The end of the line

di Dida77
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Nat lo avvicinò al termine della consueta riunione settimanale, mentre era un po’ in disparte.

“Ho bisogno di parlarti.” Disse a bassa voce, in modo che nessun’altro potesse udire. “Mi inviti per un caffè?”
Steve si irrigidì subito, la mente era andata immediatamente a quelle ricerche che stavano portando avanti in gran segreto da ormai troppo tempo. “Hai trovato qualcosa?”

Natasha annuì seria. Non prometteva niente di buono.

“Ok.” Rispose strozzato. “Ma non in un bar. Vediamoci al parco, tra un’ora. La panchina vicino al laghetto. Quella nascosta dalla siepe. A quest’ora non dovrebbe esserci nessuno in giro.”

Natasha annuì ed uscì rapidamente dalla stanza. Lui invece rimase ancora un po’ in sala riunioni. Dovette appoggiarsi al tavolo con entrambe le mani per non cadere, la testa che girava, le ginocchia che non erano più così stabili. Ma furono solo pochi istanti. Non poteva tirarsi indietro proprio adesso. Doveva sapere cosa avesse scoperto Natasha.

Sapere sarebbe stato sempre meglio di quella continua, infinita, agonia. O almeno questo era ciò che si ripeteva come un mantra mentre montava in moto e si dirigeva al luogo stabilito.

Natasha non lo fece attendere, puntuale come al solito. Si avvicinò con passo svelto. Un giaccone scuro con il bavero rialzato per ripararsi dal freddo di gennaio, una cartellina sotto il braccio.

Si sedette e, senza convenevoli, passò la cartellina a Steve.

“Abbiamo una pista. Bucarest, tre giorni fa. Sembra ci sia stato uno scontro tra cinque uomini da una parte e uno solo dall’altra. Lo chiamerei più un agguato.” Iniziò Natasha. “La cosa interessante è che hanno trovato tutti e cinque gli uomini morti in un’area di 100 metri. Strangolati o con il collo spezzato. Niente fori di pallottole o armi da taglio. Sembra che siano stati uccisi tutti a mani nude.”

“Potrebbe essere lui.” Rispose Steve, che iniziava a scorgere una tenue speranza. Ma poi guardò il volto di lei e capì che non era tutto. “Continua.”

“Hanno trovato del sangue sulla scena. Parecchio sangue. Non era dei cinque cadaveri. Potrebbe essere solo suo. Non hanno trovato né bossoli a terra né pistole addosso ai cadaveri. Avevano solo armi da taglio, per non attirare troppo l’attenzione.”

“Ci sono immagini?”

“Solo una ripresa da una telecamera di sorveglianza che era in zona.” Rispose Natasha aprendo la cartellina e mostrando le foto a Steve.

Non c’erano dubbi. Le foto erano in bianco e nero, sgranate, ma Steve non ebbe alcun dubbio. Era Bucky, il suo Bucky. Con un giubbotto troppo leggero per la stagione, la barba troppo incolta e un cappellino calcato in testa a coprire capelli troppo lunghi. Ma era sicuramente lui. Che combatteva come una furia a mani nude contro altri cinque uomini.

Steve alzò la testa verso Natasha con aria interrogativa. “C’è altro?”

“No. Non si sa che fine abbia fatto. La polizia non è riuscita a trovare niente. Ma,” continuò titubante “devi considerare tutte le ipotesi possibili, Steve. Il sangue trovato era molto. E nessuno con un braccio di metallo si è presentato negli ospedali della zona.”

“Chi lo sa?”

“Solo te, per il momento. Riesco a tenerlo segreto ancora per qualche giorno. Lo sai che quando verrà fuori, dovremo andare a cercare il Soldato d’Inverno e neutralizzarlo.”

“Certo che lo so. È per questo che devo andare.” Rispose. “Lo devo trovare, prima che lo trovino gli altri. In ogni caso, lo devo trovare. Capisci vero?”

Nat annuì. Aveva imparato a conoscerlo in quegli anni e sapeva che era un tipo testardo. Non avrebbe mai rinunciato. “Vuoi che venga con te?” Si limitò a chiedere.

“No, Nat. Potrebbe essere pericoloso. E poi non si deve sapere che sono andato a cercarlo. È più sicuro per tutti. Poi mi sei più utile qui, a coprirmi le spalle e a insabbiare la pista il più possibile.”

“Come vuoi. Ma chiamami se hai bisogno. Ok?”

“Ok.” Rispose guardando avanti, verso il parco, con la testa già altrove.

“Promesso, Steve?” Chiese lei cercando il suo sguardo.

“Promesso, Nat.” Un sorriso timido sul volto. “E grazie di tutto. Davvero.”

Natasha si limitò ad annuire rispondendo con un sorriso tirato e si alzò in piedi seguita subito da Steve. Titubò un po’, come a pesar bene il significato di ciò che stava per fare. Poi, improvvisamente, lo abbracciò. Lui, stupito da quel gesto inaspettato, ricambiò dopo qualche istante. “Fai attenzione. Aspetto tue notizie”. Disse lei e si incamminò lungo il vialetto del parco, ormai deserto.

Steve si diresse rapidamente verso la moto. Adesso doveva trovare una copertura. Qualcosa che facesse in  modo che la sua assenza non desse troppo nell’occhio.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Prese il cellulare e iniziò a digitare il più rapidamente possibile un messaggio per Fury.

“Salve Colonnello. Mi hanno chiamato adesso dalla casa di cura di Peggy. Non sta bene e ha chiesto di me. Prendo qualche giorno di ferie per stare un po’ con lei. Mi consideri fuori servizio. La prego di avvertire gli altri. Grazie.

Peggy avrebbe sicuramente capito, pensò sorridendo tra sé a tutte le volte che la vecchia amica gli aveva coperto le spalle.

Non restava che organizzare il viaggio. Poteva chiamare direttamente l’aeroporto, ma con l’aiuto di Nat avrebbe fatto sicuramente prima e, soprattutto, sarebbe riuscito ad imbarcarsi con un bagaglio non proprio regolamentare. Chiederle aiuto ancora una volta non gli piaceva affatto, aveva l’impressione di approfittare della loro amicizia. Ma la situazione di emergenza in cui si trovava mise rapidamente a tacere i suoi sensi di colpa e si ritrovò rapidamente con il cellulare in mano a digitare il numero dell’amica.

Nat, efficiente come al solito, riuscì ad organizzare tutto nel giro di un quarto d’ora. Steve aveva sempre l’impressione che ci fosse qualcosa di magico nel suo riuscire a trovare sempre soluzioni in tempi brevissimi, senza dare mai troppo peso alla cosa. Ma non aveva tempo da perdere dietro a quel corso di pensieri. Aveva solo mezz’ora per passare da casa e fare i bagagli. Adesso che Nat gli aveva passato quella pista, il fattore tempo era diventato essenziale.

Entrato in casa andò diretto in camera, aprì l’armadio e prese lo zaino per le emergenze. Un semplice zaino nero, perfetto per il bagaglio a mano, contenente un cambio di vestiti, un paio di pistole con le relative munizioni, una cassetta del pronto soccorso equipaggiata per ogni evenienza, dei documenti falsi e alcune mazzette di denaro contante nelle più comuni valute. Il denaro contante era fondamentale se si voleva andare in giro senza essere rintracciati.

Steve ringraziò mentalmente sua madre che gli aveva inculcato sin da piccolo la sacra arte di essere sempre organizzato e pronto per ogni evenienza. Lasciò lo scudo sul letto, avrebbe potuto essere utile, ma avrebbe comunque dato troppo nell’occhio. Si mise lo zaino in spalla e chiamò un taxi. Direzione aeroporto.

Il volo verso Bucarest fu lungo ed esasperante. Cercò di dormire un po’, ma senza successo. Non sapeva se Bucky fosse vivo o morto, se quelli che lo stavano cercando lo avessero già trovato o se fosse ancora in giro da qualche parte, ferito. Non sapeva nemmeno se sarebbe stato in grado di seguire la traccia fornita da Nat. L'unica cosa di cui era certo era che Bucky fosse passato davanti a quella telecamera di sorveglianza ormai quattro giorni prima.

L’attesa forzata del viaggio fu una vera agonia. Lì, seduto su quel seggiolino scomodo, senza poter far niente, in attesa soltanto che l’aereo atterrasse e sapendo che ogni minuto che passava diminuiva le sue possibilità di ritrovarlo in vita. Un'agonia.

Arrivato finalmente a Bucarest si precipitò fuori dall’aeroporto e prese al volo un taxi per raggiungere al più presto il quartiere in cui era avvenuto lo scontro. Era un tipico quartiere di periferia, caratterizzato da alti palazzi squallidi, meri dormitori per persone che passavano la propria vita altrove, allineati lungo vie squallide e inframmezzati da capannoni industriali. Un quartiere completamente al di fuori dalle rotte turistiche.

Prese una camera in uno dei pochi alberghi del quartiere, utilizzando la sua falsa identità. Non gli piaceva questo modo di agire, ma continuava a ripetersi che era una situazione di emergenza. Avrebbe fatto i conti con la propria coscienza solo dopo aver ritrovato Bucky e averlo riportato a casa. Non era quello il momento. Avrebbe pensato alla sua coscienza solo dopo aver portato a termine la missione.

L’albergo era uno di quei tipici alberghi che affittavano camere a coppiette clandestine, ma era comunque ben tenuto. I proprietari erano gente che non faceva domande e a cui non importava se il cliente pagava una camera per sette notti in contanti. Fare domande non faceva parte delle loro priorità. L'importante era che il cliente pagasse in anticipo.

Steve fece un veloce salto in camera e poi uscì immediatamente alla ricerca dell'amico.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Quando uscì dall’albergo aveva ancora qualche ora di luce ed era deciso di sfruttarle al meglio. Con l’aiuto di una mappa recuperata alla reception, si diresse verso il vicolo in cui era avvenuto lo scontro. Il punto più logico da cui iniziare le ricerche.

Una volta arrivato sul luogo dello scontro, fu facile trovare le tracce di sangue di cui aveva parlato Natasha. Erano giornate freddissime ma, fortunatamente, dal giorno dello scontro non aveva piovuto e le tracce di sangue erano ancora tutte lì, se si sapevano seguire. Evidentemente la polizia non si era impegnata poi molto nelle indagini.

All'inizio seguire le tracce lungo i vicoli lì intorno fu relativamente facile. Poi, ad un tratto, le tracce scomparvero. La polizia doveva aver creduto che qualcuno avesse aiutato Bucky a fuggire in macchina. D'altra parte era ferito e non poteva essere andato lontano senza l'aiuto di qualcuno. Era senz'altro l'unica soluzione possibile.

Ma Steve sapeva che nessuno poteva aver aiutato Bucky. Era solo al mondo, braccato da tutti, senza un amico. Doveva essere andata diversamente. Doveva esserci un’altra spiegazione al fatto che le tracce di sangue si interrompessero proprio in quel punto.

Per un attimo il pensiero dell'amico di sempre, solo e ferito, gli fermò l’aria nei polmoni. Ma non poteva lasciarsi andare. Non adesso che era così vicino. Lo avrebbe trovato, in un modo o nell'altro. Non c'erano alternative possibili.

Lo sconforto gli cadde addosso come una cappa di piombo. Si fermò, in mezzo al vicolo, piantato come una statua lì dove le tracce scomparivano e iniziò a guardarsi intorno lentamente, sperando che quelle mura sporche di graffiti potessero dirgli in quale direzione cercare ancora.

E allora le vide. Scale anti incendio, che arrivavano fino al tetto di un edificio lì vicino. Erano solo scale anti incendio, ma erano comunque una possibilità, una speranza.
Si avvicinò titubante, temendo di veder dissolvere in fumo anche quel briciolo di speranza, pregando un Dio con cui non aveva più confidenza da tempo. E trovò ciò che stava cercando. Tracce di sangue sul corrimano. Semplici tracce di sangue che però dimostravano che Bucky era passato di lì.

Corse su per le scale facendo i gradini a due a due. Quella era l'unica soluzione possibile. Bucky doveva essere passato di lì. Per forza.

Arrivato sul tetto il vento gelido gli mozzò il respiro e portò via parte delle sue speranze. Da lì non c'era modo di passare ai tetti vicini ed era impossibile che fosse ridisceso per le scale interne, con il pericolo di essere visto e riconosciuto. Quel tetto era un vicolo cieco.

Malgrado tutto, decise di dare comunque un'occhiata in giro. C'era sempre la possibilità che gli fosse sfuggito qualcosa.

La sommità del tetto era deserta e completamente vuota. Solo un piccolo stanzino nel mezzo, su cui si apriva la porta che portava alle scale interne del palazzo. Niente sangue sulla porta che era chiusa a chiave e non mostrava segni di manomissione. No, non poteva esser passato di lì.

Appoggiati ad una parete dello stanzino c'erano alcuni scatoloni e un paio di teli buttati là alla rinfusa. Evidentemente i residui di qualche lavoro di ristrutturazione fatto in un appartamento lì sotto.

Preso dallo sconforto, senza più un'idea precisa di cosa fare, iniziò a spostare i teli con il piede.

E lo vide, malgrado fosse ormai quasi buio.

Lo vide. Rannicchiato su sé stesso, sotto quella montagna di teli luridi. Immobile. Gli occhi chiusi. Le braccia avvolte attorno al corpo per cercare di conservare un po’ di calore. Il volto bianco come un lenzuolo. Il giubbotto coperto di sangue troppo leggero per la stagione, il cappellino calato su capelli troppo sporchi e troppo lunghi. Era lui, lo aveva trovato.

Ma non si muoveva.

Non si muoveva e tutte le più grandi paure di Steve presero forma davanti ai suoi occhi.

Lacrime enormi iniziarono a scendere silenziose. Le asciugò con rabbia con il braccio. Chiunque avesse fatto questo a Bucky, al SUO Bucky, lo avrebbe pagato con il sangue. Pensieri di vendetta che non erano usuali nella sua mente ma, proprio per questo, erano ancora più cattivi.

