Di ghiaccio e di oscurità

di yonoi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alla ricerca del passaggio a nord ovest. Il viaggio della Erebus e della Terror ***
Capitolo 2: *** La spedizione della volpe dell’Artico ***
Capitolo 3: *** La morte è un ragazzino con gli occhi a mandorla ***
Capitolo 4: *** 4. ***



Capitolo 1
*** Alla ricerca del passaggio a nord ovest. Il viaggio della Erebus e della Terror ***


Di ghiaccio e di oscurità
 
 
“Finora ignoravo che cosa fosse
il terrore: ormai lo so.
È come se una mano di ghiaccio
 si posasse sul cuore.
È come se il cuore palpitasse,
 fino a schiantarsi,
in un vuoto abisso”
(O. Wilde)
 
1. Alla ricerca del passaggio a nord ovest. Il viaggio della Erebus e della Terror
 

King William Island, arcipelago del Mar Glaciale Artico, mese di giugno 1848.
La testimonianza di Christian Fraser, bibliotecario a bordo della nave da esplorazione Her Majesty’s Terror.
 
Eravamo poco più di sessanta uomini dell’equipaggio, più otto ufficiali, quando arrivammo su quella spiaggia battuta dal vento, che al posto della sabbia aveva increspature di neve e di vento.
Ovunque, a perdita d’occhio, una distesa candida che diventava appena più lucente nel cielo, dove il sole era in equilibrio sull’orizzonte e anche nella notte emanava un tenue chiarore fosforescente.
Quello strano fenomeno l’avevamo osservato più volte, nel corso della navigazione: per circa due settimane, dalla metà di giugno fino ai primi di luglio, il sole non tramontava ma si posava sul pelo rosso dell’acqua.
Il cielo permaneva in un crepuscolo sanguinoso, che tornava a schiarirsi all’inizio del giorno: la luce riprendeva la sua consistenza gelida e le nuvole il bianco che ovunque ci circondava, imperturbabile e uguale. Sempre più insistente, si faceva strada l’idea che fosse proprio il bianco il colore del panico.
Anche durante la breve estate dell’Artico, appena un mese e mezzo di temperature diurne al di sopra dello zero, il sole non scaldava e appariva distante: un semplice riflesso che da altri continenti giungeva fino a noi, senza più forza né calore, né spirito.
Il buio dell’inverno, invece, era una morsa che stringeva le navi con scricchiolii sinistri, e una volta incagliate le spezzava per sfinimento.
Quando l’Ammiragliato del Regno Unito autorizzò i preparativi per una nuova spedizione alla ricerca del passaggio a nord ovest, due velieri da guerra erano stati attrezzati per far fronte alle insidie di un nemico imponderabile: in entrambi gli scafi, la prua era stata rinforzata con piastre di ferro adatte a vincere il ghiaccio, e un motore possente faceva da contraltare alle fragili vele montate su due alberi. Di ferro erano anche le eliche e i timoni, all’occorrenza in grado di riparare dentro ad appositi alloggiamenti.
I nomi delle navi risentivano del loro passato guerresco, dell’intento di infondere timore agli avversari: Terror come la forma più estrema di spavento, quella che paralizza e spoglia il corpo e la mente delle ultime forze; Erebus come l’oscurità della notte dei tempi, nata dal Caos primordiale, tenebrosa dimora dei morti.
Non sapevamo ancora, quando prendemmo il largo da Greenhithe sul Tamigi la mattina del 19 maggio 1845, che il nemico che eravamo destinati a incontrare non era soltanto il gelo, e che i morti eravamo noi, ancor prima di partire. Il nostro tentativo di varcare l’Atlantico e raggiungere le Indie, le terre delle spezie, della giungla e delle colonie, si smarrì in un labirinto che nessuna mappa era in grado di decifrare. Una volta salpati dall’ultimo avamposto in Groenlandia, dinanzi ai nostri occhi si aprì un mare insidioso, costellato da isole che parevano sorte dal nulla.
Alcune erano addirittura in movimento: gli speroni degli iceberg ci venivano incontro, scivolando sul pelo dell’acqua e celando vertiginose montagne sottomarine.
Le nostre mappe non tenevano conto della necessità di correggere continuamente la rotta per evitare quei blocchi che, nonostante la mole, fendevano le onde rapidi e inarrestabili.
  Avanzare di un miglio significava indietreggiare di almeno altri due per evitare gli iceberg, ma anche di incagliarsi nei ghiacci della banchisa: lastroni galleggianti che nello spazio di una notte riducevano lo spazio percorribile dalle navi a paludi cristalline e a tortuosi rigagnoli.
Quando infine la Terror, e a breve distanza l’Erebus, si arenarono al largo della King William Island, nell’arcipelago canadese, per più di un anno la spedizione rimase bloccata, essendo fallito qualsiasi tentativo di disincagliarci. Nella notte polare, mentre il carburante per il riscaldamento si esauriva rapidamente e il gelo cominciava ad annerire i nostri volti, ascoltavamo con inquietudine crescente i crepitii dello scafo e i cigolii dei telai che iniziavano a cedere all’assedio, alla terrificante pressione del pack: strati di acqua marina che gelavano in superficie e cominciavano a stringere con sempre maggior forza.
  Durante l’ultimo inverno, quelli che conservavano un residuo di forze s’impegnarono a lungo nel tentativo di disincastrare le navi, scavando nella neve che nel frattempo aveva depositato altri strati, e compattato altro ghiaccio. Ben presto ci accorgemmo dell’assurdità dell’impresa, perché quel che si riusciva a scavare a colpi di vanga e alla luce delle lanterne, fino a che il freddo non ci ricacciava sottocoperta, veniva cancellato da nuove nevicate.
Tormente colme di gemiti turbavano i nostri sonni. Parevano lamenti di anime senza pace, sbattute qua e là dal vento proprio come le nostre.
Per lungo tempo continuammo a scavare con la stessa perseveranza, più simile alla follia, e lo stesso frenetico andirivieni degli animali in gabbia: perché non riuscivamo a farci venire in mente un’altra soluzione, oppure solamente per non abbandonarci alla disperazione.
Di quei giorni io, Christian Fraser, aspirante scrittore nonché bibliotecario a bordo della Her Majesty’s Terror, riporto su questo scritto la memoria di ciò che accadde nel bene e nel male. Impegnandomi a dire il vero per rispetto dei tanti che non sopravvissero, e a beneficio di coloro che in futuro saranno inviati sulle tracce dei dispersi: per conoscere il nostro destino o, più semplicemente, per completare la mappa del passaggio a nord ovest.
Una volta esaurite le scorte di combustibile, quando ormai la Terror e l’Erebus iniziavano a inclinarsi e a mostrare i segni dell’imminente naufragio, riunimmo i due equipaggi.
Fu deciso l’abbandono dei due natanti e la rinuncia definitiva alla spedizione.
Il giorno 22 aprile 1848 ci mettemmo in cammino, con l’obiettivo di raggiungere l’estremità sud della King William Island e di là, attraverso uno stretto braccio di mare, l’estuario del Great Fish River nei territori del Canada. Attraversando le rapide del Great Fish River, contavamo di raggiungere Fort Resolution, avamposto della Compagnia della Baia di Hudson sul Grande Lago degli Schiavi, e ottenere un soccorso che, col passare dei giorni e ormai delle ore, si faceva sempre più urgente.
Nel nostro immaginario, ridotto al lumicino e incline alle visioni per via della fame, Fort Resolution era un luminoso e accogliente bivacco fornito di ogni sorta di cibo e di conforto: in realtà, l’avamposto era situato a centinaia di miglia nell’entroterra, e pensare di superare le cateratte del Great Fish River con le nostre scialuppe era pura follia.
Eppure, tra la follia dichiarata e attendere la morte nel ventre della Terror, ormai ridotto a una spelonca di oscurità sottozero, sapevamo di non avere altra scelta: già molti di noi giacevano assiderati nelle cuccette, trapassati nel sonno sotto a mucchi di stracci ricoperti di brina. 
Quei corpi così rigidi, che a portarli parevano assicelle di legno, appartenevano a ufficiali e a uomini della ciurma: a parte i diversi fregi dell’uniforme, tutti avevano gli occhi spalancati nel buio, e fini ricami di neve al posto delle ciglia. La stessa sorte toccò al nostro comandante, sir John Franklin, esperto navigatore ed esploratore dell’Artico: il suo funerale fu l’ultimo ad essere celebrato a bordo del relitto spettrale della Terror, le vele ormai irrigidite e spiegate in eterno, gli alberi ridotti a stalattiti di ghiaccio.
Sul ponte, accendemmo lanterne che ottennero l’unico effetto di rendere la nebbia più compatta e più gialla: sicché sul ponte ci si muoveva a tentoni, e stentavamo a riconosce le nostre facce allucinate dal riverbero. Dai locali sottocoperta provenivano le note di una pianola a rullo, che tra garbugli metallici e meccanismi inceppati faceva ruzzolare le note di un inno sacro.
Le parole del cappellano uscivano già congelate, e bisognava spezzarle e riscaldarle a lungo tra le mani e nelle orecchie per poterle sentire: nelle orecchie, che eravamo costretti a tenere sotto alle sciarpe per evitare che diventassero nere e poi si staccassero, arrivava soltanto un crepitio di aghi di ghiaccio, come un ronzio di mosche. Tra i bastioni di neve che stringevano la Terror, al punto che per scendere non erano più necessarie le passerelle, la bara di sir Franklin, coperta dalla bandiera, si trasformò in un tumulo per gli effetti di una bufera improvvisa, ancor prima che noi potessimo seppellirla.
 
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Fummo costretti ad attendere ancora un altro inverno, prima di abbandonare definitivamente la spedizione e affrontare il lungo tragitto che ci avrebbe condotti a Fort Resolution disponendo delle ore di luce necessarie.
All’inizio del mese di aprile 1848, agli ordini del comandante in seconda Francis Crozier, iniziammo a caricare sulle scialuppe tutto ciò che poteva tornare utile durante il nostro improbabile esodo tra i ghiacci: dapprincipio usammo un certo discernimento, considerando che sarebbe spettato a noi rimorchiare le scialuppe, e spingerle nella neve su slitte rudimentali.
Si cominciò ammassando le ultime provviste. Alla data della nostra partenza dall’Inghilterra, potevamo contare su scorte calcolate, a titolo precauzionale, per tre anni di viaggio: non contavamo di restare per mare così a lungo, ma per maggiore prudenza la cambusa della Her Majesty’s Terror e quella della Erebus stivarono in totale 8.000 scatolette di carne conservata, 1.000 libbre di uva passa e 58.000 galloni di sottaceti. In seguito, nel corso di una sosta a Disko Bay in Groenlandia, furono erano aggiunti ulteriori rifornimenti di carne fresca.
Nonostante ciò, al momento di approntare le scialuppe constatammo che i viveri scarseggiavano, e in realtà restava ben poco da portar via. Fu forse per questo che gli uomini cedettero all’impulso di ammucchiare freneticamente gli oggetti più disparati. Gli ufficiali ammassarono le uniformi di gala, più adatte alle sale da ballo che a una trasferta nell’Artico, servizi da tè in porcellana e posateria d’argento di loro proprietà o appartenuta a sir Franklin, come attestavano i monogrammi con le iniziali in rilevo. Su una delle scialuppe vidi con i miei occhi stivare addirittura quella pianola a rullo che aveva suonato alle esequie di sir John, col relativo corredo di rotoli forati per ascoltare la musica.
Probabilmente, lo scopo era servirsi di quelle zavorre in occasione di qualche scambio con i nativi: o forse si sentiva semplicemente il bisogno di salvare qualcosa della vita di prima, e fu per questo che anch’io cedetti all’impulso e nascosi sul fondo di una delle scialuppe alcuni libri rari, più qualcuno a cui ero particolarmente affezionato.
Meno sentimentali e dotati di maggior senso pratico, gli uomini dell’equipaggio ammassarono tutto ciò che poteva tornare utile durante il tragitto: qualsiasi stoffa adatta a ricavare delle coperte, dalle tende ai sacchi ormai da tempo svuotati dalle provviste; tutto ciò che era adatto a bruciare nei falò, dai tavoli alle assi smontate dallo scafo, e persino le cattedre di mogano lucidato sopra a cui gli ufficiali insegnavano a leggere e a scrivere ai marinai.
In breve, la Terror fu spogliata e ridotta a un simulacro ancor prima di inabissarsi definitivamente.
A beneficio di coloro che fossero giunti in quei luoghi, inviati in nostro soccorso, il capitano Crozier lasciò un resoconto dei fatti degli ultimi tempi, indicando la data della nostra partenza e l’intenzione di dirigerci verso il Great Fish River procedendo lungo la costa.
Il messaggio del capitano fu posto sotto a un cairn, una di quelle strane piramidi di pietre che molto spesso si incontrano sulla King William Island. Secondo alcuni si tratta di idoli dei nativi, ma più probabilmente fungono da segnali per orientarsi in quel deserto di ghiaccio.
Custodito in un cofanetto e segnalato da una delle nostre bandiere sulla cima del cairn, il messaggio di Crozier correva lungo i margini di una pagina strappata dal diario di bordo. Il suo contenuto contrastava apertamente con quanto annotato sul medesimo foglio, con una calligrafia larga e tranquilla, meno di un anno prima.
In data 28 maggio 1847, si leggeva infatti che le navi Sua Maestà Erebus e Terror avevano svernato sulla costa nord occidentale della King William Island, dopo avere trascorso l’inverno precedente sull’isola di Beechey, più a settentrione. La nota terminava con un tono rassicurante: “Sir Frankin comanda la spedizione. Tutto bene”.
Le parole “all well” erano state addirittura sottolineate.
Di tutt’altro tenore era invece l’appunto del capitano Crozier: da mesi ormai le navi erano intrappolate dai ghiacci, e l’equipaggio aveva decretato il loro abbandono il giorno 22 aprile 1848.
A quella data, ventiquattro uomini di cui nove ufficiali e quindici membri dell’equipaggio, risultavano ufficialmente deceduti. Lo stesso John Franklin era morto il giorno 11 giugno 1847, appena due settimane dopo la stesura del primo bollettino. Crozier aveva quindi assunto il comando, e i sopravvissuti si erano risolti a partire quella stessa mattina del 22 aprile, diretti verso il Great Fish River.
 
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Aprile era solo un’illusione di primavera. Le ore di luce si allungavano, ma il ghiaccio manteneva intatta la sua presa su quelle terre remote.
Atterriti all’idea di smarrirci nell’entroterra ci mettemmo in cammino lungo il tratto costiero, seguendo un ipotetico e frastagliato percorso delineato su mappe che, in alcuni punti, non erano solo imprecise ma completamente errate.
Quando calava la notte montavamo le tende. Osservando le costellazioni fredde del cielo, ben più affidabili delle carte se non c’era la nebbia, cercavamo di capire dove ci trovavamo. In breve, ci rendemmo conto che durante un’intera giornata di cammino riuscivamo a coprire soltanto poche miglia. Per raggiungere il luminoso e accogliente bivacco di Fort Resolution occorreva percorrerne parecchie centinaia, sicché a quel punto il nostro morale crollò.
Trainare le scialuppe, su slitte rudimentali e per di più appesantite dal carico, si rivelò un’impresa al di là delle nostre forze.
Di lì a poco, quando le slitte cedettero alle asperità del terreno, all’attrito della neve e all’estenuazione delle salite, fummo costretti a trascinare le scialuppe a forza di braccia: alcuni di noi al giogo con corde rudimentali, altri a spingere dietro, a far forza per liberarle dai cumuli in cui finivano puntualmente per incagliarsi.
Aprile non risparmiava le bufere improvvise, che gelavano le lacrime e impedivano di tenere gli occhi aperti, perché i fiocchi di neve li foravano come proiettili: le schiene dei compagni che avanzavano chine diventavano allora l’unico punto di riferimento, e chi rimaneva indietro in breve si smarriva, cancellato dal bianco della terra e del cielo.
Anche nei giorni in cui il cielo era sereno, una lastra d’azzurro placido e indifferente sopra alle nostre teste, c’era sempre qualcuno che a un certo punto si rifiutava di proseguire. Li riconoscevi subito, i candidati alla morte del giorno, perché il loro sguardo si faceva distante e assumeva quella consistenza vitrea che è propria dei morti.
Di lì a poco, inevitabilmente, si fermavano. A parte quelli che cadevano e non riuscivano più a rialzarsi - e noi eravamo troppo sfiniti per aiutarli - i più si limitavano a rompere le righe e a mettersi da parte: le braccia lunghe sui fianchi e le forze ormai esaurite, restavano ad osservare con i loro occhi vacui quell’assurda carovana di uomini e di barche che sfilava nella neve.
Rimanevano là fino a che la colonna svaniva nella nebbia e anche noi, a quel punto, non li vedevamo più.
Così andò perduta la maggior parte dei componenti della nostra spedizione, senza che quasi ce ne accorgessimo, in silenzio e senza rumore: cancellati semplicemente dai mulinelli di una tormenta, scomparsi dietro al dorso di una collina di neve fresca, piantati senza riuscire a muovere più i piedi. Come se il ghiaccio a un tratto avesse cacciato fuori le sue grinfie e li avesse afferrati senza lasciarli più andare.
Dopo oltre un mese di viaggio, arrivammo all’estremo sud di quell’isola di fame e di sgomento, ormai ridotti a un equipaggio dimezzato: circa sessanta uomini e otto ufficiali, da più di cento che eravamo alla partenza, al traino di una sola scialuppa malconcia.
Di fronte a noi quel braccio di mare cinereo, che affiorava in pozzanghere tra i lastroni della banchisa: rari uccelli marini si posavano su quegli isolotti trasparenti, senz’altro segno di vita.
Al di là dello stretto, segnato sulla carta col nome di Simpson Sound, l’estuario del Great Fish River avrebbe sicuramente mostrato uno spettacolo altrettanto deprimente: acqua e terra fradicia, imbevuta dalla salsedine e dalla desolazione. Eppure ai nostri occhi, trasfigurati da una speranza ch’era poco più di un miraggio, il Great Fish River somigliava al Tamigi e scorreva tra i prati verdi della primavera inglese: ci pareva addirittura d’intravedere le luci di Fort Resolution scintillare da lontano, e l’odore del pudding arrivare sin qua.
Durante tutta la notte il sole rimase fisso sull’orizzonte, quasi affiorando sul pelo dell’acqua.
Accovacciati l’uno contro l’altro nelle tende, con addosso ogni straccio che potevamo trovare, avevamo l’impressione che quel sole di ghiaccio ci stesse scaldando: alcuni di noi sognarono con tale intensità le colline dell’Inghilterra e della Scozia, le costiere del Galles, le brughiere d’Irlanda, che il mattino seguente altri cinque marinai non si destarono più.
 
