Fra Fuoco e Fiamme.

di AdhoMu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuoco alle polveri! ***
Capitolo 2: *** Per chi scocca la scintilla? ***
Capitolo 3: *** Dalla padella... alla brace. ***
Capitolo 4: *** Situazioni proibite dal Protocollo di Kyoto. ***
Capitolo 5: *** Cammino di fuoco. ***
Capitolo 6: *** Di drago in burrasca. ***
Capitolo 7: *** Sotto le ceneri. ***
Capitolo 8: *** Quei bei piani andati in fumo. ***
Capitolo 9: *** Vecchie fiamme ed altre ustioni. ***
Capitolo 10: *** Polvere pirica, lacrime agli occhi. ***
Capitolo 12: *** Água da minha sede (Epilogo). ***



Capitolo 1
*** Fuoco alle polveri! ***


1. Fuoco alle polveri! 
(Prologo breve).


Una cosa che all'epoca, mai e poi mai, mi sarei immaginata, era l'eventualità di ricevere il benservito da parte di quel cretino di Percy Weasley. Che sia un po' un cretino lo penso adesso, sia ben chiaro, perché in passato, nonostante il comportamento decisamente eccentrico, l'ho sempre considerato il non plus ultra dei fidanzati possibili.
Serio, preciso, responsabile. 
Proprio il tipo di ragazzo che fa faville alle cene di famiglia o durante il brunch con le prozie.
Quello che ogni padre desidererebbe vedere al fianco della propria principessa (ebbene sì: babbo mi chiamava così a quei tempi, ci credereste?).
Quando glielo presentai, i miei fecero letteralmente i salti di gioia.
E pensare che lui si era fatto mille problemi a causa delle condizioni economiche disastrose in cui stagnava la sua famiglia. Temeva che i miei genitori (non che siano ricchi, per carità, quantopiù piuttosto benestanti) avrebbero potuto non vederlo di buon occhio. E invece, a fine serata, quando ritornai sui miei passi dopo averlo riaccompagnato alla porta, babbo mi rivolse un gran sorriso dalla sua poltrona posizionata accanto al caminetto e mi disse, annuendo soddisfatto:
- Questo tuo ragazzo farà strada, lo si vede già. Ottima scelta, Penny.
Percy Weasley l'aveva subito conquistato, così affidabile, beneducato e ammirevolmente ambizioso.  
In sintesi: tutto il contrario di Ch... ma oh, forse è meglio non anticipare troppo, per ora.
Forse è meglio cominciare dal principio e procedere con ordine.
 
La scuola era finita ed era stata seguita da un'estate speciale: quella della Coppa del Mondo di Quidditch. Me l'ero proprio goduto quel finesettimana così eletrizzante ed avventuroso, al quale babbo mi aveva permesso di partecipare (il fatto che fossi già maggiorenne da più di un anno sembrava non contare nulla per lui, quando si trattava di bon-ton) solo ed unicamente perché Percy gli aveva giurato solennemente che si sarebbe preso cura di me.
C'era poco da fare: ogni affermazione del mio rosso fidanzato, rigurgitante di buone intenzioni, era musica per le orecchie dei miei. Credo che, in sua compagnia, mamma e papà mi avrebbero permesso addirittura di passare la serata in una bisca di Notturn Alley, tanto per intenderci.
Io un po' comprendevo la loro preoccupazione dato che, lo si capiva lontano un miglio, non avevano ancora superato il trauma infertogli dal mio incontro ravvicinato con il Basilisco, avvenuto al sesto anno. Non che prima non fossero dei genitori severi e assai poco permissivi: tutt'altro. Senza dubbio, però, quello spiacevole episodio aveva contribuito ad esacerbare la loro già leggendaria autorità.
In ogni caso, al cospetto del serio cipiglio del mio fidanzato, ex-studente modello e futuro impiegato del Ministero della Magia con una sfavillante carriera dinnanzi a sé, mamma e papà mi avevano concesso il loro beneplacito. Ed io, quell'inebriante libertà, quell'atmosfera effervescente e trascinante, quell'iniezione di vita, me l'ero goduta tutta, avidamente, fino all'ultima goccia. 
È vero: ci ero rimasta un po' male perché Percy, per l'ennesima volta e nonostante io già conoscessi di vista la maggior parte dei suoi fratelli, aveva nicchiato e non mi aveva presentata ufficialmente ai suoi familiari. Questa cosa mi aveva impensierita e mi aveva anche fatta un po' soffrire; scioccamente, mi ero perfino ritenuta inadeguata (sensazione, questa, che provavo spesso quando mi confrontavo con lui).
Solo in seguito, dopo qualche tempo e dopo una manciata di episodi rivelatori, avevo capito che, semmai, si trattava dell'esatto contrario. Percy Weasley, per una qualche ragione non dichiarata ma perfettamente intuibile, si vergognava della sua famiglia d'origine.
 
La frattura venutasi a creare fra me e Percy costituì il preludio della (ben più grave) situazione che, all’inizio di quella calda e bizzarra estate del 1997, mi portò a tagliare i ponti con i miei parenti.
Era da un pezzo che non lo riconoscevo più e, devo essere sincera, i suoi comportamenti avevano cominciato a non piacermi affatto. Il lavoro al Ministero (e, nella fattispecie, il contatto assiduo e costante con il Ministro Scrimgeour) aveva messo in risalto alcune delle sue caratteristiche che meno apprezzavo, prima fra tutte l’ambizione sfrenata che tanto aggradava mio padre. Percy si era trasformato in una specie di automa, accecato da una sete di potere che lo portava a passare sopra praticamente a tutto.
Il suoi discorsi si erano fatti monotematici; il suo carattere naturalmente competitivo si era pressoché decuplicato e, in un paio di occasioni in cui gli avevo fatto visita al Ministero, avevo provato una punta di insofferenza nel vederlo affaccendarsi per compiacere quell’uomo che, per tutta risposta, non gli concedeva che una manciata di occhiate distratte e lo chiamava “Weatherby”.
Inevitabile era stato il declino della nostra bella storia, quando lui si intestardiva nel dare del cretino a chiunque la pensasse diversamente da quanto stabilito dalle direttive ministeriali, Harry Potter incluso.
- Harry ha sconfitto il Basilisco – azzardavo timidamente io, tentando di farlo ragionare.
- Quel moccioso non sa quello che fa – rispondeva lui, scuotendo il capo in segno di disapprovazione.
- Ma se non fosse stato per lui, tua sorella...
- Suvvia, Penny. Ma fammi il piacere – mi zittiva, adottando quel suo tono di superiorità che io mandavo giù ogni volta più a fatica.
E così, inesorabilmente, eravamo giunti al punto del non ritorno.
Che era coinciso, udite udite, con il tanto sospirato incontro fra me, Percy e i signori Arthur e Molly Weasley. Si era trattato di un incontro del tutto fortuito, è vero, avvenuto la prima settimana di luglio nell’atrio del Ministero; eppure, aveva avuto conseguenze pressoché irreversibili.
Percy non era mai sceso in dettagli, ma io sapevo che i rapporti fra lui e la sua famiglia erano stato molto tesi nei mesi precedenti, fino a venire troncati del tutto in occasione di una lite avvenuta per i soliti motivi. Eppure, quando avevo addocchiato i suoi genitori che avanzavano nelle nostra direzione, mi ero illusa di poter scambiare due parole con loro e chissà, magari anche di dare una mano per aiutarli a riappacificarsi col figlio. Ancora non sapevo con esattezza che cosa ci fosse sotto; e se lo avessi saputo, forse, me ne sarei stata zitta.
- Guarda chi c’è, Perce – gli avevo detto, rivolgendo un abbozzo di sorriso a sua madre.
Lui mi aveva stretto il gomito e aveva accelerato l’andatura.
- Tira dritto, Penny – mi aveva ingiunto, mentre il sorriso di Molly Weasley scompariva dal suo viso affettuoso per lasciare il posto ad un’espressione ferita. Evidentemente sia lei che suo marito, che nel frattempo era rimasto fermo a guardarci passare, avevano udito le sue parole.
Io avevo le guance in fiamme.
I coniugi Weasley sembravano bravissime persone e poi, dai loro sguardi rammaricati, avevo intuito quanto la ritrosia del loro terzogenito li facesse soffrire.
- Ma perché, Percy? – gli avevo chiesto, una volta fouri dal Ministero. - Perché tratti così i tuoi genitori?
La sua risposta mi aveva fatta andare su tutte le furie.
- Il Ministro Scrimgeour – mi aveva risposto, ostentando una freddezza che non ero stata in grado di tollerare – ha esortato i suoi fidi a non mischiarsi con gente sospetta.
- Ah sì? – mi ero lasciata sfuggire, delusa e infuriata.
- Penny – aveva replicato lui, aggrottando la fronte. – Ultimamente sei un po’troppo polemica per i miei gusti, lo sai?
Quella sua frase infelice era stata la classica goccia che fa traboccare il vaso.
 
A casa, la notizia della nostra rottura era stata accolta in modo tutt’altro che buono.
I miei genitori avevano fatto il diavolo a quattro, accusandomi di essere una sciocca e una sconsiderata: fra un “dove pensi di trovarne un altro così?” e un “ragiona: eh sì che sei una Corvonero; dove hai ficcato il cervello?” erano andati avanti a recriminare e ad esasperarmi oltremodo finché ad un certo punto, incapace di sopportare oltre, mi ero lasciata andare all’amarezza ed ero sbottata in un acutissimo:
Ora basta!
In fin dei conti, contava di più la loro figlia o il suo promettente matrimonio?! Ero già piuttosto abbacchiata di mio; non avevo certo bisogno di altre emozioni quel giorni, per tutti i Diademi di Priscilla.
La mia reazione (ero sempre stata d'indole obbediente e remissiva) li aveva lasciati dapprima sbigottiti; poi, quando si erano accorti che la mia esclamazione era stata una sorta di scoperchiamento del Vaso di Pandora delle mie contrarietà e che, pertanto, avevo cominciato a mia volta a vomitare rimproveri ed improperi a non finire, si erano adirati sul serio e, sommamente indignati,  me ne avevano dette di ogni.
Ed io, tirando fuori per la seconda volta nel corso dello stesso giorno quel sorprendente paio di palle che avevo sempre creduto di non possedere (ogni tanto me ne sorprendo ancora, a ripensarci), avevo abbassato la voce e avevo sibilato:
- Ne ho abbastanza. Me ne vado.
E così, lieta come non mai per aver puntato i piedi ed essermi iscritta alla Facoltà di Magilinguistica (nonostante le perplessità espresse ai tempi dell'iscrizione dai miei familiari, che non ne volevano sapere di farmi studiare alla  Cambridge Magical University anziché con istitutori privati), me n'ero andata sbattendo la porta e trascinandomi dietro il mio pesante baule riempito a casaccio.
Senza sapere bene dove sbattere la testa, avevo rapidamente fatto mente locale e deciso di ricominciare da zero, affidandomi all'unica persona su cui sapevo di poter contare al di fuori della cerchia familiare.
Dopo un po' di ricerche, l'avevo infine ritracciato mentre si godeva le vacanze a Falmouth, tranquillamente stravaccato su una sedia a sdraio blu cobalto protetta da un ombrellone che, attraverso movimenti impercettibili, si muoveva in modo autonomo per proteggerlo costantemente dal sole, senza bisogno di essere orientato a mani nude.
Filius Vitious era cambiato assai poco: un grand'uomo rinchiuso in un corpo piccolo piccolo. Lo avevo osservato per qualche istante (ricordo che stava leggendo un grosso tomo verde bottiglia sulla copertina del quale lettere argentate componevano il titolo La Valle Incantata). Alla fine, dopo aver tratto un paio di respiri profondi, avevo preso coraggio e mi ero avvicinata. 
Il sole, già piuttosto basso all'orizzonte, aveva proiettato la mia ombra ai piedi della sedia a sdraio, dritta dritta all'interno del suo campo visivo.
- Riconoscerei ovunque il profilo di una mia Caposcuola - aveva detto il professor Vitious, facendo comparire una seggiolina di plastica azzurra con un colpo di bacchetta così rapido da passare inosservato alle decine di babbani che ci circondavano. - Qual buon vento ti porta quaggiù in Cornovaglia, Penelope cara?
 
Non l’avrei mai sospettato ma di lavoro da fare, per una Maginterprete fresca fresca di studi (avevo appena concluso gli esami del terzo anno di Università), ce n'era a bizzeffe.
L'Ordine della Fenice stava reclutando nuovi collaboratori da annoverare fra le sue fila: dopo la tragica morte di Cedric Diggory tempi bui iniziavano a profilarsi all'orizzonte e così, memori delle avvisaglie che avevano preannunciato l'avvento della Prima Guerra Magica, i reduci avevano già da tempo cominciato ad organizzarsi.
Il Direttore della Casa di Corvonero, evidentemente, mi reputava una persona fidata cosicché, raccolti in tutta fretta i suoi effetti personali che, grazie ad un Incantesimo d’Estensione fenomenale, erano stati riposti in un minuscolo borsellino di cuoio, il professor Vitious mi accompagnò (immediatamente e in gran segreto) fino a quello che lui chiamava “Il Quartier Generale”: una vecchia casa alta e stretta, annerita dagli attacchi del tempo, che ad un suo cenno aveva fatto capolino fra sue due meglio imbiancate consimili, come lei prospicienti su di un’anonima piazzetta londinese.
- In che cosa ritiene di poter dare una mano, signorina Clearwater? - mi domandò un tizio dall'aspetto che io, lì per lì, giudicai assolutamente male assortito, e che si era presentato come Alastor Moody.
- Studio Magilinguistica - balbettai io, tentando di seguire con lo sguardo il suo inquietante occhio meccanico, che roteava qua e là come impazzito.
Dopo qualche istante di intenso vorticare e di silenzio snervante, quello mi rivolse infine un'occhiata scettica.
- Con quell'aria da principessina dalla scarpetta di vetro - mi disse, sprezzante - non credo lei abbia granché da fare, per dar man forte alla Causa.
Io deglutii, nervosa.
Moody aveva ragione: a guardarmi, non avevo certo l’aspetto di una combattente; tutt’altro semmai ed io, a voler essere onesti, ne ero assolutamente consapevole. Ad intercedere per me, fortunatamente, ci pensò il professor Vitious, che aveva pensato bene di essere presente al colloquio.
- Fossi in te, Alastor caro – disse il mio vecchio Direttore a colui che, a partire da quel giorno, avrebbe deciso delle mie sorti – ci penserei bene, prima di esonerare a priori una delle poche specializzande in Rettilofonia di cui il nostro Lato potrebbe disporre.
Moody, che già si era sollevato dalla sedia deciso ad andarsene, si arrestò di scatto.
- Come dici? – chiese, a voce bassissima.
- Io... io studio il linguaggio dei rettili – farfugliai, sentendomi avvampare. – Rettili magici, per l’esattezza. Fra cui i serpenti, i Basilischi e... e...
- ...e i draghi – concluse Vitious al posto mio, le labbra increspate in un sorrisetto serafico all’indirizzo di Moody, che mi scrutava come se avesse avuto un'epifania.
Un silenzio denso e imbarazzante era calato all'interno di quell'ambiente dalle pareti scure.
- Aggiudicata! - esclamò dopo qualche secondo l'Auror, sbattendo il pugno sul tavolo e facendomi sobbalzare come una pivellina.
 
Post scriptum:
Allora, allora.
In questo periodo gravido di impegni e con la long Sotto Spirito in pieno svolgimento, mettere in pentola una nuova storia sarebbe tutt’altro che raccomandabile, lo so. Eppure, è proprio a causa delle tristi vicende di Cedric che mi vedo costretta ad intavolare anche altro perché, sinceramente, scrivere solo di fatti “impegnativi” mi mette a dura prova. In parole povere, fra un capitolo e l’altro di Sotto Spirito ho bisogno di svagarmi un pochino, altrimenti sono fritta.
E qui casca a fagiuolo lui, proprio lui, l’inarrivabile Charlie Weasley.
Chi mi conosce e già ha avuto modo di udire i miei sproloqui (Bri? Ems??) lo sa. Io vado letteralmente pazza per Charlie Weasley coi suoi draghi, le sue cicatrici e i suoi calli sulle mani: fra tutti i rossi della mandria è quello che mi piace di più e che, proprio per questo motivo, non ho mai osato adottare come protagonista di una mia storia.
Morale della favola: ci giro intorno da un anno, rimuginando, congetturando, mugugnando ed inevitabilmente scartando. Fino ad oggi. Perché proprio oggi, udite udite, ho finalmente trovato l’illuminazione ed ora SO che cosa fargli fare.
La scelta di Penny come co-protagonista femminile è frutto di grandi riflessioni. Ho tentato di immaginarmi decine di partners per Charlie e nessuna mi convinceva, finché non mi sono imbattuta nel cognome inglese di Penelope, che è Clearwater, ossia acqua chiara, o acqua pulita. E cioè, un elemento capace di produrre un bel contrasto con le fiamme di cui Charlie è sempre circondato. L’idea di farle studiare Rettilofonia (una competenza rara, dato che di solito chi parla il Serpentese lo fa per dote innata) proviene dalla convinzione che l’incontro col Basilisco le abbia in qualche modo instillato la necessità di supplire a questa sua lacuna per sconfiggere i suoi demoni, ma questa cosa sarà spiegata meglio più avanti.
Spero di essere così fortunata da poter contare sui vostri consigli e sulle vostre considerazioni, che mi aiutano sempre tanto ad aggiustare il tiro. E ah, ci tengo a precisare che Percy Weasley mi è simpatico, eh, anche perché tutti, a questo mondo, fanno degli errori; l’importante è saperlo riconoscere e darsi da fare per rimediare. Così come ha fatto la Rowling, anch’io provvederò a riabilitarlo all’interno di questa storia, non dubitatene.

 

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Capitolo 2
*** Per chi scocca la scintilla? ***


2. Per chi scocca la scintilla?

Non erano trascorse neanche quarantott’ore dal mio ammutinamento nei confronti del Sistema Clearwater + Weasley, che io mi ero già resa conto di avere fatto una cazzata colossale. Anzi: due cazzate a volere essere precisi, ed entrambe tanto grosse da farmi quasi scoppiare a ridere per il nervoso.
Subito dopo il colloquio con Alastor Moody, il professor Vitious mi aveva gentilmente accompagnata a casa sua, una graziosa villetta nel quartiere residenziale di Ealing, nella zona suburbana di Londra. Il mio squallido baule mi attendeva all’interno di una sgargiante stanza degli ospiti, dipinta con circa centoventisei toni diversi di azzurro.
Ecco che cosa succede quando il cuore ha il sopravvento sulla mente mi dissi al mio risveglio, stringendo le labbra di fronte allo specchio mentre, dal vetro, il mio riflesso mi osservava con lo stesso stanco cipiglio che, tanto spesso, si dipingeva sul volto di mia madre.
Complimenti Penny pensai, scuotendo la testa: con la tua sconsideratezza sei riuscita, in quattro e quattr’otto, a recidere tutti i tuoi legami più importanti.
Non c’era un minuto da perdere.
Dovevo assolutamente cercare di porre rimedio agli effetti nefasti della mia avventatezza e così, dopo essermi strofinata con dovizia il viso sotto l’acqua fredda, inviai un compìto Patronus a Percy per chiedergli di incontrarsi con me.
Una volta che il mio airone argentato ebbe attraversato svolazzando il riquadro della finestra, io mi misi a sedere sul bordo del letto, in paziente attesa. Se tutto fosse andato come speravo, nel giro di pochi minuti il mio fidanzato (non riuscivo proprio ad immaginarlo come un “ex”: non dopo i cinque anni di relazione che avevamo alle spalle) mi avrebbe risposto; e già me lo pregustavo, il momento in cui il suo serioso gufo (non parlo di Hermes ovviamente, ma del suo Patronus, che è esattamente uguale ad Hermes dal momento che, per Percy, la coerenza conta più di qualsiasi altra cosa) fosse approdato nella mia stanza per poi, con squisita efficienza, fissare un appuntamento da Florian Fortebraccio subito dopo il lavoro o, meglio ancora, durante la pausa-pranzo.
E colá ci saremmo rivisti, ci saremmo sorrisi, ci saremmo chiesti scusa a vicenda e avremmo fatto la pace.
E poi io, con estrema contrizione, avrei comunicato al professor Vitious e al signor Moody che no, purtroppo in Romania avrebbero dovuto mandarci qualcun altro...
Tre ore dopo, ero ancora lì a fantasticare sul mio glorioso ricongiungimento con Percy.
C’era un piccolo problema, però: il fatto che, in effetti, la risposta del mio (ex?) fidanzato non era arrivata.
 
Niente da fare.
Ci avevo provato e riprovato ripetutamente per tutto il giorno, pentita ed ormai agitatissima ma, da parte di Percy, neanche uno straccio di risposta. Nel frattempo avevo anche provveduto ad entrare in contatto con i miei familiari per tentare di fare ordine almeno su quel fronte ma quelli, punti sul vivo, mi avevano risposto con un rapidissimo e freddo gufogramma, che diceva più o meno così:
No Percy - No Party.
Arrangiati Penny.
Ed io, piuttosto disturbata più da quella profusione di ipsilon e di P maiuscole che dal messaggio in sé (ero ormai convinta di meritarmeli tutti, quei giusti rimproveri), m’ero dovuta rassegnare al fatto di dovere essere paziente e procedere con ordine, recuperando prima i buoni rapporti con il mio Precisino preferito e poi, facendomi dare man forte da lui, rientrare nelle grazie di mamma e papà.
Purtroppo per me, alla faccia delle mie belle speranze di armonia e di pace, mi era toccato gettare la spugna. Le avevo tentate tutte: Patroni, gufi, areoplanini incantati, Posta celere babbana e quant’altro.
Sbuffando indispettita (detestavo mettere al corrente degli affari miei terzi non direttamente coinvolti nei fatti) mi ero pure recata in pellegrinaggio al centro allenamenti del Puddlemere United per chiedere consiglio ad Oliver, che era sempre stato un buon amico di Percy. L’ex Capitano Grifondoro mi aveva guardata alquanto stupito mentre, seduti davanti ad un paio di boccali di Burrobirra al barettino dello stadio, gli esponevo i fatti con voce accorata.
- Sai Penny – aveva ammesso Oliver, evidentemente a disagio. – Anch’io, per la verità, è da un bel pezzo che non lo vedo...
E mi aveva raccontato che il suo amico e mio (ex!?) ragazzo era cambiato a tal punto da rendersi irriconoscibile, e che si era perfino messo ad evitare sia lui che Katie. Dinnanzi alla mia richiesta di intercedere, però, Oliver si era dichiarato disponibile ad entrare in contatto con lui per tentare di farlo ragionare.
Io ci avevo seriamente sperato, ma una rapida comunicazione di Oliver, recapitatami quella sera stessa, aveva drasticamente freddato le mie speranze.
Percy, di me, non ne voleva più sapere.
E giocoforza, senza di lui, la mia famiglia si trovava al di fuori della mia portata.
E così, purtroppo o per fortuna, avevo dovuto prendere una decisione. Dopo circa tre giorni di strazio assoluto e di intenso arrovellamento, avevo raggiunto il professor Vitious nel suo studiolo e, deglutendo a secco, avevo esordito:
- Riguardo quel... quel progetto in Romania, ventilatomi dal signor Moody...
Il mio ex-Direttore aveva abbassato gli occhiali da vista e mi aveva fissata per qualche istante.
- Che cosa ne sai, esattamente? – aveva indagato, con estrema delicatezza.
- Un bel nulla – avevo risposto io, con sincerità.
- Ti spiegherà tutto Alastor – aveva replicato lui ben sapendo che, in realtà, Moody non mi avrebbe rivelato un Purvincolo secco.
 
- Entra pure, Hagrid.
L’invito di Moody era stato preceduto da una serie di tonfi profondi che, più che un comune bussare, ricordavano più che altro il frastuono prodotto da un ariete scagliato contro la porta da un manipolo di assalitori fermamente decisi ad abbatterla.
Mi trovavo di nuovo all’interno del Quartier Generale, in attesa di essere sottoposta a quella che, col più cupo sarcasmo di questo mondo, Alastor Moody aveva definito “la prova del fuoco”.
Io il guardacaccia di Hogwarts lo conoscevo bene, e quindi la sua entrata in scena un po’ rumorosa non mi sorprese affatto; ciò che mi fece sgranare gli occhi fu, invece, la grossa cesta che il professore di Cura delle Creature Magiche reggeva fra le grosse mani.
Era fatta di un materiale grigiastro che, lì per lì, non fui in grado di identificare (più tardi mi rivelarono che si trattava di fibrocemento, un aggregato ignifugo); al suo interno c’era qualcosa, qualcosa di sorprendentemente vivo, che si dibatteva con furia.
Moody, che fino a quel momento non mi aveva degnata di uno sguardo, mi rivolse un’occhiata severa.
- È pronta, signorina Clearwater? – mi apostrofò, puntando la bacchetta sulla cesta che, nel frattempo, era stata posizionata sul tavolo.
- P-pronta? P-per...? – balbettai io, nervosissima.
- Alohomora!
Il coperchio della cesta scattò su.
Immediatamente, un draghetto verde smeraldo dall’espressione truce saltò fuori, soffiando fumo dalle narici. Non era che un cucciolo un po’ cresciutello, Priscilla Santissima, eppure ricordo che mi parve assolutamente temibile.
- Gallese Comune – mormorai a mezza voce, rispolverando in fretta il contenuto dell’esame di Interlocuzione.
- Non farci male, eh – mi raccomandò Hagrid, lievemente apprensivo.
Nel frattempo, la bestiola aveva cominciato ad aggirarsi per la stanza, alternando zampettii rapidi a voletti frenetici da uccellino in gabbia. Con piccoli getti di fuoco dalle frogie, aveva subito cominciato ad appiccare il fuoco alle tappezzerie tarmate di quella lugubre sala.
- Ehi tu! Smettila subito! – gli urlai nel mio draghese dalla pronuncia traballante.
Quello mi ignorò.
In un angolo della stanza, vidi con la coda dell’occhio che Moody scuoteva la testa, deluso.
- Mi hai sentita?
Nessuna risposta.
Ci stavo facendo la figura della scema, accidenti a me.
Pensa Penny, pensa. Perché mai quel benedettissimo rettile non mi dava ascolto? Sciocco gallese... oh! Ma certo che no: la sciocca ero io, che l’avevo apostrofato nel dialetto dei Neri delle Ebridi. Non si diceva “sgrunt-sgrunt”, ma “sgroont-sgrrooont”, testa di legno che non ero altro.
Reimpostata la pronuncia, mi rivolsi nuovamente al draghetto che, questa volta, girò il capo verso di me per ascoltarmi. Ripetei l’ordine. Lui si fermò, trattenendo il fumo.
- Torna nella cesta, da bravo, e Hagrid ti darà... ti darà un bel coniglietto.
Il rettile eseguì.
- Bravissima Penny! – esclamò Hagrid, battendo forte le mani. Gli ero sempre stata simpatica e alla fine del sesto anno, dopo che le cure di Madama Chips mi avevano guarita dall’infausto incontro col Basilisco, aveva passato intere giornate assediandomi per sapere come era fatto il Re dei Serpenti.
Io gli rivolsi un gran sorriso, finalmente soddisfatta di me stessa.
- Davvero niente male, principessina – gracchiò Moody, tendendomi la mano affinché io gliela stringessi. Questo suo gesto valse per me più di mille parole. – Pronta per fare un bel viaggetto?
- Il Gallese attende il suo coniglio, Hagrid – dissi io, per tutta risposta.
 
Il viaggio alla volta di Bucarest fu sorprendentemente rapido.
I membri dell’Ordine disponevano di mezzi magici illegali ed autoprodotti, per cui recuperare una Passaporta Internazionale non rappresentò il minimo problema per loro; il giorno dopo, alle prime luci dell’alba, un certo Sturgis Podmore venne a recuperarmi a casa del professor Vitious per accompagnarmi a destinazione.
“Perché non si sa mai” aveva ironizzato Moody, al termine di una serie di secche disposizioni. “Se la principessa perde la scarpetta per strada, sono guai”.
Da Bucarest alla catena dei Carpazi, sede dell’importantissima Riserva dei Lungocorno Rumeni, fu invece una bella trafila, sommamente stancante ed apparentemente eterna. I confini della Riserva erano schermati da incantesimi ad altissima protezione, cosicchè era impossibile varcarli con i più comuni mezzi magici; io e Sturgis dovemmo compiere lunghi giri e sottoporci ad estenuanti procedimenti di identificazione prima di riuscire a raggiungere la tetra casa di pietra grigia che fungeva da sede amministrativa e da ricovero per il personale.
L’equipe principale, mi fu detto, era composta da una quindicina di persone, suddivise in veterimagici, allevatori, domatori e schiantatori. Al mio arrivo circa la metà degli addetti si trovava sul campo; in ogni caso la mia presenza, data l’assoluta scarsità di interpreti umano-draghese, venne salutata con un certo entusiasmo.
Quella sera, dopo aver sistemato il volumetto di Dialetti dell’Est sul panchetto che mi faceva da comodino, stramazzai sul mio ruvido pagliericcio imbottito di foglie di granoturco. L’ambiente era eccezionalmente rustico; il giogo di montagne che circondava la casa era impervio ed aveva un aspetto incombente e minaccioso.
Mi sentivo una specie di Avvincino fuor d’acqua.
Da una parte, avvertivo un fastidioso senso di smarrimento e faticavo a capacitarmi del fatto di ritrovarmi catapultata, praticamente da un giorno all’altro, così lontano da casa, in un altro Paese e, per giunta, in una Riserva rigurgitante bestiacce ferocissime ed ignivome. Dall’altra, però, quel senso di aspettativa instillatomi dalla consapevolezza di essermi ficcata in un qualcosa di eletrizzante e avventuroso mi piaceva. Non avrei saputo spiegare il perché ma, per la prima volta da quell’ormai lontano finesettimana della Coppa del Mondo di Quidditch, avevo la sensazione di respirare la vita a pieni polmoni.
 
Il giorno seguente, subito dopo colazione, Sturgis Podmore si accomiatò da me e fece ritorno a Londra.
- Charles è già stato avvisato – mi sussurrò mentre, tentando di non dare troppo nell’occhio per fare sì che gli altri non si accorgessero di nulla, mi salutava con un abbraccio. – Ci penserà lui ad informarti circa la Missione.
Charles?
Missione?
Nessuno, a Londra, si era premurato di farmi sapere in che cosa, esattamente, avrebbero dovuto consistere i miei servigi. Al Quartier Generale si respirava un’aria di intensa cospirazione e, men’ero accorta fin da subito, le informazioni venivano accuratamente tenute sotto chiave per evitare eventuali fughe di notizie.
Lo stesso Sturgis, durante il nostro viaggio, si era scucito assai poco: e difatti, da quanto avevo pian piano cominciato ad intuire, meno se ne sapeva, meno rischi si correvano.
Una volta rimasta sola, comunque, ritenni inutile temporeggiare oltre.
- E Charles, è in sede? – domandai, con falsa dinsinvoltura, allo sparuto gruppetto di maghi e di streghe seduti attorno al tavolo della colazione.
- Charles? Charlie, vorrai dire – rise Mircea, una paffuta strega di mezz’età che, in quel momento, sorseggiava un’abbondante misura di Caffelatte Corroborante da una tazza sbeccata.
- Proprio lui – mentii io, come se nulla fosse, per poi aggiungere. – Non l’ho ancora visto... (anche se, in effetti, sarebbe stato meglio dire che non l’avevo mai visto).
- Oh sì – mi rispose allegramente un affabile mago barbuto, che rispondeva al nome di Freiwald Brancusi. – Ieri sera è rincasato molto tardi, ma a quest’ora è già in piedi.
- Già. Quel vulcano di Charlie è già giù alle fucine a sistemare le uova – soggiunse Mircea, allungando le dita per afferrare la zuccheriera. - Scendi pure: lo troverai là.
 
