Esmeralda

di ToscaSam
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** XVIII ***



Capitolo 1
*** I ***


Per scrivere questa storia mi sono ispirata a libri che ho letto,a esperienze personali, a eventi che mi sono stati raccontati da altri e a quello che mi ha dettato la fantasia.
La protagonista non sono io. È frutto della mia fantasia, quindi, può assomigliarmi un po', come anche no.
Se pensate di essere qualcuno dei personaggi, che io mi sia ispirata totalmente a voi, se pensate che io pensi certe cose di voi, se credete che vi abbia giudicato in un certo modo, vi garantisco che non è così .
Le persone qui descritte non esistono. Se vi assomigliano a qualcuno, quel qualcuno non esiste o non è interamente riconducibile al personaggio.
I fatti narrati non sono realmente accaduti.
Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale





 
'Intorno a lei tutti gli sguardi erano fissi, tutte le bocche aperte; e infatti, mentre danzava così - al suono del tamburello basco che le sue braccia rotonde e pure portavano sopra la testa - snella, fragile e vivace come una vespa, con il suo corsetto d'oro senza pieghe, con la sua veste variopinta che si gonfiava, con le spalle nude, le gambe sottili che la gonna ogni tanto scopriva, i capelli neri, gli occhi di fuoco, era una creatura soprannaturale. «In verità», pensò Gringoire, «è una salamandra, una ninfa, una dea, una baccante del monte Menalo!»
In quel momento una treccia della capigliatura della "salamandra" si staccò e un pezzo di rame giallo che vi era attaccato rotolò a terra. «Eh, no!», disse, «è una zingara» '
 
[Notre Dame de Paris, Victor Hugo]


 
PROLOGO
 
A Tullia Pasquinelli piaceva l'allitterazione della elle nel suo nome. Le piaceva che il suo nome si potesse abbreviare in più modi, come Lia, Ulli, Ul, Tul. Odiava la variante “Tully”, soprannome che le avevano affibbiato sin da quando era piccina ed evocava solo immagini di mamme e compagni delle elementari.
Le piaceva che il suo nome non fosse troppo comune, ma nemmeno troppo strano. Una volta conobbe una che si chiamava Orsola e si chiese se i suoi genitori non si fossero bevuti il cervello.
“Tullia” le ricordava al tempo stesso il toulle, stoffa divertentissima che faceva star su ogni costume di carnevale, e una vaga idea di menestrello.
Ed era proprio per quel menestrello immaginario che il suono del suo nome le aveva sempre evocato, che Tullia si era iscritta alla facoltà di Storia all'Università di Pisa.
Il menestrello si era sempre più solidificato, aveva assunto contorni più vasti, meno antropomorfi e aveva racchiuso dentro di sé una serie di passioni e desideri tutti riconducibili a lui, alla sua forma embrionale.
Tullia amava diverse cose di sé stessa, ma probabilmente era l'unica a farlo.
Si sentiva speciale, come ogni singola persona fa con sé stesso. Quando andava a dormire, la sera, rifletteva sempre su quanto fosse intelligente e quanto avrebbe voluto conoscere i grandi letterati del passato. Sapeva che sarebbe stata l'allieva preferita di Dante e la moglie perfetta di Leopardi. Si immaginava in conversazioni con Socrate, travestita da maschio, così che non avesse pregiudizi su di lei.
Ogni tanto credeva davvero di poter parlare coi loro spiriti, tramite preghiere intensissime rivolte all'energia della vita che da sempre governa l'universo.
Ogni tanto, Tullia si piaceva anche fisicamente: si guardava allo specchio e si compiaceva di una maglietta particolare che aveva comprato. Pensava che le desse questo o quel tono, che la facesse sembrare una giovane donna in carriera o un'archeologa o una dottoressa o un menestrello.
Si immedesimava negli abiti che portava e ne sentiva l'essenza, l'ispirazione. Era davvero la giovane donna in carriera o il menestrello, quando li indossava.
Eppure, al cospetto degli altri, delle sue compagne di classe o dei semplici passanti sulla strada, Tullia si sentiva immediatamente stupida e fuori luogo.
Nessuno pareva ragionare sulla sua lunghezza d'onda, anzi forse lei usava una frequenza apposita per gli strambi. Pareva che ogni sua decisione risultasse strana al resto del mondo. Possibile che non le riuscisse di azzeccare nemmeno mai una corrispondenza con le altre persone?
E poi si rendeva conto di essere brutta. Dove era finita la ragazza dallo sguardo sagace e acculturato che le aveva ammiccato allo specchio, quella mattina?
Era pallida, con le occhiaie perenni, goffa e minuta. Non aveva un briciolo di seno, era certa che la sua pancia sporgesse in contrasto con la corporatura snella del resto del corpo. Non sapeva accostare i vestiti di modo che piacessero alle altre persone. Piacevano a lei, ma solo la mattina allo specchio. La sera, spesso si chiedeva perché diavolo si fosse vestita così.
Di fidanzati neanche l'ombra.
Sapeva di essere l'unica nella sua terza liceo classico (oggi direbbero che frequentava il quinto anno) a non aver dato nemmeno un bacio vero. Si scandalizzava quando le compagne parlavano di sesso. Le trovava volgari e poco rifinite. Faceva alti pensieri sulla pochezza spirituale di chi dona il proprio corpo con lascivia, si sentiva carica di virtù. Si consolava con un discorso che le aveva fatto la sua amica Francesca, qualche anno prima: « Noi siamo diverse, siamo merce rara. Prima di comperare qualcosa di raro, la gente ci pensa. Adesso stanno provando con gli usa e getta, ma prima o poi qualcuno farà l'investimento e ci prenderà per sempre».
Le erano rimaste impresse, quelle parole. La retorica, ogni tanto, serviva a qualcosa. Era giusto. Prima o poi, un nobile giovane uomo si sarebbe accorto del suo valore e l'avrebbe presa con sé.
Bisognava aspettare.
Eppure Tullia sapeva bene che a diciannove anni era molto triste aver solo scambiato un bacio, che in realtà era una specie di morso, con uno che faceva la quinta superiore quando lei faceva la terza. Erano anche stati “fidanzati” per un mese, prima che lei decidesse di chiuderla lì. Lui non si era più fatto sentire, la salutava per i corridoi scolastici e tre volte le aveva tenuto la mano. Tullia aveva capito che lui era una pappamoscia e gli aveva chiesto di smettere di essere una coppia.
Il fatto che lui avesse accettato con un “ok!” sorridente, le fece capire di aver scambiato il morso-bacio con una specie di sardina.
Lei, Michela e Francesca erano sempre state le sfigate del loro anno. Dagli ultimi anni delle elementari, fin poi alle medie, erano state gli zimbelli della scuola del loro paesino. Dalle superiori in poi, erano state inglobate nella cerchia di ragazze che nessun maschio guarda, fuori dalle dinamiche di “a lui piace lei, chiedi all'amica se anche a lei piace lui”.
Sempre loro tre, amiche che ridevano insieme, che leggevano i fumetti, che facevano congetture sulla vita e l'esistenza, nemmeno un ragazzo, nemmeno un corteggiatore, mai.
Tullia finì il liceo sapendo che non avrebbe mai rivisto (e volentieri) le sue ex compagne. Cercò una casa con sconosciute, guai a vivere con una di loro.
Voleva tagliare ogni ponte con quelle oche, che le avevano ricordato sempre quanto lei non fosse apprezzata nel mondo reale.
Questa era Tullia Pasquinelli, quando si recò alla prima lezione dell'università di Pisa.

 
I
 
Era stato complicato, riuscire ad organizzarsi l'orario. Le materie si sovrapponevano quasi tutte. Era riuscita a incastrare solo quelle che le piacevano di meno e che avrebbe voluto frequentare più avanti.
Cartografia. Che razza di materia era, cartografia? Le evocava vaghe idee di mappe antiche. Aveva scelto il curriculum di storia medievale, come cavolo poteva non immaginarsi qualcosa del genere? E invece a quella lezione erano comparse cartine topografiche, elementi di scienze della terra, geologia, addirittura formule con i numeri.
Numeri! Tullia si era fatta prendere così tanto dallo sconforto che aveva pensato di mollare ogni cosa. Il primo giorno.
Era arrabbiata con tutto: la lezione aveva fatto schifo, il suo orario era bruttissimo, non era riuscita a comporre un abbigliamento decente con cui presentarsi al mondo, aveva i capelli sporchi, appiattiti, unticci, voleva abbandonare l'università e un brufolo gigante le era spuntato in nottata sulla fronte.
Stava indugiando sulla sedia scomoda, confusa fra i suoi stessi pensieri e malumori, quando sentì chiaramente una voce che sussurrava:
« Vediamo quante fiche assurde ci sono a questa lezione»
Tullia alzò gli occhi con circospezione: la voce proveniva da due schiene sedute poche file più avanti a lei. Erano due ragazzi. Tullia capì che quell'affermazione l'aveva sentita solo lei e che i due non si aspettavano di essere stati ascoltati.
Che cosa idiota da dire, pensò. Eppure, come un riflesso involontario, cercò di raddrizzarsi, di comporsi in una posa decente, di sistemare velocemente lo schifo dei capelli e di nascondere il brufolo. Ovviamente sapeva che non poteva risultare più orrenda di così.
Scrutò di soppiatto lo sguardo del ragazzo, che si girava con poca dissimulazione a studiare le persone nell'aula.
Vide con la coda dell'occhio di essere osservata e studiata. Ne fu certa, guardava lei.
Il ragazzo tornò a parlare col suo amico, piano:
« Niente male!»
disse.
Niente male? Pensò Tullia, improvvisamente arrossita.
Se davvero si riferiva a lei, quel ragazzo doveva avere problemi di vista.
Sai che c'è? Si disse Tullia: aveva bisogno di qualcuno che l'aiutasse a comporre un orario migliore. Aveva bisogno di delucidazioni su certe materie. Disse: perché no.
Si alzò e andò a sedersi proprio accanto ai due ragazzi.
« Ciao» disse, scoprendo una voce sicura che non era la sua.
« Ciao» risposero i due, cortesi.
Quello che l'aveva sbirciata aveva l'aria beffarda. L'altro sembrava solo cordiale.
« Per caso voi siete di storia?» chiese lei.
« Si. Curriculum medievale» rispose quello spavaldo.
Questo è un miracolo, pensò Tullia.
Il destino, come nei migliori film o romanzi, aveva giocato un bel tiro.
Tullia aveva passato gli ultimi mesi a ripetere che si, storia medievale era effettivamente un corso di laurea e che si, l'avrebbe frequentato.
Nessuno l'aveva saputa aiutare, nessuno era competente.
E d'un tratto si trovava davanti due ragazzi che l'avevano giudicata niente male, che studiavano le sue stesse materie e che avrebbero potuto diventare suoi amici.
Si mostrò estremamente felice di averli incontrati e disse di essere loro grata.
I due ragazzi si mostrarono gentili: si chiamavano Bruno e Rocco. Il primo era abituato alle attenzioni: era a suo agio con i goffi tentativi di Tullia di rimanere simpatica. Rise alle sue battute, le sfiorò più volte un braccio come per dire “tranquilla, ti aiuto” e si offrì di tenerle il posto per la lezione del giorno dopo.
Rocco era più riservato, ma Tullia gli leggeva negli occhi qualcosa che voleva uscire fuori. Sembrava che volesse dire più di quello che gli riusciva. Fece parlare sempre Bruno, annuì e acconsentì alle offerte gentili che Bruno profondeva a Tullia.
Mentre scendeva le scale del dipartimento in via Paoli, Tullia sorrideva.
I capelli non erano così sporchi e forse il brufolo non si vedeva molto.
All'uscita si imbatté in due capannelli di persone: stavano distribuendo volantini. Altri due ragazzi che la cercavano, pensò Tullia, anche se questi dovevano essere ammalianti con tutte, per accalappiare clienti.
Capì che uno distribuiva un giornale comunista. Aveva acciuffato una ragazza bionda e ricciuta e cercava di comprarla con frasi altisonanti.
L'altro consegnava volantini per la messa di inizio anno accademico. Era accerchiato decisamente da poche persone, eppure a, una prima occhiata, a Tullia sembrò molto più carino e affascinante dell'altro.
Vedendo che lo stavano osservando, il ragazzo cattolico le porse il volantino. Aveva un bel sorriso, sembrava deciso.
« Ti interessa?» le chiese, vedendo che Tullia leggeva seriamente il volantino.
« Non lo so» rispose lei.
Non aveva un gran passato da cattolica, però adorava pregare. Pregava un dio dai contorni molto fumosi: quello che la metteva in contatto con gli spiriti del passato, che le donava emozioni magiche quando si trovava immersa nella natura.
« Sembri indecisa. Sai che già riflettere sull'esistenza di Dio è il primo passo per una fede solida? Per la fede, come per tutto il resto, farsi domande è sintomo di intelligenza»
Tullia fissò il ragazzo. Le sorrideva ancora.
Notò che da vicino non era affatto carino come le era sembrato: aveva gli occhi sporgenti, le sopracciglia folte che si staccavano solo per pochi centimetri e le labbra gonfie e mollicce. Però la forma dei denti e del sorriso era piacevole.
Tullia decise di sorvolare gli aspetti sgradevoli di quel viso amichevole e ricambiò la cordialità:
« Allora per ora mi accontento del complimento» disse, esibendo un tono che voleva essere accattivante o addirittura seducente.
Si chiese cosa mai le stesse succedendo. Se si fosse comportata così al suo paesino di provenienza sarebbe sembrata stupida.
Il ragazzo cattolico cadde nella ridicola trappola tesa da una seduttrice inesperta.
« Sarebbe bello vederti alla messa. Dopo potrei avere l'occasione per offrirti un caffè»
« Non bevo caffè» azzardò Tullia.
« Allora una tisana» concluse lui, garbato.
Tullia lo salutò promettendo che ci avrebbe pensato.
Si allontanò in direzione di Piazza Dante, con il foglietto della messa cattolica in tasca e la certezza di avere un posto tenuto per la lezione del giorno dopo.
Era l'aria di Pisa che le faceva bene? Eppure sembrava una città così sporca, così brutta, così priva di poesia.
 
*
 
Il giorno seguente Tullia passò la lezione di cartografia accanto a Rocco e Bruno. Si salutarono come se si conoscessero da una vita e ogni tanto ridevano gli uni alle battute degli altri.
Quel giorno Tullia aveva deciso di vestirsi con cura. Voleva sembrare curata, ma indossando cose semplici.
Rabbrividiva nel vedere il corredo di pizzi e fronzoli che si era trascinata dietro dall'adolescenza. Il suo armadio pisano pullulava di cimeli del passato. Basta, era una persona nuova.
Aveva scelto quello che di più normale c'era, in mezzo a tante cianfrusaglie, prediligendo i colori marrone e verde, o le fantasie a fiori su sfondo crema, o il jeans semplice.
Si sarebbe decisa a un radicale rinnovamento, prima o poi, quando le sue finanze l'avessero permesso.
Quella seconda mattina, però, Tullia si accorse di aver perduto il fascino della prima volta. Bruno non l'aveva guardata, non in quel senso. Rocco non aveva dato segno di apprezzare particolarmente la sua compagnia.
Dopo la lezione si salutarono con la promessa di rivedersi il giorno dopo.
Tullia tornò a casa, mesta: il giorno prima le cose erano accadute per caso e tutto era parso magnifico; adesso lei era lì, vestita come una stupida, sotto la pioggia nauseante di Pisa, ad aspettare la navetta che non sarebbe mai arrivata.
La sua casa era lontanissima: doveva farsi tutto Corso Italia a piedi, attraversare Piazza Vittorio Emanuele, costeggiare la stazione e infilarsi in una stradina minuscola, squallida, triste di giorno e inquietante di notte.
Maledisse Pisa, le sue strade sporche, l'aria di lezzo, l'umido costante che arriva fino alle ossa, il cielo plumbeo e la calca di spendaccioni in Corso Italia.
Quando arrivò, le sue coinquiline stavano già preparando la cena.
« Mangi con noi, Tul?»
L'avevano chiamata “Tul”. Questo risollevò un po' la giornata. Adorava sentirsi chiamare così e non “Tully”.
Disse che si, cenava con loro.
Prepararono un piatto di pasta in più. Era al tonno, ovviamente. Le tre coinquiline non sapevano cucinare e non ne avevano mai voglia. Studiavano tutte e tre medicina, eppure nessuna di loro pareva interessata a una dieta sana.
Clarissa era alta, bionda e considerata da tutti bellissima. Si alzava sempre due ore prima, la mattina, per prepararsi ad uscire. Adorava le scarpe e i prodotti per i capelli.
Nonostante l'aria da diva del cinema, era la più simpatica.
Tullia non capiva come mai perdesse tanto tempo e tanti soldi in vestiti e trucchi. O meglio, lo capiva ma non lo condivideva. Lei non l'avrebbe mai fatto.
Le altre due si chiamavano Rosanna e Ilaria, ma Tullia non sviluppò mai un gran rapporto con nessuna delle due. Vivevano insieme e si scambiavano frasi amichevoli, ma rimasero entrambe nella sfera delle conoscenti.
Mentre mangiavano la pasta al tonno – che sapeva di olio di scatoletta – Clarissa disse:
« Domani sera ho invitato alcuni amici. Facciamo un gioco da tavola. Va bene?»
Ovvio che andava bene, se li aveva già invitati.
Ma Tullia non si lamentava: gli amici di Clarissa erano sempre simpatici.
Abitava in quella casa da una settimana e già aveva conosciuto quattro gruppi diversi di amici di Clarissa.
Le sue coinquiline stavano lì già da un anno. Il quarto elemento, di cui Tullia aveva preso il posto, era una ragazza sarda che aveva smesso di studiare per aiutare il padre nell'azienda agricola di famiglia.
La serata passò con qualche barlume di felicità in più, solo perché Tullia si era sentita chiamare “Tul”. Andò a letto abbastanza tranquilla, immaginando come sarebbe stata la lezione accanto a Rocco e Bruno, il giorno seguente.

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Capitolo 2
*** II ***


II
 
Ecco che la lezione di cartografia iniziava, lenta e noiosa. Ecco che Tullia si era seduta fra i suoi due amici, con un sorriso quasi d'abitudine sulle labbra.
« Ci prendiamo un caffè, dopo?» disse Bruno.
« Va bene» rispose Tullia, sapendo che non avrebbe mai ordinato un caffè.
« Se posso consigliarvi» disse d'un tratto un ragazzo bruno, con la barba folta, che era seduto davanti a loro tre: « andate al bar Macchi. In Piazza Dante. Fanno un ginseng buonissimo».
Tullia scoprì che Bruno e Rocco conoscevano il ragazzo barbuto. Gli chiesero se volesse unirsi a loro e quello accettò.
Quella fu la prima volta che Tullia si recò al bar Macchi, luogo che sarebbe diventato l'isola più felice di tutta Pisa.
Lo sconosciuto si chiamava Angelo ed era ligure. Parlava a voce bassa ma accattivante, sarebbe riuscito a zittire un'aula di venti persone per farsi ascoltare.
Tullia lo trovò molto simpatico.
« Che studi, Angelo?»
« Storia, ma curriculum contemporaneo»
« Bleah»
« Si, lo so. Tanta politica e poche spade, vero?»
« Più o meno»
« Non bevi caffè?»
« No, mi fa diventare pazza!»
« Dovresti provarlo come lo prendiamo io e Bruno. Non ti farà niente».
Tullia studiò la tazzina che il nuovo ragazzo le porgeva: emanava un odore pungente che lì per lì non seppe identificare.
« No, grazie» rispose.
Bruno e Angelo risero. Si trattava di caffè corretto alla sambuca; l'odore forte era quello di anice.
Tullia si beò molto della compagnia dei tre ragazzi. Non era mai stata amica di così tanti maschi, né aveva mai preso un caffè essendo l'unica donna al tavolo.
Si dedicò ad un'attenta analisi di ognuno di loro, decidendo se anche loro trovavano piacevole la sua compagnia.
Bruno era il più spavaldo. Tullia era sempre meno certa di piacergli. Come mai l'aveva giudicata “niente male” e poi la considerava come una conoscente con cui aveva poco a che fare? Era impossibile che gli fosse piaciuta fisicamente e non caratterialmente. Tullia puntava tutto sulla simpatia. Uno che l'avesse giudicata “niente male” di fisico non poteva trovarla antipatica. Era spiritosa, era colta, era fantasiosa. Tutte qualità lontane dall'aspetto fisico.
Rocco sembrava più bendisposto: ascoltava tutto quel che diceva e spesso era d'accordo con lei. Coglieva tutte le sue allusioni letterarie e le rispondeva con altrettanta prontezza culturale. Tullia si rese subito conto che Rocco era molto più intelligente di lei e, soprattutto, che conosceva la storia e la letteratura molto più a fondo di chiunque altro.
Il nuovo arrivato? Angelo era cordiale, piacevole e alla mano. Tullia capì che in lui non avrebbe mai trovato la servilità di Rocco, né la sbruffonaggine di Bruno. Lo sentiva affine, un carattere modesto ma pieno di lati nascosti. Non la metteva in condizione di decidere se fosse o no interessato a lei. Era un'altra cosa, un altro tipo di amicizia.
Il caffè andò benissimo. Si scoprirono affiatati in quattro come lo erano stati in tre.
Angelo aveva conosciuto Bruno ad un altro corso e si erano vagamente frequentati. Da quel momento in poi divennero inseparabili. Decisero di tenersi il posto in Aula Liva, di pranzare insieme alla Mensa Centrale, di prendere il caffè dal Macchi e, chissà, di studiare insieme per gli esami del futuro.
Quella giornata fu molto migliore della precedente.
Tullia aveva capito che, per qualche strano motivo, la gente di Pisa non la considerava strana e brutta. La prima impressione che dava era quella di una persona come le altre, con cui si poteva parlare e fare amicizia.
Pensò a sé stessa in compagnia di tre ragazzi in un bar del suo piccolo paese. Rabbrividì all'idea. Lei? Al bar? L'avrebbero subito adocchiata e tutti avrebbero riso di lei. E poi chi diamine si sarebbe seduto con lei?
Era una strana, una brutta, una che non è di comitiva e che non fa parte di nessun gruppo di amici divertenti.
Cosa cambiava a Pisa? Perché il paese la rigettava e Pisa la invitava? Eppure lei amava il piccolo paesino di campagna. Pisa era orribile, puzzolente e piovosa.
Quando annunciò che voleva ritornare a casa, i tre ragazzi fecero eroicamente a gara per offrirle il ginseng che aveva ordinato.
Tullia si compiacque moltissimo di quel gesto e rimase ancora più stupita quando tutti e tre si offrirono di accompagnarla. Bruno e Angelo dovevano andare alla stazione, dissero, mentre Rocco abitava in Corso Italia.
Fu un tragitto divertentissimo e quando Tullia dovette separarsi dagli amici, capì che non vedeva l'ora di ritrovarsi al giorno dopo.
Rientrò in casa e si turbò: era il giorno in cui la sua coinquilina Clarissa aveva invitato degli amici per giocare a un gioco da tavola. Non aveva voglia di conoscere altra gente. Voleva che la giornata finisse così.
Dagli schiamazzi e le risate acute, ancor prima di aprire la porta Tullia capì che gli ospiti erano già arrivati.
« Tul, stiamo ordinando la pizza su internet! La vuoi?»
Tullia brontolò “si” solo perché non aveva voglia di essere l'unica a mangiare un piatto di pasta, mentre gli altri la osservavano dall'alto della loro pizza fumante.
Doveva spendere altri soldi e non voleva prendere l'abitudine di viziarsi col cibo.
« Vieni a dirci come la vuoi»
strillava Clarissa dalla piccola cucina.
Tullia gettò velocemente borsa e giacca nella sua stanza, poi raggiunse gli altri.
Non avrebbe mai scommesso su quello che si parava davanti a lei: oltre a Clarissa, Rosanna e Ilaria c'erano solo un ragazzo e una ragazza. Lei era grassoccia, con un naso aquilino e il sorriso antipatico. Lui aveva le sopracciglia folte che quasi si toccavano, gli occhi sporgenti e le labbra carnose.
Era il ragazzo che distribuiva i volantini cattolici.
 
*
 
« Allora, lei è Tullia, la nostra nuova coinquilina. È una matricola e studia storia. Tullia, loro sono Giulia e Paolo. Studiano lingue».
Tullia rimase pietrificata. Adorava le coincidenze così romanzesche.
Anche Paolo si era illuminato: l'aveva di sicuro riconosciuta.
« Ah! La ragazza che non beve caffè» disse mostrando il bel sorriso, l'unico dettaglio che rendesse la sua faccia piacevole.
Clarissa guardò l'uno e l'altra più volte, prima di capire:
« Voi due vi conoscete?»
« L'ho intravista fuori dalla facoltà, le ho dato un volantino per la messa di inizio anno accademico».
Clarissa non dette segno di giudicare in alcun modo l'affermazione di Paolo. Tullia si sarebbe vergognata da morire a pronunciare la parola “messa” in quel contesto. Paolo le sembrò molto sicuro di sé e delle sue scelte.
Giulia invece non riuscì a togliersi di dosso l'aria antipatica e per tutta la sera se ne stette con un sorrisetto stampato sulle labbra.
Prima che arrivassero le pizze, la comitiva si scambiò convenevoli piuttosto neutrali. Paolo non la smetteva di sorridere a Tullia e di chiedere il suo parere su questo e quello.
Dopo una buona quarantina di minuti si sentì suonare al campanello. Andarono Tullia e Rosanna ad aprire.
Quando la porta fu richiusa, sentendosi particolarmente spigliata e adulta, Tullia fece un commento sul fattorino delle pizze:
« Era proprio discreto!»
Sapeva che fino ad ora non aveva mai avuto il coraggio di pronunciare una frase del genere. Non aveva mai posato troppo gli occhi sui ragazzi, si era sempre definita una che giudica il carattere e non l'aspetto. Decise di ricacciare il sentimento di vergogna per aver espresso un parere così sciocco, soprattutto perché Giulia rispose:
« A me non piacciono gli sconosciuti. Mi piacciono solo quelli che conosco».
Lanciò un'occhiata ardente a Paolo, che la ignorava.
Tullia si sentì bruciare di un odio fuori luogo, che la divorò tutta.
Giulia la fissava, ridendo di lei, con sufficienza. Lisciava il braccio di Paolo e sembrava sfidarla a una qualche gara.
Va bene, si disse Tullia. Pisa la faceva sentire tutta un'altra persona e così decise che, quella sera, avrebbe gareggiato contro Giulia per le attenzioni di Paolo.
Mangiarono la pizza in allegria, Clarissa raccontava delle sue difficoltà nel passare l'esame di anatomia e Rosanna e Ilaria dicevano che loro lo avrebbero affrontato l'anno successivo.
« Cosa hai detto che studi?» chiese Paolo a Tullia.
« Storia, curriculum medievale» rispose lei, fiera.
« Ah. Esiste?» chiese Giulia sprezzante.
Tullia si sentì crepitare di elettricità. Possibile che si potesse decidere di essere così odiosi?
« Si. Esiste» rispose gelida.
« Io non posso pensare di studiare qualcosa che non mi dia un lavoro. Voglio dire, a che ti serve? Bella cultura, ma fine a sé stessa» continuò.
Più parlava e più la sua faccia era brutta. Tullia si chiese come si potesse rispondere in maniera cortese a queste affermazioni.
« In effetti storia fa un po' schifo, si» aggiunse Paolo.
Tullia si sentì ferita. Paolo, non puoi stare dalla sua parte, pensò.
« E allora voi? Studiate lingue. Cos'ha in più di storia?»
« Di certo avremo molte più possibilità lavorative di quante ne avrai tu» continuò Giulia con un sorriso sempre più orribile sulle guance abbondanti.
Si strusciò palesemente contro il braccio di Paolo. Tullia si chiese se lui fosse stupido o cosa, visto che sembrava non accorgersi di niente.
« Comunque io sono dell'opinione che ognuno debba studiare quel che vuole. Mio babbo voleva che studiassi giurisprudenza e ho sprecato il primo anno di università a seguire il suo consiglio. Da quando studio lingue sono un'altra persona» disse Paolo, facendo spallucce.
Giulia fu costretta ad assentire: « Vero, certo. È proprio così».
Tullia si congedò dalla combriccola che si accingeva a giocare a Taboo. Disse che voleva riposare. Anche Rosanna si ritirò per studiare.
Rimasero solo Ilaria e Clarissa con i due ospiti.
« Non rimani?» chiese Paolo a Tullia.
Ottimo, pensò lei. Devo giocare bene le mie carte. Se voglio che sia mio, devo dare la corda e poi tenderla. Uno zuccherino e una mazzata.
Si ritirò in camera, salutandoli e dichiarando che non vedeva l'ora di rivederli.