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Quella notte, nella tenda del comando ebbe ulteriore seguito una disputa che già negli ultimi giorni si era accesa tra il capitano Crozier, il comandante in seconda tenente Richard Colby, e gli ufficiali che tenevano le parti dell’uno o dell’altro.
La questione riguardava il passaggio dello stretto, e l’ulteriore prosecuzione lungo il corso del Great Fish River. Durante il cammino avevamo perso praticamente tutte le scialuppe: alcune erano rimaste incagliate, e il gelo della notte le aveva saldate così fortemente che non c’era stato verso di smuoverle. Altre le avevamo abbandonate di proposito, per eccesso di sfinimento, dopo che si erano capovolte in cima a un crinale precipitando a valle. Molte di più erano servite come legna da ardere, e ora contavamo una sola imbarcazione in grado di portare al massimo quaranta uomini, oltre al peso del carico.
Per questo, il tenente Colby proponeva che il superamento dello stretto fosse effettuato dai soli ufficiali, che una volta giunti a Fort Resolution avrebbero allertato i soccorsi per il recupero del resto dell’equipaggio.
“L’avamposto dista da qui più di seicento miglia. Prima che voi possiate raggiungerlo, tutti gli uomini saranno morti, se verranno abbandonati su questa spiaggia. Né è escluso che sarete voi a morire prima di loro, perché ciò che ci attende al di là del Simpson Sound non è dato saperlo.”
Il capitano Crozier era del parere che, comunque andassero le cose, dovevamo restare uniti:
“Tutt’al più, potremmo varcare lo stretto in due gruppi distinti: una volta che il primo avrà raggiunto la terraferma, qualcuno tornerà indietro a recuperare gli altri. Me ne incaricherò io stesso insieme a voi, tenente Colby.”
“Con questo sistema, moriremo tutti di certo.”
“Vi ricordo, tenente, che il primo dovere di un ufficiale è tutelare i propri uomini. Questo non ve l’hanno insegnato al Royal Naval College?”
Il tenente Colby era il tipico prodotto delle accademie frequentate dagli aristocratici: evidentemente convinto che la sua vita valesse più di quella dell’intero equipaggio.
Diffidavo di lui: il suo sguardo vacuo mi aveva sempre messo a disagio. Tra i marinai girava voce che fosse una mente distorta, non un esploratore ma un avventuriero senza nessuno scrupolo e, come se non bastasse, senza nessuna esperienza dell’Artico: ed è chiaro che tutte queste cose messe assieme non lasciavano presagire nulla di buono.
Nessuno accettava di buon grado di avere a che fare con lui: sprezzante verso la ciurma, specialista nell’impartire ordini insensati - era stato lui a far caricare la pianola su una scialuppa, per allietare le sue serate a suon di musica - era anche stupidamente feroce nei confronti degli indigeni.   
I nativi del luogo, gli inuit, sulla neve non camminano ma scivolano rapidi e leggeri sulle loro slitte. Questi piccoli uomini coperti di pellicce e dagli occhi ridotti a fessure per resistere alle intemperie, li abbiamo incontrati spesso, lungo il nostro tragitto: all’inizio sostavano sbigottiti e un po’ incerti, assistendo al passaggio della nostra carovana, allo strano spettacolo di fantasmi che spingevano scialuppe in un mare di neve.
A metà circa del viaggio, quando le nostre file si erano già assottigliate, alcuni inuit arrivarono fino a noi scaricando dalle slitte involti di cibo: carne e pesce essiccato, addirittura volatili lasciati a macerare dentro a pelli cucite e coperte di grasso, che emanavano un fetore pestilenziale.
Fu il tenente Colby a dire che quel popolo di elfi minuti, dallo sguardo enigmatico e i sorrisi affilati, volevano in realtà catturarci e usare noi come cibo. Insieme ad altri ufficiali, e prima che Crozier potesse intervenire, diede mano al fucile e cominciò a sparare. 
Per effetto del gelo, dell’incuria e di ben altre preoccupazioni, da mesi le nostre armi non erano più in grado di esplodere un solo colpo. Solo il fucile di Colby era sempre ingrassato e carico: sicché due inuit, un anziano e un ragazzo, caddero a faccia in giù in un boato di colpi che rimbombò per tutta l’isola, rompendo il silenzio dei ghiacci.
Quando l’eco si affievolì, restò il lamento che una donna riversava a capo chino sulle grosse manopole foderate di pelo: fine come il rumore di un cristallo infranto, durò solo un istante prima che gli altri inuit la conducessero via, e subentrassero i passi pesanti e le urla di Crozier.
Fu allora che iniziarono i primi feroci alterchi tra il capitano e il suo secondo, e fu allora che il gruppo degli ufficiali si spaccò in due: chi sosteneva Crozier, e chi invece era ormai impazzito a sufficienza per tenere la parte di Colby.
Quanto a noi, non appena quelle pacifiche creature si allontanarono, subito ci gettammo sulle loro provviste: divorammo persino i cibi più ripugnanti e addirittura la pelle di foca in cui erano ammassate quelle centinaia di uccelletti, crudi e lasciati a rammollire nel grasso.
Secondo alcuni più esperti dello strano mondo di qui, quella strana pietanza si chiamerebbe kiviak: sarebbe la quintessenza della cucina inuit, richiede un lungo tempo di preparazione e si offre soltanto alle persone importanti.
  Sicché i piccoli elfi intendevano probabilmente onorarci con le loro offerte, ma una cosa è certa: non li incontrammo più. Anche se talvolta il nostro cammino sempre più stanco e dimezzato finì per incrociare qualche gruppo di nativi, li vedemmo fuggire lanciando in velocità quella strana razza di cani, simili a lupi dagli occhi azzurri, che gli inuit allevano per trainare le loro slitte.
 
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Alla data di oggi, 3 giugno 1848, io Christian Fraser termino la prima parte del mio resoconto mentre la spedizione - o meglio, ciò che ne resta - si prepara a varcare lo stretto di Simpson con l’unica imbarcazione a nostra disposizione: secondo gli ordini impartiti da Crozier, un primo gruppo di ufficiali e marinai partirà oggi stesso insieme a parte del carico. Una volta raggiunta la terraferma, il capitano tornerà qui a riprenderci. Sarà questione di poco, un giorno o due al massimo: in questa stagione il sole non tramonta per diverse settimane, il che rende possibile mettersi in viaggio nelle ore più improbabili.
Il tenente Colby è stato tra i primi a imbarcarsi.
Evidentemente, Crozier preferisce tenerlo d’occhio.
A mio parere, invece, sarebbe stato più prudente lasciarlo sull’isola, ad attendere insieme a noi il ritorno della scialuppa. Ho un brutto presentimento, e il silenzio che ora avvolge l’accampamento non fa che accentuarlo. I compagni sostengono che non dovrei preoccuparmi, che Crozier sa il fatto suo, che sono un bibliotecario e quindi cosa posso saperne di come si conduce una spedizione nell’Artico. In fondo, non sono meno inutile della pianola di Colby, che questa sera stessa ci fornirà il giusto tributo di legna da ardere, a compenso della fatica per averla trascinata fin qui.
Ma forse proprio perché sono un uomo di lettere, un amante dei libri, conosco profondamente la realtà dell’animo umano. Non esito quindi a lasciare in questo scritto traccia e testimonianza delle vicende occorse fin qui, e financo dei miei sospetti: affinché possano servire per ristabilire la verità degli eventi nel caso in cui di noi, per disgrazia o per altra ingiuria del destino, non resti traccia alcuna.
 
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Sede dell’Ammiragliato britannico, mese di gennaio 1856
 
Percorrendo per l’ennesima volta, avanti e indietro, il lungo corridoio rivestito di tappezzerie e pesanti cornici dorate, Lady Jane Franklin si rese conto che a forza di sfilarli e infilarli di nuovo, i morbidi guanti in pelle avevano ceduto in più punti. Due dita piccole e bianche facevano capolino dalle cuciture saltate.
Nascose i guanti nella borsetta, e a dispetto delle indicazioni ricevute da chi l’aveva condotta in quell’anticamera felpata, si diresse decisa verso una porta di legno scuro: massiccia a sufficienza per non lasciar sfuggire, all’esterno, neanche un sussurro.
Si fece strada fino all’immensa scrivania che campeggiava in fondo a una passatoia di tappeti pregiati, e colse di sorpresa Lord Alistear Wood, Secondo Segretario dell’Ammiragliato, mentre era assorbito nel rituale di caricare la pipa. L’odore del tabacco ricordò a Lady Jane le serate trascorse davanti al caminetto in compagnia del marito: sir John Franklin risultava disperso in mare da più di dieci anni, ed era stato dichiarato ufficialmente morto al servizio di Sua Maestà, insieme al resto dell’equipaggio, alla data convenzionalmente stabilita del 13 marzo 1854. 
“Salute a voi, Lady Franklin”, sospirò Lord Wood, già sapendo che il colloquio sarebbe stato difficile, e avrebbe richiesto nervi saldi e perfetto aplomb. “Mi stavo giusto preparando a ricevervi.”
Come di consueto, Lady Jane era intenzionata a saltare a piè pari tutti i preamboli, e a venire subito al dunque. Recuperò dalla borsetta i guanti sdruciti, per il bisogno istintivo di stringere qualcosa. O forse per non cedere alla tentazione improvvisa di acchiappare per il bavero l’ineffabile Lord. 
Ma il Secondo Segretario, stavolta, la prevenne:
“So bene perché siete qui, Lady Franklin. Permettetemi solo di farvi notare che in questi anni l’Ammiragliato non è rimasto indifferente alle vostre richieste, e tanto meno ai propri doveri. Abbiamo organizzato ben quattro spedizioni di ricerca dei superstiti, e alla luce delle informazioni raccolte, peraltro note anche a voi, l’Ammiragliato ritiene ormai acquisita la certezza in merito all’infelice compimento della vicenda.”
Malgrado il suo aspetto da signora dell’alta società, del genere che amava dedicarsi al ricamo e allo studio di sonate al pianoforte da eseguire all’ora del tè, Lady Franklin era un’appassionata viaggiatrice: nella sua giovinezza aveva percorso quasi tutta l’Europa al seguito dei viaggi d’affari di suo padre, produttore di seta; il suo instancabile desiderio di conoscenza l’aveva condotta nelle terre dell’Asia, nel Nord America ancora in parte inesplorato, nelle steppe dell’Australia e della Nuova Zelanda.
Alle Hawaii s’era calata nella bocca di un cratere, e quando sir John Franklin era stato nominato governatore della Terra di van Diemen, all’altro capo al mondo, non aveva esitato a seguirlo e a inaugurare una nuova stagione di attivismo e filantropia.
Nella Terra di van Diemen, ultimo avamposto tra la civiltà e l’inferno delle colonie penali, Lady Franklin aveva cavato fuori dal vulcano sempre in attività della sua testa così tante iniziative da perderne il conto: aveva aperto scuole, un presidio sanitario per gli aborigeni, si era interessata alle condizioni dei deportati. Per liberare l’isola dal flagello dei serpenti, aveva offerto uno scellino per ogni testa di vipera che le venisse recapitata a domicilio.
Tra lo sconcerto dei coloni e l’ironia della stampa locale, alla quale Lady Franklin fece sempre spallucce dimostrando un’autonomia che neppure il marito possedeva fino a quel punto, aveva fornito ago e filo alle donne detenute, e s’era inventata un commercio di trapunte.
A quanto pareva, le trapunte continuavano non solo a fruttare bene, ma erano diventate l’articolo da esportazione per eccellenza, famose in Australia e in tutto il Regno Unito.
Indubbiamente John Franklin condivideva la stessa malsana inclinazione di Lady Jane per le imprese epocali: non si spiegava altrimenti perché a sessant’anni, dopo avere condotto numerose spedizioni nell’Artico, invece di infilare le pantofole accanto al camino avesse acconsentito a mettersi nuovamente per mare.
Dal tempo in cui la Erebus e la Terror erano letteralmente svanite nel nulla, ingoiate dalla nebbia, dai ghiacci e da chissà che altro, Lady Jane aveva praticamente piantato le tende all’Ammiragliato: stringendolo d’assedio col supporto della stampa, di una quantità di associazioni nautiche e di beneficienza, della Chiesa e probabilmente del diavolo in persona.
Non da ultimo, era diventata l’incubo personale di Lord Alistear Wood, che ora si trovava a doverla ascoltare per l’ennesima volta. La comoda poltrona su cui il Secondo Segretario stava seduto di punta, cominciava sempre più ad assomigliare a uno strumento di tortura: una sorta di puntaspilli, un sedile pieno di lame che trafiggevano a Lord Wood la pazienza, la spina dorsale e tutti gli argomenti a sua disposizione.
Quella mattina in particolare, in barba al suo aspetto da tranquilla vecchietta, Lady Jane era più combattiva che mai:   
“A quanto mi risulta, solamente tre membri dell’equipaggio risultano ad oggi effettivamente deceduti. Mi riferisco alle tre sepolture ritrovate dai vostri esploratori sull’isola di Beechey. Per quanto riguarda il resto della spedizione, sapete bene che gli abitanti del posto hanno riferito alla Compagnia della Baia di Hudson di aver incontrato una colonna di uomini in movimento lungo la costa della King William Island, e in seguito alla foce del Great Fish River.”
Lord Alistear Wood sospirò. Tirò una lunga boccata dalla sua pipa, prima di provare a rispondere.
“Le notizie riportate dalla Compagnia della Baia di Hudson risalgono all’anno passato, e più precisamente parlano di un gruppo di bianchi che secondo gli indigeni sarebbe morto di stenti lungo il Great Fish River. Voi sapete che le successive ricerche effettuate sulla base di questi indizi non hanno dato alcun riscontro. Il più recente rapporto a nostra disposizione, inviato da sir John Rae per conto della Compagnia, non fa che confermare le ipotesi sulla morte dell’intero equipaggio, dovuta al freddo e alla mancanza di mezzi.”
Sir Wood evitò di aggiungere gli inquietanti particolari letti nel resoconto trasmesso da John Rae, sulla base di informazioni acquisite presso gli inuit di Pelly Bay, in Canada.
Oltre ad aver acquistato dai nativi diversi oggetti - cucchiai e forchette d’argento - che in seguito e risalendo ai monogrammi incisi risultarono effettivamente appartenuti a John Franklin e ad altri ufficiali, Rae si era spinto oltre: aveva visitato il luogo in cui gli ultimi membri della spedizione si erano presumibilmente accampati, lungo il corso del Great Fish River.
Ciò che aveva trovato, e dettagliatamente descritto nel suo rapporto, erano i resti di numerosi cadaveri smembrati in una maniera che non lasciava adito a dubbi: “dalle mutilazioni di molti di quei corpi, e dal contenuto di una marmitta trovata sul luogo”, concludeva John Rae, con gli opportuni giri di parole “appare evidente che i nostri infelici connazionali sono stati spinti a fare ricorso alle risorse più estreme.”
 Nel tentativo di evitare che una simile notizia diventasse di dominio pubblico, gettando il discredito sulla Marina, l’Ammiragliato versò prontamente a John Rae la favolosa somma di diecimila sterline per comprare il suo silenzio, auspicando che l’intera vicenda fosse dimenticata.
Ma non aveva fatto i conti con la tenacia di Lady Jane:
“Se non è vostra intenzione, come mi pare, promuovere altre ricerche, provvederò io stessa a organizzare una spedizione. Sono venuta apposta per informarvi al riguardo.”   
Il fair play di Lord Wood venne decisamente meno: non sapeva se ridere di quell’anziana signora oppure se era il caso, conoscendo Lady Franklin, di preoccuparsi sul serio.
Quella donna aveva acquisito un peso notevole presso la stampa e l’opinione pubblica: sin dall’inizio era stata lei a mettere sotto pressione l’Ammiragliato, e grazie alle sue insistenze nell’arco di dieci anni erano state organizzate quattro missioni ufficiali di soccorso, per il costo complessivo di migliaia di sterline.
La vicenda di Lady Franklin aveva acquisito uno spessore romantico nell’immaginario della gente comune, al punto che in suo onore era stata composta persino una canzone, “Il lamento di Lady Franklin”: la cantavano per le strade, nelle taverne dei porti, la strimpellavano al piano persino nei salotti.
“Nel mare di Baffin / è il fato di Franklin che nessuno conosce / diecimila sterline vorrei dare / per saper che il mio uomo vivere ancora. / Per ricondurlo in una terra amica / dove una volta ancor sarei sua sposa, darei tutti i tesori che possiedo / ma temo ahimè che morte l’abbia preso”.
“E ditemi, di grazia”, s’informò a quel punto il Segretario, recuperando il suo aplomb con un autocontrollo a dir poco stupefacente, “come intendete mettere in piedi questa vostra iniziativa così personale?”
Lady Jane non si scompose:
“Ho già avviato una pubblica sottoscrizione per l’acquisto di una nave sufficientemente robusta e attrezzata. Non temete, Lord Wood: non ho alcuna intenzione di pesare ulteriormente sulle casse dell’Ammiragliato.”
“Non troverete nessuno disposto ad imbarcarsi, se mi concedete il gioco di parole, in un’impresa tanto folle” osservò Wood, indispettito. Nuovamente, il suo aplomb iniziava a vacillare: “sono trascorsi più di dieci anni dalla partenza della Erebus e della Terror, e non vi è alcun sensato motivo di ritenere che uno solo dei membri dell’equipaggio sia ancora in vita. Non tra i ghiacci dell’Artico.”
“C’è un tempo per arrendersi, un tempo per rassegnarsi, persino un tempo per piangere” osservò Lady Franklin, ricacciando i guanti sul fondo alla borsetta e percorrendo a ritroso la lunga passatoia di tappeti preziosi. “Per quel che mi riguarda, e finché resterò al mondo, quel tempo deve ancora venire.”
 

