Undici solitudini

di blackjessamine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Indice ***
Capitolo 2: *** Gli anni della leggerezza ***
Capitolo 3: *** Presenza di spirito ***
Capitolo 4: *** Double, double toil and trouble; fire burn, and caldron bubble ***
Capitolo 5: *** Tutte le colpe del mondo ***
Capitolo 6: *** Orfano di padre vivo ***
Capitolo 7: *** Viaggio degli spiriti ***
Capitolo 8: *** Sono fiera di te ***



Capitolo 1
*** Capitolo Indice ***


1. Capitolo Indice
2. Gli anni della leggerezza – Petunia Evans (One-Shot, rating giallo, genere Introspettivo/Malinconico; la storia, edita, partecipa al contest "Brother, my brother" indetto da Elettra.C sul forum di EFP)

3. Presenza di spirito – Mirtilla Malcontenta (Flash, rating verde, genere Comico/Malinconico, partecipante al contest "Citazioni in cerca d'atuore (Oscar Edition) indetto da Rosmary sul forum di EFP)
4. Double, double toil and trouble; fire burn and caldor bubble – Severus Piton (One-Shot, rating giallo, genere Introspettivo/Malinconico
5. Tutte le colpe del mondo – Priscilla Corvonero (One-Shot, rating giallo, genere Introspettivo, partecipante al contest "Le sei mogli di Enrico VIII, indetto da GiuniaPalma sul forum di EFP
6. Orfano di padre vivo – Barty Crouch Jr. (Flashfic, rating giallo, genere Introspettivo/Malinconico; la storia, partecipa al contest "Citazioni in cerca d'Autore - Osca Edition!" Indetto da Rosmary sul forum dicEFP
7. Viaggio degli spiriti – Helena Corvonero (One-shot, rating giallo, genere Introspettivo/Malinconico; la storia, partecipa al contest "Una biblioteca in disordine" indetto da Marika Ciarrocchi/Angel Cruelty sul forum di EFP

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Capitolo 2
*** Gli anni della leggerezza ***



Personaggi: Petunia Evans; Lily Evans; James Potter; Vernon Dudley
Tipo di coppia: Petunia Evans/Vernon Dudley; James Potter/LilyEvans
Note: Missing Moments
Contesto: Malandrini/I Guerra Magica
Genere: Introspettivo; Malinconico
Rating: Giallo
Introduzione: Petunia desiderava soltanto avere una serata perfetta. Una cena deliziosa, un fidanzato meraviglioso, e l'attenzione dei suoi genitori. Ma la perfezione, quando si parlava di sorelle Evans, apparteneva soltanto a Lily. 
NdA: il titolo è una citazione al primo volume della saga dei Cazalet, di E. J. Howard. La storia, edita, partecipa al contest “Sincero (non mi odi più)”, indetto da Giunia Palma sul forum di EFP.









 
Gli anni della leggerezza





Petunia era furiosa.
No, era più che furiosa, era adirata, indignata e delusa.
E quel che era peggio, nessuno sembrava comprendere perché si fosse rinchiusa nella sua stanza senza pronunciare nemmeno una parola. Non lo aveva capito nemmeno Vernon, che era rimasto a fissarla scendere dalla sua macchina con sguardo confuso e stupito.
Oh, certo, perché mai qualcuno in quella casa avrebbe dovuto fare lo sforzo di spegnere per un secondo tutto quello stupido entusiasmo per cercare di capire che cosa stesse passando per la sua testa? Del resto, lei era soltanto Petunia, la noiosa, banale, ordinaria Petunia! Che importava di tutti i suoi sforzi, di tutta la pianificazione, della cena studiata nei minimi dettagli, il parrucchiere nel primo pomeriggio e un vestito nuovo, il discorso che Vernon aveva studiato quasi a memoria, tutti i possibili imprevisti calcolati... quella serata doveva essere perfetta. Doveva essere la sua serata, e lo sarebbe stata, se solo sua sorella non avesse rovinato tutto come al solito.
Sua sorella. La sua perfetta sorella non si era resa conto di nulla, ovviamente. Le aveva semplicemente regalato uno dei suoi sguardi feriti, da cagnolino bastonato, e se n'era rimasta con gli occhi gonfi di lacrime a fissare la porta che Petunia aveva sbattuto.
Petunia non doveva nemmeno sforzarsi troppo per immaginare quello che doveva essere successo appena lei aveva lasciato la casa: i loro genitori si sarebbero gettati su Lily, coprendola di paroline dolci e cercando di convincerla a non fare caso a Petunia, perché tutti e tre sapevano quanto potesse essere difficile il suo carattere in certi frangenti. Lily allora avrebbe tirato su con il naso, si sarebbe asciugata le lacrime e avrebbe messo in piedi la sua bella maschera da bambina coraggiosa, avrebbe cercato di sorridere e avrebbe detto qualcosa di carino, rassicurando tutti che l'indomani avrebbe parlato con Petunia e si sarebbe scusata.
Oh, sì, perché era fuor di dubbio che alla fine sarebbe stata Lily quella che si sarebbe scusata, giusto per dare a tutti un motivo in più per ammirarla.
E poi quel ragazzino dinoccolato, quella specie di fidanzato che Lily aveva gettato loro in casa durante le ultime vacanze di Pasqua, avrebbe fatto qualche battuta acida e infantile su Petunia, Lily si sarebbe arrabbiata, allora lui si sarebbe scusato e avrebbe detto qualche altra idiozia e Lily avrebbe finto di fare ancora la sostenuta, ma la sua sarebbe stata tutta una posa, perché dietro le sue labbra arricciate ci sarebbe stata una risata a stento trattenuta, ed entro pochi minuti avrebbe gettato le braccia al collo di James con sguardo adorante.

Oh, al diavolo! Petunia non aveva intenzione di restarsene sdraiata a rimuginare su come la sua serata perfetta si fosse trasformata in un incubo. Vernon era furioso, maledizione! Quando gli aveva chiesto di lasciarla sola, l'aveva fatta scendere dalla macchina davanti a casa, per poi ripartire sbuffando e borbottando. Petunia ci avrebbe messo ore per cercare di scusarsi e convincerlo a tornare a cena dai signori Evans un'altra sera e terminare il suo discorso. Oh, per la miseria, no, ormai quel discorso non aveva più senso. Poco importava: l’indomani magari gli avrebbe fatto una sorpresa e si sarebbe fatta trovare fuori dal suo ufficio, e avrebbero pranzato insieme. No, meglio di no, Vernon non amava le sorprese; lo avrebbe chiamato durante la pausa pranzo, sì, e lo avrebbe invitato a cena in quel ristorantino che gli piaceva tanto a Redhill, e davanti ad una bella fetta di torta al rabarbaro avrebbero sicuramente fatto pace. Forse, se si fosse svegliata presto e avesse fatto in tempo a passare in tintoria prima di andare al lavoro, sarebbe anche riuscita a mettere quel vestito beige che aveva comprato solo qualche settimana prima e che a Vernon piaceva tanto...
Con questi pensieri per la testa si alzò di scatto dal letto, e, controllando con mani tremanti che i capelli fossero ancora abbastanza in ordine, prese a infilarsi le scarpe.
Elegantissime scarpe color crema, con un tacco abbastanza alto da slanciarle i polpacci magri ma non così tanto da farla sembrare una poco di buono.
Scomodissime. 
Perfette con l'abito a motivi floreali che indossava, ora tutto sgualcito dopo che si era lasciata pesantemente cadere sul letto. 
Decisamente inadatte per una passeggiata serale. 
Cercando di non pensare a quanto sarebbe stata ridicola con un bell'abito elegante e delle scarpe da ginnastica, si infilò ai piedi le scarpe più comode che riuscì a trovare nella sua stanza, poi si avvolse in un soprabito leggero e uscì silenziosamente di casa.

 
***

Petunia percorse con passo rapido e un po' incerto la via residenziale, fino a quando non giunse in vista del piccolo parco giochi del quartiere. Grazie al cielo la loro era una zona tranquilla, quindi una ragazza poteva ancora permettersi di camminare sola dopo il tramonto. Petunia di solito preferiva comunque evitare di farlo, ma quella non era una sera come le altre. Avrebbe dovuto essere la sua serata speciale, e invece ora si ritrovava da sola a camminare verso il parco giochi in cui aveva trascorso tante ore felici quando era una bambina.
Il cancello del parchetto era accostato, ma non chiuso a chiave: le bastò spingere leggermente per avvertirne il cigolio stanco, e Petunia si ritrovò a percorrere il sentiero di ghiaia bianca. Per un attimo, ripensò a tutte le volte in cui lei e Lily si erano riempite le tasche di quei sassolini bianchi, per poi sedersi nell'angolo più appartato del parco a costruire sentieri e giardini in miniatura. Era stato uno dei loro giochi preferiti, almeno fino a quando Lily non aveva iniziato a far sgorgare l'acqua nel punto esatto in cui dicevano che ci sarebbe dovuto essere un ruscello o un laghetto. Allora Petunia aveva detto di essere troppo grande per quel tipo di giochi, e aveva lasciato Lily a costruire piccoli giardini da sola. La verità era che la semplicità con cui Lily riusciva trasformare in realtà una fantasia la terrorizzava.

Petunia avanzò lentamente, pregustando di sedersi come una volta in cima al grosso scivolo a forma di castello – il suo gioco preferito, perché poteva nascondersi in quella specie di casetta alla base e osservare gli altri bambini giocare senza essere vista – quando improvvisamente sentì delle voci. Per un attimo, temette di essersi sbagliata: forse il loro quartiere non era più così tranquillo come si divertiva a ripetere a chiunque; forse malintenzionati, delinquenti e drogati esistevano anche da loro, e lei aveva commesso un'incredibile imprudenza ad uscire di casa a sera più che inoltrata. Le voci erano ancora abbastanza lontane, dovevano essere nei pressi dell'altalena, e di certo i loro proprietari non l'avevano ancora vista. Forse avrebbe dovuto fare dietrofront, camminare silenziosamente com'era arrivata e andarsene, e nessuno si sarebbe accorto di niente. Avrebbe potuto schiarirsi le idee anche a casa, uscire era stata una cosa così impulsiva, così stupida!

Stava per voltarsi e andarsene, quando una risata squillante la raggiunse. Una risata piena di gioia, femminile e cristallina. La risata di Lily.
Maledizione, possibile che sua sorella non fosse capace di lasciarla in pace nemmeno quando decideva di passare del tempo da sola? Non aveva detto che sarebbe uscita solo per riaccompagnare a casa quella specie di fidanzato? E invece no, Lily, la perfetta Lily, non aveva riaccompagnato a casa il suo ragazzo. Lily lo aveva trascinato nell'unico posto in cui Petunia voleva rimanere sola, perché Lily quella sera sembrava decisa a rovinarle qualsiasi gioia.
A coprire la risata di Lily giunse una risata più profonda, decisamente maschile, e poi un intrecciarsi di voci, fiumi di parole a malapena soffocate in quella tersa notte di inizio autunno.
Petunia sapeva che avrebbe fatto meglio a tornare a casa, ma qualcosa la spinse a camminare lentamente in avanti, tenendosi nell'ombra fino a quando non riuscì a scorgere il cerchio di luce tenue e dorata disegnata dai lampioni attorno allo spiazzo erboso delle altalene. Lì quel ragazzo, quel James Potter, sedeva sull'asse di legno che faceva da pianale all'altalena, e Lily era seduta sulle sue ginocchia, il viso voltato all'indietro e nascosto contro il collo del ragazzo, che la stringeva a sé accarezzandole i capelli.
Petunia non poté fare a meno di notare, di nuovo, quanto sembrassero giovani: due ragazzini in preda alla prima cotta, altroché, ecco quello che erano! E invece fingevano di essere abbastanza grandi da potersi comportare da adulti... andiamo, chi mai avrebbe potuto prenderli sul serio? I suoi genitori avrebbero dovuto fare qualcosa, intervenire, proibire a Lily di fare un gesto così stupido e avventato, e invece tutto quello che suo padre sapeva fare era stringere fra le braccia quel ragazzino spettinato, mentre sua madre si asciugava furtivamente le lacrime e continuava a ripetere il nome di Lily, raggiante.

James Potter disse qualche cosa che Petunia non riuscì a sentire, e Lily, per tutta risposta, gli chiuse le labbra con un bacio tanto appassionato che Petunia si ritrovò a deglutire, a disagio: per la miseria, ma sua sorella non si rendeva conto che si trovavano pur sempre in un luogo pubblico? In un luogo pensato per i bambini, oltretutto. Poteva anche essersi appena diplomata a pieni voti, ma decisamente in quella scuola non le avevano insegnato nulla sul decoro.
Petunia, invece, poteva vantare una perfetta padronanza delle buone maniere: se non fosse stato per Lily, quella sera sarebbe davvero stata perfetta. Per un po', lei e Vernon avevano pensato di portare fuori a cena i suoi genitori, ma poi avevano cambiato idea: la cena al ristorante era stato un momento tutto loro – un momento perfetto, ci teneva a ricordare Petunia, in cui Vernon si era comportato da impeccabile gentiluomo, facendo esattamente tutto quello che ci si aspettava da lui – e così avevano optato per una cosa più intima. Più familiare, visto lo scopo di quella cena. E così Petunia aveva pianificato e organizzato, aveva scelto la sera perfetta, in cui sapeva che Lily sarebbe stata fuori coi suoi amici, aveva passato ore a scartabellare libri di ricette per scegliere il menù più adatto, aveva apparecchiato usando il servizio bello – e per tutto il tempo, mentre accarezzava le forchette d'argento, non faceva che pensare a come sarebbe stato il suo servizio elegante – e aveva aspettato che Vernon arrivasse, puntuale come al solito.
Quando sua madre era andata ad aprire la porta, si era trovata davanti un ragazzone nel fiore degli anni, tutto impettito nel suo completo elegante e con i capelli biondi ben pettinati all'indietro.
I suoi genitori dovevano sospettare qualche cosa, perché l'unica cena così elegante e curata che Petunia avesse organizzato era stata un anno prima, quando aveva deciso di presentare formalmente Vernon in famiglia. Ci teneva a rispettare le regole, lei. Non come Lily, che durante le ultime vacanze di Pasqua aveva semplicemente detto di voler invitare un compagno di scuola che era curioso di scoprire di più sul loro mondo, e poi si era presentata a pranzo con quel ragazzo spettinato che, dopo un iniziale momento di imbarazzo, non aveva fatto alto che fare battute brillanti e raccontare di come Lily a scuola lo tormentasse, mettendolo sempre in punizione perché non rispettava le regole. Lily si era degnata di far sapere a loro che quel James Potter era più di un amico solo quando, spostandosi in salotto per il dessert, li avevano trovati avvinghiati insieme e intenti a scambiarsi un bacio appassionato davanti alla televisione. E i loro genitori avevano solo riso. Vernon non si sarebbe mai sognato di baciarla a quel modo davanti alla sua famiglia. Be', non l'aveva mai baciata con quella passione disperata nemmeno quando erano soli, dovette ammettere Petunia, ma solo perché Vernon era un gentiluomo. Eppure Lily poteva pomiciare in soggiorno con un tizio strambo che non aveva fatto altro che parlare di abracadabra e bibbidibobbidibù, e tutto quello che otteneva era una risata e una comprensiva pacca sulla spalla. Non si era mai degnata di spiegare la situazione, ma semplicemente, quando era tornata a casa da scuola, dopo essersi diplomata, aveva preso a farsi vedere spesso in compagnia di quel Potter, e i loro genitori sembravano semplicemente innamorati di quel ragazzo. Un ragazzo che non lavorava e nemmeno cercava lavoro, per giunta. Lily lo giustificava dicendo che la situazione nel loro mondo era difficile e che James voleva rendersi utile per migliorare le cose, e i loro genitori lo ammiravano per questo, invece di vederlo per il perdigiorno scansafatiche che era. Non battevano nemmeno ciglio quando Lily, con un sorriso noncurante, scendeva di corsa le scale e annunciava di non aspettarla, perché sarebbe rimasta a dormire da James. Petunia non avrebbe mai osato dire una cosa del genere con tanta leggerezza. Eppure i loro genitori sembravano non accorgersi nemmeno che la loro figlia appena maggiorenne passava almeno una notte alla settimana a casa di quello che avevano dovuto intuire essere il suo fidanzato, perché lei non si era mai preoccupata di presentarlo come tale. Be', probabilmente questa rilassatezza nei costumi era il prezzo da pagare quando si accettava che la propria figlia frequentasse un collegio di pazzi dove studiavano sia ragazzi che ragazze.

