Letter to Nadine

di clepp
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Letter to Nadine ***
Capitolo 2: *** Flat 12 ***
Capitolo 3: *** Bar ***
Capitolo 4: *** Picture of me ***



Capitolo 1
*** Prologo - Letter to Nadine ***


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Prologo
Letter to Nadine

 
 
Cara Nadine,
Sono qui, seduta dietro la scrivania in legno che ti piace tanto, con una penna che poggia su un foglio di carta bianco e una foto tua e di tua sorella a tenermi compagnia. Aspetto che le parole escano fuori senza aver bisogno di pensarci più di tanto, ma il fatto è che con te, le parole non sono mai bastate.
Sin da bambina, hai sempre voluto che le persone ti dimostrassero ciò che con le parole si vantavano di fare.
Ricordi quando, dopo aver preso tutte A a scuola, hai obbligato tua madre a comprarti quella bambola dagli occhi blu, profondi come i tuoi, perché, tue testuali parole: “se si promette una cosa, poi la si fa!”?
E quanti cuori hai spezzato perché sei sempre stata convinta che con i se e i ma non si vada proprio da nessuna parte?
Ah, Nadine, sei sempre stata la calamita della famiglia, hai sempre amato tua sorella più di chiunque altro, e hai sempre cercato di salvare il matrimonio di mamma e papà perché secondo te “l’amore c’è ancora, è solo un po’ annebbiato dalle bollette e dal freddo di Londra!”.
Sei sempre stata la romantica di casa, tu, quella sognatrice desiderosa di essere amata da un uomo nello stesso modo in cui venivano amate le donne in tv.
Quante volte venivo a farvi visita e ti trovavo sotto le coperte a guardare qualche film strappalacrime, immersa in un bagno di lacrime salate e fazzoletti umidi? O quando bisticciavo col nonno e tu ci guardavi con quei due occhioni blu e ci dicevi che da grande, avresti voluto incontrare l’anima gemella e finirci a litigare a sessant’anni come facevamo noi?
O quando, ti infatuavi di uno sconosciuto che ti teneva la porta di un bar aperta o ti diceva grazie quando gli porgevi la tazza di tè al lavoro?
Eppure, sei sempre stata anche una ragazza forte, indipendente, con un gran rispetto verso sé stessa. Non sei mai scesa a compromessi, non ti sei mai accontentata di un amore misero, di un amore che sapevi ti avrebbe fatto male.
Ti osservo da quando sei uscita dalla pancia della tua mamma.
Ti osservo in continuazione, anche se tu non te ne accorgi, perché sono una nonna, e il compito di una nonna è quello di accompagnare i nipoti nel processo di crescita.
Ti osservo e vedo me stessa settant’anni e qualche ruga fa.
Hai il mio stesso sorriso, i miei stessi lineamenti, le stesse sfumature ocra tra i capelli biondi e l’amore dipinto negli occhi.
E quello stesso amore dipinto negli occhi, io l’ho sempre avuto.
Nadine, ti scrivo questa lettera perché in un momento preciso della tua vita ti sia da guida.
Ho settantasette anni e la mia vita è sempre più vicina alla fine.
Prima o poi, io salirò lassù, per correre tra le braccia di tuo nonno e dargli uno di quei baci che tu chiami “belli da far piangere”.
Ma Nadine, mia cara nipote, devi sapere che c’è qualcuno, seppur lontano e introvabile che un tempo mi ha fatto battere il cuore più forte di quanto batta normalmente un cuore.
Erano gli anni ’40, io avevo diciassette anni e una grande voglia di vivere. Lavoravo in un piccolo bar gestito dai miei zii a Londra e avevo il sorriso di chi non sa quanto possa essere brutale la vita. Erano gli anni della guerra, Nadine. Gli anni che hanno cambiato il mondo e la mia vita.
Era il 6 giugno 1943, quando lo incontrai per la prima volta.
Ricordo ancora il suo sorriso bucare il mimetico della sua divisa.
Ricordo ancora le farfalle perforarmi lo stomaco e la sua testa inclinarsi verso destra in quella sua smorfia tanto dolce.
Ricordo ancora i suoi occhi neri come la pece ma belli come... belli come penso di sapere solo io.
E la sua voce. Posso sentire la sua voce nella mia mente, nitida e pulita come se fosse quel giorno.
Ciao, mi aveva detto, sei bella da togliere il fiato.
Ma il fiato era lui ad avermelo tolto!
Harold, quello era il suo nome.
Il giorno seguente, tornò da me e ci rimase.
Rimanemmo insieme per una lunga estate, ricca di ricordi e momenti meravigliosi che porto con me da tempo.
Fu il 5 settembre, il giorno in cui lui mi lasciò.
C’era la guerra, c’era chi aveva perso un figlio, un padre, un amico. Io avevo perso l’amore della mia vita.
Ti scrivo questa lettera perché ho bisogno che qualcuno conosca questa parte di me, seppur breve e lasciva, che ha segnato la mia vita. In cuor mio, sapevo che l’unica persona che avrebbe potuto capire saresti stata tu, Nadine.
Non tua madre, non tua sorella, ma tu.
Amo tuo nonno come parte di me, ma a diciassette anni, il cuore batte più forte di quando se ne hanno trenta.
So che quando aprirai questa lettera, io non ci sarò più, ma voglio che tu riviva le mie stesse emozioni di quando, settant’anni fa, viaggiavo sulla bicicletta per le strade di Londra tra le braccia di un ragazzo dagli occhi neri e il sorriso splendente.
È così che ti allego una piccola mappa di Londra che ho comprato in uno di quei negozi per turisti, con la speranza che tu riesca a rivivere le gioie e i dolori della mia adolescenza e che io sia in grado di farti ragionare e crescere nonostante la mia assenza.
Spero che troverai presto la persona che ti faccia battere forte il cuore, alzare la voce, sudare le mani e tremare le gambe, che ti faccia amare la vita, sorridere e ridere e che ti faccia arrivare a settant’anni suonati con la gioia negli occhi e un ti amo ancora ben impresso tra le labbra.
Trova l’amore, Nadine, e troverai la felicità.
Con grande affetto, nonna Jane


 
Buona sera a tutti,
spenderò giusto due parole per spiegare questo mio ritorno inaspettato.
Sento il bisogno di scrivere in questo ultimo periodo, ma allo stesso tempo ho anche un grosso blocco che mi impedisce di farlo. Credo che ritornare a pubblicare possa aiutarmi ad eliminarlo, se non del tutto, quasi.
Perciò rieccomi qui, con una nuova storia, che poi nuova non è. L'ho scritta un paio di anni fa, e non sono mai riuscita a concluderla. Spero di riuscire a farlo adesso.
Una buona lettura,
Clara