Poi si riscosse e si avvicinò, spostando delicatamente il telo che lo copriva. Doveva portare il suo corpo via di lì. Si era ripromesso di portarlo a casa con sé e così avrebbe fatto.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Rimase a guardare il corpo di Bucky per alcuni minuti. Le lacrime, che aveva all’inizio provato ad asciugare, non volevano più sapere si fermarsi e traboccavano dagli occhi ormai senza freni, scendendo giù per il collo e annebbiandogli la vista. Il vento gelido mozzava il respiro ed entrava nelle ossa. Per un istante ebbe la netta sensazione che non sarebbe riuscito a scaldarsi mai più.

Alla fine, dopo un tempo che non avrebbe saputo calcolare, trovò la forza di accovacciarsi per prenderlo in braccio e portarlo finalmente via di là. Si avvicinò titubante come se, alla fine, toccarlo avesse messo definitivamente fine alle sue speranze di poterlo riavere con sé. Ma quando alla fine Steve si decise a toccarlo per prenderlo in braccio, Bucky improvvisamente tremò.

Inspirò violentemente e cercò per un attimo di aprire gli occhi, senza successo. Istintivamente tentò di spostare le braccia davanti al volto, come per difendersi. Ma lo sforzo sembrò essere troppo grande e, nel giro di pochi secondi, rinunciò ad ogni tentativo di difesa e tornò immobile, alla mercé di chiunque lo avesse trovato.

Una miriade di emozioni esplose repentinamente nel petto di Steve, che rimase immobile come una statua per una manciata di secondi, stordito dal sollievo improvviso. Il fatto che fosse lì, vivo, davanti a lui, quando ormai credeva di averlo perso per sempre gli aveva tolto la capacità di pensare lucidamente. “È vivo. È vivo.” era l’unica cosa che riusciva a ripetersi. Un miracolo che la sua mente faticava a processare.

La gravità della situazione, però, lo fece scuotere rapidamente. Si inginocchiò accanto al corpo apparentemente di nuovo privo di sensi dell'amico. Si strappò praticamente i guanti dalle mani e gli appoggiò una mano sulla guancia per attirare la sua attenzione. Scottava.

“Bucky. Ehi Buck. Mi senti?” Chiese a bassa voce per cercare di non spaventarlo. Nessuna risposta. “Ehi Bucky, sono Steve. Mi senti?” Riprovò, sempre più preoccupato.
A quel punto Bucky si mosse impercettibilmente, cercando di aumentare il contatto della guancia contro la mano calda di Steve.

Provò a chiamarlo di nuovo. “Bucky. Sono io. Sono Steve. Riesci ad aprire gli occhi? Uno sforzo. Dai…” Ormai una morsa di ansia gli attanagliava lo stomaco. Quando vide che le sue parole non avevano effetto, staccò la mano dal suo volto per prenderlo in braccio e portarlo nell'ospedale più vicino. A coloro che lo stavano cercando avrebbe pensato più tardi. Era una questione di priorità.

Ma nel momento in cui staccò la mano, Bucky si mosse di nuovo. Per un attimo strizzò gli occhi e li aprì.

Lo guardò con gli occhi febbricitanti, facendo evidentemente uno sforzo enorme per tenerli aperti. Steve gli appoggiò di nuovo la mano sulla guancia.

“Ehi Bucky. Così, bravissimo. Sono io, Steve”. Nessuna risposta. Dopo un attimo di incertezza, chiese di nuovo. “Sai chi sono?” La possibilità di aver davanti il Soldato d’Inverno e non il suo Bucky si fece dolorosamente strada nella sua mente. “Mi riconosci? Sai chi sono?” Riprovò con una nota di disperazione ormai evidente nella voce.

Ad un tratto il moro sussultò e sembrò finalmente vederlo per la prima volta.

“Steve?” disse in un soffio che gli costò comunque uno sforzo enorme. “Sei… tu?”

“Sì Buck. Sono io.” Lacrime, stavolta di sollievo, tornarono a bagnare il volto di Steve.

“Pensavo di sognare. O di essere finalmente morto.” Disse Bucky cercando di alzare la mano per toccare l'amico, come per sincerarsi che ciò che vedeva fosse effettivamente reale.

“Sono io Bucky. Sono qui. Sono davvero qui.” Ripeté, soprattutto a sé stesso. “E oggi non morirà nessuno. Adesso ti porto subito all'ospedale più vicino.” Disse mettendogli un braccio dietro le spalle e uno dietro le ginocchia per tirarlo su e portarlo via da quel maledetto tetto.

“NO!” Urlò Bucky con una forza impressionante dato lo stato in cui si trovava. “Niente ospedale. Mi troverebbero.” Disse afferrando la giacca di Steve con tutta la forza che gli rimaneva. Gli occhi terrorizzati piantati dentro quelli di Steve. “Ti prego. Non lasciare che mi prendano di nuovo. Ti prego.” Si fermò un attimo per riprendere le forze. Poi continuò. “Se dovesse succedere, promettimi che mi ucciderai.”

“Non posso promettere una cosa del genere Bucky! Sei impazzito?” Risposte inorridito solo all’idea di una tale richiesta.

“Promettimelo!” Bucky si stava agitando sempre di più, terrorizzato da una tale eventualità.

“Ok. Va bene. Va bene te lo prometto. Ma adesso devi calmarti.” Capitolò Steve a malincuore. “Sei ferito e hai la febbre altissima. Non possiamo rimanere qui.” Si fermò un attimo a pensare e continuò. “Ho una camera in un albergo qui vicino. Stai tranquillo, l'ho presa con un nome falso. Intanto andiamo lì.” Disse Steve prendendolo in braccio e dirigendosi verso la scala anti incendio.

Bucky non ebbe la forza di opporsi. Lo sforzo di quella breve conversazione lo aveva lasciato stremato, tremava come una foglia. Steve se lo strinse istintivamente un po’ di più al petto, per trasmettergli un po’ del proprio calore, per farlo sentire al sicuro.

 
Bucky aveva freddo e tremava, ma per la prima volta dopo tanto tempo, non ricordava nemmeno più da quanto, sentiva che poteva fidarsi ciecamente di qualcuno. Non qualcuno, pensò. Steve. Solo Steve. Sapeva che Steve avrebbe fatto di tutto per tenerlo al sicuro. Si aggrappò alla sua giacca come se fosse la sua unica ancora di salvezza e si fece portare come se fosse una bambola di pezza. Chissà cosa aveva fatto per meritarsi quel miracolo. No, pensò, non aveva fatto niente per meritarselo. Non se lo meritava e basta.

Arrivati nei pressi dell'albergo Steve si fermò. “Ehi Bucky. Pensi di riuscire a camminare per un po’? Solo un po’. L'albergo è proprio qui, dietro l'angolo. Non fanno domande, ma se entro dentro con te in braccio potremmo destare qualche sospetto di troppo…”

Steve dovette ripetere la domanda un paio di volte, ma alla fine Bucky si riscosse dal torpore in cui era scivolato.

“Non so. Proviamo…” Rispose, scosso dai brividi.

Provò a metterlo giù nel modo più delicato possibile. Le gambe di Bucky non ressero, ma lui era già pronto a sorreggerlo. Un braccio sotto le ascelle, l’altro intorno alla vita.

“Appoggiati a me. Ti reggo io.”

Con l’aiuto di Steve, Bucky mise il braccio sinistro attorno alle spalle dell’amico e riuscì, in qualche modo, a rimanere in piedi.

“Così, bravissimo. Vedrai che nel giro di mezz'ora sarai in un letto vero. Al caldo, sotto le coperte.” 

Era ormai scesa la sera e il freddo stava iniziando a mordere anche le ossa di Steve. Voleva portarlo al caldo il prima possibile. Quella febbre lo preoccupava non poco. E poi c'era la ferita da controllare. Sembrava non sanguinare più, ma Steve temeva che si fosse infettata. Niente di strano, visto dove aveva passato gli ultimi quattro giorni.

Bucky annuì a malapena e iniziò a camminare, appoggiato quasi completamente a Steve. Non disse una parola durante quel breve percorso, tutte le forze che gli rimanevano le utilizzò per muovere lentamente un passo dopo l'altro.

Il tizio alla reception dell'albergo li vide e pensò che Steve stesse trascinando in camera con sé un tipo ubriaco, male in arnese, rimorchiato chissà dove. Gli fece l'occhiolino con aria complice e lui stette al gioco. Qualsiasi cosa pur di arrivare sani e salvi al porto sicuro della sua camera.

Entrati in ascensore, Bucky non ce la fece più e perse nuovamente i sensi. Steve, resosi conto che l'amico era ormai allo stremo delle forze, non si fece cogliere impreparato. Lo prese di nuovo in braccio e uscì cautamente dall'ascensore, affacciandosi nel corridoio e trovandolo miracolosamente vuoto.

In un attimo fu in camera e depositò l'amico ancora privo di sensi sul letto.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Dopo aver depositato Bucky sul letto, Steve si fermò a guardarlo. Un misto di meraviglia e angoscia lo sommerse di nuovo alla vista dell’amico vivo sì, ma vulnerabile e alla mercé di chiunque avesse voluto fargli del male. Ma adesso lo aveva trovato. Adesso avrebbe pensato lui a difenderlo, così come Bucky lo aveva sempre difeso prima che il siero facesse di lui Captain America.

Fu solo una manciata di secondi però, poi si riscosse, dandosi dello stupido per il tempo perso a pensare e a ripescare vecchi ricordi. Non era quello il momento. Adesso doveva darsi da fare ed affrontare la situazione.

Bucky aveva la febbre altissima. Sicuramente erano giorni che non mangiava e non beveva. Era ferito e aveva perso molto sangue. Solo il siero del super soldato gli aveva permesso di essere ancora vivo, ma la situazione era comunque critica e andava affrontata il prima possibile.

Sua madre era stata infermiera, però, e a casa usava sempre parlare del suo lavoro. Steve la ringraziò silenziosamente per le conoscenze che gli aveva lasciato in tutte quelle chiacchierate serali davanti alla stufa. Conoscenze che in quella camera di albergo erano diventate più preziose del suo scudo o della sua forza da super soldato.

Alzò il riscaldamento della stanza al massimo, si tolse guanti e giacca e si sedette sul bordo del letto. Accarezzò delicatamente il volto dell’amico, scostandogli le ciocche di capelli che continuavano a cadergli sugli occhi e iniziò a chiamarlo nuovamente. “Ehi Bucky… Bucky, mi senti?” Nessuna risposta. “Ehi Bucky, dobbiamo toglierti questi vestiti. Dobbiamo far scendere subito la febbre e devo controllare la ferita.” Ancora nessuna risposta.

Allora prese l’unica decisione possibile e, senza troppo imbarazzo, si mise a spogliarlo. Si erano visti spesso nudi, da ragazzi e da commilitoni, era una cosa normale. Anche se era successo letteralmente una vita fa, non avrebbe iniziato a provare imbarazzo proprio adesso.

Lo spogliò cercando di fargli meno male possibile. Prima le scarpe, poi la giacca. Sotto aveva solo una maglietta a maniche lunghe, lurida di sangue incrostato e umida del siero fuoriuscito dalla ferita. Toglierla sarebbe stato un inferno. Servivano necessariamente asciugamani puliti e acqua tiepida.

Per gli asciugamani e l’acqua tiepida nessun problema, bastava andare in bagno. Trovare la bacinella fu un po’ più un problema, ma nel mobile del frigobar riuscì a trovare un contenitore per il ghiaccio che poteva servire allo scopo.

Prese un grosso telo e un asciugamano più piccolo, riempì la bacinella di fortuna con acqua tiepida e nel giro di un paio di minuti era di nuovo seduto sul bordo del letto accanto a Bucky. Lo spostò leggermente per far scivolare il grosso telo sotto di lui poi, con l’asciugamano bagnato nell’acqua tiepida, iniziò a bagnare maglietta intorno alla ferita.

Ad un tratto Bucky inspirò violentemente e fece istintivamente per ritrarsi, ma Steve lo bloccò subito. “Stai fermo. Ok? Devo toglierti la maglietta per vedere questa maledetta ferita. So che fa male, ma non ci sono alternative.”

Bucky annuì a denti stretti, gli occhi chiusi. “Co… continua.” Rispose e si riappoggiò ai cuscini.

Si fermò solo quando la maglietta fu completamente bagnata e sembrava ormai potersi staccare dalla ferita abbastanza agevolmente. “Sei pronto?” Chiese guardandolo negli occhi.
Bucky annuì. Steve tirò un profondo respiro e iniziò ad alzare la maglietta, procedendo con quanta più cautela possibile. La situazione che gli si parò davanti mano a mano che alzava la maglietta gli tolse il fiato. La ferita si era infettata, perdeva siero e aveva un odore nauseante che Steve non aveva più sentito dai tempi della guerra.

Mano a mano che Steve procedeva con l'operazione, Bucky aveva iniziato a iperventilare e guardava Steve terrorizzato. Anche lui era stato in guerra e aveva subito riconosciuto l’odore, sapeva cosa significasse. Praticamente una condanna a morte. Il suo petto iniziò ad alzarsi e abbassarsi sempre più velocemente. Troppo velocemente. Steve dovette fermarsi per appoggiargli una mano sul petto.

“Ehi, calma. Riprendi fiato. Piano… con calma!” ripeteva con la voce più tranquilla possibile, guardando l’amico negli occhi con un mezzo sorriso sulle labbra. Un attacco di panico era l’ultima cosa che serviva in quel momento, doveva riuscire a restar calmo per tutti e due. “Respira con me. Dai… come quando eravamo piccoli e io avevo l’asma. Insieme.”

Piano piano il respiro di Bucky si regolarizzò e il suo petto iniziò a muoversi con ritmo un po’ più normale. “Ecco. Così. Bravo.”

“È brutta, vero? Sento la puzza.” Chiese non appena gli fu possibile.