Petunia invece aveva fatto le cose per bene: quando le cose con Vernon avevano cominciato a farsi serie, nel giro di un weekend aveva organizzato due cene formali, una per presentare ufficialmente Vernon ai suoi genitori, e una per essere presentata alla famiglia di lui. Da quel momento, cercava di far incontrare i suo genitori e Vernon almeno una volta al mese, perché potessero conoscersi e apprezzarsi reciprocamente. E poi Vernon era stato semplicemente perfetto: aveva trovato un buon lavoro, aveva ottenuto una promozione e aveva aperto un mutuo per una bella casa adatta ad ospitare una famiglia nel Surrey, l'aveva invitata a cena in un ristorante esclusivo e molto elegante e, dopo un discorso pieno di buoni sentimenti e di affetto si era inginocchiato davanti a lei, porgendole la scatolina di velluto del solitario che ora continuava a rigirarsi attorno all'anulare.
Era stato tutto perfetto. E ancora più perfetto era stato quando Vernon le aveva detto che gli sarebbe piaciuto parlare con i genitori di lei, e chiedere loro la sua mano. Non perché avessero davvero bisogno della loro benedizione, ma perché trovava corretto cercare di rispettare le tradizioni, fosse anche solo per puro amore della forma.
E così Petunia aveva organizzato la cena perfetta, chiedendo ai suoi genitori di vestirsi bene, perché chissà, forse avrebbero potuto anche scattare delle fotografie in ricordo della serata. E Vernon era arrivato portando con sé un'ottima bottiglia di vino e avevano trascorso una splendida serata ascoltandolo parlare degli ultimi affari che avevano concluso. Avevano deciso che Vernon avrebbe tenuto il suo discorso dopo il caffè, così Petunia aveva iniziato a provare una piacevole agitazione, arrivati al momento del dolce.
Non c'era niente di sbagliato in quella serata, persino il telegiornale non aveva riservato brutte sorprese con casi di cronaca troppo efferati.
Petunia stava osservando con tenerezza Vernon riempirsi la bocca di budino al cioccolato e alle nocciole, quando la porta di casa si era spalancata, lasciando entrare il vociare eccitato di Lily e James. Non avevano bussato, non avevano suonato, eppure lo sapevano, Lily lo sapeva che Petunia aveva invitato a cena Vernon. Avevano fatto irruzione in sala da pranzo tenendosi per mano e Petunia aveva a stento trattenuto un gemito: James Potter era più spettinato che mai, con gli occhiali leggermente di traverso sul naso, le lenti appannate e un'espressione a dir poco inebetita. Indossava dei jeans scoloriti e una maglietta di quello che avrebbe potuto essere un gruppo rock che Petunia non aveva mai sentito nominare. Non che fosse una grande esperta in materia, del resto. Sembrava un adolescente appena uscito da scuola. Lily invece aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo che continuava a saltellarle sulle spalle, dato che sembrava non riuscire a stare ferma un secondo. Le sue ginocchia chiare spuntavano dai pantaloncini corti che si era messa quella mattina, incurante del fatto che fossero ormai a settembre e che non facesse più caldo. Due ginocchia che esibivano vistose sbucciature, come se fosse appena caduta. 
Come una bambina.
Era infagottata in una felpa fuori misura, sicuramente prestata dal bamboccio gongolante, che nonostante fosse in maniche corte, sembrava non sentire minimamente freddo. Petunia notò che il braccio sinistro di James Potter era attraversato da un lungo taglio dall'aria piuttosto dolorosa e sicuramente recente, che sembrava minacciare di riprendere a sanguinare da un momento all'altro. La felpa grigia sembrava appartenere invece a qualche squadra sportiva, ma Petunia era certa di non aver mai sentito nominare i Montrose Magpies. Con un moto di stizza, dovette ammettere che Lily era talmente raggiante che sembrava bellissima anche spettinata e vestita come una disperata.
Lily aveva afferrato la mano di James, ed era quasi corsa davanti ai loro genitori, gridando:
“Sapete che cosa abbiamo appena deciso? Ci sposiamo!”
Per un attimo, sulla sala da pranzo era calato un silenzio attonito: Petunia, del tutto inebetita dall'annuncio, era rimasta immobile ad osservare Vernon fermarsi col cucchiaio di budino a mezz'aria. La prima a reagire era stata loro madre, che si era stretta le mani al petto ed era balzata in piedi, emettendo un verso inarticolato. Un verso pieno di gioia, indubbiamente. Poi era stato il turno di loro padre che, con gli occhi già velati di lacrime, si era limitato a sussurrare:
“Siete così giovani... oh, santo cielo, ragazzi, venite qui!”
Charles Evans, un omone grande e grosso che cercava di trattenere le lacrime di gioia, aveva stretto a sé James e Lily in un abbraccio soffocante.
Margaret Evans rimase per un po' immobile a guardare suo marito abbracciare la figlia e il suo futuro genero e poi prese a ripetere, come una cantilena:
“Lo sapevo, lo sapevo che sarebbe successo presto... la mia bambina... la mia bellissima bambina... oh, James, siete così giovani, ma lo sapevo che non avreste aspettato troppo, non con questa cosa orribile che state affrontando...”
Con un singhiozzo, Margaret Evans strappò sua figlia e James dall'abbraccio del marito, per stringerli a sé. Petunia vide la familiarità e l'affetto con cui circondò le spalle di quel ragazzo allampanato e dall'aria ancora un po' confusa, e con un doloroso tuffo al cuore si rese conto che sua madre non aveva mai stretto a quel modo Vernon. Gli aveva a malapena stretto la mano e baciato la guancia, e dire che ormai lo conosceva da quasi due anni! Ma Lily era così: per lei era facile farsi voler bene, lo era sempre stato. Lei era la sorella bella, quella generosa, quella dal bel carattere. Tutto veniva semplice, a Lily: non aveva bisogno di sforzarsi e di impegnarsi, perché tutto quello che lei faceva era bello e appassionato e facile da amare.
A lei bastava portare a casa un compagno di scuola e baciarlo nel soggiorno perché sua madre si domandasse pensierosa che cosa avrebbero potuto regalare a questo James, visto un solo pomeriggio, per il giorno in cui lui e Lily si sarebbero diplomati.
Lo scorso mese i suoi genitori si erano completamente scordati del compleanno di Vernon, non gli avevano nemmeno fatto gli auguri, nonostante Petunia avesse ripetuto almeno dieci volte che per l'occasione sarebbero usciti a cena a Londra.

Petunia aveva impiegato ore a preparare la cena di quella sera, aveva ascoltato innumerevoli versioni del discorso che Vernon si era preparato per annunciare che l'estate successiva avevano intenzione di sposarsi, e sapeva, perché lo sapeva, che tutto quello che avrebbe avuto in cambio sarebbero stati solo abbracci vuoti e congratulazioni ben ricamate. Invece, non aveva nemmeno avuto il tempo di arrivare a questo, perché Lily, la sorella minore, quella che ancora non aveva idea di cosa fare della sua vita, le aveva rubato tutta la scena. Lily non aveva avuto bisogno di grandi preparazioni, no: a Lily era bastato fare irruzione in casa trascinandosi dietro il suo ragazzo, che per quanto sembrava reattivo, poteva tranquillamente essere sotto gli effetti di una qualche sostanza stupefacente, e annunciare che avevano appena deciso di sposarsi, per avere lacrime e abbracci pieni di amore e sincerità.
Petunia lanciò uno sguardo cupo a Vernon, che se ne stava ancora immobile col cucchiaio a mezz'aria, incapace di reagire. Avevano preso in considerazione diverse variabili, diversi coefficienti di fallimento del piano per questa sera, compresa l'eventualità che suo padre fosse colpito da un altro scompenso cardiaco, come era successo solo un paio di mesi prima, ma certo non avevano pensato che la sorella mezza matta di Petunia avrebbe semplicemente potuto batterli sul tempo.
James e Lily presero a parlare insieme, raccontando in maniera confusa ed eccitata di aver avuto una serata un po' movimentata, una brutta lite coi cattivi di turno – Petunia, per l'ennesima volta, si chiese quanto di vero ci fosse in quello che Lily raccontava del suo mondo, se davvero stessero combattendo una guerra, o se sua sorella avesse semplicemente preso a frequentare brutte compagnie e cercasse di giustificare le sue uscite in piena notte e i vestiti strappati con questa bella favoletta – e alla fine James non era riuscito a trattenersi, e aveva chiesto a Lily di sposarlo. Arrossendo come un peperone e passandosi una mano in quel nido di topi che aveva in testa, il ragazzo confessò che in realtà da qualche settimana stava cercando di organizzare un momento speciale per loro due, per farle una proposta come si deve. Aggiunse che le aveva anche comprato un anello, un antico manufatto celtico che rappresentava amore, impegno e fedeltà e che era a tal punto imbevuto di magia che, se le intenzioni del donatore non fossero state sincere, non ci sarebbe stato verso di infilarlo ad alcun dito. Eppure quella sera, nell'impeto del momento, non era riuscito ad aspettare: disse che glielo avrebbe portato l'indomani, se Lily fosse stata ancora convinta di volerlo sposare. Per tutta risposta, Lily lo zittì con l'ennesimo bacio appassionato, incurante degli sguardi inebetiti dei loro genitori.
A quel punto, cercando di non pensare al bacio casto che lei aveva dato a Vernon per non attirare sguardi indiscreti al ristorante, Petunia aveva sentito un'ondata di amarezza risalire dalla bocca del suo stomaco: era stata in silenzio fin troppo a lungo, non aveva mai fatto notare ai suoi genitori quanto fosse assurdo che Lily si fosse diplomata da mesi e non avesse spedito nemmeno un curriculum, non aveva mai detto quanto fosse ridicolo che il suo ragazzo si presentasse a casa loro a tutte le ore, perché evidentemente non aveva altre ambizioni nella vita che diventare un perdigiorno privo di una carriera, ma ora non sarebbe stata zitta. Lily poteva essersi presa tutte le attenzioni, da bambina, perché era così bella e brava, perché era speciale, perché aveva sempre storie divertenti su quella scuola di malati di mente, ma ora basta. Lily non si sarebbe presa anche il suo giorno speciale, lei e quel bellimbusto del suo ragazzo non le avrebbero rovinato quella serata tanto importante e tanto a lungo pianificata.
Si alzò in piedi di scatto, facendo grattare la sedia sul parquet lucido, e gettò con stizza il tovagliolo sul tavolo.
“Ma bravi! Congratulazioni ai piccioncini, eh?”
Lily si staccò dal viso del suo ragazzo, guardandola con quel suo sguardo ferito da cagnolino bastonato. Sembrava essersi sgonfiata, e la guardava con aria supplice, come a volerla a tutti i costi convincere a tacere, a non rovinarle quel momento speciale. Eh, no, troppo comodo così: Lily non poteva pensare di fare tutto quello che voleva, senza mai pensare al domani e pretendere che Petunia stesse zitta.
Si era avvicinata a grandi passi alla coppia e ai suoi genitori, e aveva preso a sventolare la mano sinistra davanti a loro.
“Lo vedete questo anello? Be', se solo non foste stati così impegnati a compiacervi di voi stessi, vi sareste accorti che lo porto da più di due settimane, perché il mio fidanzato sa fare le cose per bene, e non mi ha chiesto di sposarlo davanti ad un Happy Meal!”
Margaret Evans si voltò verso la maggiore delle sue figlie, con un sorriso un po' tremulo sul viso, ed esclamò:
“Oh, ma Petunia, è fantastico! Perché non ce lo hai detto prima?”
Petunia cercò di non fare caso al fatto che né sua madre né suo padre l'avessero abbracciata e che Vernon, a questa dichiarazione, non era nemmeno stato preso in considerazione.
“Lo avremmo fatto stasera, se solo quei due... quei... loro non ci avessero interrotto con la solita mancanza di tatto e di buone maniere!”
Sua madre fece per abbracciarla, e Petunia rimase rigida in quell'abbraccio formale e un po' esitante. Vernon, nel frattempo, si era alzato in piedi, confuso. Petunia non aveva ancora avuto il coraggio di parlargli di sua sorella Lily, si era limitata a dirgli che era una ragazza difficile, che aveva dovuto frequentare delle scuole speciali e ora aveva amici non del tutto a posto. Lily poi si era fatta avanti, cercando di prenderle la mano:
“Tunia, ma è bellissimo! Sono tanto contenta per voi. Scusami se ho interrotto la vostra serata, non lo sapevo... non potevo immaginare...”
Petunia scostò bruscamente la mano, facendo morire sulle labbra di Lily quelle parole ipocrite. Certo che avrebbe potuto immaginarlo, se solo avesse voluto. Se solo non fosse stata così presa da sé stessa, da quel mondo in cui si era rinchiusa a undici anni e da cui non era mai più riemersa davvero!
“Oh, ma risparmiamelo! Immagino che al tuo ragazzo non sia nemmeno venuto in mente di fare con calma, e pensare di chiedere la tua mano, no?”
James, a quel punto, aveva fatto vagare uno sguardo smarrito da Petunia ai suoi genitori e aveva balbettato:
“Io non... dovevo? Da noi non si usa più da un sacco di anni, e non credevo che...”
“Certo che non dovevi!” lo interruppe Lily, lanciando uno sguardo di fuoco a Petunia. “Cosa sono, una vacca al mercato? Io non devo chiedere il permesso a nessuno per sposarmi!”
Petunia strinse le braccia al petto, andando a sistemarsi a fianco di Vernon, che continuava a guardare la lite fra le due sorelle con l'aria di chi rimpiangeva decisamente di non essersi spicciato a finire il dolce, che ora giaceva abbandonato nella coppa sul tavolo del soggiorno.
Charles Evans cercò di intervenire:
“Dai, ragazze, non c'è bisogno di fare così. Ci state sommergendo di notizie meravigliose, dovremmo solo festeggiare!”
Petunia, però, non era più in vena di festeggiare. Quella doveva essere la sua serata, la sua festa, e invece si trovava a doverla condividere con Lily e quello strambo del suo ragazzo.
Fissando con sguardo truce gli occhi grandi e belli di Lily, Petunia si limitò a sibilare:
“Magari avete anche già deciso la data del lieto evento? O volete aspettare di sapere quando ci sposeremo noi, e poi rubarci anche il giorno?”
Petunia non si sarebbe aspettata niente di meno da gente come quella. Lily scosse la testa, e mormorò solo:
“Lo sai che non lo faremmo mai, come puoi pensarlo?”
Poi tornò a rivolgersi a James, con un nuovo sorriso entusiasta a illuminarle il viso:
“Quando vuoi che ci sposiamo?”
James l'attirò a sé cingendole la vita con un braccio.
“Quando vuoi. Anche domani, il tempo di rapire un officiante. O tra qualche mese, se preferisci una cosa più seria con invitati e banchetto e orchestra.”
Lily sembrò pensarci sopra un attimo, poi disse:
“Niente orchestra, e non più di trenta persone. Voglio avere cose di cui parlare con tutti gli invitati. In un mese o due possiamo farcela, no?”
“Perfetto. Un mese o due, tra ottobre e novembre. Escluderei Halloween, che è fin troppo vicino al compleanno di Sirius... conoscendolo, potrebbe rubarci la scena”.
“Ci serve un calendario lunare! Dobbiamo essere a metà fra una luna piena e l'altra, voglio che Remus sia in ottima forma!”
Petunia, a questo punto, intervenne, seccata:
“Ma siete impazziti? Non potete sposarvi entro un mese o due!”
Lei e Vernon avevano deciso di sposarsi la prossima estate, e già i tempi sarebbero stati piuttosto stretti, non era possibile che quei due si sposassero così tanto prima di loro!
In risposta allo sguardo stupito di Lily, Petunia si decise ad aggiungere:
“Sono io la sorella maggiore, dovrei potermi sposare prima io!”
Si rendeva conto che era solo un capriccio inutile ed estremamente futile, ma era tutto quello che le restava per mantenere un minimo di controllo su quella serata che stava lentamente cadendo a rotoli.
“Oh, santo cielo, non siamo più nel medioevo, i fratelli minori possono sposarsi anche se i maggiori restano da soli per tutta la vita!”
In un ultimo, disperato tentativo di difendere l'autonomia del suo matrimonio e della sua serata, Petunia rivolse uno sguardo supplice ai genitori, ed esclamò:
“Ma non sapete nemmeno dove andare a vivere! E di che cosa vivreste, elemosina?”
Charles Evans fece per parlare, ma questa volta fu James a intervenire, con un borbottio cupo:
“Una casa ce l'ho, anche se è un po' da sistemare. E ho abbastanza soldi per mantenere entrambi, fino a quando non avremo vinto questa guerra e io avrò tempo di lavorare e Lily potrà cercare lavoro senza rischiare di essere denunciata.”
Petunia lanciò uno sguardo preoccupato a Vernon, che però se ne stava con gli occhi ridotti a due fessure cercando di capire come salvare la serata che aveva programmato con tanta cura, e sembrava non aver fatto il minimo caso alle parole di James Potter.
“Mamma, per favore, di' qualcosa! Hanno diciotto anni, non si possono sposare così presto!”
Margaret Evans si strinse nelle spalle, scambiando una lunga occhiata con suo marito, prima di rivolgersi con tenerezza a Petunia:
“Tesoro, è vero che sono molto giovani, ma ti hanno spiegato la situazione in cui stanno vivendo. Le cose potrebbero peggiorare, e a pensarci bene Lily sarebbe probabilmente più al sicuro se vivesse con lui, invece che qui. Non puoi pensare di paragonare la tua vita alla loro, lo sai.”
Petunia era certa di avere le guance in fiamme: certo che non avrebbe mai pensato di paragonare la sua vita con quella follia in cui si era immersa sua sorella, non era mica pazza!
“Molto bene allora, tanti auguri ai futuri sposi!”
Si limitò a sibilare velenosamente, poi afferrò la mano di Vernon e lo trascinò fuori di casa, sbattendosi la porta alle spalle. Convinse Vernon a guidare in tondo per tutto l'isolato tre o quattro volte, fumante di rabbia. Come se non bastasse il disastro in cui si era trasformata la sua serata, ci si mise anche Vernon, che diceva che secondo lui la sua reazione era stata esagerata. Certo, era una scocciatura che quella matta di sua sorella si fosse infilata così in casa rovinando la serata, ma del resto lo aveva detto un sacco di volte anche lei, no? Quella ragazza non ci stava del tutto con la testa, la cosa migliore era non darle troppe attenzioni e aspettare che si levasse di torno. Se Petunia non si fosse lasciata prendere a quel modo dalla rabbia, sicuramente Lily e quel bamboccio di James se ne sarebbero andati da qualche parte a festeggiare la lieta notizia, e loro due avrebbero potuto riprendere la loro serata secondo il piano. Allora Petunia avrebbe voluto gridare a Vernon che lui non capiva, che sua sorella era stramba, ma non completamente matta, e che la situazione andava avanti così da troppo tempo.
Decisa a non compromettere anche il suo rapporto con Vernon, si era limitata a farsi riaccompagnare a casa, asserendo di non sentirsi troppo bene e che sicuramente l'indomani avrebbe visto le cose con occhio diverso.
Si era chiusa in camera e aveva pianto amare lacrime di rabbia e gelosia.
***