 

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Capitolo 3
*** III ***


 
III
 
Fu quello uno dei tanti errori di Tullia Pasquinelli. I suoi tre amici dell'università stavano diventando scontati, quotidiani. Non c'era nessuna partita da vincere, non c'era nessuna ragazza odiosa da umiliare.
Forse fu il desiderio di vendetta a guidarla verso quella strada. Vendetta contro le ragazze che l'avevano esclusa e fatta sentire anormale dalla sua nascita fino alla fine del liceo.
Tullia decise che avrebbe preso Paolo per rubarlo a Giulia e che ne avrebbe tratto una soddisfazione indicibile.
Se si fermava a guardarsi allo specchio, Tullia vedeva già una ragazza diversa. Un mese appena di vita fuori dal paesino l'aveva trasformata, rendendola il paradosso dei suoi più grandi desideri inespressi.
Non aveva mai avuto un fidanzato: ebbene ora ne voleva uno, uno che si fosse scelta lei.
Non aveva mai fatto a gara di bellezza con un'altra ragazza: adesso giurava che avrebbe asfaltato l'autostima di Giulia come una tangenziale. L'avrebbe polverizzata. Lei era grassa e brutta. Tullia era magra e, se si impegnava, poteva risultare carina. I suoi tre amici non la trovavano forse carina?
Angelo, Rocco e Bruno divennero il suolo su cui testare la sua nuova capacità di piacere agli altri. Nei giorni che seguirono, Tullia fu esuberante, brillante, simpatica e accattivante.
Andò in Corso Italia e si comprò qualche maglioncino nuovo, qualche nuovo paio di pantaloni. Via tutti i pizzi neri che aveva acquistato nel periodo del liceo. Via tutti quei cenci pieni di merletti ridicoli.
Adesso era il momento di comprare cose serie, che sui manichini facevano effetto di donne e non di ragazze.
Ecco cosa voleva essere. Una donna. Non più una ragazzina. Era finito, quel tempo.
Angelo divenne sempre più simpatico. Tullia adorava sedersi accanto a lui e parlottare fino all'ultimo secondo prima che iniziasse la lezione.
Aveva capito che erano talmente affini da potersi sentire fratelli. Ragionavano allo stesso modo, ridevano delle stesse battute, si appassionavano agli stessi film, discutevano volentieri degli stessi problemi.
Bruno era invece sempre più distante. Lui cercava il divertimento, commentava le belle ragazze che passavano, raccontava dei suoi lavori da DJ nelle discoteche della Versilia. Era un ragazzo di mondo, che adorava bere il sabato sera, fumare, racimolare anche qualche droga e via, finché il divertimento continuava.
L'unico che Tullia ancora non riusciva ad inquadrare era Rocco: pareva molto simpatico ma allo stesso tempo fin troppo servile. Le dava sempre ragione, ostentava la sua devozione per lei. La ascoltava sempre e le dava sempre la sua colta opinione. Sfiorava l'esagerazione.
Tullia non sapeva se trovarlo monotono o adorabile. Era un po' troppo appiccicoso, eppure irrinunciabile.
Quel tappeto di servilità serviva a nutrire il suo ego nella battaglia contro Giulia, per cui non disse mai a Rocco di andarci piano con l'adulazione.
Un evento a cui Tullia aveva deciso di assistere era la messa di inizio anno accademico. Ovvio. Era la mossa da fare.
Sapeva che sarebbe accaduto qualcosa di decisivo, se fosse andata.
Non si stupì nemmeno troppo quando vide Giulia a fare il capo dei chierichetti. Ecco cosa univa in amicizia quella ragazza stupida a Paolo.
Giulia vide Tullia che entrava da un lato della porta principale e decise spudoratamente di non salutarla. Che persona scortese e infantile.
Adesso Tullia doveva farsi vedere da Paolo. Era l'unico motivo per cui si trovava lì, in quel luogo.
Lo cercò con lo sguardo e non lo vide. Si sentì avvilire. Davvero Paolo non si sarebbe presentato?
Decise che comunque non se ne sarebbe andata, che avrebbe aspettato la fine della messa per non farsi mangiare dal rimorso del “e se fosse arrivato proprio un minuto dopo che lei se n'era andata?”.
La messa fu lunga e noiosa, ma Tullia la trasformò in un'occasione di spiritualità intensa. Pregò molto lo spirito dell'universo di vincere quella battaglia stupida in cui si era immischiata. Lo sapeva, gli disse, che era infantile e senza senso. Eppure era una sorta di riscatto. Non si era mai comportata così, non aveva mai gareggiato per le attenzioni di un ragazzo.
Fece un giuramento con la divinità, di cui seppe subito che si stava pentendo. Disse: io ti giuro che se otterrò Paolo me lo terrò per sempre. Non sarò come un'adolescente in cerca del primo bacio o della prima esperienza romantica. Mi impegnerò per tenerlo sempre con me.
Quando uscì dalla chiesa, sconvolta dal suo stesso giuramento, si chiese perché mai volesse tanto avere Paolo.
Non le piaceva mica, dopotutto? Perché si era appena impegnata con dio di amare per sempre un ragazzo che non le interessava?
Mi interesserà, si disse. Doveva interessarle, perché voleva vincere a tutti i costi contro l'insolenza di Giulia.
Possibile che avesse passato tutta la sua vita a sentirsi brutta e strana e che ora che finalmente veniva trattata da persona normale, dovesse sottostare ai giochetti di una ragazza cicciona e cattiva?
Si stupì di pensare cose così cattive, proprio dopo aver assunto il corpo di Cristo dentro di sé. I cattolici gli danno molta importanza, pensò. Se voleva Paolo, doveva cominciare a rispettare quello a cui lui credeva.
Un grande senso di insoddisfazione le si annidò nello stomaco e vi stanziò per molto tempo.
Stava imboccando il Borgo Stretto, con la faccia coperta dalla sciarpa e le mani strette nelle tasche, quando si sentì chiamare.
« Tul?»
Si girò e vide Rocco.
Un incontenibile sorriso le irradiò il viso.
« Rocco! Che ci fai qui?»
« Sto tornando a casa. Ero in biblioteca a studiare. Tu che fai?»
Tullia si vergognò molto e seppe che non avrebbe mai ammesso la verità. Parlare di chiesa, di messa e di Paolo era fuori discussione.
« Sto andando al supermercato» mentì. In effetti poteva andarci davvero; in casa mancavano le casse dell'acqua.
« E perché sei venuta fin quaggiù? Ce n'è uno in Corso Italia. È più vicino a casa tua, no?»
« Ah si?» chiese Tullia sinceramente.
Non era ancora mai andata a fare la spesa, di solito ci pensava Ilaria. Sapeva che le sue coinquiline andavano a un centro commerciale dalle parti di Piazza Manin, vicino alla Torre Pendente, un luogo lontanissimo.
Scoprire che si potevano fare acquisti comodamente in Corso Italia non poteva che essere una buona notizia.
« Ti accompagno» si offrì Rocco, galante.
« Grazie».
Lei e Rocco si incamminarono insieme da Borgo Stretto fino sul lungarno, poi su ponte di Mezzo e via in Corso Italia. Chiacchieravano con facilità, con piacere reciproco.
O meglio: Rocco ascoltava e commentava tutto quello che Tullia diceva.
Era un ascoltatore perfetto, pensò lei. Attento ad ogni minimo dettaglio, curioso, pieno di buoni consigli e molto dotto in ogni argomento.
Si misero a parlare della Divina Commedia, ridendo degli svenimenti continui di Dante personaggio, appassionandosi al canto di Ulisse, facendo paragoni con la mentalità del giorno d'oggi.
Tullia non aveva mai parlato così con nessuno.
Al paese, così come al liceo, era sempre sembrato strano che lei si appassionasse a un “libro” come la Divina Commedia. Era fuori luogo innamorarsi di ciò che stava dentro i libri di testo. Si leggeva altro, nel proprio tempo libero.
Tullia era vista come ridicola, quando si emozionava alle interrogazioni di Italiano o quando faceva domande troppo sincere a Filosofia.
Non c'era niente di affascinante in lei e nelle sue passioni. Questo le aveva insegnato la sua esperienza fin'ora.
Perché Rocco la assecondava e sembrava davvero appassionato di letteratura e di storia? Perché tutti a Pisa erano così diversi?
Arrivarono al supermercato.
Lei cercò una cassa d'acqua, poi si impegnò per portare nel frigo qualcosa di sano, qualcosa che le sue coinquiline dottoresse non avrebbero mai comprato.
Si fermò davanti alla verdura fresca. Era un'azione che aveva sempre visto fare a sua madre, che non aveva mai fatto di persona.
Cercò di assumere il suo stesso sguardo critico ed esperto: quei pomodori sono importati dalla Spagna; quanto carburante gli è servito per portarli qui? Meglio prediligere i prodotti a km zero, o comunque prodotti in Italia. E poi non è mica tempo di pomodori, a ottobre.
Comprò il cavolo nero, le rape, le patate, poi la passata di pomodoro biologico e il latte di capra.
Rocco la accompagnò in devoto silenzio e dispensò consigli solo quando glieli chiese. Scoprì che non era ferrato nell'arte di fare la spesa così come lo era in qualsiasi altro campo culturale. Per una volta fu divertente sembrare di saperne più di lui, o forse si fingeva meno esperto solo per darle questo piacere.
Decise di comprare anche una borsa di stoffa, per evitare futuri sprechi di plastica. Non era sufficiente, però a portare tutta la spesa: la cassa dell'acqua rimaneva per forza fuori.
Senza farselo chiedere e senza che Tullia lo desse per scontato (aveva già pensato di caricarsi di ogni peso), Rocco afferrò il manico scricchiolante della cassa d'acqua e la seguì fino a casa.
Era davvero un ragazzo buono, pensò.
Dopo una decina di minuti arrivarono alla stradina lugubre, dove ormai regnava il buio e il silenzio.
« Non ci venire mai tardi da sola, qui!» la ammonì Rocco, premuroso.
« Se faccio tardi, per forza devo passare da sola di qui» rispose lei. Non c'erano alternative e nemmeno lui poteva chiederle di telefonargli ogni qualvolta si fosse trovata in strada a quell'ora da sola, per farsi accompagnare.
Rocco strinse le labbra, poi finì il tragitto fino alla porta del condominio male illuminato.
« Ti va di salire? Ti offro un caffè?» gli chiese Tullia, per premiarlo del suo sforzo con l'acqua.
Lui emanò un sorriso radioso e disse di si.
Tullia non aveva idea se si potesse offrire un caffè alle otto e mezzo di sera, forse avrebbe dovuto chiedergli di fermarsi a cena.
Salirono insieme le scale con un po' di impaccio: lui che portava la spesa somigliava molto a un maritino.
Tullia rabbrividì leggermente per i suoi pensieri e si affrettò a cercare le chiavi che, ovviamente, quella sera erano sparite nella borsa.
Dopo troppo tempo, finalmente, le trovò e le infilò nella toppa.
Era molto strano annunciare il suo amico dentro casa sua: lui apparteneva al mondo di fuori, fargli varcare quella soglia era come ammetterlo al mondo di dentro. Pisa e i suoi amici erano fuori. Lei e la sua vita erano dentro.
Rocco entrò con calma, posando l'acqua vicino alla porta e aiutando Tullia a scaricare la borsa di stoffa. Posizionarono passata e verdure in frigo, scansando il burro di arachidi di Clarissa, le sottilette e i fegatini di Ilaria, le polpette commerciali di Rosanna.
Proprio mentre Tullia cercava la moca e la polvere di caffè, comparvero delle figure in cucina. Capì che aveva sbagliato tutto nello stesso momento in cui la voce di Giulia la schernì:
« Tutte le sere con un ragazzo diverso?».
Cosa diavolo ci faceva in casa loro?
Tullia riempì d'acqua con noncuranza la parte bassa della moca, poi cercò un cucchiaino per la polvere di caffè.
« Quando mai mi hai vista con un ragazzo?» ribatté tranquilla, senza imbarazzo.
Evidentemente Giulia stava cercando di danneggiarla agli occhi di Rocco, qualunque rapporto ci fosse fra i due: eliminare l'ipotetico amante o, se non c'era niente fra loro, ridurre l'amicizia.
Rocco non era stupido e si fidò del tono tranquillo e distaccato di Tullia. Quasi non rivolse a Giulia un cenno di presentazione.
Giulia aveva le abbondanti guance arrossate, gli occhi ridotti a due fessure.
« Ieri te ne sei uscita con la storia del bel fattorino delle pizze che ti volevi scopare»
« Che termini volgari! Non si addicono a una ragazza che ha appena ricevuto il copro di Cristo».
Giulia divenne ancora più rossa.
Tullia sorrise, dandole le spalle, tornando a fissare il caffè sul fornello.
Era certa che, se l'argomento dei molti uomini fosse caduto, Giulia avrebbe provato a screditarla dicendo di averla vista in chiesa. Era lampante che l'avrebbe giudicato un colpo basso.
Rocco ci capiva sempre meno.
Tullia rispose al suo sguardo interrogativo mentre gli versava il contenuto della moca nella tazzina bianca che gli aveva posto davanti, sul tavolino:
« Giulia era alla messa di inizio anno accademico».
« Anche lei» sbraitò Giulia, vendicativa.
Tullia notò con piacere che Rocco la fissava con aria complice. Era suo alleato. Avrebbe lottato dalla sua parte contro Giulia, la stava giudicando ridicola.
Si sentì forte.
Eppure, un istante dopo, apparve sulla soglia della cucina anche Paolo.
Tutta la forza che Tullia si era sentita addosso, svanì di colpo.
Cinse le spalle di Giulia con un abbraccio disinvolto, guardò Rocco con sufficienza, come se si chiedesse “chi è questo individuo in questa cucina?”, poi si illuminò nel suo sorriso smagliante, rivolgendosi a Tullia:
« Ti ho vista, alla messa»
Tullia si sgonfiò come un palloncino.
« E tu dov'eri? Perché non sei venuto a salutarmi?».
Paolo rispose, serio: « la messa non è un mercato. Non posso mica mettermi a camminare, su e giù, a salutare gente. Durante la messa si ascolta la parola del Signore».
Tullia si rabbuiò.
Vide che Rocco storceva il naso. Voleva prendere le distanze, voleva dire “io non sono così, non c'entro niente con queste storie!”. Lo guardò mentre sorseggiava il liquido nero bollente dentro la tazzina, poi disse a Paolo:
« Beh, mi avevi promesso un caffè!»
« Un caffè?»
« Si... quando mi hai dato il volantino. Mi avevi detto che se venivo alla messa, mi avresti offerto un caffè»
« Non me lo ricordavo».
Tullia rimase delusa.
Giulia si compiaceva del braccio di Paolo attorno al suo collo e fissava Tullia con sguardi sfottenti. Tullia non si capacitava dell'ostilità assoluta di quella ragazza. Che le aveva fatto? Possibile che l'avesse giudicata una nemica in solo così poco tempo?
Sempre offesa per la storia del caffè mancato, Tullia si dedicò solo a Rocco, quella sera. Non rispose nemmeno all'invito di Clarissa, che dall'altra stanza le chiese se voleva giocare a Taboo insieme a Paolo e Giulia.
Quando rimasero soli nella piccola cucina, Tullia osservò Rocco finché non ebbe finito il caffè. Lui le lanciava sguardi curiosi, di tanto in tanto, anche se li nascondeva con scarso successo.
Parve prendere un respiro profondo, prima di dire:
« Domani vieni tu da me. Ti offro io un caffè ...» prima che Tullia potesse aprire la bocca per ribattere, Rocco aggiunse: « decaffeinato».
Tullia sorrise con più benevolenza di quanta ne avrebbe concessa di solito a Rocco. Era stata una mossa perfetta: voleva dimostrare che lui l'ascoltava e sapeva che non beveva caffè. Lui non avrebbe mai commesso l'errore di dimenticarsi un appuntamento con lei. Se anche le avesse promesso di vedersi al bar dopo un anno, lui di certo ci sarebbe stato.
Non parve curarsi del fatto che Tullia fosse andata a messa, anzi, si sforzò di parlare d'altro.
Tullia, invece, si sentì in dovere di spiegare:
« Quel ragazzo … Paolo … distribuiva volantini fuori dal dipartimento. Mi aveva detto che se fossi andata alla messa mi avrebbe offerto il caffè. Era sembrato gentile. Io non ci andrei mai alla messa, così di mia iniziativa. Insomma, ecco, non sono una che frequenta le chiese, che è bigotta e queste cose qui … ecco, io …»
« Tullia, sono di Catanzaro. Sono stato costretto a fare comunione, cresima, pranzi di Natale e chierichetto fino allo sfinimento. E sono ateo. Non troverai mai nessun pregiudizio di questo tipo, in me».

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Capitolo 4
*** IV ***


IV
 
Il giorno dopo tutto cominciò com'era di consueto.
La lunghissima tiritera dalla stazione fino alla facoltà: gli spacciatori sotto le logge che invitavano ai loschi acquisti, i testimoni di Geova in piazza Vittorio Emanuele che sorridevano e volevano parlare della Bibbia, i ciondoloni in Corso Italia che già di prima mattina aspettavano l'apertura dei negozi, il mercatino di cianfrusaglie, Ponte di Mezzo, il lungarno pieno di pedoni e biciclette, il vicolo fino a Piazza Dante, le tende rosse del Bar Macchi, il parrucchiere, la fioraia, l'antiquario e infine via Paoli. Quattro rampe di scale e si arrivava al secondo piano, in Aula Liva. Buongiorno, diceva il custode. Gli studenti si ammassavano in cerca di posto.
Tullia non aveva fretta: la sua seggiolina era libera, occupata dalle giacche di Bruno, Angelo e Rocco.
Sorpassando una ragazza che stava per chiedere se l'ammasso di giacchetti fosse ornamentale o se poteva sedersi lì, Tullia reclamò il suo posto. Quella la guardò male e fu costretta a sistemarsi per terra.
« Buongiorno!» disse Tullia ai suoi amici.
I tre cantilenarono “buongiorno”. Bruno non la guardò nemmeno: era impegnato con un giochino stupido sul cellulare.
Dopo le lezioni della mattina andarono a mensa tutti e quattro insieme, poi fecero la solita pausa caffè dal Macchi.
« Che abbiamo oggi pomeriggio?» chiese Bruno sorseggiando il caffè corretto alla sambuca.
« Stasera abbiamo Laboratorio Schifo sulle Fonti. Però ora alle due e mezzo noi tre abbiamo Medievale I e Angelo ha … cos'è che hai?»
« Storia delle istituzioni politiche»
« Bleah»
« Ma sentila!»
Angelo si azzuffò per scherzo con Tullia, poi notò che né lei né Rocco avevano ordinato niente.
« Sei senza soldi, pal? Ti offro qualcosa?».
Tullia adorò quell'appellativo, pal; come amichetta, compagna di banco.
« No, grazie, prendo il caffè da Rocco dopo le lezioni».
Angelo contrasse impercettibilmente un muscolo della guancia. Rocco non disse nulla. Bruno continuò a fissare il cellulare, annoiato.
 
*
 
Anche il pomeriggio filò in fretta. Era un venerdì, quindi tutti percepivano il clima festaiolo e perdonarono addirittura il professore di Laboratorio sulle Fonti che li trattenne per cinque minuti in più.
Rocco e Tullia fecero la strada insieme agli altri due fino in Corso Italia. Tullia notò Angelo che fissava Rocco, mentre sceglieva le chiavi dal mazzo e le infilava nella toppa, facendo poi strada alla sua ospite.
Si salutarono in maniera impacciata, artificiosa. Allora ciao, a domani. A domani. Angelo si voltò più volte a fissare la scena di Tullia e Rocco che entravano nello stesso portone. Tullia gli fece un ultimo cenno con la punta delle dita, poi varcò la soglia.
Il palazzo che avrebbe conosciuto così bene, in seguito, le si mostrò per la prima volta come buio e pieno di scale. C'era un vago odore di stantio e le macchie di umidità si diffondevano cospicuamente sull'intonaco bianco.
A Tullia sembrò di salire, salire, salire e salire un numero infinito di gradini. Cominciava ad essere stanca, le facevano male le spalle per il peso dello zaino e cominciava a domandarsi “ma perché sono qui?”.
Un'ansia crescente le salì in petto, così come lei saliva le interminabili scale: Rocco si aspettava qualcosa da lei? Angelo l'aveva guardata in modo così eloquente, come a dire “allora gli hai detto di si”? Pensava davvero che avrebbe bevuto il caffè e basta? Lei, dopotutto, proveniva da un bigotto e antipatico paesino di campagna, dove ogni azione veniva registrata dall'opinione pubblica. Da lei, prendere un caffè non aveva sfumature. O forse le sue cinguettanti compagne del liceo avrebbero inteso qualcos'altro? Era solo lei di mente ristretta? Era lei la bigotta?
Come poteva rifiutare gentilmente, a questo punto? Come poteva girare i tacchi e dire “scusa, Rocco, devo andare a casa, facciamo un'altra volta”.
Perché non se n'era tornata a casa, magari sperando di trovare Paolo che giocava a un gioco da tavola? Che sciocca era stata, ad impermalirsi per la storia del caffè. Era normale dimenticarsi una promessa fatta.
A questo punto un'altra morsa, più forte, le strinse lo stomaco: lei aveva promesso a Dio di amare Paolo per tutta la vita! Che diavolo stava facendo? Che aveva fatto?
E poi il terzo colpo venne da una sé più esterna, che guardava la sé interna con un sopracciglio alzato. Si disse: “ma che diavolo stai pensando? Rilassati, bella”.
Stordita dal buio delle scale e dai suoi pensieri folli, Tullia entrò nell'appartamento di Rocco con un'espressione spaventata.
Si sentì subito fuori luogo: era un ambiente molto pulito e molto in ordine. I pavimenti erano chiari e splendevano, la cucina era ampia e luminosa.
Rocco disse gentilmente a Tullia di accomodarsi: avevano un divano! Che posto ben curato ed accogliente!
Le prese la giacca e la appese vicino alla porta di ingresso.
Con apparente tranquillità si diresse ad un ripiano della cucina, dove teneva una macchinetta per il caffè. Con le sue dita, pallide e lunghe, frugò in una scatoletta di cartone, per estrarne una cialda.
« Ecco qui. Decaffeinato. Nessuno vuole che Tul impazzisca!»
Tullia rise e si sciolse un po'.
Un rumore di porte annunciò la presenza in casa di altri coinquilini. Erano della stirpe dei socievoli: arrivarono insieme in salotto e si presentarono.
Erano tre: due ragazzi e una ragazza.
Uno dei ragazzi aveva un taglio alla marines, era basso ma ben piazzato. Sul naso gli si contavano vaghe lentiggini e si era fatto crescere una barba molto folta e molto rossa. L'altro era smilzo e asciutto, ma con gli occhi molto intelligenti e un sorriso benevolo stampato in faccia. La ragazza era bassa, vagamente in carne, bionda e riccia. 
Tullia capì subito che il tipo rosso e la ragazza erano ciarloni e piuttosto rumorosi, mentre il ragazzo smilzo preferiva rimanere in silenzio.
Ciao, ciao. Sei l'amica di Rocco. Noi siamo i coinquilini. Sai che studiamo storia anche noi? Però contemporanea, ah, ah. Ci siamo accorti di frequentare lo stesso corso di laurea il primo giorno dell'anno. Ci siamo seguiti fino in facoltà e ci siamo detti “anche tu studi qui?”. Lui però no, lui studia ingegneria. È più grande. Anche noi siamo più grandi delle matricole, perché entrambi abbiamo lavorato un anno.
Sommersa dalle mille informazioni profuse dal rosso e dalla ragazza, Tullia acciuffò il suo decaffeinato e cominciò una serie di mugolii di blando assenso.
I ragazzi decisero di farsi un caffè anche loro e si misero ad armeggiare con la macchinetta.
La ragazza, che a Tullia parve di capire si chiamasse Qedim, cominciò una filippica sulle persone che bevono il caffè decaffeinato:
« Non mi è mai piaciuto, personalmente. Però mio nonno dice che mantiene concentrati. E lui possiede mezza Pisa, quindi figuriamoci se non ha ragione. Si, sai mio nonno è milionario, ma è comunque umile e non sperpera ai quattro venti. Una volta aprì un negozio di questi vegani e vendevano solo bevande analcoliche e caffè decaffeinati. Il negozio ora è chiuso, però secondo lui la clientela era tutta gente col cervello. Vedi? Probabilmente sei una intelligente. Fai bene!»
Insorse l'altro ragazzo, che parlava a voce ancora più alta di Qedim:
« Il caffè decaffeinato è per le femmine! Cioè … le femmine possono berlo, però se lo beve un uomo, dai, vuol dire che è una femmina».
Tullia non sapeva davvero cosa dire e fu grata che il terzo coinquilino le offrisse un diversivo interessante: stava mettendo nella sua tazzina una cucchiaiata di crema di nocciole e non meno di due cucchiaini di zucchero.
« Wow» disse Tullia, indicandolo.
« Si non badare a lui» disse il ragazzo con la barba rossa: « gli ho visto trangugiare una barretta di cioccolata su cui aveva spalmato la crema di nocciole».
Tullia cominciò a rilassarsi un poco e a godersi la compagnia degli estranei. Cercò di dare un senso alle sciocchezze che i due coinquilini chiacchieroni stavano gridando e ogni tanto espresse una sua opinione personale. Conversò un poco col coinquilino silenzioso e decise di rivolgersi anche a Rocco.
Rocco era rimasto il più ammutolito di tutti, ma riacquistò la voce appena Tullia lo chiamò in causa. Da quel momento fu estremamente brillante e simpatico, più di tutti gli altri. Non perse occasione per lodare Tullia davanti a tutti, a dire che era molto colta e molto simpatica. Raccontò l'aneddoto di come si erano conosciuti e parlarono un po' degli esami che dovevano dare in questa prima spaventosa sessione:
« Laboratorio sulle Fonti è facilissimo. Non daranno nemmeno un voto, ma l'idoneità. Io e Rocco lo passeremo ad occhi chiusi»
« Cartografia è difficile però molto affascinante»
« Quando l'esame si avvicina, potremmo ripetere insieme»
« Certo!»
Era così facile parlare con Rocco, in fondo, pensò Tullia. Non avrebbe mai dato contro a una sua affermazione, non l'avrebbe mai fatta apparire ridicola agli altri, non aveva nessuna intenzione di prendersi gioco di lei.
E lei? Si domandò. Non voleva prenderlo in giro. Tullia si chiese se per caso lo stesse incoraggiando, se gli stesse dando false speranze. Forse si stava solo immaginando di piacergli, visto che le persone a Pisa erano molto più bendisposte verso di lei. Non per forza il comportamento servile di Rocco doveva significare che si fosse preso un abbaglio per lei. Decise così di continuare a dimostrare il suo affetto genuino per Rocco, sperando che lui non finisse per interpretarlo male.
La giornata finì con uno scambio di numeri di telefono, aggiunte a gruppi Whatsapp e la promessa di rivedersi ancora.
Quando Tullia disse che doveva andarsene, i coinquilini di Rocco le chiesero dove abitasse e lei glielo disse. Furono tutti – eccetto Qedim– scandalizzati all'idea di mandarla da sola a piedi, perciò si mobilitarono per accompagnarla.
Scesero le scale buie del condominio tutti insieme con le due voci altissime del rosso e della ragazza e cinque paia di scarpe che galoppavano verso l'uscita.
Evidentemente le persone, a Pisa, erano diverse.
Il ragazzo con la barba rossa fece a gara con Rocco per tutto il tragitto per reclamare le attenzioni di Tullia. Voleva che lei lo ascoltasse, che ridesse alle sue battute, che gli dicesse che aveva ragione.
Una volta arrivata al suo portone, Tullia abbracciò tutti e li salutò.
Era molto strano non avere a che fare con gente che pensa che tu sia ridicola, pensava Tullia. Sembrava addirittura che le persone la trovassero simpatica, così, al primo impatto. Non si era sentita strana, brutta o fuori luogo. Il sentimento di disagio che l'aveva accompagnata nel primo momento di quel pomeriggio insolito, adesso si era del tutto dissolto