“Effettivamente ho visto di meglio. Ma per fortuna non siamo più negli anni ’30 Bucky. Abbiamo qualche arma in più dalla nostra parte.” Rispose Steve sorridendogli. Doveva farsi coraggio se voleva che l’amico non si desse per vinto e continuasse a lottare. La situazione non gli sembrava così semplice, avendo potuto avrebbe portato di corsa Bucky in ospedale, ma data la situazione quella non era una scelta percorribile.

“Adesso però devo pulirla. Non sarà una passeggiata. Vuoi qualcosa di forte da bere?” Il Bucky che conosceva non avrebbe detto di no.

“Gli alcolici non hanno più effetto da quando mi hanno iniettato il siero del super soldato.” Rispose con un filo di voce e il respiro accelerato dalla febbre e dal dolore. “Ma forse è meglio esser sicuri di non urlare. Hai un asciugamano?” Chiese alla fine, quasi vergognandosi.

Steve rimase colpito dalla richiesta. Pensò, angosciato, a quante volte l’amico dove aver sofferto in silenzio per pensare subito ad un asciugamano. A lui non sarebbe venuto in mente, ma rimaneva comunque una buona idea. Recuperò rapidamente un asciugamano pulito, insieme alla preziosissima cassetta delle emergenze che si era portato dietro da casa, e glielo passò.

Bucky mise l’asciugamano tra i denti, si girò sul fianco sinistro per permettere a Steve di lavorare nel miglior modo possibile e artigliò il cuscino con entrambe le mani.

Steve prese in mano garze sterili e disinfettante e aspettò pazientemente che l’amico trovasse una posizione comoda (come se fosse possibile trovare una posizione comoda in quella maledetta situazione…). Dopo che Bucky si fu fermato ed ebbe tirato due o tre profondi respiri, raccolse tutto il coraggio che riuscì a trovare e, guardandolo negli occhi, chiese “Pronto?”

Bucky annuì in silenzio e Steve iniziò l’impresa più difficile di tutta la sua vita.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Steve si accinse ad iniziare l’impresa più difficile di tutta la sua vita, cercando di mettere in pratica tutto ciò che aveva imparato nella vita sulla medicazione delle ferite. Sapeva che l’operazione era dolorosa. Bucky lanciava dei gemiti strazianti, ovattati dall’asciugamano stretto tra i denti. Gemiti che ricordavano quelli che riempivano gli ospedali da campo durante la guerra. I muscoli tremavano, tesi fino allo spasimo, il respiro affannato, i capelli madidi di sudore, il volto più bianco del cuscino su cui era adagiato. Steve dovette fermarsi più volte per permettergli di riprendere fiato.

“Con calma Bucky, riprendi fiato. Stai andando bene… Davvero. Ho quasi finito, non manca molto.”

Bucky riprendeva fiato e quando il respiro si regolarizzava un po’ faceva, cenno di ripartire. Senza dire una parola, solo un cenno.

Alla fine dell’operazione Steve era esausto, ma la ferita aveva un aspetto meno ripugnante. La cosparse di pomata antibiotica e la coprì con una garza sterile che bloccò con diversi cerotti. “Ecco fatto.” Disse, soddisfatto del risultato, voltandosi alla fine verso Bucky.

Si rese conto così che Bucky era svenuto. Il dolore era stato troppo per il suo fisico debilitato dall'infezione e dalle privazioni. Aveva perso i sensi senza che lui se ne rendesse conto, tutto  preso come era a medicare alla ferita. Nel vederlo così, inerme, la gola di Steve si chiuse in un nodo. Con delicatezza gli tolse l’asciugamano che teneva ancora stretto tra i denti e gli scostò per l'ennesima volta le ciocche di capelli che gli erano cadute sugli occhi, sistemandole delicatamente dietro l’orecchio.

Ma il lavoro non era finito. Senza perder tempo, Steve approfittò della situazione e riprese in mano la cassetta delle emergenze tirando fuori una fiala di antibiotico a largo spettro. Preparò rapidamente l’iniezione, non dimenticando di ringraziare per l’ennesima volta sua madre che gli aveva insegnato come fare quando ancora le siringhe erano di vetro e venivano sterilizzate immergendole nell’acqua bollente.

Con pochi gesti rapidi fece l’iniezione, risistemò Bucky supino e finì di spogliarlo per metterlo sotto le coperte. Una volta tolti i vestiti si concesse un attimo per guardare il corpo martoriato dell’amico. Una mappa impressionante di cicatrici, ferite da taglio, bruciature, fori di pallottole. Un moto di rabbia percorse Steve da capo a piedi. In quel momento avrebbe potuto affrontare un intero esercito a mani nude.

Tolti i vestiti, però, si rese conto che, prima di metterlo sotto le coperte, era necessario toglierli di dosso tutta quella sporcizia. L’igiene era importante, ma in caso di infezioni era fondamentale, gli ricordò di nuovo la voce di sua madre.

Prese un asciugamano pulito e nuova acqua tiepida e passò la mezz’ora successiva a lavare il corpo dell’amico, passandogli addosso l’asciugamano bagnato, con quanta più delicatezza possibile. Partì dal basso, prima i piedi, poi le gambe, il dorso, le braccia. Cercando di non far caso a tutte quelle cicatrici, cercando di concentrarsi per fare in modo di disturbarlo il meno possibile.

Bucky non aprì mai gli occhi. Solo quando Steve gli passò l’asciugamano sul petto si mosse e chiese in un sussurro. “Cosa fai?”

“Ti sto lavando e sto cercando di farti andar giù la febbre. Ti do fastidio?” Chiese fermandosi, l’asciugamano a mezz’aria.

Bucky fece segno di no con la testa. Poi sussurrò, “Ho freddo Stevie. Mi fa tutto male e mi sta scoppiando la testa.”

Il cuore del biondo perse un battito a sentirsi chiamare con quel nomignolo che nessuno usava più da settanta anni, e anche allora veniva utilizzato solo in occasioni speciali. Una lacrima scese veloce. “È perché hai la febbre. Dovresti bere. Quanto tempo è che non mangi e non bevi?” Chiese con tono pratico.

“Non… non ricordo.”

Regola numero uno quando si ha la febbre è rimanere idratati. Come aveva fatto a dimenticarsene?

Corse al frigobar e ne tirò fuori una bottiglietta d’acqua, la stappò e la appoggiò sul comodino. “Forza, è ora di bere. Dai ti aiuto io.” Disse mettendogli un braccio dietro le spalle per farlo alzare quel tanto che bastava per farlo bere.  Bucky strizzò gli occhi per il dolore lancinante alla testa, ma ubbidì docile e, quando Steve gli avvicinò la bottiglietta alle labbra bevve a piccoli sorsi.

“Così, bravo. A piccoli sorsi. Ti ricordi? Me lo dicevi sempre quando avevo la febbre alta. -A piccoli sorsi Stevie. A piccoli sorsi.-” Poi riprese. “Ascolta, dovresti prendere un paio di pasticche per buttar giù la febbre. È davvero alta. Staresti meglio, sia per il mal di testa che per il dolore alle ossa. Cosa ne pensi? Te la senti?”

La richiesta di per sé era semplice, ma Steve aveva una vaga idea si cosa avesse passato l’amico in quegli ultimi settanta anni e la risposta non era per niente scontata. Se avesse avuto un antipiretico in fiala gli avrebbe fatto un’altra iniezione insieme all’antibiotico, ma lo aveva solo in pasticche e quindi doveva trovare il modo di convincerlo a buttarle giù. Nessuno era perfetto, nemmeno la sua cassetta delle emergenze.

L’idea di dover buttar giù delle pasticche lo terrorizzava. Ogni volta che lo avevano costretto a farlo era successo qualcosa di brutto: o lo ibernavano, o rinveniva poco dopo con un pezzo di gomma tra i denti, collegato alla macchina per il lavaggio del cervello. Dopo anni aveva capito che mai niente di buono arrivava sotto forma di pasticche. Ma Steve lo guardava con quel suo solito sguardo fiducioso, lo stesso che aveva prima della guerra. Gli aveva lasciato la possibilità di decidere.

Se niente di buono arrivava sotto forma di pasticche, niente di male arrivava da Steve.

Si poteva fidare di Steve, si era sempre potuto fidare di Steve, lui non lo avrebbe mai tradito.

Allora fece un sorriso tirato, il meglio che fosse in grado di fare, e annuì.

“Bravissimo Buck! Bravissimo… Prendiamone un paio, poi ne riparliamo tra otto ore. Ok?” Disse mettendogli direttamente in bocca la prima pasticca e avvicinandogli la bottiglietta d’acqua alle labbra. “E adesso la seconda. Così! Vedrai che nel giro di mezz’ora la febbre inizierà a scendere.”

Lo fece distendere dolcemente e gli sistemò i cuscini sotto la testa. Un sospiro di sollievo uscì dalle labbra di Bucky.

“Adesso chiudi gli occhi. Io finisco di lavarti e poi ti lascio riposare in pace.” Disse mentre finiva di passargli l’asciugamano bagnato sul collo, sulla fronte, sulle guance. Lo sentì rabbrividire anche attraverso l’asciugamano. I denti avevano iniziato a battere furiosamente tra di loro.

“Ecco, ho fatto. Adesso ti copro.”

Sapeva che sarebbe stato meglio tenerlo scoperto. Certo che lo sapeva dopo tutte le polmoniti che si era preso… ma contava sul fatto che gli antibiotici e gli antipiretici facessero il loro benedetto lavoro e facessero scendere la febbre. Bucky tremava come una foglia e lui non se la sentì di lasciarlo scoperto un minuto di più.

Andò all’armadio prese un paio di coperte e lo coprì fino al mento, rimboccandole di lato e sotto i piedi, come faceva sua madre quando voleva che stesse al caldo. Poi spense la luce, lasciando accesa solo la piccola lampada sul comodino.

“Non te ne andare. Ok?” Disse Bucky in un sussurro ad occhi chiusi.

“Certo che non me ne vado. Tranquillo. Resto qui di guardia. Ma adesso dormi Sergente. È un ordine.”

Bucky sorrise, gli occhi già chiusi, e scivolò nel sonno.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Bucky era scivolato rapidamente nel sonno. Era sfinito dalla febbre, dall’infezione, dalla permanenza di quattro giorni al freddo su quel maledetto tetto. La febbre era ancora alta, ma Steve sperava che, grazie alle medicine che gli aveva dato, sarebbe iniziata a scendere presto.

Malgrado la preoccupazione, una strana pace si impadronì di lui. Il tepore della stanza, la penombra e il miracolo di avere di nuovo Bucky davanti a sé, vivo anche se malridotto, gli dettero un senso di pace che non provava più da tanto tempo. Non avrebbe dormito quella notte. Doveva controllare le condizioni di Bucky, vero, ma la verità era che non riusciva a smettere di guardarlo dormire.

Spostò la poltrona che era in camera avvicinandola al letto, prese un’altra coperta dall’armadio, se la drappeggiò addosso e si sedette lì, accanto al letto, nell’unico posto al mondo dove avrebbe voluto essere.

All’improvviso si ricordò di Nat. Non le aveva fatto sapere più niente da quando era partito, era l’ora di chiamarla. Lì a Bucarest erano l’una di notte, a Washington erano le 18. Ora perfetta per una telefonata.

Digitò il numero a mente e si spostò in bagno, per non disturbare Bucky. La porta aperta per tenere la situazione sotto controllo.

“Pronto. Steve?”

“Ciao Nat. Sono io. Come va?”

“Qui tutto sotto controllo, la pista non è ancora venuta fuori. Tu piuttosto come va? Stavo iniziando a preoccuparmi…”

“L’ho trovato Nat. È ancora vivo. La ferita si è infettata e ha la febbre alta, ma quando sono partito ho portato con me la cassetta delle emergenze. Ho medicato la ferita e gli ho dato antibiotici e antipiretici un'ora fa. Aspetto che inizino a fare effetto. Siamo in una camera di albergo presa con falso nome. Non è voluto andare in ospedale in nessun modo. Crede che lo stiano ancora cercando. Adesso sta dormendo. È sfinito.”

“Tu come stai?” Chiese lei, sempre dritta al punto.

“Non lo so nemmeno io. Dovrei essere preoccupato. E lo sono, davvero lo sono. Ma ho come la sensazione che adesso che siamo di nuovo insieme, riusciremo ad affrontare qualsiasi cosa. Lo so Nat, lo so. È un discorso sciocco. Da vecchietto degli anni ’30… Ma non saprei come spiegartelo in altro modo.”

“No, Steve, non ti preoccupare. Nessun problema. Posso capire.” Rispose con il sorriso nella voce. “Hai bisogno di qualcosa?” Sempre pratica, Natasha.

“Per il momento continua a tenere insabbiata la faccenda, se puoi. Ha bisogno di tempo per riprendersi. Poi penseremo a cosa fare. Una cosa per volta…”

“Va bene Steve. Per il momento nessun problema. Fammi sapere se serve altro. Ok?”

“Ok Nat, grazie. Sei davvero un’amica.”

“Tutto ok. Vorrà dire che mi devi un caffè.” scherzò. Poi, tornando seria. “Fai attenzione.”

“Anche tu, Nat.” E chiuse la conversazione

Fece un salto in camera per controllare la situazione. Bucky dormiva ancora nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato. Gli appoggiò delicatamente la mano sulla fronte. Forse era un po’ più fresca e soprattutto, era bagnata di sudore, segno che la febbre stava iniziando a scendere. Benedetto ventunesimo secolo, pensò tra sé sorridendo. Non pensava che avrebbe mai detto.

Gli scostò via dalla fronte la solita ciocca ribelle, indugiando un po’ più di quanto non fosse strettamente necessario, e gli rimboccò di nuovo le coperte, solo per il gusto di farlo. Con un po’ di fortuna Bucky avrebbe dormito fino alla mattina successiva.