E ora si ritrovava lì, in piena notte, a rabbrividire nel suo impermeabile leggero e a fissare di nascosto sua sorella scambiarsi baci infuocati con il suo ragazzo nel bel mezzo del parchetto in cui da piccole avevano trascorso tante ore giocando.
Quando i due smisero di baciarsi, Petunia non poté fare a meno di avvicinarsi ancora un po': avrebbe dovuto schiarirsi la gola e ordinare a Lily di tornare a casa e lo avrebbe fatto, se solo non avesse sentito Lily sussurrare:
“Ti amo tanto, James. Se non fosse che Esther mi ucciderebbe se non le concedessi l'onore di accompagnarmi a cercare il mio vestito da sposa, ti avrei davvero sposato anche domani, vestita con un accappatoio bianco, davanti al primo officiante libero del Ministero.”
La cosa folle, pensò Petunia, era che probabilmente era vero. Lily era talmente infatuata di questo ragazzetto che con ogni probabilità avrebbe davvero fatto una follia del genere. Una follia adolescenziale, che i suoi genitori avrebbero dovuto impedire invece di accoglierla con abbracci e lacrime di gioia! James Potter si limitò a stringerla forte, e a sussurrare:
“Ti amo, Evans. Quando mi hai detto di sì, mi sono reso conto che non mi importava niente che ci fossero cinque Mangiamorte pronti a farci saltare in aria non appena avessimo osato mettere il naso fuori da quel nascondiglio, perché ero troppo felice per morire.”
Lily ridacchiò, affondandogli le dita nei capelli spettinati, e disse:
“Ho sempre saputo che da te non mi sarei mai potuta aspettare una dichiarazione con fiori e un violinista in sottofondo, ma ammetto che sei riuscito a stupirmi. Una proposta di matrimonio in piena battaglia non me la sarei mai aspettata”.
“Evans, te l'avevo promesso che con me non ti saresti mai, mai annoiata.”
Ci furono altre risatine, e lo schiocco di un bacio, e poi la voce di Lily tornò a farsi sentire:
“Comunque, devi smetterla di chiamarmi per cognome. Sto per diventare tua moglie, non puoi continuare a chiamarmi Evans!”
“Lo faccio proprio per questo. Tra qualche mese nessuno ti chiamerà più Evans per il resto della tua vita, e io voglio fare il pieno.”
“Cretino” sibilò Lily, dandogli un colpetto affettuoso sul braccio.
“Evans. Evans Evans Evans” prese a cantilenare James, accompagnando ogni parola con un bacio. “Lily Evans. Lily Potter: ammetti che suona molto meglio così, no?”
Petunia decise che non aveva più voglia di ascoltare quelle idiozie: solo dei bambini avrebbero potuto concepire il matrimonio in questi termini infantili. Fece un passo in avanti, entrando nel cerchio di luce creato dai lampioni e non preoccupandosi di essere silenziosa. Non appena la sentirono, i due piccioncini balzarono in piedi, le bacchette sfoderate. Petunia, istintivamente, si ritrovò ad alzare le mani:
“Sono io, siete impazziti?”
Lily fu la prima a riporre la bacchetta, mentre James la fissava con aria ostile.
“Ci hai spaventati. Che cosa ci fai qui?”
Lily aveva parlato in tono cauto, come se non avesse ancora deciso se era arrabbiata con la sorella oppure no.
“Facevo una passeggiata per schiarirmi le idee e stare un po' da sola, ma evidentemente è chiedere troppo. Comunque, Lily, è tardi, dovresti rientrare.”
Lily esitò un attimo, poi annuì. Si voltò verso James, e posandogli una mano sulla spalla, sussurrò:
“È davvero meglio se andiamo a dormire. Tu devi farti curare quel braccio, e lo so che anche la tua schiena non è messa bene, anche se non lo vuoi ammettere.”
James sbuffò, circondando le spalle di Lily, e disse:
“Vi accompagno a casa.”
Lily, però, scosse la testa.
“No, non ti preoccupare. Andiamo da sole. Non c'è in giro nessuno.”
Il ragazzo annuì, e le posò le labbra sulla sommità del capo:
“Allora a domani, Evans. Pranziamo dai miei, portiamo la lieta novella, guardiamo mia madre piangere e mio padre stappare l'ennesima bottiglia di Vino Elfico che vale quanto la spada di Godric Grifondoro e poi nel pomeriggio andiamo a parlare coi ragazzi. Sirius avrà una crisi di nervi, Peter comincerà a pianificare il mio addio al celibato e Remus ti sottoporrà ad ogni sorta di incantesimo diagnostico per assicurarsi che tu sia ancora in grado di intendere e di volere...”
Anche alla luce flebile dei lampioni, Petunia era certa che il sorriso sul viso di Lily fosse la cosa più vicina all'estasi che potesse immaginare. Senza bisogno di sforzarsi più di tanto, Petunia seppe anche che lei non avrebbe mai provato una gioia così totalizzante.
“Mi sembra un ottimo piano. Scommetto quello che vuoi che Sirius si infiltrerà al mio addio al nubilato.”
James si coprì il viso con le mani, gemendo:
“Oh, per la miseria, non posso sposarti se Sirius salterà fuori dalla tua torta come mamma Walburga l'ha fatto.”
“Mi basterà invitare anche Therese Lindgren, almeno sarò sicura che si lancerà su di lui talmente in fretta che non farò nemmeno in tempo a vedergli la punta del naso.”
Dopo qualche altra sdolcinatezza e un bacio che a Petunia parve infinito, finalmente i due si separarono e con una giravolta su sé stesso James scomparve nel nulla.
Cercando di mantenere la calma, Petunia evitò di fare commenti, e dopo un lungo, imbarazzante silenzio, Lily prese a camminare lungo il sentiero. Petunia, dopo un attimo di esitazione, la seguì, e sentì Lily sussurrare:
“Scusami per questa sera. Davvero, non avevo capito che fosse una serata così importante per voi, altrimenti non mi sarei mai sognata di parlare oggi con mamma e papà. Sono davvero felice per te e Vernon, siete una bella coppia.”
Petunia si limitò ad annuire, senza rispondere. La verità era che si sentiva completamente esausta e svuotata, e non aveva più tanta voglia di continuare a sostenere quel muro di rabbia e indifferenza. Guardando la coda di cavallo di Lily ondeggiare lievemente davanti a lei, si ritrovò a pensare alla loro infanzia: c'era stato un periodo in cui erano state molto unite. Lei era la sorella maggiore, e aveva preso molto seriamente il compito di badare alla piccola Lily, di assicurarsi che non le accadesse niente e di insegnarle tutte le cose che ancora non sapeva. Lily, dal canto suo, venerava Petunia: ogni volta che non capiva qualche cosa, era a lei che si rivolgeva, e questo rendeva Petunia piena di orgoglio. Poi però qualcosa era cambiato: Petunia non era più in grado di rispondere alle domande di Lily, perché Petunia non sapeva niente del mondo che si sarebbe preso la sua sorellina. Chissà, forse, se solo Lily non avesse ricevuto quella maledetta lettera, le cose tra di loro non sarebbero cambiate così tanto. Lily non sarebbe diventata un'estranea che tornava a casa solo poche settimane all'anno, e forse Petunia avrebbe mostrato a Lily l'anello che ora portava all'anulare non appena fosse rientrata dalla cena con Vernon, confessandole che aveva in mente di preparare una serata speciale per comunicarlo ai loro genitori. E Lily sarebbe stata con lei, l'avrebbe aiutata a preparare la cena e sarebbe stata seduta accanto ai suoi genitori, sorridendole incoraggiante, invece di piombare lì assieme a quel ragazzo e a rovinare tutto.
Ma Lily non era più la bambina sorridente che Petunia ricordava. Lily ora era una ragazza che viveva in un mondo capovolto, dove ogni stramberia era assecondata e considerata un pregio, e tra di loro le cose non sarebbero mai potute tornare come una volta.

Mentre percorrevano la via buia e silenziosa, passando accanto ai quadrati scuri che erano le finestre delle case dei vicini, Petunia si sentì di nuovo invadere dall'irritazione e non riuscì a trattenersi dal domandare:
“Lily, dimmi la verità: vi sposate così giovani perché sei incinta, vero?”
Lily si arrestò, immobile sotto il cono di luce di un lampione mezzo arrugginito, e rivolse a Petunia uno sguardo ferito e indignato:
“Io e James ci sposiamo perché siamo innamorati, e perché siamo in guerra. Potremmo non averlo il tempo di diventare adulti.”
Petunia scrutò a lungo il viso di Lily, cercando di capire se quello che stava dicendo fosse la verità: possibile che Lily, una ragazzina che aveva da poco compiuto diciotto anni, stesse davvero combattendo una guerra? Era vero, dunque? C'era veramente la possibilità che Lily morisse? Dopo un attimo di esitazione, Petunia decise di no. Sua sorella poteva essere stramba, in quella scuola potevano averle fatto il lavaggio del cervello, ma non era stupida. Se davvero c'era una guerra, se davvero c'erano persone che odiavano quelli come lei, Lily sarebbe scappata lontano. Non sarebbe mai rimasta a rischiare la sua giovane vita, non ne valeva la pena.
Prima o poi quel suo assurdo matrimonio sarebbe naufragato e Lily, con la coda fra le gambe, sarebbe ritornata a casa. Forse la batosta le avrebbe fatto capire che quel mondo era pericoloso, che quelle persone non stavano bene, e che Lily sarebbe stata molto meglio nel mondo normale. Chissà, quando Lily lo avesse capito, forse lei e Petunia avrebbero potuto anche trovare un punto in comune, una minuscola vicinanza da cui ricominciare.
“Sei sicura? Non è che quel buono a niente che ti vuoi sposare non è nemmeno capace di evitare incidenti?”
Le gote di Lily si arrossarono, mentre la rabbia le trasformava il viso in una maschera che sembrava avvicinarsi molto alla rappresentazione del dolore.
“Smettila, Petunia! Ti ho già chiesto scusa per averti rovinato la serata, si può sapere perché mi odi tanto?”
Petunia rimase immobile, e Lily, con un verso esasperato, si voltò di scatto, e prese a marciare a passo rapido verso casa.
Petunia non riuscì ad obbligarsi a seguirla: rimase immobile a fissare quella figuretta dalla lunga chioma che ondeggiava nella brezza notturna, chiedendosi come fosse stato possibile che lei e Lily diventassero poco più di due estranee. Perché era questo che erano, ormai: due estranee che, per qualche settimana all'anno, si ritrovavano a vivere sotto lo stesso tetto, a condividere due stanze con una porta comunicante che da almeno otto anni non veniva più aperta, senza più nulla da dirsi. La complicità che aveva unito due bambine tanto diverse sia nell'aspetto che nel carattere si era sciolta in pochi giorni, quando avevano scoperto la verità su Lily. Petunia si era trincerata dietro un muro di vergogna e invidia, ma Lily non aveva mai esitato: si era gettata in quel mondo dorato senza nemmeno guardarsi indietro, ed in quel momento, anche se era solo una ragazzina, Petunia aveva capito di averla persa.
La figura di Lily era ormai scomparsa in fondo alla via, ma Petunia non era ancora riuscita a convincere le sue gambe a muovere anche solo un passo. Quella doveva essere la sua serata, doveva concludersi fra gli abbracci della sua famiglia e una gioia così luminosa da oscurare qualsiasi cosa, e invece ora Petunia se ne stava sul ciglio della strada, con la certezza di non essersi mai sentita tanto sola in tutta la sua vita.