 

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Capitolo 2
*** La spedizione della volpe dell’Artico ***


 
“Che cosa bizzarra la vita - questo misterioso congegnarsi
di implacabile logica in vista di uno scopo tanto futile.
Il più che se possa sperare è una certa qual conoscenza di se stessi
 - che giunge troppo tardi - e una messe di inestinguibili rimpianti”
(Joseph Conrad, “Cuore di tenebra”)
 

2. La spedizione della volpe dell’Artico

 
Acquistato tramite a una pubblica sottoscrizione che raccolse contributi persino dalla Terra di van Diemen, dove le lavoratrici del bagno penale organizzarono una colletta con i proventi delle trapunte, lo schooner a vapore Fox, di lì a poco ribattezzato la volpe dell’Artico, salpò dal porto di Aberdeen la mattina del 2 luglio 1857.
Al comando della spedizione accettò di partire sir Francis Leopold McClintock, insieme a venticinque uomini della ciurma, tra cui un piccolo gruppo di volontari.
Tra questi, il fratello minore di un certo John Torrington, anonimo fuochista a bordo della Her Majesty’s Terror nonché uno dei pochi membri dell’equipaggio la cui morte risultava sicuramente accertata. Durante una delle prime spedizioni di ricerca, la sua tomba assieme a quella di altri due marinai era stata rinvenuta sulla spiaggia di ghiaia, vento e desolazione dell’isola di Beechey: un granello di terra ancorato ai ghiacci della banchisa e completamente disabitato.
La lapide posta sopra alla sepoltura lo identificava senza ombra di dubbio, e faceva risalire la data del decesso al primo gennaio 1846: appena sette mesi dopo la partenza dell’Erebus e della Terror dall’Inghilterra.
Di professione necroforo nella città di Manchester, senza nessuna esperienza di navigazione ed anzi soggetto a crisi angoscianti di mal di mare, il sedicenne Henry Torrington aveva insistito per imbarcarsi, con l’intenzione non solo di vedere coi propri occhi la tomba del fratello, ma di procedere a una riesumazione in piena regola.
“John aveva vent’anni, godeva di ottima salute e non c’è alcun motivo che possa spiegare perché sia morto praticamente all’inizio del viaggio.”
Sir Francis McClintock spiegò i nervi e le carte sopra alla scrivania dell’ufficio di reclutamento, installato per l’occasione nel salotto di casa Franklin. Per carattere, non era particolarmente incline alla pazienza, specie quando si trattava di avere a che fare con gente del tutto a digiuno delle cose del mare.
“Trascorrere un inverno nell’Artico non è come aprire l’ombrello a Manchester perché nevica.” Tra due pile di carte annotate da una calligrafia aguzza e meticolosa, il suo sguardo era severo. “Tutti i viaggi di esplorazione comportano dei rischi, e quasi mai l’equipaggio rientra in patria al completo.”
Il ragazzo, un biondino esile che stropicciava tra le mani una fotografia che lo ritraeva identico al fratello, giocò quella che riteneva la sua carta vincente:
“Nostra madre non può venire fino a Beechey per visitare la tomba di John. È mia ferma intenzione di riportarlo a Manchester, a costo di scavare la fossa con le mie mani.”
A quel punto, McClintock aveva perso le staffe:
“Questo è esattamente ciò che farete, Torrington. Se non sbaglio, è il vostro lavoro. Portatevi pure la vanga e preparatevi a spuntarla contro almeno cinque piedi di terreno ghiacciato. Sarà come scavare nel ferro, ma se è questo ciò che desiderate, vi dò il benvenuto a bordo.”
A quanto pareva, la spedizione organizzata da Lady Franklin pareva fatta apposta per attirare tutti coloro che avevano ancora qualche conto in sospeso con i dispersi.
Insieme al giovane Torrington, perorò la sua causa e ottenne l’autorizzazione all’imbarco anche il colonnello in pensione Edward Marlowe, cognato del tenente Richard Colby: sopravvissuto a quattro attacchi cardiaci, oltre a un numero imponderabile di missioni di guerra ai quattro punti del globo, come esperienza di mare vantava la partecipazione, a quattordici anni e in qualità di mozzo, alla battaglia di Trafalgar contro Napoleone.
Anche in questo caso, McClintock aveva tentato di dissuadere l’anziano e rispettabile volontario:
“L’Artico è l’ultimo posto sulla faccia della terra dove un infartuato può sperare di cavarsela.”      
“Mia sorella sta morendo di crepacuore. Non riesce a darsi pace, e io mi sto consumando nel vederla così. Crepare a Londra o tra i ghiacci, per me non fa davvero nessuna differenza.”
Il vecchio colonnello aveva mostrato a McClintock l’ultimo biglietto inviato da Colby alla moglie: poche righe scritte durante l’ultima sosta effettuata da Franklin prima di inoltrarsi alla ricerca del passaggio a nord ovest.
La baia di Disko, in Groenlandia, segnava il limite delle rotte conosciute nei mari del nord: a Disko, prima di avventurarsi tra i ghiacci dove tutto poteva esserci fuorché un ufficio postale, i marinai o chi per loro avevano scritto a casa. Le lettere erano state consegnate alla nave militare Her Majesty’s Rattler, che insieme al mercantile Baretto Junior avevano scortato la Erebus e la Terror fino al punto d’avvio della spedizione vera e propria.
Fosse il frutto di qualche sinistra premonizione, o di chissà quali intenzioni recondite, il messaggio di Colby alla moglie era decisamente inquietante: “Non tornerò più, non cercarmi. Dimenticami, come io ti ho già dimenticato.”
Di fronte al colonnello, e soprattutto a quello scritto sibillino, sir Francis McClintock si era limitato a osservare:
“Voi rischiate la vita per qualcuno che aveva già deciso di far perdere le proprie tracce.”
“Devo scoprire cos’è accaduto. Non devono esserci ombre nella nostra famiglia”.  
Tra i volontari, gli unici potenzialmente in grado di rendersi utili erano due ufficiali già imbarcati a suo tempo sulla Her Majesty’s Erebus: proprio in occasione della sosta a Disko Bay erano stati rimpatriati a bordo della Rattler, in quanto già malati.
“La polmonite,” asserivano a colpo sicuro, “ha ucciso quei tre disgraziati sull’isola di Beechey, e forse anche tutti gli altri.”
Gli anziani graduati erano stati al seguito di Lady Franklin ancora ai tempi dei suoi viaggi intorno al mondo: erano sopravvissuti a tempeste implacabili nello stretto di Messina, ad almeno un naufragio al largo di Gibilterra, ad assalti di pirateria a Giava, allo scorbuto nell’Oceano Indiano, ai cannibali in Melanesia. Si erano imbarcati a bordo della Erebus per ragioni di fedeltà, dopo avere promesso a Lady Franklin di ricondurre il capitano in patria con la fama e gli onori del caso, ove si fosse scoperto il fantomatico passaggio, ma soprattutto di riportarlo vivo e vegeto.
Di fronte alla polmonite che per poco non li aveva spacciati al primo impatto col gelo della Groenlandia, si erano arresi al disonore della promessa mancata: ma in sconto a quella mancanza si erano proposti per tutte le successive missioni, finendo per essere puntualmente scartati.
“Avete avuto la fortuna di scamparla una volta”, aveva commentato McClintock, inesorabile. “E adesso, a cinquant’anni, volete sotterrarvi con le vostre stesse mani.”
Tuttavia, e a differenza di tutti i suoi predecessori, sir Francis accettò di buon grado la presenza dei due ufficiali sulla Fox.
Il motivo di quell’inspiegabile simpatia non era da attribuirsi tanto alle informazioni che i due avrebbero potuto fornire, quanto al fatto che lo stesso McClintock si sentiva vincolato da un patto di ferro nei confronti di Lady Franklin.
 “Sul mio onore,” le aveva garantito prima della partenza “non credo di potervi restituire vostro marito. Ma di sicuro non intendo tornare prima di aver acquisito prove certe in merito alla sua scomparsa, e su come in realtà siano andate le cose.”
Con quel patto, McClintock intendeva riscattarsi del fallimento di una precedente missione, l’ultima finanziata dall’Ammiragliato inglese alla ricerca di Franklin. In quell’occasione, non solo s’era smarrito lungo rotte illusorie, probabilmente mai percorse dalla Erebus e dalla Terror. Al largo di Terranova la nave affidata al suo comando, la Her Majesty’s Resolute, era entrata in collisione con un iceberg: quindici uomini erano morti prima che gli scampati, semiassiderati a bordo delle scialuppe, fossero tratti in salvo da una baleniera di passaggio.
Il relitto della Resolute era stato recuperato dalla Marina statunitense, riarmato e di seguito restituito all’Inghilterra: a titolo di cortesia, e auspicando che il Regno Unito contribuisse alle spese per le ulteriore ricerche che la U.S. Navy aveva in programma di effettuare sulle tracce di Franklin.
Ma il Regno Unito era deciso a chiudere la faccenda una volta per tutte: “Vi è ragione di credere che l’intero equipaggio della Erebus e della Terror sia perito al servizio di Sua Maestà”, aveva sancito l’Ammiragliato, che era appena entrato in possesso del resoconto di Rae e riteneva più conveniente non indagare oltre.[1]
Dal canto suo, McClintock avvertiva su di sé tutto il peso del fallimento: i fantasmi dei marinai annegati sotto al suo comando non cessavano di perseguitarlo, presentandosi a batter cassa alla sua coscienza a ogni calar del sole.
Alle larve nutrite dal rimorso di ogni giorno, si univano gli spettri - ben più numerosi - della spedizione Franklin, ormai perduta per sempre.
Nel suo tormento interiore, sir Francis non aveva dubbi: a causa del suo smacco, che imputava a un colpo di sfortuna epocale, le ricerche dei dispersi erano state sospese definitivamente.
Ammesso che ci fossero ancora delle speranze di ritrovare qualche sopravvissuto, magari presso qualche remoto villaggio inuit, queste erano svanite con la stessa rapidità con cui, quella mattina, l’iceberg era affiorato a diritta di prua, così improvvisamente da non riuscire a scansarlo.
Anche la spedizione messa in piedi da Lady Franklin prese piede, a dire il vero, sotto i peggiori auspici. Per una serie di ragioni che McClintock non esitò a imputare alla malasorte, la Fox riuscì a mettersi in mare soltanto a luglio, quando la stagione era già inoltrata: con la sicura prospettiva d’incappare nell’inverno ancor prima di aver individuato l’ultima rotta percorsa dagli scomparsi.
 “McClintock è evidentemente segnato dalla sventura”, si diceva all’Ammiragliato. “Oppure è un incapace, ovvero uno che le sventure se le procura con le sue stesse mani. Avrebbe dovuto insistere per partire l’anno prossimo. Finirà per rimediare un altro naufragio, e le cinquemila sterline promesse da Lady Franklin serviranno per i funerali di prima classe.”
Stavolta, il fallimento si prospettava fin dal principio.
Ma in un soprassalto d’orgoglio, sir Francis McClintock era deciso a prendersi la sua rivincita, e a dare riposo una volta per tutte ai numerosi fantasmi che gli logoravano l’anima.
 
******
 
 
Disko Bay e Beechy Island, estate 1857
 
A metà luglio, la Fox fece tappa alla baia di Disko, nel pieno della fresca estate della Groenlandia: il disgelo scopriva una vegetazione di arbusti inclinati per la disperazione del vento, che spingeva alla deriva intere porzioni di costa sotto forma di iceberg.
L’incubo personale di sir Francis MacClintock iniziava da qui: la Groenlandia era la terra natale degli iceberg, che salpavano lentamente dalla banchisa come velieri giganteschi e silenti.
Nell’entroterra più riparato, un barlume di vera estate insisteva: macchie pallide di betulle e pozzanghere si alternavano a un’effimera fioritura, dovuta allo scongelamento degli strati più superficiali del terreno. Si aprivano all’improvviso, fugaci come sogni ad occhi aperti, praterie punteggiate di petali rossi e gialli, valli di erba tenera che scendevano a precipizio nei fiordi.
Dieci anni prima, anche la Her Majesty’s Terror e la sua gemella Erebus avevano sostato alla baia di Disko, per fare scorta di carne fresca: circa dieci bovini trasportati fin lì a bordo del mercantile Baretto Junior furono macellati e stivati sulle due navi.
A Disko, i membri dell’equipaggio avevano scritto alle famiglie: Franklin si era dilungato in un’ottimistica lettera  a Lady Jane; John Torrington, analfabeta, aveva dettato la sua missiva al cappellano; Colby, dal canto suo, aveva rilasciato quel suo enigmatico e allarmante messaggio.    
Espletate le ultime formalità, la Erebus e la Terror erano salpate in direzione della baia di Baffin: qui erano state avvistate per l’ultima volta da due baleniere nell’agosto 1845, mentre attendevano le condizioni favorevoli per proseguire il viaggio.
Le dichiarazioni rese dai marinai della Prince of Wales e della Enterprise riferivano di due velieri che, a bassa velocità, si avventuravano tra i lastroni della banchisa.
Le navi avevano proseguito il loro tragitto fino a scomparire nella nebbia.
Dopo di che, il nulla.
Nel tentativo di ripercorrere la rotta di Franklin, e condividendo in fondo le ragioni che angustiavano il giovane Henry Torrington, all’inizio di agosto McClintock fece tappa sull’isola di Beechey. Vi trovò esattamente ciò che era stato ampiamente descritto nei resoconti precedenti: tre lapidi solitarie su una spiaggia di ghiaia aguzza, dello stesso colore plumbeo della risacca e di un cielo basso e crepuscolare.
Le tre sepolture in fila sulla spianata parevano occupare un proprio spazio, interdetto ai curiosi, che imponeva il silenzio persino allo scricchiolio dei passi sul pietrisco.
McClintock aveva fretta. Già la stagione incominciava a declinare lenta verso l’inverno: ogni giorno perdeva un minuto di luce e ne acquistava uno in più di oscurità e di nebbia.
Si avvicinò all’esile figura di Henry Torrington, che sostava avvilito presso la tomba al centro, sulla lapide il nome e le date del fratello: ma all’ultimo momento, invece di sollecitarlo a non perdere tempo e a cominciare a scavare, si limitò a mettergli una mano sulla spalla.
Di seguito, diede ordine all’equipaggio di munirsi di vanghe e lui stesso si mise all’opera, con tutta l’energia di cui era capace.
Mentre sentiva scorrere il sudore sulla schiena, e le mani iniziavano a spellarsi dentro ai guanti, pensò che almeno per quella notte le sue ombre gli avrebbero concesso un po’ di tregua: se non altro per la stanchezza, forse sarebbe riuscito a dormire qualche ora.
Il terreno era molto più duro del ferro evocato da sir Francis nel corso del suo colloquio con il giovane Henry: contro la scorza del permafrost le vanghe si spuntavano, spargevano intorno schegge con stridori da raccapriccio, senza riuscire minimamente a scalfire quel baluardo di terra e di ghiaccio stratificato da milioni di inverni.
Sfiancati dalla fatica e incalzati dal buio, i marinai furono costretti a interrompersi ben prima di riuscire a raggiungere quelle spoglie che, a quanto pareva, avevano messo radici e non volevano saperne di tornare in superficie.
Ne nacque una contesa. Gli ultimi colpi di vanga avevano evocato la risonanza di una cavità vacua: secondo Henry Torrington, che era del mestiere, quella bolla di vuoto segnalava in maniera inequivoca la presenza della cassa, e il fatto che il recupero era tutt’al più questione di poche ore.
Altre ore da spendere, però, McClintock non ne aveva.
L’equipaggio era sbarcato nel primo pomeriggio: il crepuscolo polveroso che aveva tinto la costa di rosso e di viola aveva ormai ceduto il passo all’oscurità, e a un vento che spazzava senza misericordia.
Trascinate esattamente sopra alle loro teste da quelle raffiche impietose, pesanti nubi di neve illuminavano il cielo di una tenue fosforescenza. Di lì a poco, cominciarono a scaricare una tormenta che cadeva a stracci furiosi, impedendo di vedere al di là del proprio naso.
A quel punto, McClintock aveva dato l’ordine di risalire a bordo senza sprecare un solo colpo di vanga in più.  
“Non possiamo morire tutti per cavar fuori un cadavere”, aveva urlato nelle orecchie di Henry Torrington, che continuava a scavare febbrilmente nel punto in cui la cassa cominciava ad affiorare.
Ma vuoi perché le parole non facevano in tempo a uscire che subito venivano trascinate lontano, vuoi perché il giovanotto fingeva di non sentire, McClintock fu costretto a cavarlo dalla fossa di peso, a prendersi una scarica di calci furibondi e di imprecazioni ancora più furiose, a dargli un colpo in testa che avrebbe steso un bue e a ordinare ai suoi di riportarlo fradicio ed esanime sulla Fox.
La tomba di John Torrington fu abbandonata al suo destino di ostaggio delle intemperie: nel giro di pochi minuti la neve tornò a riempire la fossa, cancellando ogni traccia dei lavori di scavo[2]
Nei giorni successivi, McClintock assicurò a Henry Torrington che la spedizione avrebbe tentato un nuovo recupero durante il viaggio di ritorno, al più tardi la prossima estate. Tutto induceva a credere, tuttavia, che a quell’estate il giovane non sarebbe mai arrivato: il capitano aveva sufficiente esperienza per saper riconoscere i segni della morte, e il volto del ragazzo, che spiccava tra i panni ammucchiati sulla cuccetta, sembrava aver assorbito talmente tanto gelo che attorno ai suoi lineamenti c’era quasi un’aureola di candore lucente.
I capelli già chiari parevano quasi bianchi, e sulle ciglia si posavano cristalli così perfetti da sbalordire: in realtà quei ricami, di tale complessità e finezza che neppure l’orefice più valente sarebbe stato in grado di scolpirne di eguali, rappresentavano una nota sinistra.
Sia perché nonostante il calore della stufa non accennavano a sciogliersi, impedendo al malato di chiudere gli occhi. Sia perché quel nitore contrastava decisamente con le lunghe dita nere che stringevano la coperta, e procuravano a Henry un dolore così evidente che gli zigomi parevano forare la pelle.
“Bisognerebbe amputare”, sosteneva il medico di bordo, “ma le condizioni del paziente sono scadenti. Di sicuro non riuscirebbe a sopravvivere all’intervento.”
Per giorni, il volto di Henry non cessò di sprigionare tutta la luce del freddo che si portava dentro. Gli uomini dell’equipaggio, radunati sottocoperta per ingannare il tempo con giochi di carte, non ebbero alcun bisogno di accendere le lampade: la strana fosforescenza che emanava dal volto del malato era più che sufficiente a illuminare quel breve spazio che la tempesta, da fuori, riempiva di scricchiolii, sospiri e presagi.
Con la complicità della morte che soffiava dalla cuccetta di Henry Torrington, l’attesa dei marinai si riempì di timori.
“Andare a disturbare i morti che riposano porta sempre scalogna”, brontolavano i più esperti, convinti che il destino avesse una forza propria, quella della disgrazia, contro la quale c’era ben poco da fare.
“Sir Franklin ha seppellito a Beechey Island tre dei suoi”, mormoravano gli altri, “e noi ci prepariamo a seppellire il primo.”  
Gli oscuri presentimenti che turbavano i marinai della Fox erano roba da nulla in confronto agli scrupoli toglievano il sonno a McClintock.  
Il capitano riteneva di esser stato fin troppo permissivo nei confronti del giovane Torrington, e di un progetto che c’entrava molto col sentimentalismo, poco con la ricerca della spedizione Franklin e nulla con il buonsenso.
Fosse o no il risultato dei suoi sensi di colpa, della carenza di sonno oppure della bottiglia a cui McClintock si attaccava assai spesso e volentieri, una notte il capitano ricevette una visita.
Un’ombra silenziosa si materializzò dal nulla nella sua cabina privata, e continuò a fissarlo cavando a tratti un fazzoletto dalla tasca, per asciugarsi il ghiaccio che gli colava dal naso.
Immobile di fronte alla sua scrivania, lo spettro lo fissava con occhi severi, duri come le schegge che le vanghe dei marinai avevano sparso ovunque nel tentativo di disseppellire John Torrington.
Quello sguardo che proveniva da un altro mondo seguiva McClintock ovunque: sia che sfogliasse le carte nautiche per la centesima volta, sia che si alzasse per raggiungere l’armadietto e versarsi un goccio di qualcosa di forte. Se il capitano provava a dormire, si ritrovava quella larva biondiccia di fronte alla cuccetta.
Alla fine, McClintock perse la pazienza.  
“Si può sapere che vuoi? Che cosa pretendevi, che crepassimo tutti per cavar fuori due ossa? Invece di importunarmi va’ a vedere tuo fratello, che molto probabilmente si trova anche lui all’ufficio di collocamento dei morti di freddo.”
Ma a quel punto la fastidiosa apparizione aveva puntato un dito sulle carte che segnavano l’ipotetica rotta seguita da sir Franklin: continuando ad asciugarsi il naso e a fissarlo, aveva indicato un percorso che conduceva a un approdo sulla costa nord ovest della King William Island.  
“Che cosa vorresti dire?” sbottò McClintock, esasperato. “So bene che dobbiamo raggiungere quella maledetta isola. Però le indicazioni contenute nei resoconti” e qui fece volare dappertutto quei fogli già accuratamente ordinati sopra alla scrivania, “i resoconti dicono che Franklin o chi per lui si è diretto a sud. Dobbiamo cercarli a sud, e voialtri all’inferno siete male informati.” 
Con l’orecchio alla porta, gli uomini della ciurma tendevano l’orecchio ai deliri che provenivano dalla cabina del comandante.
“Ma con chi sta parlando? C’è qualcuno, lì dentro?”
“Qualcuno, o forse qualcosa. Molto probabilmente, una bottiglia di gin.”
“È uscito di senno definitivamente.”
Eppure, quando il giorno dopo sir Francis ordinò di far rotta verso la costa nord ovest della King William Island, nessuno ebbe da ridire.
Il mare era di nuovo piatto come una tavola. I marinai erano ben contenti di riprendere il viaggio, di lasciarsi alle spalle la desolazione di Beechey Island e tutte dicerie che avevano preso piede nei giorni della tempesta.
Contrariamente a ogni più fosca previsione, l’esile Henry Torrington riuscì a racimolare, cavandole da chissà dove, forze sufficienti per riuscire a riprendersi.
Una volta superata la fase più critica, il medico di bordo aveva provveduto ad amputargli cinque falangi, e il colonnello Marlowe si era preso l’impegno di assisterlo.
Evidentemente il vecchio soffriva di solitudine, sicché tra i due era nato uno strano sodalizio: Marlowe andava avanti a parlare per ore, del cognato e della sorella, di Trafalgar e Napoleone, di questo e di quello; Henry annuiva senza rispondere, come se avesse perso l’uso della parola.
Solo di notte, quando cadeva in preda agli incubi, a volte capitava di sentirlo gridare: “Va’ via! Vattene via!”
Chissà cosa vedeva, brontolavano gli uomini della ciurma: forse il fantasma di quell’uomo che erano andati a disturbare nel suo riposo si trovava ora a bordo della Fox, e avrebbe portato iella all’intera spedizione. Qualcuno, suggestionato dal fatto che John Torrington era stato fuochista sulla Terror, riferì di avere notato strane ombre in sala macchine. C’era chi sosteneva di avere udito starnuti e colpi di tosse, nasi che gocciolavano lungo i corridoi della Fox, naturalmente quando non c’era nessuno.
“Provate a bere meno”, tagliò corto il capitano, illudendosi che nessuno fosse al corrente delle bottiglie custodite nel suo armadietto. “Vedrete che anche i fantasmi scompariranno.” 
McClintock, dal canto suo, non mise a parte nessuno delle strane rivelazioni ricevute in via del tutto informale. Con la massima attenzione, aveva segnato il punto che John Torrington gli aveva indicato sulla mappa della King William Island: di là quel dito bianco, coperto da una sottile mucosa di ghiaccio, aveva tracciato un percorso che seguiva la costa scendendo verso sud, fino al punto in cui uno stretto braccio di mare divideva l’isola dalla terraferma del Canada.
A quel punto lo strano ospite aveva scosso il capo, continuando a guardare fissamente il capitano.
Più oltre, la sua unghia traslucida era scesa fino alla foce del Great Fish River.
Di nuovo s’era fermato, senza proseguire oltre.
Nuovamente John Torrington aveva scosso il capo, diventando se possibile ancora più pallido.  
 
