbia. Se la scrollò di dosso e scosse la testa, borbottando che stava bene. Il lupo non insisté, astenendosi dal menzionare la scia acre della paura appiccicata ai vestiti di Regan.

Vincent e Sean richiusero la botola e affiancarono Roman su entrambi i lati.

“Tocca a te, Regan. Fa’ quel che devi.” disse l’alfa.

Regan inspirò e si sforzò di rilassare le mani, fino ad allora serrate a pugno lungo i fianchi. Camminò verso il centro della stanzetta, si inginocchiò e poggiò lo zaino accanto a sé. Rovistò all’interno per estrarre le cose di cui avrebbe avuto bisogno nell’immediato, le altre le lasciò dove erano.

Afferrò un gessetto bianco e iniziò a disegnare i cerchi, uno grosso centrale e quattro più piccoli nei punti cardinali. Nel tracciare quello di Roman esitò giusto un attimo, consumato dall’incertezza. Infatti, non aveva dimenticato che una delle voci del suo incubo apparteneva a lui. Digrignò i denti. Non poteva permettersi di avere ripensamenti adesso. Ignorò il nodo allo stomaco e abbassò di nuovo il gessetto sul cemento.

Disegnò a memoria i simboli sui bordi dei cerchi e nelle griglie al loro interno: in quello centrale inserì i simboli di contenimento, mentre negli altri i simboli di protezione. Quindi invitò i tre licantropi a prendere posizione.

Roman entrò nel cerchio a nord, Vincent in quello a sud e Sean in quello a ovest. Regan sarebbe entrato nel cerchio a est: il demone apparteneva a una cultura orientale, perciò sarebbe stato più attratto da quel punto cardinale rispetto agli altri. Cioè, se qualcosa fosse andato storto, si sarebbe scagliato prima su Regan, dando agli altri la possibilità di mettersi in salvo.

Prese una ciotola di terracotta e alcune erbe e polveri contenute in barattolini di vetro. Le versò nella ciotola assieme a dell’acqua di fonte e impastò finché non si trasformarono in una crema maleodorante. La spalmò sui bordi dei cerchi, attento a non rovinare il gesso. In seguito, posò quattro quarzi nei punti di contatto tra i cerchi più piccoli e quello centrale.

Roman si torturò un labbro. Le dita strattonavano nervosamente il bordo della felpa, in un vano tentativo di sfogare la tensione. La luna piena stava raggiungendo l’apice ed era dura resistere al suo richiamo. Diresse lo sguardo da Regan a suo padre, che mimò ampi respiri. Roman accolse il suo consiglio. Chiuse gli occhi, si concentrò sul battito del cuore di Regan e si costrinse a calmarsi.

Spiò Sean dalla fessura tra le ciglia e lo vide rigido. I muscoli delle braccia erano gonfi, come se fosse in procinto di compiere un balzo; la mascella contratta poteva solo significare che stava tentando di impedire alle zanne di uscire; dai pugni serrati Roman fiutò un vago effluvio di sangue fresco, segno che gli artigli avevano bucato la pelle. I suoi occhi erano neri invece che azzurri.

Sean ricambiò il suo sguardo. Dopo qualche secondo, il lupo mannaro annuì, comunicandogli senza parole che aveva la trasformazione sotto controllo. Roman si rilassò un po’ di più e rivolse l’attenzione di nuovo su Regan.

“Cos’è quella roba? Puzza.” 

“Un mix di erbe e minuscoli cristalli di quarzo. Deirdre ha usato achillea, alloro, basilico, timo, bacche di ginepro e galbano. Presumo sia quest’ultimo la causa dell’odore sgradevole. Prima di cominciare il rituale dovrò bruciare l’intruglio. Se puzza ora, immagina dopo. Respira con la bocca.” spiegò sbrigativo, per poi spargere polvere di cedro sulle linee di contorno dei quattro cerchi più piccoli, “Devo ammettere che questo posto è perfetto…”

“Cioè?” fece Vincent.

“Da quando siete arrivati in città, alcuni di voi hanno trascorso tutte le lune piene qua sotto. Posso sentirlo. Il bunker, oltre ad essere intriso di energia lunare, purificatrice di per sé, conserva forti tracce della vostra essenza vitale. I muri e il pavimento hanno assorbito sangue di lupo, perso, deduco, tramite graffi accidentali. Inoltre, stanotte nel cielo splende la Luna del Lupo. Grazie al sangue di lupo e a questa particolare luna, il bunker è il luogo perfetto per il rito. Non vi sentite più carichi del solito?”

I tre licantropi si fissarono a vicenda negli occhi, due paia di un giallo brillante e un paio neri come la pece, e annuirono.

“Stanotte sarete più forti, non solo per via della luna, ma perché vi trovate qui. Usate l’energia che vortica intorno a voi, accoglietela e lasciate che vi protegga. Non abbiate timore di trasformarvi, perché una volta che avrò finito i preparativi non potrete uscire più dai cerchi finché non lo dirò io. Intendo che, anche se vi trasformerete, rimarrete dove siete. Non c’è alcun pericolo.”

“Vorrei farti notare che non riusciremo a restare dentro al cerchio se ci trasformiamo.” disse Vincent.

“Quando finirò di benedirlo, si aggiusterà alla vostra nuova taglia.” lo rassicurò e ammiccò con un mezzo sorriso, “La magia ha i suoi pregi.”

Roman rilasciò un respiro che non si era accorto di stare trattenendo. Gli artigli rimpiazzarono le unghie in un istante e la sua faccia divenne pelosa. Le zanne biancheggiarono sotto l’alone giallognolo della lampada. Pure Vincent e Sean allentarono le redini sull’autocontrollo, permettendo alla trasformazione di avviarsi, ma non di completarsi.

Regan girò attorno a loro per posizionare le candele, poi agguantò un mucchietto di artemisie, legate insieme con uno spago, e l’accendino. Mentre le erbe bruciavano, passeggiò per tutto il bunker, spandendo i fumi in ogni angolo. I lupi tossirono e ringhiarono infastiditi.

Regan riprese posto accanto al cerchio e aprì una piccola boccetta contenente una sostanza dall’odore pungente. Piegò le labbra in un sorriso divertito quando udì i lupi starnutire. Non doveva essere piacevole venire assaliti da così tanti aromi diversi.

“Questo, invece, è mastice, una resina particolare che mi aiuterà nell’evocazione del demone e, al contempo, aumenterà i miei poteri psichici per contrastarlo.” illustrò velocemente per appagare la curiosità che leggeva sui loro volti.

“Non hai già la collana per questo?” disse Roman.

“Preferisco non rischiare.”

Quando si tolse felpa e maglia, Roman vide che non indossava il braccialetto con lo stemma del branco, quello che gli aveva regalato a Natale. Immaginò che il motivo per cui Regan lo avesse tolto riguardasse il non voler scatenare una lotta interna sbandierando il segno tangibile dell'affetto di Roman sotto al naso di Vincent, più che una reale intenzione di dissociarsi dall'amico e ciò che il braccialetto suggeriva, cioè il fatto che Roman avesse reclamato Regan come branco. Ciononostante, Roman provò un moto di fastidio e dispiacere.

Realizzò che Regan si era sempre premurato di tenere il braccialetto celato alla vista ogni volta che era entrato in contatto con il branco. Non lo aveva fatto per vergogna, Roman lo sapeva, però questa consapevolezza non gli impediva di sentirsi vagamente tradito.

Regan inzuppò due dita nella resina e tracciò sul torace la runa della forza, Uruz. Ricalcò anche il contorno del proprio cerchio svuotando la boccetta. Si alzò e, accendino alla mano, accese le candele. Finito il giro, chiuse i cerchi dei lupi con il gessetto.

Recuperò lo zaino per estrarre la moneta e una piccola campana di ferro. La fodera di pelle le impediva di suonare.

“A cosa serve la campana?” domandò Vincent.

“Secondo un libro di mitologia greca che ho letto, Steno detesta il suono delle campane di ferro. Se, dopo averla liberata dalla possessione, proverà ad attaccarci, suonerò la campana e la costringerò alla fuga.”

“Ammesso che sia vero e non una leggenda.”

“Già.”

Roman interruppe quello scambio con un lieve guaito: “Ci sono davvero tante cose che potrebbero andare storte. Sei sicuro di quello che fai?”

“Ho analizzato tutte le possibili variabili ed elaborato almeno due piani per ognuna di esse. Non c’è molto altro che posso fare, eccetto pregare che tutto vada liscio. Di una cosa, però, puoi stare certo: se la situazione dovesse mettersi male, userò me stesso come scudo per darvi la possibilità di fuggire.”

All’improvviso, la testa di Vincent scattò verso l’entrata del bunker. Un ringhio rotolò fuori dalle sue labbra, stirate sulle zanne affilate.

“C’è qualcuno qui fuori.”

“Saranno i cacciatori. Ho chiesto loro di venire per limitare i danni in caso di fallimento.” disse Regan.

“Hai invitato i cacciatori nel mio territorio?!”

“Sì. Nella peggiore delle ipotesi, cioè se il demone dovesse ucciderci, chi proteggerà il resto del tuo branco e le persone che vivono ad Ashwood Port? Resteranno fuori, tranquilli.”

“Ma se tu ci liberi per farci scappare, i cacciatori ci spareranno a vista!”

“Dovrebbe esserci Derek con loro. Ho dato istruzioni affinché non badino a voi, ma a qualunque cosa demoniaca esca da qua sotto. Il demone è la loro priorità e sanno che la vostra forza e velocità risulterebbe a loro vantaggio in uno scontro frontale. Non vi uccideranno. Beh, non lo faranno finché il demone è libero, almeno.”

“Avrei gradito saperlo prima.” ringhiò Vincent, per poi rivolgersi al figlio, “Tu lo sapevi?”

Roman negò e fissò Regan con apprensione.

