Nadine slegò il grembiule che le avvolgeva la vita, appendendolo nel suo armadietto, e richiuse lo sportello in metallo, sbadigliando bellamente. Liberò i capelli biondi dalla coda stretta che era obbligata a tenere durante l’orario di lavoro e si passò una mano tra le ciocche per togliere alcuni nodi.
Erano solo le tre del pomeriggio e lei stava letteralmente morendo di sonno.
Quando uscì dal piccolo stanzino degli addetti, si trascinò verso il bancone. L’ultimo cliente della giornata era appena uscito dalla porta principale, facendo tirare un sospiro al gruppo di camerieri. L’ora di punta era sempre stata un suicidio il lunedì… e il martedì e il mercoledì e tutti gli altri giorni della settimana.
Nadine appoggiò la schiena alla parete bordeaux della sala pranzo, esattamente accanto a Niall che teneva gli occhi chiusi.
“Morirò uno di questi giorni – commentò il biondo, con tono drammatico – si può morire, no? Per il troppo lavoro, dico. È illegale servire dieci persone contemporaneamente e allo stesso tempo ricordarsi di respirare”
Nadine rise e gli diede qualche pacca di conforto sulla spalla.
“E pensa che guadagniamo la metà di quello che guadagnano i tizi in giacca e cravatta che vengono qui a farci sgobbare”
Niall roteò gli occhi, portandosi una mano sul cuore.
“Non ricordarmi quanto questo mondo faccia schifo”
Nadine abbozzò un sorriso mentre osservava i colleghi ripulire gli ultimi piatti sporchi della sala e il caposala fumarsi una sigaretta fuori dalla porta.
Nadine non riusciva più a dormire bene da una settimana.
Ogni volta che chiudeva gli occhi il viso di sua nonna e di un ipotetico Harold le apparivano davanti.
Di sicuro, sua nonna non avrebbe voluto che quella ricerca diventasse di vitale importanza, ma Nadine per quelle cose ci andava matta.
“A che pensi?”
La voce di Niall interruppe il flusso dei suoi pensieri.
“Nulla” mentì.
Niall rise, tirando fuori dalla tasca una caramella un po’ schiacciata. Gliela porse gentilmente e ne scartò un’altra.
“Grazie”
“A che pensi?”
Nadine sorrise: “A niente”
“Nadine, - la riprese – quando il capo è fuori a fumare e gli altri sono dentro a pulire, ogni volta mi fai una testa tanta perché lui non fa mai un cazzo mentre ora sembra non te ne freghi nulla. Cosa c’è che non va?”
La bionda chiuse gli occhi, sentendo le lacrime affiorare agli angoli degli occhi. Sbuffò, dandosi della stupida, della debole e della fragile perché in quei giorni non faceva altro che piangere.
“C’è che l’unico mio punto di riferimento se ne è andato e adesso non ho più nessuno su cui contare veramente, nessuno a cui chiedere consigli, nessuno che mi cucini una torta quando sono triste o che mi faccia riflettere sulla vita, sull’amore e su qualsiasi cosa mi passi per la testa perché alla fine una nonna serve a questo, no? Serve a darti supporto anche quando senti di star crollando, serve a darti consigli saggi che sai che non seguirai ma che rispetti comunque e serve a... serve a farti sentire amata, no? Ma non voglio più parlarne perché se lo faccio, piango e se piango non la smetto più!”
Niall le cinse le spalle con un braccio, stringendola a se come era solito fare dopo una giornata particolarmente spossante. Lui sapeva quanto Nadine fosse legata a sua nonna e quanto avesse sofferto per la sua morte.
“Ascolta, so che non sono la persona adatta per dare consigli, per cucinare torte o per parlare di ragazzi – Nadine rise – ma se hai bisogno di qualunque cosa, la porta di casa mia è sempre aperta” le accarezzò affettuosamente la schiena, sorridendole con gentilezza.
“Grazie”
“Dico sul serio, ho rotto la serratura della porta, quindi puoi entrare quando ti pare”
Nadine rise di nuovo, ricacciando indietro le lacrime e sostituendole con un sorriso.