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Capitolo 5
*** V ***


 
V
 
A fine ottobre successe un fatto che sconvolse la vita di Tullia profondamente. Pisa non avrebbe mai finito di stupirla, certo, ma più di tutto Tullia non avrebbe mai finito di stupirsi di sé stessa e delle scelte che faceva all'interno di quella stranissima città. Tutto si muoveva in maniera vorticosa e imprevedibile. Tullia non aveva la lungimiranza, non sapeva prevedere e calcolare il risultato delle proprie azioni.
Un venerdì mattina Tullia non aveva lezioni, così rimase a dormire fino a tardi. Quando si svegliò, trovò Clarissa che apparecchiava per il pranzo. Cosa più unica che rara, visto che di solito mangiava sulla tavola nuda.
Appena vide che Tullia sbucava dal corridoio, in pigiama, sussultò:
« Tul! Ci sei anche tu? Allora fammi aggiungere un posto»
« Chi viene?»
« Paolo e Giulia».
La notizia colpì Tullia allo stomaco: Paolo. Stava arrivando l'oggetto delle sue brame. Si ricordò di nuovo della sua promessa fatta in chiesa e ancora una volta si domandò perché? Poi però si concentrò sul da farsi: aiutò Clarissa con il piatto in più, poi corse a lavarsi i capelli, che erano un obbrobrio unticcio, e infine scelse i vestiti. Aveva ormai molte varianti a disposizione: elegante e seducente? Un casual studiato a tal punto da apparire ammaliante?
Dopo aver disposto le varie combinazioni sul letto e aver fatto pensieri del genere, Tullia si rese conto di essere ridicola e rimise tutto nell'armadio. Si vestì con le prime cose che capitarono. Non riuscì a piacersi allo specchio, ma pensò che era una battaglia persa e che comunque questa sua nuova attenzione per l'esteriorità la stava rendendo sempre più imbecille.
La cucina mandava odori strani: frutto dei miscugli che Clarissa stava sbollentando. La sentì che ciarlava al telefono con qualche compagno di facoltà, poi a un certo punto gridò:
« Tullia!»
Tullia si precipitò di là e si sentì subito una sciocca, tutta ben vestita, mentre Clarissa sgobbava dietro le pentole con abiti molto casalinghi. Aveva i biondi capelli arruffati sulla fronte sudata; nella mano sinistra teneva un mestolo bruciacchiato, pieno di polpa di pomodoro; nella destra il cellulare, sempre attaccato all'orecchio.
« Tullia, il prof di Istologia ha appeso la lista per l'esame fuori dal suo ufficio. Bisogna che corra a segnarmi, sennò sarò ottocentesima. Ti prego, puoi guardare la roba da mangiare? Se faccio tardi, anzi, di sicuro faccio tardi, iniziate senza di me! Si, si, Anna, arrivo. Mi metto il giacchetto. Dove sono le scarpe? Ah, eccole. Quello stronzo! Perché non mette le iscrizioni online? Perché?».
Al cenno di assenso di Tullia, Clarissa era già filata fuori dalla porta.
Tullia rimase da sola in cucina, chiedendosi se le altre due coinquiline fossero nelle rispettive stanze o no.
La brodaglia che Clarissa aveva cercato di cucinare pareva vagamente commestibile, ma Tullia non aveva idea di cosa fosse. C'erano pezzi di carne che cuocevano sommersi nella polpa di pomodoro, dentro cui galleggiavano non meno di due cipolle fatte a spicchi. Il pomodoro era stranamente liquido, forse ci era stata aggiunta dell'acqua e, a giudicare dall'odore, forse anche un dado per il brodo.
Tullia mescolò per un po' la strana pietanza, poi la spense: la carne sembrava cotta, ma non c'era niente di meno invitante sulla faccia della terra.
Dopo una mezz'ora, Tullia andò a bussare alle rispettive porte delle altre ragazze: Rosanna era assente. Forse anche lei era ad iscriversi all'esame di Istologia. Nemmeno Ilaria rispose.
E adesso? Si chiese Tullia.
Per prima cosa aprì la finestra della cucina: i vetri si erano appannati e poi c'era un cattivo odore di bruciacchiato.
Clarissa aveva lasciato tutti i segni della sua attività di cuoca sul piano di finto marmo. Tullia si mise a buttare la plastica che aveva contenuto la carne, le bucce della cipolla con gli spicchi scartati e a pulire gli schizzi di pomodoro. Chiuse la bottiglia della polpa e la rimise in frigo, accanto al burro d'arachidi.
Niente.
Il suo stomaco cominciava a mandare segnali di fame, ma non osava attaccare quel cibo misterioso tutta da sola. E poi stava aspettando Paolo!
Accese il cellulare. Odiava i gruppi di WhatsApp dove la gente non la finiva mai di parlare. Scorse svogliatamente gli ottanta messaggi pervenuti dal gruppo che conteneva anche i coinquilini di Rocco, scoprendo che chi scriveva era soprattutto il ragazzo con la barba rossa (che aveva scoperto chiamarsi Filippo).
Scoprì senza interesse che volevano organizzarsi per giocare a Dungeons and Dragons, gioco che Tullia non conosceva minimamente ma che suonava davvero troppo fantasy per i suoi gusti.
Dlin dlon.
Tullia sobbalzò. Andò alla porta e premette il pulsante nero del citofono che apriva il portone del condominio.
Si affacciò sul pianerottolo e in poco tempo comparve Paolo, coi i capelli arruffati dalla pioggia e un ombrello gocciolante in mano.
« Ciao! Ci sei anche tu?»
« Solo io, per ora. Clarissa è andata ad iscriversi a un esame»
« Perché non l'ha fatto online?»
« A quel che ho capito il professore ha appeso la lista fuori dal suo ufficio e bisognava che si segnassero di persona».
Paolo alzò un sopracciglio, stordito.
Tullia lo fece accomodare.
« Giulia?» chiese con una punta di speranza.
La speranza si concretizzò.
« Non viene. Le è venuta la febbre»
« Poverina» rispose Tullia, poco convinta.
« Cos'hai preparato?»
« L'ha fatto Clarissa. Non so cos'è»
Paolo non l'ascoltò e si diresse in cucina con aria esperta.
« Perché hai messo il brodo nella polpa di pomodoro?»
« È stata Clarissa!»
Sottolineò Tullia.
In quel momento le squillò il telefono. Un bip breve che segnalava un messaggio.
« Chi è?» chiese Paolo, senza accorgersi che non erano fatti suoi.
Tullia si domandò di nuovo perché mai avesse deciso di amare proprio lui, per tutta la vita. Forse dio non l'aveva sentita, si disse. Forse poteva ancora evitare di vivere tutta la vita con quel ragazzo.
« Ehm … è Rosanna. Lei e Ilaria sono sempre al Polo di Medicina e non stanno passando gli autobus. Dice che mangiano a Mensa Cammeo».
Due secondi dopo, Tullia realizzò:
« Siamo soli».
Paolo non dette cenni di giubilo e Tullia pregò la sua faccia di non esporsi troppo.
« Ho un'idea» disse, lanciando uno sguardo alla roba che giaceva in pentola: « perché non ci ordiniamo il sushi?»
« Si! Buono! Io adoro il sashimi»
« A me fa un po' senso, in realtà»
« E perché?»
« Perché è viscido!»
« Anche nel sushi c'è il pesce crudo»
« Si, ma il riso non mi fa sentire il viscido!»
« Secondo me dovresti mangiare il sashimi. Il sushi ti toglie il sapore del pesce».
Tullia evitò di continuare la conversazione e prese il computer.
C'era un sito molto funzionale e pieno di promozioni per gli studenti, che permetteva di ordinare online di tutto: pizza, panini o sushi.
Tullia e Paolo ordinarono una valanga di roba da mangiare e poi si misero in attesa.
« Posso usare il tuo computer come tv? Vorrei vedere un programma»
« Certo».
Tullia gli cedette il pc e lui si mise alla ricerca del suo streaming. Dopo un po' trovò il programma: era una soap opera americana, piena di blur e decisamente trash. Tullia provò a scherzare sul fatto che guardasse quella roba, ma lui non rispose allo scherzo. Rimase molto serio ad ammirare quelle figurine dalle blande abilità attoriali che si alternavano sullo schermo.
Tullia fu grata al fattorino del sushi che, venti minuti dopo, era sotto casa con il loro ordine pronto.
Il conto fu piuttosto salato, ma se l'aspettava. Quel che non si aspettava, fu l'atteggiamento poco galante di Paolo nei suoi confronti.
« Ti rendo metà soldi?» disse, visto che Tullia aveva pagato la somma intera al fattorino.
« No dai, sei mio ospite» rispose lei, aspettandosi che lui insistesse. Non insistette.
« Ok» fu la risposta. Non un grazie, non un “offrirò la prossima volta”.
Tullia si rattristì moltissimo e riuscì a tirarsi su solo perché il sushi era buonissimo.
L'avvenimento inaspettato fu il seguente: quando ormai il pranzo stava per finire, delle coinquiline nemmeno l'ombra, Paolo chiese:
« Domani c'è la fiera nel mio paese. Vieni?».
A Tullia per poco non andò di traverso il riso dell'onigiri che stava masticando.
« In che senso?».
Paolo non si sbilanciava mai, era impenetrabile, non si capiva cosa pensasse.
Rispose con semplicità:
« Abito in un paesino fuori Pisa, un posto sperduto nelle campagne. Fanno la fiera: qualche bancarella e i fuochi d'artificio. Ti fa voglia di venire?»
« Ehm … ok. Come ci andiamo?»
« Ti porto in macchina»
« Viene anche Giulia?»
« Non credo».
Quella conversazione era la più inaspettata, per Tullia.
Non aveva idea di cosa volesse dire. Rimase frastornata per tutto il giorno, anche quando Paolo se ne andò, promettendo che sarebbe venuto a prenderla il giorno dopo alle quindici in punto; anche quando tornarono Rosanna e Ilaria, inviperite per gli autobus che non erano passati; anche quando tornò Clarissa, che chiese perché non avessero mangiato il suo gulash (quello doveva essere).
Che cosa significava un invito di quel genere? Tullia era certa che fosse differente rispetto a quello di Rocco, di prendere un caffè. Eppure a Rocco era quasi certa di piacere, mentre Paolo non la degnava di uno sguardo né la lusingava in alcun modo.
Perché il caffè suonava come innocente e la fiera come carica di significati?
Perché a Paolo doveva interessare lei, che aveva visto così poche volte, che non aveva mai dimostrato di apprezzare più di tanto?
La pancia di Tullia emise gemiti per tutta la notte. Le budella si arrovellarono su questo dilemma e le trasmisero un senso di malessere in tutto il corpo.

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Capitolo 6
*** VI ***


VI
 
I sabati pisani erano stranamente noiosi. La vita si scatenava di venerdì. I fine settimana parevano lunghi strascichi noiosi. Erano appendici di rilassamento totale e spesso di noia, come una domenica più lunga del normale.
Quel sabato, invece, Tullia si sentiva come ai vecchi tempi. I tempi del liceo, quando di sabato si usciva e si facevano giri con gli amici nella speranza che accadesse qualcosa. I suoi sabati sera non avevano mai previsto sbronze o droghe, al contrario della maggioranza delle sue coetanee. Tullia era sempre stata fin troppo brava.
A pensarci, si rese conto di non aver mai vissuto un sabato davvero eccitante, tanto meno era mai stata ad un appuntamento.
Aveva deciso: di quello si trattava. Eppure che tipo di appuntamento era? Fra amici? Fra amici che vogliono conoscersi meglio?
Il tempo parve protrarsi e le lunghe ore della mattina furono infinite.
Tullia non aveva detto niente alle sue coinquiline. Si limitò a dire che quel giorno sarebbe uscita e non sapeva a che ore sarebbe rientrata.
Quando fu il momento di scendere per andare ad aspettare Paolo, Clarissa stava studiando Istologia in cucina e le altre due ragazze erano chiuse nelle loro camere.
Tullia scese le scale col cuore che le martellava in gola.
Aprì il portone e rimase in attesa.
Paolo fu puntuale. Alle quindici e poco più erano già in marcia verso il suo misterioso paesino.
L'automobile era piuttosto pulita, e Tullia constatò con curiosità che non aveva odore. Tutte le macchine hanno un odore, alcune profumano di cuoio, altre puzzano per l'eccessiva esposizione al sole, altre sono soffocate dai profumatori artificiali.
Quella no. Era anonima, come anonima fu la conversazione che i due ebbero durante il tragitto.
Tullia si era preparata un sacco di domande che fossero sia di circostanza ma nemmeno troppo banali. Paolo le liquidò con risposte brevi, come se gli desse fastidio che lei parlasse.
D'un tratto, lui chiese:
« Cosa ti piace?»
« In che senso?»
« In che senso vuoi che sia? In generale. Non sto mica parlando di cibo».
Rise molto della sua battuta e Tullia ne fu infastidita. Le sopracciglia erano ancora più cespugliose e vicine, gli occhi ancora più sporgenti, fissi sulla strada.
« Mi piace la letteratura»
« Meglio la lingua, no?»
« Ehm ...»
« La letteratura è un insieme di discorsi, alla fine. Prendi la Divina Commedia. È molto più interessante studiare la linguistica che i concetti generali, no? A parte che io la odio. Era solo per fare un esempio»
« Ma è la Divina Commedia. Come fai a dire odi la Divina Commedia? È bellissima!»
« Ma via! Cosa ha di tanto bello? Anche la teologia è ridicola, piena di persone che non c'entrano niente con il cristianesimo … è tutta un'accozzaglia».
Tullia fu profondamente offesa da quel discorso senza senso. Provò a dire qualcos'altro che le piaceva:
« Mi piace il Rinascimento. La storia ma anche il resto. Botticelli … fino anche a Raffaello. Adoro la pittura rinascimentale».
Si interruppe, vedendo che Paolo corrugava la fronte.
« … Ehm … a te che periodo piace? Periodo artistico»
« Non mi piace l'arte»
« E periodo storico?»
« Santo cielo, Tullia! Ma a chi diamine piace la storia?!».
Tullia ricevette quelle affermazioni come colpi di pistola rivolti al petto.
Perché le parlava così? Sapeva benissimo che lei studiava storia; perché farle fare di nuovo la figura della stramba? Perché metterla a disagio?
Cercò di non darsi per vinta.
« A te che cosa piace?»
« Viaggiare»
« Ecco. E quando viaggi che vai a vedere? Per forza deve piacerti un minimo la storia»
« Davvero, ora basta con questa cosa della storia. Mi dispiace ma fa proprio schifo. È una materia noiosa e inutile. Anche a Roma, ora, che vogliono ampliare la metropolitana e non possono perché lì dovunque tu scavi, trovi non so che di reperti. Ma ti pare una cosa possibile? Alla fine sono sassi. Ce ne saranno duemila, a Roma. Quando ne hai visto uno, che te ne frega? Non puoi impedire a una città di progredire perché hai dei sassi stupidi da conservare».
Gli si erano arrossate le guance dall'ardore con cui esponeva l'argomentazione. Tullia si zittì definitivamente e per il resto del viaggio non desiderò che ritornare a Pisa.
Le case erano svanite già da un pezzo e una serie di colline dall'aria familiare sfilavano una dopo l'altra al finestrino. Tullia amava il paesaggio toscano. Era nata e cresciuta in un paesino di campagna. Avrebbe potuto perdersi a fissare le onde color grano delle colline in eterno.
Il paese natale di Paolo si chiamava San Leonardo e distava circa un'ora di automobile da Pisa. Erano le sedici e trenta, quando lo raggiunsero.
Il borgo si mostrava arroccato su un colle e per raggiungerlo bisognava salire una strada di pietre, per fortuna trafficabile. Era una gran salita. L'auto di Paolo l'affrontava con una gran fatica, ma lui riuscì a non farla spegnere mai. Ci era così abituato, disse, che sapeva perfettamente quando scalare dalla seconda alla prima.
Quando il paese cominciò ad essere vicino, si notarono diverse auto parcheggiate di fianco alla strada. Anche loro la lasciarono lì, constatando che dovevano comunque fare un bel pezzo a piedi.
La salita era ancora più irta, senza le ruote sotto le scarpe. Paolo si destreggiava come una capra di montagna e sapeva benissimo riprendere fiato al momento giusto.
Tullia non era abituata e dovette fermarsi un paio di volte, suscitando l'irritazione malcelata di Paolo.
Alla fine ce la fecero e raggiunsero il centro abitato. Era piccolo e delizioso. Tullia si dimenticò delle strane circostanze che l'avevano condotta in quel luogo e si dedicò al divertimento: la piazza centrale era carica di bancarelle, si sentiva il profumo delle caldarroste, dei brigidini e della frutta secca.
Paolo riprese a sorridere e Tullia lo trovò di nuovo abbastanza affascinante.
Lei prese a girare in cerca di cianfrusaglie: dolci gommosi, dolci casalinghi, pane e affettati, formaggi, ma anche sassi decorati a mano, portachiavi con le incisioni, minuscole tele dipinte a olio. Ogni tanto lanciava un grido di emozione, colpita da questo o da quell'oggetto. Paolo la seguiva, diligente, a un metro di distanza. Non guardava le bancarelle.
Temendo che si stesse annoiando, Tullia gli chiese:
« Mi fai visitare il paese?».
Lui rispose svogliatamente che non c'era niente da vedere. Tullia era troppo esaltata dalla fiera per arrendersi. Sempre di buonumore indicò a Paolo la figura tozza di una cinta muraria, con ancora qualche torre in piedi.
« Quello non è “niente”. È visitabile?»
« Ancora con la storia, Tullia! Devi imparare a controllarti!»
Tullia fece spallucce e tornò a spulciare i banchi dei dolciumi.
Poiché era ottobre inoltrato, il buio calò molto presto. Tutt'intorno vennero accesi lampioni e lampadine, così che ora il prezioso borgo somigliava a un paesino delle fate. Era davvero bello.
Tullia non poteva essere di un umore migliore e nemmeno Paolo poteva guastarlo.
« Alle nove lanciano i fuochi d'artificio. Quelli meritano davvero!»
disse lui, finalmente un po' entusiasta.
« Sono le sette. Cosa mangiamo?»
« Un panino?»
« Va bene!»
Chiacchierando finalmente con un po' di allegria, i due fecero la fila da una signora anziana che vendeva i salumi. Tullia acquistò un panino con la mortadella e una bottiglietta di Coca-Cola. Paolo lo prese al prosciutto e da bere solo acqua.
Si sedettero su una panchina e mangiarono. Il freddo contatto con la pietra fece prendere a Tullia un attacco di brividi. Fa che questi fuochi si sbrighino, cominciò a pensare, rimpiangendo la sua bella stanzetta di Pisa.
La gente era tanta e offriva un grossolano riparo dal vento, però l'aria era comunque gelida. Tullia bevve la Coca-Cola e si ghiacciò anche lo stomaco. Era certa che non avrebbe mai digerito il panino e che avrebbe vomitato davanti a tutte quelle persone, davanti a Paolo.
Si strinse forte nel giacchetto e nella sciarpa, mentre Paolo la guardava con commiserazione. Perché diavolo l'avesse invitata, per Tullia rimaneva un mistero. Voleva solo arrivare al lunedì, per andare a lezione di cartografia con Rocco, Angelo e Bruno.
« È veramente una cosa incivile, mangiare sulle panchine, vero?» chiese Paolo di punto in bianco.
« Che vuol dire?» rispose Tullia battendo i denti. Non era quello che avevano appena fatto?
« Mi sembra una cosa da barboni. Sembra voler dire che non abbiamo abbastanza soldi per andare in un ristorante»
« Beh ma un po' è vero. Avremmo speso almeno venti euro al ristorante. Così ce la siamo cavata con meno» replicò lei.
Lui le fece un mezzo sorriso.
« Perché, tu risparmi tanto?»
Tullia non lo sapeva. Non si era mai pensata in nessun modo. Le era capitato sia di spendere più di quanto dovesse, ma anche di fare conti per risparmiare più soldi possibili.
Grazie al cielo, i fuochi iniziarono.
Tullia e Paolo si alzarono e si accalcarono in mezzo alla folla. Con le persone appiccicate alle proprie spalle, Tullia riuscì a riscaldarsi un po'.
La notte era veramente bella: limpida e priva di nuvole. Sopra i fuochi d'artificio si vedevano le stelle, organizzate in complicate costellazioni.
Dal cielo cominciarono ad arrivare bagliori rossi, verdi, blu. I fischi precedevano le esplosioni, poi i boati riecheggiavano cupi, finché non sopraggiungeva un altro fischio. E via, e via. Luci, colpi, scintille e fumo.
Tullia era estasiata e non sentiva nemmeno più il freddo.
Poi Paolo la baciò.
Tutto acquistò un senso nuovo. Le esplosioni divennero pretesti e suonarono un ritmo forte e incessante. L'odore della polvere si univa all'odore di pelle, di saliva e di lana. Le sciarpe si schiacciavano insieme ai loro cappotti, che man mano si erano fatti più vicini. Paolo la strinse e Tullia gli cinse la vita. Non badarono alle persone accanto. I fischi e gli scoppi dei fuochi rendevano tutto il mondo una bolla ovattata.
Tullia ce l'aveva fatta. Era così felice che non riusciva a crederci: aveva baciato un ragazzo scelto da lei. L'aveva sedotto e aveva deciso che l'avrebbe avuto.
Cercò di cacciare una strana vocina amara che le sussurrava all'orecchio “e adesso?” .
Spinse quel sussurro lontano dentro il cranio, per incamerare il senso di soddisfazione e goderselo tutto. Alla faccia di Giulia, quell'idiota.
Tullia e Paolo riemersero dal bacio, sorridendosi e abbracciandosi. Rimasero così a godere l'uno del calore dell'altra, mentre nel cielo si dipingevano i più spettacolari colori infuocati.
Poi una folata di vento solleticò il collo sotto i capelli di Tullia.
« Fa freddino eh?» disse lei, abbracciandosi a Paolo ancora di più. Era magro e sentiva la forma delle scapole da sotto il cappotto.
Lui si ritrasse con naturalezza.
« Vado a prenderti uno scialle di mia mamma».
La mamma? Che c'entrava la mamma, si domandò Tullia. Quando gli pose quest'interrogativo, senza riuscire a nascondere l'aria terrorizzata, lui rispose:
« Ne ha uno in macchina. Lo tiene per le emergenze. Puoi usarlo».
Tullia mugolò che lo avrebbe aspettato lì, ma non ci fu verso. Paolo la condusse per mano fuori dalla folla, verso la strada dove anche loro avevano parcheggiato.
C'era la lunga fila di macchine, tutte uguali sotto il riflesso dei fuochi artificiali.
Ma Paolo non si diresse a nessuna auto. Seguì un minuscolo sentiero sterrato fino ad arrivare a quello che Tullia identificò come un piccolo ristorante.
Entrarono, lui tranquillo, lei tremante. Le gambe non smettevano di cedere eppure era certa che non si trattasse del freddo.
Paolo si diresse a passo sicuro verso un tavolo, dove stavano cenando due persone: erano i suoi genitori.
« Mamma, mi dai le chiavi della macchina? Lei è la mia fidanzata. Ha freddo, vorrebbe il tuo scialle»
Tutto di quella frase infastidì Tullia. Avrebbe voluto fuggire.
La signora aveva uno sguardo penetrante, gli occhi sporgenti del figlio e le sue stesse sopracciglia folte. Guardò Tullia con estremo interesse, giudicandola, poi rispose con una voce fin troppo falsata, che voleva sapere di buono a tutti i costi:
« Ah. La famosa Tullia. Abbiamo sentito parlare di te! Tieni, Paolo. La macchina è poco più sotto. Sai, Tullia, l'ha cucito mia nonna quello scialle. Non lo uso mai. Vedi che ha fatto comodo? Sono felice che l'abbia tu».
Il padre sorrideva bonariamente, senza una vera espressione.
Tullia non riusciva a smettere di tremare.
Mugolò un ringraziamento, ma sentì che non poteva annuire o la testa sarebbe volata via.
La mamma non la finì lì. Continuò a fissare Tullia, ignara del terrore che le provocava, o forse no.
« Vi va di venire a pranzo da noi, domani? È domenica. Potreste venire alla messa insieme. Ci sono anche i suoi fratelli!»
« Ehm, grazie ma no.. un'altra volta» Tullia proprio non ce la fece ad accettare.
« Che devi fare domani?» chiese Paolo con insistenza.
« Niente, ma non voglio scomodare i tuoi» rispose Tullia, in trappola.
« Ma che dici. A noi fai piacere» continuò la madre, tutta una moina.
Fu così che quando Tullia ritornò alla macchina con Paolo e misero in moto verso Pisa, con la promessa di rivedersi la mattina dopo presto, lei si stava domandando solo una cosa: perché?

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Capitolo 7
*** VII ***


VII
 
la notte che Tullia passò, fu costellata di strane emozioni: la prevalente era la paura. Perché Paolo le aveva presentato i genitori subito dopo che si erano baciati? Perché diavolo l'aveva definita la sua fidanzata? Perché accidenti di un diavolo quella sua mamma li aveva invitati a pranzo e alla messa?
Tullia si sentiva mordere da una fitta dolorosissima, rossa e pungente.
Si rigirava sull'altro fianco e provava a pensare: Paolo mi ha baciata, ho vinto io. Giulia ha perso. Ho vinto la mia prima gara per le attenzioni di un ragazzo.
Ma poi sopraggiungeva il ricordo della stupida promessa che aveva fatto a una divinità non identificata, i mille interrogativi come “e ora che ho vinto la gara, cosa devo fare”? Si pensava stupida, la più stupida di tutte. Aveva usato il suo ritrovato fascino per sedurre Paolo, il ragazzo che meno le piaceva fra tutti.
Perché non poteva tornare alla beatitudine della compagnia dei suoi amici? Giocare a fare la signora, mentre tutti si adoperavano per lei, dare e ricevere soddisfazioni, fare conversazioni stimolanti, sentirsi a proprio agio.
Tullia ebbe un'altra morsa allo stomaco: da quel momento in poi non poteva più stare con i suoi amici come c'era stata fino ad ora. Lei ora era impegnata con un altro ragazzo. Loro dovevano vederla come un miraggio svanito, un oggetto vietato. Non potevano più fare galanterie nei suoi confronti. Lei doveva cambiare, di nuovo, diventare un'altra quando ancora la sé migliore stava nascendo.
Doveva accantonarsi, di nuovo. Sentirsi fuori luogo. Non dire e fare quello che avrebbe voluto.
Adesso lei doveva andare a messa con i genitori del suo fidanzato, pranzare da loro e pensare a una vita infinita con Paolo.
Paolo. Perché proprio lui? Perché quel ragazzo cattolico, con le sopracciglia unite, con gli occhi sporgenti e le labbra molli? L'unica cosa vagamente attraente di lui era il sorriso. Bella consolazione. A che serviva un fidanzato con il bel sorriso?
Tullia non vedeva vie di scampo, si sentiva soffocare. Non riuscì a chiudere occhio completamente e mai, nemmeno per un istante, fu sopraffatta dalla gioia per aver baciato il ragazzo che si era scelta.
La mattina arrivò in un battibaleno, anche se la nottata era parsa lunga e tormentata. Ecco che doveva vestirsi con cura, ma non le piaceva niente di quello che c'era nel suo armadio. Quelli erano vestiti per una donna indipendente, che ha amici brillanti all'università, che è di comitiva, che ride, che scherza e che adora parlare di storia.
Come si sarebbe vestita la fidanzata ufficiale di Paolo, il giovane credente che non poteva permettersi di salutare la ragazza che gli piaceva, perché quando si è a messa bisogna solo ascoltare la parola del Signore? Quello che trovava inutile e disgustoso ogni cosa che interessasse a Tullia? Quello che non aveva minimamente capito che Tullia non voleva incontrare i suoi genitori il momento dopo essersi scambiati il primo bacio?
Tullia ebbe una forte sensazione di nausea e corse in bagno a vomitare.
Si tirò su, sentendosi vagamente meglio, ma aveva un aspetto orribile. Allo specchio c'era una figurina pallida, di nuovo stramba, chiusa dentro una scatola in cui si era voluta ficcare per forza.
Era una pazza, si disse.
Si vestì senza cura particolare, scese le scale di malavoglia, aprì il portone e si sforzò di sorridere quando arrivò Paolo.
Si aspettò che almeno lui si dimostrasse contento di vederla, che le dicesse che era bella, anche se sapeva di avere una cera orribile.
Paolo non disse niente, se non:
« Sbrighiamoci».
Tullia trovò sgradevole l'assenza di odore di quella macchina. Tutto era sgradevole. Aveva di nuovo il mal di stomaco, soffriva in modo evidente, ma Paolo non parve in alcun modo accorgersene.
A metà viaggio, Tullia era sopraffatta da ogni tipo di malessere e per questo decise di iniziare una conversazione. Paolo sarebbe stato volentieri zitto per tutto il tragitto.
« Perché mi hai baciata?» disse con una sofferenza palese.
« Perché mi piaci» rispose lui, con ovvietà.
« Perché?» insistette lei.
« Che ne so» balbettò: « mi eri sembrata carina, quando hai preso il volantino della messa»
« Ah».
Paolo fu felice delle risposte date e tornò a guidare sorridente.
Tullia voleva di nuovo vomitare.
Arrivarono a San Leonardo in orario. Camminarono lungo la salita, anche se stavolta non c'erano tante macchine parcheggiate e si erano fermati molto più in alto.
Paolo non le prese mai la mano e lei non gliela chiese.
Arrivarono davanti alla chiesa. Tullia si dovette fermare per riprendere fiato, ma Paolo incalzò: « Sbrigati».
Quando Tullia salì i pochi gradini che la separavano dall'ingresso del luogo di culto, aveva le lacrime agli occhi.
Paolo la condusse lungo la navata centrale e le fece cenno di sistemarsi accanto a sua madre, che quando la vide la salutò con cerimoniosa gentilezza.
Buongiorno. Buongiorno. Dormito bene? Si. Sono così contenta che tu sia venuta. Eccetera eccetera. Tullia cercò di concentrarsi sulle parole del prete, sulla celebrazione, sui riti che il prete compiva, ma non ci riuscì.
La testa pareva galleggiare dentro un mare di cotone, abbastanza soffice da trasportarla qua e là, abbastanza solido da soffocarla.
Quando la messa fu finita, i genitori di Paolo salutarono molte persone, poi fecero cenno ai ragazzi di uscire. Si diressero tutti e quattro verso il portale centrale e una volta fuori, la madre disse:
« Venite in macchina con noi?»
Tullia era certa che Paolo avrebbe risposto: “no, abbiamo parcheggiato qui vicino” e invece disse:
« Va bene».
Tullia fu costretta ad accomodarsi sul sedile posteriore della macchina molto costosa dei genitori di Paolo, con lui accanto.
« Le ho riportato lo scialle» disse Tullia con una vocina spettrale, passando lo scialle che l'aveva riparata dal freddo la sera prima.
« Oh figurati, non importava» rispose la signora, afferrando il pacchetto con impazienza.
Tullia si sentiva adesso una perfetta idiota: era seduta dietro come i bambini, accanto a Paolo che sembrava piccolo e smilzo dentro quel macchinone. Davanti stava una coppia di sconosciuti che la trattavano con gioia esibita ma con un'evidente titubanza interiore.
Si sentì calciata indietro nel tempo, ricacciata all'adolescenza, quando ci si sente grandi ma agli occhi di tutti siamo ancora piccoli. Fu una sensazione orribile.
Paolo scorse per tutto il tempo lo schermo del cellulare, in silenzio, con un'espressione pacifica dipinta sulla faccia.
Tullia si abbandonò al sedile, chiuse gli occhi e sentì le palpebre bruciare per la nottata terribile che aveva passato.
Arrivarono a casa: era una villetta molto elegante, a un passo dalla campagna. Era dipinta di un bianco nevato e il tetto era arancione, proprio come una casetta di marzapane.
Per parcheggiare dovettero premere il pulsante di un telecomando, che fece aprire il gigantesco cancello in ferro battuto dietro cui si espandeva un giardino ben curato.
Appena scesero, Tullia vide un cagnolino dentro un recinto. Felice di quella distrazione, si diresse a fargli le feste ma Paolo la sgridò:
« Non toccare gli animali prima di andare a mangiare».
Tullia fu costretta ad abbandonare il cucciolo, che già saltava e scodinzolava di gioia.
Quando entrarono, Tullia si sentì di nuovo la creatura più fuori luogo dell'intero universo: la casa era estremamente curata ed elegante. C'erano piedistalli con sopra dei vasi vuoti, c'erano nicchie nei muri che contenevano minuscoli oggetti dall'aria fragile. Regnava un'aria di ordine e simmetria, che mandava ancora più in confusione il cervello di Tullia.
I genitori di Paolo avevano apparecchiato in salotto, un'altra stanza meravigliosa. Alle pareti c'erano quadri dall'aria antica che raffiguravano nature morte, cacciatori e scene di pesca.
La tavola aveva una tovaglia bianca, piena di fronzoli ed erano stati sistemati al centro due candelabri d'argento con candele rosse.
Suonarono al campanello. La mamma di Paolo andò ad aprire.
Che bello! Esclamò. Ci furono un sacco di convenevoli, tutti colpi che Tullia ricevette nello stomaco, uno dopo l'altro. Che piacere, etra, entra. Ecco la piccolina. Venite, che vi presento la fidanzata di Paolo. Mamma, occhio allo scalino, ecco qua. Prego, prego, venite dentro.
In un battibaleno, Tullia si ritrovò a stringere mani a presentarsi a fare complimenti a bambini piccoli e a dichiararsi contenta di incontrare tutti quanti.
C'erano i due fratelli di Paolo, entrambi con moglie e figli. C'erano i nonni paterni e materni. C'erano due zii e una zia.
Tutti si informarono sugli studi di Tullia, chiesero da dove veniva, chi fossero i suoi genitori. I bambini piccoli vollero salirle in collo, fecero a gara a chi riusciva a parlarci di più.
La mamma di Paolo raccontò come Tullia e suo figlio si fossero conosciuti, esibendo la fede cattolica di Tullia, che era addirittura andata alla messa di inizio anno accademico. Non sono molte le ragazze così accorte, al giorno d'oggi.
Tullia non sapeva se il suo falsissimo sorriso riuscisse ad ingannare anche una sola persona lì dentro. Tutti erano gioiosi e cordiali.
Sembrava un pranzo di Natale, uno di quelli vecchio stile, con la famiglia al completo, con i bambini che vogliono alzarsi da tavola per giocare, con i brindisi e con le tante portate.
Tullia mangiò pochissimo e fu bonariamente rimproverata da tutti.
Finito di mangiare, Paolo la portò sul divano e si misero a guardare la televisione. Con loro, c'erano anche gli zii e i bambini.
La giornata infernale terminò verso le quattro del pomeriggio, quando Tullia pregò disperatamente Paolo di riportarla a Pisa. Lui ci rimase male. Le chiese se non volesse rimanere anche per cena, ma lei rispose quasi urlando che voleva andare a casa.
Sfilò lungo il salotto, dando baci, abbracci e strette di mano. Spero di rivederti presto, come sei bella, ciao, ciao.
Il padre di Paolo fu costretto ad accompagnarli in auto, poiché loro avevano lasciato la propria in cima alla salita del paesello.
Quando furono in macchina, Tullia si rintanò in una posa a riccio, chiusa nel giacchetto, disperata.
Dopo una buona mezz'ora di silenzio, Paolo sospirò, con l'ombra di un sorriso sulle labbra:
« Che bella giornata».