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Capitolo 2
*** Flat 12 ***


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Capitolo 1
Flat 12

 
Erano passati quattro giorni e mezzo dal funerale di nonna Jane e Nadine era ancora, inevitabilmente, distrutta.
Con le mani fredde incrociate sotto la testa, i piedi fasciati in un paio di calzettoni e le persiane semiaperte dalle quali entrava la fioca luce della luna, osservava con attenzione quasi maniacale la lettera di tre pagine gettata malamente sul comodino.
La calligrafia di sua nonna era delicata ed elegante e lei era scoppiata a piangere immediatamente, dopo aver visto quanto fosse bello il suo nome scritto da quella donna.
Con gli occhi arrossati e le labbra secche, sentiva il vuoto nel suo cuore.
Come se lo shock per la morte di sua nonna non fosse stato abbastanza, quando era arrivata al cimitero, suo padre le aveva dato quella lettera che l’aveva completamente svuotata di tutto.
Spostò lo sguardo sull’ultima parola dell’ultimo foglio. Una lacrima aveva inevitabilmente rovinato il nome di sua nonna, bagnando l’inchiostro e rovinando la carta.
Nadine l’aveva letta tre volte, quella lettera, e tutte e tre le volte aveva sorriso e pianto e sorriso di nuovo.
Sua nonna le sarebbe mancata come all’essere umano manca l’ossigeno, forse anche di più.
Nadine chiuse e riaprì gli occhi più e più volte.
Sua nonna era morta. Niente più visite mattutine, niente più telefonate ai compleanni, niente più risate, niente più torte al cioccolato che solo a guardarle ti facevano ingrassare di tre chili.
E niente più discorsi sui ragazzi, sull’amore e sull’amicizia.
Ciò che sua madre non era, lo era sua nonna. Ciò che suo padre non era, lo era sua nonna. Ciò che lei non era, lo era sua nonna.
Prince saltò sul letto, avvicinandosi a lei con lentezza estenuante. Nadine accarezzò il suo pelo nero e lucido mentre con gli occhi osservava ancora quelle tre pagine, arricchite di quella grafia così elegante.
Perché non le aveva detto di questo Harold, molto prima, magari durante i pomeriggi domenicali passati davanti ad una tazza di tè?
E perché voleva che solo lei lo sapesse?
Nadine si grattò il polpaccio con la punta del piede. Sua nonna aveva creato un rapporto diverso con ogni membro della sua famiglia e da quando era piccola, Nadine, aveva condiviso con lei mille segreti che era sicura conoscessero solo loro due. Anche quello, dunque, era un altro piccolo segreto?
Allungò una mano e afferrò il terzo foglio e la busta.
“È così che ti allego una piccola mappa di Londra che ho comprato in uno di quei negozi per turisti, con la speranza che tu riesca a rivivere le gioie e i dolori della mia adolescenza.” Lesse a voce alta, attirando l’attenzione del gattino nero tra le sue braccia.
Nadine aprì la busta, tirandone fuori la piccola mappa di Londra. Era la prima volta che l’apriva ed era la prima volta che si sentiva tanto emozionata per qualcosa.
La stirò bene sul copriletto, illuminandola con la lampada celeste.
Nella cartina c’erano alcuni punti cerchiati con un pennarello indelebile, di fianco ai quali Nadine lesse diversi nomi e descrizioni.
I suoi occhi blu e un po’ lucidi si soffermarono su tre parole: Greenwich, appartamento 12.
Era l’indirizzo di una casa che, se ne accorse solo dopo, distava a soli tre isolati dalla sua.
Chi poteva vivere in quell’appartamento? E cosa poteva c’entrare con la storia che le aveva raccontato nella lettera?
Possibile che quell’Harold fosse ancora vivo e che vivesse così vicino a lei?
Nadine aggrottò la fronte.
Sua nonna conosceva l’indirizzo di casa di quell’uomo e non l’aveva mai cercato? O forse l’aveva fatto?
Tuttavia, non era detto che quella fosse casa sua. Ma se non lo era, che cosa poteva essere, che cosa poteva indicare?
Era l’unica meta che non aveva alcuna descrizione. Nadine si chiese se era un caso, una distrazione oppure una cosa voluta. Sua nonna era sempre stata una donna molto attenta ai dettagli, quindi di certo quella mancanza doveva indicare qualcosa.
Forse il suo intento era quello di attirare l’attenzione di Nadine e, di conseguenza, riempirla di mille interrogativi. Forse il suo intento era quello di farla partire proprio da lì.
Ci era riuscita.
Nadine si asciugò gli occhi ancora un po’ umidi e si mise a sedere.
Erano le dieci di sera, fuori l’aria di Londra soffiava imperterrita contro i muri dei palazzi, ma lei aveva tutta l’intenzione di uscire.
Si alzò di scatto, facendo cadere Prince dal letto, e si avviò verso l’uscita con la mappa tra le mani, il cappotto sulle spalle e le chiavi in borsa.
*
Nadine scese dall’auto incespicando nelle sue scarpe da ginnastica.
Dopo aver guidato per una manciata di minuti sotto il cielo buio di Londra con una mappa scarabocchiata sul sedile accanto, le sembrava quasi di essere impazzita del tutto.
Stava per bussare alla porta di uno sconosciuto che avrebbe potuto tranquillamente essere un assassino o un poco di buono.
Si sistemò meglio il cappotto sulle spalle e chiuse la portiera dell’auto, tesa.
Cercò di non pensare alla sua faccia struccata, ai suoi capelli disordinati e alla maglia del pigiama che fuoriusciva dalla giacca. Forse avrebbe dovuto aspettare fino a domani o forse avrebbe dovuto sprecare cinque minuti in più per sistemarsi alla bell’e meglio. O forse, avrebbe dovuto lasciar perdere fin dall’inizio.
Si torturò le mani mentre gli occhi vagavano per le finestre chiuse dell’edificio di fronte a lei.
Contò le vetrate, i balconi e ipotizzò che l’appartamento che stava cercando dovesse essere al terzo piano, dietro le ultime due persiane, quelle al confine con l’angolo della strada. Si guardò attorno e, prendendo un bel respiro, fece il primo passo verso l’entrata.
Il portone d’ingresso cigolò improvvisamente, aprendosi con un rumore sinistro che la fece immobilizzare sul posto.
Un ragazzo alto ne uscì fuori, scendendo i tre scalini sbadigliando.
Nascosta nella semioscurità, Nadine lo osservò con attenzione.
Doveva avere si e no la sua età, anno più, anno meno. Portava un berretto di lana dal quale fuoriusciva qualche ciuffo riccio e gli occhi, che le sembravano chiari, erano assonnati e semichiusi. Indossava una tuta grigia ed era scalzo, tra le mani, un grosso sacco nero della spazzatura.
Si fermò esattamente a tre passi davanti a lei e, illuminato dal lampione, Nadine ne rimase per un momento ipnotizzata.
Lui sollevò il coperchio del bidone verde e gettò dentro il sacco pesante che teneva tra le mani.
Quando si rigirò, sfregandosi le mani sui pantaloni, i suoi occhi brillarono sotto la luce intensa del lampione e inchiodarono quelli di Nadine.
“Ciao” disse.
Nadine alzò le sopracciglia: “Ciao”
Il ragazzo sollevò gli angoli della bocca e il suo viso non sembrò più tanto stanco.
“Cerchi qualcuno?”
Nadine si morse l’interno della guancia.
Cercava qualcuno?
Scosse la testa mentre, mentalmente, si dava dell’idiota per aver deciso di intraprendere quella stupida avventura.
Lo sconosciuto infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e inclinò lievemente la testa verso destra.
“Una ragazza non dovrebbe andare in giro da sola a quest’ora della notte”
Nadine si strinse nelle spalle.
“Sono solo le dieci”
“E mezza”
“So difendermi”
“Ne sono certo”
La osservò qualche secondo con un sorriso di scherno e due occhi attenti e vigili, mentre Nadine giocherellava con le chiavi. Quella specie di caccia al tesoro le era sembrata un’ idea stupida fin da subito, e adesso si stava mettendo in ridicolo di fronte ad uno sconosciuto a causa della sua impulsività.
“Allora stai aspettando qualcuno?”
Lei scosse la testa, sbuffando.
“Sto... sto... in realtà non so neanche io cosa sto facendo” sbottò, allargando le mani e alzando gli occhi al cielo.
“Problemi di cuore?” chiese lui, arricciando le labbra in una smorfia che stava ad indicare curiosità.
Nadine aggrottò la fronte: “Cosa? No!”
“Chiedevo solo – alzò le mani in segno di difesa – Comunque se sei qui, un motivo ci deve pur essere”
Nadine fece un passo indietro, appoggiandosi alla portiera della sua auto, improvvisamente troppo spossata anche solo per reggersi in piedi.
“Sto cercando una persona – mormorò debolmente, stropicciandosi gli occhi – il problema è che non so esattamente chi sto cercando”
L’espressione del ragazzo si fece perplessa.
“E’ un po’ il problema di tutti” ironizzò, sistemandosi con una mano il berretto grigio che gli stava scivolando davanti agli occhi.
“No, non hai capito – replicò – io cerco qualcuno di cui so solo il nome”
Lui fece qualche passo in avanti, nascondendo le mani nelle tasche dei pantaloni.
“Spiegati meglio”
Nadine sbuffò: “Sto cercando un signore, anziano, sui settanta o ottant’anni che vive qui, o che viveva o che centri con questo posto”
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, perplesso e allo stesso tempo curioso.
“Conosco tutti quelli che vivono qui – disse – dimmi il nome”
Nadine si passò una mano tra i capelli pensando che, dopotutto, quel ragazzo avrebbe potuto restringerle il campo.
“Il suo nome è Harold – tentò – il cognome non lo so però”
Lui assottigliò gli occhi, osservandola per qualche secondo come se lo stesse prendendo in giro. Poi, inaspettatamente, scoppiò a riderle in faccia, tappandosi subito dopo la bocca con una mano per evitare di risultare scortese.
Nadine roteò gli occhi al cielo, indispettita.
“Grazie”
“Scusami, scusami – riprese fiato mentre si costringeva a rimanere serio – conosco un solo Harold che vive qui”
Gli occhi di Nadine si illuminarono di speranza, avrebbe potuto conoscere l’uomo che aveva fatto innamorare per la prima volta sua nonna, avrebbe potuto parlarci, chiedergli quant’era bella Jane a diciassette anni e fargli tante altre domande.
“Grandioso! – esclamò, tirandosi su frettolosamente dalla macchina – e puoi dirmi chi è?”
Il ragazzo si sporse in avanti, arrivandole a qualche centimetro dal viso.
“Per tua fortuna – sorrise, ammiccando – ci stai parlando proprio adesso”
*
Harry si richiuse la porta di casa alle spalle, ancora lievemente perplesso per l’incontro con quella biondina.
Si chiese se era veramente corsa via così, senza più dirgli una parola, senza dargli una spiegazione. Senza salutarlo. Probabilmente era stata tutta un’allucinazione data dalla stanchezza e dal bicchiere di birra che Louis l’aveva obbligato a bere a cena.
O forse era la gente che con il passare del tempo si faceva sempre più strana.
Sospirò, gettandosi sul divano, accanto a Liam.
“Ti eri perso?” gli domandò distrattamente, troppo concentrato sul film che stava guardando per poter realmente interessarsi agli affari dell’amico. Harry gli rubò qualche popcorn dalla bacinella verde, pensieroso: “Ho incontrato una tizia – rispose e automaticamente gli si aggrottò la fronte – e mi sono fermato a parlarci”
Liam annuì appena, mangiucchiando i popcorn e tenendo gli occhi fissi sullo schermo del televisore.
“Mi sembrava familiare – continuò, sovrappensiero – l’avrò vista in qualche locale, o a lavoro”
L’amico non si diede nemmeno la pena di far finta di aver ascoltato le sue parole. Harry sospirò, quasi tentato di allungare una mano verso il telecomando e spegnere il televisore per ripicca. Ma poi si disse che, alla fine, Liam non poteva essergli affatto d’aiuto.
Dov’è che aveva già visto quegli occhi blu e quei lineamenti così particolari?
Forse l’aveva già vista durante i turni di lavoro, o in discoteca o al parco o al supermercato. Avrebbe potuto incontrarla ovunque. Eppure qualcosa non gli quadrava.
L’iphone vibrò sul tavolino del salotto. Si sporse in avanti e lo afferrò, sbloccandolo.
Sua madre gli diceva che domani mattina sarebbe venuta a ritirare gli ultimi oggetti del nonno e che avrebbe dovuto farglieli trovare negli scatoloni.
Sbuffò, rispondendole con un semplice ok.
Vivere nel vecchio appartamento di suo nonno gli era sembrata un’idea strafica, all’inizio, ma poi, i problemi erano iniziati ad affiorare. Affitto troppo alto, impianto idraulico vecchio, palazzina di soli anziani, camino mezzo distrutto, ascensore rotto.
Si alzò in piedi, dirigendosi verso la camera da letto dove aveva lasciato gli ultimi oggetti personali del nonno, quelli a cui era più affezionato.
La divisa da militare, anno 1940, era piegata sulla poltrona accanto alla finestra. Harry l’aveva indossata una volta ad una festa di Halloween e quando l’aveva macchiata di alcool, sua madre si era così tanto infuriata che non si era mai più azzardato ad avvicinarcisi.
La prese e la sistemò con cautela all’interno di uno scatolone nel quale una decina di libri, qualche camicia e una pipa occupavano già il fondo. Ci aggiunse qualche cornice che raffigurava suo nonno da giovane in compagnia di altri soldati in uniforme e una dove lui e sua nonna sorridevano felici.
Harry chiuse la scatola e la sistemò fuori dalla porta.
Tornò in camera per controllare che non avesse dimenticato nulla.
Poi ricordò.
In una foto.
L’aveva vista in una foto!
Quella biondina con due occhi profondi quanto il mare, l’aveva vista in una foto in bianco e nero che aveva trovato qualche settimana dopo il trasloco.
Si fiondò verso i cassetti della sua scrivania e li aprì con uno scatto. Sotto vari quaderni, fogli, penne e cd, una fotografia stropicciata e vecchia giaceva sul fondo del cassetto.
La tirò fuori e la osservò sotto la luce della lampada.
Un giovane ventenne sorrideva all’obiettivo, con due fossette uguali a quelle di Harry, mentre gli occhi neri così diversi dai suoi erano fissi sul viso di una ragazza.
La tizia strana che aveva incontrato qualche minuto prima era identica a quella nella foto, quella che suo nonno stava fissando con tanto entusiasmo.
I capelli raccolti, gli occhi chiari, il sorriso, i lineamenti.
Erano identiche, due gocce d’acqua.
E se quella che aveva incontrato poco fa, non era un fantasma, doveva essere una familiare, magari la nipote.
Harry capì che, il settantenne che stava cercando, era suo nonno Harold.