Regan prese un’altra ciotolina, ci sminuzzò dentro della salvia e la mischiò all’acqua di fonte. Si rialzò e andò a disegnare altri simboli protettivi sui muri del bunker. Tornato indietro, mise da parte la ciotolina. Lasciò cellulare e chiavi sul tavolino e infilò la moneta in tasca. Una volta entrato nel proprio cerchio, lo sigillò con il gessetto e si inginocchiò un’ultima volta per dar fuoco all’intruglio spalmato sul cerchio centrale. Il fumo si levò, aggredendo le narici dei lupi.

“Ricordate: se il demone prova a parlarvi, non ascoltatelo e fate esattamente ciò che vi dico, senza obiettare.”

“A costo di sembrare ripetitivo, sei sicuro di quello che fai, Regan?” chiese Roman.

“Diciamo di sì… alla peggio, moriremo tutti.” strofinò i palmi sui jeans e fece un bel respiro, “Bene! Che lo spettacolo cominci.”

Le parole dell’evocazione rotolarono fuori dalle sue labbra con facilità, avendole recitate nella testa centinaia di volte. Le fiamme proiettavano ombre tremolanti sulle pareti e il fumo aromatico impregnava l’ambiente. La voce di Regan riempì il silenzio, satura di un’energia che i lupi non riuscivano a descrivere.

Per lunghi minuti non accadde niente, tanto che persino Regan si concesse qualche dubbio. 

Ad un tratto, il suono di un tamburo si diffuse per il bunker. Regan inciampò su alcune sillabe, colto di sorpresa. I lupi, pur guardandosi intorno con ansia, restarono muti come pesci, memori dell’ordine di non proferire verbo a dispetto delle stranezze a cui avrebbero assistito.

Alle percussioni si aggiunse presto un flauto e uno strumento a corde. Regan riconobbe la melodia orientale del suo incubo. Fu quando girò la testa per osservare il grammofono rotto che si rese conto che la musica proveniva da lì.

Via via che il tempo passava, il volume aumentava, cosicché Regan si trovò costretto quasi a urlare pur di sovrastare la melodia. Poi, di colpo, la musica si abbassò, pur continuando a suonare.

Il cellulare di Regan si accese da solo e inoltrò una chiamata a Deirdre. Il vivavoce si attivò. Regan sbiancò e interruppe il canto.

“Pronto? Stai bene, leprotto?”

La voce di Regan giunse forte e chiara dall’altoparlante, anche se il vero proprietario aveva la lingua incollata al palato.

“Non lo so, c’è qualcosa che non va. Puoi venire dai Sinclair?”

Regan si portò le mani alla gola. Graffiò la pelle, pigiò sulla mandibola per forzarla ad aprirsi.

Roman, Vincent e Sean ascoltarono con crescente terrore.

“Certo. Sarò lì tra poco, okay?”

“Grazie, nonna.”

“A presto, leprotto.”

Appena la chiamata terminò, un serpente nero sbucò da sotto il tavolino e strisciò fino al cellulare, per poi disintegrarlo tra le sue spire. Regan guardò la lingua biforcuta vibrare in un sibilo, gli occhi del rettile ridotti a fessure beffarde, come se lo stesse deridendo.

Tornò a fronteggiare il cerchio centrale. Si inginocchiò e rinnovò le fiamme con quelle che scaturirono dai suoi palmi. La morsa che gli imprigionava la mandibola sparì. Schiuse le labbra e annaspò. Tentò di placare i pensieri febbrili, simili a uno sciame di mosche, ma il panico glielo rese difficile.

Sbatté le palpebre per schiarirsi la vista annebbiata. Subito dopo sobbalzò, perché se fino a un istante prima il cerchio era vuoto, adesso il demone si ergeva al suo interno in tutta la sua raccapricciante gloria.

La lampadina sul soffitto si fulminò e le candele si spensero tutte insieme.

“Merda.”

Roman perse il controllo sulla trasformazione a causa della paura. Sotto il progressivo aumentare della mole, i vestiti si stracciarono. Nell’arco di un respiro, tutto il suo corpo si ricoprì di peluria marrone. Mani e piedi si tramutarono in zampe, che urtarono il pavimento non appena la schiena si curvò per assumere una posizione prona. Il cerchiò si ampliò per accomodare la sua stazza.

“Regan!” lo chiamò Vincent in un bisbiglio allarmato.

I simboli che aveva tracciato sui muri catturarono l’attenzione di Regan: stavano sfrigolando e svanendo. Un’altra ondata di panico lo prese in ostaggio. Doveva fare qualcosa, immediatamente.

Ricominciò a recitare, stavolta la lunga formula di esilio. L’aveva messa insieme pescando da vari rituali contenuti nei libri di demonologia che si era procurato ad Athens. Molte delle frasi originali erano in latino o in altre lingue, così le aveva tradotte tutte in inglese e amalgamate al meglio. D’altronde, Poppy gli aveva detto che non importava tanto in che lingua pronunciavi un incantesimo, quanto che dietro di esso ci fosse convinzione e potere magico.

La melodia orientale diffusa dal grammofono rimbalzò per tutto il bunker, frastornando sia Regan che i lupi. Roman guaì e si tappò come poté le orecchie con le zampe, mentre Vincent e Sean caddero in ginocchio ululando. Regan si sforzò di mantenere i nervi saldi e continuò a recitare.

“Regan, non funziona!” gridò Vincent.

La pietra di luna attorno al collo divenne incandescente. Per non ustionarsi, Regan fu obbligato a rimuoverla e scagliarla lontano. Quando, però, il bruciore raggiunse la runa vergata sul torace, strinse i denti e conficcò le unghie nelle cosce per impedirsi di cancellarla con una manata. Non poteva rendersi ancora più vulnerabile.

“Regan!”

“Silenzio!” tuonò Regan, fissando il demone con aria di sfida.

Il demone si mosse. Fu un movimento impercettibile, che in un primo momento Regan non registrò. Se ne accorse solo quando lo scoprì a una spanna dal proprio cerchio. A separarli, una sottile barriera di fiamme. Il demone avanzò ancora, ma il fuoco gli impedì di proseguire oltre.

Un sibilo assordante esplose nel bunker e il demone si liquefece. Sottoforma di melma nera, si espanse sino ai confini del cerchio e, di fronte agli occhi stralunati di Regan, divorò le fiamme.

Ora la stanza era immersa nell’oscurità. Le uniche fonti di luce, se così si potevano chiamare, erano gli occhi gialli di Vincent e Roman.

Il grammofono gracchiò e, in mezzo a quelle che sembravano interferenze radio, una voce femminile parlò in tono distaccato.

I corpi carbonizzati sono stati scoperti questa mattina. Sono state necessarie le impronte dentali per identificare le vittime: Vincent Sinclair, Sean Sinclair, Roman Sinclair e Regan McLaughlin. Nel seminterrato dentro la casa, la polizia ha rinvenuto i cadaveri di Tamara Sinclair e Jennifer Dawry. L’ennesima tragedia colpisce Ashwood Port, che piange – ksss – i suoi – ksss – mostri senz’anima, mietitori di innocenti – ksss – secondo la ricostruzione degli eventi, Regan McLaughlin ha ucciso Tamara Sinclair e Jennifer Dawry a coltellate, nove a testa, prima di chiudersi nel bunker con le altre vittime e darsi fuoco. Per ora non sappiamo altro, ma non c’è alcun dubbio che tutti i mostri”, la voce si distorse, “stiano bruciando all’inferno-”

“Basta!” ordinò Regan.

“Basta? Ma ho appena cominciato!” rispose pimpante la voce femminile, “Oh, Sean, cos’hai fatto? Quella pover famiglia… quei bambini…”

Sean si sentì gelare quando degli strilli spaventati gli aggredirono i timpani. Uggiolò e si rannicchiò su se stesso, le mani premute sulle orecchie e gli occhi pieni di lacrime. Il suo cuore batteva all’impazzata nel petto, un martellare doloroso che gli strappò via il fiato.

Dall’esterno del bunker, udirono Tamara urlare e chiamare Vincent. Degli spari accompagnavano le richieste di aiuto della lupa.

“Tamara! Regan, rompi il cerchio!” comandò allarmato l’alfa.

“Non ascoltare, non è lei.”

“Riconosco la voce della mia compagna quando la sento! Rompi questo dannato cerchio!”

“Zitto.”

Altri spari, altre urla. Il frastuono li bombardò da ogni direzione, tanto assordante che Regan riusciva a malapena a distinguere le proprie parole. Il grammofono riproduceva la melodia orientale, intervallandola con altri falsi reportage di cronaca.


“Zitto...”

“Cosa?!” fece Vincent, pronto a prendere a calci la barriera per uscire.

“HO DETTO DI STARE ZITTO!”

Un vortice di fiamme avvolse Regan e mulinò attorno a lui come un tornado.

Le grida, gli spari e i reportage cedettero il posto a un silenzio di tomba. Il cambiamento fu così repentino che tutti scrollarono la testa e si diedero dei pizzicotti per scacciare l'intontimento. 

Il demone si risolidificò in un baleno e si avvicinò a Regan. Senza stare troppo a rifletterci, Regan si lanciò in un complicato incantesimo che suonava vagamente familiare. Ricordò di averlo letto in uno dei grimori e di aver pensato che sarebbe stato utile. Solo che non lo aveva memorizzato, o almeno non consciamente.

Le parole sgorgarono libere, nitide e potenti; in qualche modo, la magia che irradiavano distorse anche la musica orientale, che aveva ripreso a suonare in sottofondo. Essa assunse note stridule e sinistre che graffiarono le orecchie come unghie su una lavagna.

Il demone cozzò contro un muro invisibile. Regan ghignò. Ma presto il ghigno lasciò spazio all’orrore, perché il demone spostò la sua attenzione su Roman. Si arrestò di fronte a lui. Un serpente nero si materializzò ai suoi piedi, spalancò le fauci e si mangiò il quarzo protettivo. Il demone protese fulmineo una mano e cinse il collo del licantropo, che emise un verso disperato.

Vincent ruggì impotente mentre guardava il figlio penzolare dalla morsa del demone. Allora ruggì alla volta di Regan per intimargli di fare qualcosa, ma pure lui pareva pietrificato.