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Capitolo 8
*** VIII ***


 
VIII
 
Il lunedì fu per Tullia una specie di risveglio da un incubo. Si svegliò di soprassalto, sapendo che non avrebbe passato una giornata orribile come la precedente. Aveva le lezioni, avrebbe visto i suoi amici almeno per un po'.
Paolo le aveva mandato un messaggio con una marea di cuori, scrivendole “buongiorno”. Lei non gli aveva ancora risposto.
Si vestì a casaccio, prese la borsa e fuggì verso il dipartimento. L'aria gelida di Pisa non riusciva a schiarirle i pensieri. Un turbine nero vorticava all'interno della sua testa senza darle tregua.
Pensò che durante la settimana Paolo non avrebbe avuto occasione di essere così invadente e che loro due avrebbero potuto frequentarsi come qualcuno che si è baciato da un giorno. Famiglia, nonni e nipoti potevano benissimo aspettare.
Decise di scrivergli un messaggio, in cui lo invitava a pranzo a Mensa Centrale. Gli scrisse che le aveva fatto piacere mangiare con la sua famiglia (menzogna totale) ma che non vedeva l'ora di stare un po' da sola con lui, per stare insieme, per parlare.
Lui rispose con un “ok” e nient'altro.
Tullia si diresse così a lezione di Cartografia, dove l'aspettava il suo solito posto fra Rocco, Angelo e Bruno. Si sentiva una traditrice, non sapeva come fare a dire ai suoi amici che adesso lei era fidanzata.
La lezione passò in un battibaleno e Tullia non capì niente. Quando fu il momento di andarsene, Angelo disse:
« Si va a mensa?»
« Io oggi no» rispose lei « ci vado con una persona».
Tutti e tre i suoi amici la guardarono con tanto d'occhi. Angelo molto curioso, Rocco sconvolto, Bruno con gli occhi affilati.
Pazienza, dissero. Dal Macchi però ci vediamo? Credo di si. A dopo. A dopo.
Furono molto discreti. Fecero finta di rimanere indietro, permettendole di dileguarsi e raggiungere il suo appuntamento totalmente da sola.
Paolo era già davanti la Mensa Centrale.
Tullia, però, si sentì di nuovo cadere verso il basso e nel suo petto risuonò un tonfo cupo: insieme a lui c'era anche Giulia.
Cosa diavolo ci faceva quella? Paolo non aveva capito il senso del messaggio? Non potevano mangiare da soli, loro due, una buona volta?
Giulia non mostrò segni di sconfitta e si comportò con l'insolenza di sempre.
Parlò moltissimo con Paolo e non gli dette il tempo di dedicarsi a Tullia. Blaterava dei corsi, imitava i loro professori, lo faceva ridere, si lamentava dei programmi degli esami imminenti.
Non chiese mai un'opinione a Tullia, che per tutto il pranzo fu totalmente ignorata. Vide con la coda dell'occhio i suoi amici, seduti a un tavolo molto lontano. Chissà se anche loro l'avevano vista. Quanto avrebbe voluto essere là.
Il cibo della mensa era scialbo e pian piano a Tullia passò la voglia di mangiare. Giulia la guardava di sottecchi e rideva.
Da sotto il tavolo, Tullia cercò la mano di Paolo. Lui l'afferrò, ma non fece né disse nient'altro.
Quando ebbero finito, si diressero verso il nastro a scorrimento su cui andavano lasciati i vassoi vuoti. Si misero in fila. Giulia spinse indietro Tullia per posizionarsi vicino a Paolo. Tullia era incredula.
Uscirono dalle scale di ferro. In un attimo furono fuori e il pallido pomeriggio nuvoloso li accolse.
« Facciamo due passi?» chiese Paolo rivolto a Tullia.
Lei si rischiarò e gli prese la mano: « Si!».
Giulia la guardò con disgusto.
Passeggiarono in tre e si ritrovarono presto in Piazza dei Cavalieri. C'era un signore che vendeva i libri usati dal cassone di un apino. Tullia esclamò: « Ooh!» e si avvicinò. Spulciò a lungo i volumi. C'era un'edizione dei Canti di Leopardi del 1950. Chiese al venditore quanto costasse e quello rispose: quindici euro. Tullia guardò il proprio borsello e vide che ne aveva solo dieci. Pazienza, disse all'omino. Lui rispose che tanto sarebbe ritornato nei prossimi giorni.
Paolo e Giulia erano rimasti indietro a parlottare fra loro.
Quando Tullia riemerse dai libri, la guardarono e risero sfottenti:
« Hai finito?»
Tullia era troppo bendisposta per aver scoperto un venditore così affascinante, che la buttò sullo scherzo:
« Io son fatta così. Se ti piaceva diversa, ne avevi a prendere un'altra!».
Paolo scosse la testa, ridendo.
Si voltarono per andarsene e in quel momento, per la prima volta, Tullia notò la lapide affissa nel palazzo della biblioteca della Normale:
Qui sorgeva la torre dei Gualandi. La tragica morte del Conte Ugolino della Gherardesca le diè il titolo della fame e suscitò nel divino Alighieri lo sdegno e il canto onde il ricordo del miserando caso si eterna”.
Tullia rimase incantata. Balbettò:
« Ma … quindi … questa … questa è la torre della fame?»
Paolo e Giulia non risposero e la guardarono a occhi spalancati.
« Qui è morto il Conte Ugolino!» esclamò Tullia, sempre più emozionata. Non sapeva che fosse lì, che quella torre esistesse ancora. La scoperta inaspettata le diffuse un'aura di gioia che si ruppe subito.
« Chi è il Conte Ugolino?» chiese Paolo con un sopracciglio alzato.
Lui e Giulia si guardarono, poi scoppiarono a ridere.
Tullia aveva sempre l'aria stupita, ma adesso per la delusione.
« Il Conte Ugolino!» insistette: « quello della Divina Commedia, santo cielo … quello che mangia i figli!».
Paolo e Giulia risero ancora:
« Tullia, queste cose le sai solo te!» apostrofò Giulia, marcando il te finale con un forte accento di scherno.
« Ma non è possibile che non l'abbiate mai sentito» continuò Tullia.
Paolo le dette un buffetto sula testa, un pat pat come si fa ai cani.
« Io non ho idea di cosa tu stia parlando».
Quando uscirono da Piazza dei Cavalieri, si diressero verso una caffetteria che non era il bar Macchi. Ordinarono tutti qualcosa e, al momento di pagare, Tullia vide che Paolo aveva molti soldi nel portafoglio, tra cui figuravano diverse banconote da cinque euro. Si impermalì. Pensò che Paolo avrebbe dovuto offrirsi di pagarle il libro di Leopardi, dopotutto le mancavano solo cinque euro per raggiungere il prezzo d'acquisto. Lei l'avrebbe fatto, per lui. Forse non c'era abituato, pensò. Forse non sapeva come ci si doveva prendere cura di una fidanzata.
« Possibile che non ci siano mai i cornetti alla marmellata d'arance?» si lamentò Paolo, con le labbra molli e gli occhi sporgenti, mentre fissava l'espositore del bar.
Che cosa stupida da dire, pensò Tullia, mentre Giulia si profondeva in moine d'assenso.
La loro pausa caffè finì quando era ormai ora di ricominciare le lezioni. Tullia non fece in tempo a raggiungere i suoi amici al Macchi (per un po' aveva sperato di sottrarsi alla compagnia di Paolo e Giulia per andare da loro). Li ritrovò nell'aula del dipartimento. Le avevano tenuto il posto. Non le fecero nessuna domanda.
 
*
 
La settimana passò molto più in fretta di quanto Tullia avrebbe voluto.
I suoi amici si abituarono all'idea che lei non mangiasse più con loro e non prendesse più i caffè al Macchi. Tullia se ne doleva tantissimo.
Si doleva anche del fatto che Giulia, la compagna di università, l'amica, l'odiosa, fosse una presenza costante ai suoi pranzi con Paolo.
Perché Tullia doveva rinunciare ai suoi amici per stare con un'amica di Paolo, che tra l'altro odiava?
Perché lui non capiva che Tullia voleva pranzare da sola con lui? E lui perché non lo voleva?
Arrivata a fine settimana, sapeva che l'inevitabile sarebbe accaduto di nuovo: Paolo la invitò di nuovo alla messa e a pranzo a casa sua.
Ormai le sue coinquiline avevano saputo di quanto era accaduto fra i due e Clarissa non faceva che lanciare a Tullia frecciatine.
« Come vi siete conosciuti, voi?» le chiese Tullia una volta.
« Beh, Paolo per un po' è uscito con Ilaria, poi però sono rimasti amici. Lei viene da un paese poco distante da quello di Paolo».
Quest'informazione la lasciò del tutto indifferente. Anzi, le dette un barlume di speranza. Forse Ilaria avrebbe potuto aiutarla ad uscire da quella situazione scomoda.
Si rese subito conto che quello che stava pensando significava voler lasciare Paolo. Se ne vergognò e si decise a non parlare con Ilaria.
Arrivò il fine settimana. Il clima si faceva sempre più rigido.
Paolo passò a prenderla e si diressero di nuovo insieme verso San Leonardo.
Stavolta Paolo era in vena di parlare. Rispose alle domande di Tullia con frasi abbastanza lunghe.
« Come si chiamano i tuoi nipoti?»
« Ma come! Non te lo ricordi?»
« No»
« Gemma e Giada, le figlie di Giovanni. Roberto, Michele e Anna, i figli di Giulio»
« Quanti anni hanno i tuoi fratelli?»
« Giovanni ventinove e Giulio trentacinque»
« Ma sono giovanissimi!»
« È ovvio, no? Si sono fidanzati alla nostra età. Mamma non permette mica che si facciano vacanze insieme, che si dorma insieme, prima di sposarsi»
Tullia assunse un'espressione sorpresa e contrariata. Non aveva idea di come rispondere a un'affermazione simile. Davvero esistevano sempre persone che impedivano ai figli di dormire insieme alle fidanzate prima del matrimonio?
« Ma … perché?» Tullia non riuscì a trattenersi.
« Perché è molto credente»
« Anche tu sei molto credente?»
« Certo. Però credo anche che dormire con qualcuno non sia un crimine. In realtà anche Giulio lo credeva. Prima di sposarsi con Emma si era fidanzato con una donna divorziata. Mamma non gli ha rivolto la parola finché non si sono lasciati».
Tullia era senza parole.
Arrivarono alla villa, dove furono accolti dalla solita masnada di persone. C'erano di nuovo gli zii, i fratelli, le mogli, i figli.
A Tullia tornò a girare la testa. Tutti la trattavano come se si conoscessero da una vita.
« Per Natale sei con noi, vero?» disse la madre di Paolo, sottintendendo che non ammetteva repliche.
Tullia si ritrovò a fare i conti con molte paia di occhi ridenti che la fissavano in attesa del suo si.
« Certo che c'è!» rispose Paolo per lei.
« Bene! Così ti presentiamo anche alle mie cugine romane e allo zio Alberto. Loro non ti hanno ancora vista. Sai, noi siamo tanti. Tutti ti vogliono vedere».
Tullia sentì che la sedia sotto di lei era diventata floscia e dovette reggerla con una mano. Con l'altra, invece, si serrò la testa, perché sentiva che stava per esplodere.
La tortura si avviò alla conclusione solo verso le cinque del pomeriggio. Tullia contava le ore che la separavano da Pisa e non vedeva l'ora di dormire nel suo letto, da sola, confidando nella lunga settimana che la separava dal ripetersi di quell'inferno.
Credeva di non poter sopportare oltre quella situazione, anche perché uno dei bambini aveva continuato a chiamarla “zia” per tutto il tempo. Si sentì quasi felice, quando Paolo disse che era ora di riportarla a Pisa. Tullia riuscì persino a sorridere con calore, mentre salutava le persone; gioiva nell'allontanarsi, sorrideva perché si stava togliendo dal supplizio.
Doveva parlare con Paolo, dovevano chiarirsi. Eppure quando lo osservò, beato, al volante della sua macchina senza odore, Tullia capì che sarebbe stato come fargli sbattere la faccia contro un muro.
Paolo viveva in un mondo diverso dal suo. Erano due frequenze diverse che per puro caso si erano trovate a trasmettere sulla stessa linea.
Temette di ferirlo troppo e si trattenne. Anche questo, fu uno dei suoi grandi errori.


 

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Capitolo 9
*** IX ***


IX
 
Non poteva essere vero, si diceva Tullia, avvolta nelle coperte, stretta come se fossero le spire di un pitone. Non poteva trovarsi in quella situazione.
Il giorno prima si era decisa a telefonare a sua madre e a informarla vagamente della situazione. Le disse che stava uscendo con un ragazzo e che le aveva chiesto di passare il Natale insieme.
Sua madre l'aveva presa bene, come si può prendere una notizia così leggera.
Tullia non ce l'aveva fatta a metterla al corrente della verità. Non avrebbe mai trovato il coraggio di ammettere che si era cacciata in una situazione soffocante, piena di parenti, di nipoti e di obblighi.
Per chissà quale ragione, Tullia si sforzò di educare Paolo ad essere un bravo fidanzato. Una mattina si svegliò presto, fece il giro di tantissimi bar e comperò un croissant con la marmellata di arance. Si posizionò davanti all'ingresso della facoltà di lingue, in attesa di Paolo e quando lo vide arrivare gli rivolse un gran sorriso.
« Tullia! Che ci fai qui?»
Lei continuò a sorridere:
« Guarda un po' cosa ti ho portato»
gli offrì il sacchetto di carta e lui lo studiò.
« Cos'è?»
« Una brioche con marmellata di arance».
Lui sorrise e la scartò. Con le dita iniziò a staccarne grossi pezzi, che mangiava molto velocemente. Finì il croissant fissando Tullia negli occhi.
« Scusami, ora ho lezione» disse. Entrò nel palazzo e non aggiunse altro.
Tullia rimase sconcertata. Quel comportamento violava qualunque buona maniera. In che universo non si dice nemmeno “grazie”, se la tua fidanzata ti porta una brioche speciale per te?
Sempre più delusa e immusonita, Tullia raggiunse le sue lezioni e cercò di non pensarci più.
Quella sera stessa, Paolo le scrisse se aveva voglia di andare a casa sua. Intendeva l'appartamento dove abitava durante la settimana, a Pisa. Tullia non c'era mai stata, così accettò l'invito.
Quando arrivò il momento, si vestì con cura e uscì di casa. Il luogo era piuttosto lontano, ma il percorso semplicissimo: dalla stazione ferroviaria bastava percorrere la lunga via Corridoni e poi continuare fino a via Emilia. Tullia si chiese se Paolo l'avrebbe riaccompagnata a casa, dopo. I suoi amici l'avrebbero fatto e chiunque tenesse a lei non l'avrebbe rimandata da sola per una strada così lunga e buia.
Anche l'andata fu abbastanza spaventosa, a dire il vero: erano le otto di sera e l'oscurità era già calata da un pezzo. Per fortuna c'erano ancora molte persone in giro e Tullia si sentì più o meno al sicuro. Quando raggiunse via Emilia, però, il paesaggio era deserto. Regnava un silenzio spettrale, attutito solo da lontani schiamazzi di clacson e ambulanze.
Tullia trovò la palazzina con il numero giusto e non poté trattenersi dal tirare un sospiro di sollievo. Era la prima volta che si sentiva così contenta di vedere Paolo.
Suonò al citofono. Le rispose una voce gracchiante e sconosciuta.
« Chi è?»
« Sono Tullia»
« Chi?»
« Ehm … la ragazza di Paolo»
Dopo un secondo di attesa, ci fu un bzz elettrico e uno scatto sonoro. Il portone si era aperto.
Tullia si ritrovò in un ingresso ampio, piastrellato come una scacchiera bianca e nera. Si ricordò di quando era andata a prendere il caffè a casa di Rocco e a quanto si era agitata durante l'ascesa all'appartamento. Come era stata sciocca. Rocco non l'avrebbe mai messa a disagio. Voleva semplicemente prendere un caffè e ovviamente passare del tempo con lei, niente di più.
Anche queste scale erano buie, ma più larghe e più inquietanti. Ad ogni pianerottolo c'erano piedistalli con sopra sculture orrende in marmo: un carlino, un'auto d'epoca, una scarpa col tacco che fungeva anche da vaso per una pianta grassa. Sembrava l'antro di una vecchia signora rimasta arenata negli anni settanta.
Paolo l'aspettava sulla soglia del suo appartamento, in ciabatte, incredulo che Tullia si fosse fatta tutte le scale al buio.
« Potevi accendermi la luce» ribatté lei a disagio.
« Gli interruttori sono dovunque, Tullia!» la rimproverò Paolo.
La casa di Paolo era piccola e disordinata. Ci abitavano in due, lui e un certo Tommaso, un individuo unticcio che si presentò armato di un barattolo di cetriolini sottaceto.
« Piacere» disse offrendo la mano con cui aveva pescato il molliccio cetriolino verde e se l'era infilato in bocca.
Tullia fu costretta a stringerla, sentendo il contatto freddo e umido della punta di quelle dita.
Paolo la presentò brevemente, poi la condusse in camera: era ampia ma spoglia, con un triste lettino sulla destra e una scrivania carica di dispense sulla sinistra, sotto l'unica piccola finestra.
Tullia si tolse il giacchetto e la borsa, poggiandole sulla sedia della scrivania.
« Che ti va di fare?» chiese.
Paolo l'afferrò e la baciò a lungo. Una cosa stranissima. Tullia ne fu lusingata, ma dopo un po' si annoiò di quel risucchio teatrale, così si allontanò. Raggiunse il comodino in finto legno vicino al letto e scorse un vecchissimo lettore CD.
« Esistono sempre?» disse a mo' di scherzo.
« È lì da un sacco di tempo, l'avrò usato una volta da quando me l'hanno regalato»
« Che musica ascolti? Sai che una volta ho frequentato lezioni di canto?» disse lei, raggiante, ricordandosi di quando aveva seguito le lezioni pomeridiane di canto al liceo.
« Non ascolto niente di preciso. Mi piacciono le canzoni che escono d'estate, quelle che si ballano»
« Ah»
« Ti sei mai esibita, quando cantavi?»
« A scuola mai. Facevano una festa a fine anno ma mi sono sempre vergognata. Una volta però ho cantato al mio paese. C'era un saggio di musica e mancava una persona che potesse accompagnare un ragazzino che suonava la chitarra»
« Cosa cantasti?»
« Bocca di Rosa»
« Mai sentita»
Tullia si sentì di nuovo come dopo il Conte Ugolino. Temendo di essere troppo spocchiosa, rispose con cortesia:
« È una canzone molto famosa di Fabrizio De André. Sai, gli accordi sono piuttosto facili e ai saggi la fanno spesso».
Paolo alzò gli occhi al cielo: « Oddio, non dirmi che ti piace De André. Tutte quelle lagne! E poi a me piace quando una persona canta. Non so come spiegartelo, ma lui è come se parlasse, come se facesse rap».
Tullia non riuscì a pensare a una risposta per un'affermazione del genere, così stette zitta.
Paolo, forse felice di aver avuto la meglio in quel dibattito, si sedette sul letto e la invitò a fare altrettanto.
« Ti va di guardare qualcosa alla TV?»
« Volentieri!» esclamò Tullia.
In un angolo della camera c'era l'armadio a muro. Paolo aprì a colpo sicuro un'anta e ne estrasse un vecchio televisore a tubo catodico. Lo poggiò sul comodino, lo agganciò a tutti i cavi, poi l'accese.
« Non lo tengo sempre attaccato, sennò mi viene voglia di accenderlo» si giustificò.
Rimasero seduti scomodamente sul letto a scorrere un canale dopo l'altro, finché non si fermarono su un documentario.
Sullo schermo cominciarono a muoversi piccoli leprotti marroncini. Saltellavano, poi si accovacciavano attorno alla mamma.
Paolo mise un braccio attorno alle spalle di Tullia, poi con la mano scese fino a toccarle il seno. Tullia si sentì gelare ma non si mosse.
La mano di Paolo si aprì, le sue dita si schiusero e si allargarono, per afferrarla il più possibile.
I leprotti si stavano allontanando dalla mamma e pian piano la camera cominciò ad inquadrare un rapace, nel cielo.
Paolo fece scendere la mano sotto il colletto, sotto il reggiseno e toccò la carne nuda di Tullia.
Con un brivido di ribrezzo e terrore, Tullia capì che quel documentario parlava di predatori. Non riuscì a chiudere gli occhi in tempo per vedere il primo dei leprotti ucciso dal rapace, però schizzò lontana, gemendo, tappandosi la vista con le mani.
Paolo si ritrasse.
« Ma che c'è?» chiese stizzito.
Tullia teneva gli occhi chiusi e tremava.
« Ti prego, cambia canale»
« Perché?»
« Perché mi fa senso! Ecco perché!»
« È una cosa naturale! È normale che gli animali si uccidano»
« Si, ma non riesco a guardarlo! Mi da fastidio! Mi fa stare male! Per favore!»
« La natura va così! Smettila di essere infantile».
Paolo si rifiutò di cambiare canale e Tullia passò il resto del tempo con le mani sugli occhi, da cui iniziarono a scendere incontenibili rivoli di lacrime.
Paolo non si mosse. Rimase fermo nella sua convinzione di guardare il documentario. La voce narrante raccontava nel dettaglio quello che stava accadendo ai poveri leprotti e Tullia non riusciva a smettere di piangere.
Quando fu finito, Paolo spense la TV, la staccò e la ripose nell'armadio.
Tullia era ancora tremante, in lacrime e con le mani serrate sugli occhi.
Paolo ritornò verso il letto, ma prima dette un giro alla serratura della porta.
Raggiunse Tullia, le sciolse le mani dagli occhi e la spinse verso il materasso. Le si sdraiò sopra e cominciò a baciarla con foga, con la stessa teatralità di prima.
Tullia era stordita, le girava la testa, si sentiva ferita e fuori di sé.
Paolo infilò una mano dentro i suoi pantaloni e scivolò subito sotto le mutande. Cominciò a toccarla, con invadenza, a tastare ogni centimetro di quello che fino a quel momento era stato un luogo segreto di Tullia.
Lei non ce la fece più. Schizzò su, in lacrime e spinse Paolo lontano da sé. Si avvicinò alla sedia, riprese le sue cose, si vestì e si avviò alla porta.
« Tullia! Che c'è? Perché non vuoi?»
« Non me la sento»
« Perché?»
« Non lo so»
« Ok»
« Cosa “ok”?»
« La prossima volta, allora».
Aprì la porta a Tullia ma non l'accompagnò all'ingresso. Lei gridò un “ciao” al coinquilino dei cetriolini, si aprì la porta e se la richiuse alle spalle. Non trovò l'interruttore per la luce delle scale. Paolo non si era scomodato ad accenderla per lei, né si era offerto di riaccompagnarla a casa.
Tullia arrivò a casa in uno stato pietoso: sconfortata, confusa, con un'infinita voglia di piangere.
Quel fine settimana fu come i precedenti: Paolo l'accompagnò a casa sua, la portò alla messa, la invitò al pranzo con parenti. I bambini la chiamavano zia, la madre le parlava di come si allevano i figli e di quanto fossero belli i matrimoni in chiesa.
Poi furono di nuovo a Pisa, in macchina sotto casa di Tullia e Paolo ricominciò l'attacco furioso di baci.
Toccò il seno e le parti intime di Tullia con foga. Le prese una mano e la condusse sulla curva rigida del pene sotto i pantaloni, poi gliela mosse. Tullia rimase immobile e lui le spostò ritmicamente la mano con più insistenza.
Ad un certo punto, Tullia si sottrasse a tutto questo. Aprì lo sportello e fuggì verso casa.
Da quel momento non passò giorno in cui Paolo non cercasse il contatto fisico. La invitò tutte le sere e Tullia andò da lui, senza riuscire a dirsi perché.
Lui la sdraiava sul letto, le prendeva una mano e se la poggiava sui pantaloni. Costringeva la mano di Tullia a muoversi su e giù, lungo quella protuberanza calda e dura, mentre lui, con l'altra mano, le esplorava le nudità.
Una volta Tullia scoprì con orrore che si era sbottonato. Le prese la mano e se la ficcò dentro le mutande, mettendola in contatto per la prima volta con il suo pene, viscido, rigido, caldo. Tullia era terrorizzata.
Paolo teneva la mano di Tullia in contatto col pene e con l'altra si aiutò a far uscire tutto quanto dall'involucro delle mutande. Tullia non aveva mai visto dal vivo un pene eretto e ne fu molto impaurita.
Paolo le schiuse le dita e gliele risistemò attorcigliate attorno all'erezione, poi le chiese di frizionarlo, su e giù.
« No, ti prego»
« Perché no?»
« Perché questa cosa mi fa sentire una … una specie di troia»
« Ma non è vero! Sono cose che si fanno»
« Io non l'ho mai fatto»
« Perché non vuoi fare l'amore con me?»
« Non lo so! Non sono pronta»
« Ma io ti amo».
Tullia rimase a bocca aperta.
« Cosa?»
« Ti amo»
ripeté lui con voce solenne, con gli occhi sporgenti, le sopracciglia folte e le labbra umide.
« Me lo puoi dire anche tu?» chiese, poi.
Tullia rimase zitta. Si sentì in trappola.
Paolo le si avvicinò e la baciò con foga, poi riemerse e chiese di nuovo:
« Tullia, dimmi che mi ami»
« Ehm ... Ti amo»
disse lei, sentendosi una creatura meschina e orribile.
Ogni sera si ripeteva sempre il solito teatrino: Paolo la invitava a casa e lei si sottraeva alle sue proposte. Iniziò a diventare sempre più insistente ed esplicito. Le chiedeva di continuo perché non volesse fare l'amore e lei non aveva una risposta. Si imbronciava e la mandava via. Il giorno dopo rimaneva stizzito tutto il tempo, finché non la invitava di nuovo a casa e tutto procedeva uguale, di giorno in giorno.