 
Note:
Questo racconto, originariamente, faceva parte della mia raccolta "Ogni giorno, ogni respiro", cancellata erroneamente. 
In questa raccolta inserirò anche un secondo racconto tratto dalla stessa fonte, mentre gli altri nove saranno racconti del tutto originali.
So già quali saranno gli undici protagonisti della raccolta, ma non voglio pormi limiti nel numero delle parole o nell'uniformità dello stile, ragione per cui ho scelto di pubblicare una raccolta disomogenea.
Non assicuro nemmeno una grande costanza negli aggiornamenti, ma prometto che, lentamente, porterò a termine tutto. 

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Capitolo 3
*** Presenza di spirito ***


Personaggio: Mirtilla Malcontenta
Genere/i: Commedia, Malinconico 
Avvertimento/i: nessuno
Nota/e: nessuna
Contesto/i: Contesto generale/Vago
Rating: verde
Lunghezza storia: flash
Introduzione: "Le mie prigioni di ragazzina erano muri d'insicurezza che si sarebbero sgretolati come castelli di sabbia, andando avanti.

Diventando donna.
Diventando altro.

Ma avanti io non ci posso più andare. "
Note d'autore: la storia è stata scritta per il contest Citazioni in cerca d'autore (Oscar Edition) indetto da Rosmary sul forum di EFP: la storia, dunque, si basa sul prompt "Prima d'allora, non aveva mai compreso cosa significasse essere in gabbia", frase ideata dalla stessa Rosmary.





 
***




 

Presenza di spirito

 

 

 


La cosa brutta della solitudine è che si ha troppo tempo per pensare. 
Certo, quello lo avevo capito già prima, quando la libertà – di azione e di pensiero – era totale. 
Il problema è ora.
Ora, poi! Che cosa sciocca, una connotazione temporale! Prima e dopo possono essere un modo accettabile di suddividere il pensiero, ma ora è completamente insensato, è una caratterizzazione così ingenua!
È che certe abitudini sono dure a morire
Al contrario di me, naturalmente. 
Non sono certo una persona spiritosa: è che a volte, in questo stato, è inevitabile avere dei pensieri fissi. 

Ma sto divagando: è facile perdere il filo del discorso, quando non si hanno più abbastanza dita per tenere il conto degli anni trascorsi con un cervello d'adolescente. 
Solitudine e troppi pensieri, dicevo.
Il fatto è che, ultimamente, possiedo entrambi in abbondanza. 
Così mi sono ritrovata a pensare che dev'esserci un filo di amara ironia che cuce insieme quel che resta della mia esistenza.
Mamma scelse il mio nome fra le pagine del suo romanzo preferito: Myrtle
No, non sono il simbolo della luce verde all'orizzonte, figuriamoci!
Io sono la donna prigioniera di una vita infelice, prigioniera di un marito geloso, la donna che muore in mezzo ad una strada.
Non credo che la mia povera mamma si sia mai perdonata una tale premonizione. 
Quando ero piccina, associavo la prigionia a ideali romantici e cavallereschi: sognavo di essere la bellissima principessa rinchiusa nella torre da una strega malvagia, rinchiusa ad aspettare con trepidazione d'essere salvata dal mio prode principe senza macchia e senza paura. 
A salvarmi dalle prese in giro degli altri bambini non fu un principe, ma un gufo inaspettato.
Scoprii presto, però, che anche nel castello delle fiabe si può perdere la libertà d'essere felici.

Ora lo so che quella libertà non me la tolse nessuno, ma che sono stata io, sempre io, a innalzare muri. 
Perché i muri isolano, ma danno anche l'impressione di proteggere. 
Perché a volte le nostre prigioni ce le costruiamo da soli, scambiando gocce d'acqua per lanci di pietre, e quando cerchiamo di tornare indietro il trucco non funziona più.
Sono state tante le prigioni in cui mi sono rinchiusa, tanti i muri contro cui ho pianto, dando loro la colpa della mia infelicità.


Lenti spesse davanti agli occhi – Myrtle Quattrocchi.
Brufoli infiammati – Myrtle l'Erumpent.
Lacrima facile – Mediocre, Malinconica, Musona, Malcontenta Myrtle.



Prima d'ora, non avevo mai compreso cosa significasse essere in gabbia.
Le mie prigioni di ragazzina erano muri d'insicurezza che si sarebbero sgretolati come castelli di sabbia, andando avanti.
Diventando donna.
Diventando altro.
Ma avanti io non ci posso più andare. 
Dicevo di detestare la mia vita – che adolescente originale! – ma quando ho avuto la possibilità di lasciarla ho lottato con tutta me stessa per restare.

Non è la Morte la mia prigione.
Morire davvero avrebbe significato luce. 
Avrebbe significato l'inizio di un viaggio.

Io non sono, ma sono qui. 
Eterno purgatorio, e neanche un peccato da espiare.




 

***




Note:
Solitamente, per abitudine, utilizzo i termini della prima traduzione anche per quanto riguarda i personaggi, ma in questo caso ho scelto di utilizzare il nome originale per il semplice fatto che trovo “Mirtilla” una traduzione proprio brutta per quella che dovrebbe essere una ragazzina babbana. Inoltre, il suo nome originale mi permette a riallacciarmi a Myrtle Wilson de “Il Grande Gatsby”: essendo Myrtle una Nata Babbana, mi sembra plausibile che sua madre amasse F.S. Fitzgerald. Infine, il graduale cambiamento dal tono leggero della prima parte fino ad arrivare a quello più amaro del finale è voluto: nonostante tutto, io ho sempre trovato il personaggio di Myrtle dotato di una contorta ironia. Volevo inoltre sottolineare quanto, in fondo, lei sia condannata a restare per sempre in balia del suo essere una ragazzina molto giovane, pur senza negare la tragicità del suo destino.



La storia, inoltre, partecipa al contest "This is Halloween!", indetto da Mary London, e si basa sul contenuto del pacchetto Jack-O'Lantern: "Viene usato questo nomignolo per i cosiddetti fuochi fatui, cioè quelle luci fosforescenti che a volte appaiono vicino alle paludi, dopo il tramonto. Vengono utilizzate per illuminare le strade nella notte di Halloween ma soprattutto per scacciare gli spiriti.
Chi vuole cimentarsi con questo pacchetto, dovranno esserci i fantasmi nelle loro storie."
 

 

 

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Capitolo 4
*** Double, double toil and trouble; fire burn, and caldron bubble ***



Personaggi: Severus Piton, Lily Evans, Sirius Black, James Potter, Horace Lumacorno
Genere/i: Introspettivo, Malinconico 
Avvertimento/i: nessuno
Nota/e: nessuna
Contesto/i: Malandrini/I Guerra Magica
Rating: giallo
Lunghezza storia: one-shot
Introduzione: Severus Piton, a undici anni, non può fare a meno di chiedersi che senso abbia perdere tempo su calderoni fumanti, quando basterebbe uno sventolare di bacchetta per ottenere lo stesso risultato. 
La risposta è nella sottile e complessa arte del sentirsi a casa.
Note d'autore: Il titolo è tratto da un brano del “Macbeth” di William Shakespeare.





 
***




 
 

 
Double, double toil and trouble; fire burn, and caldron bubble
 



Severus stava giocando distrattamente con le uova che aveva nel piatto, trascinando la forchetta in mezzo al liquido vischioso del tuorlo e tracciando segni giallastri e densi sulla ceramica bianca.
Per lui la colazione era sempre consistita in una semplice tazza di latte scaldata rapidamente sul fornello e ogni tanto qualche biscotto: non si era ancora abituato ad avere davanti agli occhi tutta quella scelta, e così finiva sempre per riempirsi troppo il piatto, preso dall'entusiasmo, senza poi riuscire a finire il suo pasto. Sapeva che avrebbe potuto semplicemente ignorare quelle due uova e la montagnetta di bacon croccante che aveva precariamente impilato sul bordo esterno del piatto, ma gli sembrava ingiusto sprecare tutto quel cibo, e così stava cercando di convincere il suo stomaco ad accettare ancora qualche boccone.
Fu salvato da quel piccolo dilemma interiore dalla nuvoletta di piume brune che si posarono sull'avanzo delle sue uova: il gufo di Thomas Parkinson, che sedeva un paio di posti più in là, era stato trascinato nella sua planata dal grosso pacco che reggeva fra le zampe, non era riuscito a frenare in tempo e così aveva travolto il calice di succo di zucca della ragazzina minuta che sedeva di fianco a lui, per poi finire la sua corsa rovinosa nel piatto di Severus. Pezzi di cibo e schizzi di succo di zucca investirono lui e la ragazzina, Emily qualcosa, che balzò in piedi con uno squittio spaventato e, strofinando con il tovagliolo la maglietta macchiata, corse verso l'ingresso della Sala Grande. Merlino, quella ragazzina era anche lei al primo anno, ma era così piccola da sembrare una bambina di otto anni. E anche le risposte che dava in classe erano degne di una bambinetta, ricordò Severus con una smorfia irritata.
Severus fu distratto dalle sue riflessioni dalla voce tagliente di Parkinson che, accanto a lui, si era allungato a recuperare il suo pacco:
“Spostati, idiota, non vedi che la mia roba si sta inzuppando?”
Severus avrebbe voluto rispondergli malamente, ricordandogli che non era certo colpa sua se quel gufo non era nemmeno capace di volare, e che, anzi, sarebbe stato lui quello nella posizione di doversi scusare, dato che aveva rovinato la sua colazione, ma sapeva bene che sarebbe stato tutto inutile. Parkinson e i suoi amici stavano già ridacchiando rumorosamente, stracciando la carta marrone e mezza zuppa del pacchetto, completamente dimentichi di quel ragazzino pallido. E poi, Severus non aveva la minima voglia di mettersi contro i ragazzi più grandi già il secondo fine settimana di scuola.
Si alzò in piedi senza dire una parola, e percorse con passo rapido e lo sguardo basso lo spazio che lo separava dall'ingresso della Sala Grande.
Passando davanti al tavolo dei Grifondoro, non riuscì a trattenersi dal lanciare un'occhiata fugace al gruppetto di ragazzini del primo anno, il suo sguardo irrimediabilmente attratto da una inconfondibile chioma rossa: Lily stava addentando con foga una fetta di pane tostato, e aveva il viso leggermente voltato di lato, mentre i suoi occhi seguivano con attenzione il gesticolare agitato di una ragazzina con due lunghe trecce castane. Lily era talmente assorbita da quella conversazione che non si accorse dello sguardo di Severus puntato su di lei.
Severus sapeva che non poteva restare a sbirciarla ancora a lungo senza fare la figura del cretino davanti a tutta la scuola, così si decise a superare il tavolo dei Grifondoro e a guadagnarsi l'uscita.
La maggior parte degli studenti era ancora in Sala Grande, impegnati nella colazione, ed altri ancora stavano scendendo dall'ampia scalinata di marmo bianco proprio in quel momento: del resto era domenica, molti degli studenti avevano deciso di approfittarne per restare a letto un po' più a lungo.
Severus indugiò per un po', indeciso su cosa fare: non aveva voglia di chiudersi in Sala Comune, e frequentare la biblioteca durante la seconda domenica di scuola sarebbe stato come appiccicarsi in fronte un cartello che a scritte luminose lo qualificava come secchione noioso. Del resto, doveva solamente scrivere l'ultimo paragrafo di quello stupido saggio per Lumacorno, e poi avrebbe finito tutti i compiti. Imprecò, pensando a quel viscido ometto tondo e sorridente che era il Direttore della sua Casa: non che non avesse fiducia nelle sue capacità, si vedeva che era un insegnante valido e preparato, ma semplicemente il suo modo di fare lo irritava. Non era colpa sua se sua madre aveva deciso di abbruttirsi nella periferia babbana invece di diventare un nome di spicco della comunità magica, e l'attenzione e i sorrisi che Lumacorno riservava ai cognomi più noti lo irritavano sempre. E poi, andiamo, Pozioni era una materia così stupida: perché perdere tempo a sminuzzare ingredienti, respirare fumi acri di un calderone, mescolare intrugli pericolosi, attendere tempi indecenti per la decantazione, quando con un movimento di bacchetta si potevano evocare incantesimi potentissimi? D'accordo, gli studenti del primo anno non avevano ancora preparato nemmeno un decotto, quindi forse era presto per giudicare la materia, ma tutta quella fissa per le norme di sicurezza e le regole base era estenuante: non erano dei bambini, davvero Lumacorno aveva paura che potessero far saltare in aria i sotterranei solo accendendo un fuoco sotto i loro calderoni?
Mentre faceva queste riflessioni, Severus aveva cominciato a muoversi inconsciamente verso il grande portone del castello: era una mattinata soleggiata e tiepida, avrebbe potuto approfittarne per fare una bella passeggiata nel parco del castello. Quando aveva quasi raggiunto l'ampio ingresso, tuttavia, scorse un lampo della sua immagine riflessa nel vetro di una finestra: sul petto della camicia della divisa spiccava una grossa macchia giallastra, simpatico ricordo della colazione appena trascorsa.
Cambiò quindi direzione, arrossendo un pochino, e percorse a passi rapidi la scalinata che conduceva al bagno del primo piano.