Buongiorno a tutti!
Sarò breve anche in questo capitolo. Volevo scusarmi per il ritardo nell'aggiornare, ma non riesco ancora ad essere pienamente convinta di questa storia. Tuttavia ho deciso di darle una chance e provare a continuare, nella speranza di ricevere un feedback positivo da voi lettori. Ringrazio la ragazza che ha lasciato una recensione nel prologo, mi hai convinta ad aggiornare.
Comunque, in questa storia adoro follemente l'Harry che ho creato, e spero che lo facciate anche voi! 
Vi lascio al capitolo, un bacio
Clara


 
 

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Capitolo 3
*** Bar ***


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Capitolo 2
Bar

 

Nadine slegò il grembiule che le avvolgeva la vita, appendendolo nel suo armadietto, e richiuse lo sportello in metallo, sbadigliando bellamente. Liberò i capelli biondi dalla coda stretta che era obbligata a tenere durante l’orario di lavoro e si passò una mano tra le ciocche per togliere alcuni nodi.

Erano solo le tre del pomeriggio e lei stava letteralmente morendo di sonno.

Quando uscì dal piccolo stanzino degli addetti, si trascinò verso il bancone. L’ultimo cliente della giornata era appena uscito dalla porta principale, facendo tirare un sospiro al gruppo di camerieri. L’ora di punta era sempre stata un suicidio il lunedì… e il martedì e il mercoledì e tutti gli altri giorni della settimana.

Nadine appoggiò la schiena alla parete bordeaux della sala pranzo, esattamente accanto a Niall che teneva gli occhi chiusi.

“Morirò uno di questi giorni – commentò il biondo, con tono drammatico – si può morire, no? Per il troppo lavoro, dico. È illegale servire dieci persone contemporaneamente e allo stesso tempo ricordarsi di respirare”

Nadine rise e gli diede qualche pacca di conforto sulla spalla.

“E pensa che guadagniamo la metà di quello che guadagnano i tizi in giacca e cravatta che vengono qui a farci sgobbare” 

Niall roteò gli occhi, portandosi una mano sul cuore.

“Non ricordarmi quanto questo mondo faccia schifo” 

Nadine abbozzò un sorriso mentre osservava i colleghi ripulire gli ultimi piatti sporchi della sala e il caposala fumarsi una sigaretta fuori dalla porta.

Nadine non riusciva più a dormire bene da una settimana.

Ogni volta che chiudeva gli occhi il viso di sua nonna e di un ipotetico Harold le apparivano davanti. 

Di sicuro, sua nonna non avrebbe voluto che quella ricerca diventasse di vitale importanza, ma Nadine per quelle cose ci andava matta.

“A che pensi?”

La voce di Niall interruppe il flusso dei suoi pensieri.

“Nulla” mentì.

Niall rise, tirando fuori dalla tasca una caramella un po’ schiacciata. Gliela porse gentilmente e ne scartò un’altra.

“Grazie”

“A che pensi?”

Nadine sorrise: “A niente”

“Nadine, - la riprese – quando il capo è fuori a fumare e gli altri sono dentro a pulire, ogni volta mi fai una testa tanta perché lui non fa mai un cazzo mentre ora sembra non te ne freghi nulla. Cosa c’è che non va?”

La bionda chiuse gli occhi, sentendo le lacrime affiorare agli angoli degli occhi. Sbuffò, dandosi della stupida, della debole e della fragile perché in quei giorni non faceva altro che piangere.

“C’è che l’unico mio punto di riferimento se ne è andato e adesso non ho più nessuno su cui contare veramente, nessuno a cui chiedere consigli, nessuno che mi cucini una torta quando sono triste o che mi faccia riflettere sulla vita, sull’amore e su qualsiasi cosa mi passi per la testa perché alla fine una nonna serve a questo, no? Serve a darti supporto anche quando senti di star crollando, serve a darti consigli saggi che sai che non seguirai ma che rispetti comunque e serve a... serve a farti sentire amata, no? Ma non voglio più parlarne perché se lo faccio, piango e se piango non la smetto più!”

Niall le cinse le spalle con un braccio, stringendola a se come era solito fare dopo una giornata particolarmente spossante. Lui sapeva quanto Nadine fosse legata a sua nonna e  quanto avesse sofferto per la sua morte.