******
 
Dalla testimonianza di Christian Fraser, bibliotecario a bordo della Her Majesty’s Terror.
Insediamento inuit di Gjoa Haven sulla King William Island, giugno 1848.
 
Avendo ormai terminato i fogli su cui ho provveduto a stendere la prima parte del mio resoconto, ciò che seguirà sarà scritto sulle pagine di questo libro, che porto con me dal giorno in cui abbandonammo la Terror al suo destino: se e quando la mia vicenda giungerà al termine, sarà mia cura consegnare questa testimonianza ai nativi di questa comunità di Gjoa Haven, che ci hanno accolto nel tentativo di salvare gli ultimi superstiti da morte sicura.
Allego a questa copia di “Cime tempestose” il mio precedente rapporto: a beneficio che coloro che forse tra molti anni giungeranno fin qui, per avere sentito parlare di noi, partiti alla ricerca del passaggio a nord ovest e mai più ritornati.
Oltre a far luce sulle ultime vicissitudini di questa spedizione, intendo altresì liberarmi dal peso dei ricordi per poter dimorare, quando verrà il momento, nella pace e nel silenzio: ben sapendo che la memoria è nemico mortale del riposo dell’uomo, l’ultima cosa che voglio è tornare dall’al di là per aggirarmi ancora su questa terra di ghiaccio, in preda ai rancori di un mancato perdono.
Pertanto inizio oggi, 20 giugno 1848, il resoconto di ciò che accadde dal momento in cui il nostro capitano Francis Crozier decise di dividere la spedizione in due gruppi: l’unica imbarcazione rimasta in nostro possesso non era infatti in grado di trasportarci tutti al di là dello stretto che le nostre mappe indicavano col nome di Simpson Sound. Il rischio di capovolgersi, o di sfasciarsi sulla banchisa dopo aver perso il controllo, purtroppo era reale.  
Il primo contingente partì da questa spiaggia all’alba del 3 giugno, agli ordini di Crozier e del comandante in seconda Richard Colby.
In attesa del ritorno della scialuppa, siamo rimasti in trentasei uomini oltre al capitano Fitzjames, già comandante della Her Majesty’s Erebus: non è mai corso buon sangue tra Fitzjames e Colby, e forse per dare a questi una lezione d’onore, Fitzjames si è offerto di restare con noi.
Dubito assai che Colby, che si è imbarcato per primo e senza voltarsi indietro neppure per un istante, sia stato in grado di recepire la lezione.
D’altronde, ogni supposizione risulta ormai ampiamente superata dai fatti.
Dopo una settimana di attesa, trascorsa nel tentativo di rimediare del cibo pescando sulla riva, e tornando ogni mattina a far la conta degli uomini per ritrovarci sempre con qualcuno di meno, ci siamo dovuti arrendere all’evidenza: come temevo fin dal principio, la scialuppa non è più tornata a riprenderci.
Bloccati sulla costa senz’altra prospettiva che quella di morire di stenti, ci siamo stretti attorno a Fitzjames. Il capitano  proponeva di costruire una zattera per varcare lo stretto, oppure di metterci in marcia fino al più vicino avamposto inuit segnato sulla mappa.
Con quali materiali Fitzjames intendesse realizzare la zattera, dal momento che intorno a noi c’era soltanto neve e qualche tratto di prateria acquitrinosa, ora non saprei dirlo: a ripensarci, credo che delirasse in preda a qualche visione consolatoria, causata dalla carenza di cibo e dal freddo.
Quanto al villaggio inuit molti di noi temevano, suggestionati da Colby, che i nativi del luogo ci avrebbero infilzati e messi a cucinare dentro a qualche paiolo, come si vede nelle vignette sui cannibali dei mari del Sud.
“Almeno, saremo al caldo”, commentarono alcuni. Ma al di là di tutte le ipotesi fantasiose, di fatto non eravamo in grado di metterci in marcia, e di andare a verificare personalmente cosa poteva attenderci a Gjoa Haven.
Furono gli inuit a trovarci, quando eravamo ormai allo stremo e il nostro accampamento era ridotto a un cimitero di spettri.
Quando quella mattina giunsero presso di noi, sulle slitte trainate da quei cani così simili a lupi con gli occhi azzurri, si trovarono di fronte a uno scenario da apocalisse: uomini intontiti che attendevano la morte seduti nella neve, o vagando qua e là con lo sguardo perso nel vuoto; quelli che ancora conservavano le forze erano impegnati a contendersi la carcassa di un uccello trovata in mezzo agli scogli; altri ancora si stringevano attorno a un fuoco di legni verdi che non scaldava affatto, ma produceva solamente un gran fumo.
Fu forse per il fumo che i nativi si accorsero della nostra presenza, e per curiosità si avvicinarono alle nostre tende. In una di esse avevamo buttato alla rinfusa i cadaveri, dopo averli spogliati di tutto ciò che poteva ancora tornarci utile. Io avevo notato gli sguardi famelici di alcuni di noi, nel trasportare quei corpi che tutto sommato erano fatti di carne proprio come le grasse foche del litorale, che puntualmente ci sfuggivano, e le gazze marine di cui ormai divoravamo anche le ossa.
Ma Fitzjames vigilava, sicché nessuno osò discendere l’ultima china, e avventurarsi in territori da cui sarebbe stato impossibile fare ritorno.
Per un lungo momento, gli inuit rimasero ad osservarci con i loro volti impenetrabili: finché uno di loro, poco più di un bambino, mise mano agli involti caricati sulle slitte e cominciò a spiegarli davanti ai nostri occhi.
Quello che accadde allora fu incontrollabile e allucinante: un assalto di disperati che si gettavano sugli involti, ricacciando indietro i più deboli ed esibendo certe facce stralunate ch’erano più da bestie che da creature umane.
Molti di quelli che a stento si reggevano in piedi si gettarono nella mischia, cominciando a scalciare e a mordere come pazzi. 
Qualcuno riuscì a raggiungere la tenda sbrindellata che custodiva le armi: da tempo quegli arnesi non erano più in grado di sparare un bel nulla, ma come corpi contundenti funzionarono a meraviglia. Il primo a essere colpito fu Fitzjames, che si era messo in mezzo nel tentativo - e sembra una facezia dirla in questi termini - di raffreddare gli animi e riportarli all’ordine: un calcio di fucile gli aprì in due una tempia, e prima che potesse levarsi il sangue dagli occhi, almeno altri due uomini si trovarono a terra col cranio sfracellato.
La rissa spinse gli inuit ad allontanarsi rapidamente, prima che alcuni di noi decidessero di assalirli per divorare persino i cani da slitta.
Fortunatamente, i piccoli elfi tornarono il giorno dopo.
A quel punto, di noi non restavano più di dodici uomini. Il cibo era stato ingurgitato talmente in fretta che quella stessa notte gli accaparratori erano morti nel loro vomito, tra spasimi disgustosi.
Il comandante Fitzjames stavolta non si fece cogliere impreparato: si era impossessato dell’unico fucile ancora funzionante, aveva passato tutta la notte a ingrassarlo e il mattino seguente ci aveva avvisato: “Alla prossima intemperanza io non avverto, sparo”.
Noi tutti ci facemmo da parte di buon grado quando Fitzjames, che conosceva qualche parola in lingua inuktitut, si avvicinò agli indigeni per domandare il loro aiuto.
Gli inuit si consultarono tra loro con brevi occhiate, poi quello che pareva il capo della piccola spedizione chiese consiglio a un anziano, un tizio monumentale che indossava una pelle con code colorate. Lo sciamano pronunciò solo poche parole. Non appena ebbero udito quel sussurro, che non era più forte dello scricchiolio dei ghiacci della banchisa, tutti gli inuit iniziarono a darsi da fare: esprimendosi a gesti con quei loro sorrisi aguzzi, ci invitarono a salire sopra alle loro slitte, coricarono gli sfiniti e li coprirono con spesse coperte di pelli.
Non c’era posto per tutti, ma Fitzjames ci aiutò a salire uno ad uno, fino all’ultimo uomo.
 “Ecco qui la zattera che vi avevo promesso. Come vedete, ce n’è addirittura più d’una”, annunciò e potete credermi se vi dico che sorrideva.
“Andate, e cercate di fare di tutto per sopravvivere.”
I deboli non riuscivano più a parlare, e molti di loro, stremati, morirono durante il viaggio. Ma anche quelli che tra noi che erano ancora lucidi non osarono dir nulla: si strinsero al fasciame e alle corde delle slitte, davvero come naufraghi soccorsi in mezzo al mare.
A quel punto io, Christian Fraser, bibliotecario e forse l’uomo più inutile di questa spedizione,  trovai il coraggio per farmi avanti. Anch’io ero stato ricoverato su una slitta, trasportato di peso essendo ormai incapace di muovere un solo passo. Dritto in piedi sullo sfondo del nostro accampamento ormai abitato soltanto dagli spiriti dei morti, il capitano Fitzjames non mi era mai sembrato così in forze, il perfetto candidato per la sopravvivenza.
“Cosa volete dirmi, Fraser?” mi sollecitò quando si accorse che le parole non riuscivano a uscirmi di bocca.
“Voi non venite con noi, capitano?” domandai, conoscendo già la risposta.
“Io devo rimanere in attesa della scialuppa. Questi sono gli ordini che ho ricevuto da Crozier.”
Senza rendermi conto che Fitzjames mentiva per rassicurarmi, non potei fare a meno di dar voce a quei dubbi che mi ero tenuto dentro per così tanto tempo:
“È probabile che Crozier sia morto ancora prima di mettere piede a terra. Lo sapete anche voi, capitano: non torneranno a riprenderci, neanche se dovessimo restare qui ad attendere fino al Giorno del Giudizio.”
“Voi non siete un militare, quindi non potete saperlo: il primo dovere di un ufficiale è aver cura dei propri uomini, e preoccuparsi di evitare perdite inutili.”
“Venite con noi, vi prego. Tutte queste cose, ormai, non hanno più alcun valore.”
“Ognuno ha un proprio codice d’onore, Fraser. Come uomo di lettere, voi dovreste saperlo: è in casi come questi che i principi più alti dovrebbero guidare tutte le nostre azioni. Io non sono mai venuto meno ai miei valori, e non intendo farlo ora.”
Riuscii a convincerlo solamente a seguire le slitte insieme agli inuit, che procedevano a piedi aiutando i cani a trainare il carico sulla neve. Camminava al mio fianco e io mi assopii un poco, cullato dal rollio della slitta. Mai come in quel momento, Fitzjames incarnava per me tutto ciò che di grande e di buono c’era al mondo.
Quando mi ridestai dopo un lungo tragitto, ebbi un presentimento.
Lo vidi a lato della carovana mentre ci guardava passare, sfinito eppure immobile nel saluto militare. Fu solo un breve istante: aprii bocca per avvertire gli inuit, ma una tempesta di neve s’era levata a un tratto, e le mie parole si persero come i fiocchi nel vento.
Gli inuit continuavano a procedere a capo chino, ben consapevoli del fatto che non potevamo fermarci. Dal resto della fila proveniva solo il silenzio. Il vento che spazzava il gemito dei morenti cancellò così presto quella figura sull’attenti, che arrivai a convincermi di avere sognato.

 
******
 
 

[1] Quando la Her Majesty’s Resolute fu messa in disarmo nel 1879, la Regina Vittoria fece costruire, con i fasciami della stessa, una scrivania che fu inviata in dono all’allora Presidente degli Stati Uniti, Rutherford B. Hayes. A far data dall’Amministrazione Kennedy, La Resolute Desk si trova nello studio ovale della Casa Bianca, a Washington. 
[2] Nel 1982 un gruppo di studio guidato dal prof. Owen Beattie, antropologo presso la University of Alberta del Canada, ottenne l’autorizzazione a procedere alla riesumazione dei tre componenti della spedizione Franklin sepolti a Beechey Island. I corpi di John Torrington, John Hartnell e William Braine furono ritrovati perfettamente conservati grazie all’azione del permafrost. Dall’autopsia effettuata sul corpo di Torrington, risultò confermata la morte per polmonite. Da analisi effettuate su campioni di tessuti, risultò altresì un’elevata concentrazione di piombo, dovuta probabilmente al sistema di saldatura delle scatolette utilizzate come scorte durante il viaggio. Si suppone che l’avvelenamento da piombo abbia agito da concausa, oltre al freddo e all’inedia, nel provocare la morte dell’intero equipaggio della spedizione Franklin.  
 