“Tergeo!” esclamò, puntando con attenzione la bacchetta contro la macchia sulla divisa. Non successe assolutamente niente. Non si era aspettato qualcosa di diverso, ovviamente, visto che si trattava di un incantesimo discretamente complesso per un undicenne, e non era per niente certo che stesse facendo il movimento corretto, ma per lo meno non diede fuoco ai suoi abiti né fece cambiare colore alla macchia. Doveva provarci, quantomeno.
Rassegnato, Severus estrasse dalla tasca dei pantaloni un vecchio fazzoletto un po' liso, ma pulito e ben stirato: lo bagnò leggermente, e cominciò a strofinare la macchia, che non fece che allargarsi ancora di più.
Impegnato com'era a cercare di migliorare la condizione dei suoi vestiti, non prestò la minima attenzione ai due ragazzi che entrarono in bagno. Uno di loro si chiuse in un gabinetto, mentre l'altro prese ad osservare con sorriso poco rassicurante i movimenti di Severus.
“Ehi, Sirius, muoviti, qui fuori c'è Mocciosus che ha bisogno di una mano!”
Severus, continuando a strofinarsi con attenzione la camicia della divisa, sollevò lo sguardo su un ragazzino magro, che lo fissava con un ghigno da dietro le lenti di un paio d'occhiali con la montatura di metallo. James Potter, l'idiota che dopo due settimane di scuola già si sentiva padrone di tutta Hogwarts, come se l'intera scuola fosse stata eretta solo perché i Fondatori sapevano che prima o poi lui sarebbe venuto al mondo e avrebbe avuto bisogno di un'istruzione. Si erano conosciuti durante il viaggio sull'Espresso per Hogwarts, e avevano iniziato a disprezzarsi più o meno dal primo momento.
Severus decise di ignorarlo, per continuare a concentrarsi sul suo compito di smacchiarsi la camicia, ma Potter ovviamente decise di non mollare la presa.
“Che c'è, Mocciosus, non te l'hanno detto che la domenica puoi anche evitare di metterti la divisa? O hai paura che i professori ti scambino per un ragazzo normale, e non per un secchione?”
Severus arrossì leggermente, ma si astenne dal rispondere: la verità era che le sue divise, per quanto di seconda mano, erano degli abiti decorosi. Lo stesso non si poteva dire degli altri vestiti che si era portato da casa... quella mattina non aveva avuto bisogno di troppo tempo per riflettere e decidere che cosa indossare: sicuramente si sarebbe attirato diversi sguardi divertiti e sprezzanti se avesse indossato la divisa anche di domenica, ma di certo la gente avrebbe riso molto di più se si fosse messo i suoi vestiti.
Presto si sentì il rumore dello sciacquone, e Severus scorse nello specchio scheggiato il profilo di Sirius Black emergere dal gabinetto alle loro spalle. Il ragazzo, che era piuttosto alto per avere solo undici anni, fece saettare lo sguardo dal suo amico a Severus, poi sorrise a sua volta. Era un sorriso carico di presagi, e Severus non era certo che volesse scoprire che cosa aveva in mente: quei due ragazzini erano arrivati a scuola solo da due settimane, eppure era come se tra di loro si fosse già formato un tacito accordo: lo scopo delle loro giornate sembrava essere tormentare Severus sempre e comunque, in qualunque occasione, e Severus non si era certo tirato indietro. Si detestavano, semplicemente. Avevano raggiunto il culmine durante l'ultima lezione di Incantesimi, quando Potter e Black avevano volutamente fatto levitare la sua boccetta d'inchiostro, per poi farla cadere rovinosamente sul suo banco, mandandola in mille pezzi. Lily aveva strillato di rabbia, con una lunga scheggia di vetro infilzata nel dorso della mano, e Severus aveva messo mano alla bacchetta, pronto a reagire. Il professor Vitious era intervenuto sistemando rapidamente la mano di Lily e lo stato pietoso in cui versavano i loro vestiti, ma gli appunti di Severus erano irrimediabilmente danneggiati, mentre di quelli di Lily si salvava solo la metà sinistra della pergamena. La cosa peggiore era che quei due se l'erano cavata semplicemente con un'ammonizione a fare più attenzione, poiché avevano detto candidamente di aver sbagliato mira mentre si esercitavano con l'Incantesimo di Levitazione. Lily era furiosa: la mattina dopo, quando aveva porto a Severus una copia degli appunti di Incantesimi che si era fatta prestare da una sua compagna di Dormitorio, aveva passato una buona mezz'ora ad inveire contro i suoi due compagni di Casa, che anche in Sala Comune non facevano altro che fare confusione e disturbare chiunque cercasse di studiare: si calmavano solo quando qualcuno degli studenti più grandi perdeva la pazienza e li redarguiva malamente.
“Ehi, Mocciosus, che c'è, ti sei sbrodolato stamattina? A pranzo non dimenticarti il bavaglino!” ghignò Black, scatenando un attacco di risate sguaiate da parte di Potter.
“Potreste prestarmene uno dei vostri. Sicuramente ne avrete a centinaia, visto lo stato evolutivo del vostro cervello!”, ribatté Severus, seccato. Black e Potter irruppero in un coretto di derisione, poi si scambiarono una lunga occhiata d'intesa e Black si affiancò a Severus, avvicinandosi al lavandino.
“Che cosa vuoi, Black?”
Il ragazzo si scostò una ciocca ribelle dalla fronte, alzando gli occhi al soffitto.
“Lavarmi le mani. Non so in quale porcile sia cresciuto tu, ma ti svelo un segreto: il sapone non morde.”
Severus gli lanciò un'ultima occhiataccia, prima di tornare a concentrarsi sulla macchia sulla camicia. Ormai restava solo un alone appena più scuro rispetto al resto della stoffa: forse, se si fosse gettato sulle spalle il mantello, nessuno se ne sarebbe accorto, e l'indomani mattina sicuramente gli Elfi Domestici avrebbero fatto trovare nel suo baule l'altra divisa pulita. Certo, avrebbe avuto un po' caldo, ma poteva sopportarlo.
Improvvisamente, un getto d'acqua fredda in piena faccia lo distolse dai suoi pensieri: Black aveva unito le mani a coppa sotto il getto del lavandino, e aveva pensato bene di schizzarlo. Più che schizzarlo, di inzupparlo.
“Ma che cosa...”
Severus non fece in tempo a reagire, che Potter si lanciò a sua volta sul getto del lavandino, tappando per metà il flusso dell'acqua con un dito, e dirigendo così il getto dritto sulla faccia di Severus, che si allontanò chiudendo gli occhi.
“Ti stiamo dando una mano, Mocciosus: anche i tuoi capelli avevano bisogno di una lavata, non solo quella lurida camicia!”
Scostandosi da davanti al viso i capelli fradici, Severus estrasse con decisione la bacchetta dalla tasca dei pantaloni: non erano ancora abbastanza bravi da rischiare davvero di farsi male con la magia, ma forse in qualche modo si sarebbe potuto vendicare.
“Wingardium Leviosa!” esclamò, deciso, puntando la bacchetta contro il viso di Potter: aveva padroneggiato piuttosto in fretta quei primi incantesimi, anche se aveva ancora qualche problema con la mira e la precisione per quanto riguardava gli oggetti più piccoli, quindi fu piuttosto sorpreso di vedere gli occhiali del ragazzo sollevarsi in volo sopra la sua testa. Potter, con lo sguardo improvvisamente spento e confuso, esclamò, furioso:
“Che cosa credi di fare, ridammeli subito!”
Severus sorrise, compiaciuto:
“Con piacere, Potter!” e con un movimento brusco spezzò l'incantesimo. I tre ragazzi, come se fossero stati ipnotizzati, rimasero a guardare gli occhiali scintillanti precipitare a terra con un leggero clangore di vetri rotti.
Severus non aspettò che i due Grifondoro si riprendessero dallo stupore: in fondo, loro erano in due, e Black sembrava uno che non si facesse alcuno scrupolo a mettere da parte le bacchette per passare ai pugni. Con un movimento rapido, scavalcò gli occhiali rotti e guadagnò la porta del bagno, allontanandosi di corsa verso il corridoio che lo avrebbe portato ai sotterranei.

 
***

Severus sedeva a pochi passi dalla riva del lago, comodamente appollaiato sul ceppo di un albero tagliato. Aveva un libro aperto sulle gambe, ma in realtà non stava leggendo: osservava di soppiatto il comportamento dei suoi compagni di scuola, cercando di assorbirne le consuetudini. Aveva scelto quella postazione dopo un lento e impacciato girovagare, perché poco distante da lui c'era un grosso cespuglio che in parte lo nascondeva, e lì si sentiva piuttosto a suo agio: riusciva a guardarsi attorno senza rischiare di essere visto da troppe persone. Detestava muoversi in quegli spazi che gli erano ancora così sconosciuti, perché aveva sempre l'impressione di avere centinaia di occhi puntati addosso, pronti a giudicare e deridere ogni suo movimento. Gli sembrava sempre che tutto, dal suo modo di camminare al modo in cui stringeva la cinghia della borsa dei libri al suono che facevano le sue scarpe sulla pietra dei corridoi fosse terribilmente sbagliato e fuori luogo. Quando in classe sedeva in un banco al centro dell'aula, se ne stava con la schiena dritta e i muscoli rigidi, attento a non fare movimenti troppo bruschi, pieno di timore e imbarazzo all’ieda che qualcuno potesse deridere anche il modo in cui sedeva. Era certo che tutti lo osservassero e sorridessero sotto i baffi al suo passaggio, ed era ancor più certo che la maggior parte degli studenti gli avesse lanciato qualche occhiata piena di derisione e compassione, vedendolo vagare da solo per il parco della scuola.

Non riusciva a capire che cosa fosse andato storto: aveva atteso per tutta la vita il momento della partenza per Hogwarts, era certo che lì le cose sarebbero cambiate, che sarebbe sfuggito ad una vita fatta di strilli e disattenzioni per entrare in un mondo di cui si sarebbe sentito parte di qualcosa. Aveva fantasticato così tanto su questi momenti, ed era certo che i giorni della scuola sarebbero stati i più felici della sua vita, finalmente in compagnia di persone come lui, dove sarebbe stato accettato e compreso. 
E invece qualcosa era andato decisamente per il verso sbagliato. 
Hogwarts era meravigliosa, proprio come l'aveva sempre sognata: i suoi corridoi labirintici, le vetrate dalla vista mozzafiato, i passaggi segreti, quadri e arazzi, i fantasmi, la posta via gufo la mattina, le lezioni interessantissime... eppure, lui era rimasto il ragazzino un po' strano che se ne stava incerto ai margini del gruppo, senza sapere come gestire una conversazione con altri coetanei. I suoi compagni di Casa si conoscevano quasi tutti, e così lui era diventato subito l'estraneo, quello che aveva uno stupido cognome babbano, quello strano con la divisa di seconda mano e i libri la cui copertina rischiava di staccarsi già dalla prima settimana. Aveva rinunciato presto a fare amicizia con i suoi compagni di dormitorio, soprattutto quando si era reso conto che loro non lo avrebbero mai considerato diverso da un Nato Babbano. E così aveva preso ad impegnarsi il doppio degli altri durante le lezioni, per dimostrare che lui conosceva quel mondo, ne era parte, era legittimato a stare lì, ma questo, nonostante le occhiate compiaciute e di incoraggiamento dei professori, non gli era certo servito a farsi guardare con occhi più benevoli dai suoi compagni di scuola. Trascorreva le sue giornate aspettando solamente i momenti in cui i Serpeverde avrebbero avuto lezione coi Grifondoro, perché, nonostante la presenza di quei due idioti di Potter e Black, questo significava vedere il sorriso di Lily mentre gli riservava un posto accanto a sé. 
Lily stava vivendo quelle prime settimane ad Hogwarts come se si fosse trattato di una fiaba diventata realtà: guardava tutto con ammirazione, era ansiosa di imparare, aveva scoperto con estremo stupore e felicità di non essere assolutamente l'ultima della classe, ed era pronta a gettarsi in lunghe chiacchierate con chiunque gliene avesse offerto l'opportunità. Nonostante continuasse a sedere accanto a lui durante tutte le lezioni che avevano in comune, Severus la vedeva spesso chiacchierare con le sue compagne di Casa, e in particolare con quella ragazzina dai capelli castani che le stava sempre appiccicata: Lily, nonostante avesse scoperto dell'esistenza di quel mondo solo qualche mese prima, sembrava essersi integrata ad Hogwarts molto meglio di Severus, che si preparava a questo momento da tutta la vita. Sapeva che avrebbe dovuto essere contento per la gioia di Lily, eppure, per qualche motivo, vederla chiacchierare con gli altri, vederla sedere eccitata ma a suo agio nel banco di fianco al suo gli provocava una fitta fastidiosa alla bocca dello stomaco.
Si ripeteva che doveva darsi tempo, che era ad Hogwarts solo da due settimane, era normale che non si sentisse ancora del tutto a casa, ma al tempo stesso si guardava in giro, vedeva gli altri ragazzini del primo anno cominciare a dividersi in gruppetti e creare le proprie abitudini, e lui si sentiva sempre più solo e isolato dagli altri, attanagliato dal dubbio che, forse, lui ad Hogwarts non sarebbe mai stato felice.

Cercò di tornare a concentrarsi sul libro che stringeva tra le mani, ignorando quella sensazione di disagio che provava nell'essere consapevole di essere solo e seminascosto mentre tutti i suoi compagni si godevano il tempo libero, e subito tornò a far vagare lo sguardo sul paesaggio che lo circondava. Faceva caldo per essere metà settembre, e faceva ancora più caldo infagottato sotto il mantello della divisa, ma non poteva permettersi di restare in maniche di camicia. Poco lontano da lui, un gruppetto di ragazze più grandi se ne stava con i piedi scalzi a mollo nelle acque del lago, intente a scambiarsi pettegolezzi costellati da risolini acuti.
Severus fece vagare lo sguardo sul pendio di prato che portava al castello, e scorse, poco lontano dalla capanna del guardiacaccia, un gruppo di ragazzini tra i quali spuntava l'inconfondibile chioma di Lily: lei sedeva con le gambe incrociate di fianco alla sua amica con le trecce scure, circondate da altri Grifondoro del primo anno. Potter e Black non erano presenti, ovviamente: Severus sperava che stessero ancora cercando di rimettere insieme i pezzi degli occhiali di Potter.
Severus provò l'improvviso impulso di correre da lei, ma si trattenne: non poteva semplicemente piombare in mezzo ad un gruppo di Grifondoro di cui a stento ricordava i nomi, che cosa avrebbe potuto dire? Dopo un lungo attimo di esitazione, si risolse a cacciare quello stupido libro nella borsa, e a prendere la strada del castello.
Quando giunse più vicino al gruppo dei Grifondoro, rallentò un pochino il passo, e riuscì a cogliere qualche parola:
“Mi hanno detto che Vitious è abbastanza largo di voti, mentre la McGrannitt e Doyle sono severissimi.”
“A me Doyle fa paura, ha sempre una faccia come se avesse voglia di usarti come cavia alla tua prima risposta sbagliata!”
In effetti, il professore di Difesa Contro le Arti Oscure non aveva per nulla un'aria pacifica e rassicurante, ma anzi, sembrava che non vedesse l'ora di poter passare al lato pratico della materia solo per vederli finire in Infermeria uno dopo l'altro. Oh, che peccato che a Difesa Serpeverde fosse con Tassorosso! Severus avrebbe volentieri duellato con Potter o Black.
Severus aveva quasi oltrepassato il gruppo di ragazzini, quando una voce acuta lo raggiunse:
“Ciao, Sev! Dopo la colazione ti ho cercato al tuo tavolo, ma mi sa che eri già andato!”
Si voltò, e vide Lily avanzare verso di lui, spolverandosi i jeans e scatenando una leggera pioggerellina di fili d'erba. Severus la guardò sorridente, senza rispondere.
“Hai da fare?” gli chiese lei con un ampio sorriso, e lui si strinse nelle spalle.
“Pensavo di andare in biblioteca a finire il tema di Lumacorno...” mormorò, non osando dirle che in realtà il suo unico piano per la giornata era cercare di non mettersi in ridicolo davanti a tutta la scuola.
“Ma è domenica! E il tema è per mercoledì!” protestò Lily, gli occhi spalancati con un'espressione incredula.
“Sì, ma... insomma, lo sai che Pozioni non mi piace, prima me lo levo di torno e meglio è!”
Lily scoppiò a ridere, scuotendo la testa.
“Io non l'ho nemmeno iniziato, così mi fai sentire in colpa! Ti va se ti accompagno, così magari mi dai una mano?”
Severus dubitava che Lily avrebbe avuto bisogno di una mano con quel tema, ma ovviamente era felicissimo di stare un po' con lei. Negli ultimi mesi, quell'estate, si erano visti quasi tutti i pomeriggi, ed era incredibile pensare a quanto rapidamente Severus si fosse abituato a contare sulla sua presenza. Quando erano partiti per Hogwarts, aveva creduto che la loro amicizia non avrebbe fatto altro che rinforzarsi, ma dopo che aveva sentito il Cappello Parlante spedirla fra le fila dei Grifondoro la sua speranza aveva vacillato non poco. Nonostante per forza di cose fossero costretti a passare diverso tempo separati, avevano preso l'abitudine di trovarsi al termine delle lezioni in biblioteca, per studiare assieme. Certo, la biblioteca non era il posto migliore per chiacchierare, dal momento che la bibliotecaria era una specie d'arpia in grado di cogliere anche il minimo colpo di tosse e di intervenire con gli occhi fuori dalle orbite per ristabilire la calma del suo piccolo regno, ma a Severus piaceva quella conversazione silenziosa fatta di sguardi, smorfie, bisbigli e cenni del capo.
“Certo, volentieri!” rispose, cercando di non suonare troppo entusiasta.
Lily salutò i suoi compagni di Casa, che le lanciarono uno sguardo incuriosito - Severus aveva già colto diversi sguardi di quel tipo quando Lily si sedeva accanto a lui in classe, ma lei sembrava cieca a tutto ciò - e si avviò insieme a lui lungo il pendio che portava al castello, parlando in maniera entusiasta di tutte le nuove cose che aveva appreso in quei giorni.