“Ascolta, so che non sono la persona adatta per dare consigli, per cucinare torte o per parlare di ragazzi – Nadine rise – ma se hai bisogno di qualunque cosa, la porta di casa mia è sempre aperta” le accarezzò affettuosamente la schiena, sorridendole con gentilezza.

“Grazie”

“Dico sul serio, ho rotto la serratura della porta, quindi puoi entrare quando ti pare”

Nadine rise di nuovo, ricacciando indietro le lacrime e sostituendole con un sorriso.

Aveva bisogno di parlare con qualcuno di quella lettera, di confrontarsi, di chiedere un opinione, e dato che non poteva farlo con sua madre o con sua sorella, Niall sembrava la persona più adatta.

Frugò nella borsa, tirò fuori la busta un po’ stropicciata e la porse a Niall senza dire una parola. 

“Cos’è?”

“Leggila”

Niall piegò per bene il primo foglio e, con un’espressione concentrata, si immerse nella lettura. Nadine dovette aspettare tre minuti esatti prima che lui finisse di leggere e le rivolgesse uno sguardo emozionato.

“E’ una cosa... fighissima!” esclamò, attirando lo sguardo degli altri due camerieri.

“Dici?”

“Dico? Nadine spero che tu abbia già cominciato a cercare! – esclamò, agitando i fogli in aria con espressione gioiosa – è una cosa che... succede solo nei film! Ero sicuro che tua nonna fosse una grande, ma questo supera le mie aspettative!”

“Perché sei così eccitato?”

“Perché? Nadine, quale parente si impegnerebbe così tanto per ricostruire la propria storia e farla conoscere a qualcuno? Insomma, se ha fatto tutto questo, significa che per lei è importante che tu riviva tutto ciò che ha vissuto lei. Dovresti essere già alla ricerca di quei posti, invece di stare qui a parlare con me!”

Nadine abbassò lo sguardo, giocherellando con l’anello che teneva al dito. Gliel’aveva regalato suo padre per farsi perdonare di un qualcosa che aveva combinato, Nadine non ricordava nemmeno cosa. Non significava nulla per lei, ma i ricami sul metallo le piacevano così tanto che non se lo toglieva mai.

“In realtà, - mormorò – avevo intenzione di iniziare, una settimana fa”

Niall aggrottò la fronte: “Ma?”

“Il fatto è che sono andata ad uno degli indirizzi segnati, l’appartamento 12. Ho incontrato un ragazzo che mi ha fatto capire quanto tutto questo sia folle”

Niall roteò gli occhi e la prese per le spalle.

“Tornaci e digli di farsi una vita – replicò – questa cosa è ancora meglio di CSI Miami”

*

Nella sua macchina scassata, Nadine masticava un chewingum alla fragola, mentre di sottofondo la voce di Johnny     Cash le faceva compagnia.

Tra le mani teneva una penna nera, un blocchetto e, appoggiata al volante, la mappa di Londra.

Appuntò l’ultimo indirizzo segnato in blu e fece esplodere la bolla rosa che aveva appena gonfiato. Aveva riportato ogni nome su quel blocco bianco in ordine cronologico e dal più vicino al più lontano. Il primo della lista era il bar in cui si erano conosciuti Jane e Harold nel 1943.

Nadine ci era proprio di fronte.

Dopo 70 anni era diventato un pub con musica, televisione e wifi gratis ma, l’esterno sembrava essere quello di un set cinematografico di un film in bianco e nero. I tavolini e le sedie erano in legno, i fiori che pendevano dal tendone adagiavano in vasi ricamati di blu e bianco e la ringhiera che delimitava il confine dava un tocco di raffinatezza in più a quel posto. Sopra la porta, Nadine vide una lampada ad olio antica e la scritta: “Sacré-Cœur” che risaltava di blu scuro sopra una targhetta bianca.

Abbassò lo sguardo sull’indirizzo segnato sulla mappa, accanto al quale qualche parola scarabocchiata nella grafia di sua nonna attirò la sua attenzione.

Sei bella da togliere il fiato”

Nadine prese un profondo respiro e, avvolta bene la sciarpa attorno al collo, aprì la portiera dell’auto. Scese con lentezza, immaginandosi sua nonna Jane, bella come un fiore, sorridere ai clienti e destreggiarsi in mezzo ai tavoli in legno.

Immaginò il suo ipotetico Harold dai capelli corti e la divisa militare seduto a uno dei tavoli, intento ad osservarla con un’intensità tale da sciuparla.

Nadine sorrise indirettamente a quella scena e si avviò verso l’entrata.

Il campanello sopra la porta tentennò lievemente, annunciando il suo arrivo. Nadine si lasciò il freddo di Londra alle spalle e venne accolta da un forte odore di cannella e dal tepore di quella stanza.

Si diresse verso il bancone, anch’esso in legno, e attirò l’attenzione di un’anziana signora intenta ad asciugare con scrupolosità una tazzina. 

“Buongiorno” le disse, sorridendo cortese.

La signora alzò lo sguardo su di lei e il sorriso sul suo viso si spense lentamente, via via che i secondi passavano.

“Buongiorno” replicò, titubante. Le mani rugose ma ben curate si erano fermate dall’asciugare la tazzina, gli occhi erano lievemente spalancati e i lineamenti sorpresi, come se di fronte a lei ci fosse un fantasma.

“Sta bene signora?” 

La donna riprese padronanza di se e, frettolosamente, le rivolse un sorriso di scuse: “Si, si, mi perdoni signorina – si sistemò la chioma grigia – per un momento mi ha ricordato una persona” sorrise lievemente e Nadine vide in quei lineamenti una parvenza di malinconia, come se, per un momento, quella donna fosse tornata indietro nel tempo.

E lei sapeva perfettamente chi le ricordava.

“Jane – disse subito – Jane Daumet, è lei la persona che le ho ricordato, non è vero?”

L’anziana signora si portò una mano sulla guancia e chiuse per un momento gli occhi.

“La forma delle labbra è vagamente diversa” sospirò.

Nadine abbozzò un sorriso: “Quelle le ho prese da mio padre”

“Gli occhi, i capelli e il sorriso però, sono gli stessi” continuò la signora, riaprendo gli occhi, intorno ai quali si formarono numerose rughe non appena la sua bocca si alzò in un sorriso.

Nadine appoggiò la borsa su uno sgabello e si sedette su quello accanto, accavallando le gambe, lievemente nervosa.

“Se non è... se non è un problema, vorrei chiederle alcune cose riguardo mia nonna” mormorò Nadine, imbarazzata e allo stesso tempo affamata di informazioni.

La signora sorrise calorosamente e riprese ad asciugare la tazzina in vetro.

“Se non è un problema, signorina, vorrei raccontarle tutto ciò che ricordo di sua nonna” replicò lei in risposta.

La bionda annuì vigorosamente, tanto sorpresa quanto frastornata. Non credeva affatto, quando era scesa dalla macchina, di trovare qualcuno in quel bar che avesse conosciuto sua nonna a diciassette anni. Si passò una mano tra i capelli mossi e attese pazientemente che la donna iniziasse a parlare.

“Era l’estate del 1943 ed io avevo appena dodici anni. Vivevo nell’appartamento di fronte a questo bar e ogni mattina scendevo per venire a prendere qualche pagnotta calda e a salutare Jane” i suoi occhi scuri brillarono di felicità, malinconia e ricordi passati. Nadine avrebbe dato qualsiasi cosa per conoscere Jane a diciassette anni, parlarle, diventarle amica.

“Lei era la ragazza perfetta. Bella, dolce, gentile e intelligente. Nel quartiere le volevano tutti bene ed era grazie a lei se questo bar è resistito tanto. La vedevo come un esempio da seguire e da grande avrei voluto essere esattamente come lei” 

“Mi ha... mi ha detto che amava questo locale e che lavorare qui è stata una delle esperienze più gratificanti della sua vita”

La donna ridacchiò: “Ci credo! – esclamò – ha conosciuto tante di quelle persone e di quei bei giovani che chiunque avrebbe adorato lavorare qui!”

Nadine rise, accompagnata dalla donna che, gentilmente, si offrì di prepararle una tazza di cioccolata fumante.

“Ha incontrato qualcuno di particolarmente speciale, qui?” 

La donna si tirò indietro una ciocca di capelli cadenti, mentre le sue labbra si alzavano in un sorriso malizioso e il suo sguardo vagava indietro nel tempo.

“Oh si, - replicò – di molto, molto speciale”

“Mi racconti tutto ciò che sa, la prego” 

L’anziana signora sorrise, ammiccò e prese un profondo respiro.