Mi piacerebbe trovare le parole giuste per descrivere in maniera efficace quello che provai, quel mattino di metà luglio, nell’imbattermi, del tutto inaspettatamente, in quella strepitosa persona che, in men che non si dica, mi avrebbe rapito il cuore.
Ripensandoci in seguito, mi diedi più volte della stupida per il fatto di non averci pensato prima: avrei dovuto arrivarci da sola attraverso una semplicissima associazione di idee, roba che il Batacchio-Aquila della Sala Comune reputerebbe una sciaradina da primo anno. Perché io lo sapevo – lo avevo sempre saputo – che uno dei fratelli maggiori di Percy (in concomitanza col quale, peraltro, avevo anche frequentato Hogwarts per ben tre anni, pur non avendolo mai conosciuto di persona) viveva in Romania e lavorava con i draghi.
Semplice, no?
Romania + draghi + “Charlie”.
Uguale, guarda caso, Weasley, perdincicirce.
“Eh sì che sei una Corvonero” mi avrebbe detto mamma, modulando la voce nel suo più pungente tono di rimprovero.
Macché.
La sorpresa dovevo proprio beccarmela tutta, dall’inizio alla fine.
E che razza di sorpresa, ohibò.
 
Le fucine erano ubicate in un locale allestito ad uopo, un basso casale anch’esso costruito in pietra, parzialmente interrato ed afflitto da un caldo a dir poco soffocante.
Alcuni locali erano adibiti a fucina vera e propria e ospitavano svariati strumenti da fabbro come pinze, martelli, tenaglie e mantici. Una volta appurato che quelle stanze erano tutte vuote, mi slacciai un bottone della camicetta e passai oltre dirigendomi verso il fondo del corridoio, dal quale un bagliore intermittente aveva richiamato la mia attenzione.
Mentre procedevo, al baluginio di fiamme accese si sovrappose una voce maschile dal timbro piuttosto grave che canticchiava un motivetto allegro.
- Ehm... permesso? – chiamai avanzando di un passo, con circospezione, per poi arrestarmi di colpo.
All’interno della stanzetta c’era un ragazzo.
Mi dava le spalle ed io non riuscivo a scorgergli il viso, peraltro protetto da una pesante maschera integrale da saldatore, ma si capiva che era piuttosto giovane perché... beh, perché le sue membra presentavano un aspetto decisamente tonico.
Non troppo alto ma ben proporzionato, fisico asciutto, pelle chiara punteggiata di efelidi, il torace privo di maglietta schermato sul davanti da uno spesso grembiulone di cuoio. Lentamente, canticchiando a mezza voce, il ragazzo si sporgeva in direzione di un enorme forno di mattoni e, facendo levitare un paio di spesse pinze di ferro con la bacchetta, rigirava con cura delle grosse uova nerastre.
Io ero rimasta a bocca aperta.
I muscoli delle braccia guizzavano alla luce tremula delle fiamme, animandosi di chiaroscuri che ricordavano quelli delle statue scolpite nel marmo. I fianchi snelli, che io osservai vergognandomi come una ladra, scomparivano all’interno della cintura dei pantaloni, neri e un po’ sbiaditi.
Ma per tutti i diademi...
Ci misi diversi secondi ad accorgermene eppure, forse, quel dettaglio avrebbe dovuto essere il primo a catturare il mio sguardo. Da sotto il cappuccio del copricapo spuntava una coda di cavallo: un ciuffo di capelli folti, mossi e... e rossi, rossi di una tonalità inconfondibile, che io sarei stata capace di riconoscere fra mille.
Rosso Weasley, per tutte le gonne di tulle di Morgana.
E proprio mentre io, come una sciocca ninfetta da Settimanale delle Streghette, me ne stavo lì imbambolata a guardarlo, il giovinotto si girò verso di me.
- Oh – fu il suo commento mentre, dopo aver fatto levitare le pinze fino al loro supporto, si sfilava la maschera e mi metteva a fuoco (e mai locuzione mi parve più appropriata, data l’intensità del mio avvampare in quel momento).
Io non potevo credere ai miei occhi.
Avrei dovuto arrivarci da sola, lo dico e lo ripeto.
Non ci ero arrivata, però, e il risultato era stato assolutamente sbalorditivo, per tutte le fatine del Bosco di Farfin.
Perché quello, signore e signori, era nientepopodimeno che il fratello maggiore del mio ex (l'avevo capita, finalmente) fidanzato.
Quello, gente, era Charlie Weasley.

Post scriptum:
Questo secondo capitolo viene pubblicato a tempo record perché, in parte, era già pronto.
Nel frattempo, temo che Hemingway si rivolti freneticamente nella tomba per la storpiatura del suo eccelso Per chi suona la campana? Ahimé, non ho potuto resistere al desiderio di adattare il titolo della sua opera immortale a questo capitolo in cui la nostra Penny comincia a prendere fuoco!
Nel mio HC Oliver Baston e Percy Weasley sono stati compagni di classe e, nonostante le loro evidenti differenze, hanno sempre intrattenuto rapporti di profonda amicizia.

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Capitolo 3
*** Dalla padella... alla brace. ***


3. Dalla padella... alla brace.
 
Due, a mio parere, sono le Leggi Fondamentali di Weasley, anzi no: tre.
La prima. Il mondo è troppo piccolo e gli Weasley troppo numerosi. Ovunque andrai, ti imbatterai in uno di loro.
La seconda. Gli Weasley ti si infilano sotto pelle. Chi ne ha avuto uno, lo sa.
La terza. Molly Prewett in Weasley merita il Premio alla Carriera per aver sfornato una serie ininterrotta di sette inestimabili opere d'arte.
A seconda del caso, la vita ci vede protagonisti di circostanze che corrispondono o alla prima, o alla seconda, o alla terza legge; o fors’anche a più d'una, magari raggruppate a due a due.
Io, in quella memorabile mattina resa rovente dalle fiamme della fucina e dal mio sangue surriscaldato, ebbi piena coscienza del fatto che, alla specifica situazione che vedeva protagonista me, si applicavano perfettamente tutte e tre.
Perché uno, mi trovavo in paese lontano e mi ero imbattuta in un Weasley. Due, il mio Weasley precedente mi mancava moltissimo; non saprei dirvi se in qualità di Percy, ma certamente in qualità di Weasley. E tre: Charlie Weasley in tenuta da fabbro era un assoluto capolavoro.
 
Il ragazzo, in piedi davanti a me, mi scrutava assottigliando gli occhi.
- Chi abbiamo qui? - mi chiese, sfilandosi il grembiulone di cuoio e mettendo in mostra un ensemble di obliqui da far impallidire un Bronzo di Riace. Prima quiddista, poi domatore di draghi: aveva avuto modo di lavorarci parecchio, il giovanotto, a quel suo addome da capogiro. Io tentai di ricompormi un minimo: quello era il segnale convenuto, la frase di riconoscimento. Non potevo avere una defaillance proprio in quel momento.
- La... la Principessa di Itaca - risposi, scandendo lentamente il nome in codice fornitomi da Alastor Moody prima della partenza.
Senza smettere di guardarmi, Charlie appellò una maglietta bianca da un attaccapanni poco lontano e, con mio sommo rammarico, se la infilò. Nonostante la velocità della vestizione, però, ebbi modo di notare che, sul suo pettorale sinistro, risaltava il tatuaggio stilizzato di una piccola Furia Buia; fu solo un'immagine fugace ma, chissà perché, capace d'imprimermisi in modo indelebile nelle retine.
- E cosa sei venuta a fare? – domandò ancora, sistemandosi gli spessi braccialetti, simili a polsini di cuoio, che portava su entrambi i polsi.
A ordire segreti e a tessere trame - recitai io come da copione, decisamente più concentrata in seguito all’occultamento di quella sua strepitosa tartaruga marmorea.
Lui venne avanti e mi tese la mano, che io strinsi con ostentata professionalità.
- Benvenuta in Romania, Penelope - mi disse, rivolgendomi un caldo sorriso - e perdona la noia di questi procedimenti di riconoscimento...
- Figurati - assentii io, sorridendogli a mia volta. - Da quanto ho capito, dobbiamo fare molta attenzione...
- Oh sì - convenne subito lui per poi aggiungere, forse mosso dal buon proposito di rompere il ghiaccio: - anche se nel tuo caso, forse, non ce ne sarebbe stato bisogno...
- Ah no? - mi stupii. - E come mai?
- Mah, perché... – rispose lui, assorrendo leggermente. – Ecco, diciamo che la descrizione fornitami da Malocchio non lasciava adito a dubbi....
- E perché? Che cosa ti ha detto? - lo incalzai io, subitamente sospettosa.
- Oh beh, nulla di che - tossicchiò lui, rendendosi conto di averlo ridotto in granita fina, il ghiaccio che aveva desiderato rompere.
Lo voglio sapere! - berciai, stridula come un'unghia strisciata sulla lavagna.
 
Una specie di fatina turchina tutta nastrini azzurri e boccoli biondi, eh? La confessione di Charlie mi aveva sommamente impermalita. Ah! Ma ve la faccio vedere io...
Nonostante la presentazione tutt’altro che lusinghiera, però, dovevo ammettere che sia lui che gli altri miei colleghi e colleghe della Riserva non mi avevano riservato alcun pregiudizio.
Mi trovavo da una settimana in Romania e, al di là di ogni mia più rosea previsione, le cose stavano andando piuttosto bene.
Il personale della Riserva era composto da streghe e maghi provenienti da ogni parte del mondo, ciascuno con la sua storia alle spalle e tutti abbastanza simpatici. La maggior parte di loro parlava l’inglese e ciò mi permise di inserirmi facilmente all’interno del gruppo nonostante le mie lacune linguistiche dato che paradossalmente, al contrario delle lingue dei rettili, gli idiomi umani mi erano pressoché estranei.
Quanto ai draghi, avevo già avuto modo di avvicinare i Lungocorni addomesticati, che vivevano nei pressi della Sede ed erano suddivisi in quattro categorie: cuccioli, giovani, adulti e anziani. Visti così, ad una distanza ravvicinata, anche i piccoli mi erano sembrati estremamente pericolosi, soprattutto quando scuotevano il capo rischiando di infilzare la gente con le loro lunghe corna dorate.
Eppure, dopo aver trascorso una mezza giornata ad affinare la pronuncia, avevo scoperto che quei minacciosi draghi rumeni erano dei tipi assolutamente... ragionevoli. Ascoltavano, comprendevano e, quando lo ritenevano opportuno, agivano di conseguenza. Alcuni di loro, addirittura, si erano degnati di rispondermi verbalmente, il che mi aveva fatto un immenso piacere, soprattutto perché avevo subito notato l’espressione ammirata dei miei colleghi.
Non avrei potuto essere più orgogliosa di me stessa.
Certo: in un paio di occasioni, soprattutto in presenza degli esemplari adulti, avevo avuto l’impressione che Charlie mi si fosse un po’anticipato frapponendosi fra me e gli animali, come se temesse che io non fossi in grado di cavarmela da sola (cosa che dal punto di vista fisico, a conti fatti, era assolutamente vera). Probabilmente la mia presentazione inoltratagli da Moody l’aveva lasciato alquanto impensierito e il mio aspetto da ragazza di buona famiglia, con camicetta bianca e gonna a pieghe, doveva avere corroborato le sue incertezze.
Io non me l’ero presa.
A me piuttosto, il fatto di lavorare gomito a gomito con il fratello del mio ex ragazzo, faceva un po’ specie. Perché, indubbiamente la presenza di Charlie mi rendeva più difficile superare lo schiaffo morale infertami da Percy;  era pur vero che il secondogenito Weasley era subito (e del tutto inconsapevolmente) riuscito a richiamare la mia attenzione, ma al tempo stesso era come se a causa della sua presenza il ricordo di Percy, ancora troppo recente, faticasse il doppio a dissolversi. Era come se, nonostante le enormi differenze esistenti fra i due, un Weasley si fosse sovrapposto all’altro, laciandomi piuttosto confusa e disorientata.
Dal canto suo, della mia relazione di quasi cinque anni con uno dei suoi fratelli minori, Charlie sembrava non saperne assolutamente nulla. Mai un commento, mai un’allusione a riguardo. Del resto, quando lui ancora frequentava la scuola, io e Percy eravamo ancora lungi dallo stare insieme e in seguito, durante gli anni del nostro fidanzamento, Charlie aveva vissuto quasi ininterrottamente in Romania. Forse lui neppure immaginava che il suo pomposo fratellino avesse frequentato tanto a lungo una ragazza; e probabilmente Percy, così ermeticamente riservato, non si era mai dato il disturbo di informarlo durante le sue rare visite.
E così io, ritenendo del tutto inutile metterlo al corrente di fatti che, peraltro, non mi andava affatto di rivangare, decisi di tenermi la cosa per me e di concentrarmi sul mio lavoro.
 
Charlie era davvero un bel tipo: allegro, disponibile e di buon cuore.
Era anche un gran lavoratore, spontaneo, esuberante, sempre pronto a rimboccarsi le maniche. Sapevo che ai tempi della scuola era stato uno studente modello, Prefetto e Caposcuola, ma anche un ottimo Cercatore sul campo da Quidditch, oltreché un ragazzo piuttosto ambito dalle compagne; condizione della quale, però, lui aveva sempre approfittato assai poco. Con Percy condivideva l’impegno nelle cose, che amava fare per bene e cui si dedicava con immensa abnegazione; non possedeva però i suoi modi seriosi e, nonostante gli ottimi risultati, era rumoroso e disordinato, sempre pronto alla risata e assai poco incline all’eleganza. I suoi modi di fare erano più simili a quelli dei gemelli, Fred e George, che conoscevo un pochino meglio; come loro, Charlie era sempre propenso al sorriso anche se, effettivamente, non era un burlone.
E poi, pensavo io osservandolo affascinata, amava il suo lavoro.
Amava i draghi.
A quelle creature, il fratello maggiore di Percy si dedicava anima e corpo, con zelo e passione. Nei loro confronti era sollecito e amorevole; spesso, dimostrava anche una buona dose di coraggio nell’accostarsi senza esitazionea a quei bestioni da cinque tonnellate e aliti roventi, senza però commettere mai l’errore di prenderli sottogamba. Li temeva il giusto e non li sottovalutava né li sfidava perché, saggiamente, sapeva che erano sempre loro, e non lui, ad avere il controllo della situazione. A questo proposito, in un’occasione, mi aveva mostrato le cicatrici da ustione che si era beccato anni prima per eccesso di baldanza nei confronti di un esemplare selvaggio.
Laddove il fuoco del Lungocorno gli aveva quasi arrostito l’avambraccio destro, la pelle presentava ancora un aspetto lucido e arrossato.
- Non temere, però – mi aveva detto in tono rassicurante. – Domani, quando finalmente ti porteremo a vedere i selvatici, adotteremo tutte le misure del caso.
 
Il giorno dopo, alle prime luci dell’alba, ero già in piedi: non potevo certo rischiare di presentarmi in ritardo alla mia prima missione sul campo.
“Ti vengo a chiamare io alle cinque e quarantacinque” mi aveva detto Charlie prima di augurarmi la buonanotte. “Fatti trovare pronta”.
Io alle cinque e mezza ero già lavata, pettinata, vestita e in sbadigliante attesa. Talmente insonnolita, in effetti, che dopo qualche attimo di torpore mi riscossi e realizzai che erano già le sei, e che Charlie non si era ancora fatto vivo.
Che si fosse dimenticato di mettere la sveglia?
“Forse è meglio se lo chiamo io” pensai, tirandomi su a fatica dalla seggiola.
E così, un po' sovrappensiero e ancora piuttosto assonnata, uscii e, percorso il tratto di corridoio che mi separava dai suoi alloggi, mi avvicinai alla porta della sua stanza e mi apprestai a bussare.
Improvvisamente mi bloccai.
Dall'interno proveniva un rumore sospetto che, quando fui in grado di capire meglio di cosa si trattava, mi fece rimanere lì impalata davanti all'uscio, con la mia stupida mano sollevata a mezz’aria.
Una voce inequivocabilmente femminile e piuttosto arrochita sussurrava qualcosa in una lingua sconosciuta, alternando brevi parole concitate, che suonavano simili ad un indistinto Wsslee, a mugolii di intensità crescente.
Io ero letteralmente impietrita.
Immobile dinnanzi alla porta di quella stanza pessimamente insonorizzata, dentro la quale si stava consumando un qualcosa che io avevo ben compreso, la mia fervida immaginazione decollò per un volo pindarico dai contorni decisamente torbidi, che mi condannò a combustione rapida manco fossi un novello Icaro co’le sue ingenue ali di cera.
Dovetti chiudere di scatto gli occhi, trattenendo il respiro e tappandomi la bocca con il palmo della mano.
E fu peggio.
Mi sembrava quasi di vederlo, Charlie Weasley, intento a muovere i suoi bei fianchi snelli per regalare un piacere sublime ad una fortunatissima sconosciuta. Anzi, a volere essere sinceri era come se lo vedessi proprio.
E mentre quella sfilza di immagini assolutamente disdicevoli sfilava rapida dinnanzi ai miei occhi rischiando seriamente di farmi soffocare, un gemito prolungato e particolarmente acuto (che la donzella coinvolta non si curò minimamente di smorzare o forse, chissà, non le era riuscito di farlo) confermò le mie più inconfessabili teorie, facendomi quasi cadere all'indietro. 
Là dentro c’era uno che, per la barba di Merlino, ci sapeva davvero fare.
 
Oh, ma per Merlino” pensai, accalorata “deve essere... è... maledettamente bravo... oh, per Priscilla la Saggia, chissà perché me lo ero immaginato... Oh! Leva le tende, sciocca di una Penny: cos'è? Vuoi forse farti sorprendere sul luogo del delizio... ehm, del delitto?!”
Infiammata oltre ogni dire arretrai di qualche passo, per poi lanciarmi in una fuga precipitosa.
Oddio... oddio... continuavo a ripetermi, sgambettando frenetica qua e là, un po' a casaccio. E andai avanti così per un bel po' finché, svoltando nel corridoio della sala da pranzo, non andai a cozzare contro qualcuno che procedeva in direzione opposta.
L'impatto contro un corpo di una decina di volte più solido del mio mi fece letteralmente volare a gambe all'aria.
- Penny!... Oh, scusami tanto!...
Io spalancai gli occhi, sbigottita. In piedi davanti a me, vestito di tutto punto e con le guance rosse di chi è appena rientrato alla base, Charlie mi guardava meravigliato.
- Ch-Charlie?!
Il ragazzo mi sorrise, aiutandomi a rialzarmi. La sua mano, che io impiegai un millesimo di secondo in più del dovuto a lasciare andare, era calda e leggermente ruvida.
- Oh, Charlie - farfugliai, imbarazzata ai pensieri che mi erano frullati per la testa poco prima. - Sei... qua. Sì perché ecco, avevo pensato che... che...
Charlie si lasciò sfuggire una risata fragorosa.
- Sei passata dalla mia stanza a chiamarmi? - mi chiese, trattenendo a stento le risa.
Io avevo le guance in fiamme, per non parlare delle viscere, cosicché fui in grado di borbottare soltanto un contrito:
- Oh, beh.
- Glielo dico sempre, a quel marpione di Wassily, di insonorizzare la stanza quando si porta a casa le sue conquiste - disse Charlie, alzando le spalle. - Capisco che non siamo in un convento, ma un po' di discrezione non guasterebbe, dico bene?
All’udire le sue parole, io trasecolai.
Wassily.
Il compagno di stanza di Charlie. E non Weasley. Avrei dovuto pensarci che poteva trattarsi di lui, e invece no: al primo sospiro sospetto, avevo subito dato per scontato che si trattasse di Charlie. Il che, a pensarci bene, rivelava chiaramente quanto irrimediabilmente, ormai, io fossi partita per la tangente.
Anyway - continuò lui, sistemandosi con calma le due polsiere di cuoio - ora posso finalmente entrare per prendere lo zaino: è tutta notte che tento di rientrare.
- Tutta... notte? - pigolai io, strabuzzando gli occhi.
- Wassily mi ha appena mandato un Patronus per darmi il via libera – rispose lui con l’aria più naturale del mondo. – Finalmente hanno finito.
E poi, come se nulla fosse:
- Andiamo?
Le mie orecchie, decisamente purpuree, stentavano a credere a tale indelicatezza.
Il cameratismo maschile, a volte, riesce ad essere davvero disgustoso.
 
La mia prima esperienza con i draghi selvatici fu a dir poco traumatica.
Il giorno prima Freiwald e Mircea, di ritorno da una lungo giro di ispezione durato tre giorni, ci avevano avvisati di aver avvistato un nido incustodito nel settore nordovest della Riserva.
E così la mia prima missione come membro dell’equipe (della Missione con la M maiuscola non ne avevo saputo più nulla; evidentemente Charlie attendeva disposizioni da parte di Moody) avrebbe previsto un sopralluogo sul posto, in compagnia di Charlie e di quell’impudico di Wassily che, quel mattino, ci corse dietro tirandosi su con assoluta nonchalance la zip delle braghe.
Per fare prima, dopo avere annotato le coordinate sul diario di bordo, ricorremmo alla smaterializzazione.
- Vuoi fare tu, Penny? – mi chiese Charlie, con molto garbo (*).
- Ma certo – annuii io, assai lieta di potermi rendere utile.
In men che non si dica, raggiungemmo il nido.
Nei paraggi, calma piatta. Non un rumore, non un fruscio, niente di niente.
- Ce ne sono sette.
Wassily, laureato in veterimagica presso l’Università di Vladivostok, aveva contato velocemente le uova e, estratta una speciale bacchetta termosensibile dallo zaino, si apprestava a rilevare la temperatura superficiale dei gusci al fine di determinare per quanti giorni il nido fosse rimasto sguarnito.
Charlie, nel frattempo, percorreva a grandi passi il perimetro della radura, guardandosi intorno attentamente, la bacchetta sguainata. Io, in piedi poco lontano, me ne stavo ferma senza dire nulla.
- Che strano – stava dicendo Wassily – La temperatura è alta. Si direbbe che le uova abbiano ricevuto...
Un’ombra calò improvvisa su di noi, tanto ampia da offuscare il sole. Lo spostamento d’aria prodotto da un paio di immense ali agitate con furia ci fece cadere miseramente al suolo, tutti e tre.
Io cacciai un urlo, terrorizzata.
La draghessa si era avvicinata senza fare il minimo rumore: davvero impensabile, per una bestia di quattordici metri ed una stazza a dir poco mastodontica. Rapida come un lampo, con un colpo di coda che per miracolo non era gli stato fatale, aveva colpito Wassily facendolo volare lontano.
Io, manco a dirlo, mi feci prendere dal panico. Credo di aver gridato a perdifiato per almeno cinque minuti buoni, prima di ricompormi un minimo.
Charlie, invece, si era subito rialzato ed era corso verso il compagno, la cui bacchetta era stata sbalzata via al momento dell’impatto.
- Protego!
Uno Scudo prodotto all’ultimo momento salvò entrambi da rogo certo; la situazione, tuttavia, era ai massimi livelli di criticità.
La bestia ruggiva e, imbestialita (non sto a ripetere quanto mi fu dato di comprendere del suo discorso), tentava, alternativamente, di arrostire i due ragazzi e di infilzarli con le corna. Charlie si destreggiava con abilità, profondendosi in incantesimi protettivi veloci e sicuri, ma non sarebbe andato avanti ancora per molto. La forza e la potenza di un animale che una squadra di Schiantatori avrebbe domato a fatica erano decisamente sproporzionali alla resistenza di un ragazzo che, per quanto valoroso, aveva poco più di vent’anni e energie limitate.
E difatti, nel giro di pochi minuti, la situazione degenerò.
Mentre, nel tentativo di difendersi meglio, arretrava di un passo, Charlie inciampò nei piedi di quel rintronato di Wassily e cadde a terra, perdendo la concentrazione.
In un balzo, la draghessa fu loro addosso.
- Fermati, ti prego!
Le mie grida non sortirono alcun effetto nel bel mezzo di quel baccano infernale. La bestia ringhiava, Wassily urlava e Charlie osservava la scena con gli occhi sbarrati.
- Sonorus! – tentai allora, e questa volta la mia voce si spanse nell’aria, forte e chiara.
L’animale si fermò per poi voltarsi verso di me, incuriosito.
- Chi sei?
Ed io, dato che oramai ero in ballo, mi giocai il tutto per tutto. Tentando di mantenere la calma e pregando Priscilla che la mia pronuncia le riuscisse comprensibile (essendo di madrelingua anglosassone, gli idiomi neolatini (**) mi riuscivano con difficoltà), io le spiegai chi eravamo e come mai ci trovavamo lì.
- E-eravamo in p-pensiero per le sue uova, si... signora draghessa – le dissi, sperando vivamente che mi credesse.
Lei mi fissò sospettosa, indecisa se carbonizzarmi all’istante o cucinarmi a fiamma viva.
- La prego! – la scongiurai, trattenendo il respiro.
Improvvisamente, lei mi voltò le terga e andò ad accovacciarsi accanto al suo nido.
- Andatevene – sibilò, in un tono che mi fece rabbrividire e che mi ricordò l’inquietante pronuncia dei basilischi. – Fuori dalle squame.
E per porre fine alla discussione, la draghessa proruppe in un ruggito assordante che, in lingua corrente, potrebbe essere tradotto più o meno così:
- Per questa volta ho deciso di fidarmi della tua faccia da brava fatina e non vi faccio niente, ma ti avverto: se vi ribecco un'altra volta nei paraggi giuro che vi faccio a pezzi, parola mia.
E la volete sapere una cosa?
Ci avremmo messo la mano sul fuoco.
 
Dal punto di vista professionale, quindi, successo sfolgorante. Sul versante ormonico-sentimentale, invece, di male in peggio.
Perché c’era poco da fare.
Ero in crisi d’astinenza da Weasley, ormai l’avevo capito e, purtroppo per me, il fatto di trovarmene uno costantemente nei paraggi (e anche maledettamente attraente, peraltro) non migliorava di certo le cose.
Mettiamolo bene in chiaro: il mio fidanzamento con Percy s’era sempre mantenuto su un tipo di frequentazione che potrei definire “ad alto livello”, anche perché lui era proprio il tipo di ragazzo che piaceva a me, intelligente e di piglio intellettualoide.
Ciononostante, quello che c’era da fare lo avevamo fatto (alla facciaccia di quel benpensante di mio padre, che mai e poi mai avrebbe sospettato la verità): e non esagero quando dico che, anche su quel versante, Percy se la cavava egregiamente. Non che io disponessi di chissà quali termini di paragone, certo, eccezion fatta per un bacio strappatomi a tradimento da quello scellerato di Roger Davies che mi aveva acciuffata in un angolo della Sala Comune al settimo anno, e al quale però io avevo risposto con immenso sdegno e indignazione, scacciandolo in malo modo, sentendomi poi una vera e propria sgualdrina nei confronti di Percy.
Però insomma, certe cose ero capace di valutarle anch’io.
Nei mesi che avevano preceduto la nostra rottura, tuttavia, i nostri rendez-vous romantici si erano drasticamente diradati. Vuoi le mie lezioni a Cambridge, vuoi il fatto che Percy, spesso e volentieri, era impegnato ad accompagnare il Ministro qua e là, vuoi le nostre sempre più frequenti incomprensioni.
Sta di fatto che, a voler dire le cose come stavano,  mi trovavo costretta ormai da mesi ad una dieta forzata. Non ero mai stata un’assatanata né d’indole particolarmente dissoluta (tutto il contrario, semmai), e ci mancherebbe, ma insomma, avevo poco più di vent’anni e, a peggiorare le cose, ero dotata di una fantasia parecchio fervida. Cosicché Charlie, con i suoi capelli rossi che attiravano il mio sguardo come un punto focale nella notte, con la sua prorompente vitalità , il suo aspetto incantevole e il suo carattere amabile, unitamente all’inconfondibile aroma di Weasley che mi attraeva più del miele le api, rischiava veramente di farmi uscire di senno.
Soprattutto, evidentemente, dopo che lo avevo visto in azione e che me lo ero immaginato impegnato in certe... cose.
Ovviamente, però, io mi guardavo bene dal far trasparire ciò che provavo.
Charlie, a quanto pareva, ignorava i miei trascorsi di fidanzata di Percy, ma il fatto di esserne al corrente io mi bastava. Oltretutto, ero convinta che una come me non fosse, per così dire, di suo gusto. Era sempre carino e gentile nei miei confronti, protettivo il giusto, e anche gioviale e cameratesco quanto bastava per farmi capire che gli andavo a genio.
Al pari del resto del mondo.
Perché Charlie era fatto così: gli stavano simpatici tutti. Era esuberante, allegro, energico per natura.
E buono.
Ma mai, mai, avrei sospettato di potergli piacere anche in altri sensi.
Evidentemente, non avevo preso in dovuta considerazione la Quarta Legge di Weasley, che così recita: se sei piaciuta ad un Weasley, esistono grandi chances che tu piaccia anche agli altri.
 