 
***

Severus discese nei sotterranei con un sospiro: era un'ingiustizia che i Serpeverde dovessero fare tutte quelle scale per raggiungere la Sala Grande, per poi dover scendere di nuovo nei sotterranei per le lezioni di Pozioni. Non sarebbe stato tutto molto più facile se avessero sistemato tutte le aule in una stessa ala dei castello? Molte meno corse, meno rischi di fare tardi tra una lezione e l'altra, nessun ragazzino del primo anno perso in corridoi che non aveva mai visto...
Varcò la soglia dell'aula di Pozioni, dove diversi studenti avevano già iniziato ad estrarre il proprio calderone e gli ingredienti elencati alla lavagna: l'eccitazione era palpabile, dal momento che il venerdì precedente Lumacorno aveva annunciato che da quella settimana avrebbero finalmente cominciato ad avere un approccio più pratico alla materia, preparando la loro prima pozione. Aveva mantenuto un velo di mistero riguardo a quello che sarebbe stato il loro primo preparato, ma Severus sospettava che non si sarebbe trattato di niente di spettacolare.
Lily, gli occhi scintillanti, sedeva vicino alla parete, in terza fila, e fece un cenno eccitato a Severus di avvicinarsi.
“Non vedo l'ora di iniziare questa lezione, speriamo di non combinare disastri...”
Severus, con un sospiro, si lasciò cadere accanto a lei: no, lui non aveva la minima voglia di passare un'ora a sudare sopra un calderone maleodorante, tagliando foglie di trifoglio a striscioline o spremendo occhi di coleottero. Non quando avrebbe potuto impegnarsi ad apprendere qualcosa di più utile e immediato a Trasfigurazione o Incantesimi.
“Sarai bravissima, Lily, non ti preoccupare.”
In quel momento, Lumacorno invitò gli ultimi studenti che si stavano attardando fuori dall'aula a prendere posto, e si rivolse alla sua classe con un ampio sorriso, come se nascondesse dietro la schiena un enorme pezzo di cioccolata e non vedesse l'ora di vedere le loro espressioni quando glielo avrebbe offerto.
“Bene, ragazzi, se posso avere la vostra attenzione, vorrei invitarvi a concentrarvi e richiamare alla mente quello che abbiamo studiato in queste prime settimane sulle norme di sicurezza da mantenere durante la preparazione di una pozione.”
Fece una pausa ad effetto, come per lasciare effettivamente il tempo a tutti di ricordare quelle sciocchezze: seguire con attenzione le istruzioni del libro di testo, non saltare o unire più passaggi, non cercare di correggere una pozione evidentemente sbagliata, non sporgersi troppo a respirare i fumi di un calderone... insomma, anche un bambino di cinque anni avrebbe capito che cosa era meglio fare o non fare con una sostanza che bolliva sul fuoco.
“Bene, ora vi chiedo di aprire il vostro libro di testo a pagina trentanove e di cercare di seguire alla lettera le istruzioni riportate. La pozione Scacciabrufoli è un preparato piuttosto semplice, tuttavia sono certo che sarà illuminante per voi toccare con mano cosa significa manipolare delle materie prime per ottenere scopi ben precisi. Per qualsiasi dubbio, non esitate a chiamarmi al vostro tavolo di lavoro. Anche se sono certo che ve la caverete benissimo.”
Con quest'ultima frase, scoccò un sorriso ammiccante a James Potter, che ricambiò il sorriso apertamente.
Dannato arrogante. Da quando l'anno era cominciato, Lumacorno non faceva che decantare il talento che doveva sicuramente scorrere nelle vene del giovane Potter, figlio del famoso pozionista Fleamont Potter, inventore dell'apprezzatissima Tricopozione Lisciariccio, che Lumacorno assicurava essere un suo caro amico. Il ragazzo aveva accolto tutti questi complimenti con sorrisi svogliati, annuendo impercettibilmente quando Lumacorno annunciava che la sua classe quell'anno avrebbe assistito a grandi cose fuoriuscire dal suo calderone. Al diavolo, che Potter si beasse pure di essere bravo ai fornelli, Severus sapeva che il vero talento risiedeva nel mantenere il sangue freddo durante un duello, non certo nello stare comodamente seduti al sicuro davanti ad un calderone fumante!
Quando Severus si riscosse dai suoi pensieri, si accorse che Lily aveva già acceso il fuoco sotto il suo calderone, e stava frantumando nel suo mortaio nuovo di zecca le zanne di serpente.
Severus, scoccando un'ultima occhiata a Potter, i cui occhiali erano in qualche modo tornati in ottime condizioni, si affrettò ad aprire la sua vecchia copia del libro di testo alla pagina indicata, e cominciò a studiare le istruzioni. Effettivamente la pozione non sembrava poi così complicata, e così si mise diligentemente al lavoro.
Ben presto Severus si ritrovò completamente assorto dal miscuglio che borbottava scoppiettando allegramente nel suo calderone: scoprì che concentrarsi nel contare la giusta quantità degli ingredienti, ridurre in polvere le zanne nel mortaio, regolare l'esatta temperatura del composto e osservarlo cambiare lentamente colore e consistenza mano a mano che contava le mescolate in senso orario aveva un forte potere calmante su di lui. Si ritrovò a muoversi fra il suo calderone e il tavolo con gli ingredienti con una naturalezza che non sapeva di possedere, per una volta del tutto assorbito dal suo compito, senza curarsi minimamente di quello che gli altri stessero facendo o di cosa potessero pensare di lui.
Quando Mary MacDonald urtò il proprio calderone rovesciandosi il contenuto bollente sulle gambe e prorompendo in uno strillo acuto, Severus a malapena alzò la testa dal suo lavoro: registrò marginalmente Lumacorno borbottare che si aspettava che sarebbe successo prima o poi, perché tutti dimenticavano la regola basilare di assicurarsi che il calderone fosse bel fissato al suo supporto.
“Lupin, accompagna miss MacDonald in Infermeria, vuoi? Conosci la strada” aggiunse l'uomo stancamente, guardando con aria corrucciata e vagamente annoiata la ragazzina singhiozzare.
Lily intercettò lo sguardo di Severus, poi si rivolse al contenuto dei loro calderoni, e disse:
“Forse ci siamo, stanno assumendo proprio una bella tinta color buccia d'arancia. Ce l'abbiamo fatta, mi sa!”
In effetti, la pozione di Lily e quella di Severus sembravano rispecchiare la descrizione riportata sul libro: Severus si sarebbe aspettato qualche bolla in più sulla superficie della sua, mentre quella di Lily scoppiettava fin troppo, spedendo sporadici schizzi arancioni in ogni direzione, ma non appena Severus si guardò attorno si accorse che il resto della classe era in una situazione ben peggiore. La pozione di Mary giaceva a terra in brutti grumi rossastri, mentre quella di Emily Rosenthal, la ragazzina minuta di Serpeverde, si stava solidificando in una gelatina bruna che puzzava terribilmente di gomma bruciata. Lumacorno girava con aria affranta fra i banchi, evidenziando gli errori commessi dai vari studenti - a quanto pare Peter Minus a metà pozione aveva fatto cadere il libro, e lo aveva riaperto alla pagina sbagliata, producendo un perfetto incrocio tra la pozione Scacciabrufoli e la lozione CuoioPerfetto. Remus Lupin sembrava invece essere stato sul punto di produrre qualcosa di buono: la sua pozione era solo un po' troppo chiara, ma sembrava tutto sommato accettabile, ma ovviamente si era dimenticato di spegnere il fuoco sotto il suo calderone, prima di accompagnare quasi di peso Mary in Infermeria, e così presto un acre odore di bruciato prese a salire dal suo composto. Sirius Black aveva prodotto un composto dal colore perfetto, ma che aveva preso una consistenza simile a quella del formaggio fuso, che pendeva in lunghi filamenti collosi dal mestolo che il ragazzo tentava inutilmente di liberare dal suo calderone. Quando Lumacordo si voltò speranzoso verso il calderone di Potter, pronto a sommergerlo sotto una valanga di complimenti, per poco non svenne: il calderone di Potter era totalmente invaso da una densa schiuma verdastra, che continuava ad aumentare e minacciava di varcare i confini del suo contenitore. Inoltre, da quella schiuma fuoriuscivano enormi bolle che scoppiavano con sonori pop, spendendo schizzi bollenti in ogni direzione, costringendo Potter a saltare come un ranocchio nel tentativo di evitarli.
“Mio caro ragazzo, ma che cosa è successo qui?” esclamò deluso il professore, facendo evanescere la pozione di Potter prima di dover spedire anche il suo pupillo in Infermeria.
“Non lo so, professore, dev'essere colpa di quelle lumache giganti, stava andando tutto bene finché non ho aggiunto quelle” cercò di scherzare il ragazzo, ma era evidente che non fosse contento della faccia delusa di Lumacorno.
Il professore scosse la testa, e si allontanò senza ulteriori commenti, avvicinandosi ad un tavolo di Serpeverde che avevano ottenuto risultati discreti, anche se ancora lontani dalla descrizione presente sul libro.
Alla fine, con aria annoiata, Lumacorno si avvicinò al tavolo di Lily e Severus: non aveva mai prestato loro molta attenzione, nemmeno quando faceva l'appello - Lily era presto diventata Lilian - ma questa volta si fermò, trattenendo teatralmente il respiro, e fissò a lungo i due ragazzi. Lily, accanto a Severus, cominciò ad arrossire, visibilmente in imbarazzo, ma il ragazzo sapeva che Lumacorno doveva essere contento. Le loro, del resto, erano le migliori pozioni della classe.
“Per i baffi arricciati di Salazar, questa sì che è una Pozione Scacciabrufoli fatta come si deve!”
Si chinò ad annusare i due composti, li mescolò e saggiò la consistenza del liquido, poi scrutò a lungo Severus:
“Sei certo di non avere qualche pozionista in famiglia, ragazzo? Questo non è un talento comune...” dicendo questo, lanciò un ultimo sguardo ferito a Potter, che stava borbottando qualcosa nell'orecchio di Sirius Black.
“No, signore, non che io sappia.”
Non sapeva molto della famiglia di sua madre, che non ne parlava mai volentieri, ma ritenne più opportuno evitare di spiegare la situazione davanti a tutti i compagni.
“Quanto a Miss Evans, be', in questo caso chiaramente il talento sta tutto nelle mani e nel cervello di questa signorina, visto che di certo non c'è nessun avo da ringraziare. Direi che sarebbe appropriato assegnare quindici punti a Serpeverde e quindici punti a Grifondoro! Forza, ora, ripulite tutto e andate.”
Severus non riuscì a trattenere un ampio sorriso: erano i primi punti che guadagnava per la sua Casa, e non credeva che questo lo avrebbe fatto sentire così orgoglioso. Mentre riponeva i suoi strumenti nella borsa, Potter e Black gli si avvicinarono con un sorriso torvo:
“Be', Mocciosus, complimenti. Stai solo attento, la prossima volta qualche lumaca gigante potrebbe scivolare dal nostro calderone e finire nel tuo!”
“Che hai, sei invidioso, Potter? Solo perché tu non sapresti preparare nemmeno un tè, non significa che altri non si vogliano impegnare” intervenne Lily, minacciosa. Da quell'incidente con la boccetta d'inchiostro non aveva ancora perdonato Potter e Black, e non perdeva occasione di ribadirlo.
“È solo che preferisco impegnarmi in cose più utili. Il lavoro ai fornelli lo lascio alle signorine.”
Con questo si voltò e marciò fuori dall'aula, con Black che gli trotterellava dietro come un cagnolino.
Lily sbuffò, sprezzante, e si caricò in spalla la sua borsa:
“Va be', che cosa puoi aspettarti da un pallone gonfiato che deve tutti i suoi soldi ad una pozione che non solo non saprebbe preparare nemmeno tra un milione di anni, ma che non sa nemmeno usare?”
In effetti, a giudicare dal nido che Potter aveva al posto dei capelli, l'invenzione di suo padre non sembrava un granché.
Severus sogghignò, guardando gli occhi di Lily scintillare. La ragazzina, dopo un attimo, non riuscì più a trattenersi, e lo strinse in un fugace abbraccio, che lasciò Severus sorpreso e imbarazzato.
“Ma ti rendi conto? Quindici punti! Ed è solo la prima pozione!”
Il calore che era salito a imporporare il viso di Severus parve sciogliersi e scendere a diffondersi nel suo petto, facendolo sentire, per la prima volta da quando aveva messo piede ad Hogwarts, sereno e sicuro di quello che stava facendo.
Senza ombra di dubbio era stato uno stupido a giudicare così presto Lumacorno: Pozioni era decisamente uno dei corsi più interessanti che la scuola potesse offrire.






 
***





Note:
E con questa storia, ho finalmente finito di ripubblicare i racconti già presenti nella raccolta “Ogni giorno, ogni respiro”, erroneamente cancellata mesi fa. 
Piton è un personaggio che temo non sia molto nelle mie corde, ma ho fatto del mio meglio per dargli voce. Spero di non averlo travisato troppo.
Il titolo è, chiaramente, tratto dal Macbeth di Shakespeare.
Vi ringrazio per aver dedicato un po’ di tempo a questa lettura. 

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Capitolo 5
*** Tutte le colpe del mondo ***


Personaggio: Priscilla Corvonero
Genere/i: Introspettivo
Avvertimento/i: nessuno
Nota/e: nessuna
Contesto/i: Dai Fondatori alla I Guerra
Rating: giallo
Lunghezza storia: one-shot
Introduzione: "Le colpe del mondo scorrono tutte nelle nostre vene di donna".
Note d'autore: La storia è stata scritta per il contest "Le sei mogli di Enrico VIII", indetto da GiuniaPalma sul forum di EFP, basandomi sugli elementi obbligatori presenti nel pacchetto Jane Seymour: - situazione: la protagonista scopre di essere incinta; - motto: tenuta a servire e obbedire; - prompt (facoltativo): morte.

Per le giustificazioni trovate da alcuni uomini per le proprie avventure, mi sono molto (ma proprio tanto) liberamente ispirata all’encomio di Elena di Gorgia.





 
 
Tutte le colpe del mondo
 




 
 Ho conosciuto tanti nomi in questo mondo storto.
Quando la mia coscienza era ancora materia morbida come cera appena scaldata, ho respirato il profumo della sicurezza, cullata da un canto lieve.