Aveva bisogno di parlare con qualcuno di quella lettera, di confrontarsi, di chiedere un opinione, e dato che non poteva farlo con sua madre o con sua sorella, Niall sembrava la persona più adatta.
Frugò nella borsa, tirò fuori la busta un po’ stropicciata e la porse a Niall senza dire una parola.
“Cos’è?”
“Leggila”
Niall piegò per bene il primo foglio e, con un’espressione concentrata, si immerse nella lettura. Nadine dovette aspettare tre minuti esatti prima che lui finisse di leggere e le rivolgesse uno sguardo emozionato.
“E’ una cosa... fighissima!” esclamò, attirando lo sguardo degli altri due camerieri.
“Dici?”
“Dico? Nadine spero che tu abbia già cominciato a cercare! – esclamò, agitando i fogli in aria con espressione gioiosa – è una cosa che... succede solo nei film! Ero sicuro che tua nonna fosse una grande, ma questo supera le mie aspettative!”
“Perché sei così eccitato?”
“Perché? Nadine, quale parente si impegnerebbe così tanto per ricostruire la propria storia e farla conoscere a qualcuno? Insomma, se ha fatto tutto questo, significa che per lei è importante che tu riviva tutto ciò che ha vissuto lei. Dovresti essere già alla ricerca di quei posti, invece di stare qui a parlare con me!”
Nadine abbassò lo sguardo, giocherellando con l’anello che teneva al dito. Gliel’aveva regalato suo padre per farsi perdonare di un qualcosa che aveva combinato, Nadine non ricordava nemmeno cosa. Non significava nulla per lei, ma i ricami sul metallo le piacevano così tanto che non se lo toglieva mai.
“In realtà, - mormorò – avevo intenzione di iniziare, una settimana fa”
Niall aggrottò la fronte: “Ma?”
“Il fatto è che sono andata ad uno degli indirizzi segnati, l’appartamento 12. Ho incontrato un ragazzo che mi ha fatto capire quanto tutto questo sia folle”
Niall roteò gli occhi e la prese per le spalle.
“Tornaci e digli di farsi una vita – replicò – questa cosa è ancora meglio di CSI Miami”
*
Nella sua macchina scassata, Nadine masticava un chewingum alla fragola, mentre di sottofondo la voce di Johnny Cash le faceva compagnia.
Tra le mani teneva una penna nera, un blocchetto e, appoggiata al volante, la mappa di Londra.
Appuntò l’ultimo indirizzo segnato in blu e fece esplodere la bolla rosa che aveva appena gonfiato. Aveva riportato ogni nome su quel blocco bianco in ordine cronologico e dal più vicino al più lontano. Il primo della lista era il bar in cui si erano conosciuti Jane e Harold nel 1943.
Nadine ci era proprio di fronte.
Dopo 70 anni era diventato un pub con musica, televisione e wifi gratis ma, l’esterno sembrava essere quello di un set cinematografico di un film in bianco e nero. I tavolini e le sedie erano in legno, i fiori che pendevano dal tendone adagiavano in vasi ricamati di blu e bianco e la ringhiera che delimitava il confine dava un tocco di raffinatezza in più a quel posto. Sopra la porta, Nadine vide una lampada ad olio antica e la scritta: “Sacré-Cœur” che risaltava di blu scuro sopra una targhetta bianca.
Abbassò lo sguardo sull’indirizzo segnato sulla mappa, accanto al quale qualche parola scarabocchiata nella grafia di sua nonna attirò la sua attenzione.
“Sei bella da togliere il fiato”
Nadine prese un profondo respiro e, avvolta bene la sciarpa attorno al collo, aprì la portiera dell’auto. Scese con lentezza, immaginandosi sua nonna Jane, bella come un fiore, sorridere ai clienti e destreggiarsi in mezzo ai tavoli in legno.