“Regan, fermalo! Non sta funzionando, non sta-”

La trasformazione di Roman regredì finché non tornò in sembianze umane. Le sue dita artigliarono il braccio del demone, i piedi scalciarono, il corpo nudo si dimenò. Una lacrima gli rigò lo zigomo e si perse in una ciocca di capelli che si era appiccicata al viso ricoperto di sudore freddo.

Roman cercò lo sguardo di Regan e, trovatolo, rantolò una sola parola.

“Aiutami!”

Regan si rianimò come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Mostrò le zanne al demone in segno di sfida ed evocò di nuovo le fiamme. A sua insaputa, la sclera dei suoi occhi si tinse di nero e le iridi rifulsero come tizzoni ardenti. Abbassò con forza i palmi sul bordo del cerchio per bruciare l’impasto di erbe. Fiamme blu si innalzarono, costringendo il demone a mollare la presa su Roman e arretrare. Il licantropo precipitò a terra con un tonfo, privo di sensi.

La voce di Steno riemerse dai recessi della memoria.

“Grida, grida ciò che è omesso: la canzone dell’abisso.”

Regan inspirò e serrò le palpebre. Una nuova chiarezza lo pervase, scacciando la nebbia in cui aveva brancolato per mesi. Ebbe l’impressione che qualcuno gli avesse appena tolto una benda dagli occhi e i tappi dalle orecchie. 

La canzone... se conosco la canzone, conosco anche il suo nome... oh, sì che lo conosco. Fottuto bastardo.

“Conosco il tuo nome, demone!” enunciò, ignorando il sibilo che gli perforava i timpani, “Ti comando di lasciare il corpo di Steno! Obbedisci al mio ordine, Aeshm, figlio degli abissi!”

Il sibilo si fece più acuto. Regan si coprì le orecchie e digrignò i denti per resistere all’impulso di strizzare le palpebre.

Una nuvola di denso fumo nero si levò dalla figura al centro del cerchio. Pian piano, il corpo nudo di una donna prese forma, staccandosi dal fumo. Steno cacciò un urlo e si afflosciò svenuta sul pavimento. I capelli neri disegnarono soffici volute intorno alla testa e alcuni ciuffi andarono a coprirle il viso pallido.

Il demone non perse tempo. Vorticò sopra la Gorgone, risalì sul soffitto e si scagliò rapido di nuovo giù. Regan impiegò un secondo di troppo per realizzare il proprio errore, e un altro per realizzare che il bersaglio era Sean.

Lo schianto della schiena del lupo mannaro contro il muro, e il successivo rumore di ossa che si spezzano, riecheggiò per il bunker.

Vincent ululò. La nuvola nera si levò ancora e lo attaccò. L’alfa non poté opporsi. Percepì una forza estranea e opprimente avvolgerlo, serpeggiare nelle vene e negli organi, per poi attaccare la sua mente con una ferocia disumana. Il dolore sparì all’improvviso. I pensieri evaporarono e le braccia ricaddero inerti lungo i fianchi.

Regan vide gli occhi di Vincent rovesciarsi nel cranio e la bocca cristallizzarsi in una smorfia grottesca. Colmo d’ira, percepì qualcosa in lui tendersi alla stregua di un elastico. Una minima torsione e si sarebbe rotto.

“Brutto figlio di puttana!”

Abbandonò il proprio cerchio. Appena poggiò il piede in quello centrale, le fiamme blu si dissolsero.

Si fiondò a razzo sull’alfa e, mettendosi a cavalcioni sulle sue cosce, gli imprigionò la testa tra le mani. Lasciandosi guidare dall’istinto, accostò le labbra a quelle del lupo e iniziò a inalare.

Inalò e inalò, risucchiando aria nei polmoni. Dopo un po’, fumo nero fuoriuscì dagli orifizi di Vincent per venire assorbito dentro Regan. Quando non ci fu più nulla da assorbire, Vincent si accasciò esanime sul cemento.

Regan era ancora lucido quando trascinò Steno al sicuro, fuori dal cerchio, e quando raggiunse Roman per cercare tra i resti dei suoi vestiti il cellulare. Anche se le dita tremavano febbrilmente, riuscì a digitare un messaggio per Deirdre, pregando che l’urgenza insita nelle parole, assieme alla mancanza di punteggiatura, fosse sufficiente a convincerla a non farsi viva.

A Deirdre:
Sono Regan non ero io prima non venire stai lontana

Inviò e gettò il cellulare accanto a Roman. A quel punto, si inginocchiò nel cerchio centrale e aspettò.

L’attesa fu breve. Tra un respiro e l’altro, il suo corpo iniziò a contorcersi in preda a violenti a spasmi. Si sdraiò su un fianco e contrasse i muscoli, allo scopo di tenere a bada le convulsioni, ma esse raddoppiarono e scossero le sue membra come in una centrifuga. I contorni del mondo circostante sfocarono e fumo nero si infiltrò nella sua mente.

Riaprì gli occhi in un deserto arido. Il terreno era crepato, l’aria immobile. Il cielo era un oceano rosso sangue, piccole onde danzavano sulla superficie.

Una sagoma scheletrica dai vaghi tratti umanoidi si stagliava a una cinquantina di metri da lui. Regan percepì la furia ribollirgli dentro. Un ringhio gutturale si formò nella sua gola.

“Come osi?”

Aeshm scomparve e riapparve a due spanne di distanza, torreggiando su Regan come un gigante. Anche se non aveva occhi, il ragazzo ebbe la netta impressione che lo stesse guardando.

Subito dopo, venne aggredito da visioni che gli mozzarono il fiato. Non ci mise molto a capire che il demone stava provando a comunicare. Schiacciato dalla valanga di immagini che lo investirono, afferrò il succo: Aeshm aveva vinto, perché finalmente era proprio dove aveva sempre voluto essere, cioè dentro Regan.

“Perché io?”

Aeshm gli cinse il collo con una mano e lo sollevò da terra senza apparente sforzo. Regan si aggrappò al suo braccio in un gesto istintivo, ma non si ribellò, concentrandosi piuttosto sui concetti che il demone gli stava trasmettendo.

La sua natura ibrida lo rendeva potente, stava pensando, lo rendeva un ospite perfetto. Aeshm avrebbe assorbito i suoi poteri e portato caos e devastazione su tutto il pianeta. Regan non era abbastanza forte per contrastarlo.

“Dimentichi che conosco il tuo nome.”

Sbagliato. Regan conosceva solo uno dei tanti nomi che Aeshm aveva avuto nel corso dei millenni. Il suo vero nome galleggiava nei remoti abissi dell’oblio, nessuno avrebbe potuto usarlo per incatenarlo.

Regan soppresse un brivido e ignorò la scossa di terrore che gli fece gelare il sangue.

“Perché mettermi alla prova?”

Perché voleva scoprire se Regan era abbastanza maturo per contenerlo, in termini di potere. Un demone come lui non riusciva a raggiungere il vero potenziale in un ospite debole. Regan, invece, aveva dimostrato di essere sufficientemente forte per accoglierlo, ma non così forte da combatterlo.

Regan lo scrutò per lunghi momenti, arrovellandosi per trovare una soluzione. Si guardò intorno, finché il suo sguardo non venne calamitato dal cielo. Quando curvò le labbra in un ghigno malevolo, avvertì un guizzo d’incertezza attraversare il demone.

Un tuono rimbombò per la landa desolata.

Un’ombra gigantesca si affacciò oltre l’oceano rosso, la testa ornata da sette lunghi aculei.

Regan alzò un braccio, le dita protese verso l’alto.

Un secondo tuono, molto più forte del primo, fece tremare la terra.

Un vortice sanguigno calò giù dall’alto e travolse in pieno Regan.

Aeshm indietreggiò di scatto e mollò la presa.

Regan si materializzò alle sue spalle e si erse in tutta la sua statura. Ora superava di almeno tre spanne il demone. Oltre all’altezza, notò che anche la propria pelle era cambiata: non più bianca come il latte, ma color ossidiana. L’oro dei gioielli che gli ornavano gli avambracci e il torace brillò di riflessi cangianti. La corona gli pesava sulla testa e le ossa dorate di cui era fatta producevano un suono simile allo scroscio dell’acqua di un ruscello.

Allungò una mano e la serrò attorno al cranio di Aeshm, obbligandolo a inginocchiarsi. Il demone non si oppose, quasi avesse perso la voglia di combattere. Oppure, semplicemente, non poteva rivaleggiare con la nuova forza di Regan. Qualunque fosse il motivo della mancata reazione, a Regan non importava.

Stirò le labbra in un altro ghigno e guardò divertito la sua preda. Avrebbe voluto assaporare il momento, ma sentiva che il tempo a sua disposizione era agli sgoccioli. Senza perdersi in inutili chiacchiere, esercitò una leggera pressione sul cranio del demone, che si fracassò su se stesso. Lo guardò incenerirsi rapidamente, poi la cenere mulinò e si disperse, svanendo per sempre.

Non ebbe modo di godersi la vittoria, perché lo scenario mutò di nuovo. I muri del bunker si ricostruirono attorno a lui, i corpi inerti dei lupi ricomparvero nella sua visuale e il tanfo delle erbe gli penetrò nelle narici. Si rese conto di stare fluttuando a pancia all’insù a un metro e mezzo dal pavimento. La sua coscia destra bruciava.

Infilò una mano in tasca per estrarre la moneta. La strinse nel palmo e la fuse con il fuoco che divampò dalla sua pelle, tornata del colore originale. Quando non rimasero che poche gocce di metallo liquido, la forza che lo teneva sospeso a mezz’aria sparì e lui cadde sul cemento con un tonfo e un gemito.

Chiuse gli occhi ed esalò un lungo respiro.

La pace non durò a lungo. 

Udì un fruscio. Regan girò il capo verso destra nell’attimo in cui Steno lo raggiunse. Incatenò i loro sguardi, teso come una corda di violino. Quello della Gorgone era colmo di gratitudine e meraviglia. Lei si chinò e gli stampò un casto bacio sulle labbra.