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Capitolo 3
*** La morte è un ragazzino con gli occhi a mandorla ***


“Il tempo previsto per oggi
è inquietudine crescente
seguita da terrore conclamato”
(C. Palahniuk)


 
3. La morte è un ragazzino con gli occhi a mandorla
 
 
Penisola di Adelaide, territori del Canada, luglio 1848
 
Sprofondato in una vegetazione collosa, l’estuario del Great Fish River era un’immensa palude in cui il fiume, carico delle acque del disgelo, si spezzettava in stagni, laghetti e pozzanghere fino a raggiungere il mare.
L’orizzonte era una fila di pioppi solitari, macchie di arbusti che producevano bacche acquose: messa a bruciare, quella sterpaglia non produceva alcun calore, ma soltanto una coltre di fumo nero e pestilenziale.
A prima vista, il paesaggio somigliava a una prateria di radure spelacchiate, muschio e alberi storti: in realtà tutto era sospeso sopra a uno strato friabile, che da un momento all’altro cedeva sotto ai passi facendoli affondare.
Il gruppo dei superstiti guidati da Colby avanzava prudentemente in fila indiana, cercando di mantenersi ai bordi della palude: dove fossero quei bordi, in quell’immenso acquitrino a perdita d’occhio, era tutto da indovinare.
Si poteva andare solamente per tentativi, saggiando col piede la consistenza del suolo: questo era compito della prima avanguardia ossia di Colby in persona, che procedeva distaccato e solitario, con l’uniforme in ordine come se fosse appena uscito dall’Accademia e non da quattro mesi di peregrinazioni tra i ghiacci.
La sua figura snella pareva sfiorare solamente il terreno.
Era come se la palude e il tenente fossero amici da tempo: il pericolo di affondare, per lui, non esisteva, e gli uomini che attendevano il suo segnale avevano l’impressione che quel pantano Colby lo conoscesse come le proprie tasche, manco ci fosse nato.
Lo stesso, evidentemente, non valeva per loro, che avanzavano lenti sotto al peso del vento e di quel che rimaneva del carico.
Puntualmente, qualcuno finiva impantanato fino al ginocchio, mentre agli stivali lucidati di Colby non si attaccava neppure una minuzia di fango.  
Soltanto il giorno prima, avevano superato un punto in cui la palude aveva ceduto sotto alla mole di un alce, evidentemente sbandato dal branco. Lo zoccolo minuto non gli aveva fornito un sufficiente appoggio, e in breve aveva cominciato a sprofondare nella melma.
Quando gli uomini gli erano passati vicino, una coltre di muschio si stava richiudendo sopra alle grandi corna aperte a ventaglio.
I marinai s’erano entusiasmati all’idea di cavar fuori l’alce utilizzando le ultime gomene della Terror, e cuocere un arrosto che li avrebbe aiutati a sopravvivere a lungo.  
“Lasciate perdere, se non volete affogare anche voi” aveva detto il tenente, e nessuno s’era preso la briga di contraddirlo: un po’ perché di lui avevano soggezione, ma anche per quella bizzarra sensazione che la natura del luogo fosse dalla sua parte e obbedisse ai suoi ordini.
Quelle erano state le prime parole pronunciate da Colby dal giorno cosiddetto dell’ammutinamento, quando il tenente era partito insieme a Crozier per tentare il recupero del gruppo rimasto a King William Island. Dopo un paio d’ore era tornato da solo, remando imperturbabile a bordo della scialuppa.
Con i suoi occhi lucidi e neri, che parevano divorati da una strana febbre interiore, aveva scrutato uno per uno gli ufficiali, poi aveva degnato di uno sguardo sprezzante il resto della ciurma, radunata attorno a lui in un silenzio assoluto.
Sulla spiaggia si udiva solamente l’incedere pigro della risacca, il richiamo stridente di qualche uccello acquatico. Sul mare restò a lungo la traccia della scialuppa. Il cielo guardava altrove, impassibile e grigio.
Con la massima indifferenza il tenente era sceso a terra, passando in mezzo ai suoi senz’altre spiegazioni. In molti lo fissavano con negli occhi cento domande: e il capitano Crozier? E quelli che ci stanno aspettando a King William Island?
Nessuno di quegli interrogativi uscì dalla bocca dei marinai, e neppure gli altri ufficiali si fecero avanti. Colby li zittì tutti quanti in anticipo, con un solo movimento delle sue ciglia.
“Andiamo” aveva detto, e la compagnia aveva diligentemente smontato le tende e s’era messa in marcia.
Gli ordini di Colby non erano mai impartiti in maniera diretta.
Solitario per indole e inaccessibile per scelta, il tenente preferiva servirsi di portavoce scelti in maniera del tutto casuale: semplicemente, ogni tanto qualcuno percorreva le file per annunciare che il comandante aveva deciso di seguire il corso del Great Fish River finché non si fosse trovato un punto adatto al guado; che la spedizione avrebbe fatto sosta al tramonto, sicché prima che il sole fosse sull’orizzonte, occorreva darsi da fare per accamparsi; che le scorte di cibo erano ormai esaurite, ma il comandante si sarebbe incaricato personalmente di riempire le marmitte.
Di fatto, ricorrendo ai servigi del suo fucile sempre carico, a una mira infallibile e forse a vera e propria stregoneria, Colby era in grado di procurare selvaggina di ogni genere. Agli occhi divorati dalla fame dei suoi, le capacità venatorie del tenente iniziarono ben presto ad assumere i contorni della leggenda: si cominciò a dire che con una sola pallottola era in grado di uccidere sette lepri; che con un calibro assolutamente inadatto era riuscito ad abbattere un orso, laddove chiunque altro avrebbe fatto solamente un gran chiasso, con l’unico risultato di esasperare l’animale e di farsi sbranare.
In realtà, quello dell’orso era stato un semplice colpo di fortuna: perlustrando la macchia, Colby si era imbattuto in un grizzly morente, e l’unico colpo esploso era stato quello di grazia.
Nel silenzio che ammantava quel luogo desolato, la fucilata era echeggiata con la potenza di un grido di guerra, e da quel momento il tenente era entrato ufficialmente nell’olimpo della sua ciurma di morti di fame.
Di fatto, finché Colby fu al comando nessuno morì di stenti: questo contribuì ad accrescere enormemente il suo carisma, fino a farlo sfociare a livelli di pura e semplice adorazione.
Come ogni divinità che si rispetti, Colby non si mischiava ai comuni mortali: rizzava la sua tenda in luoghi appartati e pareva vivesse d’aria. Si nutriva esclusivamente di radici e di bacche, che raccoglieva durante il suo cammino solitario.
Per sé, riservava soltanto le munizioni. Del bottino di caccia esigeva soltanto il grasso, necessario a mantenere l’arma perfettamente funzionante.  
Quanto al resto, sapeva che gli inglesi erano dei selvaggi, lo sapeva da sempre: e i festini che quegli uomini abbruttiti celebravano ogni sera attorno a fuochi di sterpi, che annerivano la carne senza riuscire a cuocerla, il modo in cui si gettavano comunque su quelle carcasse e l’odore del sangue che si portavano sempre addosso, non faceva che confermare la sua idea.  
Lui non era un inglese, come era evidente a chiunque avesse il coraggio di guardarlo dritto in faccia: i suoi tratti gentili, i lunghi occhi a mandorla e gli zigomi alti, ricordavano la bellezza altera di una donna inuit.
A quattordici anni sua madre Qannik, che in lingua inuktitut significa “fiocco di neve che volteggia nell’aria”, aveva creduto alle promesse di un ufficiale inglese e l’aveva seguito abbandonando la sua tribù che viveva di caccia, pesca e poche illusioni sulle coste della Groenlandia.
L’amore di Qannik per il fascinoso qallunaaq[1] era stato intenso e totale come l’inverno artico: quello di lui, era durato il tempo di tornare in Inghilterra e trovarsi incastrato in un matrimonio già combinato prima della partenza, da cui aveva tentato più volte di disimpegnarsi per lettera.
Il destino del piccolo fiocco rubato alla terra dei ghiacci fu di entrare nella casa di William Siddal dalla porta di servizio, in funzione di sguattera e amante segreta.
Molto presto, la moglie aveva mangiato la foglia e Qannik era stata messa alla porta nel peggiore dei modi: decisa ad ottenere un equo risarcimento, nonché ad assicurarsi di non averla più in mezzo ai piedi, la legittima consorte l’aveva venduta a una fiera itinerante, che girava l’Europa esibendo al pubblico curiosità da tutto il mondo.   
Tra capannelli che affollavano le tende per vedere la donna con la barba più lunga dei cinque continenti, il mangiatore di spade e l’incantatore di serpenti, Lady Siddal aveva contrattato con l’impresario il prezzo della vendita a peso di Qannik.
In piedi su una bilancia di dimensioni spropositate, che serviva per il numero della donna cannone, il peso di Qannik risultò esattamente quello di un fiocco di neve: la macchina mosse l’ago registrando quarantacinque chili scarsi, comprese le pellicce e la minuta scintilla che Qannik, senza saperlo, portava dentro di sé da tre mesi.
“Fanno quarantacinque scellini al massimo,” annunciò l’impresario. “È un prezzo di favore. Se la pesassi nuda non arriveremmo neppure a trenta.”
“Quarantacinque sterline, vorrete dire”, precisò Lady Siddal, “si tratta di un esemplare originale della Groenlandia, tra l’altro molto giovane e che potrete usare anche per altri scopi.”
L’impresario era uno zingaro scaltro e sanguigno, con una voce da tamburo battente: dal suo palco allestito al centro della fiera, era abituato a smerciare agli allocchi prodigiosi rimedi per far ricrescere i capelli anche alle palle da biliardo, tinture in grado di procurare erezioni da cavallo, filtri in grado di suscitare passioni irrefrenabili in qualsiasi donna e al tempo stesso di smemorare le mogli, per far sì che non si accorgessero di nulla.
Un furfante del genere non era certo disposto a farsi infinocchiare da Lady Siddal:
Quaranta scellini esatti, non uno di più. Se non lo ritenete un prezzo appropriato, non dovete far altro che riportarvi a casa la vostra bella eschimese.”
Dire questo a Lady Siddal era come evocare il diavolo in persona, sicché in breve i due si accordarono per trentacinque scellini.
Qannik si trovò così a girare per il mondo nelle sue nuove vesti di fenomeno da baraccone: dietro a un paesaggio di igloo malamente abbozzati su un vecchio lenzuolo, le toccava esibirsi insieme a una vecchia foca, assuefatta da anni di addestramento e percosse a far girare una palla sulla punta del naso.
Il numero della foca non incuriosiva più neppure i bambini. In compenso, la bellezza algida di Qannik, il cui volto pareva cesellato nel ghiaccio, interessava a molti: soprattutto agli uomini che venivano una prima volta con la famiglia e poi tornavano soli, e come gatti randagi s’infilavano nella tenda in cerca di emozioni inconsuete.
Per questo, era sufficiente rivolgersi all’impresario e scucire due scellini: lo zingaro era ben felice di accontentarli e ammortizzare il prezzo del migliore affare concluso negli ultimi anni.
Fino agli ultimi giorni di gravidanza, Qannik dovette subire le peggiori indiscrezione da parte di almeno cinque uomini a notte. Il disprezzo per gli inglesi cresceva di pari passo, e il piccolo fiocco che cresceva nel suo ventre lo assorbì con il sangue, le irruzioni forzate, i pianti solitari di sua madre che evocavano i fruscii del disgelo.
L’ultima di quelle odiose contrattazioni avvenne quando Silatuyok[2] - il futuro tenente Colby - aveva cinque anni e un giovane capitano della British Army, Edward Marlowe, assistette per caso al dialogo che si stava svolgendo tra lo zingaro con la sua voce da tamburo e un tizio disposto a versare la somma stratosferica di cinquanta scellini, pur di avere a disposizione la madre e il figlio insieme.
Col tempo, Qannik era riuscita a imparare poche parole della lingua degli stranieri, ma quelle trattative le conosceva sin troppo bene e soprattutto sapeva dove sarebbero andate a parare. Accasciata sul finto iceberg che decorava il suo palchetto, si aggrappava al bambino come fosse uno scudo. Con il muso adagiato sopra al suo grembo, la foca la fissava con i suoi occhi dolci, cisposi di cateratte ma pieni di umanità.
Ben più tagliente era lo sguardo con cui Silatuyok seguiva la discussione, ben deciso a vendere cara la pelle: la sua e quella della madre.
“Il ragazzino morde”, precisò a questo proposito l’impresario. “Ma non dovete preoccuparvi, non ha la rabbia. L’abbiamo istruito noi a reagire così, per rendere tutto il gioco più divertente.”
Di fronte alla brutalità dello zingaro, l’aria sordida del cliente, la bellezza struggente della giovane inuit e quella gelida e disperata di suo figlio, Marlowe s’era commosso, indignato e infuriato, e alla fine aveva suscitato un pandemonio: con uno strepito da guerra aveva richiamato l’attenzione di una coppia di poliziotti che girava per la fiera col naso per aria, aveva acchiappato il potenziale cliente che, vista la mala parata, tentava di filarsela, e quando lo zingaro aveva provato a cavarsi d’impaccio precisando che la trattativa di compravendita riguardava la foca, aveva perso la testa.
All’esito di una rissa che aveva attirato un capannello di gente, altri poliziotti di ronda, tutti i circensi in massa accorsi a dar man forte al loro caporione, il capitano Marlowe si era ritrovato sulla groppa una denuncia per aggressione e in mano nessuna prova: tutti i presenti testimoniarono che la contrattazione riguardava la foca. Peraltro, il compratore era un membro del Parlamento, rispettabile collezionista di amenità e addirittura proprietario di uno zoo privato che annoverava pappagalli del Nuovo Mondo, canguri dall’Australia, addirittura un caimano delle Indie. Era chiaro per tutti che quell’ufficialetto aveva travisato: ci avrebbe pensato il Tribunale militare a rimetterlo al suo posto.
“Temo che anche voi abbiate travisato”- s’impuntò Marlowe, a muso duro -“anch’io sono un amatore di oggetti rari. Offro seduta stante sessanta sterline per l’indigena, il ragazzo e anche la foca. Oltre, naturalmente, alla rinuncia a far pervenire il mio rapporto al Parlamento, alla stampa e a Sua Maestà la regina Vittoria in persona.”
Tutti gli interessati convennero che si trattava di un giusto prezzo:
“Di fronte a questa offerta, è opportuno che mi ritiri di buon grado”, si arrese il sedicente collezionista. Marlowe versò altri venti scellini ai poliziotti e riuscì ad ottenere un ordine di sgombero per motivi di ordine pubblico.
La fiera fu costretta a levare le tende la sera stessa. Allo zingaro fu notificata una diffida a rimettere piede in città, e per Qannik e suo figlio cominciò una nuova vita nella brughiera dello Yorkshire.   
Immerso in un paesaggio di colline battute dal vento, tra l’aroma dei ciocchi che scoppiettavano nel camino e i belati delle pecore, il cottage del capitano era un luogo piacevole, ma Qannik continuava a dibattersi tra i ricordi del passato e l’angoscia del presente. La presenza di Marlowe le suscitava un incontenibile terrore. Preferiva trascorrere le sue giornate nella stalla dove ricoverarono anche la vecchia foca, spiaggiata sulla paglia: a tratti, come in sogno, muoveva ancora il naso per far girare una pallina immaginaria.
Qannik rimediò al dolore dedicandosi a filare la lana che portavano i fittavoli, alleviando l’angoscia con i canti della sua antica tribù.
Seduto accanto a lei, il piccolo Silatuyok ascoltava le tristi vicende della dea Sedna[3]: colei che rifiutava di prendere marito e per questo fu data in moglie a un uccello marino, che la relegò sulla vetta di un iceberg circondato dai flutti.
Il pianto della dea prigioniera gonfiò l’aria del mare di piogge incessanti: suo padre mise in mare un kajak per correre in suo aiuto prima che i ghiacci cominciassero a sciogliersi, e il mondo degli inuit perisse per sempre.
Quando l’uccello marino si accorse del rapimento, spiegò le ali e si lanciò all’inseguimento. Una cupa ombra nera occupò lo spazio del cielo, d’un tratto si fece notte e improvviso cadde l’inverno.
Il padre della dea, in preda al terrore, si liberò della giovane gettandola in mare, e poiché Sedna insisteva per aggrapparsi al kajak, col remo le tranciò di netto le dita. Da queste, narrava la ballata, nacquero gli animali che popolano i ghiacci e offrono sostentamento agli inuit: le foche, i trichechi, le gazze marine, i pesci innumerevoli.  
Sedna divenne la regina degli abissi, “colei che abita in basso” e che occorre ingraziarsi affinché sia benevola e non scateni tempeste: aiutarla a pettinare i lunghi capelli, offrendo le proprie mani in luogo delle dita perdute, è compito degli sciamani per mezzo dei loro misteriosi rituali.
Il piccolo Silatuyok non dubitava che sua madre fosse Sedna, la sventurata data in sposa a creature mostruose: secondo un’altra leggenda, il marito della dea era addirittura un cane, e da quell’unione assurda - narravano gli inuit - erano nati i qallunaat, gli uomini bianchi. Cani fin dentro l’anima, riguardo a questo Silatuyok non aveva alcun dubbio. Cresceva in preda a desideri contrastanti: da una parte desiderava vedere con i suoi occhi le terre del grande gelo, dall’altra detestava le sue origini inuit perché il suo aspetto esotico sortiva ovunque occhiate curiose e disprezzi.
Il capitano Marlowe aveva sostenuto infinite discussioni con gli altri membri della famiglia, che si opponevano al suo desiderio di adottare legalmente i due indigeni.
“Non se ne parla nemmeno”, aveva tagliato corto Marlowe padre. “Se non avrai figli, eredi della tenuta saranno i tuoi fratelli, di certo non dei selvaggi.”
Al momento di battezzare il bambino, il capitano scelse per lui un nome più accessibile di quello inuit, a cui aggiunse il cognome da ragazza di sua madre. Fu una sorta di simbolica rivincita nei confronti del parentado.
Ufficializzato inglese quanto meno di fatto, il futuro tenente Richard Colby non ebbe per questo vita più facile: il suo volto esotico lo esponeva puntualmente allo scherno di tutti i gruppi umani con cui gli capitò di avere a che fare, dai primi giorni sui banchi di legno della scuola fino alla sua ammissione al Royal Naval College, a Portsmouth.
“Faccia da cane cinese”, gli gridavano dietro i compagni di classe, finché imparò a fare a botte e a ridurre molti nasi a forme ben più schiacciate del suo.
“Venite dalle colonie?” gli domandavano gli aristocratici rampolli di Portsmouth. “Come mai non portate il cognome di vostro padre?”
“La risposta è molto semplice,” azzardò il più informato, “si tratta di un bastardo. Pare che sia eschimese, uno di quei selvaggi che mangiano pesce marcio.”
Per non lasciare impunito quell’affronto, Colby colla di pesce rispolverò l’antica consuetudine della sfida a duello: già allora deteneva il migliore punteggio nelle esercitazioni di tiro, e la sua mancanza di emozioni e distacco erano proverbiali tra i cadetti del Royal Naval College.
“Ha il ghiaccio nelle vene”, osservano sbalorditi i poliziotti che arrestarono Colby sul campo, dopo che aveva freddato, in rapida successione, già cinque malelingue sulle dieci a cui aveva dato appuntamento, come da tradizione, sulla riva del mare all’alba.
Il processo che seguì tenne banco per mesi su tutti i giornali. Tra i cavilli e le pieghe più desuete del codice militare, la pratica del duello era ancora contemplata, sicché i giudici si trovarono a dover ricercare un accomodamento. Proprio in quei giorni, Edward Marlowe era stato promosso a colonnello. Grazie al suo prestigio, Colby riuscì a cavarsela col pagamento di un indennizzo alle famiglie delle vittime.
Da tutta la vicenda, il Royal Naval College ricavò una pubblicità immensa, uscendone come custode delle storiche tradizioni della Marina. L’anno seguente, il numero dei cadetti aumentò in misura esponenziale, mentre il volto femmineo e impassibile di Colby divenne un’icona romantica e suscitò valanghe di lettere d’amore: da ogni parte dell’Inghilterra, avventurose fanciulle gli inviavano proposte e petali di rose di nascosto dai genitori.
Non da ultimo, Colby fece breccia nel cuore della sorella minore del suo benefattore: Millicent Marlowe era un fuscello di sedici anni tutto boccoli e nastri, che compensava l’ignoranza del mondo con un grande entusiasmo. Fu solo per offrire una sorta di riparazione al colonnello che Colby acconsentì a sposarla, salvo ribadire il suo fermo proposito d’imbarcarsi il prima possibile, per esplorare le terre dell’Artico.
Solo pochi mesi prima era morta Qannik. L’avevano trovata come al solito nella stalla, seduta all’arcolaio con le mani nel grembo e l’unica compagnia della foca imbalsamata: gli occhi di pietra dura che avevano sostituito le cateratte conservavano ancora un’espressione umana.
Persino dopo la morte, il suo corpo rifiutava di essere toccato dalle mani degli uomini, sicché non riuscirono a smuoverla e dovettero seppellirla seduta. Mentre i becchini la conducevano fuori, gli stallieri si accorsero che la foca era piena di parassiti: volendosi risparmiare la fatica e la nausea di bruciarla sul prato, preferirono buttarla dentro alla fossa.
A quel punto, Richard Colby sentiva di non avere più alcun legame con l’Inghilterra: “Il mio debito di gratitudine nei vostri confronti è grande” aveva detto al colonnello, “ma ho deciso di andarmene non appena potrò”.
Marlowe non si era sentito in animo di contrastare il desiderio del giovane di andare a scoprire il mondo: mai avrebbe pensato che, alla prima occasione, Colby si sarebbe imbarcato con l’intento, di seguito dichiarato per iscritto alla moglie, di non fare ritorno.  
Ora, mentre dal suo accampamento solitario sorvegliava la notte, e le voci dei bivacchi giungevano con sempre minore intensità, mano a mano che gli uomini cedevano al sonno, Colby aveva ben chiaro ciò che desiderava: avrebbe condotto i suoi a Fort Resolution, e una volta data prova delle sue capacità, avrebbe fatto domanda alla Compagnia della Baia di Hudson per ottenere una nave e proseguire la rotta. Aveva trascorso notti intere a studiare le mappe di Franklin, e il percorso da seguire era apparso ai suoi occhi con la certezza di una rivelazione: sarebbe stato lui a scoprire la via del passaggio a nord ovest, e le avrebbe dato il suo nome.
Tra mille fiocchi di neve, avrebbe danzato la sua vittoria tra i ghiacci.   
 