“Faceva caldo quel giorno, molto caldo. Jane aveva i capelli raccolti in una pettinatura semplice e come al solito, sorrideva. Diceva che tutti avrebbero dovuto sorridere perché il sorriso è il male della Guerra. E lo era,”

 

 

Elise aveva dodici anni quel giorno di estate, dodici anni e due grandi occhi verdi che erano in perfetto contrasto con i suoi capelli rossi e le sue labbra grandi. Come al solito, girava per le vie della capitale con i suoi sandali sfilacciati e il suo vestito macchiato e sporco di terra e fango.

Elise non era femminile, elegante o delicata, ma avrebbe voluto tanto esserlo. Avrebbe voluto tanto avere i capelli color del grano come quelli di Jane, gli stessi occhi blu e la stessa morbidezza nei movimenti. Invece era un maschiaccio rinchiuso in un corpo da ragazzina, magro e troppo alto, che non avrebbe di certo mai suscitato interesse in qualche giovane.

Jane invece, l’interesse lo suscitava eccome.

Elise a volte rimaneva meravigliata nell’osservare quanti giovani clienti rimanessero completamente folgorati dai suoi grandi occhi.

Correndo, scese le scale del suo condominio, sorpassando due anziani e un uomo grande e grosso. Scese in strada, attraversò e sorrise a Jane che, con la sua solita eleganza, stava pulendo alcuni tavoli fuori.

“Ciao bellissima!” la salutò lei, scompigliandole i capelli rossi e crespi.

“Ciao Jane” 

Quel giorno indossava un vestito celeste che richiamava il colore dei suoi occhi, e un paio di scarpe bianche col tacco. Era bella da togliere il fiato e Elise si immaginò con un vestito del genere. Lei, certamente, avrebbe fatto ridere chiunque la vedesse conciata a quel modo.

“Vai da zio Jim, - le disse, con un sorriso – dovrebbe avere qualche pagnotta calda per te e tuo fratello” 

Elise saltellò sul posto e si diresse verso l’entrata del locale con lo stomaco che brontolava.

Dopo aver sistemato le due pagnotte in uno straccio pulito, zampettò di nuovo verso l’uscita, sedendosi su uno dei tavoli liberi. Mangiucchiando una mela, osservò i movimenti fluidi di Jane che, ridendo e chiacchierando, passava da tavolo a tavolo per assicurarsi che ogni cliente avesse ciò che aveva chiesto.

Elise non sarebbe riuscita nemmeno a lavorare in un posto del genere perché lei non sapeva rapportarsi così bene con le persone. Quando doveva parlare si impappinava ed era sicura che avrebbe fatto cadere almeno una decina di tazzine al giorno.

Era piccola, si ripeteva, era ancora piccola e di sicuro qualcosa sarebbe cambiato con il passare degli anni.

D’un tratto, il chiacchiericcio dei clienti del bar si affievolì leggermente mentre tutti voltavano lo sguardo verso la fine della strada.

Un gruppo di soldati - Elise ne contò all’incirca una decina - camminavano per la via stretta, ridendo e atteggiandosi.

Elise vide Jane fermarsi per un secondo, lanciare un’occhiata curiosa al gruppetto, e tornare ad occuparsi del suo lavoro come se niente fosse.

I dieci soldati, intanto, si erano fatti sempre più vicini e alcuni di loro additavano l’insegna del locale. Elise diede un morso alla sua mela, nascondendo un sorriso birichino dietro il frutto.

“Cameriera!” 

Un soldato biondo, dai lineamenti marcati e un accento strano, attirò l’attenzione di Jane che, con il suo solito charme, si rivolse a lui con un sorriso di circostanza.

“Volete sedervi?”

Trovò loro tre tavoli liberi, segnò i loro ordini su un blocco e rispose “grazie” a qualche complimento poco conveniente.

Elise osservava quella scena con una certa curiosità negli occhi, mentre intanto mordicchiava la sua mela. Sentì i soldati fare qualche commento di apprezzamento su Jane ed Elise fu quasi tentata di correre da lei e raccontarle tutto.

Poi, un ragazzo dai capelli neri e gli occhi scuri li zittì con un movimento della mano.

“Tacete, animali”

“Ora non si può nemmeno fare qualche commento su una donna?”

“Non sai nemmeno come si tratta una donna, John”

Elise prese a giocherellare con il torsolo della mela finita.

“E’ arrivato il don Giovanni della situazione – la tavolata rise – scommetto che con i tuoi modi così puritani la faresti solo ridere. Le donne vogliono un uomo forte, rude e deciso, non un pappamolla”

Elise vide il ragazzo con gli occhi neri sorridere lievemente e alzarsi dalla sedia. Lo seguì con lo sguardo mentre con i suoi stivali grandi camminava verso Jane, intenta a sistemare delle tovagliette su un tavolo.

Elise strinse le labbra e con il cuore a mille, si chiese cosa potesse dirle quel giovane tanto affascinante.

Il soldato si fermò dietro Jane che, dopo essersi voltata di scatto, sussultò intimorita. Il giovane le sorrise e le disse qualcosa che Elise sentì a malapena.

“Ciao, - sussurrò - sei bella da togliere il fiato”

La bambina vide Jane arrossire fino alla punta delle orecchie e la birra che teneva in mano scivolare, capitombolando a terra. Balbettando qualcosa di incomprensibile, superò il soldato e corse dentro, con i capelli svolazzanti e il vestito macchiato di birra.

Elise aveva il cuore che batteva a mille. Le sembrava di essere finita in un romanzo d’amore, quelli che leggeva sua madre durante i pomeriggi d’inverno.

Anche lei avrebbe voluto incontrare qualcuno così bello e affascinante, innamorarsene e vivere per sempre felice e contenta.

Ma per ora, era solo una bambina.

Sarebbe cresciuta, si disse, sarebbe cresciuta.

 

 

“Harry!”

Il campanello sopra la porta d’entrata tentennò fragorosamente, mentre Nadine si riprendeva da quel racconto tanto emozionante e ripiombava nel mondo reale. Con una smorfia, si accorse che la cioccolata che teneva tra le mani si era raffreddata.

La donna di fronte a lei si era bloccata all’improvviso, lasciandole l’asciutto in bocca. Aveva bisogno di sapere più cose su sua nonna e quel misterioso Harold che, da quanto aveva capito, doveva essere un vero e proprio gentiluomo.

Confusa e vagamente frastornata, si voltò verso l’entrata per cercare di capire a chi Elise stesse parlando.

“Scusami Elise, devo aver confuso i turni di questa settimana con quelli della prossima e me ne sono accorto solo cinque minuti fa”

La voce si bloccò per un attimo e gli occhi di un verde brillante si soffermarono sulla figura seduta sullo sgabello di fronte al bancone. I lati delle labbra si alzarono in un sorriso sornione mentre lentamente si toglieva il cardigan nero e lo appendeva sul gancio accanto alla porta.

Nadine arrossì fino alla punta dei capelli e si voltò di scatto, abbassando lo sguardo verso la sua cioccolata fredda. Quante potevano essere le probabilità di rivedere quel ragazzo in una città grande come Londra?

“Non importa, caro, la signorina qui mi ha tenuto compagnia” Elise sorrise alla bionda che, sempre più imbarazzata, si portò una mano sulla fronte.

“Oh, davvero? – il ragazzo comparve al fianco di Elise – in questo caso, grazie per avermi evitato un’inevitabile strigliata”

Elise lo colpì affettuosamente sulla spalla, alzando gli occhi al cielo.

“Credo sia ora che io vada – disse – è stato un piacere conoscerti, cara. Spero davvero di avere la possibilità di raccontarti altre storie su tua nonna” 

Nadine le sorrise grata mentre si obbligava a tenere gli occhi fissi sul viso rugoso della signora. Sentiva lo sguardo del ragazzo riccio puntato sulla sua faccia come un fucile carico, e il suo sorriso divertito esplodere nella stanza.

La donna salutò i due e si avviò verso la porta, afferrando la sua giacca marrone, prima di uscire e lasciarli soli.

Nadine sentì il cuore scoppiarle nel petto, ma rimase ferma.

Nel locale c’erano solo lei e quel ragazzo dal sorriso tanto bello quanto fastidioso.

“Non ti è piaciuta la cioccolata?”

Nadine alzò lo sguardo verso di lui: “Certo che mi è piaciuta”

“A me non sembra” ridacchiò, indicando la tazza ancora piena.

Nadine arrossì: “E’ che... ero concentrata in altro”

Lui le sorrise, quasi intenerito.

“Deve essere fredda, te ne preparo un’altra – disse – offre la casa”

Nadine non seppe bene cosa dire quindi, come le capitava spesso, rimase zitta. Si regalò qualche secondo di contemplazione del ragazzo che le stava davanti, intento ad aprire una bustina di cioccolata.