Era l’ora di farsi una doccia bollente. La stanchezza di quella giornata gli era calata addosso improvvisamente, come un macigno.

Una volta entrato sotto il getto dell’acqua capì quanto ne avesse infinitamente bisogno. I muscoli, fino ad allora tesi, iniziarono a sciogliersi. Non si era nemmeno reso conto di esser stato così tanto in tensione. Il getto caldo dell'acqua sulle spalle era il paradiso.

Dopo un tempo che sembrava infinito si decise a chiudere il getto e a uscire.

Si era già messo i pantaloni quando, ad un tratto, sentì un rumore provenire dalla camera. Scattò come una molla.

Non appena varcata la porta del bagno si rese conto di cosa fosse successo. Bucky doveva essersi svegliato mentre lui era in bagno e, non avendolo visto, probabilmente si era spaventato e aveva provato ad alzarsi. Troppo debole per mettesi in piedi, però, adesso era in ginocchio al lato del letto, la mano sinistra a reggersi la ferita, gli occhi terrorizzati, il respiro affannato.

“Sono qui Bucky. Sono qui!” Disse correndogli incontro e mettendosi in ginocchio anche lui per entrare subito nel suo campo visivo. Le mani sul petto per sorreggerlo ed impedire che cadesse a terra. “Sono qui. Scusami. Sono andato a farmi una doccia e non ti ho sentito. Scusami.” Steve parlava velocemente, sommerso dai sensi di colpa per aver indugiato troppo sotto la doccia, per non essere stato lì quando Bucky aveva aperto gli occhi.

“Mi sono svegliato e non ti ho visto. Mi sono spaventato… per un attimo… per un attimo ho pensato che tu fossi andato via.” Rispose Bucky titubante, non appena il respiro glielo permise.

“Scusa. Sono stato un cretino.” Si scusò ancora Steve..

“E io un imbecille. Avevi detto che non te ne saresti andato, ma non ho pensato alla doccia. Credo di aver avuto una reazione esagerata.” Rispose con un mezzo sorriso tirato sulle labbra, cercando di minimizzare ciò che era successo.

“Forza. Adesso devi tornare a letto. Vieni ti aiuto.”

Steve gli mise le braccia sotto le ascelle per aiutarlo a tornare a letto e, dopo averlo fatto bere di nuovo, lo aiutò a sdraiarsi. Controllò la garza della ferita e, visto che non sembrava esser successo niente di grave, decise di coprirlo di nuovo.

“Non ho più così freddo, Steve.”

“Perché la febbre sta iniziando a scendere, ma non è il caso di approfittarsene. Resta coperto e cerca di dormire ancora un po’. È sempre notte fonda.”

“Tu dove dormi?” Chiese Bucky, spiazzando per un attimo Steve.

“Starò qui, sulla poltrona.”

“Perché non vieni a letto? C’è posto per tutti e due.” Steve lo guardò perplesso. “Dai forza, sarà come ai vecchi tempi.” Continuò Bucky insistente, cercando di fargli spazio. “Non vedo il motivo di passare la notte su una poltrona. E poi… credo che sarei più tranquillo ad averti qui accanto.” Disse distogliendo lo sguardo, come vergognandosi.

A quelle ultime parole le resistenze di Steve cedettero di schianto. Nel giro di pochi minuti erano tutti e due sdraiati in quel letto, un po’ troppo piccolo per due uomini della loro stazza, schiacciati uno accanto all’altro sotto le coperte, “come ai vecchi tempi”, proprio come aveva detto Bucky.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Erano entrambi sotto le coperte. Bucky sdraiato sul fianco sinistro, Steve sul destro, uno di fronte all’altro.

In un attimo si fecero più vicini. Le loro gambe si cercarono, si trovarono e si intrecciarono, come erano abituate a fare settanta anni prima. Anche anni dopo Steve avrebbe detto che in quell’istante fu sicuro di udire il rumore come di due ingranaggi che, tornati di colpo al proprio posto, avevano iniziato nuovamente a muoversi insieme.

Allungò la mano tremante, e accarezzò il volto del compagno. La sensazione della pelle e della barba ruvida sotto le dita lo fecero quasi sussultare, mentre lacrime calde iniziavano a rigargli il volto, silenziose. Capelli sporchi e annodati, barba lunga ed incolta, pelle graffiata, occhi lucidi di febbre. Steve non aveva mai visto niente di più bello.

Poi le lacrime si trasformarono in singhiozzi. Prima sommessi, poi sempre più violenti.

Steve si portò le mani al volto, vergognandosi di quella reazione, incapace di fermarsi.

 “Ehi Stevie, è tutto ok. Cosa ti prende adesso? Non fare il cretino, dai...” Disse dolcemente Bucky, cercando di scostargli delicatamente le mani dal volto.

Steve si limitò a scuotere il capo. Il petto squassato dai singhiozzi.

“Steve, dai… dimmi cosa ti succede.” Continuò preoccupato.

Percependo il tono di preoccupazione nella voce del compagno, Steve fece uno sforzo enorme per calmarsi. Non voleva che Bucky si preoccupasse anche di quello, non dopo tutto ciò che aveva passato. Ma non gli venne in mente nessuna spiegazione razionale a quella reazione, l'unica soluzione era dirgli la pura e semplice verità.

“Credevo tu fossi morto.” Confessò, sputando a forza fuori quelle parole, temendo quasi che si avverassero se solo le avesse pronunciate. “Quando ti ho trovato, su quel tetto, sotto quegli stracci, credevo tu fossi morto. Mi ero chinato per prenderti in braccio e riportarti a casa. Per riportarti a casa e seppellirti… a Brooklyn.” Disse con i singhiozzi che ripresero a scuoterlo violenti.

“Shhhh, shhhh. Sono qui Stevie. Sono qui. Mi hai trovato e adesso sono qui. Con te.” Disse continuando ad accarezzargli le guance bagnate dalle lacrime.

Bucky allargò le braccia quel tanto che permise a Steve di appoggiare la testa su suo petto, e lì rimase fino a quando i singhiozzi si furono calmati, in quel mezzo abbraccio limitato dalla mancanza di spazio e dalla ferita. “Mi sei mancato così tanto, Bucky. Così tanto. Così tanto…” Disse dopo un po’, le mani di nuovo sul volto di Bucky.

“Anche tu mi sei mancato. Anche quando mi facevano il lavaggio del cervello e non riuscivo a ricordare il tuo volto o la tua voce. Anche allora sentivo la tua mancanza.”

“Che coppia di sentimentali che siamo…” Disse Steve sforzandosi di sorridere e cercando di alleggerire l’atmosfera.

“Puoi dirlo forte.” Rispose Bucky ridendo. Una fitta di dolore improvvisa partì dal fianco destro e gli tolse il fiato.

“Dai non ridere, che poi ti fa male. Proviamo a dormire un po’ adesso, ne abbiamo bisogno tutti e due. Vedrai che non ci troveranno per questa notte.”

“Ok Steve. Allora buonanotte”

“Buonanotte Buck.”

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Dormirono di filato fino alla mattina successiva. Fu Steve il primo a svegliarsi, abituato come era ad alzarsi sempre molto presto per andare a correre.

La luce del mattino entrava dalle tende chiuse male la sera prima, e una lama di luce colpiva dritto Bucky in viso, anche se lui non dava segno di esserne infastidito. Steve ne approfittò per guardarlo dormire. Aveva sicuramente una cera migliore della sera precedente. Era così bello… come aveva fatto a dimenticare quanto fosse bello? Sorrise tra sé a quel pensiero sciocco da “donnicciola”.

Per la prima volta, dai tempi della guerra, gli venne voglia di avere in mano un foglio e una matita per fermare su carta quell'immagine. Da quando Bucky era caduto dal treno non aveva più disegnato. Non era più riuscito a prendere in mano una matita. Dopo la caduta sembrava sbagliato anche respirare, figuriamoci disegnare. E comunque non c’era più niente che valesse la pena di esser disegnato.

Rimase lì fermo per un tempo indefinito, praticamente senza respirare per evitare di svegliarlo e interrompere quel momento magico. Fino a quando non venne riscosso dal suono di una sveglia cattiva.

Era l'ora dell'antibiotico. Troppo importante per rimandare.

“Ehi Bucky.” Disse dolcemente accarezzandogli la fronte. La febbre c'era ancora, ma niente a che vedere con il febbrone della sera prima. “Buck, svegliati. È l'ora dell'antibiotico.”

Bucky si mosse piano, stirandosi come un gatto, come a godersi un cuscino e un materasso a cui non era abituato. Spostò la testa per aumentare il contatto contro la mano di Steve e poi, sorridendo, aprì gli occhi.

“Ciao.” Disse semplicemente.

“Ciao. Come stai? Dormito bene?”

“A dir la verità sembra che mi sia passato addosso un tir. Ma meglio. Sto meglio.” Rispose sorpreso anche lui. “Allora quelle medicine funzionano davvero…”

“Meraviglie del ventunesimo secolo.” Rispose Steve sorridendo. “Ma adesso è ora di controllare la ferita. Poi tocca all'iniezione di antibiotico.”

Bucky si accigliò e rispose serio. “Odio le iniezioni Steve. Ancora di più delle pasticche.”

“Lo so. Ma purtroppo non ci sono alternative. La ferita si è infettata e gli antibiotici sono l'unica possibilità che hai di uscirne bene.”

Steve nel frattempo si era alzato e aveva già preso in mano la sua preziosa cassetta. Meglio affrontare subito la questione antibiotico. Il suo atteggiamento non ammetteva repliche. Avrebbe fatto quell'iniezione ad ogni costo, sapeva quanto fosse fondamentale per la guarigione di Bucky.

“Ok. Ok. Tanto lo vedo che hai già deciso. Quando ti metti in testa un'idea sei più testardo di un mulo. Lo sei sempre stato. Dai… dimmi come mi devo mettere.”

“Rimani così e non guardare. Al resto ci penso io.” Rispose Steve scostando le coperte e facendo rapidamente l'iniezione, prima che Bucky cambiasse idea.

“Fatto. Visto? Non è stato poi così difficile…”

“Vero.” Convenne Bucky, dandogli ragione a malincuore. Poi continuò. “Sai Steve? Ho fame. Ho una gran fame. Pensi che possa provare a mangiare qualcosa?”

“Questa sì che è un'ottima notizia.” Rispose benedicendo il fatto di aver scelto un albergo non troppo di seconda mano. Prese il telefono e ordinò rapidamente una colazione in camera che poteva bastare tranquillamente per quattro persone.

Nel frattempo dette un'occhiata alla ferita, che aveva un aspetto molto migliore della sera precedente. Bucky aveva voluto di nuovo un asciugamano da mettere tra i denti, ma stavolta non servì. Il dolore era sopportabile e in pochi minuti Steve cambiò la medicazione.

“Sei bravo.” Disse Bucky. “Ricordi giovanili?”

“Sì, la mamma scocciava sempre con queste cose. Non sono mai riuscito ad imparare a cucinare, ma con le medicazioni ero bravo. Ti ricordi?”

Rapidamente si persero nei ricordi d'infanzia. Bucky ancora sdraiato a letto, Steve sulla poltrona lì accanto. La stanza era calda e la neve, che aveva iniziato a scendere fuori, rendeva l'atmosfera ancora più intima. Ricordava gli inverni a Brooklyn.

“Ti ricordi quanto ci piaceva la neve?” Chiese ad un tratto Bucky. “Adesso non mi piace più.” Continuò pensieroso. “Odio il freddo sai? Ho avuto così tanto freddo in questi anni da non sentirlo nemmeno più. Ma lo odio comunque. Mi ricorda ciò che ho fatto.” Continuò rabbrividendo, con gli occhi bassi. “Anche quei teli sul tetto dove mi hai trovato andavano bene perché tenevano lontano il freddo, in qualche modo…” Disse alla fine, con un filo di voce.

“Vuoi un'altra coperta?” Chiese Steve, un improvviso nodo alla gola.

“No, no. Sto bene. Si sta bene in questa stanza. È bello qui, con te, al caldo.” Rispose con un sorriso tirato e guardandolo di nuovo negli occhi. Il peso di ciò che era successo in tutti quei decenni in cui erano stati separati incombeva su di loro.

Il bussare del cameriere spezzò un'atmosfera che si era fatta imbarazzante. Steve andò alla porta, prese il vassoio ingombro di cibo e lo appoggiò sul tavolino. Poi si avvicinò al letto e aiutò Bucky che stava già provando a mettersi seduto.

“Aspetta, ti aiuto io, cretino.”

“Mi… mi gira la testa Steve. Non credo di farcela.” Disse improvvisamente Bucky strizzando gli occhi e appoggiando la testa alla spalla di Steve quando un colpo di nausea inatteso lo colpì. Steve lo sostenne, accarezzandogli la schiena e aspettando che la nausea si calmasse.

“Shhh. Tranquillo, adesso passa. È normale. Devi solo mangiare qualcosa. Aspetta che ti sistemo i cuscini, così ti appoggi.” In un attimo mise un altro paio di cuscini dietro a Bucky, in modo che, appoggiandosi, rimanesse comunque semi seduto.

“Mi sembrava di aver più forze di così.” Disse imbronciato, mentre si appoggiava ai cuscini con un sospiro di sollievo.

“Sbruffone. Stai andando benissimo. Ora tranquillo e bevi.” Gli rispose mettendogli in mano un bicchiere di succo di arancia. “Ti servono liquidi e vitamine.”

“Non avevo visto tanto cibo tutto insieme da un sacco di tempo, Steve. Hai ordinato per un esercito.” Disse quando iniziò a riprendersi e riuscì a dare un'occhiata al vassoio.

Il biondo guardò il vassoio pieno di pane, marmellata, burro, biscotti, croissant, cereali, latte, caffè, uova e pancetta e alzò le spalle per far capire che, secondo lui, non era poi troppa roba. “Ho fame.” Rispose semplicemente con la bocca piena mentre affrontava una gigantesca tazza di latte e cereali. “Tu cosa vuoi?” Continuò a bocca piena.