“Dimmi come posso sdebitarmi, bimbo dagli occhi di fuoco.” sibilò a pochi centimetri dal suo viso.

Regan sospirò, più rilassato, e ghignò.

“Speravo me lo chiedessi. Voglio che uccidi tutti i cacciatori radunati qui fuori. So che normalmente non prendi le donne, ma vorrei che facessi un’eccezione per questa volta. Poi lascia la città, cambia nome e ricomincia altrove. Non saresti al sicuro qui.”

Steno assentì. Tuttavia, prima che potesse strisciare verso la botola, udirono dei passi in avvicinamento e la voce di Derek che chiamava il nome di Regan.

“Cazzo. Okay, sdraiati vicino al muro e fingi di essere svenuta. Al mio segnale, uccidili.” ordinò a Steno e lei ubbidì.

“Regan?! Stai bene?”

“Sì, Derek, puoi entrare!”

La botola si aprì e la faccia di Derek fece capolino. Gregory e Kevin si affacciarono dietro di lui. La luce che filtrava dalla botola era quella artificiale delle torce, segno che il sole non era ancora sorto.

“C’è stato un terremoto. Eri tu?” domandò Derek.

“Probabile. Il demone è stato bandito con successo.” grugnì mentre si issava sui gomiti, “Nessuno è morto. I Sinclair sono solo privi di sensi, come la nostra Gorgone.” si annusò e storse la bocca in una smorfia, “Ho bisogno di un bagno.”

Le sue orecchie colsero un brusio concitato. Derek fece cenno a qualcuno di avvicinarsi, poi entrò, seguito da…

“Signora Greenwood?” balbettò spaesato Regan.

La botola si richiuse alle loro spalle. La sorpresa e lo shock impedirono ai muscoli di Regan si muoversi come dovevano, lasciandolo paralizzato sul pavimento freddo, al buio.

La signora Greenwood si accostò a lui, gli accarezzò amorevolmente le guance e lo spinse a stendersi supino. Senza sapere il perché, Regan non oppose resistenza.

“D-Derek? Che succede?”

“È per il tuo bene.”

“Cos-”

Derek sfilò una siringa dalla tasca e iniettò aglio concentrato direttamente nel suo collo. Ah. Credeva che l’aglio fosse il suo punto debole, giusto. Frizzava un pochino, ma era sopportabile.

La vecchia adagiò i palmi ai lati della testa di Regan e sorrise emozionata: “È da tanto che non assorbo qualcuno. Cercherò di non farmi trascinare troppo dall'entusiasmo, promesso. Mmm, carne fresca, finalmente...”

Regan soffermò lo sguardo spiritato su Derek, che si era inginocchiato alla sua sinistra. Avrebbe volentieri preteso spiegazioni, se all’improvviso non fosse stato pervaso da una stanchezza che trasformò i suoi arti in gelatina. Le tempie pulsarono.

Leggendo la domanda nei suoi occhi, Derek gli fornì le informazioni che voleva, anche se Regan faticava a comprendere le sue parole a causa dell’ovatta che gli riempiva il cervello.

“La signora Greenwood è una Vila, una ninfa dei boschi. Assorbirà la tua natura soprannaturale, assieme a tutti i tuoi poteri, così tornerai ad essere umano. Nessun cacciatore avrà più motivo di temerti, non correrai più alcun pericolo. Non hai sempre desiderato una vita normale? Questa è la tua occasione.” si sporse verso di lui e gli sorrise, “Potremo finalmente stare insieme, Regan. Potremo avere un vero appuntamento! Poi ti inviterò a cena da me una volta a settimana per farti conoscere meglio la mia famiglia e, chissà, magari ti verrà voglia di aiutarci nella nostra crociata. Saremo una vera coppia!”

Le tempie vennero lacerate da una fitta acuta e Regan urlò.

“Fa’ piano!” udì Derek rimproverare la ninfa.

“Sto facendo piano, ma lui sta lottando!”

“Regan? Regan, concentrati sulla mia voce. Non agitarti, va tutto bene.”

Durante i secondi successivi, le rare volte che riuscì a mettere a fuoco i contorni della realtà, Regan vide la signora Greenwood ringiovanire a vista d’occhio. I capelli ricaddero in una cascata bionda e fluente sul seno, le rughe svanirono e gli occhi brillarono di un verde limpido. Avvertiva la propria energia assottigliarsi alla stessa velocità in cui la ninfa ringiovaniva, risucchiata in lei attraverso le mani ancorate alle sue tempie.

Conficcò le unghie nel cemento, serrò le palpebre e biascicò un flebile “Ora”.

Un sibilo. Un’inalazione sgomenta. Un gemito strozzato.

La presa intorno alla testa si allentò fino a sparire del tutto.

Un fruscio. Un rumore metallico. Un tonfo.

Un sibilo assordante.

Esclamazioni di sorpesa.

Uno sparo.

Silenzio.

Dopo un po’, Regan si azzardò a sbirciare dalla fessura tra le ciglia e tese le orecchie. Siccome captò soltanto i battiti regolari dei tre lupi riversi a terra, si convinse a spalancare entrambi gli occhi.

Derek aveva lo sguardo puntato verso la sua sinistra. Una mano stringeva la pistola, l’altra era piantata sul pavimento per tenersi in equilibrio. Il busto era proteso in avanti, in procinto di attaccare.

Regan sollevò a fatica una gamba e diede un calcetto al corpo di pietra del cacciatore. Quando lo vide sbilanciarsi di lato e andare in pezzi, una risata proruppe dalla sua bocca.

Al sentire le grida di Tamara, si chetò.

“Vince! Roman! Sean!”

Tamara si calò giù fulminea dalla botola. Regan la osservò precipitarsi al fianco del marito e scuoterlo, per poi fare lo stesso con Sean e Roman. La lupa non si curò di dove metteva i piedi, calpestando intrugli di erbe e simboli arcani senza alcun rispetto.

Regan sospirò e chiuse gli occhi, stremato sin nel midollo. Un pisolino non glielo avrebbe negato nessuno. Anzi, se lo era meritato.








 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** La vie en rose ***


Ed eccoci alla fine di questo primo libro (per chi non lo sapesse, è una saga, ergo ci sarà il sequel)! Fatevi avanti e ditemi cosa ne pensate della storia, apprezzo anche le critiche (purché costruttive)! Siete taaaaanti <3 Non abbiate paura, non vi mangio ^^ 
Sulla mia pagina di Facebook ho anche aggiornato l'album della storia con le foto/immagini di molti dei personaggi (i principali e anche alcuni dei secondari). Se siete curiosi, andate a farci un salto!
Buona lettura ^^








 
Qualcuno gli sollevò il capo con una mano e pronunciò un gentile “Bevi”. Prigioniero in uno stato di dormiveglia delirante, Regan riconobbe a stento la voce di Deirdre. Schiuse la bocca per chiedere dove fosse, cosa fosse successo, perché i suoi arti pesassero come macigni, e perché diavolo avesse degli aghi conficcati nella carne. Ma forse quest’ultima era un’allucinazione, poiché gli aghi sembravano cambiare posizione non appena la sua mente si focalizzava sui punti in cui credeva fossero infilati. Non riuscì ad articolare nessuna di quelle domande. Invece, esalò un flebile rantolo.

“Shhh. Va tutto bene.”

Vetro freddo venne premuto sul suo labbro inferiore e una sostanza liquida e densa scivolò oltre il muro di denti, irrorandogli la gola. Il gusto ferroso del sangue gli esplose sul palato, il suo odore divino gli riempì le narici. Le sue membra vennero pervase da un piacevole formicolio e un tiepido calore germogliò nel suo stomaco. Inghiottì avidamente. Quando finì, Deirdre guidò di nuovo la sua testa sul cuscino e gli scostò alcuni riccioli dalla fronte.

“Riposa. Ti sveglierò tra un paio d’ore per farti bere ancora.”

Regan fiutò la scia di gelsomino e miele farsi più forte, più vicina. Poi percepì il fantasma di un bacio sulla tempia sinistra e un fiato caldo, quasi bollente, sulla pelle gelida. Quando il peso del corpo della nonna lasciò il letto, Regan accolse per l’ennesima volta il sonno.

Quella routine andò avanti per un po’, forse ore, forse giorni, Regan non ne era sicuro. Lo scorrere del tempo sfuggiva dalle maglie della sua coscienza ogni volta che si addormentava. Il lato positivo era che si sentiva sempre meno spossato ad ogni bicchiere di sangue che Deirdre lo costringeva a bere. Sognare il lupo dal manto color caramello contribuì ad accelerare il processo, poiché pareva che la sua mera vicinanza fosse capace di rimpinguare le energie di Regan senza alcuno sforzo.

Riaprì gli occhi una sera. Il sole era già tramontato oltre l’orizzonte e i lampioni illuminavano le strade. Capì che il peggio era passato nel momento in cui si accorse di riuscire a muoversi senza avere l’impressione di venire triturato da uno schiacciasassi. Le palpebre erano ancora pesanti, il torpore si stava dimostrando riluttante a liberarlo dalle sue spire, ma Regan si fece forza e si sedette.

Era nella sua camera. Respirò a pieni polmoni l’odore che la permeava, un misto di cellulosa, detergente alla lavanda, eau de Poe, gelsomino e miele. Captò anche un vago sentore di cane bagnato e capì che Roman doveva aver trascorso ore assieme a lui mentre dormiva. Qualcuno, probabilmente Deirdre, aveva fatto ordine sulla scrivania e pulito da cima a fondo. Regan notò pure che indossava il pigiama. Quanto doveva essere stato stanco per non svegliarsi nemmeno mentre veniva cambiato?

Le sue orecchie registrarono il battito cardiaco della nonna al piano di sotto. Il rumore di stoviglie e di acqua corrente gli dissero che era in cucina a lavare i piatti. Annusò l’aria: patate lesse, pomodori, fagiolini e filetti di merluzzo fritti. Il suo stomaco gorgogliò.