E questa consapevolezza, del tutto inattesa, mi aveva colpita a tradimento l’ultimo giorno di quel luglio infuocato, abbattendosi su di me con la forza di un uragano.
In occasione della partenza di Charlie, che si sarebbe recato in Inghilterra per prendere parte al matrimonio di suo fratello Bill, il personale della Riserva aveva organizzato una piccola festa di saluto. La sua permanenza fuori sede sarebbe durata solo una manciata di giorni e quindi non si trattava di nulla di che, ma si sa, quando si vive isolati dal mondo e a contatto stretto e costante con draghi feroci, ogni motivo è valido per festeggiare.
E quella sera con mia grande sorpresa, dopo un paio di giri di Pálinka per scaldare gli animi (l’estate rumena non è propriamente calda, soprattutto alle pendici dei Monti Carpazi), Charlie aveva fatto il giro del tavolo da pranzo ed aveva preso posto accanto a me sulla lunga panca di legno che fungeva da sedile.
Seduto dall’altra parte, evidentemente con la chiara intenzione di rimorchiarmi, quell’assetato di Wassily si dedicava da una buona mezz’ora a illustrarmi le millantate doti afrodisiache delle corna dei Lungocorni, ambitissime fra i pozionisti; ed io, già da tempo, avevo inserito il pilota automatico ed annuivo educatamente senza preoccuparmi di ascoltarlo affatto.
- Scusa tanto, eh – esordì Charlie rivolgendo un largo sorriso al suo amico. – Sono venuto a salvare la mia connazionale dalle grinfie di un allupato mannaro della profonda Siberia.
- E la suddetta – volle sapere Wassily, alzando un dito – desidera essere salvata?
- Assolutamente sì – risposi io, sollevando il calice al suo indirizzo.
- E così sia – replicò il russo con un accenno d’inchino. Poi, raccattata la sua bottiglietta di vodka, levò le tende. – Prosit a voi, gelidi anglosassoni.
- Scusalo, eh – ridacchiò Charlie, scuotendo la testa.
- Wassily è uno svergognato – affermai io, rivolgendogli un’occhiata allegra. E poi, sentendomi in vena di inedite audacie, gli proposi:
- Usciamo un po’? Fa un caldo boia qua dentro.
- Agli ordini.
All’esterno, come da previsione, quasi una ventina di gradi in meno; ma nei mantelli di lana leggera ci si stava bene.
Era una bella serata: le stelle ammiccavano fra i picchi montuosi che circondavano la casa, e la luna ammantava il paesaggio di morbide ombre argentate.
- Li senti? – mi chiese Charlie dopo qualche minuto d’imbarazzato silenzio.
Lontano, fra le rocce irte, echeggiavano i richiami notturni dei Lungocorni selvatici.
- Sì.
Altro silenzio.
Charlie, i gomiti appoggiati al parapetto di legno della veranda, si trovava proprio accanto a me; la sua spalla sfiorava la mia ed io, che avevo smarrito in un secondo tutta la mia balda spavalderia, non avevo neanche il coraggio di girarmi a guardarlo.
- Sai Penelope – mi disse ad un certo punto lui, rompendo improvvisamente il silenzio. – Ogni tanto la tua presenza qui mi sembra così... strana.
- A chi lo dici – ammisi precipitosamente io, sbuffando fuori l’aria e guardandolo di sottecchi. – Non c’entro proprio niente con questo tipo di ambiente, in effetti. Ho ancora tante cose da imparare...
- Sei stata molto brava quel giorno, invece – mi disse lui, ed io ebbi l’impressione di scorgere una muta ammirazione nell’occhiata che mi rivolse. – Se non fosse stato per te, ce la saremmo vista davvero brutta.
Io scossi la testa, un po’ imbarazzata.
- Il fatto è – proseguì Charlie girando nuovamente il capo verso di me e costringendomi così a fare altrettanto, per evitargli la spiacevole sensazione di parlare da solo – che una ragazza come te è rara da trovare, in una Riserva di rozzoni come noialtri.
- Oh – risi io nervosamente, tentando disperatamente di sdrammatizzare – ma a me, i rozzoni, piacciono un sacco!
- Ne dubito.
Charlie scosse la testa, poco convinto. Evidentemente, l’ipotesi che a una principessina costantemente vestita di celeste potesse andare a genio il tipo-magiboscaiolo non lo convinceva affatto. E, forse, avrebbe continuato ad ignorare la cosa ancora a lungo se non che proprio in quel mentre, barbina, la luna decise di fare capolino da dietro una nuvola.
I raggi dell’astro si riversarono come una cascata di luce sui capelli fulvi di Charlie, facendoli risplendere come una colata di rame fuso tanto bello da lasciarmi abbagliata. Non mi seppi trattenere: agii d'impulso e, ripetendo il gesto spontaneo che avevo compiuto innumerevoli volte all'indirizzo di Percy, tesi la mano per affondare le dita in quella chioma di fuoco mentre lui sgranava gli occhi, caldi come crema di nocciole.
Mi sentii afferrare i polsi da una morsa ferrea. Un secondo dopo, Charlie mi aveva fatto descrivere una brusca giravolta, intrappolandomi contro la righiera. E il modo in cui mi si accostava, l’esuberanza e l’impeto che dimostrò, mi rivelarono che anche lui era attratto da me, almeno tanto quanto lo ero io.
A quel contatto, io credetti seriamente di prendere fuoco.
Charlie era... oh. Attraente in modo quasi intollerabile, seducente a livelli importanti, Weasley in ogni sua fibra, dai piedi fino alle punte dei fiammeggianti capelli. 
E mi voleva.
Ne ebbi piena certezza nel momento in cui le sue labbra si posarono sulle mie, facendomele ardere come peperoncino di Cayenna. Il tocco dei suoi polpastrelli un po’ callosi sulla pelle palpitante del collo mi strappò un sospiro e mi incendiò le viscere.
Non ero mai stata baciata in quel modo e, lo confesso, la cosa annientò completamente gli ultimi rimasugli di razionalità che mi rimanevano. Ho sempre pensato che, in quei fatidici istanti, sarei stata capace di concedergli ad occhi chiusi qualsiasi cosa lui avesse desiderato.
Per il momento, però, ci limitammo a baciarci con voracità crescente finché, poco lontano, un grido ci interruppe bruscamente.
Weasley! – Mircea, affacciata al riquadro luminoso della porta, lo richiamava dentro. – La Passaporta è pronta!
- Oh, per Godric – esclamò lui un po’affannato.
Lo vidi aprire piano piano gli occhi, le mani ruvide ancora sollevate ad incorniciarmi il viso.
– È ora di andare. Ma non ti preoccupare, Principenny – mi disse allegramente, prima di staccarsi da me con un colpo di reni e di lasciarmi lì, boccheggiante e paonazza. – Quando torno, se lo vorrai, riprendiamo il discorso.
 
Post-scriptum:
Aaah! Il cliché dei due polletti che escono a prendere una boccata d’aria e che poi si impiastricciano su una ringhiera: che amabile ritritaggine!... Da brava amante delle telenovelas, lo confesso: a-do-ro.
Non aggiungo altro perché sono provata.
(*) Da canon sappiamo che Charlie, quando si smaterializza, ha qualche difficoltà nell’azzeccare le coordinate, facendosi anche bocciare all’esame. Ho pensato di mantenere anche qui questa sua caratteristica, tanto per deglorificarlo un po’.
(**) Il draghese rumeno, proprio come il rumeno degli umani, è una lingua neolatina.

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Capitolo 4
*** Situazioni proibite dal Protocollo di Kyoto. ***


4. Situazioni proibite dal Protocollo di Kyoto.
 
Glielo devo dire.
Charlie aveva tutto il diritto di saperlo: la consapevolezza di doverlo assolutamente mettere al corrente dei miei trascorsi di fidanzata di Percy mi assillò a oltranza durante i giorni successivi alla sua partenza, dalla mattina alla sera, senza interruzioni.
Appena torna glielo dico.
C'era giusto un piccolo problema, però: Charlie non tornava.
Da quanto sapevo, si sarebbe dovuto trattenere fuori sede soltanto per una manciata di giorni, giusto il tempo di prendere parte al matrimonio di suo fratello, godersi un po' di tempo in famiglia e poi rientrare in Romania.
Quei "due o tre giorni", a me, parvero eterni, e più di una volta mi sorpresi ad osservare l'orologio da polso per verificare che non fosse rotto. Ero agitata e impaziente, ma quando il giorno stabilito per il ritorno arrivò e trascorse senza che di Charlie si vedesse neppure l'ombra, la mia inquietudine cominciò a crescere a dismisura. 
E, a peggiorare ulteriormente le cose, contribuì il giro di gufi mattutino cui corrispondeva la consegna dei giornali e della posta.
Da qualche anno Charlie era abbonato al Cavillo. Io quel giornale non lo avevo mai letto, ma sapevo che la testata apparteneva alla famiglia di una mia giovane compagna di Casa, tale Luna Lovegood, una ragazza apparentemente strampalata ma, sotto sotto, dotata di una saggezza pressoché assoluta. Da quando mi trovavo alla Riserva, comunque, avevo preso l'abitudine di farmi prestare da Charlie le sue copie, tanto per mantenermi aggiornata sulla situazione in Patria; e quale non fu la mia sorpresa quando, in quel brumoso mattino di inizio agosto, un gufo trafelato lasciò cadere nel mio piatto un involto protetto da carta oleata, sul quale era affisso un bigliettino che diceva:
Ci scusiamo con la gentile utenza per i ritardi nelle consegne, avvenuti per causa di forza maggiore.
Un po' nervosa aprii il pacchetto ed estrassi il giornale, avida di notizie. Manco a dirlo il titolo, stampato a lettere cubitali sulla prima pagina, mi strappò un grido di sorpresa mista a sgomento, che indusse Mircea e Freiwald a piantare in asso le uova strapazzate e a raggiungermi di corsa.
- Oh, per Priscilla... per la saggia Priscilla... - continuavo a ripetere, le mani premute sulla bocca.
- "Rufus Scrimgeour assassinato" - lesse Freiwald ad alta voce. - "Ministero della Magia destituito da tre giorni".
Non sapevo che cosa fare. 
Con le gambe che mi tremavano mi alzai in piedi, decisa a raggiungere la mia stanza e fare le valigie per tornarmene seduta stante in Inghilterra.
Proprio in quel momento, però, un provvidenziale uccellino giallo e nero si fiondò dentro attraverso finestra semiaperta e mi consgenò un messaggio di chiaro contrordine:
Resta ferma dove sei, Principessa di Itaca. Il Barone Rosso sarà presto da te con nuove istruzioni. 
E sotto, una firma minuscola che, un istante dopo la lettura, svanì dalla carta:
Sturgis.
 
Le notizie riportate dall'articolo del Cavillo erano sconcertanti: il Ministero era caduto, il Signore Oscuro e i suoi seguaci avevano preso il potere e il Mondo Magico Inglese si ritrovava nel caos più assoluto. Ma una notizia in particolare, inserita nella pagina dei necrologi, mi colpì con violenza:
Muore Alastor "Malocchio" Moody, valoroso Capo-Auror.
Lessi freneticamente ogni riga disponibile ma il testo, piuttosto fumoso, non descriveva le circostanze del decesso.
Furono davvero giorni terribili, quelli, che io trascorsi in preda all'apprensione più nera. Non riuscivo a fare niente, non riuscivo a concentrarmi; ero angosciata e irritabile tanto che, in un paio di occasioni, rischiai seriamente di farmi abbrustolire da un draghetto indignato che avevo apostrofato un po' troppo bruscamente. Vista la situazione, comunque, i miei colleghi non ebbero nulla da ridire e, anzi, mi accudirono come meglio poterono.
Io mi sentivo inquieta come una belva in gabbia; alternavo momenti di stanca apatia a vere e proprie sceneggiate da stagione lirica, lamentandomi del fatto di essere relegata in quella landa remota e di non poter disporre di uno straccio di notizia.
Andai avanti così, in una montagna russa emotiva che definire insana sarebbe un eufemismo finché inaspettatamente, una sera di metà agosto, la situazione si sbloccò.
Mi ero ritirata già da qualche ora in camera, ma non riuscivo a dormire: me ne stavo lì, sdraiata sul letto, a girarmi come un Nargillo e a pimpinellare. La stanza, per fortuna, era vuota: fin da quando ero giunta alla Riserva, infatti, vi dormivo da sola perché l'altra occupante, una certa Marianne Brandt, si trovava in Germania a casa dei genitori per usufruire di un periodo di congedo.
Sta di fatto che, mentre per l'ennesima volta valutavo scelte e conseguenze del partire o restare, un fruscio leggero richiamò la mia attenzione: guardando bene mi accorsi che, infilato sotto la porta, c'era un bigliettino bianco e piuttosto spiegazzato.
Partiremo a giorni per la Missione - c'era scritto in una grafia puntuta ma ordinata - tieni pronte le tue cose. C. W.
Le iniziali non lasciavano adito a dubbi: Charlie era tornato.
Col cuore in gola aprii di scatto la porta; nel corridoio buio, non c'era anima viva. Non osai muovermi. 
Certo: avrei potuto raggiungere la stanza di Charlie per accertarmi che si trattasse davvero di lui, ma preferii rimandare al giorno dopo nel timore di imbattermi in un Wassily particolarmente... ben disposto.
 
Se mi ero illusa di potermi finalmente lasciare andare con lui ad un dialogo chiarificatore, mi sbagliavo di grosso.
Charlie usciva prestissimo al mattino e, la sera, rincasava molto tardi; le rare volte in cui lo incontravo era sempre di fretta, costantemente in procinto di "recarsi a fare qualcosa".
Tentai più volte di avvicinarlo per parlargli, ma lui non me ne diede l'occasione; sempre molto gentilmente, mi spiegava di avere da fare e poi, con un sorriso un po' assente, si scusava e se ne andava.
Insomma; magari non sarò stata un mostro di sensibilità, però una cosa l'avevo capita anch'io: al di là degli impegni più che comprensibili (ma quantomeno misteriosi, dal momento che nessuno, in sede, sembrava sapere che cosa diavolo combinasse fuori casa tutto il santo giorno) Charlie sembrava fermamente intenzionato ad evitarmi.
E così una sera, stanca di vedermelo sfuggire fra le dita, mi sedetti nel salottino d'ingresso e attesi che rientrasse.
Dopo neanche mezz'ora, eccolo di ritorno.
- Charlie - lo chiamai, saltando in piedi.
Lui mi rivolse un sorriso un po' incerto. Era così carino, Priscilla Santa, con quei riccioli rossi che gli ricadevano sugli occhi: al suo ritorno mi ero subito accorta che la coda di cavallo era sparita e, captando per caso un brandello di conversazione fra lui e Freiwald, avevo appreso che sua madre, in occasione del matrimonio di Bill, aveva visto bene di "darci un taglio".
- Oh, Penny. Ciao.
- Ti posso parlare? - lo incalzai, decisa a rompere lo stallo.
Lui temporeggiò per qualche attimo.
- Oh, sai com'è... - mi rispose, tantando invano di aggirarmi. - Domani devo alzarmi prestissimo...
- Solo un paio di minuti, Charlie - lo pregai, impedendogli di passare. - Per favore.
- Uhm. Va bene.
Io rimasi un istante ferma a guardarlo, tormentandomi le nocche delle dita. Ora che ce lo avevo lì, porca di quella mandragola, non sapevo bene come abbordare l'argomento.
- Come... come è andato il matrimonio? - gli domandai allora, sentendomi sommamente sciocca.
- Oh, molto bene - replicò lui, guardandomi negli occhi. - Le visite in famiglia sono sempre, come dire... estremamente illuminanti.
Io gli restituii lo sguardo, nervosa.
- Ah sì?
- Sì.
- E... a cosa ti riferisci, esattamente?
- Oh beh. Per esempio al fatto che uno può raccontare alla sua adorabile sorellina della sua nuova collega e inaspettatamente scoprire, così en passant, che suddetta collega va a letto con suo fratello! - esclamò allegramente lui.
Io mi tinsi di viola.
- Cosa?! Io non vado...
Charlie corrugò la fronte.
- Okay, io... io ci andavo... - ritrattai precipitosamente, paonazza. - Ma... ma non è questo il punto!
- Ah no? E quale sarebbe, il punto?
- Io e Percy... Oh, era una cosa seria, molto seria, accidenti! Siamo stati insieme cinque anni, Charlie! Cinque!... Dovevamo sposarci...
- Ah beh - replicò lui, fingendosi sollevato - questo mi rincuora davvero molto, devo dire!
Charlie si girò dall'altra parte, deciso ad andarsene: evidentemente ne aveva abbastanza. Io però gli girai intorno e lo fronteggiai:
- Erano... sono affari miei, va bene? Io e Percy siamo stati insieme, siamo stati felici, ma lui mi ha mollata. Punto. Che cosa diavolo aveva a che vedere, questa cosa, col nostro lavoro qui in Riserva?...
- Sì, ma dopo quello che è successo... - mi interruppe lui, scuotendo la testa - Quand'è che avevi intenzione di dirmelo? Allo scambio delle fedi?
Lo fissai sbigottita.
- Ma io... io non pensavo... non speravo che le cose fra me e te sarebbero evolute in questo modo, Charlie! - protestai, alzando la voce di un'ottava. - Non ho avuto il tempo di dirtelo prima che tu partissi: è stato tutto così veloce! Ma ero intenzionata a parlartene al tuo ritorno, solo che tu mi hai evitata per giorni!
Lui mi scrutava, i begli occhi nocciola illuminati dai bagliori del lampadario fioco. 
La sua espressione un po' scettica mi ferì, perché avevo sempre detestato sentirmi attribuire poca serietà, di qualsiasi contesto si trattasse. E proprio mentre noi ce ne stavamo lì a fronteggiarci in silenzio, quel cretino di Wassily passò in corridoio, tendendo l'orecchio e decelerando vistosamente; una nostra occhiataccia sincrona, tuttavia, lo convinse a trottare.
Io ero molto, molto seccata.
E comunque - sibilai, piuttosto stupita nell'udirmi formulare un concetto tanto ardito - non ti sto mica chiedendo di portarmi all'altare, dannazione!
Charlie rimase un secondo interdetto, ma si riprese subito.
- Quindi vorresti dirmi che, per te - mi chiese, avvicinandosi di un passo - si tratterebbe soltanto di... di...
- Di quello che è, per tutti i Satiri del Monte Olimpo! - strillai io.
Lo vidi che sollevava le braccia e mi afferrava le spalle, stringendole tanto forte fra le dita da farmele scricchiolare. Mi fece un po' male, ma io sostenni il suo sguardo.
- Penny, io non... - mormorò lui, lasciandomi andare di scatto. - Oh, accidenti!
E così, dopo avere assestato una pacca sul muro ed essersi lasciato andare ad un sonoro Maledizione!, Charlie girò sui tacchi e mi piantò in asso, come un' Arianna derelitta, abbandonata sull'isola di Nasso.
 
Avevo un diavolo per capello.
Sommamente turbata, andai a rintanarmi nella mia stanza e, una volta dentro, presi a camminare su e giù, su e giù come un'anima in pena, del tutto ignara del fatto che, poco oltre il sottile strato di legno di faggio della porta, Charlie aveva coperto una decina di volte l'esigua distanza che separava i suoi alloggi dai miei per poi, puntualmente, desistere e tornarsene scornato sui suoi passi.
Improvvisamente, mentre ero lì ad arrovellarmi, udii bussare.
Incorniciato dal riquadro buio del corridoio, mi trovai davanti il volto sornione di Wassily.
Dimmi che ho sentito bene - esordì, guardandomi estasiato. - La nostra principessina poliglotta... con che disinvoltura mi passa da un fratello all'altro?!... Мне нравится! (*)
Io, dinnanzi a cotanta impudenza, rimasi a bocca aperta.
- Ma... ma come ti per... Fuori dai piedi, razza di maniaco filosovietico! - urlai, prima di scagliargli dietro una decina di fatture che lo costrinsero ad una fuga precipitosa. Ero veramente furiosa, caricata a molla come un Pupazzetto Salterello.
Indignata, mi richiusi l'uscio alle spalle.
Due minuti dopo, però, altra bussata.
- Che cosa caspiterina... - ringhiai, spalancando la porta come una furia.
Oltre lo spiraglio, un paio di brillanti occhi nocciola ed il riflesso ramato di capelli di fiamma che rilucevano nella penombra. Era Charlie.
- Quell'idiota di Wassily - mi disse, infilandosi timidamente una mano fra i riccioli per tirarli indietro. - Ti ha mancato di ris...
Quello fu, ufficialmente, il momento in cui tutta la mia proverbiale razionalità da Corvonero andò definitivamente a farsi benedire. Già piuttosto infervorata di mio, lo afferrai per il colletto e lo trascinai dentro. 
Un secondo dopo, io e Charlie ci stavamo baciando come due folli dietro la porta, che lui aveva richiuso con un calcione ben assestato.
Non mi disse nulla; non spiegò né giustificò. 
Semplicemente, agì; e la sua intraprendenza, a me, non dispiacque affatto.
Di una cosa, però, ero ormai più che certa. 
Volevo Charlie: lo volevo con tutta me stessa. 
Volevo farmi bruciare da quei suoi bagliori di fiamma, inebriarmi con quel suo aroma di Weasley capace di stordirmi come uno scapaccione di Platano Picchiatore, perdermi fre le sue mani grandi e calde, fondermi con la sua pelle di neve bollente e, soprattutto, mettere definitivamente al bando le buone maniere, il galateo, il bon-ton, l'etichetta e cazzate simili.
E lui, evidentemente, la pensava allo stesso modo.
Non perse tempo, difatti: in una sublime miscela di furia e galanteria mi abbassò l'abitino di raso celeste, facendomelo scivolare giù dalle spalle con un paio di carezze decise. 
A quei tempi io usavo capi di lingerie raffinata, targati La Perla Gris, che mia madre faceva importare direttamente da Barcellona ad ogni cambio di stagione e che quell'acqua cheta di Percy aveva sempre apprezzato parecchio. E com'è quella vecchia storia? Ciò che piace ad un Weasley... Charlie rimase fermo un istante a guardarmi, mordicchiandosi il labbro; ed io, approfittando di quell'attimo di esitazione neanche fossi stata la più scaltra degli Eredi di Salazar, gli sfilai velocemente la maglietta.
Lumos!
Ah, volevo vederlo bene, me lo volevo gustare fino in fondo quel suo addome divino, che una sola occhiata era bastata a farmi desiderare disperatamente; lo volevo ammirare con calma, percorrerlo con la punta delle dita, strofinarmici contro; e così feci, con la mente completamente annebbiata al cospetto di quel superbo esemplare di Rosso Inglese (cit. Ems).
Per tutta risposta lui mi spinse indietro e, con una manata assai poco diplomatica, liberò il ripiano dello scrittoio. Libri e libercoli dei più disparati dialetti draghesi furono scaraventati a terra senza tanti complimenti ma vi assicuro che io, abitualmente così attenta al mio materiale di studio, non me ne curai affatto. 
Poi, sempre mantenendo le labbra incollate alle mie, Charlie mi sollevò da terra senza alcuno sforzo e mi mise seduta sulla scrivania. Quindi, tenendo a freno l'impazienza per godersi a fondo ogni singolo attimo, mi sfilò lentamente le calze di seta, una dopo l'altra.
- Ho sempre avuto un debole per le ragazze sofisticate - mi confessò in un soffio, mentre io gli accarezzavo i muscoli tesi delle braccia. 
La miriade di gancetti del mio corsetto di pizzo mise a dura prova le sue dita abituate a maneggiare ben altri ferri, ma Charlie procedette con metodo e se la cavò egregiamente; e quelle stesse dita ruvide, poco dopo, me le sentii sulla pelle, a carezzarmi in ogni dove facendomi rabbrividire mentre, con rozza delicatezza, lui mi liberava della mia lingerie di gran lusso.
Credetti di impazzire quando il suo corpo solido e caldo aderì al mio, facendomi ardere la pelle. Mi sporsi in avanti e, tremando come una foglia imperlata di rugiada, saltai giù dalla scrivania; poi, presolo per mano, lo trascinai sul letto.
Lì rimanemmo per qualche istante, sdraiati l'uno a fianco all'altra, avvinghiati come Avvincini e ormai del tutto incapaci di tenere a freno le mani e le lingue; queste ultime - e pardon per la franchezza - in senso sia letterale sia metaforico, visto quello che ci dicevamo. Nessuno dei due era più in grado di resistere: e così, con me ancora attaccata addosso, Charlie si liberò in fretta dei pantaloni sdruciti e dei boxer, rossi come il peccato, per poi afferrarmi di scatto i polsi e rovesciarmi all'indietro.
E mentre lui, accogliendo benevolmente le mie suppliche pronunciate con voce strozzata, scivolava sopra di me - contro di me - e mi baciava lentamente la gola facendomi smarrire le ultime briciole di ragione, l'occhio mi cadde sullo specchio affisso dietro la porta.
Oh, per tutte le Lune di Giove dai nomi di amanti!
La vista di quella schiena vigorosa e di quelle natiche sode, lievemente squadrate, nonché di quei fianchi snelli che tanto avevano turbato i miei sonni, ora stretti fra i miei arti inferiori contratti fino allo spasmo, neutralizzò la mia capacità di trattenermi oltre.
Per fortuna che Charlie, al contrario di quello stordito di Wassily, si era ricordato di insonorizzare la stanza, o credo avrei svegliato di soprassalto l'intero casolare.
 
Per decenza, mi asterrò dal riportare in questa sede quanto in quel momento di gloria, mandando a quel paese gli anni e anni di lezioni di etiquette impostemi da mia madre, lo scongiurai di farmi; il messaggio, tuttavia, giunse forte e chiaro alle sue orecchie e così Charlie, che evidentemente non aspettava altro, agì all'istante, più che lieto di accontentarmi.
Lo sentii che si spingeva in avanti, con quella sua dolcezzaa un po'rustica; ed io, gli occhi chiusi e il respiro affannoso, ero già lì pronta a gustarmi la mia tanto agognata fetta di Paradiso quando, per Salazar Ladro, qualcosa di inatteso accadde.
Un bussare concitato e improvviso, subito seguito da un bisbigliare sommesso, fece scoppiare la bolla, riportandoci bruscamente alla realtà.
- Wessly!
Nel riconoscere la voce di Wassily Charlie si tirò su di scatto, lasciandosi sfuggire un'imprecazione così volgare che, se ve la riferissi qui ed ora, probabilmente farebbe un buco nella carta, ma che potrei riassumere come segue:
Coglione di un russo!... Ma cosa accidenti...
Quello insistette:
- Wessly, è urgente!
- Ma porca di quella...
- Weasley!
La voce smorzata di Mircea si sovrappose a quella di Wassily; aveva una sfumatura talmente preoccupata che noi, allarmati, saltammo su immediatamente a sedere sul letto.
- Non si tratta di uno scherzo. Apri la porta, dannazione.
Al che Charlie si alzò precipitosamente e, incespicando nelle lenzuola, raccattò in fretta un paio di indumenti dal pavimento della stanza e se li infilò alla bell'e meglio, per poi raggiungere velocemente la porta mentre io, atterrita all'idea di farmi vedere in déshabillé, mi rifugiavo con un salto all'interno dell'armadio.
Dalla mia postazione di fortuna, fui in grado di seguire il breve dialogo che seguì.
- C'è un tipo stranissimo in salotto - stava dicendo Mircea a voce bassissima; all'udire le sue parole un vago senso d'inquietudine si sovrappose alla frustrazione bruciante che provavo per essere stata interrotta proprio sul più bello. - Ti sta cercando.
- Stranissimo e sinistro. Parla inglese ma non credo lo sia - aggiunse Wassily in un soffio. - Si è presentato come Dolohov. Antonìn Dolohov.
- Oh, merda - fu l'unico commento di Charlie.
- Non so come diavolo abbia ottenuto il permesso per accedere alla Riserva - continuò Mircea. Parlava in fretta, sembrava piuttosto spaventata. - Sinceramente, non mi è piaciuto affatto. 
- E cosa... che cosa gli avete detto? - la voce di Charlie suonava nervosissima, cosicché io cominciai seriamente ad agitarmi.
- Gli abbiamo mentito - rispose Wassily. - Gli abbiamo detto che ti trovavi fuori con Penny, in un giro di ricognizione esterna.
- Freiwald è di là che lo intrattiene - aggiunse Mircea. - Io spero proprio che questo Dolohov sia un pessimo Legilimens, o mi sa che siamo fritti.
Sentii che Charlie rivolgeva loro qualche altra parola di raccomandazione e di saluto; subito dopo, lo udii tornare sui suoi passi.
Penny!... Penny, dobbiamo fare in fretta... - mi disse a bruciapelo. - Le tue cose sono pronte?
- Sì... ma Charlie - gli dissi, guardandolo smarrita - che cosa sta succedendo? Chi diavolo è questo Dolohov?...
Lui mi venne vicino e tese le braccia per stringermi in un abbraccio solido e rassicurante.
- Te lo spiego dopo - mi disse, per poi ordinarmi: - vestiti più in fretta che puoi e aspettami qui; vado a prendere il mio zaino e, appena torno, ce la squagliamo.
- O-okay.
Lui si girò per andarsene; dopo due passi, però, lo vidi che si voltava nuovamente verso di me:
Ah
- Ah cosa?
- Niente, solo... lascia perdere le calze Perlier, o quel... quel che è. Mettiti... ehm... più comoda possibile, intesi? - mi raccomandò, guadagnandosi da parte mia un'occhiata mista fra l'incredulo e lo sbigottito.
Poi, dopo avere dato una rapida occhiata attraverso la porta semichiusa, corse fuori nel corridoio buio.
Io non persi tempo.
Premurandomi di fare il più velocemente possibile mi infilai jeans, maglione e scarponi, recuperai con un rapido appello i miei testi di draghese sparsi in ogni dove e i pochi effetti personali che ancora non avevo riposto, e stipai il tutto nello zainetto.
Charlie mi raggiunse qualche secondo dopo: era vestito di tutto punto, zaino in spalla e bacchetta alla mano.
- Tutto pronto?
Io annuii.
- Andiamo - bisbigliò, per poi fermarsi di colpo e voltarsi verso di me.
Ehm.
- Che cosa c'è, Charlie? - gli chiesi io, atterrita all'idea di dover apprendere qualche altra pessima notizia.
- Ci potresti... ehm, smaterializzare tu, per favore?
- Oh - sorrisi io, divertita dalla sua espressione vagamente imbarazzata. - Ma certo. Certo. Vieni qua - gli dissi, afferrandogli la mano e intrecciando le dita alle sue.
Un secco crack sancì ufficialmente l'inizio della nostra fuga.
 
La Riserva dei Lungocorni Rumeni era protetta da una serie di barriere concentriche a prova di smaterializzazione che, come Charlie mi spiegò in seguito, avremmo dovuto attraversare a piedi avvalendoci di speciali passaggi sconosciuti ai più.
Quella sera, quando ci materializzammo nei pressi di uno di essi, si stava scatenando sulla foresta un acquazzone primordiale.
- Come faremo a trovarli? - gli chiesi io, tenendo puntata in alto la bacchetta dalla quale facevo scaturire un incessante Repello Impluvium nel disterato tentativo di non inzupparmi fino al midollo.
- Li ho cercati io nei mesi scorsi - rispose lui con un sorriso - il primo è proprio qui, dietro questo tronco coperto di funghi.
Prima di procedere, però, mi avvertì:
- Sono funghi magici estremamente allucinogeni; tenta di respirare il meno possibile, okay?
Tirandomi su il collo del maglione a coprirmi il naso, eseguii in tutta fretta.
Dall'altra parte della barriera, nessuna traccia di pioggia.
- Dove andiamo?
- Questa parte di bosco è particolarmente scura e intricata - mi disse Charlie. - Vi è stato piantato un particolare Sottobosco Dissuasivo che, te l'assicuro, è meglio affrontare alla luce del giorno. Dormiremo qui.
- Oh - commentai io, guardandomi intorno smarrita.
Charlie mi indicò l'apertura di una piccola grotta: uno spazio assolutamente angusto, piuttosto simile ad una buca, in effetti.
- Dobbiamo...?
- Non ti preoccupare: questa tana è stata scavata dai Tassi. Tassi di Tosca, per l'esattezza.
Finalmente mi riuscì di sorridere.
Sapere di trovarmi all'interno di una buca scavata da una delle creature più benigne del mondo magico mi infuse un grato senso di sicurezza e di tepore. Mentre, lievemente rasserenata, mi accingevo a tirare fuori il sacco a pelo dallo zainetto, mi accorsi che Charlie armeggiava con una scatoletta di legno quadrata.
- Che cos'hai lì? - gli domandai, incuriosita.
Lui, per tutta risposta, rimosse il coperchio per mostrarmi il contenuto. L'interno della scatola era suddiviso in un buon numero di scompartimenti quadrati di circa dieci centimetri per lato. Erano tutti vuoti tranne uno, dentro al quale avvistai una piccola sagoma verde scuro acciambellata su se stessa.
- Che modellino grazioso - mormorai, intenerita alla vista del minuscolo Lungocorno che dormiva beato.
- Non è un modellino - mi corresse Charlie, allungando un dito per carezzare il dorso del rettile in miniatura. - L'ho dovuto ridurre e addormentare, ma di solito misura all'incirca quattordici metri e quarantacinque ed è un tipo decisamente... nervosetto.
 