“Non ne ho idea, Steve.” Rispose con aria triste. “Mi sembra di non essere più in grado di prendere decisioni così… così… normali. Non mi ricordo cosa mi piacesse mangiare, cosa mi piacesse fare… Non mi ricordo e basta. Mi ricordo di te, di noi… Ma il resto rimane come avvolto nella nebbia, per quanto mi sforzi.”

Steve lasciò perdere per un attimo la sua tazza e guardò Bucky negli occhi. “Non possiamo cambiare ciò che è stato. Ma potremmo provare a ricominciare… Cosa ne pensi? Pensi che potremmo provare?”

Per un po’ Bucky non rispose, come se fosse perso nei suoi pensieri, poi annuì “Ok, Steve. Ma ho bisogno che tu mi aiuti.” Rispose abbassando di nuovo lo sguardo.
Non c’era bisogno di sentirsi dire altro. “Ma certo che ti aiuto, cretino. Dai… Iniziamo con pane burro e marmellata.” Continuò lasciando da parte i cereali per preparargli la colazione.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Mangiarono tranquillamente, godendosi il cibo e il solo fatto di poter mangiare di nuovo insieme a distanza di decenni. Una volta sazi, Steve fece sdraiare nuovamente Bucky e si mise a sedere sulla solita poltrona accanto al letto. Erano entrambi silenziosi, ciascuno perso nei propri pensieri.

Bucky si stava godendo quell’oasi di pace come un miracolo inaspettato. Da non sapeva quanto tempo, ormai si limitava semplicemente a tirare avanti, senza aspettarsi niente dal futuro. Di sicuro senza aspettarsi niente di meglio. E adesso sarebbe rimasto lì per sempre in quella camera di albergo, con Steve, nascosti al mondo e ai suoi orrori.

Però, sotto il controllo dell’Hydra, era stato abituato a pianificare sempre le sue mosse. Sapeva sempre cosa fare e come muoversi e aveva sempre un piano di riserva nel caso in cui le cose non fossero andate come previsto. Ormai faceva parte del suo modo di pensare e l'idea di non avere un piano per affrontare la situazione iniziava a renderlo nervoso.

“Adesso Steve, cosa facciamo? Come usciamo da questa situazione? Non possiamo rimanere per sempre in questa camera di albergo, anche se francamente non vorrei nient’altro.”

“Non lo so Buck. Sinceramente non ci ho ancora pensato… Fino ad ora l'unica cosa che contava era ritrovarti. Non ho ancora avuto modo di pensare a cosa fare adesso. L'unica cosa che so con certezza è che non ti lascio.” Rispose con una nota di estrema convinzione nella voce.

“Loro mi stanno ancora cercando. Lo sai, vero?”

“Lo so, Bucky. Anche lo S.H.I.E.L.D. sarà presto sulle nostre tracce. Hanno una pista che li porta qui a Bucarest. Ho usato tutte le precauzioni possibili, ma non ci metteranno molto a trovarci.”

“Cosa diavolo è lo S.H.I.E.L.D.?“

“È un’agenzia di intelligence internazionale che si occupa di mantenere la pace e gli equilibri mondiali. E per far questo utilizzano le abilità di persone dotate di poteri diciamo… fuori dalla norma”.

“Come te?” Chiese Bucky dopo una manciata di secondi, talmente sottovoce che Steve, più che sentire quelle parole, gliele lesse sulle labbra.

“Anche come me, sì. Sono entrato a far parte del gruppo quando mi hanno ritrovato nel ghiaccio, qualche anno fa.”

“Sapevo della storia del ghiaccio. Era scritto nel rapporto che mi hanno fatto leggere prima… prima… prima di mandarmi ad ucciderti.” Nel far uscire quelle parole, Bucky distolse lo sguardo e i suoi occhi si riempirono nuovamente di lacrime. L’altro, allora, fece l’unica cosa che sembrasse avere un senso in quel momento. Si alzò dalla poltrona e andò a sdraiarsi accanto a lui, in modo da poterlo abbracciare stretto.

“Non lo hai fatto Buck. Non lo hai fatto. Ti sei fermato prima di obbedire agli ordini…” Disse continuando a stringerlo a sé e cullandolo quel poco che la ferita gli consentiva di fare.

Ci vollero alcuni minuti affinché il moro si calmasse. Poi, dopo esser rimasto un po’ in silenzio tra le braccia di Steve, riprese a parlare. “Non capisco. Come mai sei venuto a cercarmi senza di loro? Come mai sei venuto da solo?”

“Perché credono che tu sia un mostro. Vogliono catturati. Dovevo trovarti prima di loro. Dovevo evitare che ti facessero del male.” Aveva preso la sua decisione giorni prima, quando Natasha gli aveva passato quella cartellina nel parco, e non se ne era pentito. Era sufficiente guardare il compagno stretto tra le sue braccia per sapere che non se ne sarebbe mai pentito.

“E quindi hai lasciato tutta la tua vita e ti sei messo contro i tuoi compagni per venire a salvarmi?” Chiese Bucky incredulo. “Sono davvero un mostro Steve. Ho fatto davvero cose orribili in questi anni. Non credo di valere tutto questo. Non credo proprio.”

“Ho preso la mia decisione Buck. Ho deciso da che parte stare.” Risposte tranquillamente Steve, abbracciandolo stretto per ribadire ciò che stava dicendo. Poi, per alleggerire la tensione continuò. “Lo S.H.I.E.L.D. è stato fondato da Peggy dopo la guerra, sai?”

“Peggy? Peggy Carter?” Steve annuì, contento di essere riuscito nell'intento. “Mi ricordo di Peggy, sai?” Disse ad un tratto sorpreso lui stesso. “Aveva un debole per te. Aveva due occhi bellissimi ed era molto determinata anche. Vero?” Chiese per avere conferma di ciò che gli sembrava di ricordare.

Steve sorrise. “Ha ancora due occhi bellissimi ed è ancora molto determinata.”

“È ancora viva? Peggy Carter è ancora viva?” Chiese sbalordito.

“Sì. Abita in una casa di cura a Washington, ma non sta troppo male se si considera l'età. Quando torneremo a casa potremmo andare a trovarla insieme. Le farebbe piacere. Ti andrebbe?”

Bucky si rabbuiò di nuovo. “Ma come facciamo Steve? Anche se riuscissimo a fuggire da Bucarest, non possiamo tornare a casa con questo S.H.I.E.L.D. che ci sta alle costole.”

Steve continuò ad abbracciare Bucky con aria pensierosa. Per quanto si sforzasse, al momento non gli veniva in mente nessun piano per uscire da quella situazione. Ma doveva esserci un modo. Doveva esserci per forza un modo per far capire a tutti che Bucky non era il mostro che credevano. Il segreto doveva esser nascosto in ciò che era successo in quei settanta anni in cui erano stati separati. Doveva sapere cosa fosse successo davvero mentre Bucky era sotto il controllo dell’Hydra. Le poche informazioni a disposizione dello S.H.I.E.L.D. non erano sufficienti per scagionarlo. Malgrado non fosse assolutamente felice di quella opzione, doveva chiedere a Bucky di raccontare, di raccontare tutto.

Si prese qualche minuto per cercare un modo meno doloroso di affrontare l’argomento. Ma ben presto capì che non esisteva un modo meno doloroso, tanto valeva affrontare il problema di petto. “Devo farti una domanda Bucky. Non credo che ti piacerà, ma devo fartela lo stesso. Posso?” Chiese continuando ad abbracciarlo. Almeno questo poteva farlo, poteva chiedergli di raccontare tutto cercando comunque di farlo sentire in qualche modo protetto e al sicuro. Almeno questo poteva farlo.

“Non ci sono mai stati segreti tra di noi Steve. Non credo che sia il caso di iniziare proprio adesso.”

“Allora raccontami cosa ti è successo quando sei caduto dal treno. Vuoi?”

Bucky inspirò violentemente e tentò istintivamente di sciogliersi dall’abbraccio, gli occhi improvvisamente terrorizzati. Steve rafforzò la presa attorno alle sue spalle e si chinò subito su di lui, preoccupato.

“Ehi Bucky, no. Non importa. Non serve che tu me lo racconti adesso. Ne riparleremo tra un po’, quanto starai meglio.”

“No. Voglio parlartene, adesso. Hai diritto di sapere cosa sono diventato. Ma ho paura che una volta che te ne avrò parlato, vorrai andartene via…” La voce ridotta a un sussurro, la testa di nuovo appoggiata al petto di Steve.

“Non succederà.”

Bucky non era così convinto che le cose sarebbero rimaste le stesse dopo. Che l’idea che Steve aveva di lui sarebbe rimasta la stessa. Ma non poteva evitare quella domanda diretta. Non voleva evitarla. Fino ad allora erano sempre stati sinceri l’un l’altro e decise che sarebbe stato così fino alla fine. Quindi prese un grosso respiro ed iniziò a raccontare.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Bucky parlò per ore, la sua memoria di super soldato gli permetteva di ricordare tutto, ogni faccia, ogni nome, ogni singolo episodio. Raccontò tutto a Steve, senza tralasciare niente, nemmeno i dettagli più macabri.

Raccontò di come si era risvegliato nel laboratorio dell'Hydra dopo la caduta dal treno, senza un braccio, da solo, tra gente che parlava una lingua che non capiva.
Raccontò del siero del super soldato e di come glielo avessero somministrato, legato a un maledetto letto con un'infinità di cinghie di cuoio.
Raccontò della macchina per l'elettroshock, del pezzo di gomma che gli mettevano in bocca perché non si spezzasse i denti. Poteva ancora ricordare il suo sapore sulla lingua.
Raccontò della capsula per l'ibernazione, dei dolori lancinanti al risveglio, degli esperimenti fatti solo per testare la sua resistenza al dolore e la sua potenza in combattimento.
Raccontò dei suoi ricordi, che svanivano uno dopo l'altro come foglie al vento, dopo ogni seduta di elettroshock, fino a non ricordare più il suo nome. James Buchanan Barnes veniva distrutto pezzo dopo pezzo. Rimaneva solo il soldato, la macchina da guerra.
E poi raccontò dei morti, delle persone che aveva ucciso. Ricordava i nomi dei suoi obiettivi, li ricordava tutti. Pronunciò tutti quei nomi, uno per uno, mentre tremava sempre di più tra le braccia di Steve per la tensione e la vergogna, mentre Steve rafforzava la presa attorno alle sue spalle, per essere sicuro che non finisse in mille pezzi.

Li pronunciò tutti quei nomi, mentre Steve ascoltava in lacrime ciò che l’amico era stato costretto a fare. Lo avevano trasformato in una macchina da guerra per colpa sua. Perché non era riuscito a impedire che cadesse da quel treno. Perché non era andato a cercarlo, sicuro che ormai fosse morto.

“Non è colpa tua. Non è colpa tua Bucky. Non è colpa tua.” Ripeteva come un mantra mentre l'altro continuava ad elencare i nomi di coloro che aveva ucciso. Una lista infinita…

“Robert Baker, Ian Walker, Howard Stark, Maria Stark, James Damon…”

“Howard? Hai ucciso Howard Stark e sua moglie, Bucky?” Steve era rimasto senza fiato all’udire quei nomi.

L’altro si fermò, cercando di farsi più piccolo tra le braccia di Steve, cercando di sparire. Un cenno di assenso fu l’unica cosa che riuscì a fare.

“Adoravi Howard. Siamo andati a vedere i suoi spettacoli tutte le volte che abbiamo potuto. Sei voluto andare a vederlo anche l’ultima sera prima di partire per il fronte… Guidava l’aereo con cui sono venuto a salvarti in Italia…” Non poteva crederci, era semplicemente una cosa senza senso.

“Lo so. Adesso ricordo. Ma allora era solo una missione. Niente di più. Non riuscivo nemmeno a ricordare che avessi avuto una vita prima di quell’inferno… Non mi ricordavo di lui. Te lo avevo detto che sono un mostro.”

“No. Non dire così. Hai fatto tutto questo perché ti hanno costretto. Non eri te stesso. Non ti ricordavi nemmeno il tuo nome, come potevi ricordarti di Howard…” Ma Bucky continuava a tenere la testa bassa e ad evitare il suo sguardo.

Aveva deciso di raccontare tutto a Steve, tra loro non c’erano mai stati segreti, non potevano iniziare adesso. Aveva voluto raccontargli tutta la verità, senza risparmiargli niente. Mentre raccontava sapeva che a un certo punto Steve lo avrebbe visto per quello che era veramente. Un mostro, semplicemente un mostro.
Ma non poteva farci niente, non poteva cambiare ciò che era stato. Non poteva nasconderlo a Steve, non sarebbe stato onesto. E lui era una persona onesta, quindi aveva raccontato tutto per filo e per segno fino a quando non era successo. Fino a quando non aveva detto di aver ucciso Howard Stark e sua moglie. Allora il velo era caduto e Steve aveva iniziato a vederlo per ciò che era veramente. Un mostro.

Ma Steve stranamente non mollava la presa attorno alle sue spalle. Continuava a parlargli con la solita voce dolce, dicendogli che non era colpa sua, che non poteva rifiutarsi. Benedetto ragazzo, cosa ci voleva perché vedesse la verità?

“Guardami Bucky.” La voce perentoria di Steve riscosse Bucky dai suoi pensieri e lo costrinse ad alzare lo sguardo. “Ti ho detto di guardarmi.”

Una volta che Bucky ebbe alzato la testa, Steve lo guardò dolcemente negli occhi e continuò. “Ascoltami bene. Ti ho detto che non è colpa tua. Dovrai convivere per tutta la vita con il ricordo per ciò che ti hanno costretto a fare. Ma questo non cambia in alcun modo ciò che sei e quello che provo per te. Hai capito? Mi hai capito bene Bucky? Niente di quello che ti hanno costretto a fare cambierà mai ciò che c’è tra noi.”