Posò i piedi nudi a terra e si alzò. Il mondo vorticò pericolosamente per qualche attimo. Strizzò gli occhi e trasse profondi respiri. Aggrappandosi ai mobili e ai muri che incrociava lungo il cammino, si trascinò fuori dalla camera e giù per le scale.

Non appena si affacciò in cucina, Deirdre si voltò di scatto e lanciò un piccolo strillo.

“Regan, mi hai spaventata! Che ci fai in piedi?”

“Ho fame…” gracchiò.

“Oh. D’accordo. Siediti.”

Regan fece giusto in tempo a sedersi sulla sedia più vicina prima che Poe gli saltasse sulle ginocchia con un miagolio.

“Hey, tu.” lo salutò, accarezzandogli il pelo con lievi carezze, e sorrise quando Poe cominciò a fare le fusa.

Riportò lo sguardo su Deirdre. Vedendola tirar fuori una siringa di sangue dal frigo, la fermò.

“No, intendevo… non sarebbe male qualcosa di solido. Tipo, un panino.”

Deirdre gli rivolse un sorriso dolce e annuì. Gli fece un panino con prosciutto e formaggio e tagliò una grossa fetta della torta al limone che aveva preparato il giorno prima. Poi si accomodò di fronte a lui e passò i successivi minuti a osservarlo divorare il cibo come se non mangiasse da una settimana. Il che, ora che ci pensava, non era lontano dalla realtà: Regan si era nutrito solo di sangue in quei giorni e sapevano entrambi che non bastava a sostenerlo, gli serviva sia quello che il cibo solido per ricaricare le energie. Con una piccola smorfia, Deirdre si rimproverò per non averlo costretto a bere anche un po’ di zuppa calda insieme al sangue.

Terminato il pasto, Regan la guardò, carico di aspettativa. La nonna colse il messaggio e iniziò a raccontargli cosa si era perso.

La prima cosa che gli disse fu che era rimasto in una specie di coma per cinque giorni, salvo i momenti in cui Deirdre lo aveva svegliato per farlo bere. Oggi era domenica. Deirdre aveva chiamato la scuola mercoledì mattina per avvertire che era ancora malato. Venerdì, Lorie, assieme a un paio di amiche, aveva raccolto dagli insegnanti i compiti di recupero per Regan ed era passata a consegnarli a Deirdre, quindi non doveva preoccuparsi di rimanere indietro nel programma.

Per quanto concerneva la notte di martedì, la sostanza era che il demone era stato bandito e Steno, dopo aver ucciso i cacciatori, era fuggita. Aveva fatto i bagagli e lasciato la città subito dopo una telefonata con il capo dello staff della Fondazione e ricercatrice storica, Wilhelmina Jeoffrey, in cui diceva di avere un’emergenza in famiglia e di non sapere quando e se sarebbe tornata. Aveva affidato la cura della Fondazione a Wilhelmina e fatto perdere le sue tracce. La mostra era stata smantellata in due giorni e i reperti erano stati rispediti al mittente.

Tamara Sinclair aveva fatto irruzione nel bunker intorno alle quattro del mattino, poco dopo il massacro della Gorgone. Una volta aver messo a letto i suoi ed essersi assicurata che nessuno avesse chiamato la polizia a causa del boato del singolo proiettile che uno dei cacciatori era riuscito a sparare, Tamara aveva riaccompagnato Regan a casa in macchina per lasciarlo alle cure di Deirdre ed era tornata indietro per occuparsi dei cacciatori. O ciò che ne restava. Li aveva fatti a pezzi e ammonticchiati in un angolo del giardino. Per fortuna, i colpi di martello non avevano attirato attenzioni indesiderate, e nessuno aveva visto niente, perché tra il bunker e la strada c’erano delle siepi abbastanza alte a fungere da muro. Poi Tamara aveva sotterrato temporaneamente tutte le armi dei cacciatori, in attesa di capire come disfarsene in modo appropriato, e ripulito il giardino e il bunker da ogni traccia di attività sospetta.

Roman, Vincent e Sean si erano ripresi giovedì. Stavano bene, anche se erano ancora un po’ sotto shock. Roman era passato a trovare Regan più volte per sapere come stava, e spesso era rimasto a vegliare per ore al suo capezzale. Anche Vincent era passato. Lui e Deirdre avevano parlato a lungo di quanto successo e accettato di convivere pacificamente in quello che ora, con la dipartita dei cacciatori, era il loro territorio. Inoltre, l’alfa le aveva fatto capire, attraverso mezze frasi e giri di parole, che era in debito con Regan per averli salvati e che la sua porta sarebbe rimasta aperta per i McLaughlin per qualsiasi cosa.

“Li hai davvero colpiti tutti, leprotto.” commentò orgogliosa.

Regan sorrise. All’improvviso, gli tornò in mente una cosa e tornò serio.

“Hai poi ricevuto il mio messaggio? Quello in cui ti pregavo di non venire?”

“Mh? Oh, sì. Anche se non c’era bisogno che me lo scrivessi, non mi sono mai mossa di casa.”

“Come?”

“Quando ho accettato la chiamata, ho sentito un sibilo in sottofondo. Ho capito subito che era una trappola, ma sono stata al gioco per non peggiorare la situazione.” spiegò ammiccando, “Tua nonna non è stupida.”

Regan la fissò con aria incredula per un secondo. Quello dopo, scoppiò a ridere. Deirdre ghignò.

“E il terremoto? Nessuno si è allarmato?”

“Quale terremoto?” domandò Deirdre.

“Quello… beh, se non l’hai sentito, suppongo fosse circoscritto…”

“Non c’è stato alcun terremoto, leprotto. Lo saprei, visto che sono rimasta sveglia tutta la notte. Comunque, tornando a noi, rimane un’unica incognita per ricostruire il quadro generale degli eventi. E cioè, la statua della donna nel bunker. Chi era?”

“La signora Greenwood.” rivelò Regan.

Deirdre boccheggiò allibita, poi ammutolì e assunse un’aria pensierosa.

“Ora che ci faccio caso, non l’ho mai vista in questi giorni. Perché era lì? E perché sembrava più giovane?”

“Era una ninfa di boschi, una… Vila? Derek le ha chiesto di assorbire i miei poteri per rendermi umano. Mentre li assorbiva, è ringiovanita.”

Deirdre impallidì: “Una Vila?! Bontà divina… quelle sono cattive. Folklore slavo, se non erro. Come ho potuto non…? Ci ho passato insieme ore intere per anni e non ho mai…”

“Beh, finalmente sappiamo perché sembrava sempre in ottima salute, nonostante l’età avanzata. La cosa che mi stupisce, come hai detto tu, è che nessuno abbia mai sospettato nulla.”

“Sapeva nascondersi bene, evidentemente.” Deirdre fece spallucce, un gesto che indicava il suo desiderio di accantonare l’argomento, “Ora dimmi, cosa è accaduto di preciso quella notte? Ho già ascoltato la versione di Tamara, Vincent e Roman, ma vorrei conoscere la tua.”

Regan le riassunse per sommi capi gli eventi. In pratica, era andato tutto storto. Aveva sottovalutato il potere del demone, un errore che aveva messo i tre lupi in mortale pericolo. Regan sentiva che avrebbe dovuto prevedere la catastrofe e si dava la colpa per aver peccato di arroganza. Deirdre gli fece notare che alla fine, nonostante gli intoppi, l’esito era stato positivo: il demone non c’era più, il portale era stato distrutto, Steno lo aveva ripagato uccidendo i cacciatori e la signora Greenwood, e nessuno “dei buoni” era morto. Regan annuì mesto e andò avanti.

Le raccontò del confronto diretto con Aeshm, avvenuto in una dimensione onirica. Cercò di riferirle al meglio la loro strana conversazione e anche come era riuscito ad attingere alla sua parte demoniaca per sconfiggerlo. Quando approdò alla descrizione dell’aspetto che aveva assunto, le parlò della visione che aveva avuto ad Athens, in cui si era ritrovato faccia a faccia con la sua parte vampira e con quella che, adesso, sapeva essere la famosa parte demoniaca.

Deirdre si fece perplessa. Infatti, l’aspetto di Regan non sembrava mostruoso, almeno a parole. Cioè, non era come Aeshm, o come presumeva fossero in generale i demoni. E i gioielli? E quella sottospecie di corona?

“Se provo a immaginarti in quelle sembianze, piuttosto mi fai venire in mente…”

Deirdre lasciò la frase in sospeso e si corrucciò. Poi scosse con veemenza la testa per scacciare l’idea, come se la ritenesse troppo assurda per prenderla anche solo in considerazione.

Regan la fissò interrogativo e aspettò che elaborasse. Appena comprese che non lo avrebbe fatto, riprese a narrare gli eventi. Lei lo stette ad ascoltare in silenzio finché Regan non giunse all’entrata in scena della signora Greenwood.

“Ciò che ti ha fatto mi preoccupa. Come ti senti, leprotto?”

“Debole. Stanco.” ammise.

“Hai bevuto il sangue senza problemi, perciò sei ancora in parte vampiro. Avverti la magia dentro di te? O, sai… la terza parte?”

“Appena mi rimetterò in sesto, controllerò. Che fine hanno fatto i resti dei cacciatori? Sono ancora nel giardino dei Sinclair?”

“No, sono stati gettati in mare venerdì. Di notte, seguendo il mio consiglio, i Sinclair si sono intrufolati nelle loro case, hanno inscenato una partenza improvvisa e bruciato le valige nel mio forno crematorio. Per adesso, nessuno ha fatto domande.”

“Nessuno? E l’FBI è ancora qui? Zia Hillary che dice?”

“L’indagine sulle scomparse è stata archiviata proprio questa mattina. I familiari delle vittime non ne sono stati contenti, stanno ancora protestando di fronte alla centrale, ma la polizia non può fare più niente. L’FBI è ripartita nel pomeriggio per Quantico.” protese una mano e la poggiò sulla sua, “Basta parlare di questo, adesso. Va’ a chiamare Roman, era molto in pensiero.”

Regan assentì. Si alzò da tavola e risalì in camera con la stessa gioia di vivere di uno zombie. Quando si sedette sul letto, la tentazione di raggomitolarsi sotto le coperte si fece più pressante. La ignorò in favore del cellulare. Era spento e in carica.