Sono stata figlia.

Ho disteso la mia risata sui prati in fiore, incurante della mia bellezza acerba che sembrava sfuggirmi ad ogni passo, illuminandomi d’una luce che nemmeno riuscivo ad avvertire.

Sono stata fanciulla.

Ho avuto sete di conoscenza, avida come un naufrago che approdi sulle spiagge dell’abbondanza. Ho avuto sete, e l’ho saziata consumando i miei begli occhi sui solchi d’inchiostra tracciati dalle mani dei saggi.

Sono stata allieva.

Mi sono chiusa in una torre d’avorio, sorda al mondo, ma la voce di tre anime affini mi ha sedotto come un canto di sirena, ricordando che la sapienza, quando custodita in una stanza vuota, è soltanto sprecata.

Sono stata amica.

Ho imparato a diventare davvero adulta guidando i passi incerti di giovani maghi inesperti, donando loro la mia sapienza e trovando per me nuovi orizzonti osservando la vita attraverso i loro occhi.

Sono stata maestra.

Ho conosciuto il fuoco del sangue che brucia le vene, l’affanno di corpi sudati, il piacere di condividere un’intimità leggera, fatta di semplici istanti. Ho conosciuto la soddisfazione di essere carne, carne soltanto, celebrando la vita con incontri privi di direzione.

Sono stata amante.

La vita me la porto appresso ad ogni passo, ora. Potrebbe stare racchiusa in un pugno, e ancora riesce a nascondersi fra i drappeggi che mi avvolgono il ventre, ma nella mia coscienza brilla come un sole tiepido.
Presto la luce della mia piccola vita sarà tanto intensa da abbagliare il mondo.
So già quale sarà mio nome, allora.

Non madre.

Puttana.

Ché la mia mano l’ho lasciata baciare a molti, ma non l’ho mai concessa a nessuno.
Ché quei baci lascivi li abbiamo sempre voluti in due, ma solo da me ci si aspettava un rifiuto.
Se scambiassi il mio cognome con quello di un giovane sciocco, riceverei in dono una manciata di appellativi nuovi.

Madama.

Donna onesta.

Moglie.

Schiava.

Comunque puttana, ora o fra dieci anni, per uno sguardo sbagliato o una risposta sgradita.

Dovrei mutilare il mio ingegno per non far sfigurare il mio uomo.
Dovrei imparare a chinare il capo, a mordermi la lingua, a lasciarmi imbrigliare in convenzioni vuote e lontane dal naturale scorrere liquido delle relazioni.
Sarei tenuta a crescere un figlio con un nome diverso dal mio, seguendo dettami diversi dai miei.
Sarei tenuta a servire i suoi capricci e obbedire ai suoi ordini travestiti da desideri, io che sono nata soltanto per servire la ragione e obbedire al richiamo della conoscenza.

Non so ancora se la mia piccola vita nascerà con la colpa nel sangue, o avrà lo scudo di chi colpevole non lo è mai.
Mai, ché se un prode cavaliere raccoglie le grazie di donna Priscilla, lo fa soltanto per assecondare il volere di un dio che quella strega sa piegare ai propri desideri.
Se il promesso sposo di una dama lontana si scalda le membra sotto le gonne della saggia Priscilla, il suo volere è certamente soggiogato da un filtro d’amore.
Se un brillante studente s’attarda nelle stanze della sua insegnante ben l’oltre l’orario suggerito dal buon costume, la colpa è soltanto della sapiente favella di donna Corvonero.

Le colpe del mondo scorrono tutte nelle nostre vene di donna.

Io me le porto in grembo con la fierezza d’una regina, queste colpe celebrate nella voluttà del momento.
Me le porto sul capo come un diadema di stelle.

La mia piccola vita forse non mi perdonerà mai per non averle dato un padre.
Spero che arriverà il giorno in cui riconoscerà il valore del mio dono per lei.

Non la vita.

La libertà.

 

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Capitolo 6
*** Orfano di padre vivo ***


Orfano di padre vivo
 
 
 
 
 
Torna a casa, Barty.
 
 
Una casa che è un guscio vuoto, una casa arredata solta­nto dalle assenze di mio padre.
Casa come gli abbracci della mamma, quando mi disegnava fra i capelli scrim­inature precise, i denti del pettine imb­evuti nella colonia di papà.
 
 
Così gli somigli.
 
 
Nella mente deg­li altri, ho cominci­ato a somigliargli prima ancora di venire al mondo, e poco importava che i miei capelli pallidi aves­sero la stessa incon­sistenza di quelli di mia madre. Non ho trovato spazio per crescere nemmeno nei confini del mio nome: specchio deforme, continuo riflesso di chi era solo un’omb­ra, per me. Un’ombra pesante, che mi sfi­orava senza mai sape­rmi abbracciare.
 
 
Torna a casa, Barty, torna in questa casa fatta di silenzi e di rimproveri: io ti amo ancora.
 
 
Torno con i miei voti che non basta­no mai, e nei miei bagagli piego con cura le mie amicizie sb­agliate, quelle che dovrebbero suscitare rabbia e preoccupaz­ione, ma in questa casa sempre più spenta nessuno sembra not­arle.
Non ci sono più sorrisi a sollevare gli angoli della bo­cca di mia madre. 
 
 
Torna a casa, Barty, ché la guerra è fin­ita, ed è soltanto tempo di leggerezza: possiamo ricostruire ogni cosa.
 
 
Non lo vedono, loro, che la mia leg­gerezza è tutta soff­ocata nel sangue. 
Non lo vedono che la mia vera famiglia è fatta di mantelli scuri e in­chiostro sulla pelle.
Non vedono che qualcuno, fuori da queste mura di silenz­io, ha saputo vedere oltre il nome sporco che mi hanno cucito addosso, oltre l’i­pocrisia di chi vorr­ebbe salvare il mondo intero, ma non si accorge nemmeno il proprio figlio che an­nega. 
Non vedono il mio smarrimento, quan­do la guerra finisce e i miei fratelli si tolgono la maschera e tornano a sedere accanto a chi aveva­no giurato di uccide­re.
 
 
Torna a casa, Barty: la tua vita conta più della mia.
 
 
Quale casa, mad­re? 
Quale vita? 
Non è casa, non è vi­ta, questa.
Non è casa quel­la in cui un padre mi ha dichiarato orfa­no.
Non è vita quel­la in cui ogni giorno devo dimenticare me stesso, soffocato dalle catene di chi ti ha amato così tan­to da ucciderti.
Non è casa quel­la in cui la mia sol­itudine si è trasfor­mata nella mia più grande forza: mio pad­re dice che io sono un mostro, un abomin­io.
Non lo sa, non lo vuole vedere qua­nto io gli somigli.
Non vuole ammet­tere che la mia devo­zione verso tutto ciò che lui ha giurato di distruggere è fi­glia soltanto della sua indifferenza, ma in fondo al cuore sa che i mostri sono figli dei propri sim­ili.
 
Torno a casa, madre.
Torno a toglier­mi la maschera.
I mostri non si possono tenere al guinzaglio, mio padre lo imparerà presto. 
E rimpiangerà di non avermi lasciato sci­volare il più lontano possibile da lui.
 
 
 
 
 
 
 

Note:
 
Innanzitutto, la cosa importante da dire è che questa storia partecipa al contest “Citazioni in cerca d’autore (Osc­ar Edition!) – II Ed­izione”, indetto da Rosmary sul forum di EFP: alla base di questa storia c’è la citazione “Le origin­i, se non sono la ca­sa in cui tornare, sono il mostro da cui fuggire”, che appar­tiene a Rosmary.
 
Non sono granché soddisfatta di que­sta storia: non sono riuscita a rendere del tutto l’idea di fondo che avevo in mente, ma ci tenevo davvero a partecipare a questa tipologia di contest, quindi per questa volta ho deciso di fare un’ecc­ezione e partecipare con una storia che, normalmente, non ri­terrei del tutto pro­nta per la pubblicaz­ione.
 
Ho immaginato le parti in corsivo come, in un certo sen­so, parole pronuncia­te (o che Barty imma­gina pronunciate) da­lla madre: mi ha sem­pre colpita moltissi­mo la storia dei Cro­uch, il vedere Barty Jr. scivolare sempre di più oltre la lo­ro portata, in un ba­ratro e un’ideologia di cui la sua famig­lia, all’inizio, sem­bra non avere nemmeno coscienza. Trattan­dosi di un ragazzo molto giovane, ho imm­aginato che, almeno all’inizio, il suo avvicinamento ai Mang­iamorte possa essere stato un po’ un moto di ribellione a una famiglia (e soprat­tutto a un padre) che non è stata capace di occuparsi davvero di lui. Essere con­dannati dal proprio stesso padre, e poi fuggire grazie alla morte della propria madre per ritrovarsi ancora in una prigi­one forse più miseri­cordiosa, ma del tut­to priva di ogni for­ma di affetto, credo abbia contribuito molto a cementificare la sua follia e la sua dedizione a Vold­emort.
 

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Capitolo 7
*** Viaggio degli spiriti ***


Personaggi: Helena Corvonero, Mirtilla Malcontenta
Genere/i: Introspettivo, Malinconico
Avvertimento/i: nessuno
Nota/e: nessuna
Contesto/i: Dai Fondatori alla I Guerra Magica
Rating: giallo
Lunghezza: one-shot
Introduzione:  “C’è una ragazzina che strilla ogni notte: dicono che si senta in colpa . 
Io dico che la colpa ha contorni sfumati: non può mai ricadere su una sola persona, ma nessuno ne è immune. 
N.d.A.: La storia partecipa al contest “Una biblioteca in disordine”, indetto da Marika Ciarrocchi/Angel Cruelty sul Forum di EFP: scopo del contest era scrivere una storia che avesse per titolo uno di quelli proposti (in questo caso, ovviamente, “Viaggio degli spiriti”, sintesi de “Viaggio al centro della terra” e “La casa degli spiriti”).



 
 
 
 
Viaggio degli spiriti


 
 
 
 
Piove.
Piove, ed è un po’ come se questa pioggia ci scavasse dentro: l’intero castello si è fermato, in questi giorni, si è fermato e ha imparato a guardarsi dentro.
È l’effetto della morte: costringe la vita a guardarsi allo specchio e a fare i conti con la propria immagine riflessa. 
 
Piove, ed è come se il castello volesse chiudersi al mondo, costruirsi mura di nebbia e vapore per tenere lontano tutto ciò che non è cordoglio e sgomento.
I colpevoli sono stati catturati, la sicurezza è stata ristabilita, ma gli studenti hanno pagato un prezzo troppo alto: poco importa che nessuno fosse amico della ragazza dagli occhiali spessi. Forse dimenticheranno presto il suo nome e il suono della sua voce, ma non dimenticheranno mai cosa si prova ad essere atterriti, a guardare negli occhi la propria fallibile umanità e a sentire ogni certezza vacillare prima del tempo. 
 
Piove, e quando piove mi sembra di ricordare le carezze di mia madre, le sue dita distratte che mi asciugavano le lacrime quando ero una bambina.
Piove, e penso alla madre che ora starà piangendo sulla terra smossa di un cimitero di provincia. 
Penso a lei e penso a mia madre, ma non posso farmi distrarre: ho un compito, oggi. Un compito ingrato, ma che so pesare solo sulle mie spalle sottili.
 
Sono stata più schiva del solito, in queste settimane: abito l’aria di questo castello da così tanto tempo che i volti degli studenti li conosco come fossero il mio cuore: quando la morte li sfiora, scoprono di avere tante domande. Sono domande che pretendono risposte, domande che sanno riempire anche i cuori più timidi di un ardore tutto nuovo.  
Altri, nella mia condizione, ritengono un dovere morale offrire delle risposte.
Io alla mia morale ho rinunciato quando l’amore mi ha soffocato la gola con una manciata di sangue.
 
C’è una ragazzina che strilla ogni notte: dicono che si senta in colpa . 
Io dico che la colpa ha contorni sfumati: non può mai ricadere su una sola persona, ma nessuno ne è immune.
Questa ragazzina ha l’orrore negli occhi, e il mio cuore sanguinerebbe per la pietà davanti al suo sguardo distrutto, se solo la pietà non mi fosse stata strappata da un sorriso d’acciaio. 
Io me le ricordo, le sue parole affilate: se le spargeva attorno in manciate di sale, costringendo la ragazza con gli occhiali spessi a frugare a piene mani nella sua solitudine, per emergerne ogni giorno un po’ più spenta. Le sue notti cullate da carezze di gelo se le è meritate.  
 
Sono stata la prima a vedere la ragazza con gli occhiali spessi: si era nascosta, piccola ombra invisibile nella tempesta che aveva suscitato. Si era nascosta, e io ho rispettato il suo silenzio: l'ho riconosciuto, assorbito, rivissuto, e forse avrei pianto, se mi fossero rimaste lacrime. 
Lei mi ha visto, quando hanno portato via il suo corpo, ma anche lei ha rispettato il mio silenzio.
Per settimane la sua è stata un'esistenza fatta di ombre e recessi nascosti: avrei potuto cercarla, forse avrei anche potuto trovarla, ma non l'ho fatto. Serve tempo, serve tempo anche per chi vive l’infinito. 
 
S'è mostrata per la prima volta di notte, andando a stendersi accanto alla ragazzina con le parole affilate: l'ha risvegliata dai suoi sogni con carezze fatte di sussurri gelidi, e di nuovo è tornata a nascondersi.
 
Piove, e questa mattina la ragazzina con gli occhiali spessi ha attraversato il parco, fluttuando mesta fra una goccia di pioggia e l’altra: era l'alba, e il grigio dell’atmosfera sembrava fatto apposta per camuffare il suo lieve avanzare, ma io ho comunque avuto l’impressione che lei volesse essere vista. 
Tutti noi vogliamo essere visti, a un certo punto: forse non lo ammetteremo mai, ma se decidiamo di compiere un viaggio al contrario è proprio perché speriamo di essere visti.
 
L'avrei dovuta raggiungere sotto la pioggia, forse, ma la pioggia, anche se non è più capace di sfiorarmi, per me continua ad avere il sapore di quella notte in cui mi hanno strappato l’amore dal petto.
Ho lasciato che la ragazzina con gli occhiali spessi si trovasse un nuovo nascondiglio prima di decidermi a cercarla.
 
Non mi piace cercare la gente: mi ricorda troppo il mio vano fuggire – da mia madre e da me stessa, da una vita che non volevo e dalla morte. Ma la ragazzina dagli occhiali spessi va trovata: non posso più farle del male, ora, non quando ogni possibilità è ormai scivolata fra le dita. Posso dirle parole amare, posso costringerla a guardarsi dentro, ma il dolore più grande ce l'ha già cucito addosso.
Non la morte.
Il rimpianto per il suo eterno presente, per quel passo che ha deciso di non compiere, quel sentiero che è a portata di mano di chiunque, ma che noi abbiamo scelto di rifiutare.
 
Per tutto il giorno attraverso muri e corridoi, osservando i volti ancora turbati degli studenti. Sembrano bambini, anche quelli che presto verranno considerati uomini: bambini che cercano invano una guida che sappia cancellare la loro confusione.
Torneranno i giorni di sole, torneranno le risate e i sotterfugi e i bisticci, perché la vita impara sempre ad andare avanti, anche quando avanti noi non ci possiamo più andare. Torneranno ad essere soltanto studenti, ma non dimenticheranno mai che cosa significa essere sfiorati dalla carezza gelida della morte.
 