Sostenere lo sguardo di Steve era diventato difficile e Bucky cercò di chinare lo sguardo. “No. Ti ho detto di guardarmi. Hai capito cosa ti ho detto?”

Niente, nemmeno un cenno da Bucky, che però continuava a guardare Steve negli occhi. “Sei sicuro Steve? Sei davvero sicuro?” Chiese incredulo.

“Fino alla fine Bucky. Me lo hai detto tu anni fa. Fino alla fine.”

Rimasero lì abbracciati per molto molto tempo. Sdraiati in due sul quel letto troppo piccolo, abbracciati in silenzio, guardando semplicemente la neve che continuava a cadere fuori dalla finestra. Un po’ di pace era tutto ciò che volevano. Dopo tutte quelle guerre e quelle battaglie, dopo tutto quel dolore e tutte le ferite, volevano solo un po’ di pace. Ma il mondo aspettava subito fuori da quella finestra e non avrebbero potuto ignorarlo a lungo, lo sapevano. Per il momento, però, il mondo era fuori da quella finestra e lì rimaneva. Almeno per un’altra sera ancora.

“Ci serve un piano.” Iniziò Steve.

“Un buon piano, direi. Se analizziamo la situazione siamo nella merda. Quelli dell’Hydra mi vogliono morto o peggio, di nuovo sotto il loro controllo, e sanno che sono qui a Bucarest, ferito. Quelli dello S.H.I.E.L.D. mi vogliono morto o in prigione, e sanno che sono qui a Bucarest, ferito. Da qualsiasi parte tu voglia guardare la situazione, siamo nella merda.”

Steve sbuffò. Sentir paragonare lo S.H.I.E.L.D. a quelli dell’Hydra gli fece venire la pelle d’oca. Ma non si poteva dire che l’analisi di Bucky fosse troppo lontana dalla realtà.
“Modera il linguaggio Bucky. E poi lo S.H.I.E.L.D. non è come l’Hydra. Loro pensano che tu sia una minaccia. Ma se li convinciamo che non lo sei, non vorranno più ucciderti.”

“Bella consolazione.” Sbuffò esasperato. Come risultato una fitta lancinante lo percorse lungo il fianco destro.

“Ehi ehi! Fai attenzione. La ferita è ancora fresca.”

“Mph. Comunque, per tua informazione, sono ancora una minaccia. Ne ho uccisi cinque a mani nude nel giro di un minuto. Sono ancora una minaccia, Steve.”

“Anche io posso uccidere a mani nude, ma non per questo lo S.H.I.E.L.D. tenta di arrestarmi… Dovremmo solo trovare il modo di fargli sapere cosa ti ha fatto l’Hydra in questi settanta anni. Se solo sapessero tutto ciò che mi hai raccontato beh… sono sicuro che la penserebbero come me.”

“Il mio cavaliere senza macchia e senza paura. Grazie al cielo certe cose non sono cambiate.” Una tenerezza infinita invase il petto di Bucky, che si mosse per cercare di farsi ancora più vicino. Poi continuò… “Steve?”

“Dimmi.”

“Pensi che il fascicolo che l’Hydra aveva su di me potrebbe aiutare?”

Steve scattò a sedere sul letto come una molla lasciando andare la presa attorno alle spalle di Bucky. “Certo che potrebbe aiutare. Sarebbe la prova di tutto ciò che ti hanno fatto. Perché me lo chiedi?”

“Perché è a casa mia, nel mio appartamento. Sotto una trave del pavimento. O almeno c’era una settimana fa...”

“O mio Dio, Bucky. È una notizia fantastica! Ma perché lo hai te? Com’è possibile?”

“Quando mi sono ricordato chi eri ho deciso di scappare via. Nei giorni successivi, piano piano, i ricordi hanno iniziato a riaffiorare. Prima erano solo sprazzi di noi, poi ne sono arrivati altri. Ma erano solo sprazzi, come se mancasse la visione d’insieme. Allora ho pensato che loro dovevano aver qualcosa su di me. Dovevano avere un fascicolo in cui c’era scritto tutto ciò che sapevano. L’idea che loro sapessero di me più di quanto ne sapessi io stesso mi mandava su tutte le furie. Mano a mano che i giorni passavano quel fascicolo era diventato sempre più un chiodo fisso, e allora semplicemente decisi di tornare alla base e riprendermelo.”

“È stata una mossa stupida. Lo sai vero?”

“Non avevo niente da perdere. L’unico vero rischio era che mi catturassero di nuovo. In tal caso avevo con me la pistola. Se mi fossi trovato in difficoltà l’avrei semplicemente usata e avrei messo fine a tutto.”

Un brivido percorse rapido la schiena di Steve, che per reazione tornò ad abbracciare Bucky, stringendolo a sé come per proteggerlo, anche a distanza di mesi, da ciò che sarebbe potuto accadere.

“Una volta recuperato il fascicolo l’ho letto così tante volte che sono arrivato a conoscerlo a memoria. E sono un sacco di pagine, Steve, veramente un sacco. Volevo distruggerlo… ma poi non ce l’ho fatta. Era l’unica cosa che mi rimanesse di me, in un modo o nell’altro, e non ci sono riuscito.”

“Dobbiamo recuperarlo e dobbiamo farlo avere allo S.H.I.E.L.D.  È la nostra unica via di uscita da questa situazione…”

“Ok, se la pensi così allora andiamo.” Rispose cercando di sciogliersi dall’abbraccio di Steve per alzarsi.

“Tu non vai da nessuna parte. Hai ancora la febbre e non sei in grado di reggerti nemmeno in piedi.”

“Non posso permetterti di andare là fuori da solo Steve. Sei matto?” alzò la voce Bucky.

“Non è questo che avevo in mente…”

“Allora cosa?”

Steve non rispose. Recuperò rapidamente il cellulare, fece un numero di telefono ed iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza come un leone in gabbia.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Steve fece il numero di Natasha e aspettò impaziente che l’altra rispondesse. Non riusciva a star fermo, camminava avanti e indietro per la stanza, seguito dallo sguardo attento di Bucky semisdraiato sul letto. Natasha rispondeva sempre al telefono, non poteva non rispondere proprio adesso, continuava a ripetersi sempre più impaziente… Poi, finalmente, sentì la voce dell’amica.

“Pronto?”

“Pronto Nat? Sono Steve. Puoi parlare?”

“Ehi Steve… Certo, sono sola. Come va?”

“Tutto ok, Bucky sta un po’ meglio. La febbre è scesa e la ferita sta migliorando. Lì com’è la situazione?”

“La pista sta per venire fuori Steve, credo sia questione di massimo dodici ore… Non posso fare di più. Mi dispiace.”

“Tranquilla Nat. Sei stata bravissima. Adesso ascolta… abbiamo un piano. Ma mi serve il tuo aiuto.”

“Spara.”

“Dovresti venire qui a Bucarest e andare nel vecchio appartamento di Bucky. Nascosto sotto un’asse del pavimento dovrebbe esserci il fascicolo dell’Hydra su di lui. Una settimana fa era ancora lì… Spero che non lo abbiano ancora trovato…”

“E una volta recuperato?”

“Dovresti portarlo allo S.H.I.E.L.D. per farlo analizzare. Se su quel fascicolo c’è anche solo un quarto delle cose che Bucky mi ha raccontato, lui verrà riabilitato immediatamente e noi potremmo tornare a casa. È la nostra unica possibilità. Altrimenti…”

“Altrimenti non tornerai più, vero?” Sempre dritta al punto, sempre pronta a fare le domande scomode, senza guardare in faccia a nessuno.

“No, Nat. Altrimenti non tornerò.” Rispose Steve con una nota di tristezza nella voce, ma con la serenità di chi che aveva già preso la sua decisione tempo prima e non intendeva metterla in discussione in alcun modo.

“È l’unico piano che abbiamo?” Chiese Nat riprendendo immediatamente un tono pratico.

“Sì. O almeno è l’unico che ci sia venuto in mente fino ad ora.”

“Allora funzionerà. Deve funzionare per forza Steve. Ormai mi sono abituata ad avere un vecchietto tra i piedi che brontola quando dico le parolacce. Mi dispiacerebbe se non tornasse più a casa…”

“Funzionerà Nat.”

“Ok. Mandami le coordinate della casa. Prendo il quinjet, recupero il fascicolo e torno a Washington. Avete bisogno di qualcosa? Preferirei non passare da voi, così sono sicura di non compromettere il vostro nascondiglio. E poi… e poi non sono brava con gli addii…”

“Non è un addio Nat. Ti dico che funzionerà.”

“Ok, Cap. Allora procedo. Mandami le coordinate. Ti richiamo per farti sapere come è andata.”

“Nat, è gente pericolosa, non si ferma davanti a niente. Fai attenzione. Ok?”

“Anche voi.”

Steve chiuse la conversazione. Il piano doveva funzionare, doveva funzionare per forza. Lei era sua amica, non avrebbe voluto chiederle quel favore, ma era l’unica strada percorribile. Se c’era qualcuno che poteva cavarsela in ogni situazione, era lei.

Mentre era perso nei suoi pensieri, la voce di Bucky lo riportò alla realtà. “Ti fidi di lei?”

“Ciecamente.” Rispose, senza nemmeno pensare. “È lei che mi ha detto dove trovarti e fino ad ora ha insabbiato la pista in modo da rallentare lo S.H.I.E.L.D. È una buona amica.”

Una scossa di gelosia percorse la schiena del moro. Non tanto perché temesse il rapporto tra Steve e Natasha, quanto perché esistevano persone che avevano condiviso parti della vita di Steve che lui aveva perso per sempre. Persone che erano state con lui, che avevano mangiato, scherzato con lui, combattuto al suo fianco, che gli avevano coperto le spalle in battaglia. Persone che Steve considerava amici. Persone che avrebbero voluto riaverlo a casa, con loro. Persone a cui Steve avrebbe rinunciato per lui. Non credeva di meritarsi tutto questo. Non capiva come potesse meritarselo dopo tutto ciò che aveva fatto.

Steve fu rapido a cogliere il repentino cambio di umore.

“Sono amici, Bucky. Mi hanno aiutato quando mi sono svegliato dal ghiaccio, in un mondo che non era più il mio. Mi sono stati vicino. Mi fido di loro, ma tu sei più importante, capito? Tu sei più importante di tutto.” Disse convinto. “Vieni qua, fatti abbracciare, cretino. E non farmi scenate di gelosia, chiaro?”

Finirono a ridere tutti e due, un po’ imbarazzati.

Passarono le ore successive in attesa, sempre più tesi e silenziosi mano a mano che le ore passavano. Mangiarono un po’, provarono a dormire un po’ ma senza successo. Steve medicò la ferita e fece l’iniezione di antibiotico. La febbre se ne era andata quasi del tutto, ma aveva lasciato Bucky debole come un gattino. Non era ancora in grado di alzarsi dal letto da solo e Steve dovette accompagnarlo in bagno sorreggendolo quasi completamente.

Dopo quindici ore non avevano ancora avuto nessuna notizia di Natasha.

“Non posso chiamarla.” Sbottò Steve, cercando di convincere soprattutto sé stesso. “Potrebbe essere pericoloso in missione.” Non gli piaceva aver chiesto il favore a Nat. La cosa non gli piaceva proprio per niente, ma l’idea di andare lui stesso, lasciando Bucky da solo senza protezione in quella camera di albergo gli piaceva ancora meno. No, aveva preso l’unica decisione possibile, pensò per l’ennesima volta, quando il telefono, che aveva ormai in mano da ore, squillò.

Guardò il cellulare per un paio di secondi. Si sedette sul bordo del letto e prese la mano di Bucky, per far coraggio più a sé stesso che all’altro, e aprì la conversazione in vivavoce.

“Pronto, Nat?”

“Ehi Steve, sono in vivavoce dal quinjet!” La voce di Nat era forte e chiara. “Ci sono anche Sam e Clint con me…”

I due amici salutarono in coro. “Ciao vecchietto, la prossima volta che vorrai fare l’eroe sei pregato di avvertire, ok?” Disse Sam con aria fintamente offesa.

“Poteva essere pericoloso ragazzi…” Rispose Steve imbarazzato e impaziente. Ma il fatto che dal quinjet avessero voglia di scherzare era già un buon segno sull’esito della missione.

“Se non fosse pericoloso non si direbbe fare l’eroe, genio.” Rispose Clint.

“Non sono stata abbastanza brava Steve, mi hanno scoperto e non volevano lasciarmi venire da sola. A quel punto o li uccidevo o li portavo con me. Credo che approverai la mia scelta. Comunque… tanto per tornare seri… abbiamo il fascicolo, era dove mi avevi detto. Lo abbiamo recuperato senza problemi.”

A quelle parole i due amici si resero conto che avevano praticamente smesso di respirare dal momento in cui era suonato il cellulare. Poi Nat continuò con voce seria. “Ehi Cap, gli abbiamo dato un’occhiata. Quello che c’è dentro è… è spaventoso. Cose da togliere il sonno, Steve. Non avevo mai visto cose così… e io ne ho viste tante di cose nella mia vita.” Poi continuò con tono pratico. “Lo portiamo subito allo S.H.I.E.L.D. per farlo analizzare e per verificare che sia autentico. Fury lo sta già aspettando. Se le cose andranno come penso, nel giro di ventiquattro ore saremo da voi con una squadra per prelevarvi in sicurezza.”

“Grazie Nat.” Rispose Steve con le guance di nuovo umide e un immenso nodo in gola. Non ricordava di aver mai pianto tanto come in quegli ultimi giorni.

“Non c’è di che Steve. Ricordati che mi devi ancora quel caffè.”

“Non credo basti per ripagarti di tutto.”

“Allora vorrà dire che alla prossima festa di Tony mi presterai il Sergente per fare un ballo come si deve. Se non mi sbaglio era un ottimo ballerino, no?”

“Sì Nat, è un ottimo ballerino.” Rispose sorridendo, un po’ imbarazzato.