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Capitolo 10
*** X ***


 
X
 
 
Il Natale si avvicinava. Tullia non riusciva più a seguire bene le lezioni. Cartografia le sembrava difficilissima. Non prendeva più il caffè al Macchi. Bruno non le parlava quasi più e l'amicizia con Rocco e Angelo sbiadiva a vista d'occhio.
Al Macchi si erano incontrati con un paio di ragazzi nuovi, di lettere. Si stavano staccando da Tullia e incollandosi sempre di più a questo nuovo gruppo, a lei estraneo. Il nuovo gruppo si era espanso ed era arrivato a comprendere, oltre ai due nuovi amici di lettere, anche i coinquilini di Rocco che studiavano storia: Qedim e Filippo.
Tullia non riusciva più a fraternizzare con loro, non si sentiva più adulta, una donna. Era tornata la ragazzina spaventata e stramba. Non si sentiva frizzante, brillante e apprezzata. Si sentiva estranea e triste.
Era seduta accanto ad Angelo. Paolo non le rispondeva ai messaggi perché era impermalito, di nuovo, per via che Tullia si rifiutava di fare sesso con lui. La stava pressando, in continuazione. Più lui insisteva, meno lei voleva.
I messaggi con doppia spunta, letti e senza risposta la stavano innervosendo tantissimo, così gettò il telefono infondo alla borsa e ascoltò volentieri il discorso che Angelo stava facendo con Bruno:
« … davvero strano. Non credo che mi divertirebbe»
« Io ci ho giocato una volta, ma non sono il tipo»
« Di che parlate?» chiese Tullia rivolgendosi ai due amici con un gran sorriso.
Angelo fu felice di quell'intromissione. Corrispose il sorriso e spiegò:
« Rocco, i suoi coinquilini e i ragazzi di lettere vogliono giocare a Dungeons and Dragons»
« Ah si, l'avevo percepito dai mille messaggi su un gruppo Whatsapp. Cosa sarebbe?»
« Un gioco vintage che andava di moda negli anni Ottanta. È un gioco di ruolo. Si impersona un personaggio creato da te e lo fai muovere in un universo fantasy, seguendo una certa storia»
« Sembra … strano ma anche divertente»
« Rocco si è un po' fogato. Bruno pensa che siano scemenze. Io non penso niente: è un gioco carino da fare una volta, ma non riuscirei mai ad organizzare ritrovi settimanali per fare partite di gruppo»
« È questo che vuol fare Rocco?»
« Si. Si stanno organizzando. Credo che inizieranno a giocare ad anno nuovo … ora ci sono gli esami e le vacanze. Comunque quei due sembrano un po' decerebrati»
« Chi?»
« Filippo e Qedim. Lui è un imbecille e lei è una presuntuosa. Non finisce di ripetere che è miliardaria ma credo sia solo per attirare l'attenzione. Che altre calamite avrebbe? È petulante e nessuno vorrebbe passare il tempo con lei. Magari dice di essere ricca perché così poi la invidiamo»
Tullia rise. Le piaceva la franchezza di Angelo, le era sempre piaciuta. Era uno molto sincero ed erano anime affini. L'aveva già assimilato a un fratello.
« Ti ricordi quando sono andata a prendere il caffè a casa di Rocco?»
« Eccome. Io e Bruno avevamo scommesso se ci provava con te o no»
« Ma davvero?»
« Sicuro, pal. Ma evidentemente abbiamo sbagliato, tu hai preferito l'altro»
Tullia sentì una morsa allo stomaco. Stava quasi per dire che preferiva Rocco a Paolo, quando si ricordò che Paolo era il suo ragazzo.
Angelo si rese conto di averla turbata, quindi disse:
« E insomma, che è successo quella volta? Quando hai preso il caffè»
Tullia gli fu molto grata per non aver insistito a parlare di Paolo. Si fece scappare un sorriso e sussurrò:
« Li ho conosciuti lì, quei due: Filippo e Qedim. Ho subito pensato che fossero un po' decerebrati, come hai detto tu»
« Io credo anche che stiano cercando di battere il Guinness World Record degli urli»
Tullia e Angelo scoppiarono a ridere: proprio in quel momento li raggiunsero i toni strillanti dei coinquilini di Rocco.
« Mia zia che vive ad Atene ha un busto di Senofonte in casa, ma se non le dicevo io chi fosse, lei non l'avrebbe mai scoperto. Per fortuna che studio storia. Pensa un po' che colpo, quando ho rinunciato agli studi alla Normale per venire a studiare storia. Ero iscritta a medicina, poi mi sono ricordata di mia zia che mi vuole lasciare in eredità un attico con vista sul Pireo. Però mi sono buttata su storia contemporanea, perché quella antica è piena di latino e greco ...»
Angelo si accostò all'orecchio di Tullia:
« Ma secondo te è possibile che qualcuno creda a quello che dice?»
Tullia serrò le labbra per non sbellicarsi.
Filippo assentiva, devoto, alle mirabolanti menzogne della sua coinquilina:
« Si, si! La zia greca. Senofonte è quello dell'Ababasi, vero?».
Dio santo, cos'è l'Ababasi? Pensò Tullia. Scoprì che i due avevano iniziato a parlare di Grecia perché stavano ripassando per il compitino di Laboratorio sulle fonti. Il primo modulo da affrontare era quello sulla storia greca, anche Tullia aveva dovuto ripassare testi e autori, vecchie conoscenze del liceo. Decisamente, Senofonte aveva scritto l'Anabasi, non l'Ababasi. Eppure Tullia non sentì lo sdegno com'era stato per il Conte Ugolino o per De André. Filippo era forse ingenuo, ma fondamentalmente buono. I suoi errori facevano sorridere, non indignare.
Seguendo il filo di questo ragionamento, Tullia pensò di nuovo a Paolo e controllò il cellulare: niente.
Visto che non rispose per tutta la mattina, Tullia decise di accompagnare i suoi amici a mensa. Si sentì ribelle e felice di quell'atto: Paolo avrebbe senz'altro dovuto reagire. Le avrebbe dovuto chiedere perché non avevano pranzato insieme, cosa che facevano ogni giorno (sebbene mai da soli) da quando si erano messi insieme.
Il suo stupido silenzio poteva sciogliersi solo con un gesto come questo, pensò Tullia. Così all'ora di pranzo, controllò il telefono un'ultima volta e, poiché non c'era nessuna novità, si avviò alla mensa con gli altri.
Vide la coda dell'occhio di Angelo posarsi su di lei un paio di volte, come se si domandasse quand'è che se ne sarebbe andata. Non lo fece e proseguì con loro fino all'edificio della mensa centrale, poco lontano dalla casa del conte Ugolino.
Rocco notò che Tullia era lì con loro e da quel momento non fece che ronzarle attorno, tutto felice. Le disse:
« È buffo che la mensa sia stata costruita a due passi dalla torre della fame, no?»
Tullia si sentì riavere e rise:
« Si, è molto sadico».
La sua convinzione di essere tornata al mondo dell'inizio dell'università durò soltanto pochi minuti. Rocco fu di nuovo trascinato via dai due tipi di lettere e da Filippo per parlare di Dungeons & Dragons. Bruno prese posto accanto ad Angelo e lo tenne impegnato senza rivolgersi mai a Tullia.
Provò a osservare i due tipi nuovi: uno era rosso, carino, pieno di lentiggini; l'altro era alto, castano con degli spettacolari baffi a manubrio e uno sguardo magnetico. Si divertì un po' a memorizzare le loro facce e ad immaginare come mai fossero diventati amici, poi però si accorse di essere l'unica che non aveva qualcuno con cui parlare.
Era lì, a un tavolo pieno di suoi amici, o forse ex amici, con cui aveva condiviso uno spiraglio di libertà, un trampolino da cui loro si erano lanciati e da cui lei si era tirata indietro.
Rocco, Qedim e Filippo parlavano di elfi druidi e paladini con i due tizi che studiavano lettere. Angelo e Rocco ridevano di barzellette stupide sul telefono.
Lei era sola. Sola con Paolo. Lo doveva fronteggiare anche quando non avrebbe desiderato altro che tenerlo lontano.
Prese il telefono, certa che ci avrebbe trovato almeno un paio di chiamate perse e un messaggio. Quel che ci trovò la fece sconfortare ancora di più: niente. Non ci trovò niente. Paolo non l'aveva cercata.
Si disse, perché dovrei cercarlo io? Se non gli interesso, sono fatti suoi. Decise che non gli avrebbe scritto e che avrebbe aspettato la sua mossa.
Il tempo, quel giorno, volò via velocemente, anche se paradossalmente i minuti furono pesanti come granelli di una gigantesca clessidra.
Tullia non provò quasi nessuna emozione a sedersi al Macchi con la sua vecchia compagnia: nessuno la considerava e per di più era tormentata dalla guerra in corso con Paolo. Stavano forse giocando a tenersi il broncio? Perché faceva il bimbo piccino? Perché non le parlava?
La storia proseguì tutto il giorno, fino alla fine delle lezioni, fino a quando Tullia non rincasò, distrutta, e si buttò sul letto col telefono in mano. Decise di infrangere il proprio voto e di parlare a Paolo per prima.
Sentiva le dita che tremavano e le mani erano pallide e sudate. Aprì l'applicazione dei messaggi e scrisse: “Ehi?”.
Paolo visualizzò il messaggio e rispose poco dopo. Scrisse che stava finendo di mangiare e che guardava la TV. Il tono rilassato di quella risposta la fece innervosire ancora di più.
Gli telefonò.
« Pronto?»
« Non mi hai scritto niente per tutto il giorno»
« Ero a lezione»
« Anche a pranzo?»
« A pranzo ero a mensa»
« Perché non mi hai chiamata?»
« Non ci ho pensato. Che fai stasera? Vieni qui?»
Tullia riagganciò, esausta.
Non c'era stata nessuna guerra. Se l'era solo immaginata. Paolo non le teneva nessun muso. Non l'aveva pensata. Non gli importava niente di lei, non gli era mai passata per la testa nemmeno un secondo, nemmeno quando era scoccata l'ora del pranzo e non si erano messi d'accordo per andare insieme.
Tullia si mise il giubbotto inferocita e si catapultò fuori dalla porta, sulla strada. Diluviava. Non le importava, ormai c'era abituata.
Arrivò a casa di Paolo in venti minuti, fradicia. Lo sapeva già cosa Paolo le avrebbe detto.
« Perché non hai preso l'ombrello?»
detto fatto.
Aveva appena suonato, salito la rampa di scale piena di oggetti strani ed era approdata al pianerottolo dell'appartamento dove viveva Paolo.
« Non mi andava»
« Io così non ti faccio entrare!»
Tullia rise, ma poi capì che Paolo era serio.
La guardò, infuriato:
« Mi sporchi tutto il pavimento! E ora dove lo metto quel giacchetto? Se lo appendo mi fa una pozza nell'ingresso!».
Tullia era a bocca aperta. Rimase sulla soglia, aspettando che Paolo dicesse qualcosa, ma lui rimase lì a fissarla, semplicemente contrariato.
« Che faccio? Torno a casa?» chiese lei, stizzita.
« Levati quel giacchetto. Lo metterò sul riscaldamento. La prossima volta, però Tullia, ragiona un pochino! Sei sempre distratta. Pensa, prima di fare le cose»
« Va bene» concluse infine, esasperata.
Si tolse il giubbotto e lo scaraventò addosso a Paolo, perché glielo mettesse sul radiatore. Lui urlò:
« Ma sei impazzita?!» poverino. Si era ammollato tutto. Maneggiò il giubbotto con due dita, come se fosse radioattivo e lo poggiò sul primo termosifone che non fosse occupato da calzini.
Dopo questa delicata operazione, si diressero in camera. Paolo chiuse la serratura. Il coinquilino era nella sua stanza e non si era degnato di salutare l'ospite.
Paolo si dimenticò della rabbia per il giubbotto zuppo e baciò Tullia con foga. Lei lo respinse.
« Parliamo» gli disse.
« Va bene» fece lui. Tullia odiò quella faccia dagli occhi languidi, le sopracciglia vicinissime e le labbra molli.
Lui si sedette sul letto e le fece cenno di sedersi sulle ginocchia. Era un gesto molto carino, che non gli aveva mai visto fare. Ne fu sorpresa e obbedì.
Una volta che sentì il contatto con le ginocchia ossute, parlò:
« Perché non rispondi ai miei messaggi?»
« Oioi Tullia, te l'ho detto. Non ci ho pensato»
« Non parlo solo di oggi. Dico sempre»
« Non ricordo»
« Allora dimmi con chi eri a pranzo»
« Con Giulia»
Tullia sentì gli occhi bruciare di lacrime:
« E così tu sei andato da solo a mensa con Giulia, senza pensare minimamente a me?»
Paolo disse una cosa che sigillò il cuore di Tullia a doppia mandata.
Disse:
« Sei bellina quando ti arrabbi».
Lei rimase rigida e senza parole. Non riusciva a muoversi, non sapeva come liberarsi dall'abbraccio così insensato di quel ragazzo.
Poi lui le diede un bacio sul collo.
« Basta. Sono stanco di litigare. Ti amo tanto, Tullia»
Tullia non voleva rispondere.
« Possiamo smettere di litigare, per oggi? Facciamo la pace?».
Paolo l'aveva posata sul materasso e le stava schiudendo la bocca a forza di baci.
Tullia riuscì a dire:
« Se anche stasera ti dico di no, ti arrabbierai»
« Io ... non ne posso più! Possiamo fare l'amore? Ti prego»
Tullia si sentì come annebbiata. Una nebbia opaca, dentro tutto il cervello. Era anestetizzata, con la lingua molle e pesante.
« Va bene»
a Paolo si illuminarono gli occhi.
« Sei sicura? Lo vuoi?»
« Si»
« Non voglio farti sentire obbligata. Lo vuoi veramente?»
« Si».

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Capitolo 11
*** XI ***


 
XI
 
Era domenica.
Tullia si trovava alla messa insieme a Paolo. Lo stava osservando di nascosto: sembrava tranquillo, in pace con sé stesso. Tullia invece si tormentava le mani e sentiva il desiderio di fuggire.
Era stipata fra Paolo e la madre di Paolo, che di soppiatto fissava lei. Possibile che avesse fiutato l'odore della colpa? Che sarebbe successo se avesse scoperto che il suo figlioletto adorato aveva perso la verginità?
E lei? Come si sentiva ad aver perso la verginità?
Si sentiva terribile. Era fuggita in bagno dopo che Paolo l'aveva penetrata per due o tre volte. Si era sentita come infilzata da un coltello, ogni singola volta. Le era uscito un piccolo scroscio rosso, dentro il water. Era così che succedeva. Il sangue testimoniava l'ingresso nel mondo delle sverginate. Il ricordo di quel sangue sulla carta igienica avrebbe sancito per sempre un legame fra lei e Paolo. Odiava pensare questa verità. Paolo, per sempre. Nella realtà o nei ricordi, Paolo l'avrebbe sempre tormentata.
E allora, perché era lì? Perché si trovava alla messa in uno stupido paesino, circondata da una famiglia oppressiva, a fingere di sorridere per un ragazzo che non aveva la minima idea di quello che stava accadendo dentro di lei?
Mancava quasi una settimana a Natale. Tullia aveva salutato Pisa fino al nuovo anno.
Gli stucchevoli sentimenti cristiani della madre di Paolo la toccavano ben poco, in realtà. E poi almeno che Paolo non le avesse detto cosa era successo, dubitava che la sua espressione tradisse così tanto i pensieri che le percorrevano la mente.
E nella sua mente c'era qualcosa, un tormento. Il mondo del sesso le era sconosciuto e non era certa di aver compiuto il tutto nella più totale sicurezza. La base più ovvia le era chiara: un pene che entra in una vagina; la vagina sanguina, il pene eiacula. Avevano usato un preservativo. Paolo si era casualmente lasciato sfuggire che gli era servita la taglia large, come se a Tullia importasse qualcosa. Le dimensioni del suo pene erano l'ultimo dei suoi problemi.
Dopo il dolore lancinante delle prime spinte di Paolo, Tullia gli aveva gridato di controllare che il preservativo non fosse rotto: le era parso di sentire uno strappo e quasi certamente poteva essersi forato, a contatto con le pareti così contratte della sua vagina.
Paolo si era tolto il preservativo e l'aveva osservato da vicino. Aveva giudicato tutto al suo posto e se l'era rimesso.
Ecco il tormento. Perché se l'era tolto e poi rimesso? Perché Tullia non l'aveva fermato? L'aveva visto che con le mani si era toccato.
In quel tocco poteva aver preso piccoli spermatozoi che si erano trasferiti sulla parete del preservativo ed erano stati spinti fino infondo, nella corsa verso i suoi ovuli da fecondare?
Tullia ebbe la nausea solo al pensiero.
Guardò Paolo, dal lato destro della panca: non aveva la minima traccia di preoccupazione sul volto. Era sicuro di non averla messa incinta? Oppure non si era nemmeno posto il problema?
Ci fu il momento dell'eucarestia e, nonostante la madre di Paolo l'avesse urtata di proposito due volte, fingendo di inciampare, Tullia non si unì ai fedeli che sciamavano verso l'altare. Non credeva in niente di quello che c'era là dentro, ma non se la sentiva proprio ricevere nello stomaco il simbolo cui i cristiani attribuivano la venuta di Gesù nel loro corpo. Che figura avrebbe fatto? Se una divinità fosse entrata nel suo corpo, si sarebbe ritrovata attanagliata dalla paura e dai sensi di colpa; avrebbe visto cosa era successo e cosa forse stava succedendo.
Paolo non fece caso al fatto che Tullia partecipasse o meno alla comunione e ritornò al suo posto con le mani giunte in preghiera. Tullia si chiese cosa pregasse, cosa mai chiedesse a quel Signore.
Finita la messa, fu la volta di pranzare nell'ormai nota villa super ordinata e super cattolica dei genitori di Paolo.
« Ho notato che non hai fatto la comunione» disse la mamma, con toni vezzosi e occhi pungenti, mentre le passava il fagiano al forno.
« No, questa domenica non me la sentivo»
« Devi confessarti?»
« Mamma, lasciala stare».
Tullia fu grata dell'intervento di Paolo. Sua madre lo incenerì:
« Non è una cosa bella non ricevere Gesù per troppo tempo. Quando il corpo ci si abitua gli si fa un grave danno»
« In che senso?» chiese Tullia, vivamente curiosa di cosa mai il mancato ingerimento di un'ostia magica potesse comportare.
La signora si fece rossa in volto e sorrise, compiaciuta:
« Gesù vuole trovare un tempio pulito, quando entra nel tuo corpo. Lui lo rende ancora più santo. Ma devi accoglierlo come si deve. Se non ti confessi, di tanto in tanto, la casa della tua anima si sporca e Gesù vede in te il peccato»
« Non esistono cooperative di pulizie per l'anima?» concluse Tullia, ridendo, sperando di cogliere il sorriso negli occhi degli altri commensali. Paolo, invece, era di pietra. Sua madre la guardava come se avesse detto qualcosa di disgustoso, ma non disse niente.
Il pranzo proseguì, senza più accenni alla comunione. I mille parenti chiesero conferma della presenza di Tullia il giorno di Natale e Paolo garantì la sua presenza.
Finito di mangiare, Tullia e Paolo si sedettero sul divano a fissare la televisione. Tullia vedeva tutto annebbiato. Sentiva forti dolori alla pancia e le veniva da vomitare.
Quando finalmente Paolo si offrì di riaccompagnarla a casa, Tullia scattò in piedi e uscì, regalando ai genitori di Paolo solo un breve cenno di saluto.
« Che ti prende?» chiese Paolo seccato, quando furono entrati in macchina.
« Paolo sei sicuro che io non possa essere incinta?».
Paolo rimase senza fiato. Sbarrò gli occhi davanti a sé.
« Avevamo controllato che non si fosse rotto, no?»
« è questo il punto! Tu ti sei toccato … e poi hai toccato di nuovo il preservativo. E se c'era qualche liquido?».
Paolo non replicò.
Mise in moto e impostò sul navigatore la via di casa di Tullia. Non tornava a Pisa: andava a casa, nel piccolo paese che l'aveva rigettata per tutti quegli anni. Tornava a casa dai suoi genitori e questo rendeva il tutto infinitamente peggiore.
Dopo una mezz'ora di silenzio, Paolo disse:
« Quando ti devono venire le mestruazioni?»
« prima di Natale» rispose Tullia con sicurezza.
Paolo tacque di nuovo.
« Mia mamma mi ucciderebbe se fosse successo qualcosa»
« Perché?»
« Lo sai, Tullia! Non siamo mica sposati! Secondo me, dopo i discorsi che hai fatto stasera, ha anche capito che abbiamo fatto sesso!» sembrava fuori di sé, esasperato.
« E allora? Santo cielo, chi se ne importa? Noi l'abbiamo fatto e ormai non si torna indietro!»
« Sarà bene che tu non sia incinta!»
« E io che posso farci?!»
« Nel caso … nel caso pensi che dovremmo tenerlo?»
Tullia si sentì soffocare e iniziò a piangere a dirotto:
« Paolo ma che ne so! Non ne ho idea! Ma perché cazzo abbiamo fatto sesso? Non c'era bisogno e non è nemmeno bello!»
« L'abbiamo fatto perché ci amiamo, più di ogni cosa al mondo»
Tullia continuò a singhiozzare, finché, un'ora e mezzo dopo, l'auto approdò al suo paese dalle case ingiallite, dai tetti di tegole e le vecchie insegne di bar.
Paolo non era mai stato a casa sua, né alla presenza dei suoi genitori. Per adesso, Tullia lo voleva ben lontano. Si trascinò fuori dalla vettura, verso il bagagliaio, prese la valigia con le cose di Pisa e richiuse con forza.
Paolo non la salutò. Ripartì e sparì nella notte.
Tullia si asciugò con forza le lacrime e si preparò ad incontrare i suoi genitori.

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Capitolo 12
*** XII ***


XII
 
La gioia devota con cui i suoi genitori la ricevettero per i giorni festivi fu fonte di tormento per Tullia, che aveva il terrore di quello che stava accadendo nella propria pancia. Come avrebbero reagito i suoi genitori a una notizia così insensata?
Tullia giustificò le sue lunghe ore di meditazione chiusa in camera con lo studio di Cartografia, il cui esame era imminente.
Le mestruazioni non si fecero vedere prima di Natale e arrivò così il fatidico ventiquattro dicembre. Aveva comprato un vestito nuovo insieme a sua mamma. Era stato un momento quasi profetico: mentre guardavano i modelli disponibili nell'unico negozio del paese, Tullia non aveva potuto fare a meno di pensare “questa è l'ultima volta che io e mamma siamo felici insieme”, “capiterà mai più un pomeriggio felice fra noi due?” “se dovessi essere incinta, quando lo scoprirà, mi vorrà più bene come me ne vuole adesso?”.
Il vestito nuovo era verde bottiglia, sopra il ginocchio, molto elegante. Tullia si vide particolarmente bene, con quello addosso. Se non fosse stato per la faccia pallida e spaurita, da bambina, il suo fisico avrebbe potuto sembrare quello di una donna.
Sperò che almeno Paolo l'apprezzasse per il buon gusto nel vestire.
I suoi genitori l'accompagnarono a casa di Paolo e le chiesero se avesse bisogno che la venissero a riprendere. Lei disse di no, che l'avrebbe fatto Paolo.
Quando li salutò, vide Paolo che sbucava sulla soglia e, con disappunto, la rimbeccò:
« Perché non me li hai fatti conoscere?»
« Lo sai, non voglio. Non ancora»
« Non ti capisco per niente»
« Buon Natale, eh» gli abbaiò lei.
« Non è ancora Natale. Come torni a casa?»
« Mi riaccompagni?»
« Non è che posso sempre fare avanti e indietro. Non puoi dire ai tuoi genitori che ti rivengano a prendere?».
Tullia sospirò e poi annuì. Avrebbe scritto un messaggio ai suoi.
Paolo la guidò dentro casa e poi le lanciò un'occhiata di sbieco:
« Dove hai i regali?»
« Che regali?»
« Non hai fatto qualche regalo alla mia famiglia?»
« Beh … ne ho uno per te, in borsa»
« Ah ok»
Arrivarono in salotto e, sotto l'imponente albero ricoperto di neve finta, pieno di palline di vetro e lucine bianche, stava un'esagerata pila di pacchetti.
Tullia si tolse il cappotto e si mostrò con l'abito verde.
Paolo la guardò, ma non vide niente che valesse la pena di commentare.
« Mettilo lì» disse Paolo: « quelli per me sono da questa parte».
Indicò un mucchietto.
Tullia cavò malvolentieri il pacchetto dalla borsa e lo posò insieme agli altri.
Pian piano arrivarono tutti i familiari di Paolo: i nonni, gli zii, i fratelli e i nipoti. La madre fu come sempre un'ospite organizzata e di una bontà glaciale. Non si rivolse molto a Tullia e lei si domandò se per caso c'entrasse sempre la storia della sua battuta sull'eucarestia.
Il tavolo era stato apparecchiato per coppie e i segnaposto erano tovaglioli a forma di cuore. Sul centrotavola c'era ricamata una natività. Sopra la testa del piccolo Gesù era stata sistemata una candela dorata accesa.
Le portate furono abbondanti e le chiacchiere infinite. Tullia aveva già il mal di stomaco dopo i primi antipasti. Fece l'errore di chiedere a Paolo sottovoce se qualcuno fosse diventato vegetariano, visto che non si vedeva carne nei piatti. Lui le soffiò addosso un « è la vigilia!».
A un certo punto della serata, i contorni del tavolo, gli ospiti e persino Paolo diventarono fumosi. Tullia si sentì galleggiare nel suo mondo e svanì pian piano dalla realtà: c'era un mare lattiginoso che la trasportava, lei si trovava dentro una bolla che emanava lo stesso odore nauseabondo di latte. A un certo punto, la bolla si fermò davanti a un altare pieno di candele. C'era Gesù bambino, con la testa luminosa, incandescente, che le diceva:
« Ricordati il giuramento che mi hai fatto. Tu amerai Paolo per tutta la vita».
Poi Gesù era grande, con la barba e il volto ancora più incandescente e le toccava la pancia con due mani: Tullia si accorgeva di non avere una vera e propria pancia, ma una specie di barattolo di vetro, dove un essere rosso e sanguinolento entrava a forza, bucando il tappo e poi rimaneva dentro. Prese a deformarsi, sempre di più, finché non divenne un feto tutto rosso e molliccio, che premeva contro le pareti del barattolo.
Tullia si riprese dalla visione, sudando freddo e sentendo il sangue nelle tempie che pulsava forte.
Nessuno si era accorto di niente. Da quel momento decise che non avrebbe più toccato cibo; sentiva di poter vomitare a breve.
Quando finirono di cenare erano le undici e un quarto. Era l'ora di aprire i regali.
Tullia si sedette sul divano, accanto a Paolo che le mise una mano sopra il ginocchio. A Tullia sembrò un gesto molto coniugale, una cosa che poteva fare un marito alla moglie. Rabbrividì e gli afferrò il braccio in una posa più da ragazzi.
Il numero dei parenti infiniti che dava e riceveva i regali era infinito, così sia Tullia che Paolo si stavano cominciando ad annoiare. Lui prese a spippolare col telefono, lei a fissare il vuoto.
In quel momento, la sua coda dell'occhio catturò una sagoma rosso fuoco che proveniva dallo schermo del cellulare di Paolo. Si voltò di scatto e vide che Giulia, la famosa Giulia, gli aveva mandato un cuore gigantesco.
Presa da un impeto d'ira cocente, Tullia gli dette uno scrollone.
« Cos'è quello?»
« Cosa?» fece Paolo per nulla turbato. Quella sua assenza di reazioni la mandava in bestia.
« Come cosa? Giulia ti ha mandato un cuore»
« Ah, ma lo fa sempre» rise lui, con un sospiro di sollievo, come se questo chiudesse la questione. Per quanto riguardava Tullia, l'aveva appena aperta.
« Ma perché te li manda?»
« Non so, perché è così, credo»
« Te lo dico io. Lei ti vuole, è innamorata di te! E te le dai corda!»
Paolo rise, mostrando la bianca schiera di denti. Per la prima volta, anche il suo sorriso risultò sgradevole a Tullia.
Era infuriata e lui rideva, frivolo.
« Ma che dici? Lo sa che siamo fidanzati»
« E cosa vuoi che gliene importi? Lei ti vuole! Perché ti manderebbe i cuori?»
« Come sei bellina quando ti arrabbi!»
Tullia avrebbe voluto alzarsi e dargli un calcio in faccia, premerlo contro il sofà finché la stoffa non l'avesse inglobato e lasciarlo lì per sempre.
« Non puoi dirle di smettere di mandarti tutti questi cuori, se la cosa ti infastidisce?»
« Ma a me non infastidisce» concluse lui con un'alzata di spalle e gli occhi sporgenti.
« Beh, a me si. Possibile che al mio ragazzo vengano mandati cuori e baci da una ragazza che ne è palesemente innamorata?»
Paolo continuò a ridere e le scompigliò una ciocca di capelli.
Tullia adesso sentiva di nuovo le lacrime affiorare, lacrime di rabbia intensa e repressa. Era nervosa, le mestruazioni non le venivano, forse era incinta, aveva nausea continua, aveva promesso a un dio che sarebbe stata in eterno con un individuo che non l'ascoltava, non la capiva e non gli importava minimamente di lei.
« I regali per i piccini, ora»
Tullia si accorse con orrore che con “piccini” la mamma di Paolo intendeva proprio lei e Paolo.
A Paolo i suoi genitori avevano regalato un assegno da mille euro. Tullia rimase sbigottita. Lui rispose con calma che ci avrebbe comprato un telefono nuovo, che con gli sconti di natale costava ottocento euro. Un telefono. Ottocento euro. Tullia non riusciva a mettere insieme i puzzle che componevano il suo cervello. Un telefono, pensò per l'ultima volta, prima che i genitori del suo ragazzo si rivolgessero a lei con un sorriso smagliante da pubblicità.
Era una cornice con dentro una foto di lei e Paolo ingrandita e stampata in colori seppia.
« Grazie mille» disse in tono neutro, sforzandosi di pensare che la cornice era un regalo prezioso.
« Su e ora vediamo cosa ha regalato la nostra piccioncina al suo piccioncino»
Paolo prese il pacchettino che prima Tullia aveva poggiato sulla pila dei regali a lui destinati e lo scartò fremente.
Tullia si accorse che qualcosa non andava, perché Paolo cercò di nasconderlo dentro la carta, ma sua madre gli gridò:
« Cos'è, tesoro?»
Paolo lanciò a Tullia un'occhiata indecifrabile, poi mostrò il cofanetto regalo che lei aveva acquistato in un'agenzia di viaggi a Pisa. Era uno dei meno costosi, non poteva permettersi una grande spesa. Cinquanta euro per un soggiorno più prima colazione in uno degli hotel a disposizione; c'erano destinazioni in tutta Italia.
Le era sembrato un pensiero carino.
Il sorriso si gelò sulle labbra dei genitori di Paolo, quando esaminarono il cofanetto.
« Ah, ti hanno dato quello sbagliato, credo, cara» disse la mamma.
« Perché quello sbagliato?»
« Beh, da questo sembra che voi due dovreste dormire insieme. Non avevi visto?»
Tullia ricevette un fulmine dentro il cervello.
« Potete sempre cambiarlo, no?» insistette.
Il fiume di lacrime che prima aveva ricacciato, spuntò sugli occhi e glieli arrossò. La gola divenne arida e il naso si inumidì.
Finse un colpo di tosse per giustificare l'arrossamento improvviso del viso, tossì più volte, sentendo le lacrime che le gocciolavano sulle guance.
« Santo cielo! Acqua! Portatele l'acqua!»
Lei fece un cenno con la mano, intendendo che andava tutto bene. Si alzò e si diresse verso il bagno. Si chiuse dentro a chiave e si gettò a terra.
Il tappeto morbido accolse il suo pianto silenzioso e disperato. Stette lì distesa forse per un ora, forse per cinque minuti.
Non aveva più le forze, non riusciva ad alzarsi. Voleva scomparire, venire assorbita dal pavimento, essere risucchiata dall'aria.
Non poteva. Non poteva più. Odiava quella famiglia e odiava Paolo. Non lo poteva soffrire. A lui non le interessava, perché mai l'aveva voluta come fidanzata? Perché si sforzava tanto di recitare la parte del maritino? La promessa che aveva fatto a dio era inutile: lei non era credente. Non era cattolica e non lo sarebbe mai stata, né tanto meno avrebbe mai più fatto finta. Non sarebbe mai più entrata in una chiesa per partecipare alla messa. Non avrebbe mai più fatto la comunione.
Se un qualunque altro dio aveva registrato la promessa, pazienza, ci avrebbe fatto i conti una volta morta. Aveva vent'anni, non poteva morire dentro già a quell'età.
Era stata stupida e infantile. Aveva voluto gareggiare contro Giulia e aveva vinto, fine. Che importanza aveva adesso? Non avrebbe mai più dovuto vedere Giulia. Avrebbe spiegato a Clarissa la situazione e le avrebbe chiesto di non invitarla mai più quando anche lei fosse stata a casa. Sapeva che Clarissa l'avrebbe fatto.
Dal prossimo semestre sarebbe tornata a mensa con i suoi amici. Avrebbe preso con loro il caffè al Bar Macchi. Avrebbero parlato di Dante, del Conte Ugolino, e anche di Dungeons and Dragons, se ci tenevano. Si sarebbe fatta spiegare le regole e avrebbe giocato con loro. Avrebbe riso, si sarebbe sentita di nuovo libera e in gamba. Avrebbe studiato insieme a loro, li avrebbe abbracciati e stretti a sé, dopo ogni fallimento e ogni successo accademico.
Trovò la forza nella braccia e nelle gambe: si alzò. Un improvviso dolore lancinante all'addome la costrinse a portarsi sulla tavoletta del water. Fece la pipì, poi si asciugò. Le mestruazioni erano arrivate.
Era libera. Era viva.
Si sentì un fiore, una roccia, un temporale. Era un tronco secolare che decideva di staccarsi di dosso una stupida appendice di edera.
Tirò l'acqua, si sciacquò il viso e uscì dal bagno.
Paolo non si era mosso dal divano e continuava a guardare il cellulare.
« Paolo» gli disse.
Lui alzò lo sguardo malvolentieri.
« Vieni qui».
Si alzò. Gli altri stavano continuando a scambiarsi i regali.
« Ho bisogno che tu mi riporti a casa»
« Perché? Fra poco c'è la messa!»
« Non sono stata tanto bene e non mi sento in forma. Devo andare a casa»
« Non puoi dire ai tuoi genitori di venire?» aveva un tono scocciato e gli angoli della bocca gli si erano curvati con amarezza.
« No. Voglio che mi porti tu. Devo parlarti».
Paolo registrò quest'informazione con terrore. Spalancò i grandi occhi lustri e gli tremarono le labbra:
« Hai fatto … voglio dire … un test?»
« Parliamo in macchina»
« Ma … mi fai perdere la messa»
« Pazienza. Gesù nascerà senza che tu lo veda, per quest'anno»
Paolo la guardò inebetito, poi prese il giacchetto.
La mamma di Paolo notò i movimenti del figlio e posò lo sguardo incredulo su Tullia:
« Che succede?»
« Non mi sento bene. Mi faccio accompagnare a casa».
Il tumulto di “poverina” e “che peccato” le scivolò addosso come acqua. Ormai lei era più forte. Addio casa di Paolo, disse fra sé e sé. Addio signora suocera, addio signor suocero, addio a tutti voi parenti. A mai più rivederci.
Paolo tornò con il giubbotto indosso e le chiavi della macchina in mano.
Mentre si avviavano insieme fuori dalla porta, la mamma di Paolo arrivò balzellando e offrì a Tullia il cofanetto regalo che poco prima Paolo aveva scartato.
« Tieni, se ci riesci puoi farlo cambiare? Torna al negozio e chiedi se ti fanno questo piacere …»
« Va bene» disse Tullia cortese. Riprese il cofanetto e lo mise in borsa.
Salirono sull'auto e si misero subito in viaggio.
Paolo esitò:
« Allora?»
« Allora?» rispose Tullia.
« Beh, hai fatto un test di gravidanza?»
« No. Mi sono arrivate le mestruazioni».
Paolo sembrò rinascere. La sua posa da rigida divenne rilassatissima, il volto si distese in un largo sorriso e gli occhi brillarono di gioia.
« Ah! Menomale! Avevo anche detto un rosario per te, ieri sera. Ho pregato perché tu non fossi incinta!»
« Paolo voglio parlare con te»
« Di cosa?»
« Dei sentimenti».
Lui aggrottò la fronte.
« In che senso?»
« Nel senso che voglio sapere cosa provi per me».
Di nuovo, lui si rilassò. Domanda facile.
« Ti amo» rispose con il sorriso sulle labbra.
Tullia gli chiese di accostare.
Lui obbedì, confuso.
Erano su una strada provinciale, illuminata quel tanto che bastava perché le loro facce fossero visibili l'un l'altra.
« Paolo, io non sono sicura»
« Di cosa? Che ti amo? È per via dei cuori di Giulia, vero? Come sei esagerata» rise.
« No, Paolo. Non sono sicura di amarti io».
Silenzio.
« Cosa?»
« Esatto».
Il petto di Paolo cominciò ad alzarsi ed abbassarsi velocemente. Si sganciò la cintura di sicurezza e guardò Tullia in volto. Era senza parole, totalmente nel pallone. Quella frase era stata per lui un fulmine a ciel sereno.
« Non ti sei mai accorto che qualcosa non andava?» gli chiese lei.
« Cosa c'era che non andava?»
« Tutto»
« Come tutto? Con me sei stata bene!»
« No, Paolo. Se non ti sei accorto che non stavo bene è un po' la conferma che non ci capiamo, in fondo. Non possiamo amarci, non siamo compatibili»
« Ma quando è cominciato? Voglio dire … tu non mi hai mai detto … di non stare bene con me»
« Credevo si dovesse capire»
« Beh no, me lo dovevi dire»
« Forse hai ragione. O forse no. In ogni caso, Paolo, mi dispiace ma non è il caso di continuare. Ci dobbiamo lasciare».
Paolo era fuori di sé dalla sorpresa. Per lui quella era l'ultima cosa che sarebbe potuta accadere la notte di Natale.
« Ma io voglio stare con te per sempre. Io ti amo»
« No, Paolo, non mi ami. Non ci capiamo, io non capisco te e tu non capisci me»
« Si che ti capisco»
Non capiva nemmeno il significato di quell'accusa.
Tullia sospirò. Provò ad addolcire la pillola:
« Senti, nulla ci vieta di ritrovarci e innamorarci di nuovo, un giorno. Cioè, fra cinque anni, fra venti anni. Chissà, non si può mai sapere, no?»
« E non fra cinque giorni?»
« No, Paolo, mi dispiace».
Ci mancherebbe altro ritornare insieme a lui, pensò Tullia. Lui era sempre così sconvolto che lei si convinse ad aggiungere un altro po' di zucchero, per vedere se la pillola andava giù.
« Io ti voglio bene, sappilo. È che non ti amo»
dentro di sé pensò invece quanto l'avesse detestato in tutti quei mesi, di quanto avesse sofferto e di quanto lui non si fosse mai accorto di niente.
« Lo so che mi vuoi bene, ci mancherebbe altro» concluse lui, soddisfatto.
Tullia si sforzò di non essere crudele.
« Ti prego, mi puoi riaccompagnare a casa?»
« È perché mamma non vuole che dormiamo insieme? È per il regalo?»
« No, Paolo. È perché non ti amo. Il regalo tienitelo. L'avevo preso per te è giusto che tu lo tenga»
« L'avevi preso per noi»
« Dai, Paolo, basta. Per favore. Ti ho detto che dobbiamo finirla qui»
« Io non sapevo cosa farti … ti avevo comprato un mazzo di fiori. È rimasto a casa mia»
« Tieniti pure quelli, grazie, insieme alla gigantografia che mi ha fatto tua mamma»
« Non c'è speranza di tornare insieme domani?»
« No, Paolo, mi dispiace».
Era libera.
Uscire da quell'auto, dopo un viaggio di circa due ore, fu una delle più grandi liberazioni della sua vita fino ad allora. Non si prese il disturbo di sentirsi in imbarazzo. Sentiva l'alone di ansia e grigiore di Paolo, ma questo non la tangeva. Chiuse lo sportello con fatalità e donò all'auto che si allontanava uno sguardo d'addio. Quello era un addio e ciò che l'aspettava dall'altra parte le pareva bellissimo.
Tranquillità, libertà, amicizia, serenità.
Si concesse di non pensare mai a Paolo, da solo nell'auto e poi di ritorno a casa a dover spiegare l'accaduto. Ora toccava un po' a lui, soffrire. Per conto suo, si promise di non farsi mai più così male. Era stata una stupida totale e doveva utilizzare quest'esperienza per crescere.
Non aveva mai avuto i fidanzati dell'adolescenza e si era un po' comportata come una ragazzina. Paolo era stato un fidanzato della prima età adulta, che si era portato via molte cose importanti di lei, ma che le aveva dato la chiave d'accesso al mondo dei grandi, della serietà.
Non avrebbe mai più fatto la bambina e gareggiato con un'altra per le attenzioni di un ragazzo. Che cosa stupida. Si era presa una soddisfazione da liceale. Ora era il momento di diventare la studentessa universitaria che aveva deciso di essere.
Rincasò, sorridendo come non faceva da secoli.
 