Nadine se lo ricordava vagamente diverso, con i capelli nascosti sotto un berretto di lana e una tuta. Ora, poteva osservare i capelli mossi e lunghi tirati indietro, un maglione grigio chiaro che gli avvolgeva il torace ampio, un paio di pantaloni neri e stretti e qualche anello in argento sulle mani. Tre su quella destra e due sulla sinistra.

E gli occhi, verdi come i prati d’Irlanda.

“Ti piace quello che vedi?”

Nadine si morse il labbro inferiore, impedendosi di arrossire.

“Sei sempre così sfacciato?”

“Di solito si”

Lei sbuffò, giocherellando con una bustina di zucchero chiusa.

“Ci siamo salutati male l’ultima volta che ci siamo visti”

“L’unica volta”

“Ad ogni modo, tu sei scappata via come se avessi fatto chissà cosa. Non ho nemmeno avuto il tempo di chiederti il tuo nome”

Versò la cioccolata calda dalla caraffa alla tazza pulita, porgendogliela poi con un sorriso appena accennato.

“Grazie”

“Allora – iniziò – come ti chiami?”

Nadine bevve un sorso di cioccolata mentre osservava cauta il ragazzo.

“Nadine”

“Nadine – ripetè – io sono Harry, o se preferisci Harold” le fece l’occhiolino. 

Lei roteò gli occhi mentre nascondeva parte del viso dietro la tazza di cioccolata fumante. Per quanto odiasse ammetterlo, quel ragazzo ci sapeva davvero fare.

“Molto simpatico”

Lui ammiccò e appoggiò entrambi i gomiti sul bancone, avvicinandosi esageratamente a lei. Sorrise: “Comunque, hai trovato quello che stavi cercando?”

Per poco non si strozzò con la cioccolata. Tossicchiò leggermente mentre sbatteva sul ripiano la tazza di vetro.

“Se intendi un ragazzo tanto bello quanto arrogante, si l’ho trovato”

Lui rise, rialzandosi dal bancone e appoggiandosi alla parete opposta. Incrociò le braccia e mantenne lo sguardo divertito fisso su di lei.

“Intendevo un anziano signore di nome Harold”

“Non vedo perché dovrebbe importarti”

Harry giocherellerò con uno dei suoi anelli: “Infatti, non m’importa”

Nadine bevve l’ultimo sorso di cioccolata e afferrò la sua borsa. Tirò fuori una banconota da 5 sterline e gliela sbattè di fronte, lanciandogli un’occhiata torva.
“La casa non mi deve offrire niente – replicò, alzandosi – e comunque, quello che vedo non mi piace”

Detto questo, si avviò verso l’uscita con il cuore a mille e le mani sudate perché in cuor suo, quello che aveva visto, un po’ le era piaciuto.

 

 
 

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Capitolo 4
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Capitolo 3
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“Fuori servizio”

 

Nadine non riuscì a trattenere uno sbuffo seccato.

La pioggia, l’ascensore rotto e l’idea di poter rincontrare quell’Harry erano tre motivi per i quali non uscire quel giorno e continuare la sua disperata – e folle – ricerca.

Era colpa di Niall; quell’irlandese biondo con due occhi grandi quanto due biglie continuava ad incoraggiarla nel mandare avanti quella farsa a cui lei non riusciva a dire di no.

Nadine sospirò pesantemente e, raccattato un po’ di coraggio, salì i primi gradini del condominio.

L’appartamento 12, quello segnato sulla mappa, era al terzo piano.

Nadine si era scervellata per capire cosa diamine potesse indicare quell’indirizzo, ma dopo varie chiacchierate con Niall e numerosi caffè aveva capito che la cosa migliore da fare era controllare di persona. 

Così, dopo aver messo in conto vari inconvenienti, tra i quali pessime figure e incontri non graditi, era uscita dal lavoro e aveva guidato fino a lì.

Dopo aver superato anche la seconda scalinata, sperò soltanto di non imbattersi di nuovo in quel ragazzo dai capelli ricci e il sorriso arrogante.

Quando di fronte a lei lesse il numero dodici, non seppe esattamente cosa fare.

Si aspettava davvero di incontrare qualcuno che conoscesse nonna Jane? O Harold in persona, forse?

Si morse il labbro, alzò l’indice e pigiò sul campanello.

Attese con impazienza, mentre cercava di distrarsi con i rumori che arrivavano dagli altri appartamenti. La voce di una bambina, quella di un televisore e dei passi frettolosi.

Dieci secondi dopo, la porta le si aprì davanti.

Un ragazzo alto, ben piazzato e con due grandi occhi marroni le rivolse un sorriso gentile.

Sicuramente, quello non era un ottantenne di nome Harold.

“Ciao – le disse – cerchi qualcosa?” 

Nadine evitò di riempirsi di insulti e, mordendosi il labbro, si aprì in un sorriso di circostanza.

“Credo di aver sbagliato numero – replicò – scusami” 

Il ragazzo alzò le spalle: “Non preoccuparti” 

Lei fece per andarsene e lo sconosciuto per chiudere la porta quando, una voce che conosceva anche troppo bene, le arrivò un po’ ovattata.

“Aspetta”

Nadine si fermò con le dita chiuse attorno alla cinghia della sua borsa.

Lanciò un’occhiata dentro l’appartamento, alle spalle del ragazzo muscoloso, e, con i capelli tirati indietro da una fascia bianca e i piedi scalzi, vide Harry raggiungere l’entrata in due lunghe falcate.

Il secondo tizio si fece da parte senza che nessuno gli dicesse nulla, scomparendo in un’altra stanza dell’appartamento. 

Nadine aveva gli occhi lievemente socchiusi e i muscoli delle braccia contratti.

“Entra” 

Harry si fece da parte, lasciandole un po’ di spazio per farla passare. Lei rimase ferma, un po’ incredula e un po’ restia ad entrare in casa di uno sconosciuto.

“Come?”

Harry alzò gli occhi verdi al cielo, abbozzando un sorriso: “Vuoi un invito formale?”

“Una motivazione, magari”

Lui sbuffò, facendole di nuovo segno di entrare in casa. Lei non si mosse.

“Ho una cosa da dirti”

“Puoi dirmela qui”

Sbuffò ancora e ancora.

“Devo farti vedere una cosa”

Nadine strinse i denti e, sempre più indecisa, fece un passo avanti.

“Ho la borsa che pesa tre chili, non ho paura di sbattertela in faccia” lo avvertì, facendolo ridacchiare.

Mentre lui richiudeva la porta, Nadine lanciò una rapida occhiata di perlustrazione al salotto se mai sarebbe dovuta scappare.

Era piccolo e accogliente, un po’ disordinato forse, ma nessun appartamento dove vivevano due – o più – ragazzi sarebbe stato ordinato.

“Di qua” Harry la oltrepassò, facendole strada verso un breve corridoio su cui si affacciavano tre porte in legno. Si fermarono davanti all’ultima già aperta e Nadine roteò gli occhi.

“Nella camera da letto? - domandò, retorica – davvero?” 

Harry scosse la testa mentre oltrepassava il letto sfatto ad una piazza e mezza e apriva il cassetto della scrivania in legno, posta sotto la finestra. Prese qualcosa che Nadine non vide finché non le fu di nuovo davanti.

Quando le porse una piccola fotografia in bianco e nero, rovinata ai bordi e vecchia di parecchi anni, le incominciò a battere forte il cuore.

In quella foto c’era sua nonna Jane alla sua età.

Sua nonna Jane con i capelli lunghi, la pelle perfetta, il fisico slanciato e il sorriso entusiasta la stava fissando con quei sue occhi dolci e grandi che l’avevano fatta sempre sentire a casa.

Sentì un sorriso spontaneo affiorarle sul viso: non aveva mentito, erano davvero due gocce d’acqua.

“Credo sia lui l’ottantenne che cercavi – mormorò Harry, appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate – è mio nonno e si chiama Harold”

Nadine spostò l’attenzione sulla figura che sedeva accanto a nonna Jane.

Era un ragazzo troppo giovane per essere un militare e troppo innamorato per averla potuta lasciare. Gli occhi neri fissavano la diciassettenne al suo fianco con così tanta intensità che Nadine capì che cosa intendeva sua nonna con “trova l’amore e troverai la felicità”.

Il contrasto tra lei, con la pelle pallida, gli occhi chiari, i capelli biondi e un vestito a fiori, e lui, con gli occhi quasi neri, i capelli castani e una divisa da militare, faceva quasi male al cuore.

Erano belli e innamorati e Nadine in quel momento sentì il bisogno, il dovere, di approfondire quella ricerca.