“Perfetto Steve! Serviva un ballerino in squadra. Dai allora, ci sentiamo non appena ci saranno novità.”

“Ok Nat. Ah, un’altra cosa. Se poi verrete a recuperarci, considerate che Bucky non riesce ancora a stare in piedi e non può camminare.”

“Arriviamo con una barella amico. Stai tranquillo, ci penso io. Servono altre attrezzature mediche?” Sam si intromise risoluto nella conversazione.

“La ferita si è infettata Sam, adesso va meglio, ma serve una medicazione come si deve. Considera poi che ha perso parecchio sangue ed è stato quattro giorni con la febbre alta, senza mai bere. È ancora disidratato.”

“Consideralo fatto amico. Ho capito la situazione. Verremo a prendervi con una squadra di paramedici e l’attrezzatura necessaria. A presto.”

“A presto ragazzi e grazie ancora.” Rispose sollevato, come se gli avessero tolto un gran peso dalle spalle. Adesso riportare Bucky a casa non era più un’impresa solitaria, era diventato un lavoro di squadra.

Una volta chiusa la conversazione si guardarono per un po’ in silenzio senza dire niente. Steve piangeva silenziosamente di sollievo senza nemmeno rendersene conto. Bucky lo guardava con un sorriso triste ed incredulo sulle labbra. Fu lui il primo a parlare.

“Gli hai parlato di me? Ai tuoi amici dico. Hai parlato loro di me?” Chiese con una punta di orgoglio nella voce. Sapere che Steve lo aveva pensato in quegli anni in qualche modo portava via il freddo più delle coperte che aveva addosso.

“Mi sentivo solo Bucky. Condividere il ricordo di te con qualcuno mi faceva stare meglio, almeno per un po’. Era come averti per un attimo ancora accanto. Sono tutti bravi ragazzi, vedrai. Non solo Nat, Clint e Sam. Anche gli altri.”

Bucky annuì. Se piacevano a Steve dovevano essere sicuramente brave persone. Questo era certo. Questo bastava. La prospettiva di smettere di scappare e di tornare ad una vita normale gli era sempre sembrato un miraggio, ma adesso con Steve a fianco, quel miraggio sembrava un po’ meno lontano.
Poi un attacco di nausea improvviso lo riportò alla realtà e lo costrinse a chiudere gli occhi. Si era seduto sul letto per ascoltare la telefonata, ma adesso la testa aveva iniziato a girare di nuovo e la nausea si era impossessata di lui.

“Forza adesso sdraiati, hai bisogno di riposare.” Gli disse Steve sorreggendogli la schiena per aiutarlo a distendersi, sistemandogli i cuscini in modo che stesse comodo e rimboccandogli per l’ennesima volta le coperte. “Vediamo se adesso riesci a dormire un po’. Mi faccio una doccia veloce e arrivo anche io.”

Aveva veramente bisogno di una doccia. Adesso che il fascicolo era stato recuperato e che la tensione stava iniziando ad andarsene, una stanchezza infinita si stava impossessando di lui. Decise di concedersi una lunga doccia bollente per cercare di sciogliere i muscoli, soprattutto quelli delle spalle e del collo. Gli mancava la doccia di casa sua, il suo bagnoschiuma, il suo accappatoio con i colori di Captain America, regalo dei ragazzi per il suo compleanno. Gli mancava casa.
Adesso che sapeva che molto probabilmente sarebbero tornati gli permise di abbassare la guardia. Fino ad ora si era costretto a non pensare a ciò che si lasciava alle spalle, i suoi amici, il suo lavoro, la sua casa. Non che si pentisse della scelta presa, Bucky era troppo importante per decidere diversamente… Ma adesso che sapeva che sarebbero ritornati poteva tornare a pensare a tutto ciò che lo aspettava, e tutto acquistava un gusto particolarmente dolce, persino quella doccia di albergo.

Se la prese con calma e ci mise un po’ ad uscire. Quando tornò in camera vide che, a differenza di quanto sperato, Bucky era ancora sveglio.

“Non riesci a dormire?”

“Aspettavo te.” Una nota di imbarazzo nella voce.

“Dai forza… allora fammi un po’ di spazio.” Disse mettendosi anche lui sotto le coperte. “Menomale che a casa c’è un letto matrimoniale…” L’idea di loro due a casa nel loro letto gli sembrò l’immagine più bella che avesse mai visto. Sistemò i cuscini nel miglior modo possibile e allargò le braccia in modo che l’altro potesse appoggiare la testa sul suo petto.

“Adesso cerca davvero di dormire... Buonanotte.” Gli soffiò sulla fronte una volta che Bucky si fu accomodato tra le sue braccia.

“Buonanotte.” Rispose Bucky contro il suo petto, lì dove aveva appoggiato la testa.

Si addormentarono abbracciati nel giro di pochi minuti, entrambi con il sorriso sulle labbra.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Si svegliarono circa dieci ore dopo. Avevano riposato tranquillamente. La febbre di Bucky era scomparsa quasi del tutto e anche i profondi segni sotto gli occhi avevano iniziato ad andarsene, dandogli un aspetto un po’ meno cadaverico.

Ma non fu un risveglio tranquillo. Malgrado la telefonata della sera prima, non appena aperti gli occhi la preoccupazione su ciò che avrebbe fatto lo S.H.I.E.L.D. una volta avuto in mano il fascicolo si impadronì di loro. Era iniziata un’altra giornata di attesa. Una giornata in cui non potevano far altro che aspettare una telefonata da cui sarebbe dipeso il loro futuro. Aspettare senza poter far niente… come se fosse stato facile.

Ordinarono di nuovo la colazione, ma mangiarono entrambi silenziosi, persi di nuovo nei propri pensieri. Adesso che sembravano così vicini ad una soluzione, non se la sentivano di materializzare i propri sogni, le proprie speranze, parlandone a voce alta. Entrambi preferivano tacere.
Avevano voglia di fare progetti per il futuro, adesso che sembrava essere a portata di mano, ma temevano che qualcosa potesse andare storto. Lo S.H.I.E.L.D. poteva giudicare il fascicolo non attendibile, oppure poteva giudicarlo attendibile ma le informazioni contenute potevano non essere sufficienti per scagionare Bucky. Un sacco di cose potevano andare ancora storte.

Quindi aspettavano. In quella camera di albergo dall'aria viziata che iniziava a farsi troppo stretta dopo tutti quei giorni. L'idea di non avere un piano di riserva rendeva entrambi nervosi, soprattutto Bucky che negli ultimi settanta anni si era abituato a pianificare tutto nei minimi dettagli.

“Cosa facciamo se qualcosa va storto?” Chiese alla fine, dando voce alla domanda che assillava entrambi.

“Aspettiamo che tu sia in grado di muoverti e poi ce ne andiamo. È ovvio… Poi il decidere dove andare e come è tutto un altro problema. Ho un po’ di contanti con me. Dovrebbero bastare per qualche mese.”

“Ne troveremo altri, se serve.” Rispose Bucky con un sorriso tirato. “Sono diventato bravo ad arrangiarmi.” Poi continuò, incapace di fermarsi. “Non è una vita semplice Steve. Sei sicuro? Puoi sempre tornare indietro. Ti faranno passare qualche brutto momento, ma non ti faranno grossi problemi…”

Steve si avvicinò al letto e gli mise una mano sul braccio destro. “Ho preso la mia decisione quando sono venuto a cercarti, Bucky. Adesso che siamo insieme, non posso lasciarti andare di nuovo… ma non servirà, ti dico che andrà bene.”

Bucky annuì, ma adesso che iniziava a sentirsi meglio, lo stare lì fermo ad aspettare lo distruggeva dentro. Nessuno dei due era fatto per quell'attesa forzata. Poi finalmente, circa quattordici ore dopo l'ultima telefonata, il telefono squillò di nuovo.

“È Fury. Il capo dello S.H.I.E.L.D.” Disse Steve dopo aver dato un'occhiata allo schermo del cellulare.

“Come mai sta chiamando lui?”

“Non lo so.” Rispose Steve e avviò la comunicazione in vivavoce. “Pronto?” Disse titubante.

“Pronto Capitano Rogers?”

“Colonnello Fury.”

“Capitano, ha idea di quante regole abbia infranto negli ultimi otto giorni? Chiese con il tipico tono severo. Senza attendere risposta continuò. “Ma d'altra parte non c’è da meravigliarsi, non è la prima volta che mette la vita del Sergente Barnes davanti a tutto.”

Steve sorrise, ricordando per un attimo il primo salvataggio di Bucky oltre le linee nemiche, con l'aiuto di Peggy e Howard. Anche allora non pensò troppo alle conseguenze delle sue azioni. Anche allora la vita di Bucky davanti a tutto.

Fury continuò, portandolo alla realtà. “Il sergente Barnes è lì con lei in vivavoce, vero? Devo parlare con lui.”

Bucky non sapeva se fidarsi di quella voce autoritaria, udita adesso per la prima volta. Ma il coraggio non gli era mai mancato, non gli sarebbe mancato proprio adesso.
“Sergente James Buchanan Barnes, matricola 32557038, al rapporto.”

“Sergente,” Continuò Fury con tono impercettibilmente più morbido, “ho letto il fascicolo che ha sottratto all'Hydra. Lo abbiamo analizzato e lo abbiamo giudicato attendibile al cento per cento. Devo ringraziarla per avercelo procurato, contiene informazioni preziosissime.” Fury si fermò un attimo, come a pesare attentamente le parole che stava per dire. “Ciò che ha subito in questi settanta anni è aldilà di ogni immaginazione. Sono impressionato del fatto che sia riuscito a liberarsi da solo da un tale condizionamento psicologico. So che è ferito. Ovviamente le forniremo tutte le cure fisiche e psicologiche necessarie per riprendersi completamente. Una volta ristabilito saremmo lieti di averla tra le nostre fila.”
Bucky guardò incredulo Steve. Non credeva a ciò che aveva appena sentito.

“Avete letto ciò che ho fatto in questi anni? Tutti… tutti gli omicidi che ho compiuto?”

“Non la reputiamo in alcun modo responsabile di tali azioni Sergente Barnes. Nessuno potrebbe, dopo aver letto il suo fascicolo. Se mi permette, non dovrebbe farlo nemmeno lei. Spero che penserà seriamente alla mia offerta e conto sul fatto che il Capitano Rogers perorerà la nostra causa.”

“Non sono certo di aver capito, signore. Sta parlando di tornare a combattere a fianco di Steve? Di combattere di nuovo a fianco di Captain America, signore?” Chiese Bucky.

“È proprio ciò di cui sto parlando Sergente. Conto sul fatto che ci farà sapere quanto prima se è interessato alla nostra offerta.”

Si guardarono negli occhi, senza dire una parola. Non servì altro. Non c'era nessuna decisione da prendere.

“Accetto Colonnello. Accetto con piacere.”

“Benissimo Sergente, benvenuto nello S.H.I.E.L.D. allora. Le faccio preparare subito un appartamento.”

“Non importa Colonnello, il Sergente Barnes abiterà con me.” Rispose Steve intromettendosi nella conversazione.

“Capisco, fino a quando non si sarà ripreso… Io parlavo per quando si sarà ristabilito.”

“Abiterà con me anche quando si sarà ristabilito. Spero che per lei non sia un problema Colonnello.”

“Nessun problema Capitano. Allora fatemi sapere se avrete bisogno di un appartamento più grande.”

“Ci conti signore.” Rispose Steve. “E… grazie, signore.”

“Sono io che devo ringraziare voi. Il quinjet sarà sul tetto dell'albergo in sei ore con una squadra di paramedici a bordo.” Poi riprese il tono formale di sempre. “Date le circostanze vi concedo tre giorni per stilare un rapporto completo sull'accaduto.” Disse chiudendo poi la conversazione.

Il silenzio cadde nella stanza. Nessuno dei due disse niente, né fece qualcosa di eclatante. Nessun gesto particolare come abbracciarsi o baciarsi. Per quello ci sarebbe stato tempo. Adesso ne erano sicuri, per quello ci sarebbe stato tutto il tempo necessario. Lo avrebbero potuto fare con calma, al sicuro, a casa loro, nel proprio letto.

La prospettiva di poter passare il resto della loro vita insieme era un miracolo che si era avverato quando ormai aveva entrambi perso la speranza. O forse solo Bucky aveva perso la speranza. Steve era testardo, Steve aveva sempre sperato, contro tutto e contro tutti. Steve aveva sempre sperato e aveva rischiato tutto pur di ritrovarlo e di tornare insieme.
Non fecero molto in quelle sei ore di attesa. Stettero sdraiati, uno di fianco all’altro, guardandosi negli occhi e godendosi quella strana sensazione di sollievo. Fu Bucky il primo a interrompere quel silenzio confortevole.

“Possiamo prendere un gatto? Uno di quei bei gattoni grigi striati che la sera si stendono sul divano con te e ti fanno le fusa quando li accarezzi? Pensi che ci permetteranno di prenderlo? Avrei sempre voluto avere un gatto…”

“Nessuno può impedirci di prendere un gatto adesso. E sì, prenderemo un gatto se lo vuoi. Nessun problema. Lo sceglieremo insieme e tu potrai dargli il nome.”

“Davvero?” Chiese Bucky, tornato per un attimo il ragazzino degli anni ’30. “Allora lo chiameremo Colonnello Phillips.”

“Vada per Colonnello Phillips.” Rispose Steve ridendo.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


La squadra di salvataggio arrivò con circa dieci minuti di anticipo rispetto all’ora prevista. Steve era già pronto da ore. Aveva raccolto le sue cose nello zaino e aveva lasciato i soldi sul tavolo. Non era il caso di scendere alla reception. Gli uomini dell’Hydra potevano essere ovunque ed era inutile rischiare.

Aveva anche aiutato Bucky a vestirsi. L’impresa non era stata semplice, visto che l’amico non era ancora in grado di stare in piedi da solo. Aveva solo un paio di pantaloni della tuta e una felpa nel suo zaino, ma erano puliti e caldi, sempre meglio di niente.