Per tutto il giorno cerco di dare tempo alla ragazzina con gli occhiali spessi così che creda di avere una possibilità di continuare a nascondersi, ma quando cala la sera e gli studenti sono solo una massa vociante – ma non abbastanza – col capo chino sui piatti in Sala Grande, vado nell'unico posto in cui so di poterla trovare. 
Il bagno al primo piano del castello, un bagno a cui ormai hanno tolto ogni sigillo, ma che nessuno ha avuto il coraggio di avvicinare.
La ragazzina dagli occhiali spessi è lì, spalle chine e visetto cupo rivolto alla finestra. 
Io mi annuncio con un piccolo colpo di tosse, e lei arretra, le spalle al muro.
Glielo leggo in quegli occhi tristi, che si sente messa all'angolo: non ha ancora abbastanza confidenza col questo nuovo piano dell'esistenza per cercare di sottrarsi lasciandosi solamente scivolare attraverso il muro.
Mi si stringerebbe il cuore, se solo me ne fosse rimasto abbastanza.
 
Mi guarda, la ragazzina con gli occhiali spessi, e i suoi occhi sembrano annegare in quel mare di lacrime che a stento trattiene.
Mi guarda e non parla.
Forse mi teme.
Non sono il Frate Grasso, io: i giovani Corvonero sono gli studenti di mia madre, non i miei. La Sala Comune nascosta dietro l’aquila di bronzo è per me casa e prigione, ma non certo fonte di condivisione con i giovani che palpitano sotto il tocco caldo della vita .
 
O forse la ragazzina con gli occhiali spessi non teme me, non teme ciò che rappresento o che sono stata: teme ciò che sono ora, ciò che siamo, e tutto ciò che potrei costringerla a dire.
 
“Non devi più avere paura".
Non parlo spesso, e la mia voce mi appare ogni volta un sussurro troppo tenue. Un sussurro che non può farsi sentire, non abbastanza.
Mai abbastanza. 
La ragazzina mi guarda, si raddrizza gli occhiali spessi sul naso, e le sue dita trasparenti corrono a tormentare un brufolo infiammato nella piega fra le labbra e il mento.
“Non so perché mi sono nascosta".
Non è un sussurro: è più uno scagliare lontano da sé quelle parole che pesano come macigni anche per chi dovrebbe avere soltanto leggerezza.
“Lo facciamo quasi tutti, all'inizio". 
 
Ripenso alla mia notte d’argento, dopo che chi si riempiva la bocca d’amore mi ha strappato dal petto la mia libertà. Ripenso a quel vagare incerto e tormentato, a una foresta che si era trasformata all’improvviso in un labirinto: avevo ancora negli occhi quella curva della strada , quel sentiero di luce a cui avevo voltato le spalle, quel viaggio spezzato dal mio timore e dalla sorpresa che mi aveva colto. 
Non ero pronta a morire.
Nessuno lo è, mai, ma io stavo fuggendo, e mi sono ritrovata per sempre intrappolata in un’esistenza senza dinamismo. Ombra fra le ombre, incapace di raccogliere un pensiero, ho attraversato Paesi interi: non mi importava di essere vista, non mi importavano le grida in lingue sconosciute suscitate dal mio volto che lasciava intravedere tutto il mondo, non mi importava niente.
Era solo un istinto – lo stesso che mi aveva fatto voltare le spalle davanti alla curva della strada – a guidarmi: non appartenevo più a niente, e non sarei mai più stata abbastanza per appartenere di nuovo a qualcosa – o a qualcuno – ma ciò che mi aveva trattenuto su questa terra mi spingeva anche a tornare a casa.
In prigione.
 
La ragazzina con gli occhiali spessi non mi guarda più: vede solo i suoi piedi, che calzeranno per sempre le sue scarpette dalla suola di cuoio che ormai non sanno più risuonare contro le fredde pietre di questo castello.
Dovrei dirle qualche altra cosa, dovrei tenderle una metaforica mano – non sono fatta per aiutare o essere aiutata, io.
“Loro dimenticheranno. Dimenticano tutti, prima o poi, e allora non avrai più bisogno di nasconderti”.
Cerco di mascherare le mie tristi verità con un velo di consolazione, ma non mi stupisco quando la ragazzina dagli occhiali spessi mi regala come risposta uno sguardo che è tutto un affronto.
“Certo che mi dimenticheranno! Chi mai potrebbe ricordarsi di una persona noiosa come me?”
 Mi allontano, almeno un po’: non mi piace quando le persone alzano troppo la voce, né mi piace avvicinarmi troppo alle passioni esasperate degli adolescenti.
 
Piove, ma a nessuno importa più.
Piove mentre la ragazzina dagli occhiali spessi piange e si dispera per delle prese in giro che non dovrebbero più toccarla, non ora  che ha l’eternità legata ai polsi come fosse un’ombra scura .
Piove, e all’improvviso la ragazzina smette di parlare, mi cuce addosso un paio di occhi sembrano avere almeno cento anni, e la sua voce smette ogni lamento.
“La mia mamma è venuta a riportarmi… sì, a riportare il mio corpo a casa . Ho sentito la sua voce, ma non mi sono fatta vedere da lei”.
La ragazzina dagli occhiali spessi non sembra cercare conforto o perdono: c’è quasi una luce di sfida nei suoi occhi. Non lo può sapere, lei, che dopo essermi fatta strappare la vita da chi prometteva di amarmi io ero tornata nella mia prigione – la mia casa.
Non lo può sapere, lei, di come per giorni e giorni io abbia vagato fra i giovani alberi di quella che ora chiamano Foresta Proibita, incapace di affrontare ciò che mi aveva convinto a tornare.
Non lo può sapere, questa ragazzina ancora sporca di vita, che ho atteso per giorni di vedere il feretro di mia madre varcare i portoni della sua scuola, scortato da tutte le persone che l’avevano amata, ma non dall’unica che lei avesse amato – non abbastanza.
Solo allora, solo quando il castello era tornato ad essere una prigione come tutte le altre, privo di sguardi pieni di dolore da affrontare, mi concessi il lusso di scivolare fra la pietra di quelle mura.
 
“Potrai farlo quando vorrai. Noi non siamo legati al luogo della nostra morte: puoi lasciare il castello e tornare da lei, se lo vorrai. Se credi che potrà trarne una qualche consolazione”.
La ragazzina dagli occhiali spessi è poco più che una bambina: è lei, solo lei quella ad avere bisogno di trarre conforto dalla vista di sua madre, ma non lo dico: non voglio affrontare altre lacrime, ma se ho imparato qualcosa in tutti questi secoli vissuti accanto a degli adolescenti, è che ricordare loro quanto poco siano lontani dall’infanzia è il modo migliore per farli agire come bambini arrabbiati. 
“La mia mamma non ci crede nei fantasmi”, spiega la ragazzina, incapace di reprimere l’orrore davanti alla crudezza di quella nuova parola, “la farei solo morire di paura  e di dolore”.
 
Il silenzio si allunga tra di noi: io non dico niente, ma le parole della ragazzina continuano a graffiarmi l’anima: la farei solo morire di dolore. È la stessa scusa che mi sono raccontata quando non osavo varcare la soglia del castello dove mia madre moriva ogni giorno di più, mormorando sempre più debolmente il mio nome. Me la sono ripetuta spesso, perché quando si sceglie di avere l’eternità come destino, i sensi di colpa sono una compagnia che nessuno può sopportare.
Me lo sono ripetuta spesso, ma mai con la stessa ferma convinzione della ragazzina con gli occhiali spessi. 
 
Non mi importa più del compito che credo di avere: quella ragazzina imparerà da sola a fare i conti con la propria condizione. Io voglio solo scivolare nel nulla e restare sola con la mia esistenza di silenzi e parole dimenticate.
 
“Credo che resterò, almeno fino al diploma” afferma la ragazzina, e per un attimo temo che non abbia capito nulla: non voglio essere io a spiegarle che esami e diplomi sono per chi ha un futuro, e non c’è posto per  i morti fra i banchi di scuola.
“Resterò fino al diploma, e intanto le darò il tempo di dimenticarmi. E poi la seguirò, e la troverò, e le sussurrerò ogni notte le parole che mi hanno uccisa ”.
 
È follia quella che ora illumina gli occhi della ragazzina con gli occhiali spessi.
È follia, e forse io dovrei intervenire, dovrei cercare di fermarla o di farla ragionare, salvarla dal gesto irrazionale di chi non sa più cosa sia la ragione.
Resto in silenzio.
In pochi sono disposti ad ammetterlo, ma non può esistere salvezza per chi decide di voltare le spalle alla curva della strada. 
 


 
 
 

Note:
Questa storia, per me, è “tutta sbagliata”: quando ho visto i titoli disponibili nel contest di Marika, “Il viaggio degli spiriti” mi ha subito colpita tantissimo, perché un titolo simile mi avrebbe permesso di approcciarmi a una storia che mi ronza in testa da diverso tempo. È da quasi un anno, infatti, che vorrei provare a scrivere di Mirtilla e del suo “viaggio” per tormentare Olive Hornby: questa mi sembrava l’occasione perfetta, e invece… e invece, la storia che avevo in mente si è rivelata troppo lunga e complessa, quindi ho preferito ripiegare su un viaggio molto meno concreto e un po’ più metaforico: il viaggio “oltre la curva della strada”, quello che gli spiriti scelgono di negarsi, ma anche il viaggio verso la consapevolezza di questi fantasmi, il percorso compiuto da Helena per tornare al castello da cui era fuggita e il confronto sempre evitato con sua madre. Sono consapevole che buona parte di questa intenzione è rimasta nella mia mente, e che il tema si sarebbe potuto sviluppare molto meglio, ma insomma, è una storia “tutta sbagliata” a cui ho comunque finito per affezionarmi, per cui ho deciso di metterla in gioco lo stesso.
Infine (infine, giuro): Helena e Mirtilla. So che si tratta di una coppia di personaggi molto particolari, ma mi sono sempre chiesta se potesse nascere un legame, una sorta di guida fra il fantasma della figlia di Corvonero e il fantasma di una studentessa Corvonero. Ecco, anche qui si sarebbe potuto fare di meglio, ma ci ho provato (e non escludo di tornarci sopra, in futuro).

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Capitolo 8
*** Sono fiera di te ***


Personaggi: Andromeda Tonks, Ninfadora Tonks
Genere/i: Malinconico
Avvertimento/i: tematiche delicate (appena accennate)
Nota/e: nessuna
Contesto/i: II Guerra Magica, Pace
Rating: giallo
Lunghezza: flash
Introduzione: “La lunga notte di Andromeda comincia quando si vede costretta a osservare  in silenzio sua figlia imparare la vita del soldato”.
N.d.A.: la storia partecipa all’iniziativa “A scatola chiusa”, indetta dal gruppo facebook “Caffè e calderotti”, e si basa sulla traccia di Rosmary: “Soldati. Ossia scrivete un racconto che abbia come protagonista un personaggio che ha scelto di combattere per qualcosa in cui crede e narratene valori, emozioni, sensazioni, istanti – tutto ciò che volete, purché sia legato a questa scelta compiuta”.
 



 
Sono fiera di te



 
Quando Dora fa domanda per diventare Auror, non ce lo dice.
Lo scopriamo solamente quanto tutti i test sono stati superati, e la nostra bambina si sta preparando a mettere via l’infanzia per imparare la vita del soldato. 
 
È troppo pericoloso.
Devi stare attenta.
 
Essere genitore significa avere sempre una candela accesa al centro del petto, una fiamma sporca di paura a tenere viva l’apprensione per quella creatura che è parte di te, ma a cui non puoi nascondere il mondo.
Quando vedo per la prima volta Dora con la divisa da Auror, capisco che la mia candela non si spegnerà mai più.
 
Sono fiera di te.
 
***
 
Mentre io cerco una spiegazione a una scelta tanto difficile, Ted ride. Ride, e afferma che nostra figlia non avrebbe potuto avere destino diverso: l'essere una combattente ce l'ha nel sangue, anche se sua madre non ha mai alzato la bacchetta per scagliare un incantesimo offensivo. 
 
Ho sempre combattuto per la mia famiglia.
Per Ted, e per il nostro diritto di essere felici. 
Ho combattuto contro il mio stesso istinto, decostruendo ogni residuo di quell'educazione distorta che aveva rischiato di deformarmi, affinché mia figlia conoscesse solo la libertà e una mente sempre aperta.
Ho combattuto per la serenità di mia figlia, quando l'ho vista spegnersi accanto a un uomo che temevo non l’avrebbe mai fatta felice.
 
È troppo pericoloso.
Devi stare attenta.
 
E poi ho combattuto tutti i miei pregiudizi, imparando a guardare Remus attraverso gli occhi limpidi di Dora.
 
Sono fiera di te.
 
***
 
Teddy è un peso caldo fra le mie braccia.
Dora è una maschera di gelida lucidità – è l’Auror Tonks che mi sta davanti, non c'è più posto per la mia bambina.
“Tienilo tu, mamma. Vi voglio bene. Diglielo per tutta la notte".
 
È troppo pericoloso.
Devi stare attenta.
 
Ho combattuto per tutta la vita, ma quella notte non combatto abbastanza.
Combatto la guerra sbagliata. Non quella che avrebbe tenuto la mia bambina al sicuro, accanto a me e accanto a Teddy.
Quella notte so soltanto arrendermi davanti alla determinazione nei suoi occhi, davanti alla certezza che Dora non avrebbe mai il coraggio di guardare suo figlio in viso, se non facesse la sua parte per cercare di raddrizzargli il mondo.
 
A Teddy mormoro il nostro amore per tutta la notte, e per tutte quelle a venire.
 
Non posso perdonarla.
 
***
 
“Guarda, nonna, ho trovato la mamma!”
L'orgoglio smisurato che illumina il faccino sporco di cioccolato  di Teddy non è sufficiente a lenire il mio dolore, ma il sorriso  di Dora su quel cartoncino è il sorriso di una madre che ha suo figlio ha fatto il dono più grande.
 
Dora a Teddy ha regalato un mondo che non ha più bisogno di soldati.
 
Sono fiera di te.
 
 



 
Note:
È una storia scritta molto più frettolosamente di quanto avrei voluto, ma ci tenevo a partecipare all’iniziativa del gruppo: forse è anche una tematica che si presterebbe molto di più ad essere approfondita in una storia  più lunga, e magari prima  o poi, perché no, la riprenderò anche.
Questa storia, nelle intenzioni, vorrebbe parlare di due soldati, e di due diversi modi di combattere: uno è ovviamente Tonks, che forse è soldato nel senso più tradizionale del termine, e l’altro è Andromeda. Che forse non ha mai usato la bacchetta  in una battaglia, ma ha vissuto tutta la sua vita lottando con le unghie e con i denti per le persone che amava, e che non ha mai smesso di farlo, nemmeno dopo aver perso tutto.
Nelle intenzioni (perché poi mi rendo conto che niente di tutto questo è passato nella prosa) questa storia vorrebbe anche essere un’esasperata risposta a tutti coloro che criticano Tonks (un’Auror, un soldato di mestiere, addestrata per questo) per essere andata a combattere pur avendo un bimbo piccolo, ma non emettono mezzo fiato su Remus, che pure fino a prova contraria ha lo stesso grado di parentela con Teddy, e che per di più, pur essendo sicuramente un mago abile, tutto era tranne che un Auror. Ma tanto chissenefrega, i bambini hanno bisogno solo della mamma, no? *inserire facepalm qui*

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