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King William Island, aprile 1959
 
“Cos’è quel mucchio di pietre?”
“Sarà una dannata tomba, messa là apposta per attirare altre disgrazie” brontolò uno dei veterani della Fox “da quando siamo in viaggio non abbiamo trovato altro.”
“Brindiamo alla salute degli incontri propizi”, fece eco un monumentale irlandese, cavando una bottiglia da sotto agli strati di pelli e pellicce che a stento gli consentivano di muoversi.  
“Fatela finita e cominciate a scavare.” In piedi di fronte al cairn, McClintock era come di consueto assillato dalla fretta. “Mano alle vanghe, uomini.” 
“Se torno a nascere, vado direttamente a fare il becchino.”
“C’è un messaggio, là sotto” s’intromise il redivivo Henry Torrington, che becchino lo era sul serio e per professione, e da quando s’era ripreso esibiva un volto cereo che lo faceva più che mai assomigliare ai suoi clienti: non quelli che partecipavano alle esequie, ma proprio quelli che era suo compito avvitare dentro a casse di legno rivestite di raso.
I marinai, piombati nelle pellicce acquistate per l’occasione da inuit di passaggio, si voltarono a guardarlo dritto in faccia:
“Voi siete del mestiere”, interloquì il tizio della bottiglia, approfittandone per scolarsi un lungo sorso. “Di morti ve ne intendente. Gente, qui abbiamo un esperto.”
Gli altri scoppiarono a ridere, ma Henry era serissimo. “Non c’è nessun cadavere, là sotto. Le piramidi di sassi vengono spesso usate dagli esploratori per lasciare messaggi.”
“E voi che ne sapete?”
Quella domanda era sulla punta della lingua di McClintock da un pezzo: più o meno da quando Henry aveva avvistato il cairn durante un primo sopralluogo sulla costa della King William Island, e con l’aria di chi è stato colto da una premonizione - o da un abbaglio, come dicevano tutti - s’era impuntato per far sbarcare tutto il gruppo.
“Ho letto molti romanzi di avventura” si giustificò Henry con assoluta naturalezza. 
McClintock non era certo un topo di biblioteca, ma da esperto navigatore sapeva che i cairn servivano agli inuit come punti di riferimento. In caso di necessità, i marinai li utilizzavano per comunicare in condizioni atmosferiche avverse, quando qualsiasi messaggio lasciato alle intemperie sarebbe andato perduto.
Gli era parsa comunque strana l’ostinazione con cui Henry aveva insistito per raggiungere il cairn dopo averlo semplicemente veduto da lontano: sulla cima di quella montagnola si agitava una bandiera scolorita dalle intemperie, ma neppure un falco sarebbe riuscito a distinguerla mentre la Fox perlustrava la costa, tenendosi a debita distanza dalla banchisa.
Fu solo per non passare lui stesso da allucinato che evitò di domandare al ragazzo se per caso non avesse ricevuto informazioni di prima mano dal fantasma di suo fratello John Torrington. 
La notte precedente, quello spettro senza requie e per di più perennemente raffreddato era venuto a visitarlo in cabina, a un’ora che McClintock era riuscito a indovinare solamente osservando il livello raggiunto dall’ultima bottiglia sul tavolo.
“Ho bevuto parecchio”, disse a mo’ di saluto quando se lo trovò dinanzi col solito fazzoletto, con cui si asciugava l’eterna goccia dal naso. “Come minimo, a questo punto vedo i fantasmi.”
Come era sua abitudine durante quelle visite, John Torrington non si smarrì in convenevoli: si limitò a indicare, sopra alla mappa della King William Island, un punto nell’entroterra dove apparentemente non c’era un bel niente, ma che il capitano si affrettò a contrassegnare con il massimo scrupolo.
“Che cosa ci sarebbe là, a parte la neve?” brontolò McClintock, versandosi l’ennesimo bicchiere. “Il magico tesoro degli elfi? Un po’ di quattrini, in fondo, ci farebbero comodo.”
Sotto al cairn, e neppure troppo in profondità, i marinai rinvennero in effetti un cofanetto, che non conteneva neppure un baiocco bensì, per l’appunto, un messaggio. Su una pagina tolta dal diario di bordo della Her Majesty’s Terror, il capitano Crozier aveva lasciato il proprio sintetico resoconto sulle ultime vicissitudini della spedizione Franklin.  
Come un’apparizione, McClintock vide dinanzi a sé i relitti delle due navi imprigionate tra i ghiacci, e gli uomini dell’equipaggio incamminarsi verso un destino incognito. La morte di sir Franklin portava la data certa del giorno 11 giugno 1847, e la sua tomba doveva trovarsi nelle vicinanze del cairn.
Quanto all’Erebus e alla Terror, molto probabilmente i due imponenti velieri si erano inabissati in quel tratto di mare che la Fox aveva percorso per giungere fino a lì. Le loro vestigia erano ormai custodite in quel fondale gelido e inaccessibile.
McClintock ripensò ai naufraghi della Resolute, e alla visione che continuava a perseguitarlo ogni volta che chiudeva gli occhi per prendere sonno: le scialuppe calate dalla nave che già cominciava a inclinarsi, la lunga attesa nel gelo prima di essere avvistati da una baleniera apparsa come un miraggio. Una delle scialuppe fu lasciata per mare non per dimenticanza, ma perché conteneva solamente dei cadaveri. A distanza di anni, il capitano continuava a trovarsela puntuale davanti gli occhi nella solitudine dei suoi incubi notturni: una barca di morti destinata a viaggiare senza meta fino alla fine del mondo.
Decise di mettere un freno a quei pensieri: “È ora di dire basta a tutti questi fantasmi. La mia cabina è già fin troppo affollata”. 
Come riportavano i resoconti delle precedenti ricerche, peraltro confermati da altre fonti ufficiose ossia da John Torrington, una volta dichiarato l’abbandono delle navi i reduci della Terror e dell’Erebus si erano diretti a sud.
McClintock diede ordine di dividersi in due gruppi: il primo, al suo comando, si sarebbe avventurato nell’entroterra seguendo la linea costiera. Il resto della ciurma avrebbe seguito lo stesso percorso via mare, a bordo della Fox.
“Verso sud, capitano?” domandò l’irlandese, quello che nascondeva il gin nella pelliccia.
McClintock, in quel momento, seguiva con lo sguardo un’immaginaria fila di disperati che arrancava sulla neve trascinando le scialuppe di salvataggio.
Si riscosse da quella visione, e disse semplicemente:
“Si parte.”
 
******
 
La guida inuit di cui McClintock s’era procurato i servigi unitamente all’acquisto di una muta di trenta cani da slitta, si rivelò una miniera di informazioni. Probabilmente da quelle parti esisteva una linea di comunicazione più efficiente del telegrafo: le notizie correvano tra gli indigeni, e presso ogni tribù si conservava memoria delle vicissitudini occorse ai qallunaat della spedizione Franklin.
Anche se la neve cancellava puntualmente ogni traccia del passaggio degli uomini, l’oblio non era di casa nelle terre dei ghiacci.
“Gli inuit sono abituati a raccontare storie. I nostri lunghi inverni sono pieni di ombre, immagini, ricordi”, spiegò Nanouk[4], la guida. “Alcuni di noi si sono imbattuti in un gruppo di bianchi che procedeva a piedi, tirandosi dietro delle barche. Era chiaro che stavano morendo di fame. Una tribù ha portato loro qualcosa da mangiare, ma sono stati cacciati a fucilate.”
Fu Nanouk a segnalare i resti di uno degli accampamenti di Crozier. A valle di una collina su cui un tratto di tundra si ostinava a sbucare con qualche arbusto, il gruppo di McClintock trovò i resti di due scialuppe sfasciate, come se fossero state lanciate a capofitto da una forza prodigiosa.
“Noi crediamo negli spiriti dispettosi, che abitano le nevi e tendono imboscate agli incauti”, spiegò Nanouk. “Ma in questo caso, penso che le due barche siano semplicemente precipitate dal crinale. Forse la neve ha ceduto, forse erano troppo cariche”.
La quantità di zavorra che in effetti le due scialuppe avevano trasportato si trovava ancora sul posto. Si trattava di una congerie di oggetti bizzarri: pezzi di argenteria con incisi dei monogrammi, rotoli da pianola, fazzoletti di seta, una scatola di saponette e una di sigari, poco più in là due cadaveri.
I corpi erano ridotti a mummie congelate, solidamente inchiavardate tra i ghiacci.
Poiché nessuno aveva voglia di metterci le mani, fu McClintock a frugare le uniformi di quelli che parevano, a prima vista, due ufficiali. Il capitano aveva bevuto abbastanza per non lasciarsi sopraffare dalla nausea: cavò dalle tasche dei cadaveri due tesserini, e restò sbigottito quando si ritrovò a leggere i loro nomi.
A un tratto, si rese conto che i due anziani ufficiali che in gioventù avevano seguito Lady Franklin nei suoi viaggi intorno al mondo, e che tanto avevano insistito per imbarcarsi sulla Fox, mancavano all’appello già da parecchio tempo: ad essere precisi, McClintock s’era addirittura dimenticato di loro fin dalla partenza.
“I due della polmonite” sbottò improvvisamente, rendendosi conto che neppure ricordava come si chiamavano esattamente. Erano stati i nomi scritti sui tesserini a rinfrescargli la memoria con un’improvvisa scarica di adrenalina. Si rivolse al primo che gli capitò a tiro, un mozzo lentigginoso intento ad annusare una saponetta alla lavanda.
“I due che s’erano imbarcati sulla Erebus e che a un certo punto sono tornati indietro per via della polmonite: dove diavolo sono?”
Il mozzo lo guardò con aria smarrita.
“Non saprei, capitano. Non mi risulta che abbiamo altri ammalati a bordo, da quando il signor Henry è riuscito a riprendersi.”
“Non parlo del signor Henry, ma di quei due ufficiali che avevano servito sulla Erebus. Quelli che a Disko bay sono stati congedati da Franklin, e poi hanno fatto domanda per venire con noi. Ricordi i loro nomi?”
“Due ufficiali della Erebus? Non abbiamo nessuno della Erebus a bordo.”
Di fronte all’espressione allibita del marinaio, McClintock rievocò il salotto di Lady Franklin, le tende che si aprivano su un giardino di tuberose e la scrivania adibita a ufficio di arruolamento.
Rammentò quella strana mattina, in cui s’erano presentati per imbarcarsi i soggetti più disparati; l’insistenza dei due ufficiali, la loro promessa mai mantenuta di vegliare su sir Franklin e riportarlo in Inghilterra dalla moglie, riuscisse o no a scoprire il passaggio a nord ovest.  
Rivedeva se stesso seduto alla scrivania ingombra di cento carte, nell’atto di trascrivere i nomi di quei due sul registro d’imbarco.  Capitano Victor Peglar e tenente Frank Armitage, aveva scritto McClintock dopo aver esaurito tutti i possibili argomenti per convincerli a rinunciare.
Adesso ricordava con esattezza i loro nomi. Erano esattamente quelli che aveva appena letto sopra a quei tesserini.  
 
******
 
A Simpson Sound, il gruppo avviato in perlustrazione sotto la guida di Nanouk si ricongiunse con l’equipaggio rimasto a bordo della Fox
Lungo il percorso, altri cimeli della spedizione di Franklin erano emersi con tutto il loro carico di bizzarra inutilità: ancora corpi insepolti e oggetti da toelette, pantofole adatte a serate davanti al caminetto, rulli per la pianola e servizi da tè in porcellana. L’unico oggetto che pareva adatto alle circostanze erano degli stivali a cui erano state applicate delle assicelle, per migliorare la presa sul manto nevoso.
McClintock lo sapeva già prima della partenza: tutto quello che poteva aspettarsi di trovare erano vecchi cimeli e forse qualche racconto dei nativi locali. Ma in fondo continuava a sperare d’imbattersi in qualcosa di più, o addirittura d’incontrare qualche superstite in grado di raccontare come erano andate le cose dopo che la Terror e l’Erebus erano state abbandonate al loro naufragio solitario.
 
Una volta giunti sulla spiaggia limacciosa che si affacciava sul Simpson Sound, il capitano si trovò a dover prendere una decisione.
Per quanto riguardava il destino di sir Franklin, il messaggio trovato sotto al cairn parlava chiaro. Quanto alla sorte degli altri membri dell’equipaggio, le mummie dei due ufficiali e i numerosi corpi rinvenuti lungo il percorso parevano confermare i resoconti precedenti: tutti gli uomini erano morti al servizio di Sua Maestà, come peraltro già dichiarato dall’Ammiragliato.  
Riguardo a Peglar e Armitage, McClintock era giunto a una sorta di compromesso: l’incontro con quei due nel salotto di Lady Franklin non era mai avvenuto. Si era trattato evidentemente di un sogno. Ciò che era preoccupante era piuttosto il fatto che lui non fosse in grado di riuscire più a distinguere i sogni dalla realtà. Cercava di non pensarci, perché più ci pensava più gli pareva invece di esser stato ben sveglio nel momento in cui aveva arruolato i due veterani. Ricordava i discorsi, il loro tono insistente, le parole con cui aveva tentato di dissuaderli.
“Devo smettere di bere”, ripeteva a se stesso, come inevitabile conclusione di tutti quei rovelli. “A partire da oggi, facciamo da domani, non verserò più un goccio.”
L’equipaggio trascorse un giorno intero sulla spiaggia di Simpson Sound, a esaminare i resti dell’ultimo accampamento di Crozier. La quantità di corpi rinvenuti sotto alle macerie di una tenda da accampamento, pareva indicare con la massima certezza che il destino della spedizione Franklin si era concluso in quel luogo e che non c’era stato altro seguito.
Eppure, McClintock ricordava di aver letto da qualche parte che almeno un gruppo di quei disperati era riuscito a raggiungere il Great Fish River. Lo stesso John Torrington l’aveva confermato, segnando addirittura il punto esatto sulla mappa.
Per la prima volta da quando era partito, McClintock si domandò se valesse la pena proseguire. Sicuramente al di là dello stretto di Simpson avrebbe trovato altri sigari e saponette, altri rulli per ascoltare la musica, magari addirittura quella maledetta pianola che i sopravvissuti s’erano intestarditi a portarsi appresso. Di costoro, avrebbe trovato tutt’al più altri corpi insepolti, e tracce di accampamenti di fortuna.
Incerto sul da farsi, sperò in una visita del suo spettrale amico, l’ex fuochista John Torrington:
“Sta’ a vedere che proprio ora che ho bisogno di una dritta, quell’imbecille non si fa vivo.”
Lo vide il giorno seguente, ritto sul bagnasciuga col braccio teso in direzione dello stretto.
Quella notte, McClintock aveva dormito malissimo. Una serie di sogni più vivi del reale l’avevano ridestato più volte: il salotto di Lady Franklin, la spiaggia di Beechey Island devastata dalla tormenta, i volti congelati di Peglar e Armitage si erano mescolati in una sfilata da incubo.
Da ultimo gli era parso di trovarsi in una grotta ricoperta di muschio, da cui emanava un fetore di carne marcia: brancolando nel buio, aveva urtato una fila di gavette apparecchiate attorno a un paiolo, come se in quel luogo infero si stesse preparando un pranzo. D’un tratto quel paiolo, che ribolliva senza che fosse acceso alcun fuoco, si era rovesciato gettandogli addosso una poltiglia di corpi tagliati a pezzi.
A quel punto, McClintock s’era destato di soprassalto. Mentre vomitava ai piedi della branda tutto l’alcool ingurgitato la sera precedente, gli tornò in mente il rapporto inviato da John Rae, l’esploratore che aveva scoperto l’ultimo accampamento lungo il Great Fish River.
John Rae era stato esplicito nei limiti del possibile, nel riferire fatti che avrebbero potuto gettare nel fango l’intera Marina inglese. Nel suo rapporto aveva parlato di cadaveri mutilati, lasciando intendere che gli ultimi sopravvissuti avevano fatto ricorso “alle risorse più estreme” per non morire di fame.
“Il Great Fish River”, pensò McClintock quando incontrò sulla spiaggia John Torrington e la sua muta indicazione. “Non intendo spingermi fino a lì per nessuna ragione al mondo. Al diavolo la missione e al diavolo Lady Franklin, che comunque dovrebbe ritenersi soddisfatta già solo per il fatto che suo marito è morto senza finire dentro a un paiolo.”
Cominciava a sospettare che la vera ragione per cui l’Ammiragliato aveva sospeso le ricerche fosse da ricercarsi nel rapporto di Rae: il naufragio della Resolute, la morte dei suoi marinai non c’entravano nulla. Da questa eventualità, scaturiva una sola logica conseguenza: passare al setaccio il fiume e portare in patria altre notizie a sostegno di Rae significava suscitare uno scandalo, subire il bando da parte dell’Ammiragliato e finire a pascolare le pecore in quale remoto villaggio irlandese.
McClintock detestava la vita di terra e soprattutto le pecore.
La sera stessa diede ordine d’invertire la rotta:
“Si torna a casa, uomini. Con un po’ di fortuna, saremo in vista dell’Inghilterra prima che cominci l’inverno.”
Il colonnello Marlowe, ovviamente, si opponeva: “Io intendo scoprire cos’è accaduto al tenente Colby.”
McClintock non si scompose: “Qui gli ordini li dò soltanto io, sir. Non abbiamo bisogno di raccogliere altri rulli di pianola e altre ossa per capire com’è andata a finire la spedizione.”
A quel punto fu Nanouk a insistere: “Non lontano da qui si trova il villaggio di Gjoa Haven. È probabile che gli inuit della costa siano entrati in contatto con qualcuno dei superstiti. Voglio dire, quei corpi” - e accennò agli insepolti sotto alla tenda - “non si saranno certo accatastati da soli.”
 