Post-scriptum:
Bene. 
Come forse saprete, la trattazione di certe situazioni mi riesce particolarmente difficile, per cui sarò immensamente grata a chiunque vorrà elargirmi commenti, suggerimenti, consigli e considerazioni. Non foss'altro che per mandarmi bellamente a ca... a quel paese.
Riguardo invece il cattivo di turno, Antonìn Dolohov. Tempo fa, ammaliata dalla bellezza di Praga, scrissi una breve storia incentrata proprio su di lui: si intitola Tramonto ad Est ed è disponibile sul mio profilo. Consiglio vivamente a chi ne avesse voglia di leggerla, perché alcune caratteristiche di Dolohov che inserirò nei prossimi capitoli riprendono direttamente la caratterizzazione là tracciata.
Ed ora l'Angolo dell'Omaggio: Marianne Brandt è stata un'alunna del Bauhaus, pioniera del design industriale nei maschilissimi ateliers di metallurgia. Date un'occhiata, se vi va, al servizio da tè che ha disegnato: io potrei fare follie per aggiudicarmi la teiera!!
(*) Quella roba lì dovrebbe voler dire "mi piace" in russo. Pronuncia rigorosamente ignota.
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Cammino di fuoco. ***


5. Cammino di fuoco.
 
- Uno... di ogni tipo?
La mia voce, attutita dal morbido rivestimento di terra delle pareti del grottino, risuonò pregna di esitazione.
Ci eravamo svegliati alle prime luci dell’alba, disturbati dal canto degli uccelli e dalle imprecazioni basse – ma perfettamente udibili – di quel Jarvey insolente.
Già. Il Jarvey.
La notte precedente, dopo che ci eravamo addormentati strizzandoci alla bell’e meglio all’interno dei nostri sacchi a pelo, la grossa donnola sboccata, nonché legittima proprietaria della buca, aveva visto bene di rientrare alla base ad un orario impossibile; tuttavia, una volta appurato che la sua tana (in natura i casi di convivenza fra Tassi e Jarveys sono tutt’altro che infrequenti) era stata occupata da due estranei inattesi e ingombranti, l’animale aveva dato sfogo ad un turpiloquio talmente volgare da far potenzialmente impallidire gli avventori più smaliziati della Testa di Porco.
Io ci ero rimasta veramente di sasso ("bella fiffi", mi aveva apostrofata il Jarvey) ma Charlie, che di bestie scurrili sembrava averne frequentate a bizzeffe negli anni trascorsi alla Riserva, si era limitato ad aprire un occhio e cercare a tentoni uno zuccotto di zucca nella tasca anteriore dello zaino, per poi lanciarlo alla creatura ed intimarle, con voce impastata, di piantarla di sbraitare e di chiudere il becco.
Alla fine il Jarvey, dopo aver sbocconcellato avidamente la merendina, si era acciambellato placidamente fra i nostri due sacchi a pelo e aveva preso a russare fragorosamente.
- Proprio così, Penny – mi rispose Charlie, stendendo il braccio per passarmi una bella tazza di Caffelatte Corroborante appena bollita su un fornelletto a fiamma-portatile. Io afferrai il vecchio manico di ceramica e mi misi in ascolto, sforzandomi di ignorare la donnola svergognata che, ancora immersa nel sonno, si prodigava in trivialità oniriche altamente fastidiose.
- Dodici caselle, dodici draghi – continuò lui, additando la scatola di legno nella quale, ridotto ad una miniatura dormiente Konsti, il Lungocorno Rumeno, sonnecchiava indisturbato. – Come avrai capito, ci aspetta un bel viaggetto.
E, sfilata velocemente una cartina dell’Europa dalla tasca laterale dello zaino, Charlie mi mostrò l’itinerario, materializzato in una serie di segmenti di linea tracciati con inchiostro di seppia, incantato in modo da mostrare in modo dinamico la sequenza delle tappe da compiere.
I miei occhi seguivano il filo d’Arianna che andava via via componendosi sulla carta, mentre Charlie enumerava i Paesi in cui ci saremmo dovuti recare.
- Ungheria, Bulgaria, Ucraina...
Fin qui tutto bene; subito dopo, però, le linee prendevano una piega decisamente più disordinata:
- ...poi Alpi Svizzere, Pirenei, Azzorre...
In corrispondenza delle Azzorre, osservai io, la linea s’interrompeva; troppo remoto, quell’arcipelago, per rientrare nella cartina.
- ...poi a ritroso: Svezia, Norvegia, Islanda...
- ...e per finire...
- Proprio così – annuì lui stringendo appena gli occhi, che gli brillavano per l’eccitazione. – Termineremo in bellezza, con Galles e Scozia.
 
Quel giorno camminammo quasi ininterrottamente, stando bene attenti a non farci fagocitare dal Sottobosco Dissuasivo che proteggeva la Seconda Cerchia. Procedevamo in silenzio, schivando gli agguati dei Tranelli del Diavolo e dei Virgulti Morditori che ci insidiavano i calcagni, imprecando ogni tanto quando un tralcio particolarmente infido ci faceva lo sgambetto.
Durante quelle lunghe ore di traversata, io ebbi modo di riflettere parecchio.
Dodici caselle da riempire.
Dodici Paesi.
Dodoci draghi.
Cominciando proprio da una delle specie dotate di peggiore reputazione, il famigerato Ungaro Spinato (“così ci togliamo subito il pensiero” aveva commentato allegramente Charlie, osservando divertito la mia espressione terrorizzata), per poi passare al Codaferrata Bulgaro e al Forteventre Ucraino; la tappa “latina” ci avrebbe poi messi di fronte ai Grigiofumo Alpini, ai Crestaguzza dei Pirenei e ai misteriosi Azzurri delle Azzorre. In Scandinavia ci aspettavano invece il Dorsorugoso Norvegese, il Grugnocorto Svedese e la Furia Buia d’Islanda, mentre sul patrio suolo avremmo dovuto affrontare i Verdi Gallesi e i Neri delle Ebridi.
- La guerra è cominciata – mi disse Charlie quella sera, dopo avermi raccontato per sommi capi quello che era successo in Inghilterra, dal trasferimento di Harry Potter (con relativa morte di Moody e ferimento di George, uno dei suoi fratelli) alla Caduta del Ministero ed avermi spiegato che cosa fosse l’Ordine della Fenice e in che cosa consistessero le sue azioni.
Io, bacchetta alla mano, lo ascoltavo attentamente; nel frattempo, mormorando incantesimi a mezza voce, lo aiutavo ad erigere una speciale cupoletta geodesica estremamente leggera e flessibile il cui esterno, una volta montato, si rivelò essere simile a quello di un igloo, solo che non composto da blocchi di neve ma da triangoli che formavano figure geometriche protette da proprietà cabalistiche.
- Ognuno deve fare quel che può per supportare la Causa e a me, anzi a noi – seguitò Charlie, riponendo la bacchetta nella tasca dei jeans – è stata affidata quella che, al Quartier Generale, viene chiamata “La Questione Squamosa”. Seguimi.
Dentro, il rifugio aveva l’aspetto di uno scarno alloggiamento razionalista, di quelli in voga nell’Europa dell’Est ai tempi della Guerra Fredda.
Dopo avermi fatto cenno di sedere al tavolo, rivestito da uno strato di deprimente formica verdina, Charlie si passò una mano sulla fronte per sistemarsi i riccioli ribelli, prese in mano la scatola contenente il drago in miniatura e continuò:
- Probabilmente il Nemico disporrà di aiuti considerevoli da parte di alleati magici forti e pericolosi: ad esempio, sappiamo che il reclutamento dei Giganti è già cominciato da un pezzo. Noi non possiamo essere da meno; ma i Rettilofoni Dragoparlanti sono molto, molto rari. Ed è qui che entri in gioco tu.
Non ci fu bisogno che mi spiegasse tutto per filo e per segno: ci ero già arrivata da sola.
- Addestrare un drago per poi convincerlo a servirci, avvalendoci solo di metodi tradizionali, richiederebbe troppo tempo – gli dissi, cercando conferma nell'espressione dei suoi occhi.
- Esattamente – annuì lui. – Anche se, personalmente, preferirei usare il termine “aiutarci” al posto di “servirci”.
- Giusto. E quindi – proseguii io, sollevando delicatamente il coperchio della Scatola Contienidraghi – spetterà a me persuadere i simpatici lucertoloni.
- Bingo – esclamò lui, con la consueta verve. – Sei proprio acuta, lo sai?
- Grazie a Priscilla – replicai io, chinando il capo con modestia. – Però mi chiedo: avremo comunque il tempo di raccoglierli tutti?
- Non sappiamo di quanto tempo disporremo – ammise Charlie, mordicchiandosi l’interno della guancia. – Per questo motivo, dovremo tentare di agire il più in fretta possibile.
Io lo fissai in silenzio per una manciata di secondi, leggermente incerta.
- Credi... – mi domandò allora lui, allungando la mano sopra il tavolo per posarla sulla mia. – Credi di potercela fare?
- Beh, se il Batacchio-Aquila della Sala Comune mi rivolgesse questa stessa domanda – replicai io, rivolgendogli un sorriso un po’ tirato – io gli risponderei: se non giochi, non vinci.
- Ah – commentò Charlie, un po' stranito. – E lui, che cosa direbbe?
- Che si tratta di un ottimo ragionamento, of course.
 
Avremmo agito avvalendoci dei contatti che Charlie dalla Romania e Sturgis dal Quartier Generale avevano stabilito durante i mesi precedenti con i responsabili delle diverse Riserve. Si era trattato di un lavoro certosino e altamente top-secret che li aveva tenuti impegnati in mesi e mesi di trattative perché, nella maggior parte dei casi, era loro toccato vincere uno spesso strato di diffidenza.
Gli allevatori erano preoccupati: nei mesi che avevano anticipato lo scoppio della Guerra i tentativi di bracconaggio, probabilmente messi in atto da Mangiamorte o simpatizzanti, si erano moltiplicati, cosicché le Riserve, una dopo l'altra, stavano sistematicamente aumentando i loro sistemi di difesa, respingimento, disillusione e indisegnabilità: il che rischiava, alla fin fine, di tagliare fuori anche noi.
Come spiegatomi da Charlie, i draghi costituivano una risorsa inestimabile in tempi di guerra: le loro ossa, zanne, corna e unghie erano ingredienti ambitissimi dai pozionisti oscuri; le loro pelli squamose, invece, potevano essere impiegate per cucire speciali giubbetti anti-incantesimo. Per non parlare del potenziale distruttivo di un drago vivo nelle mani sbagliate:
- Un Ungaro Spinato addestrato al combattimento - mi disse Charlie a quel proposito - possiede una pericolosità paragonabile a quella di un panzer in un asilo nido.
- Ah. E... che cosa diavolo è, un panzer?
- Un aggeggio che i babbani usano per farsi la guerra. Una volta papà ne ha parcheggiato uno in giardino... per studiarlo, sai.
- Oh.
- Beh, sì. Mamma non l'ha presa... molto bene, ecco.
Insomma: vista la situazione, di tempo per amoreggiamenti e romanticherie, ahimè, zero al quoto.
Nei mesi che seguirono la nostra fuga la Missione ci avrebbe completamente assorbiti, spingendoci ad accantonare, seppure a malincuore, le nostre velleità di amanti clandestini e l’attrazione cocente che provavamo l’uno per l’altra. Preferimmo lasciarla lì, a covare sotto le ceneri; eppure, più il tempo passava, più io mi accorgevo che le cose veramente importanti erano altre.
Certo: sarebbe più che opportuno affermare che ai tempi del mio arrivo in Riserva, quando avevo conosciuto Charlie, io avevo subito perso la testa per lui, incantata dalla sua vitalità, dal suo buon cuore e, perché negarlo?, dal suo bell’aspetto. Man mano che il tempo passava, però, io mi sorprendevo ad osservarlo con altri occhi, perché avere la possibilità di convivere ventiquattr’ore su ventiquattro con lui, poterne apprezzare non solo il senso di giustizia, la dedizione, la bravura; ma anche i piccoli cedimenti, i momenti di sconforto e le indecisioni, lo stavano rivelando detentore di una personalità ancor più amabile e interessante di quanto non l’avessi reputato all’inizio.
Charlie era davvero una brava persona, un Weasley a tutto tondo, tenace, determinato, talvolta un po’ troppo esuberante e incauto forse, ma, alla fin fine, semplicemente perfetto nella sua imperfezione (cit. Bri).
Ed io ogni tanto, tutte quelle belle cose che pensavo di lui, gliele avrei volute dire.
Ma non gliele dicevo, consapevole del fatto che troppe cose erano cambiate, letteralmente dalla notte al giorno, e che in ballo c’erano questioni molto più grandi ed urgenti di uno sciocco filarino. Eppure sì: mi sarebbe piaciuto, una sera, prenderlo per mano e dirgli che ero felice di essere al suo fianco; che, per la prima volta da quando ero nata, riconoscevo un senso in ciò che stavo facendo e che, nonostante tutti i pericoli, gli inconvenienti e i disagi che avevamo affrontato e che avremmo dovuto affrontare, la nostra vita avventurosa mi piaceva, e che non l’avrei mai cambiata con quella precedente.
Vivevamo costantemente sul filo del rasoio, sballottandoci da una parte all’altra e intrattenendoci regolarmente con guardiani irriducibili e alcune delle creature più letali che avessero mai camminato sulla faccia della Terra. Per spostarci usavamo un vecchio innaffiatoio di latta trasformato in Passaporta a Chilometraggio Ricaricabile (100% clandestina), preparataci personalmente da Minerva McGranitt e Filius Vitious; il non plus ultra della magia inglese contemporanea, insomma.
E fra una tappa e l'altra, avevamo modo di parlare molto. Una volta Charlie mi chiese di raccontargli il perché della mia scelta di studiare Rettilofonia ed io, che in genere non amavo rivangare quell'episodio, finii col narrargli del mio incontro ravvicinato con il Basilisco al sesto anno.
- Una sorta di catarsi, dunque - osservò lui, pensoso.
- Sì, possiamo chiamarla così - annuii io con un'alzata di spalle, tentando poi di insegnargli come si diceva "Buongiorno, come va?" in draghese Ucraino.
Un'altra volta, invece - stavamo parlando di Percy e del suo comportamento nei confronti della famiglia - Charlie decise di lasciarsi andare ad una rara sessione di confidenze sentimentali.
- Anch'io, una volta, mi sono preso una gran scuffia.
Io gli rivolsi un'occhiata incuriosita.
- Beh - rettificò lui, facendo rimestare un lungo cucchiaio nel pentolino con lievi movimenti di bacchetta. - Una scuffia che è durata anni, per dire il vero, e che mi ha lasciato parecchio... scottato.
- Perché, com'è finita? - domandai io, ostentando noncuranza ma sentendomi divorare dalla curiosità.
- Ci siamo frequentati per un po', ma non funzionava. Alla fine, lei ha sposato un altro!...
- Oh. Mi... mi dispiace - gli dissi, leggermente a disagio. - E... che tipo era? - aggiunsi poi, per cercare di dissipare l'imbarazzo. - Raffinata? Elegante?
Charlie scoppiò a ridere di gusto.
- Tutto il contrario, semmai!... Pasticciona e stordita come pochi, in realtà, ma nel contempo era... anzi è, una combattente eccezionale; una delle migliori Auror che io abbia mai conosciuto.
Io ero curiosissima di saperne di più, ma un intenso aroma di bruciato ed una sua esclamazione di disappunto mi distolsero dai miei arrovellamenti.
Merda! La zuppa!...
 
E nel frattempo, il nostro piccolo serraglio portatile cresceva.
Subito alla prima tappa del nostro viaggio, uno degli incontri più temuti: l'Ungaro Spinato, proprio come previsto, ci aveva dato del bel filo da torcere. Ricordo ancora il senso di paralisi che provai quando me lo trovai davanti, ruggente e furibondo, le lunghe spine velenose aperte a raggiera intorno al capo.
- Ci avete chiesto il più aggressivo, giusto? - ci disse Gábor, uno dei guardiani del Parco, prima di dileguarsi di corsa. - Bene: vi presento László... Ah, una cosa: oggi è d'umore particolarmente cattivo, purtroppo. In bocca al Gramo, stolti.
Proprio come da copione, László ci accolse con una fiammata così potente che avrebbe potuto carbonizzare all'istante una trireme greca con tutto il suo equipaggio. Io e Charlie, però, ci eravamo già messi d'accordo sul da farsi e così, non appena lo vedemmo che riprendeva a carburare, agimmo in perfetta sincronia:
- Trr, due, uno... vai, Penny!
Protego Horribilis! - urlammo all'unisono; lo Scudo prodotto dalle nostre bacchette evitò il peggio, ma il calore era talmente intenso che io, per un istante, fui tentata di lasciare andare la mia povera bacchetta arroventata. 
László ruggiva, strempiava, vomitava fiamme e cercava di bucare la bolla protettiva a colpi di spine, di morsi e di artigliate.
- Fai presto, Penny!
- Sì, sì... sonorus! László!...
Quello si fermò, sorpreso di sentirsi chiamare per nome da quella pulce bipede quale ero. Io allora, facendo appello a tutta la mia diplomazia, mi rivolsi al drago infuriato e fra uno sbuffo, un urlaccio e una supplica, riuscii a spiegargli chi eravamo e che cosa volevamo.
- Proteggere altri draghi? - ripetè lui, stringendo gli occhi minaccioso.
"Assolutamente sì" gli risposi io e, provvedendo poi a caldeggiare le fantastiche doti di allevatore di Charlie ("Presentati, Charles..." "Oh, ehm...wrrauggh, László..." “Ma no! Si dice wraaagh! Così lo stai mandando a quel paese!...” “Oh, cielo!!”), riuscii infine a convincerlo a farsi ridurre e addormentare.
- Ma se scopro che mi state raccontando cazzate - sibilò lui prima di alzare le membranette traslucide che gli fungevano da palpebre - giuro che ve la faccio pagare.
Quella sera, all'interno dalla nostra cupoletta geodesica, Charlie mi venne vicino e sedette accanto a me sul divano di pelle consunta.
- Dai, non è poi andata malaccio - esordì, slacciandosi in fretta uno dei suoi braccialetti di cuoio spesso.
- Mi brucia ancora la mano - mi lagnai io, dopo avere spennellato l'ennesima applicazione di Vegetallumagica Lenitiva sul palmo semibruciacchiato. - E per fortuna che si trattava di un esemplare addomesticato!...
- A questo proposito - disse allora Charlie, fissando la polsiera attorno al mio polso destro, quello della mano con cui reggevo la bacchetta - credo sia il caso che, da oggi in poi, tu faccia uso di questo.
Io osservai il braccialetto che, nel frattempo, mi si era stretto intorno al polso, adattandosi perfettamente alla circonferenza del mio avambraccio, molto più sottile di quello di lui.
- È una polsiera protettiva - spiegò Charlie, massaggiandosi la pelle segnata da tanti anni di attrito col cuoio. - Serve a smorzare gli effetti dell'Irraggiamento da Rinculo.
- Oh, Charlie. Grazie mille... - lo ringraziai io, guardandolo con gratitudine.
Lui si chinò leggermente in avanti, spostandomi indietro una ciocca di capelli.
- Ma ci mancherebbe - mi rispose sorridendo. - Non sia mai che...
Lo guardai negli occhi. Lui sostenne il mio sguardo e strisciò verso di me.
Rooooaaaaar.
Un trambusto improvviso proveniente dall'interno della Scatola Portadraghi ci fece scattare in piedi.
- Ma per Helena la Bella!... - gemetti io, col cuore che mi saltava fuori dal petto.
- Mi... mi sa che è meglio lasciarli separati da un paio di caselle vuote, se vogliamo evitare zuffe - sospirò Charlie, apprestandosi a trasferire l'irascibile Ungaro a un paio di scomparti di distanza dal burbero Lungocorno.
Ebbene no: portarsi dietro draghi intransigenti e incazzosi, per quanto ridotti, non era per niente un incentivo al romanticismo. Come volevasi dimostrare.
 
La puntata in Bulgaria fu di gran lunga meno stressante di quella ungherese, per lo meno dal punto di vista del rapporto umano-rettile.
Certo: durante le operazioni di avvicinamento rischiammo seriamente di farci polverizzare da un colpo della coda rinforzata che Suzy, la Codaferrata prescelta, agitava qua e là alla stregua di una mazza che avrei visto bene al servizio di un'impresa edile specializzata in demolizioni. Almeno, però, la draghessa si astenne dal tentare di cucinarci con uno starnuto.
Di una cosa, però, ci eravamo resi conto quasi subito.
A complicare ulteriormente una situazione già di per sé delicata ci stava pensando Antonìn Dolohov, costantemente impegnato a darci la caccia. In Ungheria, ci avrebbe poi avvisati un sospettosissimo Gábor via gufo espresso, ci aveva mancati di poche ore; in Bulgaria, addirittura, giunse perfino a precederci ma noi, messi in guardia dalla lettera del nostro corrispondente ungherese, riuscimmo ad accedere alla Riserva dei Codaferrata passando da un'entrata secondaria.
In Ucraina, purtroppo, ce la vedemmo assai brutta.
Pavlo, il Forteventre che la Riserva locale ci aveva destinato, si rivelò un tipino polemico e sospettoso, facile al diverbio e sommamente intrattabile. Mi ci volle un'eternità per riuscire a farlo ragionare e credo, in tutta onestà, che non ce l'avrei mai fatta se ad un certo punto Charlie, esasperato, non si fosse messo in mezzo e gli avesse sparato su per le frogie una sequenza filmata di quello che solevano combinare i Pozionisti Oscuri con le iridi rosso fuoco dei suoi simili. Dopo quella visione raccapricciante Pavlo, indignato, accettò di unirsi alla nostra crociata e, una volta rimpicciolito, prese a sua volta posto nella Scatola.
Il tempo che perdemmo, però, ci fu quasi fatale.
Uscimmo dalla Riserva che era ormai tarda notte, ulteriormente rallentati dalle procedure di sicurezza; e quale non fu la nostra sorpresa quando, a poche centinaia di metri dal cancello principale, ci imbattemmo in un manipolo di loschi figuri vestiti di nero.
La strada che collegava il Santuario dei Forteventre alla città di Odessa, dove avevamo deciso di pernottare, era contornata da pareti ripide, simili a quelle di un canyon, che non consentivano grandi possibilità di fuga.
Ce li ritrovanno intorno all’improvviso: numerosi, nerovestoti e con le bacchette sguainate.
- Fermo dove sei, Weasley – ci intimò uno di loro (quello che, in seguito, Charlie mi rivelò essere Antonìn Dolohov), avanzando di qualche passo. Si trattava di un individuo non troppo alto, con i capelli nerissimi impomatati di brillantina, il naso affilato e uno sguardo di pietra nelle iridi scure.
Mi guardai nervosamente intorno, sentendomi sopraffare dal panico: non avevamo scampo e dalle loro espressioni vagamente divertite, evidentemente, ne erano più che consci anche loro.
Evidentemente, però, nessuno aveva fatto i conti con la prontezza di riflessi di Charlie. Il quale, senza perdere tempo a scagliare incantesimi o a tentare una trattativa, mi prese per mano e si smaterializzò sotto il loro naso.
Ovviamente toppò alla grande le coordinate del punto d’arrivo cosicché, per grande sorpresa nostra e dell’equipaggio, quando ricomparimmo ci ritrovammo a bordo di una nave mercantile nel bel mezzo del Mar Nero. Almeno, però, eravamo in salvo.
- Mi sa che dovremo rivedere un po’ i nostri piani – mi disse Charlie riprendendo fiato, dopo che io ebbi provveduto a rimaterializzare entrambi sulla terraferma.
E aveva ragione: ormai ci avevano visti in faccia tutti e due e tutto indicava che, per chissà quale oscura ragione, i Mangiamorte fossero al corrente della nostra Missione.
Insomma: dopo l’agguato tesoci da Dolohov nei pressi di Odessa nel quale rischiammo seriamente di farci acciuffare, io e Charlie, nel tentativo di far perdere le nostre tracce, decidemmo di scombinare deliberatamente i programmi di viaggio ed iniziammo a spostarci a random, in un itinerario contorto che oramai non presentava più la minima logica e che fece letteralmente impazzire le linee d'inchiostro magico tracciate sulla cartina.
 
Post-Scriptum:
In Gli animali fantastici, la Rowling ci dice che gli Jarveys sono grosse donnole dotate di parola, abituate ad esprimersi con un liguaggio per lo più volgare.
I seguenti draghi li ho inventati io: Codaferrata Bulgaro, Grigiofumo Alpino, Crestaguzza dei Pirenei e Azzurri delle Azzorre. Mi piacerebbe tantissimo avere il tempo di descriverli in dettaglio uno per uno, ma sarà per un’altra volta; se v’interessa, però, esiste un ritratto piuttosto completo degli Azzurri nella raccolta Cavillo Geographics alla voce Caeruleus Atlantici. Le altre, eccezion fatta per la Furia Buia (che appartiene all’universo di  Dragon Trainer della Pixar), sono tutte specie citate dalla Rowling in Gli animali fantastici.

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Capitolo 6
*** Di drago in burrasca. ***


6. Di drago in burrasca.
 
- Ha ammazzato i miei zii... – mi aveva detto Charlie poco dopo che eravamo fuggiti dalla Riserva dei Lungocorni Rumeni.
Io lo avevo ascoltato orripilata, senza azzardarmi a proferire verbo, mentre lui, spaventosamente serio, mi raccontava che proprio ad Antonìn Dolohov, durante la Prima Guerra Magica, era stata attribuita la morte di Fabian e Gideon Prewett, i due fratelli di sua madre.
- ...quindi capirai che non esagero quando affermo che Dolohov è uno dei criminali più pericolosi e senza scupoli nel quale potremmo avere la sfortuna di imbatterci.
Ah, non avevo dubbi.
Ai tempi però, e così era stato anche in occasione delle nostre successive fughe, io mi ero ingenuamente illusa che, a scapito della ferocia di Dolohov, la fortuna ci avrebbe sempre assistiti e che, muovendoci con prudenza e buon senso, l’avremmo sempre fatta franca.
Evidentemente mi sbagliavo.
Il cupo Mangiamorte, per chissà quale ragione, sembrava essere al corrente della nostra Missione e, soprattutto, ci aveva dimostrato più di una volta di conoscere in anticipo le nostre prossime mosse.
 
Eravamo ormai a fine dicembre quando, dopo essere passati da Islanda, Norvegia e Pirenei, ci accingevamo a raggiungere la Svezia.
La buona notizia era che, apparentemente, i nostri spostamenti aleatori dovevano aver messo in difficoltà i nostri inseguitori dal momento che, in seguito all'episodio di Odessa, non ci eravamo mai più imbattuti né in Dolohov né in altri loschi figuri malintenzionati.
Le cose però, a causa di due motivi ben distinti, procedevano a rilento.
Prima di tutto, il drastico peggioramento del clima: con l’avvicinarsi dell’inverno con le sue nevicate e le sue spesse nebbie, infatti, ci era sempre più difficile individuare gli accessi delle Riserve e, una volta dentro, individuare i draghi, che spesso e volentieri preferivano rimanersene rintanati nelle loro tane scavate nella roccia delle montagne.
In secondo luogo, c’era poi il problema della Passaporta rotta.
Subito dopo aver lasciato l'Ucraina, a metà ottobre, avevamo deciso di affrontare subito i paesi scandinavi, nella fattispecie il più lontano e remoto di tutti: l'Islanda. Emil, il responsabile della Riserva delle Furie Buie, ci aveva ricevuti assai benevolmente: nei mesi precedenti, un intenso scambio epistolare con Sturgis Podmore l’aveva messo al corrente della situazione assai critica in cui verteva la Comunità Magica Inglese.
Se non tentiamo in qualche modo di arginare la cosa – gli aveva scritto Sturgis in una delle sue lettere, che lui ci mostrò – le ripercussioni a livello mondiale saranno devastanti: numerose specie di draghi rischieranno di scomparire visto che, quasi sicuramente, gli esemplari verranno catturati per essere usati come materia prima da Pozione o brutalmente schiavizzati.
E così, Emil ci aveva subito portati da Finn che, in quel momento, se ne stava placidamente acciambellato nella sua tana scavata nelle pendici del vulcano Eyjafjöll.
Simile ad uno strabiliante incrocio fra un grosso gatto ed una salamandra, la Furia Buia era assolutamente splendida: la sua pelle coperta di lucide squame nere come ossidiana, illuminate dai bagliori della lava, riluceva di un brillìo ammaliatore che attrasse il mio sguardo e lo mantenne fisso su di lui come il pendolo di un ipnotizzatore. Quando lo vidi e potei ammirarne la bellezza, compresi come mai Charlie aveva deciso di tatuare su di sé l’immagine di una di quelle meravigliose bestie.
Finn era davvero un gran bravo drago, particolarmente acuto e molto, molto intelligente. Non si dimostrò affatto ostile quando lo chiamai per nome; anzi: nel giro di qualche secondo si era già avvicinato a noi per fiutarci con grande curiosità. Nell’osservarlo, io rimasi molto sorpresa dal fatto che ad un animale così piccolo (era, fra tutti, l’esemplare dotato di minori dimensioni) venisse attribuito un potere distruttivo così grande. Ovviamente mi sbagliavo alla grande e questo, ahinoi, Finn ce lo dimostrò non appena un Charlie in assoluta fibrillazione lo ebbe istigato a gran voce di “farci vedere cosa sapeva fare”.
Non l’avesse mai fatto.
La Furia Buia, in incontenibile solluchero, si produsse in una serie di frenetici voli all’interno della caverna, facendoci più volte il pelo e travolgendo metodicamente qualsiasi ostacolo e/o oggetto gli si parasse davanti.
 Fra cui anche, e qui casca l’asino signore e signori, il bagaglio che Charlie aveva incautamente posato sul pavimento della tana, senza preoccuparsi di accostarlo alla parete. Il povero zaino descrisse una parabola dalla curvatura perfetta e andò a spiaccicarsi contro un muro di roccia particolarmente bugnato: in quella l’annaffiatoio di latta, nonché nostra Passaporta, fu sbalzato fuori dalla tasca e attraversò a balzi la caverna, in un sottofondo di costernate urla nostre e assordante clangore metallico.
- Mi... mi sa che l’abbiamo perso – mi confidò Charlie quella sera mentre, con la lingua fuori per la concentrazione, cercava di riassestare l’eccesso di ammaccature con la bacchetta, la cui punta era stata trasformata in un martelletto gommato.
Io, che in quel momento stavo cercando di sedare un diverbio fra Suzy e Pavlo (con László che, infido come non mai, fomentava la lite, Konsti che dormiva rinchiuso in un silenzio ostinato e Finn che ridacchiava divertito, vispo come un furetto del colore della notte), lo guardai sgomenta.
- Come cacchio facciamo a tornare indietro? – gli domandai, scoraggiata al pensiero delle miglia e miglia di mare gelato che ci separavano dal Continente; decisamente troppe, in effetti, per tentare una smaterializzazione d’emergenza.
Lui scosse la testa, stringendo le labbra.
- Non lo so, Penny.
Per nostra fortuna il giorno dopo, in un ultimo eroico atto di vitalità, la Passaporta si riattivò, con un pulsare intermittente e un po’ claudicante. L’oggetto mi parve tutt’altro che affidabile, ma le alternative erano ridotte all’osso.
- Non abbiamo altra scelta, Pen – ribadì  Charlie ed io, ben sapendo che aveva ragione, trassi un respiro profondo, chiusi gli occhi e afferrai di scatto l’annaffiatoio.
Strappo all’ombelico, immagini vorticose, sensazione di risucchio.
Quando posammo i piedi a terra, una caratteristica bandiera rossa con croce blu decorata da ghiaccioli simili a piccole stalattiti ci rivelò che la gloriosa Passaporta ci aveva condotti a destinazione, sani e salvi in suolo norvegese.
Poi, dopo un altro paio di sofferti bagliori pulsanti, il nostro valoroso mezzo di trasporto si disattivò, questa volta per sempre.
 