Appena lo accese, una valanga di messaggi e chiamate perse apparvero sullo schermo. Vide i nomi di Mike e delle ragazze, ma non quello di Roman, probabilmente perché sapeva che Regan non avrebbe risposto. Aprì la lista dei contatti e lo chiamò. L’amico rispose al secondo trillo.

“Hey, lupacchiotto.”

“Regan! Regan!”

“Sì?”

“Regan!”

“Roman.”

“Sei sveglio! Oh mio Dio, sei sveglio. Arrivo subito! Non muoverti!”

“E dove vuoi che vada? Anzi, stavo per tornare a dormire, sono stanchissimo.”

“Non importa, vengo lo stesso. Non muoverti!”

Regan sbuffò divertito e riattaccò. Decise di andare in bagno a farsi una doccia, nella speranza di tenere lontano il sonno ancora per un po’. L’acqua calda scivolò sul suo corpo in rivoletti rigeneranti e ridiede vita ai muscoli intorpiditi. Aveva ancora dolori qua e là, ma il malessere stava lentamente svanendo. Si insaponò per bene, si risciacquò e tornò in camera con l’asciugamano legato in vita.

Il fatto che non avesse udito Roman arrivare, salutare sua nonna e correre su per le scale la diceva lunga sullo stato in cui era ridotto, nonché sul tempo che aveva impiegato per farsi una semplice doccia. Lo trovò seduto sul suo letto, le dita intrecciate in grembo e la schiena rigida.

Un paio di passi oltre la soglia fu tutto ciò che Roman gli concesse prima di saltargli addosso. Regan si sentì avvolgere dalle sue braccia, avvertì il suo respiro caldo sul collo e la morbidezza della sua felpa sulla pelle nuda, e rabbrividì. Rilasciò d’un fiato l’enorme bolla d’ossigeno che non si era reso conto di stare trattenendo e strinse Roman di rimando, incurante dei lievi tremori che scuotevano il corpo dell’amico.

Rimasero abbracciati a bearsi della rispettiva presenza finché Regan non sbadigliò sonoramente. Allora il lupo si staccò e lo guidò fino al letto, dove lo aiutò a stendersi e infilarsi sotto le coperte. Regan si sfilò l’asciugamano, accettò i pantaloni della tuta che l’altro gli porse e li indossò con movimenti goffi.

Senza attendere il permesso, Roman si sdraiò dietro lui e cinse il busto nudo di Regan in una morsa gentile e al contempo ferrea, quasi avesse paura di vederlo scomparire. Regan non protestò. Si addormentò pochi istanti più tardi, cullato dal calore emanato dal corpo di Roman e dalla tacita promessa che mai lo avrebbe abbandonato.

 
*

Martedì, Roman venne a prenderlo in macchina per portarlo a scuola, insistendo che Regan non “era ancora in condizioni di pedalare”. Regan apprezzava la sua preoccupazione, ma era anche parecchio seccato che qualcuno decidesse per lui quando avrebbe riavuto indietro la propria autonomia. Se non fosse stato per l’alleanza che il lupo aveva stretto con Deirdre, si sarebbe incaponito finché Roman non avesse ceduto.

I popolari gli tesero un’imboscata nel parcheggio. Appena aprì la portiera dell’auto, lo acciuffarono e lo condussero in trionfo all’interno dell’edificio, sotto gli sguardi sbigottiti degli altri studenti e dei professori. Regan si concesse una risata.

Mike, Lorie e le rispettive corti lo sommersero di gesti affettuosi e scherzarono sulla sua presunta influenza, dicendogli che temevano di averlo perso per sempre. Gli fecero promettere di indossare sciarpa e cappello sino all’arrivo della primavera. Roman finse di offendersi, perché il ruolo di mamma chioccia era suo e nessuno aveva il diritto di rubarglielo.

Siccome si era perso la partita della settimana scorsa, Mike fece giurare a Regan che sarebbe venuto alla prossima. Lo obbligò pure a metterlo per iscritto con tanto di firma. Regan disegnò anche un cuoricino e un “Forza Ashen Gulls” sulla pagina del quaderno di Mike.

Come si aspettava, gli chiesero che fine avesse fatto Derek. Regan si inventò che si era trasferito in Europa con la famiglia. Grazie a un minuscolo uso del controllo mentale, la questione cadde subito nel dimenticatoio.

Charlotte rimase sulle sue, ai margini del gruppo, assieme alla migliore amica. Jennifer aspettò che la folla si disperdesse, Roman incluso, prima di avvicinarsi a Regan. Rassicurò Charlotte con un cenno e la guardò andar via. Quindi si affiancò a lui e gli rivolse un debole sorriso.

“Hey.”

“Non sono arrabbiato con te.” le disse Regan, prima che potesse aprire bocca.

Jennifer rimase impalata a fissarlo per un qualche secondo, poi sbuffò e scrollò la testa.

“Ma io sì. Con me stessa. Non avrei mai dovuto attaccarti in quel modo al centro commerciale, so di avere sbagliato. Devo imparare a controllare meglio i miei istinti più… primitivi. Sean dice che sto facendo progressi.”

“Hm-mh. E con Roman come va?”

Jennifer esalò un sospiro afflitto.

“Il rifiuto fa ancora male, non lo nego, però ho capito di non avere il diritto di prendermela con te. Per questo, ti chiedo scusa. Non garantisco che non farò altre scenate di gelosia in futuro, perché il mio lupo continua a considerare Roman un potenziale compagno, ma prometto di non reagire più con violenza. Non è colpa tua se non gli piaccio.”

“Scuse accettate. Se può aiutarti, immagina che io abbia appeso al collo un cartello che dice ‘Fragile: Maneggiare con cura’.”

“Farò del mio meglio per visualizzarlo.” ridacchiò.

“Senti, hai per caso detto a qualcuno che io sono…?” fece un gesto vago con la mano, “Insomma, hai capito.”

“No, non l’ho fatto.”

“Okay. Bene.” Regan sospirò di sollievo, “Ti prego di non dirlo a nessuno, nemmeno a Charlotte. So che siete amiche e che vi dite tutto; tacere una cosa del genere con lei sarà difficile per te. Il punto è che non ti ho affidato il mio segreto per farne ciò che vuoi, ma per tenerlo al sicuro. È il mio segreto, capisci?”

“Giuro che terrò le labbra cucite, anche con Charlotte.”

Regan dubitava che Jennifer riuscisse a mantenere effettivamente la promessa, ma per ora si fece bastare le sue rassicurazioni.

Proseguirono lungo il corridoio in silenzio. Giunti davanti all’aula di Chimica, Jennifer lo fermò.

“So quello che hai fatto con…” si piegò verso di lui per bisbigliare, “… il demone e i cacciatori. Ti siamo tutti grati. Sei stato grande.”

Regan fece una smorfia alla “che vuoi che sia, non è stato niente di che”. Jennifer sbuffò una risata incredula e roteò gli occhi. Entrarono insieme in classe e, sedendosi ai rispettivi banchi, si scambiarono uno sguardo d’intesa. Charlotte li osservò con sospetto.

La tregua era temporanea, lo sapevano entrambi, ma almeno era un inizio.

 
*

Venerdì pomeriggio, dopo essersi messo in pari con i compiti, Regan riaprì per la prima volta il quaderno in cui erano contenuti i grimori dei Morgan. Avrebbe voluto riprendere i test da dove aveva interrotto, ma senza una guida sarebbe stato pericoloso.

Deirdre si offrì di insegnargli gli incantesimi più semplici, avendoli visti con i suoi occhi quando ancora viveva con la sua congrega in Irlanda. Tuttavia, non avendo poteri, c’era un limite all’aiuto che avrebbe potuto fornirgli. Sfogliarono insieme in grimori e segnarono gli incantesimi più banali e fattibili, di modo da tornarci sopra quando Regan si fosse ricaricato del tutto.

Tanto per provare, evocò il fuoco davanti a Deirdre. Ci vollero quattro tentativi prima di riuscire a materializzare una fiammella sul palmo di una mano. Da lì in poi, però, gli venne sempre più facile. Tanto che, a un certo punto, deliziò la nonna con uno spettacolino da giocoliere con delle piccole sfere di fuoco.

Seduto a gambe incrociate sul pavimento, con Poe a sorvegliarlo come una guardia carceraria dal bracciolo del divano, Roman osservò colmo di meraviglia la scena. Regan gli lanciò un bacio sottoforma di scintille incandescenti. Il lupo squittì sorpreso e fece una capriola all’indietro per scansarsi.

Roman ormai trascorreva più tempo dai McLaughlin che a casa sua, ma né a Regan né a Deirdre dispiaceva la sua compagnia. Lo stanzino in cui in passato aveva dormito Derek era diventata la cameretta del licantropo, anche se la brandina veniva raramente usata: Roman aveva espresso subito la sua preferenza a dormire con Regan, nel suo letto o sul pavimento, perché diceva che il suo odore e il suo battito cardiaco lo aiutavano a rilassarsi.

Durante i suoi frequenti soggiorni, Regan e Deirdre, spesso e volentieri, si divertivano a stuzzicare Roman o a usarlo come cavia per degli esperimenti con intrugli dall’odore nauseabondo, con somma gioia di Regan che, finalmente, poteva concedersi un po’ di pace dalla vena creativa di Deirdre. Roman subiva tutto con invidiabile classe, salvo poi esigere coccole e tonnellate di cibo per il disturbo.

Sino all’ora di cena, Deirdre istruì approfonditamente Regan sulle rune. Una volta acquisita la necessaria dimestichezza, lo condusse in giro per la casa a rafforzare quelle protettive che lei aveva già disegnato su stipiti e infissi.

Regan percepì lo sbalzo di energia sulla pelle quando impregnò di potere l’ultima runa. Era come se un muro invisibile si fosse eretto attorno alla proprietà, poteva quasi vederlo con l’occhio della mente correre da un capo all’altro delle fondamenta. Informò la nonna che era una figata pazzesca.