******
 
Da qualche parte lungo il corso del Great Fish River, fine agosto 1848
 
Continuava ad avanzare, ormai sempre più esausto, lungo l’argine di sterpaglia e alberi bassi al di là del quale il fiume scorreva in una gola: prigioniero di un canyon che lo stringeva tra alte pareti di roccia, il Great Fish River scendeva a precipizio improvvisando rapide, gorghi in cui l’acqua si arrotolava su se stessa indecisa se proseguire o fare marcia indietro.
Aveva raccolto le ultime bacche della stagione, ormai grinze e insapori perché le piante si stavano preparando ai rigori del gelo, e di zuccheri da sprecare per i frutti non ne avevano più. Le temperature si erano abbassate notevolmente, e già aveva fatto la sua comparsa qualche fiocco di neve in avanscoperta. Volteggiando qua e là, aveva esaminato brevemente il paesaggio prima di scomparire senza toccare terra: molto probabilmente, era tornato ad avvertire i compagni ch’era tempo di scendere e incominciare l’inverno.
L’oscurità incombeva togliendo spazio al giorno, il freddo sole dell’Artico penzolava tra gli alberi sempre più scialbo e distante. Le ore di luce si riducevano sempre più, un moccolo di candela destinato a piegarsi su se stesso fino a spegnersi.
Il tenente Colby proseguiva il suo cammino seguendo il corso del Great Fish River. Con sé non portava nulla, a parte l’equipaggiamento per piantare una tenda che il forte vento autunnale avrebbe prima o poi spazzato via durante la notte. Il fucile ormai scarico gli pendeva dal fianco, e gli serviva solo per appoggiare il passo.
Nessuno lo seguiva.
Negli ultimi tempi le munizioni avevano cominciato a scarseggiare, e insieme ad esse era diminuita anche la selvaggina: i piccoli abitanti della tundra, lepri e roditori, facevano raramente capolino dai loro rifugi. In vista dell’inverno, i caribù migravano in lunghe file verso zone più temperate.
Per un paio di settimane, gli uomini si erano accontentati di buttare nel paiolo acqua e un pugno di erbe, germogli fradici raccattati nella palude, una sorta di gramigna di cui non si sapeva né che diavolo fosse né se era commestibile. Probabilmente era roba che a lungo andare provocava allucinazioni, o forse a scatenare il delirio collettivo fu soltanto la fame rabbiosa di molti giorni.
Fatto sta che una notte, messo sull’avviso da strani odori, Colby aveva raggiunto gli uomini nella grotta dove avevano trovato riparo, e quello che si spiegò dinanzi ai suoi occhi fu il peggiore incubo a cui avesse mai assistito.
Un paio di marinai erano morti quel giorno, e il tenente aveva dato l’ordine di seppellirli. Per la prima volta da quando erano in marcia, i marinai si erano ribellati: erano a malapena in grado di reggersi in piedi, figuriamoci se potevano metter mano alle vanghe.
In quel frangente, Colby aveva acconsentito a che i corpi fossero lasciati insepolti. Più tardi ebbe a pentirsi di quella decisione, e una volta di più ebbe la conferma che gli inglesi erano bestie della peggior specie.
Nella grotta, sotto a un tetto di muschio e di radici simili a ragnatele, un paiolo borbottava sopra a un fuoco di rami verdi, che sprigionava un fumo acre e irrespirabile.
Regnava un’atmosfera da girone infernale, ma fu il contenuto della marmitta a sconvolgere Colby, che di fronte a quell’incubo non trovò altra via d’uscita che puntare contro agli uomini il fucile col colpo in canna:
“Ora seppellirete quell’abominio, quella bestemmia agli occhi di Dio, e voglio che lo facciate a costo di scavare con le vostre stesse mani. Non siete altro che cani.”
Colti di sorpresa, gli uomini avevano voltato verso di lui certe facce ch’erano veramente più da orchi che da uomini.
“Andate a mangiare le vostre bacche, tenente”, l’aveva minacciato il più orco di tutti, un pezzo d’uomo che teneva le zanne già dentro alla gavetta. “Andate, prima che ci venga in mente di prenderci un dessert dopo cena.”
“Voi non avete nessun diritto di opporvi” s’era intromesso un altro morto di fame, che aveva occhi febbrili e lunghe dita adunche, simili agli sterpi con cui rimestava il fuoco sotto al paiolo. “Andate a lucidare i vostri stivali. Noi non vogliamo crepare, sir. Preferiamo arrangiarci.”
Colby non era tipo da farsi intimidire, ma in quel momento la nausea lo inondava di sudore e brividi di freddo. Sentiva il bisogno di urlare o vomitare, forse di fare tutt’e due le cose assieme:
“Uscite immediatamente, con le mani sopra alla testa. Seppellirete quella roba seduta stante. Sarà meglio che vi sbrighiate, signori, o comincerò a sparare.”
Alcuni marinai s’erano alzati, cauti. Avanzavano verso di lui inferociti, mentre gli altri badavano a custodire il paiolo.
Colby aveva centrato diritto in fronte il primo che aveva parlato, l’orco con la testa ancora infilata nella gavetta. Di seguito il secondo, quella specie di ratto dagli occhi febbricitanti e le dita tali e quali a un cespuglio di rovi.
Di lì in poi era scoppiato un pandemonio.
Circa mezz’ora dopo, con il fucile ormai scarico il tenente si era incamminato verso la sua tenda, l’aveva smontata con tutta la calma del mondo, e in piena notte aveva ripreso il cammino.
Voleva andarsene il prima possibile da quel luogo maledetto, lasciarsi alle spalle i lamenti degli agonizzanti e quel lezzo rivoltante.
Lungo il corso del Great Fish River aveva continuato a procedere a caso, senza riuscire a calmare il proprio sconvolgimento interiore. Non si era nutrito per giorni, e ora cominciava anche lui a soffrire di allucinazioni. Il progetto di raggiungere Fort Resolution lo spingeva a proseguire, ma presto si rese conto di non riuscire più a leggere la mappa, né a rintracciare il punto in cui si trovava. Ricordava soltanto che l’avamposto distava più di seicento miglia dal Simpson Sound, ma forse quell’imbecille di Crozier si era sbagliato: né d’altra parte avrebbe saputo dire quante miglia aveva percorso insieme alla ciurma, e in seguito da solo.  
Colby fece appello alle estreme risorse della sua volontà: costruì inutili trappole per catturare le bianche lepri dell’Artico, appostandosi finché il gelo non diventò insopportabile e lo costrinse a muoversi, per non cedere al torpore dell’assideramento.
In alcuni momenti provava una sorta di esaltazione: lui solo era riuscito a conservare intatto l’onore senza cedere alla tentazione della bestialità, lui solo avrebbe raggiunto Fort Resolution a prezzo di sofferenze e sforzi incalcolabili, che nessuno di quegli inglesi cani sarebbe mai stato in grado di tollerare. Come premio, avrebbe ottenuto una nave ancora più splendida della Terror, più solenne dell’Erebus, e sarebbe passato alla storia come l’esploratore che aveva scoperto la via del passaggio a nord ovest.
Sull’onda lunga di quel delirio che gli infondeva energie insperate, s’ingegnò a scavare radici da quella terra eternamente ghiacciata, a raccogliere erba, a masticare zolle per acquietare i crampi. Scoprì un’altra grotta in prossimità dell’argine, un budello che si inoltrava per un paio di metri creando una sorta di camera riparata. Attorno ad un laghetto fiorito di cristalli, la parete di roccia gocciolava stalattiti in un silenzio irreale.
Affascinato dalla suggestione del luogo, Colby si entusiasmò all’idea di aver trovato il posto ideale per trascorrere l’inverno.
Ben presto, tuttavia, subentrò nel suo animo una sorta di lucidità senza illusioni. Sperare di sopravvivere ai lunghi mesi di neve senza nient’altro che un fascio di sterpi e un pugno di radici, raccolte poco prima che il terreno cominciasse a gelare, era pura follia.
D’altro canto, il tenente si rese conto di non essere più in grado di proseguire il cammino. Da semplice avamposto nella tundra glaciale, Fort Resolution finì per assumere i contorni di una terra da leggenda, un luogo immaginario che forse neppure esisteva.
Pensare di riuscire chissà come a raggiungerlo era come sognare di andare sulla luna.
Era giunto il momento di accettare che tutti i desideri di grandezza seguissero il destino che da sempre spetta ai sogni: smarrirsi nell’oblio.  
Poco prima che la lunga notte invernale scendesse a coprire il mondo Colby si trascinò fuori dalla sua grotta, costruì un cairn sulla riva del fiume e seppellì in un messaggio le sue ultime parole:
“Dedico il mio pensiero al colonnello Edward Marlowe e alla cara Millicent: non vi ho dimenticato, non avrei mai potuto. Tenente Richard Colby, Royal Navy, agosto 1848. Forse.”
Quando terminò di ammonticchiare i ciottoli, lasciando come segno distintivo il fucile piantato sulla cima, alzò gli occhi sentendosi improvvisamente osservato.
Giunto da chissà dove, un bambino inuit lo fissava attraverso l’aureola di pelo della sua pelliccetta.
“Tu chi sei, ragazzino?”
Il tenente gli parlò in lingua inuktitut, e d’un tratto quelle parole gli scaldarono il cuore col ricordo della voce di sua madre Qannik.  
Il volto dell’inatteso visitatore era dolce e irradiava una sorta di splendore: ma già da tempo Colby aveva cominciato a smarrire i contorni delle cose, e a vederle trasfigurate da una luce irreale.
Tra i ciuffi di pelo che sbucavano dal cappuccio, il piccolo inuit sorrideva. Il suo sguardo pareva antico come il mondo, e rammentò a Colby la vecchia foca che, in un tempo ormai remoto ma improvvisamente presente, aveva alleviato le sofferenze di Qannik con il suo sguardo colmo di umanità e saggezza.
“Sei venuto a prendermi?” mormorò il tenente, scoprendo che in fin dei conti non provava nessun timore e trovava la cosa persino divertente. “Quindi la morte è un ragazzino con gli occhi a mandorla?”
 Per la seconda volta, il bambino non rispose. Si limitò a tendere la mano verso quell’uomo che non era mai stato inglese pur desiderandolo con tutto se stesso, e non aveva mai smesso di appartenere al suo popolo pur rinnegandolo con tutte le forze.
Ora, evidentemente, era giunto il momento di venire a patti con se stessi.
Colby afferrò quella mano minuscola: dentro alle muffole in pelle, le dita del piccolo inuit lo stringevano con vigore, e il suo palmo era un nido di sicuro calore.  
“Io sono Silatuyok”, disse serio il bambino. “Se lo desideri, puoi venire con me.”
“Dove vuoi portarmi?”
Il piccolo alzò le spalle:
“Nelle terre dell’oblio, ogni luogo è riposo.”
“Andiamo”, rispose Colby.  
Da un cielo ricoperto di basse nuvole bianche, i primi fiocchi di neve cominciavano a cadere.


 
 

[1] Uomo bianco, in lingua inuktitut. Al plurale, qallunaat
[2] In lingua inuktitut, “carino e intelligente”
[3] Dea del mare nella mitologia inuit
[4] In lingua inuktitut, orso.

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Capitolo 4
*** 4. ***


“A cosa potrei
paragonare questo mondo?
alla scia bianca
dietro la barca
nella debole luce dell’alba”
(Mansei, VIII secolo)
 
4.
 
Villaggio inuit di Gjoa Haven, maggio 1859
 
“Al giorno d’oggi, si sono fatti furbi anche gli indigeni”, brontolò McClintock rigirando tra le mani un’edizione economica di Cime Tempestose, con la rilegatura che cadeva da tutte le parti e le pagine arricciate, sfinite da almeno dodici anni di convalescenza dentro a un igloo. “Trenta cani da slitta in cambio di un libercolo che si può acquistare a Portobello da qualsiasi rigattiere.”
“Siete scozzese, per caso?” s’informò Nanouk, sornione.
“Perbacco, sono irlandese!” McClintock era quasi offeso.
“Allora siate furbo come ogni irlandese che si rispetti, e guardate con attenzione.”
La visita dell’equipaggio a Gjoa Haven aveva fruttato, com’era prevedibile, un altro servizio da tè, un kit da barbiere completo di pennelli e rasoi, nessun rullo da pianola e questo era già sorprendente. Ma il vero imprevisto, che suscitò in McClintock il brivido dell’esploratore di fronte a una scoperta, fu proprio quel volume dall’apparenza insignificante: tra le pagine erano ripiegati numerosi fogli scritti in lingua inglese. Alla stessa maniera, quella calligrafia ordinata e pignola occupava le ultime pagine dell’edizione economica.
Il capitano cominciò a leggere e i fumi dell’ultima sbornia svanirono all’istante. Davanti ai suoi occhi si dispiegava il resoconto degli ultimi giorni della spedizione Franklin, redatto da un certo Christian Fraser, bibliotecario a bordo della Her Majesty’s Terror.
“Qui ci sono le cinquemila sterline promesse da Lady Franklin” brontolò, per non dare a vedere che era commosso. “Ci sono proprio tutte, fino all’ultimo penny.”
Mentre a Nanouk, a Marlowe e al giovane Henry fu affidato l’incarico di setacciare Gjoa Haven in cerca di ulteriori testimonianze, McClintock si chiuse in cabina dopo aver impartito l’ordine tassativo di non disturbare per nessun motivo.
“Stasera non darò udienza neanche a John Torrington”, precisò il comandante dando un doppio giro di chiave.
Si immerse nella lettura degli scritti di Fraser.
John Torrington venne ugualmente, ma si limitò a sedere accanto alla stufa, soffiando a tratti il naso e alzando un sopracciglio quando il capitano tentò di versarsi l’ennesimo bicchiere dalla bottiglia ormai vuota.
“Qui si parla anche di quel tenente Colby”, disse a un tratto McClintock, senza sapere più se parlava a se stesso o al suo visitatore dell’oltretomba. “Da quel che si dice, non ne esce affatto bene. Che cosa ne pensate voialtri nell’al di là, dovrei fare leggere questo scritto al colonnello?”
John Torrington rispose con una doppia alzata di sopracciglia.
“Son cavoli di noi vivi, questi, non è vero? Immagino che di non ci siano più segreti.”
 Il fantasma si limitò a infilare il naso perennemente gocciolante nel fazzoletto.
“Chissà perché, me lo immaginavo. Però, siccome tra i vivi certe cose funzionano diversamente, ben lungi da me l’idea di far venire a Marlowe un altro infarto. Anche se questo significherebbe avere uno in meno con cui dividere quelle famose cinquemila sterline. Ti dirò di più, caro il mio spettro: a quanto pare, a un certo punto la spedizione si è divisa in due gruppi. Del primo, già sappiamo: chi prima e chi dopo, tutti hanno preso il traghetto per i morti di freddo qui a Gjoa Haven. Resta il secondo gruppo, quello di mister Colby. Per una volta che la fortuna tira dalla mia parte, e prima che venga anche a lei un attacco di polmonite, varcheremo lo stretto e andremo a ficcare il naso dalle parti del Great Fish River.”
John Torrington si limitò ad annuire.
“Però ti avverto, ragazzo: io dentro alle grotte non ci metterò piede. Neanche se le sterline diventassero settemila, o forse solo in quel caso.”
 
******
 
Penisola di Adelaide, lungo il corso del Great Fish River, giugno 1859
 
La fortuna smise di soffiare dalla parte di McClintock non appena l’equipaggio sbarcò sulla terraferma e il vasto territorio della penisola di Adelaide, ricoperta di fragili infiorescenze estive, spalancò i propri orizzonti di pini sghembi e paludi.
“Sarebbe più facile trovare un ago in un pagliaio”, osservò il capitano. Per quel che riguardava il gruppo di disperati che si era spinto fin là, agli ordini del visionario tenente Colby, aveva una sola certezza: A Fort Resolution, quella manica di ammutinati non era mai arrivata.
Gli ultimi rapporti della Compagnia della Baia Hudson parlavano dei resti di alcuni bivacchi trovati in zona, tra cui quello visitato da John Rae: queste erano le uniche coordinate disponibili per orientarsi in uno spazio che pareva infinito.
“Non mi stupirei se si fossero suicidati in massa”, pensò ancora McClintock mentre l’equipaggio della Fox affrontava i domini incontrastati della palude. “Questo posto pare fatto apposta per farti perdere la voglia di stare al mondo.”
Il sole di mezzanotte conferiva a quei luoghi un’apparenza irreale: da lontano, i sentieri tracciati da cacciatori di passaggio sembravano condurre a immensi prati in fiore, a praterie di erba lussureggiante e a radure boschive. Di fatto, man mano che ci si avvicinava si scopriva che i fiori erano in realtà placche di fango, mentre l’erba era un manto di mucillagine che ricopriva acquitrini a perdita d’occhio. 
Dopo quindici giorni di cammino accidentato, la spedizione raggiunse i resti di un bivacco che avrebbe potuto essere stato allestito da chiunque: inuit, inglesi, cacciatori della Compagnia della Baia di Hudson, gruppi di pellerossa. A quella scoperta ne seguirono altre dello stesso tenore: tracce di accampamenti, di fuochi accesi e resti di selvaggina consumata sul posto.
Nient’altro: né un rullo di pianola e neppure una saponetta.
“A questo punto, non mi dispiacerebbe se saltasse fuori un altro di quei maledetti servizi da tè”, brontolò McClintock, in preda all’incertezza. “Sarebbe una consolazione. Quanto meno, saprei che non sto andando completamente a lume di naso.”
Contrariamente ai buoni propositi formulati durante l’ultima conversazione con John Torrington, McClintock si convinse dell’opportunità di scambiare due chiacchiere col colonnello Marlowe. Se non altro per evitare che il vecchio s’intestardisse a voler inseguire Richard Colby fino al Capo di Buona Speranza, o magari fino all’inferno. Convocò il colonnello nella sua tenda, gli sottopose l’intero rapporto di Fraser e lo rese partecipe dei risultati delle ricerche effettuate lungo il Great Fish River: tracce di braci spente, qualche osso di lepre cucinata allo spiedo, nessun indizio certo.
Il tempo stringeva: ancora un mese e l’inverno sarebbe stato alle porte, e McClintock contava di goderselo a casa sua in Irlanda, con la sua parte di ricompensa nelle tasche. A quel punto, persino i belati delle pecore sarebbero risuonati alle sue orecchie come un concerto di violini e clavicembali.
Di fronte alle rivelazioni contenute nel manoscritto di Fraser, il colonnello Marlowe reagì con compostezza: non ebbe alcun infarto e si limitò a chinare il capo, soprappensiero.
McClintock provò a scuoterlo:
“Andiamo, colonnello: non so cosa speravate di scoprire riguardo a Colby, ma se ci pensate bene tutto questo era già scritto nella sua ultima lettera.”
“Non avrei pensato che potesse spingersi così in basso. Colby era mio figlio”.
Di fronte alla perplessità del capitano, Marlowe si affrettò ad aggiungere: “Era il marito di mia sorella, ma ancora prima io l’ho cresciuto come un figlio. L’ho educato secondo i principi dell’onore militare, o almeno così ho creduto”. L’anziano colonnello scosse il capo, amareggiato. “Chissà perché l’affetto ci rende così fragili: uno si aspetta sempre che quel che si è piantato possa dare dei frutti.”
McClintock decise ch’era giunto il momento di stappare un’altra bottiglia. Constatò con disappunto che la sua inesauribile riserva era ormai agli sgoccioli.
“Io ho imparato a non aspettarmi troppo dalle persone. Purtroppo, la delusione possiede molti volti, e se si va a stuzzicarla ne mostra sempre di nuovi.”
“Alla mia età, non ho ancora imparato a vivere di ricordi. Sono un vecchio che non riesce a trovare riposo.”
“A volte anche i ricordi diventano molesti.” Dopo il primo bicchiere, McClintock aveva come al solito l’impressione di riuscire a penetrare i segreti del mondo, e si trasformava inevitabilmente in un filosofo: “Probabilmente fa parte del destino dell’uomo non conoscere tregua a causa dei propri pensieri. Devo averlo persino letto da qualche parte: Ah memoria, nemica mortale del mio riposo!”
Un improvviso trambusto interruppe la discussione e costrinse McClintock a nascondere la bottiglia. Una squadra  di marinai inviati in perlustrazione stava rientrando in preda a una grande agitazione:
“Abbiamo trovato una strage”, annunciò il primo che riuscì a prendere fiato. “Una grotta piena di morti a cui hanno sparato. Saranno un centinaio.”   
McClintock non fece neppure in tempo a chiedere ulteriori dettagli, che subito un altro gruppo arrivò trafelato, al seguito di Henry Torrington:
“Mi sembrava di averlo veduto da lontano e infatti c’è davvero.”, ansimò il ragazzo, rischiando di strozzarsi con le parole. “A due miglia da qui c’è un cairn, con un fucile inglese piantato sulla cima.”
 