Arrivammo alla Riserva dei Dorsorugoso Norvegesi sotto ad una nevicata così forte da impedirci di vedere a mezzo metro di distanza. E se a ciò si aggiunge il fatto che i Guardiani locali si erano dati da fare per mantenere celato l’accesso, potrete certo immaginare quanto ci fu difficile, in quell’occasione, trovare la strada.
Per nostra fortuna però, in quella Riserva, Charlie aveva degli amici.
Non semplici conoscenti, non volti sconosciuti celati dietro formali scambi di corrispondenza in pergamena; no: proprio amici, amici con la A maiuscola.
E fu così che, mente noi ci guardavamo intorno smarriti in quell’immensità bianca e alienante, intenti a tirarci su i baveri e indecisi sul da farsi, un getto di scintille rosse emesse poco lontano attirò i nostri sguardi, inducendoci a trotterellare goffamente in quella direzione.
- Weasley!
- Bjørn!...
Un paio di vivaci occhi azzurri, appena appena visibili sotto l’orlo di una buffa cuffia di lana rossa a disegni bianchi con tanto di ponpon, ci osservava da uno spioncino circondato dal nulla.
- Abbiamo disilluso il portone – ci spiegò sorridendo il giovane, un mago gioviale e molto, molto alto non appena ci fummo intrufolati dentro.
Bjørn, Knut, Oddvar e Hilde, che erano stati colleghi di Charlie in Romania, ci accolsero con un sacco di feste, abbracci e pacche sulle spalle che mi fecero letteralmente svolazzare qua e là. La cena, che consumammo all’interno di una saletta rivestita di assi di legno di pino chiaro in compagnia di tutto il personale in servizio, fu deliziosa e molto allegra; e ancor più allegrotto fu il dopocena, quando sulla tavola ormai sgombera atterrarono una decina di bicchierini di cristallo smerigliato e un paio di bottiglie che Knut definì “da non appoggiare mai, per nessuna ragione, nelle vicinanze di un drago, o l’esplosione è garantita”.
Charlie, rosso in viso, rideva di gusto man mano che antichi aneddoti venivano ritirati fuori.
- Siete sempre i soliti – sghignazzava, puntando alternativamente il dito sugli ex-colleghi.
- Senti chi parla – lo rimbeccò Hilde, strizzandomi l’occhio. – “Sangue Weasley, eruzione in vista!...”
- Già – rise Oddvarr, le guance tinte di un’allegra sfumatura papavero. - Come quella volta che aiutammo il tuo fratellino a contrabbandare un drago!...
- Che fratellino?! – chiesi stupita io, sconvolta all’idea che potesse essersi riferito a Percy.
Non si trattava di lui, ovviamente (figuriamoci!), ma il loro racconto, altresì amplificato dai numerosi bicchierini di acquavite che l’allegra combriccola cacciò giù fra un’infornata di Biscottini di Bacche e l’altra, mi lasciò letteralmente sbalordita. Quando appresi che Ron Weasley, aiutato da Harry Potter e Hermione Granger, aveva organizzato in gran segreto un prelievo di drago da Hogwarts per salvare il culo ad Hagrid, mi chiesi con quale costernazione avrebbe reagito il terzogenito Weasley se fosse venuto a conoscenza della cosa.
- E a questo proposito domani – mi disse Charlie accostandosi a me in modo assai confidenziale e infilando con delicatezza le dita fra i miei capelli per carezzarmi fugacemente la nuca – ci aspetta una gran bella sorpresa.
Io, che mi ero fatta più rossa di quanto già non fossi in precedenza, gli rivolsi un’occhiata intrigata, sforzandomi di ignorare le risatine generali.
Top secret – rispose lui in tono furbesco, mimando di chiudersi la bocca con una cerniera. – Ma non vedo l’ora.
Quella notte dormii poco.
Forse per l’eccesso di acquavite che ancora mi faceva bruciare le interiora, forse per l’eccitazione provocatami dalla misteriosa sorpresa che mi attendeva l’indomani. O forse, semplicemente, perché mi sentivo ancora il tocco ruvido e irresistibile delle dita di Charlie sulla pelle del collo. Sta di fatto che faticai non poco a chiudere occhio.
Il giorno dopo, la grande sorpresa (davvero molto, molto grande, in effetti) ci fu rivelata.
Subito dopo colazione, Bjørn e Hilde ci fecero calzare delle speciali paia di Ciaspole Magiche Anti Affondo e ci condussero all’interno del bosco, per poi calarsi con noi in un grosso pozzo tubolare scavato della terra viva.
- Ed eccola qui, la nostra reginetta – disse Hilde abbassando la voce, dopo che avemmo percorso all’incirca una cinquantina di metri. – Non è uno splendore?
A Charlie brillavano gli occhi.
- È... è meravigliosa!...- esclamò lui, facendoci trasalire. – Ma quanto sei cresciuta, Norberta!...
Io, in quel momento, non potei non dargli ragione.
La draghessa ci aveva sentiti entrare e aveva subito alzato la bella testa allungata.
Era maestosa, imponente, regale; e dall’occhiata che ci rivolse, mi avvidi subito che era anche molto, molto pericolosa. Cinque o sei creste basse e nere, lucide e taglienti come selce scheggiata,  le percorrevano la schiena dalla base del collo alla coda; gli occhi arancioni, fissi su di noi, non ci abbandonavano per un solo attimo.
Ciao Norberta – le dissi, avanzando di un passo. – Sei bellissima, lo sai?
- Modestia a parte – mi rispose lei, lasciando andare un piccolo sbuffo di fumo nero e stiracchiando pigramente le grosse ali irte di aculei.
Charlie, in piedi dietro di me, tratteneva il fiato.
- Senti – proseguii io, sedendomi a terra con estrema cautela. – Ti piacerebbe fare un salto in Inghilterra per salutare un vecchio amico?
 
La Scatola Portadraghi cominciava ad essere affollata.
Dopo aver prelevato Norberta, avevamo raggiunto la Riserva dei Crestaguzza dei Pirenei avvalendoci di un allacciamento di camini clandestino allestito in gran segreto da Knut, che da un paio di anni frequentava una tizia di Andorra. 
Marta, così si chiamava la vivace strega dai grandi occhi neri che, senza battere ciglio, ci vide uscire un po' imbarazzati di sotto la cappa del suo salotto, ci ricevette con grande entusiasmo e ci mise subito in contatto con i suoi conoscenti della Riserva, cosicchè nel giro di un paio di giorni fummo in grado di fare ritorno in Norvegia tramite metropolvere.
Malvina, la Crestaguzza che portammo via con noi, era una chica di tredici metri e cinquanta ricoperta di scaglie color fiamma viva, una chiostra di denti bianchi e acuminati come scimitarre saracene ed una cresta dorsale da far impallidire, con le dovute proporzioni, un Marlin Blue di quelli più dotati.
- Fatte attenzione alla cresta: per loro è fondamentale nella dispersione del calore - ci raccomandò Ernesto, uno dei responsabili del Parco mentre Malvina prendeva posto nel suo scompartimento. - Non deve essere assolutamente ripiegata, o l'esemplare richia di incendiarsi.
- Non ti preoccupare: io e Penny baderemo a Malvina e alla sua cresta come se si trattasse di nostra figlia – gli promise solennemente Charlie mentre io, che nel frattempo ero arrossita fino alla punta dei capelli, annuivo con tutta la convinzione che fui in grado di tirare fuori.
 
Dalla Norvegia alla Svezia, rispetto alle distanze che avevamo coperto  in precedenza, era quel che i babbani usano definire “un tiro di schioppo”.
Una volta che ci fummo intabarrati per bene nei nostri caldi mantelli di lana di pecore Vello Magico, messici a disposizione dai gentilissimi titolari dell’allevamento Midgen-McLaggen delle Isole Orcadi (Eloise e Cormac erano filiati alla Causa e non mancavano di fornire aiuto ai membri dell’Ordine), salimmo a bordo di una slitta trainata da una muta mista di Crup a Pelo Lungo e di Kneazle delle Nevi, capitanata da Oddvar che, per l’occasione, indossava un’elegante colbacco di pelo di talpa con tanto di paraorecchi incorporato.
Per raggiungere la Riserva dei Grugnocorto ci vollero tre giorni e mezzo; la neve cadeva fitta intorno a noi, ma i nostri incantesimi di respingimento ci tennero all’asciutto mentre, davanti ai nostri occhi, il nostro sestetto di bestie assortite correva senza apparentemente sfiorare il suolo immacolato, quasi avessero le ali ai piedi.
- Annika sarà proprio contenta di vederti – aveva sogghignato Bjørn al momento dei saluti, guadagnandosi in risposta un grugnito da parte di Charlie.
Fu proprio così, infatti.
Annika Berger, una delle Guardiane della Riserva e anch’ella ex-domatrice di stanza in Romania, non aspettò neppure che Charlie fosse sceso per bene dalla slitta per gettargli le braccia al collo. Gran bella ragazza questa Annika, dovetti ammettere, osservando di sottecchi la sua bionda chioma setosa e il brillìo degli occhi verdi come smeraldi. Davvero graziosa e evidentemente, vista l’occhiata poco lusinghiera che mi rivolse quando si accorse di me, assai interessata all’altrettanto piacente Weasley dai capelli ramati.
Ebbi piena riprova dei miei sospetti qualche ora dopo quando, fresca di doccia e affamata come un lupo, mi recai nelle cucine in cerca di qualcosa da sbocconcellare. Mentre passavo accanto al salotto, un timbro che conoscevo assai bene mi indusse a fermarmi dietro la porta.
Annika e Charlie si trovavano insieme; erano seduti davanti al camino e mi davano le spalle. Chiacchieravano: le loro voci, squillanti ed allegre, si sovrapponevano al secco schioccare dei ceppi che ardevano festosamente a pochi centimetri dai loro visi.
- Stai bene coi capelli corti... – stava dicendo Annika, tendendo la mani per afferrare uno dei corti riccioli rosso fiamma di Charlie.
Punta sul vivo, stavo per avvicinarmi e manifestare la mia presenza quando lei, di punto in bianco, gli fece scivolare le braccia intorno al collo e stampò le graziose labbra rosate su quelle di lui. Io rimasi di sasso, trattenendomi per un pelo dall’urlare a squarciagola un tutt’altro che diplomatico “Ma che caaaazzo fai?!”; non ce ne fu bisogno, però, perché Charlie si tirò subito indietro e si staccò da lei scuotendo la testa.
- Ma Annika!...
- Oh – sbuffò lei, delusa. – Perché, Charlie? Perché mi dici sempre di no?
- Lo sai, il perché.
Lei gli rivolse un’occhiata amareggiata.
- Ancora?... Ancora quella benedettissima Dora?
Charlie mugugnò qualcosa che mi sfuggì.
- Non mi dirai... no! – la voce di Annika risuonò incredula. - Fammi indovinare... no, dai?! Quella... quella principessina infiocchettata...?
- Lascia perdere Anni, va bene?
Se Charlie sembrava seccato, io ero letteralmente incazzata nera.
- Ci ho preso?... – insistette la giovane svedese.
- Ascolta: non sono aff...
Ma prima che Charlie potesse terminare la frase, delle urla provenienti dall’esterno della casa fecero saltare in piedi tutti quanti. Dalla porta, che era stata aperta di scatto, entrò di corsa un giovane mago scarmigliato, rosso di fiatone e visibilmente atterrito.
- Invasione! Tentativo di invasione!...
In men che non si dica l’intera squadra si riversò fuori, me e Charlie compresi.
Quando giungemmo alla radura indicataci dal ragazzo, una scena apocalittica ci si parò davanti agli occhi. Un nutrito gruppo di Mangiamorte era riuscito ad impastoiare un’enorme femmina di Grugnocorto, che ruggiva e si dibatteva disperatamente mentre, nel frattempo, un altro gruppetto nerovestito si impossessava di un drago più giovane, probabilmente il suo cucciolo.
All’arrivo della squadra al gran completo, incantesimi e maledizioni cominciarono a fioccare più abbondanti della neve che, instancabile, continuava ad ammantare il suolo.
Vidi Annika che, fuori di sé, colpiva due sventurati assalitori con sciabolate di luce, mentre Charlie tentava di recidere i lacci magici che mantenevano imprigionata la draghessa. Gli altri guardiani, nel frattempo, avevano circondato il manipolo di invasori; quelli, vedendosi accerchiati, cominciarono a smaterializzarsi uno dopo l’altro, scomparendo in inquietanti sbuffi di fumo nero.
Improvvisamente, in quel marasma, il mio sguardo incrociò quello di Antonìn Dolohov, che si era avvicinato di soppiatto al draghetto. Lui mi fissò per un lungo attimo, più raggelante del ghiaccio che ci circondava; la sua espressione di pietra ricolmò il mio cuore di gelido sgomento.
Quando capii quello che aveva intenzione di fare gridai con quanto più fiato avevo in gola e, senza pensarci due volte, lo attaccai; lui però fu più veloce di me e, rapidamente, si eclissò in un lampo di luce verde.
Charlie dovette tirarmi su di peso per staccarmi dal corpo esanime del draghetto; io urlavo e scalciavo come una pazza, ormai incapace di pronunciare una frase di senso compiuto. Passammo le ore successive riuniti nel salotto della Sede insieme a tutti gli altri; ricordo di avere pianto calde e copiose lacrime di indignazione e di tristezza col naso affondato nell’incavo del collo di Charlie, che per tutta la notte mi tenne stretta a sé, la guancia posata sulla mia fronte. Dalla mia postazione lo sentii tirare su col naso, tremare, digrignare i denti ed imprecare a mezza voce; ed io, attraverso lo strato spesso di lana calda del suo maglione con le toppe ai gomiti, potei percepire tutta la sua rabbia, la sua amerezza e il suo dolore.
Ad un certo punto, una mano delicata si posò sul mio braccio, spingendomi ad alzare la testa.
Era Annika.
- Ho visto quello che hai cercato di fare – mi apostrofò, porgendomi una grossa tazza di té nero col latte e molto zucchero.
Io le restituii lo sguardo, sfregandomi gli occhi arrossati con il dorso della mano.
- Non è servito a niente – le risposi afferrando la tazza e abbassando il capo, mesta.
– Sei stata coraggiosa: Linnaeus te ne sarebbe molto grato – mi disse lei, prima di indicarmi il tè con un cenno del capo. - Se ne vuoi ancora, mi trovi in cucina.
E così detto, si dileguò in silenzio.
Tre giorni dopo Karen, la draghessa superstite, si unì ufficialmente al nostro serraglio bene assortito.
 
Salutammo l’arrivo del 1998 dall’alto dei picchi alpini, ospiti dei Magimonaci che abitavano quelle remote catene montuose per occuparsi dei draghi Grigiofumo.
Strana specie, quella insediata sulle Alpi Svizzere. Non troppo grossa, capace di mimetizzarsi perfettamente fra le rocce e straordinariamente sfuggente; bastava un nonnulla: un fruscio, un rumore, un gesto troppo brusco e zac, i Grigiofumo scomparivano in battito di ciglia, lasciandosi dietro dense nuvole di vapore cinereo ed estremamente dannoso per i bronchi umani.
- Nei secoli passati – ci spiegò Fra’ Mathieu mentre, con carezze lente e misurate, lisciava le pliche di pelle coriacea del collo di Claude, il nostro prossimo compagno di viaggio – dovevamo tenere chiusi i passi alpini durante il periodo della muta, quando la livrea grigia cade e i draghi diventano giallo limone. In quel periodo le loro esalazioni sono di puro zolfo, e quindi immediatamente fatali per i babbani e i maghi troppo incauti.
Al monastero, che avevamo raggiunto grazie ad un Kanelbullar a Smaterializzazione Potenziante (*) preparatoci da Annika, ci trattenemmo per circa tre settimane, giusto il tempo di dare modo a Claude di abituarsi a noi senza tentare di intossicarci ad ogni parola che gli rivolgevamo.
Dopodiché, dopo aver ricevuto con immensa gratitudine una speciale Passaporta Transoceanica creata per noi dal Consiglio dei Magimonaci Anziani, io, Charlie e il nostro prezioso carico ci catapultammo alle Azzorre, la tappa più remota della nostra affannosa corsa contro il tempo.
 
Post-scriptum:
Eloise Midgen e Cormac McLaggen sono una mia OTP che compare spesso nelle mie storie (cfr. Appuntamento al Buio...pesto Peruviano e Le prodigiose sorprese ecc.): dopo essersi messi insieme alla fine del loro settimo anno sono andati a vivere sulle Isole Orcadi, dove allevano pecore fatate, le famose Vello Magico delle Shetland (cfr. Cavillo Geographics alla voce Ovis Aries Incantatus).
Perdonatemi per la battutaccia sui Keazle delle Nevi, vi prego, ma soprattutto per l’indelicatissimo ritardo nel rispondere alle recensioni... prometto di rimediare quanto prima; grazie per la pazienza.
(*) Dolce tipico svedese, in questo caso incantato per potenzializzare gli effetti della Smaterializzazione.

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Capitolo 7
*** Sotto le ceneri. ***


7. Sotto le ceneri.

Flores. Corvo.
Graciosa. Terceira. São Jorge. Pico. Faial.
São Miguel. Santa Maria.
Verdi eppur petrose briciole di terraferma distribuite nel mare, come scagliate da mano distratta. Onde color blu intenso, quasi viola, coronate da creste di spuma bianca come pizzo.
Orizzonte infinito.
La vista dalla finestra del Dragão Boreal, la piccola pensione in cui eravamo alloggiati – proprio sull’isola recante il nome del Santo Uccisore di Draghi - era assolutamente superba.
Non appena avevo messo piede sulle Azzorre, me n’ero perdutamente innamorata.

Al nostro arrivo fummo ricevuti dal Consiglio degli Anziani al gran completo.
- Vi aspettavamo a dicembre – ci disse un vecchio mago dai lunghi capelli bianchi e dalla pelle olivastra.
- Abbiamo avuto dei contrattempi – si scusò Charlie, affrettandosi poi a stringere la mano ai venerandi streghe e stregoni, subito imitato da me.
Tutti loro si dimostrarono estremamente affabili e molto, molto accoglienti nei nostri confronti. Già da molti anni gli Azzurri delle Azzorre erano una specie di drago considerata a forte rischio di estinzione ma, data la criticità della situazione internazionale, era stato deciso che uno degli esemplari supertiti sarebbe venuto con noi per darci man forte nella nostra battaglia.
La prima notte la passammo a casa Vaz, ospiti di una famiglia che, analogamente a molti altri isolani impegnati nella salvaguardia degli Azzurri, discendeva dagli Algos, gli stregoni che avevano abitato l’arcipelago prima dell’arrivo dei portoghesi.
Maria Amália (Malú) Vaz, la matriarca, era uno degli esponenti di spicco del Consiglio; con lei vivevano sua figlia Maria Isabel (Mabel) e le tre bambine di questa: Maria Zélia (Mazé), Maria Teresa (Maitê) e Maria do Amparo (Mapá). Il marito di Mabel, João Moraes Salgueiro, aveva preso il mare l’anno prima e non aveva ancora fatto ritorno. Fu estremamente complicato tenere a mente i nomi e i volti di tutte quelle Marie (perché diavolo dovevano chiamarsi tutte così?!) dagli occhi di ossidiana e dai lunghi capelli scuri ma, dopo qualche giorno, riuscii finalmente a destreggiarmi con più abilità.
La mazzata la ricevemmo in differita, la prima sera, subito dopo cena.
- E dunque domani andremo a vedere gli Azzurri? – stava dicendo Charlie mentre, aiutato da me, si dava da fare per lavare i piatti. Le donne Vaz avevano protestato a gran voce ma noi avevamo insistito, dicendo loro che intendevamo contraccambiare la loro squisita ospitalità.
Io lo osservai ridacchiando sotto i baffi.
Ormai lo conoscevo bene e sapevo interpretare i segnali: Charlie non stava più nella pelle, letteralmente scalpitava, perché quei draghi oceanici erano davvero rarissimi e neppure lui ne aveva mai visto uno dal vivo.
La risposta di Mabel smorzò immediatamente l’entusiasmo.
- Gli Azzurri non ci sono – borbottò la strega, riponendo con cura una zuppiera appena lavata nella credenza.
Charlie rimase immobile per un secondo; poi sbatté le palpebre e la guardò stranito.
- Non... non ci sono?
- No. Certo che no.
- Oh. E perché mai, se posso chiederlo? – m’intromisi io, rischiando seriamente di far cadere il piatto che stavo asciugando.
Oh, e perché accidenti non c’erano?
Ed era
così ovvio, poi, che non ci fossero?
Avevamo fatto tanta strada per...?

Malú ci restituì un’occhiata ovvia in fondo alla quale brillò, per un istante, una lucina furbesca.
- Sono al largo, sui faraglioni – disse infine l’anziana strega. – In questa stagione se ne stanno per conto loro: torneranno soltanto quando sarà il momento di deporre le uova, lassù, sull’isola di Corvo!
Io e Charlie ci guardammo sconcertati.
- Ah, ecco. Quindi, si stanno...
- Esattamente, giovanotto. Si stanno accoppiando: è una cosa normalissima!... Non c’è mica nulla da arrossire.
Mazé, la più grande delle bambine, si lasciò sfuggire una risatina argentina, divertita dall'esitazione di Charlie. Non provocata evidentemente, come forse pensarono le donne Vaz, dalla cosa in sé, quanto piuttosto dall'aver toppato alla grande i calcoli tempistici della tabella di marcia.
- Oh, beh. Ma certo – rispose lui, assumendo un’aria seria. – E quindi, ad occhio e croce, tornerebbero...
- Agli inizi di marzo.
- Ma... marzo?! Ma è fra un sacco di tempo! – esclamai io, esterrefatta. – Manca più di un mese!...
- Menina – mi ammonì Malú, severa, nel suo portoghese dal suono gutturale – a impaciência só traz besteiras.(*)
- Ma noi...
- Ciò che i draghi stanno facendo in questo momento è più importante di qualsiasi altra cosa – Mabel mi fece un cenno definitivo con la mano. – Se davvero vi interessa vederli, dovrete aspettare.
Beh, non avevamo molta scelta.
E così, semplicemente, aspettammo.

Il nostro soggiorno alle Azzorre si rivelò tutt’altro che noioso.
Io e Charlie passavamo le giornate impegnati in passeggiate esplorative, durante le quali spesso ci spingevamo in angoli remoti di quell’arcipelago strabiliante.
La bellezza dei paesaggi, che ammiravamo divorandoli con gli occhi, ci lasciava puntualmente a bocca aperta: incastonate come vividi smeraldi nel misterioso mare dai riflessi blu cupo, le isole ci incantavano con le punte aguzze dei loro vulcani, con i laghetti tondi accomodati nei crateri spenti, con i villaggi di bianche case intonacate a calce che si stagliavano sullo sfondo verde dei boschi e dei filari di vite.
Chiacchieravamo, io e Charlie, ci facevamo compagnia, per la prima volta tranquilli da quando ci conoscevamo e, addirittura, un po’ straniti dalla quiete impostaci dalla nostra pausa forzata. Per la prima volta dopo mesi e mesi di trasferte, perennemente sballottati qua e là e costantemente in fuga, assaporavamo con calma tutte le sfaccettature di un’ esistenza placida, che ci consentiva di comportarci come due giovani normali, di quelli che hanno il tempo di svegliarsi tardi, trascorrere insieme le giornate, oziare e anche – perché no? - divertirsi.
In brevissimo tempo avevamo fatto amicizia con la maggior parte delle famiglie di Calheta, il porticciolo in cui abitavano le donne Vaz e sul quale si affacciavano le finestrelle azzurre del Dragão Boreal. La gente del posto, abituata al viavai comportato dal vivere in quel crocevia degli Oceani che sono le Azzorre, era abituata ai forestieri; di solito, però, i magimarinai e i visitatori di passaggio si trattenevano al massimo per due o tre giorni di fila. Cosicché io e Charlie, costretti per forza di cose a prolungare il nostro soggiorno, venimmo ben presto ‘adottati’ da un buon numero di fieri isolani che, a colpi di sardina abbrustiolita e di delizioso riso bianco, si disputavano la nostra presenza in sala da pranzo.
Una volta al giorno, avevamo preso l’abitudine di sciogliere i draghi.
Il Consiglio degli Anziani ci aveva messo a disposizione un isolotto poco lontano da Calheta, facilmente raggiungibile tramite smaterializzazione ma astutamente schermato da incantesimi respingidrago che non permettevano ai nostri rettili di volare o nuotare al di fuori di un determinato perimetro.
- Poverini, sempre chiusi qui dentro - aveva commentato Maitê un paio di giorni dopo il nostro arrivo, quando aveva visto la nostra bizzarra collezione. La bambina aveva circa tre anni ed era un tipino attento, taciturno e follemente innamorato dei draghi e così, per farle piacere, le avevo mostrato il contenuto della Scatola.
- Già - le avevo risposto io, giocherellando con la versione mignon del vivacissimo Finn. – Sarebbe proprio bello poterli fare uscire un po'.
A risolvere l'impasse ci aveva subito pensato la lungimirante Malú, che ci aveva prontamente fornito una soluzione.
- Ilhota da Gaivota - aveva decretato, seria. – È proprio il luogo che fa per voi.
Io e Charlie ci recammo all’Isolotto del Gabbiano il giorno seguente, seguiti a ruota da Maitê. Forti folate di vento ci schiaffeggiarono in pieno viso mentre, con estrema cautela, sollevavamo il coperchio della Scatola Portadraghi e svegliavamo i suoi occupanti.
- Engorgio!
Uno dopo l’altro, li riportammo alle loro normali dimensioni; vederli distendere le code, stirare le zampe, ondeggiare i colli e sbattere le ali fu assolutamente esaltante.
Volarono a lungo quel giorno, veloci come saette, sparando in giro fuoco, fiamme, vapori, sbuffi e ruggiti. A fine pomeriggio, accettarono di farsi ricatturare solo quando promettemmo loro che, il giorno dopo, avrebbero ricevuto in dono una nuova razione di libertà.
Insomma: la nostra permanenza forzata alle Azzorre si rivelò tutt’altro che monocorde, ed io e Charlie la trascorremmo in un mix di meraviglia e gratitudine, facendoci assorbire dalla bellezza dei luoghi, dalla gentilezza degli abitanti, dalla soddisfazione di vedere felici i nostri amici squamosi e dalla consapevolezza di riconoscerci ogni giorno più affiatati.
Sempre più vicini, sempre più in sintonia; sempre più pronti ad indovinare i reciproci pensieri e a spenderci in gesti spontanei e un po’ esitanti: sfiorarci le mani, stringerci i gomiti, tirarci indietro a vicenda le ciocche di capelli sferzati dal vento, sorriderci, fissarci per qualche attimo in più del necessario.
Pensare l’uno all’altro nella solitudine delle nostre notti.
E fare sogni che, definitivamente, sarebbe stato assai meglio tradurre in realtà.
La capitolazione fu inevitabile.
Com’era prevedibile, il raggiungimento di un’inedita tranquillità fece sì che ciò che era rimasto a covare pazientemente sotto le ceneri per tanto tempo potesse finalmente divampare in fiamma viva. Ragion per cui, da un certo punto in avanti, io e Charlie finimmo per trascorrere la stagione degli amori degli Azzurri delle Azzorre dedicandoci pressapoco alla medesima cosa - ma astenendoci scrupolosamente dalla questione riproduttiva (no: non era davvero il momento).
Però forse sarà meglio che, su quest’ultima appagante attività, io spenda qualche parola in più.