Immaginò il suo ipotetico Harold dai capelli corti e la divisa militare seduto a uno dei tavoli, intento ad osservarla con un’intensità tale da sciuparla.
Nadine sorrise indirettamente a quella scena e si avviò verso l’entrata.
Il campanello sopra la porta tentennò lievemente, annunciando il suo arrivo. Nadine si lasciò il freddo di Londra alle spalle e venne accolta da un forte odore di cannella e dal tepore di quella stanza.
Si diresse verso il bancone, anch’esso in legno, e attirò l’attenzione di un’anziana signora intenta ad asciugare con scrupolosità una tazzina.
“Buongiorno” le disse, sorridendo cortese.
La signora alzò lo sguardo su di lei e il sorriso sul suo viso si spense lentamente, via via che i secondi passavano.
“Buongiorno” replicò, titubante. Le mani rugose ma ben curate si erano fermate dall’asciugare la tazzina, gli occhi erano lievemente spalancati e i lineamenti sorpresi, come se di fronte a lei ci fosse un fantasma.
“Sta bene signora?”
La donna riprese padronanza di se e, frettolosamente, le rivolse un sorriso di scuse: “Si, si, mi perdoni signorina – si sistemò la chioma grigia – per un momento mi ha ricordato una persona” sorrise lievemente e Nadine vide in quei lineamenti una parvenza di malinconia, come se, per un momento, quella donna fosse tornata indietro nel tempo.
E lei sapeva perfettamente chi le ricordava.
“Jane – disse subito – Jane Daumet, è lei la persona che le ho ricordato, non è vero?”
L’anziana signora si portò una mano sulla guancia e chiuse per un momento gli occhi.
“La forma delle labbra è vagamente diversa” sospirò.
Nadine abbozzò un sorriso: “Quelle le ho prese da mio padre”
“Gli occhi, i capelli e il sorriso però, sono gli stessi” continuò la signora, riaprendo gli occhi, intorno ai quali si formarono numerose rughe non appena la sua bocca si alzò in un sorriso.
Nadine appoggiò la borsa su uno sgabello e si sedette su quello accanto, accavallando le gambe, lievemente nervosa.
“Se non è... se non è un problema, vorrei chiederle alcune cose riguardo mia nonna” mormorò Nadine, imbarazzata e allo stesso tempo affamata di informazioni.
La signora sorrise calorosamente e riprese ad asciugare la tazzina in vetro.
“Se non è un problema, signorina, vorrei raccontarle tutto ciò che ricordo di sua nonna” replicò lei in risposta.
La bionda annuì vigorosamente, tanto sorpresa quanto frastornata. Non credeva affatto, quando era scesa dalla macchina, di trovare qualcuno in quel bar che avesse conosciuto sua nonna a diciassette anni. Si passò una mano tra i capelli mossi e attese pazientemente che la donna iniziasse a parlare.
“Era l’estate del 1943 ed io avevo appena dodici anni. Vivevo nell’appartamento di fronte a questo bar e ogni mattina scendevo per venire a prendere qualche pagnotta calda e a salutare Jane” i suoi occhi scuri brillarono di felicità, malinconia e ricordi passati. Nadine avrebbe dato qualsiasi cosa per conoscere Jane a diciassette anni, parlarle, diventarle amica.
“Lei era la ragazza perfetta. Bella, dolce, gentile e intelligente. Nel quartiere le volevano tutti bene ed era grazie a lei se questo bar è resistito tanto. La vedevo come un esempio da seguire e da grande avrei voluto essere esattamente come lei”
“Mi ha... mi ha detto che amava questo locale e che lavorare qui è stata una delle esperienze più gratificanti della sua vita”
La donna ridacchiò: “Ci credo! – esclamò – ha conosciuto tante di quelle persone e di quei bei giovani che chiunque avrebbe adorato lavorare qui!”
Nadine rise, accompagnata dalla donna che, gentilmente, si offrì di prepararle una tazza di cioccolata fumante.
“Ha incontrato qualcuno di particolarmente speciale, qui?”