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Capitolo 13
*** XIII ***


 
XIII
 
Palazzo Ricci aveva una biblioteca piccola ma con tavoli grandi. Ottime qualità per chi ha bisogno di ripassare su almeno cinque manuali, prima di un esame. Siccome nessuno la conosceva, era facile trovare dei posti liberi; addirittura posti liberi che fossero vicini.
Il soggiorno a Tegoli era durato il minimo possibile. Voleva tornare a Pisa e concentrarsi sullo studio. Non aveva motivo di rimanere in quel paesino: i suoi genitori volevano che lei parlasse di cosa era successo con “quel ragazzo” mentre lei non ne aveva nessuna voglia. L'unico giorno della sua permanenza lì che le regalò un po' di gioia, fu quando decise di andarsi a prendere un ginseng nell'unico bar del posto. Fu una specie di piccola rivoluzione. Non c'era mai stata da sola, aveva sempre temuto il giudizio degli altri e si era sempre preclusa un'azione così piacevole come godersi una semplice bevanda calda in presenza dei compaesani. Si sorprese, ma alla fine non troppo, del fatto che nessuno badasse a lei. Nessuno la giudicò. L'unico che le dette relazione fu il barista, un ragazzo che aveva sempre visto lavorare lì, che le chiese con normale cortesia cosa desiderasse ordinare. Non aveva accennato a sguardi derisori, né aveva dimostrato di trovarla ridicola. Tutto si era svolto nella più normale recita sociale.
Dal sette gennaio, proprio come se fossero finite le vacanze di Natale alla maniera delle scuole, Tullia aveva rifatto i bagagli per Pisa. Aveva deciso di dedicarsi completamente alla Cartografia.
L'aveva ripresa in mano e aveva faticato non poco per raccapezzarcisi di nuovo. Senza che glielo chiedesse, Rocco le aveva fotocopiato i suoi appunti. Clarissa aveva trovato il pacchettino di carta marrone nella cassetta della posta. Sopra era stato attaccato un post-it che diceva: “per Tullia. Se possono esserti utili”. Rocco non era tornato in Calabria e aveva passato il Natale solo soletto a Pisa. Tullia provò per lui un forte moto di affetto.
I suoi appunti furono d'aiuto eccome. La storia con Paolo l'aveva privata di tutta la concentrazione e senza quei fogli, scritti da una mano competente, Tullia non aveva possibilità di passare l'esame.
Quando anche le sue coinquiline furono tornate, Tullia aveva preso da parte Clarissa e le aveva raccontato tutto. Clarissa aveva riso con gentilezza delle sue paure sull'essere rimasta incinta e l'aveva tranquillizzata anche sulla presenza di Giulia in quella casa. Non le avrebbe mai più imposto la sua presenza e a dirla tutta, non le stava granché simpatica, ma aveva bisogno di tenersela buona perché era la figlia di un professore molto famoso di medicina. Ecco perché faceva così la spocchiosa, pensò Tullia. Che si tenesse Paolo, si meritavano l'un l'altro.
Tullia non soffrì nemmeno un po' la lontananza da Paolo, al contrario, si sentiva scorrere una nuova linfa nelle vene. Non era più la ragazza dalle belle speranze che aveva conosciuto il ragazzo cattolico fuori dal dipartimento: era stata depistata su un'altra corsia di binari. Eppure era contenta. Quell'errore l'aveva di certo cambiata, fatta crescere. Sapeva che nella vita avrebbe subito altri dirottamenti, ma pregò sé stessa di stare più attenta le prossime volte.
Non sapeva che effetto faceva sugli altri questa ennesima nuova Tullia. Sperò che fosse ancora capace di farsi voler bene.
Quel giorno, dunque, si erano ritrovati tutti nella biblioteca di Palazzo Ricci. Angelo era seduto da un lato di Tullia, Rocco dall'altro. Davanti a lei c'erano il ragazzo dagli occhi magnetici con i baffi che studiava lettere e il suo compagno carino dai capelli rossi. Filippo e Qedim bisbigliavano insieme all'angolo della scrivania. Bruno non c'era.
Poiché i bisbigli di quei due avevano la stessa tonalità dell'urlo di una persona dalle normali corde vocali, ogni tanto Tullia si copriva le orecchie con le mani.
Passò un'altra mezz'ora poi il manuale divenne difficile, gli appunti incomprensibili e il baccano troppo insopportabile. La testa stava per esploderle, così Tullia si alzò a prendere una boccata d'aria.
Uscì e raggiunse la ringhiera di legno che dava sulla tromba delle scale. Sebbene fosse poco pulito per via delle tantissime persone che trafficavano in su e in giù, Palazzo Ricci era un luogo affascinante. Si innalzava per quattro piani, era a pianta quadrata con in mezzo un minuscolo cortile. Ogni piano era quadrato e si diramava in tante stanzine comunicanti, che giravano attorno allo spazio del cortile.
Tullia stava osservando proprio la finestra che dava sullo spazio vuoto, quando si sentì poggiare una mano sulla spalla.
« Ehi» disse una voce simpatica.
Si voltò: era il ragazzo di lettere, quello alto coi capelli castani e sbarazzini baffi a manubrio.
« Ciao» lo salutò Tullia cortesemente.
« Non credo che siamo mai stati presentati ufficialmente» disse lui con toni cerimoniosi, ma anche ironici, teatrali. Offrì una mano:
« Mi chiamo Francesco Zeri ma ahimè tutti mi chiamano Friz. Dubito che mi sentirai mai chiamare Francesco. Ho fatto per avvertirti».
Tullia strinse la mano con un sorriso. Era simpatico.
« Io sono Tullia»
« Che nome delizioso! Comunque già lo sapevo, Rocco e Filippo parlano sempre di te»
« Ah si?»
« Già, sei il loro argomento preferito»
« Dev'essere noioso»
« Assolutamente».
Risero insieme.
Tullia notò che aveva gli occhi di un verde intenso. Era una faccia strana eppure piacevole. I suoi modi surreali glielo fecero subito entrare in simpatia. Che persona interessante, pensò.
« Non ne potevi più di quei due che ciarlavano, vero?»
« In effetti erano un po' rumorosi»
« Un po'? Non essere timida, tesoro. Fai uscire il veleno che è in te. Io sono qui per questo»
« Ok. Erano insopportabili»
« Ecco, ora mi piaci. Detto fra noi, io quella Qedim proprio non la tollero. Tu pensi che qualcuno possa credere a una sola delle cazzate che dice?»
Tullia non aveva mai parlato ad alta voce così male di qualcuno. Solo nei suoi pensieri. Come se le avesse appena letto la mente, il ragazzo chiamato Friz la incitò con un sorriso malizioso:
« Oh, lo so che lo pensi. Che ragazzo malvagio. Benvenuta nelle tenebre, mia cara»
« No! Non l'ho pensato. Ho pensato che nemmeno io credo a una parola di quel che dice Qedim. Ogni tanto le spara troppo grosse»
« Il nonno miliardario? O la zia armena? No, com'era? Palestinese?»
« A me ha parlato di una zia greca» rise Tullia.
Friz scosse la testa e chiuse gli occhi, teatralmente indignato. Fece passare alcuni secondi, poi disse:
« Dunque, mi risulta che tu abbia appena finito una relazione con un certo Paolo. Corretto?»
« E chi te l'ha detto?»
« Come chi me l'ha detto? Rocco e Filippo!».
Di nuovo, risero di gusto.
« Visto che so tutto di te, so anche che non ti sei sfogata con nessuno. O almeno non con noi fedeli compagni pisani. Io posso essere il tuo diario segreto su cui riversare i tuoi sentimenti, se vuoi»
« Qualcosa mi dice che tu non sia proprio un diario segreto. Ho come la sensazione che ti piacciano le chiacchiere»
« Quale offesa! Ad ogni modo, hai ragione. Però se hai voglia di parlare, per davvero, mi piacerebbe ascoltarti»
« Perché?»
« Perché vorrei conoscerti di persona. Non ne posso più di sapere tutto di te e non aver nemmeno mai sentito la tua voce».
Friz era una persona singolare. Tullia capì da subito che le piaceva. Sapeva ascoltare e reagire come Tullia desiderava. Era uno spettatore provetto, forse anche un po' allenato a cavare i pettegolezzi più succosi dalla tana. Era divertente, usava parole teatrali, si vestiva e si comportava in modo insolito.
Fu molto felice di fare la sua conoscenza, in quell'occasione. Sapeva che molto probabilmente era occhi ed orecchie di Rocco e Filippo, però riuscì ad aprirsi e a raccontare quella giusta quantità di aneddoti che la fecero sentire più leggera.
« E il giorno dopo ti ha richiamata?» chiese Friz, alla fine della storia.
« Oh si, mi ha detto che aveva sofferto, senza il mio solito messaggino di buongiorno»
« Che razza di idiota» sbuffò Friz, scompigliandosi i capelli vistosamente.
« In effetti credo che non abbia mai capito niente di me»
« Lasciali perdere quelli così, ne è pieno il mondo»
« E secondo te chi sono i tipi per me?»
« Purtroppo, per quanto io ti ami già e per quanto io abbia percepito una connessione fra le nostre anime, devo spezzarti il cuore. Sono gay»
« Accidenti. Credevo di aver trovato l'uomo della mia vita!»
« Lo so, faccio quest'effetto. Non sei la prima che me lo dice».
Risero ancora una volta.
Poi una porta alle loro spalle si spalancò e ne uscì Angelo.
Chiese a Tullia se aveva voglia di ripassare un po' insieme a lui, perché dentro c'era troppo baccano. Friz arricciò le labbra in un sorriso silenzioso e disse che lui provava a ritornare in biblioteca, che li lasciava studiare da soli, che lui era sotto a un'altra materia.
« Simpatico eh?»
disse Tullia appena Friz fu sparito dietro la porta verde.
« Mhm» Angelo fece spallucce.
« Perché mhm
« Non so, pal. Fa parte del gruppo di quelli che vogliono giocare a Dungeons and Dragons»
« Tu non vuoi?»
« Nah, non fa per me. E comunque non ti sembra un tipo strano?»
« È particolare, ma per ora mi è sembrato simpatico. Te non ci esci insieme già dallo scorso semestre?»
Angelo rispose che non ci aveva mai parlato molto, in effetti e che lo considerava un'appendice nuova del vecchio gruppo. Si ricordò delle belle giornate passate insieme, quando erano soltanto lei, Rocco e Bruno.
A Tullia sembrava passata una vita.
Lei e Angelo rimasero da soli nel corridoio per un'oretta. Ripassarono un po', si fecero domande a vicenda e scoprirono di essere entrambi abbastanza preparati. Finito il ripasso si concedettero un po' di chiacchiere. Non parlarono di Paolo – Tullia gliene fu grata – ma di tutto quello che passò loro per la testa: le schifezze che avevano mangiato durante le vacanze, i chili in più, la buona volontà di fare esercizio fisico per tornare in forma, i nuovi corsi che li attendevano. Scoprirono che avrebbero frequentato insieme Antropologia Culturale. Suonava molto affascinante.
Erano sempre lì fuori a chiacchierare, quando gli altri uscirono dalla biblioteca.
Rocco portava in spalla lo zaino di Tullia. Glielo porse:
« Per lei, signorina»
« Hai raccolto tutte le mie cose? Oh, grazie!»
Tullia lo ringraziò calorosamente, poi si vestì con giacca e sciarpa.
« Pausa dal Macchi?» chiese Angelo speranzoso.
« Assolutamente» rispose Tullia da sotto la sciarpa.
« Bene, ho stampato le schede. Possiamo iniziare a compilarle» disse il ragazzo carino di lettere.
Angelo storse il naso: “compilare le schede” significava inventare i personaggi di Dungeons & Dragons. Angelo pareva disapprovare del tutto quel passatempo, tanto che quando gli altri fecero per entrare nel bar, lui si congedò. Tullia non fece in tempo a salutarlo che si era già dileguato.
 
*
 
Tullia ordinò il suo ginseng basso, gli altri tutti il caffè.
Il ragazzo rosso e lentigginoso si chiamava Cesare. Tullia lo osservò mentre si toglieva il giubbotto e sistemava le famose schede dei personaggi sul piccolo tavolo rotondo attorno a cui si erano riuniti. Era davvero bello, pensò; sembrava un modello: le sue movenze e il modo di vestire gli conferivano un'aura di distratta eleganza. I capelli, di un arancione chiarissimo eppure luminoso, catturavano i riflessi delle lampade a neon e creavano sfumature ipnotiche. Anche l'accento siciliano era seducente, velato, appena intuibile.
Tullia non riusciva nemmeno a concretizzare nei pensieri quello che significasse per lei essere lì. Una pace dei sensi la avvolgeva, le faceva apparire tutto piacevole, divertente, leggero. Era proprio tutto reale: il suo bar preferito e una compagnia di amici estremamente piacevole, che pareva volerle bene. Si sentiva sinceramente grata.
Cesare prese la prima scheda e chiese a Filippo di descrivere il suo personaggio. Filippo partì a descrivere il suo nano barbaro, quello che definì essere “una specie di comodino molto arrabbiato”.
Tullia rise e Filippo arrossì, fiero. Continuò a dare a Cesare le informazioni necessarie per compilare la carta di identità del nano, lanciando continue occhiate a Tullia, sperando che ridesse di nuovo.
Uno per uno, quelli che erano al tavolo presentarono il loro alter ego fantasy a Cesare che, come le fu spiegato, era il Dungeon Master, ossia l'inventore della storia entro cui avrebbero giocato.
Rocco fu un elfo chierico, Friz un umano paladino, Qedim un halfling bardo.
« Che cosa sei tu?» chiese Tullia, dopo l'affermazione di Qedim.
« Un halfling! Sono come uomini in miniatura. Mi hai vista, no? Sono un po' halfling anche nella realtà» esibì i riccioli biondi e rise a voce acutissima. Anche i suoi amici risero e Tullia lo fece di conseguenza, sebbene non la trovasse così divertente.
« E il bardo cos'è?»
« Come cos'è un bardo? Non studi storia medievale?» rise Qedim dando un buffetto a Tullia sulle guance. Lei si ritirò come un gatto poi, temendo di essere troppo scortese, continuò a chiedere:
« Quindi è un musicista?»
« Esatto. Anche per quest'aspetto, mi rispecchia nella vita reale. Ho preso lezioni di canto per un po' e mi sono esibita parecchie volte»
« Davvero? Anch'io!»
« Ma senti! Che coincidenza. Quante volte hai cantato?»
« No, ecco … in realtà solo una»
« Eh, immaginavo. Sei troppo timida. Io almeno dieci. Ma sono stata aiutata. Uno dei miei fratelli ha partecipato a X Factor, ora vive in America, ma ha un sacco di conoscenze».
Filippo si interessò tantissimo: chiese informazioni sulla vita di questo fratello che Qedim non mancò di fornire. Forse Tullia stava esagerando, ma pensava che questo fratello non esistesse per nulla.
Cesare stava scrivendo in silenzio le ultime informazioni che gli servivano, ogni tanto tirava dei dadi dall'aria strana e segnava una miriade di numeri.
Tullia stava osservando la sua mano pallida e lentigginosa che si muoveva per far rotolare il dado, che poi prendeva la matita e scriveva, quando una voce la riscosse:
« E tu?».
Era proprio Cesare. La sua mano si era fermata. Lei risalì su su, fino al viso e trovò un paio d'occhi azzurri che la guardavano fisso.
« Ehm, io?» chiese Tullia.
« Tu che personaggio vuoi essere?»
« Io … non credo di voler giocare»
Cesare posò una mano sopra quella di Tullia e la picchiettò gentilmente.
« Dai, di che hai paura? Non importa se non hai mai giocato. Vedrai che ti divertirai».
Tullia rimase stordita dal contatto con quel ragazzo così bello e per un po' non seppe che dire. Rimase imbambolata a fissarlo e a percepire il contatto delle sue dita.
« No so. Come funziona?»
« Ci ritroviamo una volta a settimana e giochiamo. Io sono il Master, come ti ho detto prima. Significa che ho inventato una storia e che i vostri personaggi ne saranno i protagonisti»
« Ok. E quanto tempo dura una partita?»
« Dipende. La sera ci fermeremo sempre a cena, magari ognuno di noi può preparare qualcosa a turno. Più o meno giocheremo … sei ore»
« Sei ore?».
Nonostante il trauma delle sei ore, l'idea di cucinare per tutte quelle persone rese la prospettiva piacevole a Tullia. Sapeva di essere piuttosto brava, almeno in quello. Le sarebbe piaciuto molto che i suoi amici mangiassero qualcosa preparato con le sue mani.
Rocco intervenne con prontezza:
« Se facciamo buio, ti riaccompagniamo a casa. Se facciamo troppo tardi, puoi dormire a casa nostra»
« A casa vostra?»
« Si, giocheremo sempre lì. È la casa più grande»
« Certo! Certo che puoi dormire da noi» confermò subito Filippo: « Ho una brandina e tre coperte in più. No, ma che dico. Se vieni da noi ti faccio dormire nel mio letto. Io non ho problemi a dormire per terra»
« Ma no, che dici … »
« Allora è deciso. Anche Tullia giocherà. Adesso il personaggio» insistette Cesare, sovrastando tutte le altre voci. Tullia fu rapita di nuovo dalla voce e dal viso di quel bel ragazzo.
« Ti aiuto io. Anche a te serve qualcosa di piccolo e carino. Però abbiamo già un halfling e poi no, tu non sei un halfling ».
Cesare scandagliò Tullia con uno sguardo a raggi x, poi concluse: « ti farò fare lo gnomo. Che dici? Uno gnomo bardo, piccolo e adorabile come te»
Tullia arrossì con violenza e disse di si, anche se la sua idea di gnomo non era proprio quella di una creatura adorabile.
Qedim protestò perché c'era già un bardo, ma Cesare fu irremovibile.
Ci vediamo la prossima settimana, si dissero. A casa di Rocco, Filippo e Qedim. Alle sei di sera. A presto ciao, ciao.
Arrivarono insieme fino a metà Corso Italia e dovettero salutare gran parte della comitiva. Qedim cercò le chiavi dentro una tasca, poi aprì il portone. Salutò tutti con un gran sorriso. Filippo la seguì, anche lui salutando rumorosamente. Rocco rimase fuori e si rivolse a Cesare e Friz:
« Potreste accompagnare Tullia fino a casa?»
Tullia arrossì: « No, non c'è bisogno … davvero».
Rocco insisté, guardando i due amici: « Certo che si. Abita in una via sperduta e buia. Se non potete accompagnarla voi, vengo io».
Friz e Cesare accettarono, così Rocco salutò tutti, abbracciò Tullia ed entrò nell'ingresso buio.

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Capitolo 14
*** XIV ***


XIV
 
Friz e Cesare furono una scorta piacevole. Tullia ripeté che non era necessario che l'accompagnassero, ma Friz si tolse il cappello a tesa larga che indossava e se lo portò al petto:
« Sul mio onore. Ho giurato che vi avrei scortata sino alla dimora, madamigella, e così farò»
Tullia scoppiò a ridere, così lui aggiunse: « Mi sto esercitando ad essere un paladino, sia chiaro. Odio tutta questa faccenda della galanteria» e le fece l'occhiolino.
Anche Cesare fu di buona compagnia. Era simpatico, sebbene meno esuberante di Friz.
Quando arrivarono davanti al condominio dove abitava, i due ragazzi ammisero di aver fatto bene ad accompagnarla: quella zona era squallida e incuteva poca sicurezza.
Si congedarono da lei: Cesare le disse che era felice di averla fra i giocatori di Dungeons & Dragons, Friz le donò un profondo inchino e un baciamano.
Quando Tullia salì le scale fino alla porta del suo appartamento, scoprì le proprie labbra curve in un gran sorriso.
 
*
 
Non c'era niente che l'allettava nella prospettiva di giocare a Dungeons & Dragons.
Voleva solo essere di comitiva, passare il tempo con i suoi ritrovati amici e sentirsi di nuovo apprezzata. Le piaceva l'idea di venire coccolata dalle moine di Rocco, così caro. Apprezzava la devozione quasi ridicola di Filippo, sempre pronto a combattere per farla divertire. Non vedeva l'ora di ascoltare i buffi monologhi di Friz e, infine, ammetteva di non stare nella pelle per trascorrere sei lunghe ore insieme al bellissimo Cesare.
Sapeva di avere una cotta, ma solo per via del bell'aspetto. Sapeva ancora meglio di essere appena uscita da una storia sfortunata. Eppure proprio il ricordo di Paolo, di come lei era stata stupida, le davano una grinta nuova. Non doveva più avere paura dei ragazzi, era certa di essere una persona normale, almeno a Pisa; aveva le sue chance, riusciva a piacere e a rimanere simpatica.
Non faceva sul serio con Cesare. Desiderava bearsi della sua presenza., sapere di essere amica di una persona così attraente, cosa che le era sembrata impossibile fino a quel momento.
Ricordava i belli del liceo, i desiderati. A lei non avevano mai rivolto parola. Lei non era di quel pianeta, di quella categoria. Potevano avvicinarsi a loro soltanto le compagne di classe che si truccavano, che si vestivano come tutte le altre, che facevano discorsi idioti.
L'adolescenza era stata una tortura: sentirsi intelligenti, ma vedere il mondo dell'élite popolato solo da stupidi e stupide; non curare il proprio aspetto per volontà di essere naturale, ma scoprire solo di essere brutta.
E poi Pisa.
Tullia si guardava allo specchio nel bagno del suo appartamento: i capelli bagnati dopo la doccia le ricadevano sulle spalle, come un mantello di seta scura. Il viso era roseo, forse non proprio simmetrico, sicuramente non mozzafiato: eppure ecco una ragazza carina, radiosa, viva.
Dov'era stata nascosta per tutti gli anni del liceo? Si era fatta strada, era sbucata nei primi giorni dell'università, per poi nascondersi di nuovo all'ombra della vecchia maschera. Paolo non aveva amato la Tullia raggiante. Paolo non aveva amato niente di Tullia, non aveva fatto altro che ricacciarla dentro lo scrigno della tristezza.
Ma adesso lei era di nuovo libera.
Tullia sapeva benissimo di non avere voglia di un'altra storia, non per il momento.
Una settimana prima di iniziare a giocare a Dungeons and Dragons, Tullia passò il suo primo esame universitario: Cartografia, ventisette trentesimi. Che soddisfazione vederlo scritto. Il professore si era dimostrato molto competente: non aveva fatto domande facili, ma aveva richiesto il ragionamento e perdonato i pochi errori.
Quando Tullia era uscita dalla porta dello studio, con il libretto in mano e il ventisette nel cuore, si era gettata fra le braccia di Angelo come una pazza. Angelo era l'unico dei suoi amici a condividere con Tullia il giorno dell'esame. A Bruno sarebbe toccato l'indomani, mentre a Rocco due giorni dopo.
Angelo era agitatissimo, eppure Tullia sapeva che aveva studiato. Erano stati insieme in biblioteca, avevano ripetuto insieme. Se l'ho passato io, lo passi per forza anche tu, gli aveva detto.
E invece così non fu. Angelo bocciò. Si era impappinato per via dell'ansia e non aveva saputo dir nulla della cartina topografica sotto i suoi occhi.
Tullia rimase esterrefatta per due motivi: il primo fu la bocciatura, che credeva impossibile e ingiusta. La seconda fu scoprire che Angelo aveva una fidanzata.
Poco dopo che Angelo era entrato nello studio del professore, una ragazza carina, coi capelli scuri e la pelle dorata si era messa a sedere insieme agli altri studenti in attesa, nonostante non avesse né libri né quaderni con sé. Aveva accolto Angelo fra le braccia, quando lui se n'era uscito tutto immusonito.
In quell'occasione, Angelo d'improvviso era divenuto impacciato, formale, strano.
Tullia invece cercò di essere esuberante e tese la mano alla ragazza dai capelli scuri: « Ciao! Io sono Tullia».
Lei sorrise, cordiale: « Io sono Sofia»
« Pal, perché non ci hai presentato prima la tua ragazza? Che studi Sofia?»
« Sono all'ultimo anno di Infermieristica, faccio tirocinio qui all'ospedale di Cisanello» rispose lei molto educatamente.
Angelo invece sembrava nel pallone: non sapeva sorridere, non sapeva parlare. Tullia lo trovò stranissimo. La salutò appena, quando se ne andò insieme a Sofia.
Quella sera, Tullia ricevette due messaggi: uno era di Angelo, l'altro di Rocco. Il primo diceva: “perdonami, non sono bravo con le public relations. Ansia”.
Che sciocco, sorrise Tullia fra sé. Però sapeva bene di non essere lei stessa un campione in relazioni sociali, quindi lo comprese.
Il secondo messaggio era piuttosto lungo. Diceva: “trovo solo ora il coraggio di andare a stuzzicare la tana di un giaguaro di mia conoscenza. Non so se il giaguaro stia godendo del lauto pasto o se si stia leccando le ferite di una sconfitta. In ogni caso mi arrischierò a porre la domanda. In sintesi, com'è andato l'esame?”.
Di nuovo, Tullia rise; stavolta più forte. Rocco si era bevuto il cervello: che razza di messaggio era quello?
Rispose che era andato tutto bene e che non vedeva l'ora di accompagnarlo alla sua prova due giorni dopo.
 