“E’ bello quanto il nipote?” la voce di Harry interruppe il flusso continuo dei suoi pensieri, facendola tornare alla realtà. Sorrise appena, stringendo la foto tra le dita.

“Siete completamente diversi” 

“Lo so – fece un passo in avanti, osservando anche lui la vecchia foto sbiadita – gli occhi chiari e i capelli ricci li ho presi dalla famiglia di mio padre”

Nadine fissò prima la foto, poi il viso contratto di Harry.

“Avete lo stesso sorriso e le stesse fossette – gli fece notare –e la stessa forma del naso”

“Forma del naso?” ridacchiò.

“Si! Avete due narici enormi”

Automaticamente, Harry si tastò il naso per controllare se avesse ragione. 

“Quando lo vedrò allora gli dirò che abbiamo lo stesso naso enorme”

Nadine sentì il cuore fermarsi e cominciare a pompare sangue alla velocità della luce. Si voltò verso di lui con un rapido scatto della testa.

“Vuoi dirmi che...-“

“E’ ancora vivo? – la interruppe lui – certo che lo è”

*

Nadine si sistemò il cappello di lana sui capelli biondi, allungò le gambe sotto al tavolino e spiegò sul tavolo la mappa stropicciata di Londra.

Harry, intanto, la osservava da dietro il bancone con uno sguardo attento e curioso e le mani immerse in uno strofinaccio.

Avevano passato più di un’ora insieme e lui ancora non capiva per quale motivo lei fosse così interessata a suo nonno e alla sua storia. Aveva capito che centrava qualcosa quella ragazza in foto che aveva scoperto si chiamasse Jane, ma il vero motivo per il quale lei era sbiancata quando aveva scoperto che suo nonno era vivo e per il quale continuava a fargli domande riguardo a lui, non lo sapeva ancora.

Louis sbatté la tazza di tè sul bancone, facendolo sussultare.

“Hai un po’ di bava ai lati della bocca” ironizzò, indicandogli il viso e ridacchiando soddisfatto assieme a Liam.

Harry odiava i pomeriggi in cui quei due non avevano nulla di meglio da fare che andare a rompergli le palle al lavoro. Quel pomeriggio, soprattutto, dove lui aveva bisogno di riflettere e riflettere, la loro presenza era davvero insostenibile. 

“Il veleno ci metterò nei prossimi caffè che berrete” sibilò, lanciando ad entrambi un’occhiata raggelante.

“Possiamo sapere almeno dove l’hai conosciuta? Chi è? E perché stamattina ha suonato alla nostra porta?” domandò Liam, girando di novanta gradi lo sgabello e poggiando il gomito destro sul bancone. Nadine era troppo concentrata su quel pezzo di carta per potersi accorgere che due paia d’occhi erano fissi su di lei.

“L’unica cosa che vi dirò è di farvi i fatti vostri – disse, allungando un braccio verso il pulsante della lavastoviglie – e di andarvene” 

“Sono due”

“Pagate e andatevene” mormorò prima di afferrare la tazza di cioccolata fumante e scendere dal bancone.

Nadine sussultò sul posto quando sentì la presenza di qualcuno accanto a lei. Alzò lo sguardo e vide Harry leggermente chino sul suo tavolino nell’intento di poggiare una tazza di cioccolata sulla tovaglietta in carta. Le sorrise ammiccante mentre lei lo ringraziava.

“Prego dolcezza”

Nadine fece finta di non aver sentito quel nomignolo e le successive risate provenienti dai due ragazzi al bancone, ma tornò alla sua mappa, al suo blocchetto e alla sua storia d’amore. Aveva voglia di fare tutto subito, di sapere tutto subito, di interrogare ancora Harry, di chiedergli altre cose su suo nonno.

In quell’ora passata assieme a lui - prima nell’appartamento poi per le strade di Londra fino al bar in cui lavorava – aveva scoperto che suo nonno aveva vissuto in quel condominio e che l’aveva dato poi a suo nipote quando i medici lo avevano affidato ad una casa di riposo nella periferia di Londra. Due anni prima, infatti, gli era stata diagnosticato l’Alzheimer, ma Harry non le disse molto a riguardo. Le aveva rivelato soltanto che andava a trovarlo ogni sabato mattina per portargli le sue riviste di calcio preferite e assicurarsi che stesse bene.

Nadine gli aveva chiesto anche qualcosa riguardo la sua adolescenza ma, per sua sfortuna, non aveva scoperto molto. Harry sapeva solo che suo nonno aveva partecipato alla seconda guerra mondiale e che aveva sposato sua nonna nel 1959, cinque anni prima di avere la loro prima figlia, sua madre.

Lei, non gli aveva parlato di sua nonna, della sua lettera e della mappa; lui comunque non le aveva chiesto nulla. 

Nadine ricontrollò ogni meta, ogni descrizione, ogni cerchietto.

L’occhio le cadde sul bar, la prima destinazione dove sua nonna l’aveva indirettamente mandata. Automaticamente, si chiese come Harry fosse finito a lavorare lì, nel bar dove lavorava sua nonna più di sessant’anni fa. Si chiese anche altre mille domande che non riusciva più a tenere per se.

“Harry” 

Il ragazzo dai capelli scuri e gli occhi nocciola s’interruppe di colpo, voltandosi lievemente verso Nadine.

Lei si morse l’interno della guancia, imbarazzata: “Posso parlarti?” 

Harry nascose l’espressione perplessa dietro ad un sorriso sghembo e ad un’occhiata eloquente ai due compagni che, lasciatogli una banconota da 5 sterline sul bancone, raccattarono le loro giacche e uscirono dal locale.

Nadine si tirò su in piedi, prendendo il blocchetto e la tazza di cioccolata e dirigendosi verso lo sgabello in legno davanti al bancone. 

Il locale era vuoto a quell’ora del pomeriggio, erano soli.

“Potevano rimanere” mormorò lei, giocherellando nervosamente con l’orlo del foglio scarabocchiato. Harry alzò le spalle e, tranquillo come sempre, riprese a sistemare i bicchieri in vetro sugli scaffali più alti.

“Ti ascolto” le disse, incitandola a parlare.

Nadine sospirò: “C’è un motivo se sto cercando tuo nonno” proruppe, nervosa.

Harry mantenne la presa salda sul calice che aveva appena preso dallo scatolone semivuoto ai suoi piedi e continuò imperterrito nel suo compito. Aveva aspettato con pazienza senza chiederle nulla perché sapeva che se avesse voluto, gliel’avrebbe detto lei autonomamente, senza pressione.

“Vai pure avanti”

Nadine si schiarì la voce, cercando di non pensare a quanto potesse risultare ridicola dopo quella confessione.

“Il fatto è che qualche settimana fa mia nonna, la ragazza che hai visto in foto, è venuta a mancare”

Harry si fermò per un secondo, si voltò verso di lei e con un sorriso gentile e controllato, smise di sistemare e le diede piena attenzione.

“Mi dispiace” disse soltanto con il tono di chi sente per davvero quel dispiacere.

Nadine bevve un sorso di cioccolata per prendere tempo. Continuava a pensare che non fosse una buona idea parlargli di quella lettera ma se non l’avesse fatto, lui probabilmente non l’avrebbe aiutata e la ricerca sarebbe stata più difficile del previsto.

“Il giorno del suo funerale, ho ricevuto questa lettera lunga tre pagine circa – appoggiò la tazza sul piattino con un gesto lento – parlava di me, di lei, della mia famiglia e di Harold, tuo nonno”

“Che cosa diceva di mio nonno?”

Nadine si sistemò il berretto.

“Raccontava di questa giovane ragazza che si era innamorata di questo soldato in licenza – rispose – raccontava dell’amore che li univa, raccontava del cuore che le batteva forte quasi a uscirle dal petto e raccontava di quanto la loro storia d’amore l’avesse cambiata” 

Harry aveva uno sguardo che a Nadine fece rabbrividire la pelle e le ossa più del freddo di Londra. Era tanto intenso da farla barcollare sullo sgabello e perdere la sensibilità alle mani, tanto intenso da farle girare la testa.

“Mia nonna mi ha lasciato questa mappa di Londra – riprese dopo qualche istante di silenzio – sulla quale sono segnati i posti dove hanno passato i momenti più significativi della loro storia d’amore”

Aprì la mano, indicando il locale intorno a sé.

“Questo bar, per esempio – disse – o l’appartamento in cui vivi tu adesso” 

Harry capiva perché qualche giorno prima si era ritrovata una ragazza bella, un po’ infreddolita e spaesata sotto casa e perché l’aveva rivista poi in quel bar a parlare con la vecchia Elise.

“Ora capisco un sacco di cose” replicò ironico e un po’ sollevato.