La donna si tirò indietro una ciocca di capelli cadenti, mentre le sue labbra si alzavano in un sorriso malizioso e il suo sguardo vagava indietro nel tempo.
“Oh si, - replicò – di molto, molto speciale”
“Mi racconti tutto ciò che sa, la prego”
L’anziana signora sorrise, ammiccò e prese un profondo respiro.
“Faceva caldo quel giorno, molto caldo. Jane aveva i capelli raccolti in una pettinatura semplice e come al solito, sorrideva. Diceva che tutti avrebbero dovuto sorridere perché il sorriso è il male della Guerra. E lo era,”
Elise aveva dodici anni quel giorno di estate, dodici anni e due grandi occhi verdi che erano in perfetto contrasto con i suoi capelli rossi e le sue labbra grandi. Come al solito, girava per le vie della capitale con i suoi sandali sfilacciati e il suo vestito macchiato e sporco di terra e fango.
Elise non era femminile, elegante o delicata, ma avrebbe voluto tanto esserlo. Avrebbe voluto tanto avere i capelli color del grano come quelli di Jane, gli stessi occhi blu e la stessa morbidezza nei movimenti. Invece era un maschiaccio rinchiuso in un corpo da ragazzina, magro e troppo alto, che non avrebbe di certo mai suscitato interesse in qualche giovane.
Jane invece, l’interesse lo suscitava eccome.
Elise a volte rimaneva meravigliata nell’osservare quanti giovani clienti rimanessero completamente folgorati dai suoi grandi occhi.
Correndo, scese le scale del suo condominio, sorpassando due anziani e un uomo grande e grosso. Scese in strada, attraversò e sorrise a Jane che, con la sua solita eleganza, stava pulendo alcuni tavoli fuori.
“Ciao bellissima!” la salutò lei, scompigliandole i capelli rossi e crespi.
“Ciao Jane”
Quel giorno indossava un vestito celeste che richiamava il colore dei suoi occhi, e un paio di scarpe bianche col tacco. Era bella da togliere il fiato e Elise si immaginò con un vestito del genere. Lei, certamente, avrebbe fatto ridere chiunque la vedesse conciata a quel modo.
“Vai da zio Jim, - le disse, con un sorriso – dovrebbe avere qualche pagnotta calda per te e tuo fratello”
Elise saltellò sul posto e si diresse verso l’entrata del locale con lo stomaco che brontolava.
Dopo aver sistemato le due pagnotte in uno straccio pulito, zampettò di nuovo verso l’uscita, sedendosi su uno dei tavoli liberi. Mangiucchiando una mela, osservò i movimenti fluidi di Jane che, ridendo e chiacchierando, passava da tavolo a tavolo per assicurarsi che ogni cliente avesse ciò che aveva chiesto.
Elise non sarebbe riuscita nemmeno a lavorare in un posto del genere perché lei non sapeva rapportarsi così bene con le persone. Quando doveva parlare si impappinava ed era sicura che avrebbe fatto cadere almeno una decina di tazzine al giorno.
Era piccola, si ripeteva, era ancora piccola e di sicuro qualcosa sarebbe cambiato con il passare degli anni.
D’un tratto, il chiacchiericcio dei clienti del bar si affievolì leggermente mentre tutti voltavano lo sguardo verso la fine della strada.
Un gruppo di soldati - Elise ne contò all’incirca una decina - camminavano per la via stretta, ridendo e atteggiandosi.
Elise vide Jane fermarsi per un secondo, lanciare un’occhiata curiosa al gruppetto, e tornare ad occuparsi del suo lavoro come se niente fosse.
I dieci soldati, intanto, si erano fatti sempre più vicini e alcuni di loro additavano l’insegna del locale. Elise diede un morso alla sua mela, nascondendo un sorriso birichino dietro il frutto.
“Cameriera!”
Un soldato biondo, dai lineamenti marcati e un accento strano, attirò l’attenzione di Jane che, con il suo solito charme, si rivolse a lui con un sorriso di circostanza.
“Volete sedervi?”