*
 
Rocco fu uno schifoso fortunato. Il professore aveva deciso di esaminarlo insieme all'unico altro candidato della giornata e visto che quel tizio era immensamente impreparato, Rocco si beccò un trenta e lode.
Quando uscì, era paonazzo e sorridente. Per non offendere i sentimenti del collega che aveva preso diciotto, non disse niente a Tullia, Bruno e Angelo, lì presenti.
Si spostarono in un corridoio vicino e poi esplose di felicità: Tullia fu addirittura abbracciata e sollevata da terra, come se il trenta e lode fosse merito suo.
« Un po' è merito tuo» disse Rocco, quando lei glielo fece notare: « sapevo di essere preparato come te e tu sei passata. Mi hai dato il coraggio»
« Ma non c'entra niente! È merito tuo e solo tuo» lo rimbeccò Tullia, concedendogli un buffetto su una guancia. Si diressero insieme al bar e per tutto il tragitto Rocco fu elogiato come meritava.
Angelo si adombrò: era stato l'unico respinto. Tullia se ne rese conto e cercò di dedicarsi anche a lui.
« Allora, pal. Dimmi un po' della tua ragazza! È carinissima. Da quanto tempo state insieme?»
Angelo, se possibile, divenne ancora più nervoso.
« Cinque anni»
« Accidenti! Che bello. L'hai conosciuta alle superiori?»
« Esatto»
Visto che il discorso lo innervosiva troppo, Tullia lasciò perdere. Tornò ad ascoltare gli altri due, ma Rocco stava spiegando a un dubbioso Bruno il gioco che lui e Tullia avrebbero iniziato la settimana successiva.
Rocco era così eccitato, sia per Dungeons & Dragons che per l'esame passato a pieni voti, che la sua spiegazione risultò incomprensibile. Raccontò troppe regole miste ad aneddoti troppo specifici, insieme a episodi di vecchie partite cui aveva assistito. Alla fine, Tullia era più confusa che mai, Angelo e Bruno piuttosto allarmati. Se ne andarono dopo solo un quarto d'ora di pausa caffè e avevano l'aria scandalizzata.
Rocco non si era accorto di aver stufato gli altri ed era sempre pieno di entusiasmo. Tullia lo assecondò per un altro quarto d'ora ma alla fine anche lei aveva il cervello in fumo.
« Devo andare a fare la spesa. Mi accompagni?»
« Certo. Ai suoi ordini, gnomo bardo. Oddio, che effetto strano»
« Già. Cesare ha detto che lo gnomo era una cosa carina ma non sono sicura che dicesse la verità».
Risero insieme, pagarono e si diressero verso il supermercato. L'aria fresca fece bene a entrambi: Rocco si calmò e Tullia sbollì le meningi.
Superarono il Ponte di Mezzo e attraversarono Corso Italia fino alla traversa che cercavano.
Rocco era diventato fin troppo silenzioso. Tullia gli concedette uno sguardo, mentre le porte scorrevoli del supermercato si aprivano per loro: era un po' pallido e teneva gli occhi fissi. Pensò fra sé e sé che la tensione dell'esame e la successiva eccitazione si stessero sciogliendo. Anche lei si era sentita come sgonfiata di ogni energia.
Nel carrello finirono due cesti di lattuga, carote, cipolle, farina, uova e un po' di prosciutto: voleva provare a fare una torta salata e se il risultato fosse stato buono, l'avrebbe ripetuta per la prima serata di giochi.
Rocco non comprò niente. Fece la fila insieme alla sua accompagnatrice, muto, la osservò mentre pagava e aspettò che lei riponesse gli acquisti nella borsetta di canapa.
Stavano per prendere strade diverse per rientrare nelle rispettive case, quando Tullia si decise a chiedere:
« Tutto bene, Rocco?».
Lui prese un enorme respiro, come se fosse rimasto in apnea sott'acqua fino a quel momento. Guardò Tullia negli occhi per un brevissimo istante, poi da paonazzo divenne rosso fuoco.
« Tullia … ecco io … devo dirti una cosa».
Oh no. Pensò lei. Non era pronta per una cosa del genere. Non in quel momento. Perché davanti al supermercato in un giorno a caso? Sentì i piedi incollarsi all'asfalto e le ginocchia farsi lattiginose.
Adesso era lei quella congelata.
Rocco prese fiato una seconda volta e disse: « Filippo».
Filippo? Che parola inaspettata. Tullia assunse un'espressione dubbiosa e un po' spaventata. La rivolse al suo caro amico, che adesso sembrava non voler più parlare per il resto della vita. Si guardava i piedi, era rosso come un peperone, non la smetteva di muovere le sopracciglia.
« Filippo è un bravo ragazzo» disse con estrema difficoltà.
Tullia sbatté gli occhi, perplessa.
« Ehm … si, lo so»
« Ecco. Lui. Ehm. Lui ci tiene molto a te».
Tullia alzò un sopracciglio.
« Cosa?»
« Si. Lui ci tiene molto» ripeté Rocco, a testa bassa, mangiandosi le parole.
Tullia cercò di assumere un tono che non fosse né isterico né strafottente. Forse non le uscì troppo bene:
« Anche io ci tengo. Cioè, gli voglio bene. Ma niente di più, capito? È un caro amico. Un amico. È solo un amico».
Rocco la guardò di nuovo, sempre rosso e sempre preoccupato.
Tullia capì che non si era affatto rilassato, come aveva creduto poco prima: aveva raccolto il coraggio e l'energia rimasta da quell'intensa giornata per passarle l'informazione. Forse aveva pensato a quel momento per tutto il giorno.
« Ci vediamo domani?» chiese lei cercando di sembrare disinvolta.
« Certo» rispose l'amico, in un soffio.
Si voltò e fuggì. Adesso si sarebbe sciolto da ogni ansia e sarebbe forse crollato in un sonno profondo. Forse prima avrebbe parlato a Filippo.
Tullia si chiese quale fosse lo scopo di quella strana confessione: perché Rocco gliel'aveva detto? Era stato Filippo stesso a chiederglielo o Rocco aveva preso l'iniziativa?
Tullia non aveva assolutamente voglia di teatrini drammatici, non voleva tagliare i ponti con nessuno, non voleva mutare lo status quo così difficilmente e recentemente ripristinato.
Sperò che il suo implicito no passasse a Filippo tramite Rocco e che Filippo se ne facesse una ragione ancor prima di iniziare una soap opera.
Ma poi perché Filippo? Si conoscevano così poco. Tullia non ricordava nemmeno il suo cognome.
Mentre il vento freddo sferzava la mano di Tullia armata di chiavi e la serratura roteava con un sonoro clack, la ragazza si domandò che diavolo di problema avesse quella città.

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Capitolo 15
*** XV ***


XV
 
Dungeons and Dragons si rivelò noiosissimo: Tullia era stufa di giocarci dopo la prima mezz'ora, mentre gli altri apparivano estremamente divertiti.
Il turno di gioco di ognuno era lunghissimo. Qualunque azione richiedeva il tiro di un dado dalle molteplici facce che tutti chiamavano “D-20”.
Nessuno si accorse che l'ora di cena era passata da un pezzo, tanto la partita li appassionava. Fu Tullia a chiedere timidamente se nessuno avesse fame.
La confessione con cui Rocco aveva spiazzato Tullia davanti al supermercato, la settimana precedente, sembrava acqua passata: Filippo non diede a vedere tristezza, risentimento o segni di sconfitta. Al contrario, si dimostrava affabile come sempre e, come sempre, quasi sfacciato.
Tullia pensò che forse Rocco si era immaginato che Filippo ci “tenesse a lei”. Forse l'aveva inventato per tastare il terreno, per sapere quali sentimenti popolassero il cuore della ragazza.
Oppure era Tullia che, come sempre, pensava troppo e costruiva castelli sopra un sassolino.
 
« Domani iniziamo Antropologia. Sei emozionato?»
« No. So già che la odierò. Ho fatto il classico, non ho nessuna preparazione in quel campo. Se avessi fatto Scienze Umane, forse … »
« Ma non è che devi avere già la preparazione. Ho guardato sul programma e, ti dirò, sembra proprio una figata»
Avevano ragione entrambi: la materia era una figata, ma senza preparazione si rivelò difficile approcciarvisi.
La professoressa si chiamava Umani e faceva già ridere così. Era una donna ossuta, scheletrica, che aveva l'abilità di comparire alla cattedra senza preavviso. Riusciva così bene in questo superpotere che tutti iniziarono a chiamarla Contessa Dracula.
Aveva pesanti occhiaie rosse e uno sguardo truce, nonostante si trattasse di una donna pacata e dedita. L'aula era vuota e buia e di colpo lei si trovava alla cattedra, seduta, intenta ad accendere il microfono.
Tullia per la prima volta si rendeva conto di star frequentando un corso con tutti i suoi amici, tutti insieme. Era raro, perché di solito si riusciva ad essere insieme con uno o due, quasi mai tutti.
Il gruppo divenne il popolo stabile della terzultima fila, ubicazione decisamente marginale che comportò un livello di attenzione generalmente basso ma che consentì un lieto trascorrere delle lunghe ore di lezione.
L'Umana Contessa Dracula infatti, da bravo vampiro, aveva decretato che le lezioni si sarebbero tenute solo il lunedì dalle sedici alle diciannove, fino a buio, piuttosto che spezzarle in due giorni.
Decisione che la maggior parte dei pendolari accettò come un dramma. Bruno, che nonostante tutto si sedeva sempre vicino al gruppo di Tullia, non si fece scalfire dal problema: da vero beffardo, si alzava all'ora che preferiva e usciva dalla porta sotto gli occhi della Dracula, senza vergognarsi.
Anche Angelo prese presto quell'abitudine. Con la scusa pronta del treno in partenza, se mai la professoressa avesse chiesto spiegazioni, i due si alzavano e se ne andavano in tutta tranquillità.
Tullia non era abituata a questo tipo di atteggiamento e si sentiva in difficoltà ad abbandonare un'aula con un professore in piena spiegazione.
Lei aveva poche scuse, abitava a Pisa e non poteva giustificarsi con treni o pullman da perdere.
Un lato positivo del corso di Antropologia, dunque, fu quello di consolidare il gruppo e anche di ampliarlo.
Quello negativo, fu l'effettivo annullamento del “club privato” cui Tullia aveva sentito di appartenere fino a poco prima, ma stavolta non le importava. Stava crescendo, stava cambiando. Voleva abbandonare il suo atteggiamento infantile di desiderio di piacere. Sapeva di poter essere interessante e piacevole anche se ogni tanto le vecchie abitudini tornavano a farsi sentire.
Vennero inglobate nel giro anche due nuove ragazze, che Tullia studiò con attenzione: una si chiamava Carla e per puro caso era la fidanzata del coinquilino di Rocco, quello che studiava ingegneria e beveva il caffè con la Nutella e lo zucchero. L'altra era la ragazza più strana che Tullia avesse mai visto: albina, piena di lentiggini, quasi priva di sopracciglia e labbra inesistenti. Il suo nome era Anna, un nome talmente banale per descrivere una persona così singolare.
Carla provocò in Tullia moti infantili e provvisori di gelosia. Era spavalda, non temeva la propria capacità di essere attraente ed era davvero una brava oratrice. Raccontava di tutto e tutti la ascoltavano volentieri. Tullia avrebbe voluto essere come lei, tranquilla, libera e piacevole.
Per quanto spigliata e apprezzata da tutti, Carla era più simile a Bruno e per questo strinsero da subito una grande amicizia: erano affini, venivano dal mondo della costa, bazzicavano le discoteche sulla spiaggia, si intendevano di cocktail, di musica pop e di manga.
Anna invece era come una dea. Tullia non fu mai gelosa di lei, anzi, la adorava. Era fuori dal mondo, completamente: se poteva esserci un modo ridicolo o imbarazzante di essere vestiti, ecco che Anna lo indossava. Se c'era un'osservazione sconveniente, ecco che Anna la faceva senza accorgersi di niente e senza curarsi di niente. Era sé stessa e non temeva di esserlo. Portava dei jeans vecchi, che andavano di moda nei primi anni duemila, quando lei e Tullia avevano dodici anni. Portava occhiali senza montatura, che rendevano il suo viso singolare così poco attraente da renderla, invece, un'icona.
E poi era immensamente colta: sapeva tutto, non le sfuggiva niente, non si preoccupava di piacere agli altri, viveva la sua vita a diritto con convinzione.
Con disappunto di Tullia, lei era spesso derisa dai suoi amici. Nonostante la stima profonda che tutti avevano nei suoi confronti, quando Anna non c'era, spesso venivano fatte battutine su quanto fosse strana o poco carina.
Tullia la difese sempre, con forza. Anna era davvero una delle poche ragazze per cui non provò mai sentimenti negativi e a cui invidiava molte cose, nel senso buono.
Il gruppo, che ormai comprendeva Bruno, Rocco e Angelo (gli originali), Filippo e Qedim (i coinquilini Rocco, primi nuovi acquisti), Friz e Cesare (i due di Lettere), Anna, Carla e altri ragazzi che pian piano si alternavano nella terzultima fila, divenne una delle entità sociali della facoltà di Storia. Erano il gruppo. Gli altri studenti li guardavano e sapevano chi fossero. Erano coesi, erano qualcosa di concreto.
Tullia non aveva mai fatto parte della compagnia più popolare e viveva tutto questo come in un sogno infantile. Si sentiva come in un teen drama di Disney Channel.
 
*
 
Durante una pausa caffè, Friz stava intrattenendo il gruppo con una storia riguardante una ragazza che lo assillava:
« E non c'è verso di dirle che le ragazze non mi interessano. Qualunque cosa io faccia, dovunque io vada, lei arriva e ci prova con me. Ma poi ha quarant'anni, potrebbe essere mia madre!» esclamò, certo di aver incantato il pubblico.
Tutti infatti ridevano a crepapelle. Tullia rideva così maldestramente che rovesciò la tazzina di Angelo, che le sedeva accanto.
« Scusa pal!» si affrettò subito a dire.
« Niente!» tagliò corto lui, anche se era un po' seccato.
Tullia si armò di tovaglioli e soldi per un nuovo caffè, ma Angelo bene o male la rassicurò.
« Tullia, dopo le lezioni vieni a casa nostra?» chiese Filippo di punto in bianco.
Tullia riemerse dai tovaglioli gocciolanti e lo guardò con tanto d'occhi.
« Cosa?» chiese stupita.
« Filippo, se ancora non l'hai capito te lo spiegherò io» disse Friz, riprendendosi il microfono e l'inquadratura principale. Tutti lo guardarono:
« Tullia non te la darà mai».
Le risate che scoppiarono dopo quest'affermazione soffocarono l'imbarazzo di Tullia e la faccia totalmente arrossata e contratta di Filippo. Sembrava davvero sofferente, come se avesse il mal di stomaco o il mal di mare.
Allora Rocco non si era inventato tutto e allora davvero Filippo ci voleva provare con lei.
Ma perché? Si chiese Tullia. Perché? Non si conoscevano nemmeno bene.
Sperò che Filippo la steccasse lì, ma invece preferì insistere, instaurando un clima imbarazzato che nemmeno Friz riuscì a infrangere.
« Allora posso offrirti un ginseng, da soli? Con tutti loro non riesco a parlarti»
« Ehm … ma dai, abbiamo appena bevuto»
« Per favore!»
« Filippo, ma … adesso
« Si, adesso»
Tutto il tavolo li fissava. Filippo si era alzato, rosso e disperato, come se si fosse deciso a buttarsi da una scogliera.
Tullia, sempre più sconvolta, si alzò a sua volta e seguì Filippo che la conduceva in un altro bar, poco lontano dal Macchi. Sentì il peso dello sguardo di Rocco e di Angelo sulla sua nuca. Percepì Friz che vibrava di emozione e non vedeva l'ora di sapere cosa sarebbe successo, per raccontarlo a mezzo milione di persone. Colse un'occhiata distratta di Cesare e Tullia sperò che lui, con la sua calma e la sua bellezza divina, scendesse su quel teatrino con una macchina greca e la salvasse. Fa che dica qualcosa, che riprenda Filippo, che gli dica quanto è sciocco questo tentativo, che mi salvi dal dovergli sputare in faccia la verità.
Ma nessuno la salvò. Tullia seguì la schiena di Filippo fino all'angolo intimo del nuovo bar, sapendo quanto era strano l'essersi lasciata tutta la comitiva alle spalle. Sicuramente parlavano di loro e della scena appena accaduta, per caso, tutta insieme.
Filippo ordinò un caffè per sé e Tullia disse che non voleva niente.
Presero il caffè e si sedettero.
« Lasciami parlare» iniziò Filippo.
Tullia sospirò. Che doveva fare, pensò stufa; doveva concedergli la parola, ma non vedeva l'ora che si esaurisse.
Assunse un'espressione neutra per non ferire Filippo più del necessario, ma era lui ad averla trascinata in quella situazione surreale e imbarazzante per forza.
« Come avrai capito, mi piaci molto, Tullia»
« Ehm»
« Fammi finire. Lo so che sembro stupido, lo so che sono affrettato e lo so che ti sei lasciata da un mese. Ma ecco, mi piaci tanto. Sei la ragazza più carina e intelligente che io abbia mai conosciuto e con te mi sento a mio agio. Farei di tutto per te».
Che parole vuote, che copione ripetitivo, che storia già sentita, che situazione surreale.
Il caffè intatto giaceva nelle sue mani.
« Ho finito» disse, guardando Tullia negli occhi: « adesso dì tu quello che devi».
Apprezzando il coraggio di quel ragazzo semplice e buono, Tullia si preparò a essere la cattiva.
« Senti, Filippo, mi dispiace dover dire queste cose … ma io credo che siamo solo buoni amici, no? Non credo nemmeno di piacerti davvero … ci conosciamo appena. Non voglio usare quella stupida parola, friendzone, perché suona offensiva, però in fin dei conti è quello che penso: tu sei un mio amico. Sei un amico, un carissimo amico, ma un amico. Chiaro?».
Si sentì soddisfatta di quel che aveva detto.
Non aveva sfruttato i sentimenti di Filippo, aveva accettato di far soffrire qualcun altro e non aveva finto. Essere sinceri non era terribile, si disse. Fastidioso, ma non terribile.
Filippo non aveva abbandonato l'aria di palloncino gonfio sul punto di scoppiare. Balbettò un po' e disse che avrebbe provato a conquistarla ancora. Tullia pregò che non fosse così e glielo disse, ma lui sembrava ostinato.
Con convinzione, desiderosa di andarsene il prima possibile, gli disse che era meglio tornare dagli altri.
Lui annuì, mesto. Sembrava un personaggio di un cartone animato. Era fin troppo prevedibile, pensò Tullia. Una trama già vista.
Che episodio assurdo. Rovinare un pomeriggio così piacevole con una scenata senza senso.
Scoprirono che gli amici non li avevano aspettati: si erano diretti tutti alle rispettive lezioni.
Tullia aveva Storia Medievale I con Rocco, che ovviamente le aveva tenuto il posto e fu abbastanza discreto da non chiedere niente.
I due seguirono la lezione in silenzio, presero appunti e furono molto concentrati. Il professore era bravissimo e il corso si teneva in un'aula del dipartimento di Filosofia, al piano di sotto rispetto a quello di Storia.
A fine lezione, Rocco e Tullia uscirono insieme e si avviarono verso Corso Italia. Parlarono di quanto la Storia Medievale fosse affascinante e di quanto vasto era il programma. Si domandarono quali saggi, fra quelli a scelta, avrebbero portato all'esame. Tullia era propensa verso un libro che si intitolava Feste e Giochi del Medioevo Francese, mentre Rocco era certo che avrebbe portato uno dei titoli di Alessandro Barbero.
Tutto procedette nella normalità, come se quella strana parentesi aperta da Filippo non fosse mai esistita. Rocco era una compagnia davvero piacevole e un amico opportuno. Tullia era certa che sapesse calcolare ogni cosa, misurare ogni parola e dirimere ogni situazione.
Lui non si sarebbe mai sperticato in una confessione impulsiva e forse un po' sciocca come quella di Filippo. Tullia, dal canto suo, sperò che Rocco non confessasse mai niente. Gli voleva troppo bene, non poteva pensare di limitare l'affetto che provava per lui, né di rinunciare alla sua compagnia.
Era sempre piuttosto giorno quando rincasarono, quindi Rocco fu dispensato dall'accompagnare Tullia sotto il portone di casa.
Quando si salutarono, l'abbraccio fu forse un po' più lungo, ma poi tutto tornò normale. Si dissero ciao e si dettero appuntamento al giorno successivo.

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Capitolo 16
*** XVI ***


XVI
 
Tutto procedette nella norma fino alla sessione d'esame primaverile.
Tullia aveva ripreso a studiare con serenità e non aveva più incontrato le difficoltà sorte con la storia di Paolo.
Paolo non si fece più sentire e Tullia fu lieta di dimenticarlo, di lasciarlo sbiadire nella lista degli errori commessi. Da un discorso colto per caso sulle labbra di Clarissa, scoprì che adesso era fidanzato con Giulia. La notizia la fece ridere molto e le donò più allegria di quanto si aspettasse.
Filippo non azzardò altre scenate sentimentali e Tullia poté tornare a trattarlo come l'amico a cui voleva un bene sincero.
Tutto il grande gruppo che aveva popolato la terzultima fila di Antropologia Culturale adesso si preparava per sostenere l'esame.
Oltre a quello, Tullia avrebbe affrontato anche Storia Medievale I insieme a Rocco e Storia della Chiesa Medievale, con Anna.
Le due ragazze si erano inserite bene nella schiera delle amicizie. Tullia le frequentava regolarmente e non si sentiva minacciata dalla loro presenza, anzi, ne era arricchita.
Le partite a Dungeons & Dragons si fecero vagamente più appassionanti, ma Tullia sapeva che non ci avrebbe mai più giocato, una volta finita quella campagna.
Friz era l'anima del gruppo, sempre, e raccontava pettegolezzi, storie, aneddoti, senza cui le pause caffè al Macchi sarebbero state più blande.
Persino Qedim riuscì a strappare qualche risata a Tullia, quando raccontò che aveva detto a suo padre che “Macchi” era il nome di un'aula studio.
« Tutte le volte che mi chiama sono sempre al Macchi. Ho dovuto dire così o avrebbe scoperto che passo le mie giornate al bar».
Che fosse una storia vera o no, quella volta Tullia la trovò simpatica.
Gli esami sarebbero iniziati a partire dal giorno successivo.
Anche se Tullia si sentiva meno in ansia che per Cartografia, i programmi erano vasti e il pizzicorino allo stomaco cominciava ad attanagliarla.
« Con cosa cominciate?» chiese agli altri.
« Domani ho Linguistica Italiana» rispose Cesare, pacato ed elegante. Leggeva una Divina Commedia piena di pieghe, presa dalla biblioteca: « poi venerdì ho Antropologia con Filippo».
« Io Antropologia ce l'ho giovedì» commentò lei.
« Allora se passiamo tutti e tre dobbiamo uscire a bere qualcosa, venerdì. Per festeggiare».
Tullia ruggì il suo si che scatenò una faccia troppo emozionata da parte di Filippo.
La ragazza si convinse di esserselo immaginato, perché non poteva credere che Filippo continuasse a ostinarsi con lei. Erano passati due mesi da quello strano pomeriggio e lui non aveva più assunto comportamenti equivoci.
« Io sono insieme a te, per Antropologia. Giovedì mattina» disse Carla, distraendosi dal parlottare con Bruno.
« Io credo che mi disiscriverò. Voglio preparare bene Medievale I» annunciò Rocco di punto in bianco.
« Cosa? Ma sei preparato!»
« Antropologia non mi piace»
Non riuscirono a convincerlo a sostenere l'esame. Disse che l'avrebbe ritentato all'appello estivo.
Gli altri si erano segnati in ritardo e avrebbero sostenuto lo sguardo della Contessa Dracula due settimane dopo gli altri.
Il giovedì arrivò in un baleno e Tullia si ritrovò a condividere la mattinata di attesa con Carla.
Scoprì che quando non parlava di serate mondane e feste sulla spiaggia era davvero piacevole. Era adorabile e simpatica, alla mano, divertente e premurosa. Le conversazioni con lei furono facili e molto interessanti. Parlarono di cartoni Disney che avevano visto da bambine, dei loro libri preferiti e di come la Contessa Dracula fosse sbucata dalle tenebre a ogni lezione.
Scatenarono l'ilarità di altre persone che erano in fila per l'esame e si misero a fare il verso alla professoressa per scaricare la tensione.
Passarono entrambe con voti alti e si abbracciarono per celebrare. Sbucò anche il fidanzato di Carla, il coinquilino di Rocco. Aveva portato il cagnolino di Carla al guinzaglio. Il cucciolo fece le feste a tutte le persone presenti nell'ingresso. Tullia salutò i due, poi tornò a casa, fiera di aver aggiunto un ventotto al suo libretto.
L'esame successivo di Tullia si sarebbe tenuto il lunedì: Storia della Chiesa Medievale. Tullia però, si concesse una pausa: si disse che era preparata a sufficienza e che quel fine settimana poteva riposarsi. Avrebbe riaperto il libro solo la domenica sera, giusto per non sentirsi colpevole di bighellonaggio.
Era venerdì e Cesare e Filippo avrebbero sostenuto a loro volta Antropologia. Tullia volle andare ad accompagnarli: poteva essere un desiderio sadico, ma sapere di aver già passato l'esame le dava soddisfazione. Era l'unica persona con il sorriso sulle labbra, quando varcò il corridoio in cerca dei due amici: tutti gli studenti giacevano raggomitolati, seduti a terra, con libri e con le facce verdi di nausea.
Trovò facilmente Cesare e Filippo: i bisbigli di ripasso di quest'ultimo erano tuonanti. I due furono felici di vedere Tullia, anche se erano piuttosto in ansia per la prova che li aspettava. Furono avidi delle informazioni che Tullia concedette loro: la professoressa era clemente? Che domande aveva fatto il giorno precedente? Che voti aveva dato? Quante persone aveva bocciato?
Molte altre orecchie si tesero ad ascoltare quello che lei diceva. La soddisfazione di essere l'unica ad aver già superato l'esame si dissolse alla svelta: quell'ambiente era così impregnato d'ansia che Tullia si sentì a disagio.
Attese con impazienza il turno di Cesare e di Filippo. Cesare fu esaminato per primo e uscì sorridendo con un enorme trenta sul libretto. Il suo sorriso era luminoso e donava ai lineamenti già splendenti. Tullia pensò di nuovo che fosse molto attraente.
Filippo entrò poco dopo e quando uscì urlò di gioia – facendo tremare i muri – e abbracciò tutti e due gli amici.
« Stasera dobbiamo festeggiare!» gridò, inciampando in uno che aveva tre libri impilati davanti a sé.
« Una bella uscita serale. Andiamo alla Chupiteria. Fanno gli shot a un euro» disse Cesare.
Tullia disse di sì, che sarebbe uscita, ma sapeva già che non avrebbe bevuto.
Si dettero appuntamento per le nove in Piazza Garibaldi.
Tullia scoprì che le sue coinquiline erano state invitate ad un apericena da un collega di medicina. Quando disse che sarebbe uscita alle nove, Clarissa la trascinò fuori con loro:
« Non cenare tutta da sola, vieni con noi. Poi quando è la tua ora, te ne vai».
Si diressero a un bar proprio in Piazza Garibaldi. Aveva i tavoli fuori e un buffet molto ricco all'interno.
Clarissa trascorse il suo tempo avvicendandosi fra questo e quel gruppo di amici. Ilaria e Rosanna invece rimasero a parlare con una ragazza che avrebbe dato il loro stesso esame entro una settimana.
Gli sconosciuti erano numerosi e rumorosi. Tullia controllò il display del cellulare molte volte, pregando che le nove arrivassero in fretta.
Si bevve un analcolico alla frutta, buonissimo. Il barista si dilettava nel freestyle e compose la bevanda come se fosse un giocoliere.
Mangiò qualche pizzetta, qualche crostino e sedano crudo inzuppato in una salsa bianca che sapeva di cetriolo e aglio.
Per quanto movimentato, l'apericena fu noioso. Tullia non conosceva nessuno e le sue coinquiline non le dedicarono molto tempo.
Solo Clarissa, un po' brilla, a un certo punto la vide seduta da sola al tavolino e le chiese:
« Con chi esci stasera, Tul?»
« Due amici che hanno passato un esame»
« Brava. Ti piace qualcuno di loro due?»
« Ehm, no, non direi»
« Cooosa? Non sono nemmeno belli?»
« Si, uno dei due è molto bello»
« Ahh, brava. Allora punta a quello. Lascia stare l'altro. Ci si deve anche un po' divertire. Non si può assecondare tutti quelli brutti a cui si piace»
« Ma non è che il mondo è diviso in belli e brutti!» rise Tullia, capendo che l'amica era un po' fuori di sé.
« Invece si!» insistette: « belli e brutti. Se uno è bello, si guarda e ci si va. Se uno è brutto si dice no»
« Wow, una filosofa nata»
« Vero? Il prosecco mi fa così. Divento saggia. E ora vado a parlare con quello. Lui non è solo bello, dice anche che sia molto dotato»
« Clarissa!»
« Che c'è? Sono cattiva?» esclamò lei. Poi assunse un'aria maliziosa: « Si, si, sono moolto cattiva. Divertiti con i tuoi amici, Tul».
E scomparì in un nugolo di ragazzoni ben piazzati.
Tullia rise di cuore e si scoprì ammirata nei confronti di Clarissa. Ripensò alla sé stessa che si scandalizzava al liceo, quando sentiva le compagne parlare di sesso. Che sciocca. Perché mai doveva scandalizzarsi? Clarissa non era una pervertita, non era una persona cattiva, non era una stupida.
Cercò di sentirsi disinvolta e rilassata così come lo era lei. Si domandò se sarebbe mai stata capace di flirtare con i ragazzi senza darci troppo peso.
Sulla scia dei pensieri che Clarissa aveva scatenato in lei, arrivarono le nove. Il bianco campanile dall'altra parte di Ponte di Mezzo emise cupi rintocchi, soffocati dal vociare e dalla musica dei locali.
Due ombre, una più massiccia, l'altra più elegante, si avvicinarono e si palesarono: Cesare e Filippo camminavano verso di lei, carichi di felicità per l'esame passato e pronti a passare una serata in Chupiteria.
 