Tornati in cucina, videro Roman, confuso e mezzo trasformato, accucciato sopra il tavolo apparecchiato con tutti i peli ritti e Poe avviluppato attorno alla sua testa a mo’ di elmo. Ridendo come matti, gli scattarono una foto.

Sabato pomeriggio, Deirdre uscì dicendo che doveva fare una commissione. Regan stava studiando altre combinazioni di rune seduto sul divano in salotto. Circondato da una miriade di palline di carta, Roman giocava con Poe sul pavimento: la sfida consisteva nel radunare più palline possibili prima che finissero. Poe stava vincendo.

Quando la donna rincasò un’ora più tardi, Regan spostò l’attenzione su di lei. Vedendola stringere in una mano la maniglia di una valigia di pelle rettangolare piuttosto grande, si irrigidì, riconoscendo la fodera di uno strumento musicale. Una fodera che non vedeva da anni.

“Ho un regalo per te, leprotto.” annunciò Deirdre.

Si sedette accanto a lui e gli sorrise eccitata. Non si era nemmeno tolta il cappotto, e la borsa era ancora appesa al braccio sinistro.

“Un regalo?”

“Un premio. Te lo sei meritato.”

Roman si sporse per vedere meglio. Poe, offeso dall’audacia del licantropo, che osava interrompere il gioco a suo comodo, gli balzò sulla testa e si spaparanzò sui suoi capelli, le zampe ben salde sul suo collo e sotto il mento, per mantenere l’equilibrio e ammonirlo con gli artigli se avesse provato a disarcionarlo. Il ragazzo lo lasciò fare, ormai abituato.

“Cos’è?” domandò curioso.

Non ricevette una risposta verbale. In compenso, l’atmosfera si fece satura di emozioni talmente forti che si trovò ad ammutolire.

Regan prese lentamente la valigia e la depositò sulle proprie ginocchia. Accarezzò la pelle trattata con una sorta di venerazione. Sapeva cosa si celava all’interno e non era sicuro di essere pronto.

“Coraggio. Aprila.” lo esortò Deirdre.

Regan inspirò profondamente. Le dita corsero alle chiusure di metallo e le fecero scattare verso l’alto. Spalancò il coperchio.

“Nonna…”

“Te lo sei meritato.” ripeté lei in tono dolce e gli stampò un bacio sui capelli spettinati.

I tiepidi raggi del sole invernale che filtravano dalle finestre si rifletterono sul sassofono. E non un sassofono qualunque, ma il suo. Era stato il regalo per il suo undicesimo compleanno. Lo aveva rotto a tredici anni in uno scatto d’ira, dopo aver scoperto di essere in parte vampiro. Deirdre lo aveva fatto riparare.

I polpastrelli sfiorarono il bocchino, scivolarono sul collo e indugiarono sulla prima chiave, per poi scendere sul perno e sulla parte bassa del fusto. Tanti ricordi erano legati a quello strumento, la maggior parte dei quali belli, sereni, risalenti a un’epoca in cui tutto ciò di cui doveva preoccuparsi era mantenere una media alta a scuola e aiutare Deirdre a innaffiare il giardino. Sollevò la campana ad altezza occhi e vide che all’interno c’era ancora il suo nome, vergato in un elegante corsivo.

“Sarà costato un visibilio…”

“Avevo già messo da parte i soldi, tranquillo.”

Roman assisté allo scambio sentendosi una specie di intruso. Se non fosse stato per Poe, avrebbe tolto il disturbo inventandosi una scusa. Così rimase seduto sul pavimento a guardare mentre il suo alfa sperimentava un gamma di emozioni tanto complessa che a malapena trasparivano dalla sua espressione. Il suo odore, invece, raccontava una storia ben diversa.

Regan estrasse il sassofono dal fodero, lo imbracciò e si alzò. Le dita presero posto all’istante, la postura si aggiustò da sola. Gli venne tutto naturale, come se non fossero passati tre anni da quando lo aveva stretto per l’ultima volta. Avvolse le labbra intorno al bocchino e riempì i polmoni di ossigeno. Poi soffiò.

La Vie En Rose, l’ultimo brano che aveva imparato a lezione, permeò l’aria, vibrò sui muri e sulle finestre e penetrò nel cuore di Deirdre, che non poté esimersi dal guardare il nipote con occhi velati di lacrime. Quando Regan suonava il sassofono, era come se venisse risucchiato in un mondo tutto suo, in cui era lui a dettare le regole attraverso il ritmo e le note.

Poe abbandonò Roman e saltò sul cuscino alla destra di Deirdre. Seduto sulle zampe posteriori, ascoltò rapito, gli occhietti gialli fissi su Regan. Roman appoggiò la schiena al divano e gli avambracci sulle ginocchia piegate e si lasciò trasportare pure lui dalla luce, dalla vita, dalla passione che l’intero corpo di Regan stava emanando.

All’esterno, una raffica di vento scosse le siepi e le fronde degli alberi. Nuvole dei colori del crepuscolo galoppavano nel cielo sopra Ashwood Port, sospinte dalle correnti ad alta quota. L’oceano era calmo, la bandiera rossa era stata abbassata. I gabbiani volavano sulla superficie delle onde in cerca di pesce. I pescherecci veleggiavano all’orizzonte, i loro ponti brulicanti di marinai desiderosi di rientrare in porto con un bel bottino.

Nel vialetto della casa sull’altro lato della strada, in cui una volta viveva l’eccentrica signora Greenwood, c’era un cartello con su scritto “VENDESI”. Ma finora nessuno aveva avanzato offerte, perché il giardino appassito e pieno di erbacce era davvero orribile.

Al di là della siepe di viburno intorno alla dimora McLaughlin, a sinistra, i Thompson erano fuori città per il weekend, mentre a destra, i Davis erano trincerati in casa con dei parenti, forse cugini o nipoti, con la televisione sparata a tutto volume.

Nessuno ebbe il privilegio di udire la musica prodotta dal sassofono, eccetto per una vecchia strega senza poteri, proprietaria di una ditta di pompe funebri, un gatto nero con un gusto spiccato per la carne umana e un ragazzo di diciotto anni che, quando gli andava, si ricopriva di peli e ululava alla luna.

 
*

Domenica mattina, Roman tornò a casa per trascorrere un po’ di tempo in famiglia. Il rapporto con suo padre non si era ancora ricucito, ma era migliorato dalla notte dell’esorcismo. Nei giorni precedenti non avevano parlato dei loro problemi, entrambi troppo orgogliosi o impacciati. L’unico conto in sospeso che avevano chiuso era quello che riguardava Jennifer: Vincent aveva promesso di non spingere più Roman verso di lei quando il figlio gli aveva detto chiaro e tondo che non era interessato e mai lo sarebbe stato. Gli allenamenti a cui Vincent continuava a sottoporlo erano sì sfiancanti, ma adesso erano conditi anche da consigli e dimostrazioni pratiche. Roman apprezzava lo sforzo.

A casa McLaughlin, Deirdre era impegnata a preparare un pranzetto coi fiocchi in vista della visita di Hillary. Regan apparecchiò la tavola e fece sparire le chincaglierie magiche e i libri esoterici da cucina e salotto, nascondendoli nell’armadio in camera.

Lo sceriffo arrivò puntuale a mezzogiorno, vestita con l’uniforme e sfoggiando la faccia di una che si era dimenticata cosa fosse un letto. Salutò calorosamente i padroni di casa, depositò la pistola d’ordinanza sul mobiletto dell’ingresso e si sedette a tavola con un sorriso stanco. Regan provò compassione per lei, assieme a una punta di senso di colpa.

Il fallimento delle indagini sulle scomparse era stato un duro colpo alla sua carriera, uno da cui Hillary faticava a riprendersi nonostante la buona volontà e il supporto dei colleghi e cittadini. Nessuno la biasimava davvero, a dispetto delle lamentele e delle vuote accuse dei familiari delle vittime, dato che nemmeno l’FBI era risultata di qualche aiuto. Infatti, se i federali non riuscivano a chiudere un caso con le risorse che avevano a disposizione, come poteva farlo una poliziotta di provincia? Hillary vantava esperienza, era addestrata e rispettata, ma tutti sapevano che c’erano dei limiti. Non era mica Sherlock Holmes. Eppure, a Hillary bruciava ancora.

“Fossi in te, celebrerei la fine della lunga serie di scomparse, invece di rimuginarci sopra.” le disse Deirdre, servendole tre fette di polpettone ripieno.

“Lo so! È che… c’è qualcosa che non quadra. E siamo davvero sicuri che il colpevole abbia lasciato la città?” insisté piccata Hillary mentre prendeva un altro sorso di birra, “La stampa sta marciando sulla teoria secondo cui l’FBI lo ha messo in fuga perché si stava avvicinando a scoprire la sua vera identità, e sono tutte puttanate!”

“Hillary!” la riprese Deirdre, scandalizzata.

“Lo sono! Okay, non nego che sia possibile. Ma allora non potrebbe tornare, che so, domani, approfittando dell’assenza dei federali?”

Regan si bloccò, folgorato da un’idea. Se fosse riuscito a giocarsela bene, avrebbe potuto prendere due piccioni con una fava e togliersi di torno un problema che, se non stava attento, sarebbe tornato a bussare alla sua porta a tradimento.

Estrasse di soppiatto il cellulare dalla tasca dei jeans e scrisse velocemente un messaggio con istruzioni precise. Pregò che il destinatario lo leggesse subito. Poi lo rimise in tasca e occhieggiò in direzione di Deirdre, che stava distraendo Hillary caricandole il piatto di piselli saltati e insalata russa.

“Hai sentito della partenza improvvisa dei Sullivan, dei Ferguson e dei Chou?” buttò lì Regan con nonchalance.

“Oh, giusto. Non sono in Europa?” chiese Hillary.

“Così si dice in giro, ma non sento Derek da molto prima e non so se siano realmente lì. Il suo cellulare è irraggiungibile, non ho più contatti da un po’.”

“Cosa stai insinuando?” indagò Hillary, in piena modalità sceriffo.