Il Sereia Verde era, senz’ombra di dubbio, il luogo che preferivo frequentare quando avevo voglia di un po’di sana baraonda.
Gestito da Maria de Fátima Moraes Salgueiro, cognata di Mabel, era un locale magico unico nel suo genere: all’interno della casa di pietra intonacata di bianco, infatti, funzionava uno dei più antichi e conosciuti ritrovi dei magimarinai di tutto il mondo.
Chi si trovava di passaggio alle Azzorre non poteva certo esimersi dal fare una capatina sull’Isola di Faial per bersi un goccetto al Sereia Verde; proprio per questo, laggiù, ci si trovava di tutto, vi si potevano udire le lingue più disparate e vi si ascoltava un ottimo fado.
Giocoforza io e Charlie, curiosi come eravamo, cominciammo a recarci alla taverna quasi tutte le sere: prima un giorno sì e uno no; poi, un giorno sì e l’altro pure. I racconti che si ascoltavano in quei paraggi erano fra i più esagerati e bizzarri che avessimo mai sentito; adoravamo sederci accanto ai membri di un equipaggio appena sbarcato e, un bel bicchiere di vinho verde a levitarci accanto, gustarci le cronache epiche di coloro che si disponevano a tenere banco.
Qualche volta, per ingannare il tempo, gli avventori proponevano passatempi ludici.
Scacchi magici, domino a effetto-cascata (nel senso che, assieme alle tesserine, cadevano tutti), gobbiglie, carte autorimescolanti e cose simili, ovviamente, ma anche giochi basati sulla fantasia e sull’immaginazione.
Uno dei più gettonati era quello dell’Isola Deserta, piuttosto famoso anche fra i babbani e incentrato sulla fatidica domanda: “che cosa ti porteresti dietro in caso di naufragio?” E c’era chi rispondeva una pagnotta, chi una barchetta, chi addirittura un cuscino, chi la bacchetta magica, chi cose che è più educato non ripetere (ma che, puntualmente, suscitavano l’ilarità generale).
Io, quella sera fatidica di metà febbraio, mi ero molto attardata.
Durante il giorno io e Charlie ci eravamo spinti fino a Corvo, l’isola più distante di tutto l’arcipelago ma che io, dato il nome, avevo avuto fin da subito una voglia matta di visitare. La scalata delle pendici del vulcano Caldeirão ci aveva dato del filo da torcere ma noi, determinati a raggiungere la vetta senza magia, non avevamo desistito, venendo alla fine ripagati da una vista eccezionale.
E mentre ce ne stavamo lassù, seduti fianco a fianco sul bordo della caldera, qualcosa era accaduto.
Charlie guardava lontano, lo sguardo rapito da tanta bellezza.
- Tutto bene, Weasley? – gli avevo chiesto, ridacchiando piano nel vederlo così imbambolato.
- Il mondo è così bello, Penny – mi aveva risposto lui con semplicità. – A volte, sai, quando mi trovo in posti come questo mi verrebbe voglia di... di dimenticarmi della guerra e delle sue brutture e di rimanermene qui per sempre.
Io lo avevo fissato in silenzio, senza sapere bene che cosa dire, mentre lui cercava le parole adatte per proseguire:
- Lo so che è sbagliato, ma... ma...
Gli avevo preso la mano e avevo intrecciato le dita alle sue.
- Non c’è alcun bisogno di giustificarsi, Charlie – avevo mormorato, carezzandogli il dorso della mano col pollice. – La tua è una considerazione del tutto umana.
E allora lui aveva lasciato andare la mia presa, mi aveva circondato le spalle col braccio e aveva posato la guancia sulla mia fronte, senza smettere di guardare lontano. Eravamo rimasti così per un lungo tempo finché il sole, in viaggio verso ovest, non si era inabissato nel mare dinnanzi ai nostri occhi.
Poi, un secondo prima di partire per tornare a Calheta mentre, già in piedi l’uno davanti all’altra, ci apprestavamo a prenderci per mano per smaterializzarci, Charlie aveva dato un passo e mi aveva carezzato il viso, per poi depositare sulle mie labbra un bacio morbido, inatteso e alquanto intenso, che il mio povero cuore aveva accolto con la perdita di un battito.
E così una volta a casa io, ancora lievemente intontita da quel suo sapore inconfondibile che mi si era insinuato dentro con prepotenza, ero stata irretita dal richiamo di una calda e profumata vasca da bagno, nella quale mi ero trattenuta ben più del dovuto a riflettere, intessere congetture e formulare pensieri assolutamente inappropriati, la mente fissa su quel suo allettante figurino che, ogni volta, rischiava seriamente di farmi ammattire (questi rudi domatori di draghi dall’aspetto boschivo sono la perdizione delle ragazze per bene, si sa).
Inevitabilmente finii per fare molto tardi cosicché, quando in seguito varcai la soglia del locale, il gioco dell’Isola Deserta era in pieno svolgimento.
Ero un po’ nervosa, non lo posso negare, perché sapevo quanto Charlie non fosse tipo da fare le cose tanto per farle e quindi mi domandavo se, alla fin fine, la serata avrebbe preso la piega che tanto avevo desiderato. Certamente sarei stata pronta a buttarmi e, bando alla timidesse, a darmi da fare in prima persona perché ciò accadesse ma, ben presto, realizzai che non ce ne sarebbe stato alcun bisogno.
Lo compresi non appena i nostri sguardi si incontrarono.
Charlie mi sorrise vedendomi entrare, ed io capii subito che mi stava aspettando perché, contrariamente al solito, si era posizionato accanto al bancone in modo da poter tenere d’occhio la porta. E, dall’occhiata che mi rivolse, intuii anche che il mio ritorno alle vecchie abitudini gli era assai gradito: non essendo costantemente costretta ad una comoda praticità, per grande gioia mia ed evidentemente anche sua (e forse anche dei magimarinai, ma non importa), ero finalmente riuscita a riesumare la mia batteria di abitini celesti che tanto amavo indossare.
Io gli sorrisi di rimando, soffermandomi un attimo ad ammirare il suo bell’aspetto che quella sera, probabilmente a causa del bacio pomeridiano che ancora mi bruciava a fior di labbra, mi parve più irresistibile del solito.
I suoi riccioli ramati rilucevano sotto i coni di luce delle lampade posizionate al di sopra del bancone; la pelle del viso e delle braccia, abbronzata dal sole e punteggiata di efelidi, presentava un colorito che gli donava moltissimo e che contrastava con la maglietta bianca dal taglio semplice ma efficace, perfetta per mettere in risalto il suo bel fisico asciutto e massiccio, i muscoli delle braccia e le spalle ampie, contrappuntanti con la vita snella che tanto mi turbava. Sul suo polso un po’ squadrato spiccava il grosso braccialetto di cuoio, identico a quello che portavo io e grazie al quale ero stata subito etichettata (non proprio a ragione, in effetti, ma mai mi sarei sognata di smentirlo) come 'domatrice di draghi'.
Attraente come sei, Charlie Weasley pensai, coprendomi istintivamente la bocca con la mano per reprimere un risolino forse un po’ troppo ammiccante dovrebbero rinchiuderti ad Azkaban per lesa moralità pubblica.
- E tu, gringo dai capelli di fiamma – esclamò in quel momento un vivace magimarinaio greco all’indirizzo di Charlie – che cos'è che ti porteresti sull’Isola?
Lui abbozzò un sorriso, senza smettere di guardarmi.
- C’è una sola cosa che vorrei davvero – rispose quindi, alzando la voce in modo da farsi sentire da tutti e, soprattutto, da me. – Un lungo sorso di acqua chiara. Per placare la sete.
E così detto, sempre senza staccare gli occhi dai miei, Charlie attraversò la sala e mi venne vicino, sorridendomi a labbra strette.
Non mi diede il tempo di reagire alle sue parole, delle quali io, da brava Corvonero perspicace qual ero, avevo immediatamente compreso il significato (neanche troppo) recondito: non era di un generico sorso di acqua potabile che Charlie aveva sete, bensì di un tipo di Clearwater ben preciso e, nella fattispecie, dotato di riccioli biondi, sorriso incerto e iridi castane leggermente dilatate, incastonate in un paio di occhi sgranati.
Occhi che chiusi istintivamente quando mi sentii catturare dal suo abbraccio solido, per poi spalancarli di scatto quando le sue labbra affondarono con forza nelle mie, per la seconda volta nel giro di poche ore, cstringendomi a piegarmi all'indietro.
Un bacio, un altro, un altro ancora.
Tutto intorno a noi brindisi e accenni d'applausi, tintinnare di bicchieri, chiacchiere, brandelli di racconti mirabolanti, note di fado, immagini vorticose, luci e penombra.
All’interno della nostra bolla, però, una calma arroventata.
Suoni ovattati, vista annebbiata; l’aroma delle sardine alla brace smorzato in lontananza.
Occhi negli occhi; l’udito sintonizzato sulle frequenze dei nostri sospiri; l’olfatto inebriato dagli aromi di Charlie (sì: di Charlie, e non già di un Weasley generico) e di Penny; il reciproco gusto sulla punta delle rispettive lingue; l'intera epidermide protesa nella brama del contatto.
Le mie braccia attorno al suo collo, per impedirgli di ritrarsi.
[Pausa].
Un sorriso, una domanda pronunciata col fiato corto, quasi senza staccare la bocca dalla mia:
- Ci vieni sull'Isola Deserta con me, Principenny?
Una risposta mordicchiata (e oh, per Priscilla, quanto mi mancava quel soprannome):
- Puoi scommetterci.
La proposta indeclinabile:
- E fuori di qui?
Subito seguita da risposta ovvia-che-più-ovvia-non-si-può:
- Assolutamente sì.
Uscimmo in fretta dal locale tenendoci per mano, senza voltarci indietro.
Appena fuori, subito dopo che avevamo oltrepassato la soglia, Charlie si fermò di scatto e mi tirò per il braccio, accostandomi a sé e intrappolandomi in un abbraccio vigoroso. Sotto la leggera stoffa della maglietta percepii la tensione dei suoi muscoli contratti, che carezzai lentamente, con un sospiro, la fronte accostata alla sua e le palpebre socchiuse.
- Non farmi aspettare, fadinha (**) - rantolò lui al mio orecchio, la voce deliziosamente arrochita dalla stessa bramosia che io stessa provavo. - Non oggi, non ora.
Non ne avevo la minima intenzione.
Avevo capito che cosa mi stava chiedendo di fare e così, in un battibaleno, avevo già provveduto a materializzare entrambi sulla soglia della mia cameretta al Dragão Boreal. Dalla parte giusta della soglia, per essere precisi: e cioè all'interno. Charlie si fermò un attimo e staccò le labbra dalle mie per guardarsi rapidamente intorno, giusto il tempo di riconoscere il loco e compiacersi per l'intraprendenza del mio gesto.
Dopodiché, passò all'attacco.
Mi piacerebbe, a questo punto, narrarvi di un incontro all’insegna del romanticismo e della delicatezza, ma non lo posso fare. Mentirei spudoratamente, se lo facessi.
Perché quella nostra prima volta, avvenuta all’interno di una stanzetta foderata di legno con vista sull’Oceano tempestoso, fu marcata dalla stessa veemenza furiosa dei cavalloni che flagellano le coste nei giorni di burrasca.
Così fu, né meno né più.
In preda alla più completa ed irrazionale follia, ci scagliammo letteralmente l’una sull’altro. La mia delicata vestina di raso celeste, io credo che me la strappò letteralmente di dosso con quelle sue zampacce da orso perché, in seguito, non fui più in grado di recuperarla, neppure con i punti magici; quanto invece al mio completo di seta rosa cipria un po’ spiegazzato, devo dire che l’effetto fu esattamente quello della volta precedente perché Charlie, con gli occhi scuri che gli brillavano nella penombra, mi posò le mani sui fianchi e mi fece descrivere una lenta giravolta, per poi ordinarmi con voce affannosa:
- Fatti vedere.
Gli afferrai l’orlo della maglia e gliela tirai su, costringendolo ad abbassarsi per far passare la testa e le braccia.
- Anche tu – sbuffai, sfregandogli adagio le mani sulla pelle delle spalle, delle braccia, del petto e di quel suo strabiliante addome fidiano. E non mi fermai lì. Ispirata dall’incantevole visione del suo fisico celestiale seguii i solchi dei muscoli messi in risalto dalla penombra e portai le dita ancora più in basso, fino far scivolare i polpastrelli dentro il girovita dei pantaloni, laddove la pelle si fa più sensibile e reattiva. Al mio tocco Charlie espirò rumorosamente e mi si spinse contro, rivelandomi esplicitamente la pressione propompente della sua virilità, impaziente di essere liberata.
Lo accontentai subito: sapevo quello che volevo; lo volevo da morire e non me ne vergognavo affatto.
Con un paio di gesti rapidi gli slacciai la spessa cintura di cuoio per poi abbassare furiosamente, tutto in una volta, pantaloni e boxer, che lui scalciò via; il suo corpo sodo era caldo e levigato sotto le mie dita, ed io non potei fare a meno di percorrerlo in lungo e in largo, socchiudendo gli occhi, inebriata da quel contatto così divinamente sublime. Nel frattempo sentivo le sue mani ruvide scivolare su di me e carezzarmi la pelle, indugiando in carezze tanto audaci da farmi mugolare piano; e andammo avanti così per una manciata di estenuanti minuti finché, con una certa ammiccante malagrazia, Charlie mi rovesciò all’indietro, facendomi cadere sul letto ancora sfatto.
Non perse tempo ad affrontare bottoncini e laccetti: per quello ci sarebbe voluta una buona dose di pazienza e di tempo che lui, in quel momento, non possedeva di certo. Si limitò a liberarmi con uno sbuffo delle mie seducenti culottes di pizzo color cipria, per poi tuffarsi in avanti e schiacciarmi con tutto il suo peso contro il materasso.
Io ero pronta.
Più che pronta in realtà: non aspettavo altro da molto, troppo tempo ormai.
Spostai le gambe da sotto di lui, schiudendole appena per fargli posto, per poi stringere le ginocchia intorno ai suoi fianchi asciutti, spronandolo come un’amazzone il puledro; lui mi si sfregò contro per un lungo attimo, facendomi mozzare il respiro e spalancare gli occhi e scongiurarlo di agire (ti prego, Charlie, per tutti i Diademi di Priscilla!), e poi si spinse in avanti con forza, in un movimento unico, fluido, cercando in profondità il centro del mio essere.
Oh, Charlie.
Così fiero e spavaldo e allegro e generoso.
Così buono.
E impetuoso, focoso, irruente e determinato.
Capace di rendere la realtà di gran lunga migliore di qualsiasi immaginazione.
E se non è magia questa, cos’altro lo è?

Era bravo davvero, proprio come avevo sospettato.
Forse anche un po’ meglio, in effetti.
Mentre il sonno sopraggiungeva, però, facendo calare il suo velo setoso e cangiante sulle nostre membra allacciate, la mia mente fu attraversata da un ultimo pensiero.
Pensai che non sarebbe stato giusto confrontare ciò che Charlie mi aveva regalato quella notte con quanto avevo fintanto posseduto. Perché la Penny di prima era una persona diversa da quella attuale: troppo giovane e immatura, forse, per comprendere appieno ciò che faceva e desiderava. Per vent’anni avevo condotto un’esistenza da principessina delicata rinchiusa in un castello di cristallo, del tutto incapace assumere il ruolo di protagonista della sua stessa vita.
La Penny di adesso, al contrario, era cresciuta abbastanza da poter finalmente dare, con assoluta consapevolezza, il giusto valore e il dovuto nome alle cose. Non aveva bisogno di cavalieri che la difendessero dai draghi quanto più, forse, di un cavaliere assieme al quale difenderli, i draghi. Perché evidentemente, oltre al sublime piacere fisico, alla bramosia mordace, all’attrazione delirante che provavamo l’uno nei confronti dell’altra, c’era dell’altro.
C’erano i mesi che avevamo trascorso insieme, c’era quello che ci eravamo detti e ciò che ci eravamo visti fare.
C’erano le sfide che avevamo affrontato, c’erano i piani che avevamo tracciato; c’erano il supporto e la sicurezza che avevamo offerto e trovato l’uno nell’altra.
C’era il modo in cui eravamo giunti a conoscerci reciprocamente, ad accettarci e a piacerci con tutti i nostri pregi e difetti.
Quella era la grande differenza.
Se fosse accaduto prima, se fosse accaduto in agosto, poco prima che Dolohov si presentasse alla Riserva dei Lungocorni costringendoci alla fuga, non sarebbe stata la stessa cosa.
Sarebbe stato certamente bello, indimenticabile, importante.
Ma non sarebbe stato meraviglioso.

Post-Scriptum:
Riemergo dopo giorni di isolamento pressoché assoluto, messa ai ceppi dal Dottorato. Fra una catalogazione e l’altra, ho avuto modo di distrarmi un filino con questa roba qua.
Ringrazio anzitutto Ems che mi ha dato modo di speculare parecchio sulle Azzorre quando ho compilato la scheda di Maitê (sì: proprio lei!), la mia OC che partecipa alla sua interattiva Dragon Trainer.
Riguardo invece il capitolo:
Bhaw. Per una volta eviterò di farmi troppi trip e pubblicherò così com’è, a cuor pseudoleggero. Ormai ho accettato (quasi) serenamente il fatto di non poter fare di meglio e quindi... pace amen e evviva l’amour!...
E poi, da brava piantagrane quale sono, mi sento di aggiungere: godetevela ragazzi, ché immense grane sono in arrivo.
(*) Ragazza, l’impazienza fa fare solo sciocchezze.
(**) Fatina. Immagino sia il soprannome che gli azzorriani hanno subito affibbiato a Penny.

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Capitolo 8
*** Quei bei piani andati in fumo. ***


8. Quei bei piani andati in fumo.
 
- Mi sento... un po’ in colpa.
Oh. Ed eccoci infine giunti al punto.
Le dita di Charlie giocherellavano con le punte dei miei capelli mentre io, pigramente abbandonata contro il suo fianco e coi piedi freddi infilati fra le sue caviglie calde, contavo le gocce di pioggia rimaste incollate al vetro della finestra.
Lo sapevo.
Lo sapevo che, prima o poi, quella conversazione sarebbe avvenuta, e lo ritenevo più che giusto. Mi chiedevo solo quando e come l’avremmo affrontata. Dalla sera in cui Charlie mi aveva proposto sorridendo di seguirlo sull’Isola Deserta erano passate un paio di settimane; eravamo, ormai, agli inizi di marzo.
Mi sfilai dal suo abbraccio e mi tirai su a sedere, per fargli capire che lo ascoltavo e che rispettavo la sua decisione di abbordare l’argomento.
- Io lo so – continuò lui, arrossendo leggermente – che tu e Percy vi siete lasciati...
- ...da prima di conoscere te – precisai io.
- Sì, da prima di conoscere me, lo so – annuì lui. – Ciononostante è un po’ strano. Lo ammetterai anche tu.
Io mi mordicchiai il labbro.
Molto strano – ammisi, stringendomi nelle spalle. Non c’era molto da dire. Effettivamente, era strano. Punto e basta.
Ci avevo pensato infinite volte da quando lo avevo conosciuto, arrovellandomi inutilmente fra volere e potere.
- Sai Penny – riprese Charlie, dopo qualche minuto di silenzio. – Ultimamente Percy non si è comportato affatto bene nei confronti della nostra famiglia. Da quanto ne so è da mesi che non si fa vedere e, sinceramente, non so neanche quando mi capiterà di incontrarlo. Però...
- ...però è pur sempre tuo fratello – conclusi io al suo posto, con semplicità.
- Ci ho pensato su quasi ininterrottamente, durante tutti questi mesi – mormorò lui, scegliendo attentamente le parole. – E dopo l’episodio di agosto io lo sapevo (lo speravo, in realtà) che fra me e te, prima o poi, qualcosa sarebbe successo. Ma non succedeva... vita scombinata, tensione, fughe continue, senso del dovere... ho continuato a rimandare, in realtà. Avrei dovuto essere più coraggioso - aggiunse, con un risolino contrito, per poi spiegarmi quanto lo mettesse a disagio il trovarsi in una situazione così scomoda, costantemente combattuto fra i suoi desideri e l’etica familiare.
Io lo capivo perfettamente e ci tenni a farglielo presente. Anche per me, nonostante fosse esattamente ciò che desideravo, era strano frequentare lui dopo essere stata per anni fidanzata con suo fratello.
- In questo momento, però, non credo ci sia molto che possiamo fare – gli dissi, accoccolandomi nuovamente al suo fianco. – Sicuramente, quando avremo modo di incontrarci con Percy, gli dovremo tutte le spiegazioni del caso. Beh. Sempre che...
- “Sempre che” cosa?
- Sempre che tu la ritenga la cosa giusta da fare, intendo – conclusi, un po’ esitante. – Che, per te, ne valga la pena... che tu voglia, insomma, continuare a...
Charlie non mi rispose.
Rotolò sul fianco e si voltò verso di me, specchiando gli occhi nei miei. Io gli presi la mano per stringermela sulla guancia e lo fissai, incantata dai bagliori fulgidi dei suoi riccioli del colore del fuoco illuminati dai raggi del sole. E lui si avvicinò lentamente, fino a fondere il suo respiro col mio e a sfiorarmi le labbra con le sue.
Estão chegando!
Un bussare concitato lo frenò all’improvviso: la voce di Mabel risuonò chiara e inconfondibile oltre il legno della porta.
- Charlie, Penny! – gridò la strega, i cui passi udtimmo poi allontanarsi di corsa lungo il corridoio. - Gli Azzurri!... Stanno arrivando!
 
Di una bellezza sconcertante.
Mai riuscirei a trovare parole più adatte per descrivere l’aspetto di quei magnifici draghi dalla livrea bianca e blu, scintillante come ceramica smaltata.
Folgorati, saltammo giù dal letto e ci rivestimmo a tempo record, per poi fiondarci fuori dal Dragão Boreal e attraversare di corsa il porticciolo di Calheta. Galoppando a perdifiato ci dirigemmo a tutta velocità verso lo spiaggione indicatoci da Mabel sul quale, nel frattempo, la comunità magica azzorriana si stava radunando in tutta fretta.
E finalmente eccoli arrivare, gli splendidi Azzurri, uno dopo l'altro, alla spicciolata.
Alternando un volo rasente a vivaci tuffi fuori e dentro dall'acqua si avvicinarono, sollevando montagne d'acqua con il battito delle loro ali e lo sferzare delle loro code.
Li osservai rapita mentre Charlie, in piedi accanto a me con il vento che gli scompigliava i riccioli rossi, faticava a contenersi, esaltato come un bambino.
Quella sera, sullo spiaggione opportunamente schermato da incantesimi respingibabbani, fu allestita una grande festa alla luce di centinaia e centinaia di lanterne bianche e azzurre che levitavano nell'aria, per celebrare il ritorno degli Azzurri.
Lasciare le Azzorre fu un po' come morire; io e Charlie ce ne andammo a malincuore, ben consci del fatto che il nostro breve idillio era ormai giunto al capolinea e che era ormai tempo di fare ritorno alla dura realtà.
Ci trattenemmo per altri tre giorni, giusto il tempo di permettere ad Álvaro, il nostro nuovo amico, di riprendersi dal viaggetto di ritorno dai faraglioni ed abituarsi all'idea di lasciare il suo paradiso marino.
- Ci dovete mettere l'acqua - disse Malú, puntando il dito sulla casella che gli era stata destinata all'interno della Scatola. - Gli Azuis sono quasi degli anfibi, sapete.
Una volta che anche Álvaro ebbe preso posto all'interno del suo scompartimento opportunamente riempito di acqua di mare, liberammo Finn (sarebbe stato lui a riportarci indietro, facendo leva sulla sua resistenza e velocità), lo ingrandimmo e partimmo alla volta delle Ebridi.
 
Altre isole, altro scenario, altra quotidianità.
Se, prima di conoscere le Azzorre, le avevo sempre immaginate come un luogo isolato dal mondo (per poi scoprirle frequentate e vivaci come il porto di mare che effettivamente erano), la vera essenza dell'isolamento la conobbi quando misi piede a St. Kilda.
Quello era vivere fuori dal mondo.
Altro che Sereia Verde a Faial.
Io e Charlie ci scambiammo un'occhiata trepidante quando, non appena le zampe di Finn si posarono sulla giovane erba primaverile che ammantava l'isola, avvistammo di lontano una coppia di persone che procedevano spedite nella nostra direzione: un uomo e una donna.
- Alexander McFusty - si presentò l'uomo, un imponente scozzese dai capelli color della neve e un'espressione granitica che ci si era avvicinato a grandi passi. - Laird di St. Kilda. E questa - aggiunse, indicandoci una donna minuta dall'aspetto dolce che, nonostante i passettini rapidi, si era costantemente mantenuta al suo fianco durante la camminata, senza mai restare indietro - è mia moglie Catriona.
- Benvenuti, miei cari - ci salutò lei profondendosi in caldo sorriso, diametralmente opposto al cipiglio del marito e, senza dubbio alcuno, capace di conquistare il più burbero degli uomini. - Venite dentro, su. Ho preparato i biscotti.
Io e Charlie la guardammo con gratitudine.
- Andate pure avanti - grugnì il signor McFusty, esortandoci a seguire la moglie lungo il sentiero che recava ad un basso casolare di pietra col tetto di paglia.
Noi, dato il timore reverenziale che ci incuteva costui, eseguimmo senza fiatare.
Dopo qualche centinaio di passi, però, incuriosita dai suoni e dalle risate che, nonostante le raffiche di vento, provenivano dalle nostre spalle, non potei fare a meno di girarmi.
Rimasi di sasso, indecisa se azzardarmi a ridere o no della gaia scenetta che mi si parò dinnanzi agli occhi.
Il terribile e austero Alexander McFusty rideva e giocava con Finn, grattandogli vigorosamente la testa e rotolando allegramente con lui sul terreno erboso.
- Non farci caso, mia cara - sorrise la signora Catriona, un guizzo divertito nelle iridi chiare. - Fa tanto il burbero, ma quando ha a che fare coi draghi ritorna bambino.
Ci trattenemmo a St. Kilda per una settimana, che trascorse in un lampo fra visite all’allevamento, chiacchierate con gli impiegati, passeggiate lungo gli impervi sentieri che solcavano l’isola e serate accanto al fuoco sorseggiando tè di cardo e sbocconcellando i magnifici biscotti della signora Catriona.
I McFusty, scoprii, allevavano Neri delle Ebridi fin dai tempi dei Fondatori e fors'anche da prima.
Charlie mi aveva confidato che convincere il Laird a cedere una delle sue preziose bestie era stata un'impresa titanica; alla fine la diplomazia di Sturgis Podmore aveva avuto la meglio, ma si vedeva che i membri del clan erano ancora piuttosto restii ad affidarci Kendra.
- Mi raccomando - continuava a borbottare Mr. McFusty mentre io e Charlie la rimpicciolivamo per farla entrare nella Scatola Portadraghi. - Trattatela come...
- È per il bene superiore, mio caro - gli ricordò Catriona per l'ennesima volta mentre Callum, il loro nipotino di sette anni, si stringeva al kilt di lana ruvida del nonno, incredulo per la partenza della draghessa. - Dobbiamo fare la nostra parte anche noi, se vogliamo il meglio per loro - disse la saggia strega, additando gli stormi di Neri che volavano a zigzag nel cielo plumbeo.
 
- Prima di recarci in Galles per provvedere alla nostra ultima acquisizione – mi aveva detto Charlie prima di lasciare le Ebridi – dobbiamo fare una cosa.
- E sarebbe?
- Fare un salto a casa – aveva risposto lui. – È da agosto che non ho loro notizie. Ho bisogno di sapere come stanno.
Io l’avevo guardato timidamente.
- Casa tua... la casa dove vive la tua famiglia... i tuoi fratelli, i tuoi genitori...
Lui mi aveva sorriso.
- So cosa ti preoccupa – mi aveva detto, stringendomi forte la mano. – Ma non ti devi impensierire. Ci parlo io con babbo e mamma e, ne sono più che sicuro, nessuno dei miei fratelli avrà un bel niente da ridire.
- Oh, beh. Se lo dici tu... – avevo mormorato io, a disagio, per poi raddrizzarmi e darmi un tono. – Va bene. Dove devo...?
- Alla Tana.
- Okay. La Tana!
Crack.
 
Charlie non lo sapeva.
Non lo sapeva che gli Weasley, vedendosi ogni giorno più minacciati dai Mangiamorte, erano stati costretti a trasferirsi tutti quanti a casa della prozia Muriel, opportunamente protetta da Incanto Fidelius. Non sapeva che l’altra Casa Sicura era Villa Conchiglia, la villetta in cui suo fratello Bill risiedeva con la sua novella sposa Fleur Delacour. Non sapeva che la Tana era diventata un luogo pericoloso.
I nostri ultimi scambi di informazioni con l’Ordine risalivano a troppo tempo prima e noi, per evitare intercettazioni, ci eravamo scrupolosamente astenuti dal tentare un contatto.
E così, all’oscuro di tutto, ci recammo nel Devon in cerca di notizie.
Se avessimo saputo di come stavano le cose, non l’avremmo mai fatto.
 
- Ma cosa diavolo...
Charlie osservò la casa della sua famiglia, confuso. Tutto, in quel luogo, recava i segni dell’incuria, dell’abbandono, della depredazione.
Io mi guardai intorno, nervosa.
Alte spighe di grano e canne di fosso occludevano la vista, accerchiandoci come una muraglia.
- Non c’è nessuno, qui – la sua voce risuonò intrisa di preoccupazione nell’aria immobile.
- Charlie – gli dissi io, accostandomi a lui. – Andiamo via. Non mi piace per nien...
Ci furono addosso prima che io avessi il tempo di terminare la frase.
Erano una mezza dozzina e, questa volta, non esitarono prima di colpire. Ci attaccarono subito.
- Protego!
Lo Scudo di Charlie mi salvò per un pelo da uno Schiantesimo scagliatomi contro da uno di loro: io urlai, gettandomi a terra per schivare un altro incantesimo che mi piovve addosso come grandine.
Non sapevo cosa fare. Non ero mai stata brava a duellare ma, da terra, riuscii ad impastoiare un paio di soggetti facendoli stramazzare al suolo mentre Charlie, solo contro tutti, si batteva come un leone.
Ma non ce l’avrebbe fatta, e lo sapevo, per cui mi tirai su e tentai di darmi da fare. Quasi subito, però, uno sbuffo di fumo nero denso come il carbone mi raggiunse facendomi quasi soffocare: io tossii rumorosamente, con gli occhi che mi bruciavano. E mentre cercavo disperatamente di recuperare l’equilibrio e la vista, una mano ossuta si strinse intorno al mio polso.
Oh, per la saggezza di Priscilla.
Quando il mio sguardo incrociò il suo boccheggiai per l’orrore, tentando invano di ritrarmi.
Era lui.
Antonìn Dolohov.
Io urlai di nuovo e mi dibattei, terrorizzata al ricordo di come quel farabutto aveva ucciso il draghetto svedese.
- Impedimenta!
L’Ostacolo lo colpì alla mano, obbligandolo a mollare la presa; Charlie corse in avanti, frapponendosi fra me e lui.
Dolohov lo guardò.
Il tempo parve fermarsi.
Il suo sguardo era di nera lava rappresa nel momento in cui, sollevata la bacchetta con un gesto fulmineo, la puntò contro Charlie.
Vi fu un lampo di luce rossa (*).
Charlie incassò il colpo e indietreggiò di un passo, sgranando gli occhi che, subito, gli si riempirono di lacrime.
Senza pensarci due volte, io lo presi per le spalle e mi smaterializzai lontano.
 