******
 
La grotta era precisamente quella del sogno: bassa e coperta da una coltre di muschio, possedeva un ingresso stretto a cui si poteva accedere solamente carponi.
McClintock si rassegnò a dover fare i conti con il proprio incubo peggiore: si concesse un lungo sorso dalla fiaschetta che ultimamente aveva cominciato a portarsi appresso - segno inequivocabile di un suo peggioramento sul versante alcolico - e si accinse a entrare in quell’anticamera dell’inferno.
Per via dell’umidità e dell’ambiente chiuso i corpi risultarono sigillati uno all’altro, sicché riuscire a frugarli in cerca di qualche segno di identificazione si rivelò un’impresa al di là del bene e del male. Quel mucchio di carne insepolta aveva attirato gli animali selvatici della zona, e ciò che non aveva seguito il corso del tempo era stato disfatto dall’opera di volpi, lupi e probabilmente qualche grizzly di passaggio.
Con un fazzoletto calato sul naso alla maniera di John Torrington, McClintock si limitò ad annotare i dati essenziali:
“Venti uomini in tutto, facciamo cifra tonda. Chi è quello sciagurato che ha parlato di un centinaio?”
Si fece avanti il giovane mozzo lentigginoso: “Al buio sembravano molti di più, sir. Al buio, e con la paura.”
“I morti non possono farci più nulla” osservò il capitano, notando sullo sfondo un paiolo rovesciato. “È piuttosto dei vivi che occorre avere paura.”
Uscito dalla grotta e dal lezzo insostenibile di quel verminaio, si concesse un paio di respiri profondi. Intorno a lui, la prateria sbocciava nella bellezza fuggevole dell’estate artica. L’aria era piacevolmente tonificante, e McClintock  scoprì un’infinita varietà di profumi e colori sotto a un cielo che, per una volta tanto, era completamente sgombro di nubi. Riconobbe l’aroma pungente del pino, il fruscio di un salice che catturava un filo di brezza, le macchie gialle e viola degli arbusti fioriti. Più in là i cuscinetti viola delle sassifraghe crescevano rasoterra per proteggersi dal vento. Appena un po’ più alti, i fragili fiori bianchi del papavero artico dondolavano il capo, alla ricerca di un raggio di sole.
McClintock non si era mai sentito così in forze: un incubo lungamente temuto era stato finalmente affrontato e superato. Se gli fosse toccato in sorte di conservare un solo ricordo di tutta la spedizione, avrebbe scelto quel singolo istante di beatitudine.
 “Il cairn scoperto da Henry sarà la nostra ultima tappa”, annunciò all’equipaggio. “Abbiamo raccolto sufficienti informazioni sulla spedizione perduta, e porteremo in patria notizie e prove certe che fino ad ora nessuno è riuscito a ottenere. Abbiamo avuto successo, uomini. Ancora pochi giorni, giusto il tempo di raggiungere la Fox, e ci imbarcheremo senz’altro per l’Inghilterra.”
 Di sottecchi, McClintock lanciò un’occhiata al colonnello Marlowe. Questi si limitò a mantenere lo stesso contegno impassibile che aveva già esibito durante la lettura del compendio di Fraser.
Poco distante dal cairn, gli uomini della Fox scoprirono un’altra caverna, un cunicolo che conduceva a un’autentica cattedrale di stalattiti. Gli uomini si diedero la voce l’un l’altro per invitarsi ad ammirare quel prodigio, finché la loro attenzione non fu attirata da qualcosa di ben più sconcertante.
“Possibile che in ogni maledetta grotta debba esserci almeno un cadavere?” inveì il capitano, facendosi largo a spinte per andare a verificare di persona.
Disteso sulla riva di un lago di cristalli, sotto a una vecchia coperta come se riposasse sereno nel suo letto, il corpo di un ufficiale giaceva così fresco che McClintock non esitò a chinarsi per controllare se respirava. Il capitano aveva ancora fissi negli occhi i volti dei numerosi morti incontrati lungo il percorso: lo sguardo fisso nell’eternità di Peglar e Armitage, i marinai senza nome trovati sulla spiaggia di Simpson Sound, tutti portavano i segni di un’agonia indicibile, del delirio dovuto alla fame, della quieta demenza dell’assideramento.
Ma il viso di quel giovane, dagli zigomi alti per essere un inglese e dai tratti troppo fini per essere un inuit, era la rappresentazione stessa della pace interiore. 
McClintock rimase lungamente a fissarlo finché la sua attenzione non fu distratta dalla presenza del colonnello: Marlowe si era spinto fin dentro alla grotta, affascinato dai giochi di luce e pulviscolo che un’apertura in alto creava in quel luogo fiabesco.
“La natura è un miracolo” aveva commentato, posando lievemente la mano sulla spalla del capitano. “Qui siamo veramente fuori dallo spazio e dal tempo”.
Lasciò vagare lo sguardo su quello spettacolo prodigo d’infinite suggestioni. Alcune stalattiti si saldavano al suolo come le colonne di un tempio, altre davano forma a figure eccentriche. Qui una piccola chiesa con tanto di campanile, a destra una forma tozza con orecchie e proboscide evocava i possenti elefanti delle Indie. Più in là una figura pareva assorta in preghiera, simile a un angelo alato che vegliava il corpo di un uomo. Quando gli occhi del colonnello erano scivolati sul volto che emergeva sereno dalle pieghe della coperta, fu McClintock a posargli la mano sulla spalla.
Dall’espressione che ora si dipingeva sul volto del colonnello - incredulità, stupore e infine dolore - il capitano comprese senza bisogno di parole.
“È lui?” si limitò a chiedere.
Marlowe assentì, austero: “Richard Colby, mio figlio.”
Senza badare alla gravità del momento, il solito mozzo lentigginoso entrò recando un brandello di uniforme sporca di terra:
“Questo è stato trovato sotto al cairn, sir. Probabilmente si tratta di un altro messaggio.”
McClintock aprì l’involto, diede una breve occhiata alle parole scritte con una calligrafia tremante, passò il brandello a Marlowe:
“Questo è per voi, colonnello. Per voi e nessun altro.”
 
******
 
Epilogo
 
Durante il viaggio di ritorno morì Henry Torrington. Se ne andò in silenzio, cogliendo tutti di sorpresa. I marinai lo trovarono disteso nella cuccetta che già aveva occupato nei difficili giorni della sua malattia. Tra la ciurma cominciò a girare la voce che fosse morto di dolore, consumato dal rimpianto di non essere riuscito a riportare in patria la salma del fratello. Già qualcuno giurava di aver visto il suo fantasma vagare senza pace sul ponte e nei meandri sottocoperta della Fox.
“Non dite fesserie”, li mise a tacere McClintock, con la coda di paglia. “Siete il solito branco di ignoranti superstiziosi. Henry Torrington si era reso conto personalmente di quanto fosse difficile scavare su quell’isola maledetta, e lui era del mestiere. Conoscete meglio di me le tempeste dell’inverno. Non possiamo permetterci di allungare il percorso, se non vogliamo esaurire le scorte di carburante e ritrovarci incagliati nei ghiacci. Né soste né deviazioni: lo avevo detto chiaramente al ragazzo, e quanto a voi aggiungo anche niente fantasmi. Non voglio più sentire parlare di spettri per tutto il resto del viaggio.”
McClintock era assillato dai sensi di colpa. A suo tempo aveva promesso a Henry Torrington un’altra ricognizione sulla spiaggia di Beechey Island, anche se solo per distoglierlo dal proposito di continuare a scavare in mezzo a una tormenta.
“Gli ho salvato la vita, a quell’imbecille. Se non se n’è reso conto prima, mi auguro che qualcuno, di là, l’abbia bene informato.”
Confidava che il suo amico John Torrington sarebbe presto venuto a cavargli ogni dubbio, ma lo spettro dell’ex fuochista della Terror non tornò più a fargli visita. Il capitano si rese conto che quella presenza silenziosa gli mancava. Non ebbe molto tempo per rimuginarci sopra: gli uomini brontolavano per la presenza di un cadavere a bordo, ritenendo che avrebbe portato scalogna e che il viaggio di ritorno rischiava di subire l’identico destino della Erebus e della Terror.
McClintock dovette ricorrere a tutte le risorse della sua già scarsa pazienza per dissuaderli dal gettare il corpo in mare.
“Tra poche settimane arriveremo a Disko Bay. Non abbiamo incontrato sulla rotta neppure un iceberg” dichiarò, sperando che nessuno notasse gli scongiuri che faceva con le due mani dietro alla schiena. “Nessuna tempesta ha finora ostacolato il viaggio di ritorno, sicché vi invito a comportarvi da uomini d’onore e a condividere il mio proposito di restituire il corpo di Henry Torrington ai suoi.”  
Una volta sbarcati in Inghilterra, dopo avere effettuato il suo rapporto a Lady Franklin e all’Ammiragliato, dopo aver presenziato a infinite cerimonie di commemorazione in onore dei caduti e in omaggio alla spedizione, dopo aver assistito con infinita tristezza alla messa in disarmo della Fox, troppo vecchia e provata per solcare altri mari, McClintock s’incaricò personalmente di far visita alla madre di John ed Henry Torrington.
Ottenne le autorizzazioni necessarie a caricare la rozza cassa da marinaio sul primo treno per Manchester. Faticò non poco a trovare un vetturino disposto a scarrozzarlo assieme a quel singolare bagaglio, e una volta sul posto scoprì che all’indirizzo fornito da Henry al momento dell’imbarco corrispondeva un’impresa di pompe funebri: già questo era molto strano, tuttavia McClintock pensò che potesse trattarsi del luogo in cui il ragazzo aveva lavorato prima della partenza.
Tuttavia, in quell’ufficio il becchino Torrington risultava essere un emerito sconosciuto.
“Non diciamo corbellerie”, s’intestardì McClintock, come al solito convinto che a essere picchiati in testa fossero gli altri. “Ho qui i documenti d’imbarco del fu Henry Torrington, che ha scritto di suo pugno proprio quest’indirizzo.”
“Ebbene, capitano,” s’intestardì a sua volta il becchino capo, “qui non c’è nessun Torrington. Di più, non c’è mai stato. Certo, se si tratta di un vostro caro estinto e siete interessato ai nostri alle nostre proposte, ritenetemi pure a vostra completa disposizione.”
McClintock era sul punto di perdere le staffe: “Evidentemente, non mi sono spiegato. Il caro estinto non è mio, ed è mia precisa intenzione riconsegnarlo a sua madre, Rosa Torrington, che abita a questo indirizzo. Forse al piano di sopra avete degli inquilini?”
L’uomo sbirciò la carta d’imbarco che McClintock si ostinava a sventolargli davanti al naso.
“Insomma, sir, in questo ufficio Rosa Torrington non c’è. A meno che non pensiate che per farvi dispetto io la tenga nascosta di proposito in qualche armadio, vi consiglio di orientare altrove le vostre ricerche. A Manchester esistono numerose strade intitolate all’ammiraglio Nelson. C’è addirittura una piazza, poco distante da qui.”
Al numero 49 di Nelson Place, McClintock trovò una rivendita di pianole meccaniche. In Nelson Avenue, una fabbrica di posateria d’argento.
“Mancano solamente i servizi da tè”. 
Una fabbrica di porcellane e mattonelle occupava il civico 49 di Nelson Boulevard.
A questo punto, il capitano  cominciava ad avere la netta sensazione che il suo destino lo stesse prendendo per il naso. Si recò al più vicino ufficio di polizia. Avvertito in fretta e furia, il giudice del tribunale locale prese in consegna la bara viaggiatrice di Henry Torrington, e come prima cosa ne ordinò la riapertura per verificare il contenuto. Con grande sorpresa dello stesso McClintock, che aveva insistito per presenziare all’operazione, una volta scoperchiata la bara risultò vuota. Un forte odore di rose si sprigionò dalla rozza cassa da marinaio, e per giorni interi nell’aula di anatomia patologica si dovettero tenere aperte le finestre prima di riuscire a dissolverlo del tutto.
Un altro strano evento occorse a McClintock in quel periodo: poiché era rimasto vivamente impressionato della dignità e del coraggio dimostrati da Edward Marlowe, si era preso la briga di inviare un resoconto degli esiti della spedizione alla Royal Army, auspicando che al vecchio colonnello in pensione fosse conferita una speciale onorificenza al merito. Inutile dire che la richiesta del capitano fu rinviata al mittente con l’espressa avvertenza che il soprannominato ufficiale risultava deceduto alla data del 13 luglio 1845: quando McClintock realizzò che si trattava dell’anno in cui la Her Majesty’s Terror e la Erebus erano salpate tra lanci di fiori e auguri dal porto di Greenhite, fu incerto se scoppiare a ridere o arrendersi all’idea di esser diventato pazzo.
Dopo molte difficoltà, riuscì a risalire al luogo in cui Edward Marlowe era stato sepolto più di quindici anni prima. Di fronte al mausoleo eretto in un piccolo cimitero dello Yorkshire, in mezzo alla brughiera battuta dal vento, di sforzò di non attirare l’attenzione di un gruppo di contadine venute a ripulire le tombe dalle erbacce e a cavare i fiori marci. Fuori dalla cinta muraria contornata di cipressi, si udivano i belati di un gregge di passaggio.
“A quanto parte, mi avete preso per i fondelli tutti quanti: voi per primo, colonnello, di seguito Henry Torrington e quella larva di suo fratello, con quel maledetto raffreddore e il fazzoletto al naso. Sarò anche uno che beve, ma qui la bottiglia non c’entra per niente. Ho attraversato l’Artico in compagnia di fantasmi, e adesso mi resta solo una bella camicia di forza i manicomio.”
Si riscosse dal suo sfogo quando una mano si posò sulla sua spalla. A quel contatto lo colse una viva emozione: si ricordò di quel giorno nella grotta sull’argine del Great Fish River, di fronte al volto addormentato e pacifico del fu tenente Colby.
Si voltò, ma lungo il viale scivolavano solo le prime foglie d’autunno.
Poco lontano, il gruppo delle pie donne seguiva la funzione nella cappella.  
Eppure per un attimo, irrepetibile e breve, gli era sembrato di cogliere nella brezza serale l’accenno di un sorriso.
 
******
 
Lady Franklin trascorse i suoi ultimi giorni in un piccolo cottage in Scozia, sulla propaggine più a nord della regione, quasi in vista dell’Artico. Fu il suo modo per rimanere accanto all’uomo che i ghiacci le avevano sottratto. Rifiutò di indossare gli abiti del lutto, perché il lutto si porta, diceva, quando c’è un morto, non quando al posto della persona amata resta una tomba vuota e una memoria fatta di ghiaccio e di oscurità.
I pastori che conducevano le greggi al pascolo su quel promontorio di erba tenera e di nebbie, la incontravano puntualmente mentre sedeva a ricamare di fronte al mare, oppure semplicemente con lo sguardo perduto nei misteri dell’orizzonte.
Anche dopo la sua morte, si continuò a narrare di lei e del suo dolore, dell’impresa con cui aveva tentato di sfidare il regno dei ghiacci per strappargli il suo amato. Forse fu per la suggestione di quel clima crepuscolare, in cui aleggiava sempre una densa foschia: fatto sta che Lady Franklin continuò a essere vista per molti anni ancora e per molte generazioni, di vedetta in quell’angolo sperduto del mondo, forse in attesa che due velieri spuntassero all’orizzonte.
Agli albori del nuovo secolo, l’esploratore norvegese Roald Amundsen scoprì la rotta del passaggio a nord ovest: con un piccolo equipaggio di soli sei uomini navigò per un tratto le medesime acque già percorse dalla spedizione perduta di sir Franklin. Alla data del 13 agosto 1905 varcò lo stretto di Simpson a sud della King William Island. Si dice che durante il passaggio sostò in silenzio a prua, dedicando il saluto agli eroi di quell’impresa: il comandante John Franklin, i capitani Crozier e Fitzjames, lo scrivano Christian Fraser, i tanti rimasti senza nome e senza sepoltura e anche il tenente Colby, perché la memoria era ormai depurata da qualsiasi traccia di ignominia e rancore.
Più di cent’anni dopo, nel mese di settembre 2014, una spedizione organizzata dal National Geographic annunciò il ritrovamento della nave da esplorazione Her Majesty’s Erebus al largo della costa occidentale della King William Island: il veliero giaceva in posizione verticale a dodici metri di profondità. Le alberature intatte parevano sul punto di spiegare le vele per riprendere la rotta e navigare ancora. Esattamente due anni dopo, le vestigia della Her Majesty’s Terror furono ritrovate a circa cinquanta chilometri di distanza, protette dall’insenatura di una piccola baia e in perfetto stato di conservazione. Le foto realizzate con apposite strumentazioni subacquee, divulgarono in tutto il mondo le immagini del timone coperto da una sottile patina di alghe e immerso in una fosforescenza bluastra. La campana di bordo pareva sul punto di suonare un’adunata.
Nelle lunghe notti dell’Artico, gli inuit narrano ancora certe vecchie leggende a questo proposito. Pare che nelle notti di cui il cielo è limpido e le costellazioni si toccano con la mano, quando la dea Sedna siede sulla scogliera in attesa di qualcuno che sia disposto a pettinare i suoi lunghi capelli, la campana dell’Erebus cominci a suonare.
È un suono dolce e armonioso ma anche molto lieve: per udirlo bisogna tendere bene l’orecchio, ma pare che chi abbia avuto la fortuna di sentirlo non lo dimentichi più per tutti gli anni a venire.
 
 
 

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