Deirdre fissò il nipote con un sopracciglio inarcato.

Regan finse di essere in difficoltà. Aprì e chiuse la bocca varie volte, aggiustando la postura sulla sedia, e posò la forchetta sul piatto.

“Beh… non te l’ho mai detto perché so che conosci i Sullivan e siete amici, diciamo. E Derek era mio amico, quindi non volevo pensar male di lui o… insomma. Il punto è che mi è capito di parlare con Derek delle persone scomparse. Volevo aiutarti a risolvere il caso e Derek, ehm, si prestava molto ad ascoltare le mie chiacchiere. Anche troppo. Anzi, spesso era lui a introdurre l’argomento, chiedendomi dettagli sull’indagine. Per fartela breve, ho notato che, quando ne parlavo, lui si irrigidiva. Sembrava teso, sul chi va là, come se stesse nascondendo qualcosa… e quando capiva che la polizia non aveva in mano niente, si rilassava…”

Hillary aveva smesso di mangiare e lo osservava con un’espressione a metà tra l’incredulo e il sospettoso.

Deirdre celò un ghigno dietro il tovagliolo e si versò da bere nel bicchiere.

Regan si schiarì la gola, simulando disagio: “Insomma, dico solo che forse una capatina a casa loro non sarebbe una cattiva idea. So che i Sullivan sono membri esemplari della nostra piccola comunità, tanto che nessuno oserebbe mai sospettare di loro, ma il modo in cui si comportava Derek mi ha fatto spesso pensare. Comunque, è solo una supposizione. Magari mi sbaglio. Spero di sbagliarmi. Perché se si scoprisse che i Sullivan, e per estensione i Ferguson e i Chou, loro amici stretti, erano coinvolti, mi sentirei così stupido…”

Infilzò un pezzo di polpettone con la forchetta e se lo portò alle labbra, sollevando lo sguardo innocente e preoccupato sulla zia.

I lineamenti di Hillary erano contratti in un’espressione meditabonda. Scrollò la testa, sbuffò e abbozzò una mezza risata. Subito dopo tornò seria e si lasciò riassorbire dalle congetture. Regan poteva quasi vedere le rotelle nel suo cervello lavorare a pieno ritmo.

“Confesso che mi riesce difficile crederci, la sola idea mi suona sbagliata, ma adesso non posso fare a meno di chiedermi…” sospirò e si strofinò la faccia con le mani, “Dannazione, Regan.”

“Sei stata tu a insegnarmi di non ignorare mai il mio istinto! Oh. Ora che mi ci fai pensare, ricordo che Gregory, Kevin e Derek hanno cominciato a comportarsi in modo strano sin dalla scomparsa di Teresa.”

“Mi servirà un mandato.” sancì Hillary.

Regan e Deirdre si scambiarono un’occhiata eloquente.

Il giorno dopo, muniti di toast e succo d’arancia, si sedettero sul divano per non perdersi il notiziario locale del mattino, che dedicò un buon quarto d’ora al caso delle scomparse.

A quanto pareva, la polizia aveva fatto irruzione nelle abitazioni delle famiglie dei Sullivan, Ferguson e Chou all’alba. Oltre a scoprire arsenali di armi non registrate, avevano rinvenuto anche oggetti appartenuti alle vittime, chiusi in delle scatole nei seminterrati. Senza contare i simboli occulti disegnati sotto i tappeti e le foto sconcertanti di parti umane amputate nei fascicoli nascosti nelle casseforti in ciascuna delle case, con tanto di prezzi accanto a ciascuna foto.

Regan agguantò il cellulare. Navigando su internet e sui social, notò che non si parlava d’altro. Nessuno sapeva cosa fosse successo alle vittime di preciso, ma l’immaginazione non mancava a nessuno e le teorie abbondavano. Tutti erano scioccati e pieni di rabbia.

Mentre la giornalista seguitava a riferire in diretta gli eventi, il cellulare di Regan squillò. Una veloce occhiata allo schermo e le sue labbra si aprirono in un ghigno. Accettò la chiamata e si portò il cellulare all’orecchio.

“Buongiorno, signor Sinclair.”

“Hai idea di quanta fatica abbiamo fatto per piazzare tutto come hai detto?! Abbiamo finito poco più di un’ora fa dopo una notte completamente in bianco!” sbraitò Vincent, “Potevano beccarci in flagrante! E sai quanto è stato difficile reperire gli effetti personali delle vittime? Rupert Gullon non tanto, ma gli altri sì! Le famiglie erano in casa, avrebbero potuto sentirci!”

“Ma non l’hanno fatto. Ottimo lavoro. Soprattutto con le foto e i simboli occulti, erano molto credibili.” si complimentò Regan.

“Ruby sa usare bene Photoshop, è un’artista molto dotata.” ammise con una punta di fierezza nella voce, poi si riscosse, “Si può sapere come diamine ti è venuta in mente un cosa del genere?”

“Geniale, vero?”

Vincent grugnì, suo malgrado colpito.

“Vi ringrazio, il vostro aiuto è stato fondamentale.” disse Regan.

“Abbiamo fatto tutto noi! E non mi sono neanche potuto godere il coniglio che mia moglie ha cucinato ieri perché tu hai pensato bene di scrivere quel messaggio mentre stavamo pranzando!”

“Il piano era mio.”

“Abbassa la cresta, moccioso. Sei invitato a cena domani sera, non mancare.”

“Un banchetto in mio onore?”

“Roman non fa che lagnarsi perché gli manchi e non mi va che passi troppo tempo da voi. Se glielo permettessi, dovrei pagare a Deirdre gli alimenti.”

“Ricevuto, signor Sinclair. A domani. E ancora ottimo lavoro!”

Riattaccò e rivolse alla nonna un ghigno cattivo. Deirdre esplose in una risata sguaiata. Dal calorifero sotto la finestra, Poe miagolò scocciato per essere stato disturbato durante il suo decimo pisolino.

A scuola, non si fece che parlare della svolta nelle indagini. In classe, nei corridoi, nei bagni, era il solo argomento che rimbalzava di bocca in bocca. L’armadietto di Teresa, sino ad allora dimenticato, si riempì subito di altre frasi sdolcinate, biglietti e fiori freschi.

A mensa, Regan si divertì ad ascoltare le teorie che ricamavano gli studenti, incuranti del pubblico o delle opinioni altrui, mentre Roman ciondolava al suo fianco mugugnando in continuazione “voglio dormire, letto, voglio dormire”.

Di comune accordo, le ragazze si misero a organizzare una festa su invito in onore di Teresa per dirle propriamente addio. James assunse un’aria depressa e restò muto per la maggior parte della giornata. Gli altri popolari mostrarono rispetto per il suo cordoglio.

Tornato a casa, Regan fece i compiti. A cena decise di cimentarsi in una ricetta vietnamita piuttosto semplice che gli aveva consigliato Lorie. Voleva fare una sorpresa alla nonna. Infatti, Deirdre aveva lavorato senza sosta nell’ultimo periodo: l’ospedale le aveva consegnato la quinta salma della giornata pochi minuti prima e i parenti avevano già telefonato per dire che la volevano pronta al più presto per il funerale. La povera donna si meritava una pausa.

Il fantasma di un vecchio signore vestito in giacca e cravatta stazionava accanto alle scale che portavano al piano di sopra.

Dalla porta accostata del seminterrato proveniva Sh Boom Sh Boom dei The Crew Cuts, un pezzo che Regan amava e odiava al tempo stesso, perché una volta che gli entrava in testa non ne usciva più. Poteva sentire Deirdre canticchiare a bassa voce leggermente fuori tempo e battere la suola della scarpa al ritmo della musica. Senza volere, pure lui cominciò a mugugnare tra i denti e muovere i fianchi.

Mise a cuocere gli spaghetti di riso, piroettò con eleganza attorno al tavolo e si focalizzò sul pollo adagiato sul tagliere, facendolo a striscioline. Lo saltò in padella con un pizzico di peperoncino, olio di semi di arachidi e un rametto di menta. Stava condendo le verdure crude con l’aceto, quando il campanello suonò.

Si fermò e aggrottò le sopracciglia, perché non riconosceva l’odore della persona fuori dalla porta. Che qualcuno avesse portato un’altra salma? Si pulì le mani e andò ad aprire.

L’uomo alto e palestrato che gli si parò davanti aveva un aspetto vagamente familiare. La mascella squadrata pareva opera di uno scultore esperto, le spalle erano larghe quasi quanto la porta e la giacca di pelle che indossava era stirata sul torace e i bicipiti. Furono gli occhi, però, ad attirare la completa attenzione di Regan. Erano gelidi, duri, privi di luce, incorniciati da borse scure e rughe che denotavano una stanchezza più che fisica, spirituale.

“Sì?”

“Sei tu Regan.”

Anche se non era una domanda, Regan annuì. Per qualche ragione, avvertì i peli del corpo rizzarsi e il cuore prendere a martellare nello sterno come un tamburo.

Un movimento rapidissimo della mano destra dell’uomo catturò il suo sguardo. Si ritrovò a fissare la canna di una pistola munita di silenziatore. E allora realizzò chi era l’uomo. Non aveva la divisa dell’FBI, per questo non lo aveva riconosciuto subito.

Campanelli d’allarme risuonarono a tutto spiano nel suo cervello. Pensieri come “chiama Deirdre”, “urla”, “togliti dalla linea di tiro” gli balenarono in mente simili a dardi infuocati, ma si persero nel caos provocato dal picco di panico che lo pervase.

John Bennett non gli diede nemmeno il tempo di respirare.

Serrò le dita attorno all’impugnatura della pistola e premette il grilletto.




 
“Life could be a dream, sweetheart…”
 
















Dan dan daaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaan! XD Ditelo che mi adorate <3
Grazie infinite per aver seguito le disavventure di Regan fin qui e non dimenticate di farmi sapere cosa ne pensate!
Il secondo libro è ancora work in progress, ci vorrà un po', ma conto di cominciare a pubblicarlo questo inverno.
Un bacione a tutti!
Lady1990

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3816669