Aveva capito che per Bucky era importante non essere troppo esposto nel momento in cui avrebbe conosciuto la squadra, essere praticamente nudi non avrebbe aiutato. Lo poteva capire benissimo… Dover esser trasportato in barella era già di per sé abbastanza umiliante, soprattutto per uno come Bucky, ma per quell’aspetto non poteva farci niente. Lui non era ancora in grado di alzarsi in piedi da solo, figuriamoci salire le scale fino al tetto o correre, nel malaugurato caso in cui ce ne fosse stato bisogno.

Non appena udirono il rumore del quinjet in avvicinamento sul tetto, una morsa di ansia attanagliò le viscere di Bucky. Ad un tratto il vedere gli amici si Steve lo metteva tremendamente in ansia. Non sapeva cosa aspettarsi. Non sapeva se gli sarebbero piaciuti. Soprattutto non sapeva se lui sarebbe piaciuto a loro. Ad un tratto si sentiva come un corpo estraneo nella vita di Steve e dei suoi amici. Un corpo estraneo che, arrivando all’improvviso, scompaginava tutti gli equilibri stabiliti fino a quel momento.

Il biondo sembrò leggergli nel pensiero ancora una volta. Si avvicinò e appoggiandogli una mano sul braccio disse semplicemente. “Vedrai, andrà tutto bene. Cerca non agitarti, ok? Non stai ancora bene. Vedrai che ti piaceranno e che te piacerai a loro. Ne sono sicuro.”

Non fecero in tempo a bussare che Steve aveva già aperto la porta. Nat, Sam e Tony in armatura si affollavano davanti alla porta. Entrarono rapidamente nella stanza e si chiusero la porta alle spalle.

“Ragazzi! È un piacere vedervi!”

“Ciao Steve. Al momento via libera. La barella aspetta sul tetto. Portarla giù per le scale ci avrebbe rallentato in caso di fuga. Tony si occuperà del trasporto del Sergente Barnes.” Udire il solito tono professionale di Nat fece sentire Steve subito a casa. Adesso avevano davvero la squadra con loro.

“Non c’è bisogno Nat, lo porto io sul tetto.”

“Ecco qua una coperta Sergente.” Disse Sam rivolgendosi direttamente a Bucky. “Fa un freddo micidiale là fuori. È meglio se la mette addosso prima di uscire.”

Quelle premure provenienti da qualcuno che non fosse Steve commossero Bucky fin quasi alle lacrime. Era la prima persona che gli si rivolgeva direttamente con modi gentili in non sapeva più quanto tempo. Decise che Sam gli sarebbe piaciuto. Era solo questione di fidarsi di nuovo delle persone… come se fosse semplice.

“Grazie.” Rispose. Per le presentazioni ci sarebbe stato tempo più tardi.

Steve aiutò Bucky a mettersi seduto e gli drappeggiò la coperta sulle spalle in modo che potesse proteggersi un po’ dal freddo nel tratto che avrebbero fatto all’aperto sul tetto.
“Sei pronto?” Chiese mettendogli un braccio dietro le spalle e uno dietro le ginocchia.

“Sono nervoso, Steve.” Sussurrò in modo che solo lui potesse sentire. In quel momento piacere agli amici di Steve sembrava essere un problema più pressante che scampare agli attacchi dell'Hydra.

“È normale che tu sia nervoso, ma andrà tutto bene. Tu fidati. Attaccati a me e chiudi gli occhi. Al resto ci pensiamo noi. Nel giro di cinque minuti saremo al sicuro, in volo.” Poi, capendo il vero motivo per cui Bucky era nervoso continuò sottovoce. “E non preoccuparti, piacerai anche a loro. Non sarai certo l'unico del gruppo con enormi problemi alle spalle. Capiranno. Non ti preoccupare.”

Bucky annuì, cercando di convincersi che Steve avesse ragione, e fece come gli aveva detto. Chiuse gli occhi e si aggrappò a lui. Salirono in fretta le scale. Nat e Sam davanti a controllare che la via fosse libera. Tony dietro a coprire le spalle, stranamente silenzioso. Clint li aspettava sul quinjet i motori accesi e il riscaldamento alzato.
Non appena saliti a bordo, Steve depositò Bucky sulla barella, già pronta nella coda del velivolo. La squadra di paramedici si avvicinò subito per prendersi cura di lui.

“Niente cinghie.” Disse Steve rivolgendosi al capo squadra.

“Ma… in caso di turbolenze come…”

“Ho detto niente cinghie. In caso di turbolenze ci penso io.” Il tono perentorio nella voce di Steve costrinse il paramedico a non ribattere.

“Come vuole Capitano. Niente cinghie.”

Bucky sorrise, riconoscente. Già l'idea di esser toccato da qualcuno che non fosse Steve lo metteva a disagio, ma essere assicurato alla barella con le cinghie era, per il momento, oltre la sua capacità di sopportazione.

Prima di allontanarsi, Steve si avvicinò in ginocchio alla barella e gli sussurrò nell'orecchio. “Adesso mi sposto in modo che possano lavorare. Mi metto seduto lì, sono solo due metri. Chiamami per qualsiasi cosa. Ok? Anche se ti prendesse solo il panico, tu chiamami. Non appena hanno fatto mi rimetto qui accanto a te.”

Bucky fece un cenno di assenso e un sorriso tirato, ma non ci si poteva aspettare niente di più. L'idea di esser toccato da estranei riportava a galla settanta anni di ricordi terribili.
I paramedici erano stati già avvertiti da Sam su cosa Bucky avesse dovuto subire in quegli anni e furono molto gentili, attenti a non spaventarlo, sempre sotto lo sguardo vigile e attento di Steve. Gli spiegarono ogni loro singola mossa prima di compierla, in modo che fosse preparato e fosse sempre informato su cosa stessero facendo. E dopo aver spiegato ciò che stavano per fare, aspettavano sempre un cenno di assenso da parte sua, in modo che fosse lui a dettare i tempi e ad avere, in qualche modo, il controllo della situazione.
Si occuparono subito della ferita cambiando la medicazione e, dopo aver messo sotto monitoraggio i suoi parametri vitali, avviarono una flebo di fisiologica e antibiotici.

Dato che Bucky sembrava relativamente tranquillo, Steve si voltò un attimo verso Natasha, che aveva preso posto accanto a lui, dall'altra parte rispetto alla barella.

“Grazie Nat.” Con Natasha non servivano tante parole. Era uno degli aspetti migliori della loro amicizia.

“Sei felice Steve.”

Lui si grattò la nuca con fare imbarazzato. “Sì. Credo di sì.”

“Non era una domanda Steve, era una semplice osservazione. Sei felice. Ti si legge negli occhi.” Dopo alcuni istanti continuò, come a pesare le parole che stava per dire. “Sono contenta, nessuno se lo meritava più di te. E sono onorata di esser stata di aiuto.” Poi per smorzare la tensione si rivolse direttamente a Bucky, che ora riposava tranquillo attaccato alla flebo, dopo che i paramedici avevano finito il loro lavoro.  “Mi devi un ballo, Sergente Barnes, non appena ti sarai rimesso in sesto. Nessuno in questa squadra sa ballare come si deve.”

Bucky sfoderò un sorriso divertito, uno di quei sorrisi sghembi che piacevano tanto alle ragazze prima della guerra. “Con piacere. Credo di essere un po’ arrugginito, ma pagherò pegno con piacere. Però credo che Steve debba fare delle presentazioni prima.”

“Da quando in qua sei così formale Bucky? Ad ogni modo, la signora qui presente è Natasha Romanov, Nat per gli amici, e ti consiglio vivamente di non farla arrabbiare.”

Nat si alzò, andò verso di lui e gli strinse la mano, sorridendo. Una bella stretta, forte e decisa. Bucky sorrise di rimando.

“Continuando con le presentazioni, abbiamo Sam Wilson.” Disse Steve indicando l’amico seduto davanti a lui. “Lavora con i veterani. Mi sa che potrà essere utile in futuro…”

“Credo anche io. Piacere di conoscerti.” Rispose Bucky allungando la mano destra e stringendo quella di Sam in una stressa calorosa.

“Quando volete ragazzi. Lo sapete che sono sempre a disposizione.” Rispose Sam tranquillamente, facendo già sentire Bucky un po’ più parte della squadra.

Steve continuò il suo giro. “Alla guida abbiamo Clint Burton. Esperto nel tiro con l’arco. Fa cose da rimanere a bocca aperta.”

“Piacere di conoscerti amico.” Urlò Clint dal posto di guida. “Appena posso passo dietro e ti stringo la mano come si deve.”

“Nessun problema! Piacere di conoscerti.” Urlò Bucky per farsi sentire fino al posto di guida.

Non rimaneva che il passo più difficile. Francamente Steve non sapeva cosa aspettarsi. Tony non aveva aperto bocca da quando si erano visti, nemmeno per sparare quelle frecciatine che gli piacevano tanto.

Il fatto che fosse venuto non poteva essere un brutto segno, ma stava seduto dietro Steve, con l’armatura ancora addosso a parte il casco, guardando Bucky la faccia scura. Meglio togliersi subito il pensiero e arrivare dritti al nocciolo del problema… “Infine lui è Tony Stark, figlio di Howard.” Disse Steve tutto d’un fiato. Non serviva dire altro, per il momento.

Per Bucky fu come ricevere un pugno nello stomaco. Trattenne il respiro e chinò immediatamente il capo sommerso dalla vergogna.

Il bip bip dei macchinari diventò un po’ troppo veloce e uno dei paramedici si avvicinò subito per monitorare la situazione da vicino, la siringa di calmante già pronta in mano da utilizzare nel caso in cui la situazione fosse peggiorata.

Steve si alzò e si inginocchiò subito accanto a Bucky. La mano sulla sua spalla, sia per calmarlo, sia per far capire subito a tutti da che parte sarebbe stato in caso di scontro. Poi gli disse in un sussurro. “Scusa, se non te l’ho detto. Credevo di avere più tempo.”

Tony si era alzato e si era avvicinato alla barella, dritto come una trave all’interno della sua armatura, guardandolo dall'alto in basso, come se fosse la peggior feccia della terra. Un silenzio di tomba era sceso all'interno del quinjet. Anche Clint si era voltato per capire cosa stesse succedendo.

Fu Tony ad interrompere quel silenzio di tomba. “Perché anche la mamma. Posso capire mio padre, ma perché anche la mamma?” Meglio andare dritti al punto.

Bucky alzò la testa e lo guardò negli occhi. “Perché avevo ordine di uccidere tutti e due.”

Bucky decise di non chiedere scusa. Non avrebbe avuto senso chiedere scusa. Aveva ucciso entrambi i suoi genitori, che senso poteva avere chiedere scusa. Ma lo guardò negli occhi quando gli rispose, in modo da sostenere tutto il disprezzo che si aspettava di vedere nel suo sguardo. Questo glielo doveva. Ma non fu disprezzo ciò che vi vide, solo angoscia.

“Vorrei tanto odiarti. Vorrei tanto vendicarmi uccidendoti. Ma uccidendo te ucciderei la persona sbagliata. Ho letto il tuo fascicolo, pagina per pagina. Lo so a memoria ormai, e non posso incolpare te per ciò che è successo, anche se sarebbe tremendamente più facile. Loro adesso sono i miei nemici, coloro contro cui rivolgere la mia vendetta. E credo che siano anche i tuoi…” Lo disse tutto di un fiato, come se avesse paura di bloccarsi e non di non riuscire a terminare il discoro. Come se dire quelle parole fosse stato una delle cose più difficili che avesse mai fatto in tutta la sua vita. Ma una volta dette quelle parole ad alta voce, una volta uscite fuori, la sua espressione si rilassò.

Bucky annuì serio. Tony fece ritirare completamente la sua armatura e continuò con aria un po’ più leggera. “E visto che i nemici dei miei nemici sono miei amici, direi che possiamo almeno provare ad esserlo. Cosa ne dici?” Allungando la mano verso Bucky e facendo tirare a Steve un enorme sospiro di sollievo.

“Dico che sarebbe un’idea fantastica.” Una stretta di mano a suggellare l’inizio di quella nuova, strana, amicizia.

Una volta rotto il ghiaccio e tranquillizzati tutti sull’atteggiamento di Tony, mano a mano che le ore di viaggio scorrevano l’atmosfera diventò sempre più rilassata e ciarliera. Bucky sdraiato sulla barella, con il braccio sinistro piegato dietro la testa a mo’ di cuscino e la mano sinistra stretta nella mano di Steve. Gli altri seduti sui sedili ruotati in modo da trovarsi praticamente in cerchio.

Ormai facevano a gara a raccontare a Bucky gli aneddoti più strani sulla vita di Steve dopo il risveglio e lui contraccambiava con aneddoti sulla vita di Steve durante la guerra e addirittura prima che diventasse Capitan America. Spesso dovevano fermarsi per le troppe risate e più volte Bucky si ritrovò a reggersi la ferita con le lacrime agli occhi dal dolore e dalle risate.
Steve rideva con loro. Felice di essere oggetto di quelle prese in giro bonarie. Felice di avere Bucky di nuovo al proprio fianco. Felice di far parte di quella grande strana famiglia allargata. Felice e basta.

“Ehi ragazzi, non appena Barnes si sarà ripreso, pizza e film tutti insieme in sala comune? Ok? Io porto il vino.” Propose Tony.

Bucky capì che una nuova vita aveva avuto inizio. Steve aveva trasformato quella che doveva essere la fine di tutto, la fine della linea, in uno splendido nuovo inizio. Steve era sempre stato il suo uomo dei miracoli e anche stavolta aveva trovato il modo e la forza di farne uno. Gli aveva regalato un nuovo inizio, una nuova vita all’interno di una grande strana famiglia allargata, una nuova vita insieme.

Steve e Bucky si guardarono negli occhi e un sorriso spuntò all’unisono sui loro volti.

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