Avevo pronunciato coordinate a caso, cosicché non avevo la minima idea di dove ci trovassimo: probabilmente da qualche parte nel Nord, viste le montagne scure che soffocavano l’orizzonte tutt’intorno a noi.
Mi guardai intorno freneticamente, rendendomi conto di essere atterrata sulla morbida rena scura di un grande lago incastrato fra i monti. Accasciato sulla riva di quel gigantesco specchio d’acqua cupo come l’ombra, Charlie respirava a fatica, tremava e si lamentava, il colorito terreo e gli occhi serrati.
Non sapevo cosa fare: ero davvero disperata.
Mi inginocchiai accanto a lui, sollevandogli il maglione in corrispondenza del punto in cui le sue mani si premevano convulsamente del ventre. Riuscii a staccarne una a fatica: lui opponeva resistenza, le sue dita erano contratte e quasi inamovibili, non voleva che vedessi.
- Charlie!
La pelle chiara dell’addome era segnata da un livido violaceo che si dilatava a vista d’occhio, facendosi sempre più scuro: la visione era talmente raccapricciante che io gridai, lacerando il silenzio di quel paesaggio spettrale.
Rimasi immobile, mentre l’eco della mia voce svaniva nell’aria.
E forse avevo urlato un po’ troppo forte, e l’eco aveva riverberato ovunque il mio chiasso: non lo so. Sta di fatto che, poco dopo, la superficie del lago cominciò ad incresparsi sotto i miei occhi esterrefatti, prima leggermente e poi in maniera sempre più decisa finché, sollevando una vera e propria cascata di gocce, un collo lungo, nero e rilucente si sollevò oltre il pelo dell’acqua.
Fissai la creatura con gli occhi sbarrati, estraendo la bacchetta per difendere me stessa e Charlie. Lei chinò il capo e mi fissò, senza dimostrarsi intenzionata ad attaccare.
- Chi è vossia, piccola fata boschiva?
Non era un drago, quello. Era un’altra cosa: una cosa che non avevo mai visto prima di allora; un essere antico come la terra e altrettanto misterioso. Parlava un Rettilese dalla pronuncia antiquata e dal vocabolario arcaico, diverso da quello dei draghi, che mi ricordò immediatamente l’esame di Paleontolinguistica, sostenuto al secondo anno di università.
“La Plesiosaurica è una lingua morta” ci aveva spiegato il professore “sebbene alcuni dicano che essa venga parlata ancor oggi, in una manciata di località lacustri nel nord della Scozia.”
Tentando di riportare alla memoria le complicatissime declinazioni che avevo imparato a costo di notti e notti di studio alla luce della bacchetta, balbettai una risposta.
- Ho bisogno di aiuto. Il mio compagno sta male.
- Non vedo Marchi Neri, sulle tue bianche braccia – replicò la creatura, scrutando attentamente il mio braccialetto di cuoio spesso. – Vedo anzi che porti un distintivo di Amica dei Draghi.
Charlie si lasciò sfuggire un gemito.
- Charlie!...Oh, per Priscilla... aiutami, ti prego...
- Aiuto sarà sempre dato, qui nelle Highlands, alle streghe e ai maghi di buona volontà – sentenziò la creatura, inabissandosi velocemente nei reconditi meandri della sua casa acquatica.
- Aspetta! – la richiamai io, tentando invano di correrle dietro.
L’acqua era gelida.
Tornai frettolosamente sui miei passi, l’orlo della gonna tutto bagnato. Un secondo dopo,uno schiocco secco seguito da una serie di brevi scoppiettii mi costrinse ad alzare la testa verso il cielo scuro, gravido di pioggia.
- Ma cosa...
Da dietro una grossa nuvola grigiastra aveva fatto capolino un oggetto stranissimo che procedeva sferragliando; schermandomi gli occhi con la mano, misi a fuoco una motocicletta volante con tanto di sidecar. Il veicolo magico era tutto rattoppato; guardando bene mi avvidi che era il risultato di un assemblaggio di organi eterogenei donati dai più svariati macchinari babbani: automobili, motocicli, radiatori, biciclette, ma anche lavatrici, tostapani, tosaerba e tastiere di personal computer.
La sorpresa principale, però, doveva ancora venire.
Dopo aver fatto posare a terra la motocicletta con una sterzata memorabile, dal posto di guida saltò giù una figuretta bionda che mi raggiunse di corsa, levandosi in tutta fretta gli spessi occhialoni da aviatore.
- Mc... McDougall?! – balbettai io, sgranando gli occhi.
- In persona, Caposcuola Clearwater – mi rispose la giovane biancovestita, estraendo dalla tasca del camice una tavoletta simile ad un prontuario medico. – Dimmi una cosa: questo qui a terra, è per caso un Weasley? - mi chiese, affrettandosi a trascrivere diligentemente sul blocco il nome che io le riferivo.
Morag McDougall era stata una studentessa della mia Casa, più giovane di me di qualche anno. Ritrovarla così inaspettatamente, a distanza di anni e, soprattutto, in circostanze così critiche, fu un’esperienza quasi surreale.
- Chi abbiamo qui, Mog?
L’occupante della carrozzetta, un giovane alto coi capelli scuri tutti spettinati, ci aveva raggiunto stiracchiando le lunghe gambe. Indossava un camice da Medimago non esattamente immacolato sovrapposto ad un kilt a scacchi e teneva fra le labbra una sigaretta artigianale, che aveva tutta l’aria di essere stata arrotolata giusto qualche minuto prima dell’atterraggio.
- È dei nostri, Carbry – lo informò Morag.
- Ah, bene. Cool – replicò lui, in un sorprendente accento misto di scozzese e nordamericano.
Nel frattempo Charlie, disteso a terra, aveva preso a contorcersi per il dolore e a sudare freddo.
Morag mi rivolse un’occhiata interrogativa.
- Lo hanno... lo hanno colpito – spiegai precipitosamente io, sforzandomi di non risultare troppo confusa. – Un incantesimo... n-non so quale...
Il giovane Medimago si inginocchiò al mio fianco, allontanando con un colpo di bacchetta le mani di Charlie per esaminare velocemente la parte lesa. Lo vidi che stringeva gli occhi, facendo oscillare la sigaretta fra le labbra.
- Maledizione Oscura Non Verbale, di quelle a lesione interna. – decretò dopo un rapido esame. – Ossia: Dolohov colpisce ancora. Dammi una mano, Mog.
Aiutato da Morag, Carbry cominciò a fare scorrere di piatto la bacchetta sul ventre di Charlie, subito riscaldato da una lieve luminosità che, ben presto, arrestò l’avanzata del livido oscuro. Li sentivo che borbottavano, pronunciando una serie di parole assolutamente incomprensibili ed  interrompendosi solo per applicare ripetutamente spessi strati di un misterioso gel verdastro contenuto il un flacone che Morag aveva estratto da uno scompartimento della motocicletta.
- Direi che ci siamo – decretò Carbry dopo un tempo che mi parve eterno. – Interrompi il contatto, Mog.
Lo vidi che si alzava in piedi e frugava nelle tasche del kilt, dalle quali estrasse una nuova sigaretta. Io balzai in piedi a mia volta.
- Posso... dottore... posso sapere... – pigolai, spostando alternativamente lo sguardo da lui alla sua assistente. Charlie, ancora disteso a terra, sembrava dormire.
- Cerca di mantenere la calma, Penelope – mi disse Morag, posandomi la piccola mano sul braccio e rivolgendomi un’occhiata rassicurente. – Carbry sa quello che fa. Sempre.
Le sue parole trasudavano una fiducia assoluta.
Rassicurata, mi lasciai cadere su un tronco abbattuto e Morag venne a sedere accanto a me.
- Carbry è bravissimo: si sta per specializzare in Magimedicina a Cambridge, lo sai?
Non lo sapevo.
Non lo avevo mai visto in vita mia, quel Carbry, nonostante avesse, come scoprii poi, la mia stessa età e fosse il fratello maggiore di una persona che conoscevo di vista: Katie Bell, la fidanzata di Oliver.
- È che Carbry, nonostante sia nato qua in Scozia,  ha studiato ad Ilvermorny – chiarì Morag. – Babbo Bell è di Chicago, sai.
- E tu che cosa ci fai in giro con un Medimago di Chicago, invece di essere ad Hogwarts a fare il settimo anno? – le chiesi, incuriosita.
- Siamo amici fin da piccoli – rispose lei, concentrandosi sul materiale medico che stava riponendo nello scompartimento del sidecar. – Abbiamo deciso di renderci utili qua fuori.
E mi raccontò che, allo scoppio del conflitto, lei aveva disertato la scuola e, assieme a Carbry, aveva allestito l’ “Ambulatorio Volante” per portare soccorso ai feriti di guerra. Il loro quartier generale si trovava su all’estremo nord, alle isole Shetland che, assieme alle Orcadi e alle Ebridi, rappresentavano l’ultimo baluardo libero della Resistenza al Signore Oscuro e ai suoi accoliti.
Charlie sonnecchiava.
- Come... come sta? – domandai cautamente a Carbry che, dopo avere finito la sua sacrosanta sigaretta, si era riavvicinato e armeggiava con la bacchetta nei paraggi del paziente.
N’t baaad – rispose lui, senza sbilanciarsi troppo. – Però quaggiù non ci rimane, Mr. Redbull. Ce lo portiamo su alle Shetland. Per precauzione.
- Tiro fuori la brandina – saltò su Morag, facendo rapidamente comparire un lettino pieghevole con tanto di gancetto da rimorchio da attaccare alla motocicletta.
- Bene – annuii io – preparo le nostre cose.
Mi misi in piedi e presi a raccattare in fretta tutti i nostri averi.
- Ehi.
Girai di scatto la testa: Charlie aveva aperto un occhio e cercava di tirarsi su, prontamente bloccato da Carbry
- Dove credi di andare, Mr. Reddie?
Charlie tentava invano di rialzarsi.
- Il Verde Gallese... la Missione...
- Non se ne parla neanche – lo stoppò il Medimago, sbuffando fuori una nuvoletta di fumo. – Vuoi per caso un biglietto di sola andata per l’isola dei morti?
Charlie ammutolì.
Io inorridii.
- Charlie deve riguardarsi – disse Morag, agganciando il lettino alla motocicletta. – È appena scampato da qualcosa di molto brutto, credimi.
- Ti credo – risposi io, riprendendo a sistemare il bagaglio.
- Penny.
La voce di Charlie mi chiamò. Era flebile, quasi irriconoscibile.
Mi posizionai accanto a lui.
- Oh, Charlie. Andrà... andrà tutto bene, te lo prometto... – gli dissi, stringendogli la mano. – Andremo su insieme, alle Shetland... ti cureranno per bene...
Lui alzò una mano a fatica e mi carezzò la guancia.
- Tu non ci puoi venire alle Shetland, Penny.
- Co... cosa?! – strillai io, scuotendo la testa. – Ma sei impazzito? Io non va...
- Ascolta... ascoltami Penny – mi interruppe lui, serio. – Devi andare in Galles, non c’è tempo da perdere... ricordatelo... il Verde Gallese, manca solo lui...
- Senza di te, io non vado da nessuna parte!... – urlai, gli occhi pieni di lacrime.
Charlie mi guardava stringendo le labbra.
- Penny...
- Ma io non posso andare in Galles da sola!... Non ce la farò mai, senza di te!...
- Ma certo che ce la farai – sorrise debolmente lui, picchiettando il dito sul braccialetto di cuoio spesso che mi aveva regalato. – Tu sei una domatrice di draghi ormai, giusto?
- Io non sono...
- Mi raggiungerai alle Shetland quando lo avrai prelevato... – mi zittì lui, premendomi l’indice sulle labbra mentre io protestavo a gran voce. – Ce la devi fare, Penny: ne va della nostra Missione... ne va di tutto.
 
Post-scriptum:
Morag McDougall, Carbry Bell e l’Ambulatorio Volante fanno una breve comparsa nella long Le prodigiose sorprese di un Armadio Svanitore; la mini-long La cura universale, invece, è dedicata esclusivamente a loro. E sì: Carbry sa sempre quello che fa. Dal punto di vista medico, almeno :)
Ancora una volta, grazie di cuore ad Ems che mi ha autorizzata a citare Callum, Catriona e Alexander McFusty e il loro allevamento di Neri delle Ebridi, protagonisti indiscussi della sua interattiva Dragon Trainer e da lei caratterizzati (spero di non avere fatto pasticci).
(*) Dice Gugol: la Maledizione di Antonin Dolohov ”genera un lampo di luce rossa che provoca gravissime ferite interne”. Dolohov è anche capace di avvelersene non verbalmente.
 

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Capitolo 9
*** Vecchie fiamme ed altre ustioni. ***


9. Vecchie fiamme ed altre ustioni.
 
“Ad una condizione; anzi no: a due” avevo detto a Charlie prima di acconsentire a lasciarlo andare alle Shetland da solo.
“Spara”.
“Intanto, la Scatola portadraghi la tieni tu” avevo iniziato io, porgendogli il nostro prezioso carico. “Nel caso in cui...”
“Non dirlo. Non succederà” mi aveva zittita lui, prendendo però fra le mani l’oggetto di legno dentro il quale i nostri amici squamosi sonnecchiavano ignari. “E la seconda?”
“Mi devi fare un Languelingua Esteso Condizionale” avevo ordinato io, con la voce che mi tremava.
Charlie aveva spalancato gli occhi.
“Co... No, non se ne parla neanche” mi aveva risposto, in un tono che non ammetteva repliche.
“E invece sì” avevo insistito io. “Altrimenti, niente Galles”.
Lui si era accigliato.
“Ma tu lo sai che, in determinate circostanze, questa scelta potrebbe costarti molto caro?”
Lo sapevo.
Sapevo che, se mi fossi fatta apporre quello speciale incantesimo che impediva ad una persona di raccontare un determinato segreto a qualcuno cui non avesse intenzione di svelarlo spontaneamente, mi sarei giocata la carta della salvezza in caso di cattura. Il Languelingua Esteso Condizionale era un vero e proprio sigillo di segreto: io avrei potuto parlare della nostra Missione con chiunque avessi voluto, ma non avrei potuto farlo con qualcuno disposto ad estorcermi la verità, neanche sotto Imperius né per vie traverse, come ad esempio il mimo o la scrittura. Eppure, essendo ben conscia del fatto che probabilmente, se mi avessero catturata, avrei finito col cantare (mi conoscevo abbastanza bene da sapere che la paura mi avrebbe indotta a rapida capitolazione), ero giunta a questa conclusione chiara e semplice: non potevo rischiare.
“Avanti” avevo detto a Charlie, fissandolo con una risolutezza che non provavo. “Non abbiamo tutto il giorno”.
Lui aveva protestato, argomentato, imprecato e preteso.
Io non avevo ceduto.
Acconsentii solamente a portarmi dietro uno dei draghi, opportunamente rimpicciolito e addormentato in un sacchettino di velluto a Scomparsa Apparente.
“Non si sa mai” mi disse Charlie, mentre riponevo delicatamente il piccolo Ungaro Spinato all’interno del suo nido improvvisato."Potrebbe sempre tornarti utile"
Alla fine, dopo essermi infilata in tasca anche una vecchia radiolina consegnatami da Morag (“Tienila sintonizzata su questa stazione: è Radio Potter. Ti permetterà di tenerti informata”), mi avvicinai  a lui per salutarlo.
“Comportati bene, fai come ti ordina il dottor Bell e guarisci alla svelta” gli raccomandai, tendendo la mano per carezzargli i morbidi riccioli che gli ricadevano sugli occhi.
“E tu raggiungimi il prima possibile” replicò lui, tirandosi su dalla brandina per abbracciarmi con tutte le (poche) forze di cui disponeva. “Andrà tutto bene, ne sono sicuro”.
Lo spero proprio pensai io, godendomi a fondo quell’abbraccio dal quale non avrei voluto sciogliermi mai.
 
Ovviamente, era andato tutto storto.
In Galles, purtroppo per me, non ci ero mai arrivata: mi era bastato mettere piede a Londra – dove, secondo istruzioni, avrei dovuto incontrarmi con il nostro contatto gallese il quale, in seguito, mi avrebbe condotta alla Riserva dei Verdi – che Dolohov e la sua squadra mi avevano immediatamente individuata e catturata.
“Mi farò trovare tutti i giorni alle 13.23 a Trafalgar Square, fra le zampe del leone sud” erano state le istruzioni del contatto. Alle 13.15 di quel mercoledì di fine marzo mi ero quindi recata puntuale sul posto e, dopo meno di cinque minuti di attesa, avevo avvertito una mano che mi toccava delicatamente la spalla. Subito dopo, una voce maschile dall’accento duro dell’Est europeo mi aveva sibilato:
- Arrenditi subito, Miss Clearwater, o scateno una strage di babbani.
Oh, merda.
Mi ero girata lentamente verso di lui, ruotando su me stessa con tutta la calma che mi era riuscito di mantenere. Dolohov, oscuro come la Morte nel suo mantello completamente nero, mi scrutava impassibile.
- Non fate del male a nessuno, vi prego – gli avevo detto alzando le mani e faticando non poco a sostenere il suo sguardo di pietra.
- Io, questo attaccamento a creature cotanto inferiori, non lo capirò mai.
Io avevo abbassato il mento, lisciandomi piano piano la gonna del mio vestito primaverile a fiorellini azzurri.
- Se non facciamo qualcosa noi, che abbiamo la magia dalla nostra – gli avevo mormorato in risposta, senza guardarlo, per poi alzare nuovamente il viso mentre terminavo la frase - chi mai li potrà aiutare?(*)
Lui era rimasto immobile per qualche attimo, fissandomi come se volesse passarmi da parte a parte.
- Andiamo. La bacchetta, prego.
 
E il mese di aprile lo trascorsi così: reclusa in una cella buia nei sotterranei del Ministero della Magia.
Durante i primi quindici giorni non si fece vedere nessuno: mi avevano isolata, lasciandomi a maturare in completa solitudine la paura per quello che mi avrebbero fatto. A stimolare a dovere la mia immaginazione, oltre le sbarre che chiudevano il mio angusto ricovero udivo spesso le grida e le implorazioni dei prigionieri sottoposti a tortura, sovrapposte agli insulti e alle risate dei loro carnefici.
Io ero a dir poco terrorizzata.
Non sono durata neanche ventiquattr’ore senza Charlie, continuavo a ripetermi, dandomi della stupida. Stupida, stupida, stupida Penny, che si era illusa, nonostante tutte le sue abissali incertezze, di potersela cavare da sola.
Di come accidenti avessero fatto a scovarmi in così poco tempo, non ne avevo la più pallida idea, ma ormai la quaglia era andata, giusto per dirla in modo un tanto triviale. Mi avevano presa e mi tenevano imprigionata; e non solo il recupero del Gallese era andato a farsi benedire ma, senza bacchetta, non sarei mai stata in grado di avvertire Charlie che ormai, su al Nord, doveva chiedersi dove diavolo mi fossi ficcata e che, di sicuro, doveva essere oramai preoccupatissimo.
Dopo qualche giorno trascorso a progettare piani di fuga, uno più mirabolante e improbabile dell’altro, mi misi il cuore in pace e mi rassegnai all’attesa, che la solitudine e le ristrette dimensioni della cella resero quasi subito insopportabile. Avevo con me László (che, essendo infilato nel sacchettino a Scomparsa Apparente, loro non avevano trovato), è vero, ma senza bacchetta non sarei stata in grado di risvegliarlo né di ingrandirlo, e così non potei neppure beneficiarmi della sua pungente compagnia.
Gli interrogatori cominciarono alla metà del mese.
Ricordo ancora il terrore che provai quando, preceduti da un agghiacciante clangore metallico di chiavi non oliate, Dolohov e due dei suoi loschi compari penetrarono nella cella e rimasero in piedi davanti a me, fissandomi in silenzio per una manciata di eterni minuti.
- Saletta Alfa. Andiamo.
Ares Mulciber e Aidan Avery, scoprii quasi subito, erano quelli cattivi.
Le tentarono tutte, ma proprio tutte per farmi confessare, venendo fermati con un cenno di mano da Dolohov, che di solito si limitava ad assistere all’interrogatorio immerso nel silenzio più completo, solo quando rischiavano di eccedere in tentativi di convincimento troppo estremi.
Ovviamente nessuna delle loro tecniche, più o meno aggressive, funzionò minimamente.
Non perché io non avessi la minima intenzione di collaborare (altroché: dopo il secondo assaggio di una blandissima Cruciatus sarei probabilmente stata pronta a sbandierare tutti i miei più intimi segreti in mondovisione) ma perché, proprio come avevo preventivato, l’incantesimo Languelingua che avevo convinto Charlie ad appormi me lo impediva. E così, dopo circa una settimana di tentativi frustrati che rischiarono più di una volta di sfociare in marchiature forzate (a Mulciber prudevano i ferri) e violenza allo stato puro (Avery si conteneva a fatica, lo si vedeva, e non me la faceva pagare solo perché Dolohov glielo vietava), il tutto condito da urla e lacrime mie e minacce di morte da loro pronunciate ogni mezz’ora circa (avevano entrambi l’Avada Kedavra facile, quei due cani), la Commissione Verità decise di ricorrere alle maniere forti.
Perché Dolohov era un assoluto bastardo, ma era anche dotato di un’intelligenza sottile: aveva capito, l’infame, che con i metodi tradizionali non avrebbero ottenuto niente.
Cosicché, all’inizio dell’ultima settimana di aprile, si presentò da solo sulla soglia della mia cella, e sempre da solo mi scortò fino alla maledettissima Saletta Alfa.
Io ero talmente stanca e rassegnata che lo seguii come in trance, pronta al peggio.
Non c’erano ferri né loschi individui ad aspettarmi, però: soltanto una poltroncina di velluto azzurro dall’aspetto confortevole, sulla quale Dolohov mi fece segno di accomodarmi con un gesto silenzioso.
- Legilimens!
La prima seduta fu orrenda, e le altre non furono da meno.
Giorno dopo giorno Antonìn Dolohov mi lesse dentro, denudando la mia anima e rivoltando i miei pensieri, i miei sogni e i miei ricordi come calzini: indagò la mia vita e la mia infanzia, lesse sogghignando i miei segreti di bambina e derise crudelmente le mie insicurezze di ragazzina e di giovane donna. Dinnanzi ai suoi occhi che scrutavano e schernivano le pieghe più segrete e indifese della mia personalità mi sentii nuda, esposta e incapace, e il suo giudizio mi annichilì, mi umiliò, mi lacerò l’anima e mi fece così male da farmi desiderare di ricevere, al posto di quel supplizio, qualsiasi tipo di violenza fisica.
Scavò, Dolohov,  scavò.
Giunse a scoprire di me cose che nessuno, forse neppure io stessa, avrebbe mai sospettato; e più io lo scongiuravo di lasciarmi in pace, più lui si accaniva a cercare, fra le curve e i meandri della mia anima martoriata, l’unica verità che avrebbe voluto carpirmi e che io, che subivo impotente le sue cruente intrusioni, non sarei mai stata in grado di rivelargli.
E i giorni passavano ed io, fra le lacrime, lo imploravo:
- Non ti posso dire quello che vuoi sapere: non lo posso fare, lo sai anche tu!
E lui proseguiva imperterrito, pur sapendo che ogni nuovo tentativo si sarebbe rivelato inutile. Si divertiva. E andava avanti.
Finché ad un certo punto, con il cuore gonfio di sgomento, mi resi conto che aveva smesso di cercare l’informazione che gli serviva. Mi accorsi invece che aveva ripreso a leggere e analizzare i frammenti della mia vita che mi erano più cari, ma senza giudicarli in modo crudele, bensì con una certa curiosità che mi atterrì, perché mi parve morbosa.
La lettera da Hogwarts, il vestitino nuovo di raso azzurro cielo, la nomina a Prefetto, la festa dei Caposcuola. Le lodi del professor Vitious, il sorriso di Percy, la finale dei Mondiali di Quidditch, un raro abbraccio da parte di mia madre, il permesso di usare i ferri magici arricciacapelli.
Le labbra di Charlie sulle mie, in quella sera di fine luglio.
- S-smettila!...
Dolohov continuava a scrutare, ignorando le mie suppliche.
Le mani di Charlie sulla mia pelle, i suoi polpastrelli ruvidi e caldi. Il cuore accelerato. Il suo bianco sorriso. La mia lingerie di seta che scivolava via.
- Vattene... vattene, ti prego...
“Vorrei rimanere qui alle Azzorre per sempre”.
“Vieni con me sull’Isola Deserta, Principenny?”
- Lasciami!... Lasciami andare!...
L’invasione cessò all’improvviso. Ad aleggiare nella mia mente subitamente bianca come una tela ancora intonsa, una voce profonda dall’accento spigoloso.
Lo ami?
Mi accasciai sulla poltroncina, non più in grado di sostenermi da sola.
 
Non so per quanto tempo rimasi incosciente.
Quando mi risvegliai tutto era buio, tutto era silenzio.
Mi tirai su a fatica e, guardandomi intorno smarrita, constatai che mi trovavo di nuovo nella mia cella.
La testa mi faceva malissimo; mentre tentavo di riorganizzare le idee, un rumore di passi subito seguito da un acceso diverbio richiamò la mia attenzione.
- Non... non potete! – protestava una voce che riconobbi immediatamente. – Sono un alto funzionario ministeriale, giù le mani!...
Nel corridoio buio volarono un paio di lampi di luce; dopodiché, la grata della mia cella si aprì e un corpo alto e sottile, che si dibatteva tanto furiosamente quanto inutilmente, venne spinto dentro.
- Ve ne pentirete! – urlò invano il nuovo arrivato che io, nonostante in quel momento mi sentissi fin troppo emotivamente provata, guardai con immensa gratitudine.
- P-Percy?!
I lisci capelli color del rame, che lui portava corti e pettinati con la riga in parte come un giovanotto per bene degli Anni Trenta, brillarono alla luce della bacchetta. Un secondo dopo fui in grado di scorgere anche i suoi acuti occhi chiari, che brillavano oltre le pulitissime lenti degli occhiali di corno.
- Cosa ci fai...
- Ho letto il tuo dossier – mi interruppe lui, mettendosi ad ispezionare freneticamente le pareti della cella, evidentemente in cerca di una via di fuga (che non c’era). – Beh, non avrei dovuto, ovviamente, ma non importa. Lascia che te lo dica, comunque – mi disse, guardandomi con severità – non avrei mai, mai! pensato, primo, che saresti stata capace di ficcarti in un guaio così grosso, e secondo, che saresti riuscita a trascinarci dentro anche me!
- Ehi – protestai debolmente io. – Io non ti ho mica chiesto niente, sai?
Lui si fermò un attimo e finse di ridere.
- Ah-Ah. Ma certo – sbuffò poi. – Come dire che, una volta venuto a conoscenza di quello che ti stavano facendo, sarei riuscito a rimanermene con le mani in mano.
- Che cosa stavi cercando di fare, esattamente? – gli domandai allora, incuriosita e grata.
- Tirarti fuori – rispose lui, facendo spallucce. – Ho falsificato la firma del Ministro O’Tsuoe...
- Che cosa?? Hai falsifi... Tu?! – ribattei, incredula.
- ...ma mi hanno beccato, come puoi ben vedere.
Stavo per ribattere qualcosa, quando dal corridoio giunse nuovamente l’eco di passi in avvicinamento.
- Vediamo un po’ se... – stava dicendo qualcuno, la cui voce non mi piacque affatto.
Agii di impulso.
- Percy, dobbiamo evadere. Subito.
Lui mi guardò stringendo le labbra.
- Più facile a dirsi che a farsi, mia cara. E-vi-den-te-men-te.
Gli strappai di mano la bacchetta e mi sfilai dal collo il sacchettino di velluto con dentro László.
- Penny! Ma cosa accidenti ti...
- Tappati le orecchie e mettiti al riparo, Perce – gli intimai, per poi urlare in rapida sequenza: - Reinnerva!... ENGORGIO!....
In quell’esatto istante i carcerieri aprirono la porta della cella, giusto in tempo per vedere un gigantesco Ungaro Spinato incazzato nero che si dilatava davanti ai loro occhi e metteva in mostra una chiostra di denti da far impallidire uno squalo bianco.
László ruggì così forte da far tremare le pareti di pietra, che si sgretolarono come gesso man mano che lui cresceva, recuperando le sue dimensioni abituali.
“Un Ungaro Spinato in tenuta da combattimento ha lo stesso potenziale distruttivo di un panzer in un asilo nido “ mi aveva detto una volta Charlie; beh, non eravamo in un asilo nido, ma anche le segrete di un Ministero avevano tutta l’aria di vedersela brutta al cospetto di una bestia del genere.
Il drago scosse gli aculei e fece partire una fiammata che arrostì all’istante una mezza dozzina di Mangiamorte, subito richiamati da tanto chiasso; con la coda dell’occhio vidi Dolohov che indietreggiava atterrito e si gettava a terra per sfuggire al rogo.
Tutto intorno a noi cumuli di macerie, calcinacci in caduta libera e piccoli fuochi d'incendio apparentemente inestinguibili.
- Attaccati e tieniti forte, Perce! – urlai allo sbalordito terzogenito Weasley mentre László, dispiegate le ali coriacee, si accingeva a prendere il volo.
Lo vidi che si avvinghiava con tutte le sue forze ad una zampa del rettile; subito dopo, stavamo sfrecciando a tutta velocità sui cieli di Londra.


Prima che io avessi il tempo di posare i piedi per terra, Percy era già scivolato giù dal dorso di László e mi aveva puntato contro la bacchetta.
- Ma cosa caspite...
- Finitus! – urlò lui, scagliando un incantesimo che andò a colpire il braccialetto di cuoio che portavo al polso.
- Ahia! Percy, cosa accidenti...
- L’aveva stregato! – rispose lui, riponendo con uno sbuffo la bacchetta nella tasca interna della giacca. – Dolohov vi teneva d’occhio attraverso quelli.
E a me, che lo guardavo sconcertata, Percy raccontò di avere origilato una conversazione confidenziale (“Quelle Orecchie Oblunghe sono davvero fenomenali Penny, ma non riferirlo ai miei fratelli, te ne prego”) fra Dolohov e uno dei suoi compari, nel corso della quale il primo rivelava di avere apposto sui braccialetti di Charlie un ingegnoso Incantesimo di Localizzazione.
- C’è stato uno scontro alla Tana, il giorno in cui Bill si è sposato – disse Percy, gli occhi chiari adombrati da un’ombra cupa di rimpianto e avvilimento. – Non so se Charlie te l’ha detto.
- Sì, lo sapevo – confermai io.
- Mentre... mentre combattevano, Dolohov, che per vie traverse era stato informato per sommi capi dei piani dell’Ordine circa la Missione Squamosa (l’ha chiamata così), ha pensato bene di affatturare gli unici oggetti da cui, ne era sicuro, Charlie non si sarebbe mai separato.
- È vero – mormorai io, massaggiandomi le tempie con due dita. Mi scoppiava la testa. – Un domatore di draghi non si separa mai dai suoi polsini.
Percy mi rivolse un’occhiata indagatrice e aprì bocca per dire qualcosa, ma poi non proferì parola.
La mia mente, nel frattempo, cogitava a ritmo accelerato.
- È per questo che sapeva sempre dove eravamo – sospirai, avvilita. – Beh, quasi sempre in realtà.
- Dolohov non è riuscito a produrre un Localizzatore perfetto – spiegò Percy, aggrottando la fronte. – Troppa confusione, probabilmente; fatto sta che, quando non vengono eseguiti alla perfezione, gli Incantesimi di questo tipo perdono di forza in determinate condizioni geografiche o climatiche.
- Sarebbe a dire?
- Sarebbe a dire che se, per pura coincidenza, Dolohov si fosse trovato ad una distanza relativamente breve da voi e le condizioni climatiche fossero state accettabili, vi avrebbe individuati con facilità. In caso contrario il segnale si sarebbe interrotto, o sarebbe stato troppo debole per essere sfrutatto.
Scossi la testa, ormai completamente consapevole di quanto era accaduto.
- Ecco perché in alcune tappe del nostro viaggio non ce lo siamo trovato fra i piedi. Ci stava cercando altrove.
- Già.
- E una volta rientrati sul territorio nazionale... bingo, è stato in grado di rintracciarci in un battito di ciglia.
- Esatto.
Rimanemmo in silenzio per un lungo attimo mentre László, stanco per il lungo volo dopo tanto tempo di inattività, si era acciambellato su se stesso e russava rumorosamente. Senza sapere bene come comportarmi, tirai fuori la radiolina di Morag e l’accesi, a volume bassissimo. Le trasmissioni di Radio Potter erano sospese, in quel momento: nell’aria si avvertiva soltanto un basso ronzio.
Era davvero strano trovarmi di nuovo insieme a Percy, il Weasley con cui mi ero accompagnata durante tanto tempo e alla cui immagine seria e affidabile, nel corso degli ultimi mesi, si era via via sovrapposta quella, altrettanto affidabile ma eccezionalmente sorridente, di Charlie.
Lo vidi che andava a sedere su una pietra squadrata, proprio accanto al punto in cui la convessità della collina inaugurava la sua declività; mi dava le spalle e guardava lontano, immerso nei suoi pensieri. E mentre io lo osservavo in silenzio, indecisa se lasciarlo da solo o raggiungerlo per fargli compagnia, mi parve di vederlo scosso da un tremito convulso.
Lo sentii tirare su col naso.
- Che succede, Perce? – gli domandai a labbra strette, portandomi cautamente al suo fianco. Non mi sedetti, però. Rimasi in piedi, evitando di guardarlo.
- Non ero con loro, quel giorno – rispose lui dopo qualche attimo.
- Il giorno del matrimonio, intendi dire? – gli domandai, molto delicatamente.
– Già. Né quel giorno, né tutte le altre volte in cui avrei dovuto esserlo – mormorò lui, inghiottendo la saliva. La sua voce suonava addolorata, densa di rammarico.
Percy si tirò su di scatto e ristette in piedi davanti a me, dritto come un fuso.
- Sono stato... oh, Penny... se il pentimento uccidesse!... Sono stato (anzi, sono) un vero cretino, ecco cosa sono.
- Suvvia, Percy... – azzardai io, un po’ a disagio.
- Non mi sarei mai dovuto comportare come mi sono comportato – continuò lui, guardandomi negli occhi. I suoi erano pieni di lacrime. – Se tu sapessi che cosa ho visto là dentro... oh, per Merlino, Penny.
Non osavo immaginarlo, per cui non dissi nulla, limitandomi a giocherellare con il bracciale di cuoio.
- La mia famiglia non meritava assolutamente un simile trattamento da parte mia – proseguì Percy, ormai inarrestabile. – E neppure tu.
- Oh – replicai io, guardandolo di sottecchi. – Non... non ti preoccupare, io sto...
- Non sai quanto mi sono preoccupato quando ho scoperto che eri sparita!... – mi interruppe lui, afferrandomi i gomiti con le sue belle mani eleganti, da pianista. – Anche i tuoi genitori: erano davvero in ansia. Ti ho cercata dappertutto Penny, ho seriamente pensato che sarei morto di angoscia!
- ...
- Ed è stata tutta colpa mia! Mia, che non ho saputo accettare la mano che mi tendevi!...
Percy sembrava davvero sconvolto; la situazione era oltreché surreale perché io, in cinque anni di fidanzamento, non l’avevo mai visto in quello stato. Mi sarebbe piaciuto, per puro spirito di onestà, dirgli che sì, che un po’ (tanto) cretino lo era effettivamente stato; eppure, vedendolo ridotto ad uno straccio intriso di autorecriminazione, non ebbi il cuore di procedere a quel minimo di invettiva che si sarebbe meritato.
Mi sentii in dovere di consolarlo, anzi. Percy era davvero pentito, lo si vedeva.
- Percy – gli dissi allora, alzando il mento per ricambiare il suo sguardo. – Capita a tutti di commettere degli errori, ma... ma tu sei una brava persona, non sei come loro. Ed è questo che conta.
Percy mi guardò per un lungo istante e poi, del tutto inaspettatamente, fece un’altra cosa che, in altri tempi ed altro contesto, mai mi sarei sognata di vedergli fare.
- Mi sei tanto mancata, Penny...
Mi abbracciò di slancio, stringendomi convulsamente.
Io rimasi di sasso.
Talmente di sasso da non avere la forza di muovere neppure un muscolo quando lui, chinandosi in avanti in un surplus di slancio, spostò una mano dietro la mia nuca e catturò le mie labbra in un bacio infuocato.
Oh. Per. Priscilla.
O Rowena.
O Corinna.
O come diavolo si chiamava la beneamata Fondatrice dall'ingegno sottile.
Ad essere sconvolta, questa volta, ero io; tantopiù che, oltre alla sbalorditiva performance linguistica di cui non l’avrei mai creduto capace, una ben nota pressione proveniente dal basso mi rivelava che Percy, oltre ad essere giustamente sollevato per avermi ritrovata e portata via (beh, all’incirca) sana e salva dalle prigioni del Ministero, era anche sommamente contento di vedermi.
Prendere atto di quel tutt’altro che trascurabile dettaglio mi sciolse i muscoli.
Immediatamente riscossami dal mio impietrito torpore mi divincolai dal suo abbraccio e saltai indietro, apostrofandolo con un coloritissimo:
- Ma che cosa cazzo (Percy spalancò gli occhi nell'udire la parolaccia) fai, Percival?!
Lui sbattè le palpebre e mi guardò stupito, boccheggiando affannato.
- Io...
Mi sentivo le guance in fiamme, ero imbarazzatissima. Il cuore mi martellava furiosamente nel petto;  perché ormai lo sapevo (lo sapevo: c’era poco da fare) che, proprio in quel momento, avrei dovuto informarlo di una certa cosina riguardante me e il suo delizioso fratello maggiore.
E così, senza sapere ancora come accidenti glielo avrei detto, aprii bocca per parlare, ma lui mi anticipò.
- Non c’è bisogno di dire nulla – mi disse anzi, gelido. – Ho già capito.
- Co-come, scusa...?
Lui tese il braccio e picchiettò con l’indice sulla superficie di cuoio duro del braccialetto di Charlie.
- L’ho notato subito, cosa credi. E l’ho riconosciuto immediatamente – Percy fece una smorfia. – Come dicevi? Ah sì: un domatore di draghi non si separa mai dai suoi polsini. A meno che, evidentemente, suddetto domatore non abbia qualcuno di molto, molto speciale cui regalarli.
- Percy... – cominciai io, respirando fondo.
- E perché mai, effettivamente – mi chiese allora lui, le iridi chiare pregne di beffarda amarezza – una strega assennata perderebbe il suo prezioso tempo con quel secchione di Percy Weasley, quando può avere uno dei suoi fratelli più fighi?
Le sue parole mi colpirono come uno schiaffo, al quale però avrei voluto rispondere a chiare lettere, vomitandogli addosso una vera e propria filippica. Avrei voluto dirgli che quello che facevo erano affari miei e che lui aveva perso il diritto di giudicarmi nel momento in cui aveva deciso di ignorare le mie richieste di pace; avrei voluto dirgli che negli ultimi mesi, finalmente, avevo trovato più di un motivo per credere in me stessa ed essere orgogliosa di quanto sapevo fare.
Al tempo stesso, però, avrei voluto urlargli anche che capivo la sua insicurezza, perché era la medesima con la quale io stessa avevo combattuto per tutta la vita. Avrei voluto dirgli che vederlo così tentennante e insoddisfatto di sé mi faceva soffrire almeno tanto quanto ne soffriva lui, perché io lo conoscevo e sapevo quanto valesse. Avrei voluto dirgli che il senso di inferiorità che si portava dietro fin da bambino era una stupidaggine e che il fatto di essere nato dopo Bill e Charlie non significava assolutamente nulla, perché lui era valido e capace tanto quanto loro.
Ma non ebbi il tempo di dirgli nulla.
Proprio nel momento in cui stavo per aprire bocca e dare fuoco alle polveri, infatti, una voce squillante echeggiò nell’aria, neutralizzando all’istante la tensione che si era venuta a creare fra noi.
Lo speaker di Radio Potter, nella sua dizione forte e chiara, lanciava il suo appello:
- Attenzione, attenzione! A tutti i maghi e streghe all'ascolto, ibridi, creature fatate e simpatizzanti della Causa. Convocazione immediata ad Hogwarts! La battaglia si prepara! Ripeto: convocazione immediata ad Hogsmeade! Accorrete tutti, aiutate la Resistenza a difendere ciò che resta della nostra beneamanta scuola!...(**)
Io e Percy ci scambiammo una lunga occhiata, gli occhi sgranati, le parole ancora ad aleggiare a mezz’aria, immediatamente dimentichi di quanto ci stavamo reciprocamente dicendo.
- Forse... forese è meglio che io vada a svegliare László – gli dissi mentre lui annuiva e, prudente come sempre, infilava gli occhiali nel taschino della giacca.
 