Trovò loro tre tavoli liberi, segnò i loro ordini su un blocco e rispose “grazie” a qualche complimento poco conveniente.
Elise osservava quella scena con una certa curiosità negli occhi, mentre intanto mordicchiava la sua mela. Sentì i soldati fare qualche commento di apprezzamento su Jane ed Elise fu quasi tentata di correre da lei e raccontarle tutto.
Poi, un ragazzo dai capelli neri e gli occhi scuri li zittì con un movimento della mano.
“Tacete, animali”
“Ora non si può nemmeno fare qualche commento su una donna?”
“Non sai nemmeno come si tratta una donna, John”
Elise prese a giocherellare con il torsolo della mela finita.
“E’ arrivato il don Giovanni della situazione – la tavolata rise – scommetto che con i tuoi modi così puritani la faresti solo ridere. Le donne vogliono un uomo forte, rude e deciso, non un pappamolla”
Elise vide il ragazzo con gli occhi neri sorridere lievemente e alzarsi dalla sedia. Lo seguì con lo sguardo mentre con i suoi stivali grandi camminava verso Jane, intenta a sistemare delle tovagliette su un tavolo.
Elise strinse le labbra e con il cuore a mille, si chiese cosa potesse dirle quel giovane tanto affascinante.
Il soldato si fermò dietro Jane che, dopo essersi voltata di scatto, sussultò intimorita. Il giovane le sorrise e le disse qualcosa che Elise sentì a malapena.
“Ciao, - sussurrò - sei bella da togliere il fiato”
La bambina vide Jane arrossire fino alla punta delle orecchie e la birra che teneva in mano scivolare, capitombolando a terra. Balbettando qualcosa di incomprensibile, superò il soldato e corse dentro, con i capelli svolazzanti e il vestito macchiato di birra.
Elise aveva il cuore che batteva a mille. Le sembrava di essere finita in un romanzo d’amore, quelli che leggeva sua madre durante i pomeriggi d’inverno.
Anche lei avrebbe voluto incontrare qualcuno così bello e affascinante, innamorarsene e vivere per sempre felice e contenta.
Ma per ora, era solo una bambina.
Sarebbe cresciuta, si disse, sarebbe cresciuta.
“Harry!”
Il campanello sopra la porta d’entrata tentennò fragorosamente, mentre Nadine si riprendeva da quel racconto tanto emozionante e ripiombava nel mondo reale. Con una smorfia, si accorse che la cioccolata che teneva tra le mani si era raffreddata.
La donna di fronte a lei si era bloccata all’improvviso, lasciandole l’asciutto in bocca. Aveva bisogno di sapere più cose su sua nonna e quel misterioso Harold che, da quanto aveva capito, doveva essere un vero e proprio gentiluomo.
Confusa e vagamente frastornata, si voltò verso l’entrata per cercare di capire a chi Elise stesse parlando.
“Scusami Elise, devo aver confuso i turni di questa settimana con quelli della prossima e me ne sono accorto solo cinque minuti fa”
La voce si bloccò per un attimo e gli occhi di un verde brillante si soffermarono sulla figura seduta sullo sgabello di fronte al bancone. I lati delle labbra si alzarono in un sorriso sornione mentre lentamente si toglieva il cardigan nero e lo appendeva sul gancio accanto alla porta.
Nadine arrossì fino alla punta dei capelli e si voltò di scatto, abbassando lo sguardo verso la sua cioccolata fredda. Quante potevano essere le probabilità di rivedere quel ragazzo in una città grande come Londra?
“Non importa, caro, la signorina qui mi ha tenuto compagnia” Elise sorrise alla bionda che, sempre più imbarazzata, si portò una mano sulla fronte.
“Oh, davvero? – il ragazzo comparve al fianco di Elise – in questo caso, grazie per avermi evitato un’inevitabile strigliata”
Elise lo colpì affettuosamente sulla spalla, alzando gli occhi al cielo.