« Ciao Tullia» dissero in coro.
Si abbracciarono e baciarono, poi partirono alla volta del locale con gli shot a un euro.
Filippo raccontava di una storia riguardante Qedim, di un non si sa che parente che le aveva regalato un viaggio in Ecuador e di lei che aveva promesso di portarci anche qualche suo amico.
Tullia evitò di condividere l'entusiasmo di Filippo e non si intromise nella conversazione.
Per gran parte della serata, i due ragazzi non la considerarono molto. Erano solo in vena di bere, cosa che Tullia trovò un po' triste.
Quando arrivarono al locale, stretto e pieno zeppo di gente in piedi, i ragazzi si sedettero su un divanetto di pelle nera miracolosamente vuoto e ordinarono il primo giro.
Tullia non aveva intenzione di imitarli: non aveva mai assaggiato uno shot ed era sicura che fosse roba troppo forte per lei.
Filippo registrò l'informazione e da quel momento in poi passò la serata a cercare di dimostrare quanto lui fosse capace di reggere l'alcol. Bevve molto più di quanto Tullia avesse mai visto fare a chiunque altro: la faccia di lui diventò sempre più rossa, come la sua barba, tanto che Tullia si chiese come facesse ancora a intendere e volere.
Cesare bevve con più discrezione, ma non si moderò: anche lui mandò giù tantissimi bicchierini pieni di colori intensi e odori pungenti.
Tullia si stava annoiando molto e pensò che la serata fosse un fiasco.
Non era scandalizzata dall'ambiente festaiolo e a lei decisamente estraneo. Un po' le piaceva trovarsi lì dentro: era un'esperienza strana e diversa. Non le piaceva la “gara dell'alcol” che i suoi amici avevano imbastito.
Si ritrovò a giocare col cellulare, mentre i due picchiavano i fondi dei bicchieri e buttavano giù sempre più shot.
Alla fine, Tullia capì che quello dei suoi amici non era un atteggiamento normale, poiché anche il barista disse che avevano bevuto molto, così tanto che gli offriva a prezzo scontato un ultimo giro “mortale” – così disse – per vedere se ce la facevano.
Tullia pensò che fosse un pazzo, ma i due acconsentirono e lui ritornò con delle fiale, come quelle di un chimico, tutte piene fino all'orlo di un liquore diverso.
I due ragazzi presero a sfilarle e a scolarsele. Tullia invece iniziò ad essere preoccupata.
Finalmente, dopo aver svuotato le pozioni mortifere, i ragazzi pagarono (lei non seppe mai quanto) e si decisero ad alzarsi.
Camminarono fuori per un po', poi trovarono una piccola piazza con un portico un po' malandato.
Filippo caracollò a terra e si sdraiò a pancia in su. Cesare si sedette su una scalinata bassa, apparentemente sano.
Tullia era molto a disagio e si domandava quale fosse il momento migliore per salutare i due amici e chiudere quella sfortunata uscita di gruppo.
Purtroppo, il peggio doveva ancora venire.
« Tullia» incalzò Filippo, alzandosi in ginocchio e trascinandosi fino alla ragazza: «lo so che mi hai già rifiutato. Ma io non posso non dirtelo. Sei bellissima, sei speciale. Io ti amo, Tullia, ti amo».
Tullia sgranò gli occhi e saltò indietro.
Si sentì selvaggiamente arrabbiata:
« Filippo, smettila!» gli gridò: « sei ubriaco. Non devi dire queste cose. Ne abbiamo già parlato. È una storia chiusa».
Filippo prese a gemere e dimenarsi a terra.
Lei era sconvolta. Non voleva questo, non l'avrebbe mai voluto, nemmeno quando era una stramba adolescente che nessuno considerava.
Filippo si trascinò in ginocchio e allungò le mani fino ad afferrare quelle di Tullia. Lei cercò di ritrarle, ma Filippo le aveva serrato le dita.
« Tullia, ma io ti amo. Ti amo! Non l'ho mai detto a nessun'altra. Tu mi dicessi: buttati dal ponte e fai l'Arno a nuoto, io mi butterei!»
« Ma sei scemo?!» gli urlò lei, strattonando le mani perché gliele lasciasse.
Il volto di Filippo era gonfio e arrossato. Tullia si sentì persa dentro a un intrico di spine e vapori d'alcol.
« Non dirmi così, Tullia. Tu sei speciale, la più speciale del mondo. E io ti amo e ti amerò sempre. Fammi fare qualunque cosa e io te la farò. Vuoi che corra fino all'altro lato della piazza senza cascare in terra? Vuoi che cammini sul corrimano del fiume? Ce la faccio! Guarda che ce la faccio!».
Non lasciava le dita di Tullia, in una grottesca imitazione di un principe inginocchiato che offre l'anello alla sua dama.
« Cesare!» urlò Tullia, in preda al terrore: « Aiutami! È pazzo!».
Con grandissima sorpresa di Tullia, Cesare si alzò con calma e si avvicinò per scioglierla da quella presa folle. Però poi le prese il viso fra le mani e l'accarezzò come fosse una bambola: i capelli, le guance, il naso.
« Non dirgli così, Tullia. Tu sei speciale. E lui è ubriaco, devi perdonarlo».
Tullia era inorridita, ma i gesti soffici di Cesare riuscirono in qualche modo a calmarla. Si sentì fuori dal mondo, come se tutto fino a quel momento avesse avuto un senso e che ora quel senso fosse perduto.
Filippo si accasciò a terra, gemendo come un moribondo, mormorando frasi amorose verso Tullia.
Cesare l'aveva presa per mano e continuava ad accarezzarle il volto e i capelli.
Tullia era paralizzata.
Qualcosa non andava. Anzi, non andava niente.
« Tullia» le sussurrò Cesare all'orecchio: « sono tutti innamorati di te. Perché sei preziosa e speciale. Qualunque cosa ti succederà in futuro, ricordatelo. E ora portiamo Filippo a casa».
Sconvolta da quel comportamento insensato, Tullia si curvò su Filippo disteso a terra e lo prese per un'ascella.
« Forza» gli disse: « andiamo a casa tua».
Era pesantissimo e lei non aveva mai assistito un ubriaco.
Sul Ponte di Mezzo Filippo cadde di nuovo. Riprese a gridare i suoi sentimenti per Tullia che, disperata, scoppiò a piangere.
Cesare emerse di nuovo dalla sua calma inquietante: si accovacciò su Filippo e gli disse:
« Devi imparare ad amare Tullia da lontano, come un miraggio. Perché lei è un miraggio. Lei non è di nessuno. Lei è speciale, è un tesoro».
Tullia singhiozzò ancora più forte, impaurita da quei discorsi innaturali e senza senso. Stava per fuggire via, per allontanarsi da quella situazione terrificante, ma qualcosa le diceva che lasciare quei due da soli, in quello stato, sarebbe stato peggio.
« Non devi piangere. Io ti amo, non devi piangere» singhiozzò a sua volta Filippo. Cesare le voltò il viso per asciugarle le lacrime.
Era la scena più pietosa e insensata cui Tullia avesse mai assistito. Era inorridita e impaurita. Voleva andare a casa, finire tutto, dimenticare quel giorno per sempre e non raccontarlo a nessuno.
Riuscirono di nuovo a far alzare Filippo e lo accompagnarono fino al portone di casa.
Tullia non poté fare a meno di pensare che lassù c'era anche Rocco, dormiente, ignaro di cosa stava succedendo. Rocco l'avrebbe aiutata, avrebbe saputo cosa dire e cosa fare.
Sperò che il rientro di Filippo ubriaco non disturbasse il sonno dell'amico più caro che dormiva nella propria camera.
Quando Filippo si fu chiuso il portone alle spalle, Cesare chiese dolcemente: « Vuoi che ti accompagni?».
Tullia non rifiutò, perché erano le due di notte, perché casa sua era lontana e perché era terribilmente sconvolta.
Cesare fu silenzioso per tutto il tragitto.
Quando arrivarono sulla lugubre via di casa, Tullia si comportò in modo molto stupido. Per qualche motivo le tornarono in mente i discorsi scemi di Clarissa e le carezze ricevute da Cesare le bruciarono sul viso.
« Grazie per avermi aiutata, prima. Sei stato molto carino con me» gli disse.
Lui la guardò, con un'espressione confusa e indecifrabile.
« Era giusto così»
« Chiudiamo questa serata. Un abbraccio?».
Non si aspettava quello che sarebbe successo. Non era nemmeno certa di volerlo.
Cesare l'abbracciò, poi la baciò. La baciò con trasporto, con intensità.
Tullia era così confusa che ricambiò il bacio, frastornata, lusingata e in qualche stupido modo, speranzosa. Le rimbombava in testa la risata leggera di Clarissa, poi le tornavano in mente le lacrime di Filippo e il suo rotolarsi a terra, poi di nuovo l'apericena con le coinquiline e il fresco della sera.
Tullia riemerse dalle fantasie ma il bacio durava ancora. Si accorse che qualcosa non andava, quando la mano di Cesare cercò di sbottonarle i jeans.
« Non è che …cioè, non è che potrei …?» disse lui confuso e avido.
« No!» Tullia si allontanò di mezzo metro con un salto.
« Scusa. Tu … tu piaci a tutti i miei amici. Non potrei mai. Scusa. È vero. Spetti a loro … Io non posso».
A quel punto le fu chiaro che anche Cesare era ubriaco marcio: il ragazzo si voltò e vomitò sull'asfalto, senza grazia e senza nascondersi.
Lei rimase immobile, disgustata e sconvolta, con vane speranze stupidamente infrante, con sentimenti non nati e già abortiti, con una sensazione orribile in petto.
Cesare barcollò pericolosamente.
« Vado a letto» annunciò, il bel viso contratto dal mal di stomaco.
« Scrivimi appena arrivi» gli intimò Tullia: gli sembrava davvero pericolante.
« Si»
« Mi raccomando»
« Va bene» blaterò lui. Se ne andò oscillando e inciampando nei propri passi. Tullia lo seguì per un po' con lo sguardo, poi salì in camera.
Aspettò a lungo il messaggio che non arrivò mai e poi si addormentò.

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Capitolo 17
*** XVII ***


XVII
 
La mattina seguente, Tullia pensò molto a quanto era accaduto.
Una volta sveglia, per prima cosa controllò il cellulare e vide che Cesare non le aveva mandato nessun messaggio. Ne fu un po' preoccupata, l'aveva lasciato in pessime condizioni e poteva essergli successo di tutto.
Erano le dieci e decise di chiamarlo.
Il telefono squillò, poi ci fu un bzz e la voce di Cesare rispose, rauca:
« Pronto?»
« Cesare? Sono Tullia. Come stai?»
« Si, abbastanza bene»
« Ieri non mi hai mandato il messaggio, mi ero preoccupata»
« Mi si era scaricato il telefono».
Tullia non seppe che altro chiedergli.
Fu lui a dire:
« Che ne dici se oggi parliamo?»
« Va bene» rispose lei.
Si dettero appuntamento per un'ora dopo, davanti al supermercato di Corso Italia.
Tullia trovò la scelta di quel luogo molto enfatica: era lì che, mesi prima, Rocco le aveva abbozzato quella confessione riguardante i sentimenti di Filippo.
Mentre si preparava, Clarissa bussò.
« Sei sveglia? Fai colazione con me?»
« Mi vedo con Cesare. Ieri … ehm … sono successe delle cose».
Clarissa non chiese il permesso e si catapultò dentro camera di Tullia con la velocità di un proiettile; si guardò intorno rapidamente, come se si aspettasse di vedere un ragazzo nascosto sotto le lenzuola.
Si richiuse la porta alle spalle. I biondi capelli sparsi su tutta la faccia ancora assonnata coprivano a stento le occhiaie per la nottata di divertimenti appena passata. Chissà che cosa aveva fatto Clarissa nelle ultime ore, pensò Tullia.
Clarissa volle un resoconto dettagliato dell'accaduto e Tullia si sentì in grado di fornirglielo. Era una delle prime volte che raccontava a un'altra ragazza le proprie pene d'amore, se così si potevano chiamare.
Quando il racconto fu finito, Clarissa esclamò:
« Ah! “Piaci ai miei amici e non posso averti io” è la bugia più stupida! Tullia ce l'hai in pugno, il bellone. Adesso vai e prendilo!»
« Ma … io … non credo che…»
« Se è quel tuo amico rosso e lentigginoso, dio, che aspetti? È un fotomodello»
« Non so. Mi piace, ecco, ma …»
« Tu vai convinta. Non esiste questa cosa fra i maschi, che rinunciano a una donna in nome dell'amicizia. O almeno, io non ci credo. Stai tranquilla. È tuo. Se lo vuoi, prenditelo. Io lo farei».
Clarissa sorrise e poi la lasciò uscire, scomparendo verso la propria stanza.
Tullia si chiuse la porta d'ingresso alle spalle e le sembrò che rimbombasse più che altro nella sua testa. Era di nuovo immersa in una brodaglia fluttuante, dentro cui le pareva di annegare.
Il percorso fu breve. Arrivò lei per prima. Dopo qualche minuto apparve anche Cesare. I postumi della sbornia erano evidenti: il colorito pallido era ancora più cadaverico, aveva gli occhi arrossati e la voce roca.
« Ciao» disse.
Era molto serio.
« Ciao» sorrise Tullia, timida.
« Camminiamo» disse lui, e la guidò verso una traversa sconosciuta e quasi abbandonata.
« Cosa ho detto ieri sera?» chiese, quasi spaventato.
« Non ti ricordi niente?» si stupì Tullia, delusa.
« Poco»
« Beh, mi hai detto che sono speciale. Mi hai detto che sono un tesoro»
« Oh cielo».
Sembrava inorridito.
Tullia continuò, poco convinta:
« Mi hai detto che non puoi avermi perché io piaccio ai tuoi amici»
« Ho detto così?»
« Si»
« Beh» sembrò nervoso: « a Rocco e Filippo piaci. Ho passato alcune serate a casa loro a sentir parlare di te per ore. Ora che Filippo se l'è giocata, toccherà a Rocco provare»
« Lascia stare Rocco»
« A te piace?»
« Non in quel senso. Diglielo pure, se vuoi. Ma non … non offenderlo mai»
« E non ho detto altro?»
« Mi hai baciata».
A questo punto, Cesare si coprì gli occhi con le mani.
« No» esclamò: « speravo di averlo immaginato. Sarebbe stato meglio»
Tullia si offese:
« Ma invece è successo! E a dire il vero avresti voluto andare oltre. Ti ho fermato io»
« Tullia, ero ubriaco! Perché mi hai baciato?»
« Non lo so! Tu eri lì … mi hai baciata e io ti ho lasciato fare»
« Non dovevi»
« Ma perché? Tu hai voglia di provare a … non so, a frequentarci? A vederci? A me sta bene.»
« No, no. Io non … no, Tullia mi dispiace. Mi sono comportato così solo perché ero ubriaco. Mi dispiace. Non provo niente. Non c'è niente fra noi».
Tullia, depressa, senza un vero motivo, gemette:
« E tutte le volte che mi hai detto che sono adorabile? Tutte quelle carezze? Tutte le tue premure? Non volevano dire niente?».
Cesare ci pensò, poi rispose sicuro:
« No. Mi dispiace».
Tullia incassò il colpo con meno dignità di quanta avrebbe voluto.
Sentì le lacrime sulle guance, annuì e lo salutò.
Mentre si voltava, Cesare le afferrò un braccio e le disse:
« A chi lo racconterai?»
« Non lo so. Perché?»
« Non dirlo a qualcuno che poi farà i pettegolezzi»
« Lo dirò a chi voglio. Ciao».
Tullia lo lasciò lì, immusonito.
Se ne andò compiendo ampie falcate; mormorò fra i denti: « Idiota».
Non sapeva perché si era comportata così, né perché il rifiuto di Cesare equivalesse quasi a un tradimento. Si sentiva sconfitta, molto più infranta di quanto si sarebbe aspettata. Cosa provava per Cesare? Niente! Era un ragazzo bellissimo, tutto qui. Era dolce e affascinante, ma Tullia non provava nulla per lui che fosse riconducibile all'amore.
Mentre creava più distanza possibile fra sé stessa e il supermercato, Tullia provò a mettere Cesare nella peggiore delle luci: lui l'aveva spesso incoraggiata, se faceva le moine a tutte le ragazze non poteva aspettarsi che loro non ci provassero con lui. Se non provava niente per Tullia, allora non avrebbe dovuto dirle che lei era uno gnomo bardo, creatura carina e adorabile. Se non voleva che Tullia cadesse per lui, non doveva agire in quel modo, da ubriaco, accarezzarla, metterla in confusione.
Furibonda con tutto e tutti, Tullia si accorse di aver attraversato l'Arno e di essersi incamminata verso il dipartimento di Storia.
Si fermò in piazza Dante, sulle panchine di marmo semicircolari. Rifletté a lungo, lasciandosi andare.
Cos'era diventata? Aveva intrapreso la sua prima relazione romantica che si era conclusa in tre mesi di agonia; aveva perso la verginità, aveva uno stuolo di ragazzi ai suoi piedi e aveva baciato un ubriaco. Sei mesi e la Tullia pudica e schiva, la Tullia sfigata e rifiutata era già morta e sepolta?
Tutto questo non poteva tradursi solo con un suo desiderio di riscatto dall'adolescenza sofferta. Forse se si fosse lasciata andare, lei si sarebbe sempre comportata così. Avrebbe inventato scenette sentimentali, avrebbe impersonato la fanciulla ferita, la guerriera vendicativa e la dolce seduttrice, sempre. Lei era così? Ora che c'era qualcuno ad assistere al suo show, finalmente si rivelava la sua vera natura?
Non riusciva a perdonarsi né a condannarsi. Concluse che doveva vivere con sé stessa e provare a mitigarsi, ad accettarsi, ad andare avanti in qualunque modo fosse.
Dalla viuzza di Via Paoli uscì un ragazzo con la folta barba scura e Tullia si sentì come riavere.
« Angelo!» chiamò.
Lui si guardò un po' intorno, poi la vide.
« Pal! Che giri?»
« Andiamo a mensa insieme?»
« Ma non è ancora mezzogiorno, sarà sempre chiusa»
« Aspettiamo che apra, allora?».
Angelo percepì la preghiera di Tullia e rispose: « Va bene».
Si incamminarono insieme e si sedettero su un pilastro rotondo di cemento. Tullia si reggeva al manubrio di una bicicletta parcheggiata lì accanto.
Angelo se ne stette in silenzio e attese che fosse Tullia a parlare. Lei pensò vagamente di tacere, aspettare che i cancelli della mensa si aprissero e far finta che non ci fosse niente da dire. Un attimo dopo, invece, morì dalla voglia di sputare tutto, liberarsi e condividere con qualcun altro le sue impressioni. Aveva bisogno di qualcuno che fosse dalla sua parte.
« Pal, devo raccontarti una cosa»
« Immaginavo» rispose lui, garbato.
Tullia si vergognò immensamente. Significava che il suo atteggiamento guardingo e allarmato era palese. Angelo voleva solo farle capire che la capiva, ma Tullia si sentì comunque una grande sciocca a confessare:
« Ieri sera, beh, sono uscita con Cesare e Filippo. Volevano festeggiare per Antropologia Culturale. Siamo andati alla … come si chiama … quella che fa gli shot a un euro e loro si sono messi a bere un monte di roba, per tutta la sera. Quando siamo usciti, Filippo era ubriaco marcio e si è messo a rotolare per terra e a dire che mi ama. Una scena pietosa»
« Oh mamma» commentò Angelo, sommesso ma curioso di scoprirne di più.
« L'abbiamo riaccompagnato a casa. Poi Cesare ha accompagnato me»
« Ed eccoci qua. Immaginavo che sarebbe successo».
Tullia sbatté le palpebre:
« In che senso?»
« Pal, ti ho visto che lo guardavi, che ti piaceva. Ero pronto a scommettere che ti saresti fatta una galoppata sui suoi addominali, stile mountain bike, o cose così»
« Non è successo niente del genere!»
« Ops. Dimentica tutto. Allora che è successo?»
« Gli ho detto che era stato gentile, mi aveva difesa contro Filippo che sembrava un pazzo. Gli ho detto di salutarci e ci siamo abbracciati. E poi ci siamo baciati. E poi lui mi ha chiesto se poteva sbottonarmi …dio santo, gli ho urlato di no. Poi lui ha vomitato e ho capito che era ubriaco anche lui. Ci siamo incontrati poco fa. Mi ha detto … che ha fatto tutto solo perché era ubriaco. Gli ho detto se volevamo uscire o cose così. Lui ha detto di no, che non prova niente per me e che era solo una cosa da ubriachi».
Angelo parve ammutolito.
Guardò la gente sfilare davanti a loro, che si posizionava in fila per la mensa.
Infine prese la parola:
« È stato uno stronzo. Cazzo, mi dispiace, pal. Avrei voluto essere lì per aiutarti»
« Grazie, pal» fece Tullia, commossa: « mi ha detto che Rocco e Filippo sono davvero interessati a me».
Angelo fece spallucce:
« Filippo te l'ha già urlato … ehm … detto in abbondanza, no? E Rocco, anche lui è evidente»
« Non so che fare. A Rocco voglio troppo bene. Ho detto a Cesare che gli dica lui che a me non interessa. Dio santo, forse lo offenderà, forse Rocco non mi vorrà più bene»
« Rilassati. Senti, sai che facciamo? Ora si mangia, poi si va a prendere il caffè, ma non al Macchi. Si va al Filter, solo io e te. Si prende qualcosa e ridiamo un po'».
Così fecero.
Il Filter era un bar in via Santa Maria, poco fuori Palazzo Ricci. Era molto stiloso, frequentato da studenti in muta bohemien o hipster. I baristi erano pieni di tatuaggi, sorridenti ed efficienti. Il locale era piuttosto stretto per la quantità di gente che vi si riversava, ma la maggior parte prendeva il caffè da asporto.
« Vengono qui solo perché danno il contenitore take away come quelli americani» mormorò Angelo a Tullia, indicando l'ennesima ragazza con occhiali tondi e papala sugli occhi, che se ne andava con la sua bevanda calda.
Ordinarono un caffè americano e un milkshake. Angelo tirò fuori un quaderno e si mise a fare un disegno stilizzato. Quando lo mostrò a Tullia, per poco non le andò il milkshake di traverso.
Era un ridicolo ritratto di Cesare, messo alla gogna del paese. Tullia sedeva su un trono e brandiva uno scettro, gridando “mettetelo ai ceppi!”.
« Volevo rendere la tua posizione di Signora della corte»
« Io non sono la signora di una corte!»
« Si, invece. Anzi, no, tu sei … sei Esmeralda. Una zingarella che per nessun motivo si ritrova al centro di contese amorose che non la riguardano»
« Bello, mi piace Notre-Dame de Paris»
« Allora ricordati che alla fine, quella che muore è proprio Esmeralda. Lei non appartiene a quelle contese. Esmeralda vive solo se non si intreccia alle vicende amorose»
« Cioè … non dovrei innamorarmi?»
« Non dovresti innamorarti per finta».
E con queste criptiche e sagge parole, Angelo trasse un altro sorso dal suo altissimo caffè americano. Ne lasciò mezzo nel bicchiere, era troppo.
Tullia rimase sinceramente colpita da quell'analisi e se la sistemò in un minuscolo cassetto del cuore.

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Capitolo 18
*** XVIII ***


 
XVIII
 
Nei giorni che seguirono, Tullia si sentì molto strana. Aveva una storia da raccontare, le erano successe cose molto strane e aveva la costante sensazione di trovarsi su una nave in balia delle onde.
Si ritrovò a trascorrere molto tempo da sola, poiché erano tutti in sessione d'esame. Si recò al Macchi ogni mattina nella speranza di incontrare qualcuno dei suoi amici.
Storia della Chiesa e Storia Medievale I andarono bene. Tullia prese dei voti modesti, ma soddisfacenti.
Rocco non si fermò a prendere il caffè con lei dopo l'esame, perché ne aveva un altro il giorno dopo. Anna, invece, con cui Tullia condivideva Storia della Chiesa, le fece compagnia.
Mangiarono a mensa insieme e poi si fermarono nel giardino del dipartimento. Anna indossava degli occhiali da sole in stile punk, aveva i capelli chiarissimi spettinati e pieni di trecce casuali.
Tullia venerava quel disinteresse totale verso l'opinione altrui. Lei non era così forte.
Parlarono di Jedi e delle voci che annunciavano un nuovo film di Star Wars. Parlarono di Firenze – Anna veniva da lì – e di quanto fosse bella.
Gli altri erano proprio stupidi a defilarsi da Anna, pensò Tullia. Era la ragazza più interessante con cui avesse mai avuto a che fare.
La sessione durò qualche settimana.
Uno degli ultimi giorni, quando ormai Tullia aveva perso le speranze di incontrare i suoi amici al bar, apparve Friz. Era solo. Una specie di miracolo, pensò lei.
Subito sentì una scintilla viva nel petto: il sentimento di innocenza tradita, di essere stata usata, si risvegliò con forza e desiderò venir fuori.
La faccia avvinazzata di Cesare, che le diceva di essersi comportato in quel modo solo perché ubriaco, ricomparve nitida ai suoi occhi.
Quasi sperando di fare un dispetto a Cesare, di fargli un danno, Tullia decise di raccontare la vicenda a Friz.
« Friz!» lo salutò.
« Oh, ave madonna!» la salutò lui, togliendosi il cappello.
« Avevi un esame?»
« No. Ho preso un libro nella vostra biblioteca. Nel prossimo semestre mi tocca dare un esame di Storia. Che noia»
« Cosa hai scelto?»
« Farò Storia Contemporanea I. Lo so, lo so, niente stilnovo, niente crociate e cose così. Ma pare che il professore regali trenta e lode e io odio gli esami di storia».
Tullia lo prese a braccetto.
« Hai da fare? Oggi ti porto in un posto nuovo»
« Che ardire! È un rapimento?»
« Rapimento con sorpresa. Ho una storia da raccontarti. E stavolta ti prego davvero di essere muto come un pesce»
I baffi di Friz si arricciarono all'insù e gli occhi verdi, magnetici, vibrarono di gioia.
« Sarò la tua ombra. Dove andiamo?»
« Al Filter. Lontano dagli sguardi indiscreti del Macchi»
« Mi piace questo clima misterioso».
Tullia trascinò Friz fino al piccolo bar Filter. Ordinarono da bere e si sistemarono in uno degli angoli con due vecchie e comodissime poltrone dall'aspetto malridotto.
Tullia raccontò a Friz l'accaduto. Si sentì felice di quello che stava facendo. Cesare le aveva detto di non raccontarlo e lei invece lo stava facendo. Le pareva la giusta punizione per uno che l'aveva accarezzata e poi scaricata.
Friz divenne una statua, immobile, per tutto il racconto. Tullia non se l'aspettava, ma lui la lasciò finire.
Quando ebbe raccontato tutto e si aspettava un commento teatrale da parte dell'amico, lo trovò invece cupo, quasi arrabbiato.
« Non so di cosa ti lamenti» disse, livido.
Tullia, ferita, lo guardò con gli occhi spalancati.
« Il succo di questa storiellina è che hai baciato Cesare. Lui ti ha detto che non vuol stare con te. E allora? Bu huu, che tristezza. Come se per te non ci fossero altri uomini, là fuori. Tu l'hai baciato ed è una cosa che avrai per sempre».
Tullia rimase impressionata da quell'aggressione.
La sua lingua fu muta per alcuni buoni minuti, poi capì:
« A te piace Cesare?»
« Io sono fuori dalle vostre piccole dinamiche del cazzo: a lui piace lei, a lei piace lui, si sono baciati ma era solo per una sera, lui vuole lei ma lei lo lascia, eccetera eccetera. Quindi, mia cara Tullia, non so che dirti»
« Mi dispiace … non volevo offenderti»
« E allora, ogni tanto pensa. E scusa se io non cado ai tuoi piedi, non ti difendo sempre e non sono membro sostenitore del tuo fan club»
« Non … voglio un fan club».
Friz rimase in silenzio e bevve il suo tè ghiacciato come se fosse veleno.
Dopo una decina di minuti, il ragazzo dovette accorgersi di aver lasciato Tullia in stato di grande costernazione, infatti si tirò a sedere e si appoggiò allo schienale.
Sospirò:
« Cesare ce l'ha già raccontato».
Tullia sentì un nuovo fuoco di rabbia bruciarle in petto, ma si contenne, perché aveva appena ferito Friz e non voleva fare una scenata. Quel “ce l'ha raccontato” non le piacque per nulla.
« A … tutti?» chiese lei timidamente.
« Si, una di queste sere abbiamo cenato da Rocco, Filippo e Qedim. E ha raccontato. Ovviamente la sua versione è un po' diversa dalla tua, ma riesco a capire più o meno come siano andate le cose».
Si calò il cappello sugli occhi, forse per nasconderne il rossore. La sua voce però era tranquilla, molto diversa dai toni frizzanti del Friz che Tullia conosceva.
Tullia si turbò ancora di più. Cesare andava in giro sbandierando quello che era successo e aveva anche avuto il coraggio di dire a lei di non raccontare niente a nessuno. Lui l'aveva messa in cattiva luce con i suoi amici. Che comportamento perfido.
Davvero quel ragazzo bellissimo era così poco bello, in realtà?
Tullia mise un gran broncio: era stata di nuovo sconfitta, da sé stessa e dalla sua stupidaggine, dai suoi desideri insensati, dalla sciocca presunzione che aveva avuto nei confronti di Cesare. A lei non interessava, era un tizio qualunque. Uno che ora la screditava per farla apparire ancora meno di quel che era.
Tullia lanciò uno sguardo di sbieco a Friz: davvero a lui piaceva quel ragazzo? Friz si meritava di meglio.

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