Nadine sorrise e le sue gote divennero più rosee: “Ora sai che non sono pazza” 

“Non pensavo fossi pazza – replicò – un po’ anomala magari, e acida, ma non pazza”

“Acida?”

“Solo un po’”

Nadine alzò gli occhi blu al cielo, appoggiando i gomiti sul bancone e la testa sul palmo della mano.

“Non c’è una qualche foto vecchia di mia nonna qui dentro? O dei vecchi titolari? – domandò, cambiando argomento – o di qualcuno che avesse vissuto nel 1943?” 

Harry riflettè un momento, ripensando alle mille volte in cui Elise gli aveva chiesto di pulire le cornici nel piccolo retrobottega.

“Forse – si tirò su meglio – vieni”

La guidò verso una piccola stanzetta dove erano stipati due alti scaffali in ferro sui quali posavano scatoloni, pacchi di caffè, bottiglie di alcolici e un vecchio registratore impolverato.

Nadine si sentì mancare il fiato quando la pelle nuda della grande mano di Harry le sfiorò a malapena le dita contratte, mentre l’alzava per afferrare un paio di scatoloni.

Con le spalle tese e le braccia piegate, Harry appoggiò a terra la scatola, pulendosi le mani sui jeans neri.

Nadine fece un passo avanti.

I suoi occhi incontrarono quelli di sua nonna di sessant’anni in meno in una cornice in bianco e nero assieme ad altre tre persone. Nadine riconobbe il fratello di Jane, il loro zio che aveva visto un paio di volte in foto e la piccola Elise.

Harry si avvicinò: “Ti ho accontentata?”

Nadine annuì: “Grazie”

 

 

Leonard aveva due grandi occhi azzurri e un sorriso che toglieva il fiato, un naso perfetto e i capelli corti e spettinati.

Quel giorno aveva il pomeriggio libero dai suoi impegni come maggiore dell’esercito inglese e non poteva fare a meno di andare a salutare la sua sorella più piccola. 

Con il berretto tra le mani, il sorriso dipinto in volto e la divisa troppo stretta, aprì la porta del bar in periferia e la prima cosa che vide fu il vestito rosa di sua sorella svolazzare qua e là in mezzo ai tavoli.

“Jane!” la chiamò, alzando una mano verso di lei per attirare la sua attenzione.

Gli occhi già brillanti di Jane si riempirono di gioia quando incontrarono quelli complementari del fratello maggiore. Sentì i suoi tacchi bianchi muoversi automaticamente verso di lui e, due secondi dopo, le sue braccia forti avvolgerle la vita stretta.

“Leo!”

Lui la strinse a sé come se quella potesse essere l’ultima volta – e forse era vero - in cui i suoi occhi potevano bearsi della bellezza di Jane.

Le sorrise, abbagliandola.

“Ciao sorellina” 

Le lasciò un bacio sulla guancia rosa e morbida dandole poi un pizzicotto.

Jane aveva due labbra rosse, i capelli mossi e un vestito vellutato quel giorno d’estate e lui non fece altro che pensare a quanto fosse cambiata in tutto quel tempo. Era bella da togliere il fiato e lui era geloso come se fosse  sua moglie.

“Cosa ci fai qui?”

Jane lo fece accomodare ad un tavolo, dimenticandosi per un attimo dei clienti e accomodandosi davanti a lui.

“Ho un pomeriggio libero dopo mesi di servizio” spiegò pratico.

“Quanto sei diventato muscoloso! Questi mesi come soldato ti hanno cambiato moltissimo!”

Leonard le sorrise: “Sei cambiata più tu, Jane” 

Le sue guance già rosse si fecero ancora più accese mentre lui scoppiava a ridere di fronte alla timidezza di sua sorella.

“Non ti ricordavo così bella”

“E io non ti ricordavo così gentile”

“Sono sempre stato gentile”

“Non proprio”

Leonard salutò suo zio e sua zia, bevve qualche caffè, chiacchierò con qualche cliente sulla guerra e sui nuovi avvenimenti e tenne d’occhio sua sorella. 

Vedeva come i giovani e soprattutto gli uomini la fissavano avidi di lei, e ciò gli recava un fastidio quasi insopportabile. Era cresciuto con lei, l’aveva vista da bambina, da ragazza e ora da donna, e l’unica cosa che aveva fatto in quegli anni era quella di proteggerla come se il solo pensiero di vederla soffrire lo facesse impazzire.

Era sua sorella.

“Quant’è cresciuta Jane” commentò lo zio, appoggiandosi coi gomiti al bancone.

Leonard annuì: “E’ meravigliosa”

“Hai ragione”

“Non l’ho mai vista tanto radiosa”

“E il perché non è difficile da immaginare!” esclamò zia Mardge, ridacchiando da sola mentre era impegnata a strofinare una tazza sporca.

Leonard sentì già ritorcersi lo stomaco.

“Cosa mi sono perso?”

“L’adolescenza, caro mio”

Leonard sbuffò: “Cos’è successo, zia?”

Fu zio Tom a rispondere.

“La nostra Jane ha incontrato un ragazzo qualche giorno fa, un soldato, un ragazzino – spiegò – e ne è rimasta talmente tanto affascinata che da quel giorno si spruzza sempre qualche goccia di profumo in più nell’eventualità che lui ritorni”

Leonard scosse la testa, irritato e infastidito.

“E’ una bambina! E io so come sono i soldati! Non fanno per lei, affatto! Merita molto di più, merita il meglio!” esclamò, stringendo i pugni.

“Oh finiscila Leo, sai come sono a questa età! Al cuor non si comanda! -Mardge rise di nuovo, lanciandogli un’occhiata eloquente – guarda quanto è bella!”

Leonard non poteva di certo negarlo.

I suoi occhi, il suo viso, i suoi movimenti emanavano felicità e gioia e in quel periodo di guerra e miseria chi era lui per togliere quello sprazzo di luce dalla fredda Londra?

“Come si chiama?”

“Non lo sappiamo – rispose Mardge – so solo che è in licenza e che è molto bello” 

Leo alzò gli occhi al cielo, zittendosi, improvvisamente taciturno.

Dalla vetrata a qualche metro da lui, vide due ragazzi in pantaloni mimetici e canotta bianca, e la preoccupazione che uno dei due fosse il ragazzo di cui stavano parlando, lo fece quasi alzare di scatto.

“E’ proprio lui – intervenne Mardge – quello con i capelli scuri e l’andatura fiera!”

Quell’andatura così arrogante la conosceva così bene che si trattenne faticosamente dal fronteggiare quel ragazzo e insegnargli un po’ di umiltà. Essendo maggiore dell’esercito, Leonard aveva incontrato molti cadetti che si divertivano a farsi beffe degli ufficiali e a bere fino a stramazzare. Aveva dovuto castigarli tante di quelle volte che ormai aveva perso il conto e la pazienza per sopportare un comportamento del genere anche fuori dal lavoro.

Jane con quello, non ci sarebbe stata.

“Mantieni la calma, Leo – lo riprese Tom – o tua sorella non te lo perdonerà mai”

La sua attenzione si spostò su di lei che, con le guance improvvisamente rosse e i gesti più frettolosi e goffi, lanciava occhiate continue ai due giovani fuori dal locale.

Leo strinse le dita.

“Non può davvero piacerle quello” mormorò, sfregando i denti per la collera.

Jane si adoperò del blocchetto, del vassoio e del suo miglior sorriso e spalancò la porta in vetro, dirigendosi verso i due soldati.

Leo si alzò in piedi.

“Vado a controllare”

E mentre usciva, sentiva i mormorii di disapprovazione dei suoi zii.

Si sedette su un tavolo poco più lontano dai tre, ignorando le occhiate imbarazzate della sorella.

Se quel tizio avesse fatto l’idiota, lui l’avrebbe messo al suo posto.

Leo osservò i movimenti e i continui sorrisi che il ragazzo dai capelli neri riusciva a tirare fuori a Jane e, con un certo fastidio, riuscì ad ammettere che vederla così era in qualche modo gratificante.

Jane era intelligente e fin troppo buona e anche se lui si fidava, sapeva che in campo sentimentale lei era ancora troppo ingenua.

“Scusa se non sono più venuto qui, ma io e i ragazzi abbiamo avuto da fare giù in stazione”

Jane sorrise: “Non preoccuparti – replicò – ora sei qui, no?”

“Sono qui e tu sei sempre bella da togliere il fiato”

“Grazie”

Leo già odiava quel ragazzo e quello sguardo così intenso su Jane ma su una cosa non poteva dargli torto: sua sorella era bella da togliere il fiato e lui l’amava tanto da rischiare di soffocare.

 

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