“Credo sia ora che io vada – disse – è stato un piacere conoscerti, cara. Spero davvero di avere la possibilità di raccontarti altre storie su tua nonna”
Nadine le sorrise grata mentre si obbligava a tenere gli occhi fissi sul viso rugoso della signora. Sentiva lo sguardo del ragazzo riccio puntato sulla sua faccia come un fucile carico, e il suo sorriso divertito esplodere nella stanza.
La donna salutò i due e si avviò verso la porta, afferrando la sua giacca marrone, prima di uscire e lasciarli soli.
Nadine sentì il cuore scoppiarle nel petto, ma rimase ferma.
Nel locale c’erano solo lei e quel ragazzo dal sorriso tanto bello quanto fastidioso.
“Non ti è piaciuta la cioccolata?”
Nadine alzò lo sguardo verso di lui: “Certo che mi è piaciuta”
“A me non sembra” ridacchiò, indicando la tazza ancora piena.
Nadine arrossì: “E’ che... ero concentrata in altro”
Lui le sorrise, quasi intenerito.
“Deve essere fredda, te ne preparo un’altra – disse – offre la casa”
Nadine non seppe bene cosa dire quindi, come le capitava spesso, rimase zitta. Si regalò qualche secondo di contemplazione del ragazzo che le stava davanti, intento ad aprire una bustina di cioccolata.
Nadine se lo ricordava vagamente diverso, con i capelli nascosti sotto un berretto di lana e una tuta. Ora, poteva osservare i capelli mossi e lunghi tirati indietro, un maglione grigio chiaro che gli avvolgeva il torace ampio, un paio di pantaloni neri e stretti e qualche anello in argento sulle mani. Tre su quella destra e due sulla sinistra.
E gli occhi, verdi come i prati d’Irlanda.
“Ti piace quello che vedi?”
Nadine si morse il labbro inferiore, impedendosi di arrossire.
“Sei sempre così sfacciato?”
“Di solito si”
Lei sbuffò, giocherellando con una bustina di zucchero chiusa.
“Ci siamo salutati male l’ultima volta che ci siamo visti”
“L’unica volta”
“Ad ogni modo, tu sei scappata via come se avessi fatto chissà cosa. Non ho nemmeno avuto il tempo di chiederti il tuo nome”
Versò la cioccolata calda dalla caraffa alla tazza pulita, porgendogliela poi con un sorriso appena accennato.
“Grazie”
“Allora – iniziò – come ti chiami?”
Nadine bevve un sorso di cioccolata mentre osservava cauta il ragazzo.
“Nadine”
“Nadine – ripetè – io sono Harry, o se preferisci Harold” le fece l’occhiolino.
Lei roteò gli occhi mentre nascondeva parte del viso dietro la tazza di cioccolata fumante. Per quanto odiasse ammetterlo, quel ragazzo ci sapeva davvero fare.
“Molto simpatico”
Lui ammiccò e appoggiò entrambi i gomiti sul bancone, avvicinandosi esageratamente a lei. Sorrise: “Comunque, hai trovato quello che stavi cercando?”
Per poco non si strozzò con la cioccolata. Tossicchiò leggermente mentre sbatteva sul ripiano la tazza di vetro.
“Se intendi un ragazzo tanto bello quanto arrogante, si l’ho trovato”
Lui rise, rialzandosi dal bancone e appoggiandosi alla parete opposta. Incrociò le braccia e mantenne lo sguardo divertito fisso su di lei.
“Intendevo un anziano signore di nome Harold”
“Non vedo perché dovrebbe importarti”
Harry giocherellerò con uno dei suoi anelli: “Infatti, non m’importa”
Nadine bevve l’ultimo sorso di cioccolata e afferrò la sua borsa. Tirò fuori una banconota da 5 sterline e gliela sbattè di fronte, lanciandogli un’occhiata torva.
“La casa non mi deve offrire niente – replicò, alzandosi – e comunque, quello che vedo non mi piace”
Detto questo, si avviò verso l’uscita con il cuore a mille e le mani sudate perché in cuor suo, quello che aveva visto, un po’ le era piaciuto.