Post-Scriptum:
E povera Londra! Nel giro di poche ore, ben due fughe di draghi: una, come sappiamo, dalla Gringott; ed ora pure quella di László & Co. dalle segrete del Ministero!...
(*) Frase pronunciata da Rodina Hlavačkova, grande protettrice di babbani cecoslovacchi durante la Guerra Fredda e donna amata da Antonìn Dolohov nell’OS Tramonto ad Est. La questione verrà meglio chiarita in fase di chiusura ma, per ora, l’aver casualmente prununciato queste stesse parole ha fatto sì che a Penny venga risparmiata la vita.
(**) La convocazione da parte di Radio Potter l’ho ripresa pari pari dalla mia mini La cura universale, giusto per amalgamare tutte le storie.

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Capitolo 10
*** Polvere pirica, lacrime agli occhi. ***


10. Polvere pirica, lacrime agli occhi.
 
“Era uno di quei ragazzini iperattivi, di quelli che all'ora di colazione hanno già fatto su e giù dieci volte dalle scale della Tana (la sua stanza era all'ultimo piano, ovviamente) e che si sono cimentati nella scalata di tutti gli alberi della Contea; di quelli che si fanno gli addominali a forza di ridere, che hanno sempre fame e dei quali la tristezza ha paura; di quelli che fanno il bagno seminudi nel ruscello gelido rischiando di fare annegare le lavandaie distratte, di quelli che scagliano in giro gnomi da giardino come fossero frisbee e che hanno sempre i capelli negli occhi”.
Questo mi aveva detto Percy di suo fratello Charles tanti anni prima, quando andavamo ancora a scuola e, dopo anni di amicizia, ci eravamo messi insieme da poco.
“Piuttosto diverso da te” avevo commentato io, giocherellando con il bordo arricciato della pergamena sulla quale stavo trascrivendo la bella copia del tema di Storia della Magia.
“Oh, sì” aveva convenuto lui, riponendo attentamente inchiostro e calamaio dato che, come sempre, aveva già finito quando io ero ancora a metà.
“E ciononostante...”
“Ciononostante” mi aveva rivelato Percy, annuendo piano col capo come a voler sottolineare la solennità delle sue parole “è il mio fratello preferito”.
Io lo avevo guardato  meravigliata, chiedendomi come mai fra tutta la nidiata Weasley proprio Charles, che da quanto avevo avuto modo di apprendere era un vero e proprio vulcano, disordinato e rumoroso, bravissimo nel gioco che Percy aborriva e assai alla mano, avesse meritato il titolo di “preferito” da parte di quell’adorabile musone del mio ragazzo.
Charlie è buono” aveva affermato lui, rispondendo inconsapevolmente alla mia domanda inespressa. “Quando Bill ha iniziato la scuola, io e Charlie siamo stati praticamente inseparabili per un paio di anni. Era... era il mio eroe, sai. Mi faceva sentire importante, mi difendeva se ce n’era bisogno e non mi ha mai, mai preso in giro né chiamato secchione. Ed io l’ho sempre ammirato anche se, al tempo stesso, ho sempre saputo che non sarei mai riuscito ad eguagliarlo”.
“Nel senso?”
“Beh. Nel senso che bravo come Bill, magari, sarei anche riuscito a diventarlo, perché sai, Bill è il tipico portatore di una bravura eccelsa, ma che potremmo definire classica. Charlie no. Charlie è un concentrato di energia incontenibile, è esplosivo per natura, è un fiume in piena, è pura polvere pirica. Non si diventa così, sai. Lo si nasce”.
 
Quelle parole, pronunciate in via del tutto confidenziale tanti anni prima, mi tornarono alla mente quando assistetti alla scena di Charlie che, con un'esuberanza inarrestabile, organizzava le fila dei draghi, poco dopo che László ebbe depositato me e Percy nella piazzetta principale del villaggio di Hogsmeade – rischiando seriamente, peraltro, di scatenare il panico generale.
Abitanti e simpatizzanti della Causa continuavano ad affluire, desiderosi di fare la loro parte per sovvertire il Regime instaurato dal Signore Oscuro e dai suoi seguaci; molti di loro si fermavano a guardare atterriti l’imponente Ungaro Spinato seduto accanto alla fontana ma ben presto, dopo che io e Percy avemmo provveduto a spiegare a qualcuno che il lucertolone era dei nostri, cominciò a correre voce che la Resistenza avrebbe potuto contare sull’aiuto dei draghi: un gruppetto di streghe e maghi provenienti dall’estremo Nord, infatti, aveva riferito che un eterogeneo manipolo di draghi di ogni tipo aveva già lasciato le Shetland per raggiungere Hogwarts.
- Quindi era tutto vero! – esclamò Percy, che aveva letto di nascosto il dossier della Questione Squamosa conservato al Ministero. – Li avete davvero raccolti tutti!...
- Non tutti – lo corressi io mentre, con la coda dell’occhio, osservavo l’Ambulatorio Volante che sfrecciava nel cielo sopra di noi, a bordo del quale Morag e Carbry si dirigevano a tutta burrobirra verso il Castello. – All’appello manca il Verde Gallese, purtroppo.
Una dizione conosciuta richiamò la mia attenzione: Sturgis Podmore si era materializzato poco lontano da noi e mi chiamava a gran voce.
- Principessa di Itaca!... – mi disse, sorridendomi sollevato mentre osservava con soggezione László, che cominciava a mostrare segni di sovraeccitazione. – Non ci speravamo più!...
- Sai qualcosa del Barone Rosso? – gli domandai subito, raggiungendolo di corsa. – Non ho più avuto sue notizie: mi hanno portato via la bacchetta...
- Charlie sta arrivando con tutto lo stormo – mi rispose lui, facendosi scrocchiare le nocche delle mani. – Sarà proprio una bella sorpresa, per quei bastardi, dover fronteggiare delle bestie del genere.
La folla di sostenitori della Causa continuava a defluire in direzione della Testa di Porco.
- Andiamo anche noi? – mi chiese Percy, prendendomi per il gomito.
- Vai pure avanti – gli risposi io, ignorando il suo sguardo corrucciato. – Devo occuparmi dei draghi.
- Ma...
- Vai, Perce. Ci dev’essere tutta la tua famiglia, là dentro. Sii con loro, questa volta.
Lui mi posò le mani sulle spalle e mi guardò fisso negli occhi.
- Stai attenta. Per favore – mi disse soltanto, prima di girare sui tacchi e correre via.
 
- Fatina, stormo in vista.
La voce graffiante di László mi distolse dai miei pensieri. L’Ungaro Spinato aveva sollevato il muso e fiutava l’aria, impaziente di spiccare il volo. Alzai di scatto il viso, cercando fra le nuvole; e improvvisamente li vidi, maestosi, che si stagliavano contro il cielo spennellato delle ombre del tramonto. Si avvicinavano volando veloci e in perfetta sincronia, in uno strabiliante insieme di dieci meravigliose creature fra loro diversissime ma solidali e, soprattutto, pronte a giocarsi il tutto per tutto.
Vidi che superavano Hogsmeade, dirigendosi verso il Castello; a quel punto, mi affrettai a salire sul dorso di László e lo pregai di raggiungerli laddove si erano posati, nell’area dei giardini della scuola.
Una cupola di incantesimi protettivi si stava via via consolidando per proteggere Hogwarts; i giardini erano appena fuori, rivolti a ponente.
Charlie si trovava in mezzo al cerchio di draghi e gesticolava concitato.
Non appena Lászlò atterrò accanto agli altri, mi scaraventai a terra e corsi verso di lui.
- Charlie!...
Al suono della mia voce si girò indietro, incredulo, mentre sul suo viso si dipingeva un'espressione mista di sorpresa, di sollievo e di gioia.
- Pe... Penny?! - scattò in avanti, correndomi incontro per abbracciarmi. – Oh, per Godric... 
- Non ce l’ho fatta, Charlie! – esclamai subito io, stringendogli le braccia al collo e affondando il naso nell'incavo del suo collo. – Il Gallese Verde... ho fallito... oh, mi dispiace tanto...
- Non dire sciocchezze – mi redarguì lui, senza smettere di stringermi ed infilando il viso fra i miei capelli per riempirsi i polmoni del mio profumo. – L’importante è che tu stia bene...
Mi scostai un attimo per guardarlo negli occhi.
- Sono successe molte... cose.
- Ero preoccupatissimo, Penny. Ti abbiamo cercata dappertutto.
- Anch’io ero preoccupata. Per te.
Charlie accostò la fronte alla mia. Lo sentii che respirava fondo e, attraverso la stoffa sottile della camicia, percepii il suo cuore che batteva all'impazzata.
- Hai paura?
- Sì.
- Ma pensi di riuscire a farlo?
Lo guardai risoluta, come se comandare un branco multirazziale di draghi assortiti fosse una cosa che facevo tutti i giorni.
- Assolutamente sì.
Charlie non disse nulla. Si chinò in avanti, semplicemente, e premette le labbra sulle mie, stringendomi forte fra quelle sue solide braccia di tiepido marmo. Un bacio e un abbraccio dati con foga, come suo solito; ma una foga intrisa, al tempo stesso, di sollievo e preoccupazione, allegria e tristezza, adrenalina e timore dell’ignoto.
- Siamo alla prova del nove, Principenny – mi disse scostandosi leggermente, mentre i boati prodotti dalle prime esplosioni cominciavano a far tremare l’aria intorno a noi, riscuotendoci dalla gioia del nostro reincontro.
- Mi sembra che manchi qualcuno, però – gli dissi, sciogliendomi dal suo abbraccio. Mi ero infatti accorta, guardando oltre le sue spalle, che all’appello mancavano ben due bestie.
- Norberta e Finn sono già dentro – chiarì lui, puntando l’indice verso la cupola protettiva. – La Furia Buia aiuterà nella difesa dei corridoi in caso di invasione, mentre la nostra amica norvegese sembrava piuttosto impaziente di riabbracciare Hagrid...
- Oh, accidenti – commentai io, premendomi la mano sulla fronte – avrei tanto voluto assistere al Grande Incontro!...
Lui rise, un po’nervoso; poi si rivolse all’Azzurro delle Azzorre, il drago anfibio.
- Tu, Álvaro – gli disse, mentre io traducevo – ti occuperai della sicurezza del Lago Nero. Dovrai impedire che gli Inferi ed altre malefiche creature acquatiche penetrino nel Castello attraverso le tubature; i Maridi ti aiuteranno, cerca di proteggerli!...
Il bellissimo drago dalla livrea simile a maiolica smaltata ci strizzò l’occhio e andò a tuffarsi nelle acque del lago, mentre Charlie proseguiva con le istruzioni.
- Claude: gli sbuffi di fumo nero; Pavlo e László, a voi due, che siete i più forti, affido i Giganti.
Il Grigiofumo Alpino spiccò il volo, pronto a neutralizzare i Mangiamorte in forma gassosa attraverso i suoi micidiali sbuffi di zolfo; il Forteventre Ucraino e l’Ungaro Spinato, dal canto loro, si scambiarono un’occhiata divertita, quasi a volersi sfidare per vedere chi dei due avrebbe ammazzato più Giganti.
- Kendra, Karen – disse Charlie alla Nera delle Ebridi e alla Grugnocorto Svedese, che grugnirono in segno di assenso -  voi due, ragazze, vi occuperete della difesa aerea contro chiunque tenti di entrare ai piani alti del Castello; tu invece, Malvina, ti occuperai dei Mannari.
La Crestaguzza dei Pirenei scrollò l’imponente cresta, impaziente di abbagliare con la sua luce irradiante le schiere pulciose di quel cane di Greyback.
- Suzy – la Codaferrata Bulgara scattò sull’attenti – tu dovrai difendere i confini della Foresta proibita dalle fuoriuscite di Acromantule.
- Adoro la carne di ragno – sibilò lei, facendo saettare la coda massiccia come un’enorme mazza ferrata.
Infine Charlie si rivolse a Konsti, il Longocorno Rumeno che ci aveva accompagnati fin dall’inizio nel nostro lungo viaggio.
- Ed ora tu, amico mio – gli disse, allungando la mano per carezzargli il muso sormontato dai due imponenti corni acuminati. – Sarai il Fattore Sorpresa, il Caos fatto drago.
- Sarebbe a dire?
- Buttati nella mischia e infilzane più che puoi.
- Sarà fatto, Capo.
 
Impegnati su più fronti fummo costretti a separarci; io, priva di bacchetta, mi davo da fare per coordinare da terra le azioni dei draghi mentre Charlie, richiamato dai combattimenti all’interno del Castello, si spostava in continuazione. Ben presto, lo persi di vista.
La Battaglia infuriava; i draghi combattevano strenuamente, facendo strage di nemici.
E quando, dopo la pausa, la Battaglia ricominciò, i nostri amici sputafuoco diedero il meglio di loro.
Vidi Pavlo e László intenti a contendersi i Giganti più grossi, Malvina che inceneriva le pellicce dei Mannari, Álvaro che si tuffava fuori e dentro dal Lago, Suzy che a colpi di coda faceva rotolare Acromantule come fossero palle da bowling, Claude che affumicava gli sbuffi di fumo nero impregnandoli di zolfo, Norberta che inceneriva un Mangiamorte che aveva tentato di affatturare Hagrid, Finn che lanciava in giro vere e proprie palle di fuoco, Konsti che infilzava nemici a tutto spiano e Kendra che saettava nel cielo come una bomba nera particolarmente letale costantemente innescata.
Ad un certo punto, però, mi accorsi che Karen era sparita.
La cercai con lo sguardo, preoccupata, finché una serie di urla e ruggiti poco lontano mi fecero abbandonare la postazione e mi spinsero ad attraversare di corsa i giardini.
Davanti ai miei occhi annebbiati dal fumo delle esplosioni, si parò uno spettacolo orripilante.
Karen lo aveva seguito. Perché era lui, fra tutti, quello che lei voleva uccidere: lui, Antonìn Dolohov, l’assassino del suo cucciolo. Lo aveva cercato ininterrottamente mentre, insieme a Kendra, volava in circolo intorno al Castello; e quando infine lo aveva trovato gli si era avventata addosso, assetata di vendetta, ancora pazza di dolore.
Dolohov, però, era tutt’altro che uno sprovveduto.
Sapendo che la draghessa lo avrebbe perseguitato fino alla morte, l’aveva attirata nella parte più intricata dei giardini, un luogo in cui le si sarebbe mossa con difficoltà, ed era riuscito ad impastoiarla facendo crescere a dismisura le siepi di bosso che fiancheggiavano i viali.
Ed ora la Grugnocorto ruggiva e si agitava, tentando invano di carbonizzare i tralci incantati che la tenevano imprigionata, mentre Dolohov la bersagliava di incantesimi dolorosi.
Sbigottita, mi misi a urlare con quanto fiato avevo in gola.
- Lasciala stare!
Il suo sguardo incatenò il mio, impedendomi di guardare altrove. Un leggero movimento degli occhi, che Dolohov strinse impercettibilmente, ed eccolo nuovamente lì, orrore degli orrori, infiltrato nella mia mente, intento a tormentare i miei pensieri.
“Rieccoci qui”.
La sua voce mi raggelò.
Indietreggiai di un passo, atterrita.
Dolohov interruppe il contatto con il corpo della draghessa, che si accasciò al suolo sbuffando piano, mentre lui mi fissava con intensità crescente.
- Non... non osare...
“Oh, ma certo che no” mi provocò lui. “Tanto a che mi servirebbe? So già tutto quello che volevo sapere di te”.
Strinsi le labbra, desolata. Aveva ragione, quel maledetto: sapeva tutto di me. Tutto.
Ragion per cui non mi sorprese troppo (mi ferì, certo, ma non mi stupì) vederlo agire di conseguenza e ordinarmi:
“Dì alle tue maledette bestie di allontanarsi”.
- Mai. Lotteranno con noi, fino alla fine se necessario.
“Sciocca”.
Dolohov mi guardava impassibile. Non sorrideva, ma potevo percepire il suo scherno irradiarsi nella mia mente, simile ad un’onda di liquido corrosivo.
“Credi che per lui conterà qualcosa?" continuò, sferzante. "Credi che la tua puerile testardaggine lo spingerà a dichiararti amore eterno? Illusa”.
- Smettila!
Lo stava facendo di nuovo. Stava scavando nei miei pensieri alla ricerca dei miei punti deboli e, inevitabilemnte, vi aveva trovato Charlie.
“Il marito della tua rivale. Il Mannaro. L’ho tolto di mezzo”.
La figura scomposta del professor Lupin lampeggiò davanti ai miei occhi ed io tremai, orripilata.
“La prossima sarebbe stata lei, la Mezzosangue, ma Bella mi ha preceduto. Sta di fatto che ora, cara e ingenua miss Clearwater limpida come l’acqua di sorgente, il tuo bello non ha scampo”.
- Che cosa diavolo stai dicendo?...
“Ammesso e non concesso che sopravviva a questa battaglia, Charles Weasley non sopravviverà al ricordo di lei” mi rispose Dolohov, impietoso. "Ninfadora Tonks è morta da eroina".
Spalancai gli occhi, imemdiatamente consapevole di quanto ciò significasse.
Ninfadora Tonks, Auror eccellente.
 “Ancora quella benedettissima Dora, Charlie?” aveva chiesto Annika Berger durante il nostro breve soggiorno in Svezia.
Dora. 
L’amore impossibile di Charlie. 
Morta.
E il suo ricordo, ora cristallizzato nell’eroicità dei suoi ultimi minuti di vita, che veniva immortalato a memoria impertitura.
Il che significava...
“...che sei out, miss Clearwater. Lo sei sempre stata, ma ora sei proprio fuori gioco. Non la rimpiazzerai mai”.
- Non è vero! - balbettai io, col groppo in gola. - Charlie mi... mi vuole bene, ne sono sicura.
“Ma non ti ama”.
Oh, se mi fece male.
“Weasley ti ha usata. Gli serviva un'interprete e, già che c'era, ha approfittato di te per divertirsi un po'. È solo un maledetto opportunista, come tutti loro”.
- No! Charlie non... - indietreggiai di un altro passo, sconvolta. - Che cosa vuoi da me, perché insinui queste cose??
Dolohov abbozzò un sorriso, tagliente come la lama dei Boia del Ministero.
“Mi servi” mi disse, facendomi rintronare la testa. "Al termine della battaglia, quando avremo vinto, mi sarai molto utile".
Credetti di svenire dall'orrore.
"Ora basta, Dolohov".
Una voce calda e amichevole risuonò dentro la mia testa, annunciandomi la presenza provvidenziale di qualcuno che si era posizionato al mio fianco. Una grande personalità, solida e rassicurante, che emanava da un corpo piccolo piccolo.
Dolohov gli scoccò un'occhiata di puro odio.
"Levati di mezzo, Vitious".
Filius Vitious gli restituì l'occhiata, sorridendogli serafico ma apostrofandolo con severità:
Nessuno tocca una delle mie migliori Caposcuola, men che meno per tentare di trascinarla dal Lato Oscuro” disse il mio Direttore a Dolohov che, sollevata la bacchetta, si metteva in guardia. “Penelope è una ragazza troppo saggia e di buon cuore per servire i vostri propositi: non si unirebbe mai a voi, tantomeno per aiutarvi a catturare dei poveri draghi!...”
Dolohov strinse gli occhi.
“Perché non lo chiediamo a lei?” soffiò, facendo baluginare nella mia testa l’immagine cruda di Charlie che urlava alla vista della Maledizione di Belletrix Lestrange e che, istanti dopo, piangeva riverso sul corpo immobile di Ninfadora Tonks, stringendole la mano.
Mi stava manipolando, ed io lo sapevo, ma non riuscivo a trovare la forza per oppormi alle sue insinuazioni e scacciarlo.
Era davvero troppo. 
- Io non... no!
Urlai a squarciagola tutto il mio avvilito sconcerto, e poi lo fissai con un’intensità che non mi sarei mai aspettata di poter raggiungere. E la mia disperata determinazione a non cedere, a non cadere nella sua trappola parve colpirlo con la forza di uno schiaffo violento: per la prima volta lo sentii vacillare e spalancare gli occhi in un moto di autentica sorpresa.
E vidi.
Vidi, in fondo alla sua anima tormentata, la figura luminosa di una giovane donna bionda vestita d’azzurro, che riemergeva oltre la coltre cupa dei suoi ricordi e il cui sguardo, inizialmente carico di dolcezza, si tramutava rapidamente in un’espressione ferita, pregna di duro rimprovero. Udii anche delle parole, pronunciate in una lingua sconosciuta ma il cui senso mi riuscì perfettamente comprensibile: parole di profondo rammarico che il ricordo mai sbiadito di quella donna, eterea e titanica al tempo stesso, rivolgeva allo sbigottito Dolohov:
- Che razza di mostro sei diventato, Nîn?
- Rodina...
- Mi vergogno di te.
A quelle parole, Antonìn Dolohov parve impazzire.
Con un urlo disumano, fece sferzare la bacchetta e mi si gettò addosso.
“Avada Kedavra!”
“Stupeficium!”
Appena in tempo.
Sconfitto dal piú potente e inatteso dei suoi demoni Dolohov stramazzò al suolo, centrato dallo Schiantesimo del professor Vitious. Perché no: non si sfida uno dei più provetti duellanti di Hogwarts, nonché miglior insegnante di Incantesimi di tutti i tempi, pensando addirittura di farla franca.
Immediatamente, mentre ancora cadeva, sentii che la sua anima si sganciava dalla mia, lasciandomi libera. Così sia pensai io, scuotendo il capo per scacciare dalla mia testa gli ultimi scomodi rimasugli della sua presenza. 
- Meno uno – Filius Vitious si affrettò a legarlo saldamente con una spessa corda levitante. Io gli rivolsi un'occhiata stanca.
- Professore...
Lui mi guardò con tenerezza e annuì.
- Procedi pure, Penny cara – mi disse, porgendomi la sua bacchetta ancora tiepida d'incantesimo. – Riprenditi ciò che è tuo. Ne hai tutto il diritto.
Respirai fondo e, per qualche secondo, strinsi fra le ditai la corta asticella di legno di faggio che lui mi aveva consegnato. Poi, socchiudendo appena gli occhi per recuperare la concentrazione, la puntai su Dolohov.
- Oblivion!
L'incantesimo di memoria lo colpì, conficcandosi a fondo dentro di lui. Io rimasi ferma per un paio di minuti, sentendomi invadere dal sollievo anche se, poco dopo, la Battaglia che ancora infuriava intorno a me mi ricordò che le sorti della Guerra rimanevano incerte.
Nonostante tutto, però, una cosa era sicura.
Mi ero ripresa ciò che era mio; i miei ricordi, i miei sogni, le mie incertezze e le mie speranze. Se, prima o poi, si fosse risvegliato, Dolohov non sarebbe più stato in grado di ricordare nulla di quanto mi aveva sottratto.
 
C'era una cosa, tuttavia, che in quel momento ancora non sapevo, e cioè il fatto di non essere l'unica persona fermamente e risolutamente determinata a riprendersi qualcosa che considerava suo.
Ne dovetti prendere atto a Battaglia conclusa; quando, dopo avere faticosamente rintracciato tutti i draghi ed essermi assicurata che stessero bene, mi trascinai stancamente fino a ciò che rimaneva della Sala Grande.
Ero spossata, stanca da morire e, nonostante la consapevolezza della vittoria, ancora molto scossa, sia per tutti gli orrori che si erano appena verificati tutt'intorno a me, sia a causa del mio incontro ravvicinato e particolarmente sofferto con quel bastardo di Dolohov. Il quale, fra parentesi, era stato prontamente prelevato dagli Auror e sbattutto in chissà quale gattabuia d’emergenza, senza che essi si fossero neppure degnati di reinnervarlo.
- Azkaban a vita – mi aveva assicurato uno scarmigliato Sturgis Podmore, dopo avermi salutata con affetto ed essersi congratulato per l’importante ruolo svolto dai draghi nella difesa del Castello. – Stavolta buttiamo via la chiave, te lo garantisco.
Comunque, dicevo, una volta appurato che i miei amici squamosi non avessero dubito danni particolarmente ingenti, strinsi i denti e mi recai laddove i buoni del Mondo Magico piangevano le loro perdite.
Sapevo quel che vi avrei trovato (Vitious mi aveva subito riferito della morte di Fred Weasley) e sapevo che ciò sarebbe stato durissimo da affrontare, ma non mi tirai indietro perché, se nel caso del fratello di Charlie e Percy era mio assoluto e sacrosanto dovere manifestare la mia vicinanza a per lo meno due persone che mi erano care, nel caso di Ninfadora Tonks dovevo assolutamente tentare di capire quale fosse il mio posto definitivo.
Una volta raggiunta la Sala Grande mi fermai per un attimo, facendo vagare lo sguardo.
La famiglia Weasley al completo, facilmente identificabile grazie alle inconfondibili aureole rosse che coronavano i loro capi, si stringeva intorno al corpo immobile dello sfortunato gemello sacrificato alla Guerra. Genitori e figli si stringevano gli uni agli altri. Alcuni di loro piangevano a calde lacrime e si lamentavano; altri, come George, parevano impietriti.
Dritto come un fuso accanto a Bill Weasley e alla sua sposa, Percy non abbracciava nessuno. Lo osservai per qualche attimo e mi accorsi che contraeva convulsamente la mascella e stringeva i pugni, apparentemente incapace di riversare fuori il dolore che lo faceva tremare come un gattino intirizzito.
Continuai a guardare.
Charlie, in piedi all’altro fianco di Bill, cingeva con un braccio le spalle di sua madre e teneva il capo chino, coi riccioli rossi che gli ricadevano sugli occhi. Quando alzò appena appena il mento, vidi che il suo viso era velato da un’ombra scura di disperata tristezza; e quello fu, per l’esattezza, il momento in cui i suoi occhi rossi di pianto incrociarono i miei. Lo vidi alzare del tutto la testa e ritirare il braccio dalle spalle di Molly Weasley per sfregarsi la mano sul viso e tirarsi indietro i capelli bruciacchiati; e vidi che spostava il peso da un piede all’altro, forse intenzionato a muoversi.
Io abbozzai un sorriso mesto.
Proprio in quel momento, qualcuno mi si avvicinò in tutta fretta.
Percy non mi diede neppure il tempo di capire cosa succedeva. Mi venne vicino e mi abbracciò, per poi scoppiare in un pianto dirotto condito da recriminazioni amare. E mentre piangeva e imprecava e mi si stringeva addosso, disperato, ricercando fra le mie braccia quel rimasuglio di porto sicuro che ancora rappresentavo per lui e implorandomi implicitamente di non lasciarlo solo, di stargli vicino, di aiutarlo a ricostruire quel muro che la sua sciocca ambizione era stata capace di sgretolare, io capii che, in quel momento, non avrei potuto fare altrimenti.
Non avrei potuto. No.
E così lo tenni stretto, cullandolo piano.
Lo tenni stretto mentre Charlie, che aveva osservato in silenzio la scena, tornava a nascondere il viso sotto ai riccioli e distoglieva, forse per sempre, il suo sguardo da me.
 
Post-Scriptum:
Da Canon sappiamo che Dolohov non muore in Battaglia, ma che viene sconfitto in duello da Vitious. Ho pensato di adattare questa informazione riagganciandola all'affetto che lega il direttore della Casa di Corvonero alla Caposcuola Clearwater.
La descrizione (leggermente modificata) di Charlie ragazzino a inizio capitolo la devo a Greta, avendola io sviluppata in uno scambio di battute con lei :)
Per il resto, beh, direi che ci siamo.
Manca solo l’epilogo per concludere la storia e qui, ve lo dico, avrei più che mai bisogno di sapere cosa ne pensate (mi verrebbe voglia di indire una vera e propria votazione, in realtà!). Perché, da una parte, sappiamo che prima o poi Percy incontrerà una certa Audrey, il che significa che il futuro di Penny non è insieme a lui. Dall’altra, però, sappiamo anche che Charlie “è l’unico dei sei fratelli superstiti a non essersi mai sposato”. Il che, comunque, potrebbe volere dire molte cose cosicché di possibili finali, per la testa, ne ho ben due.
Resta solo da capire quale sia meglio adottare.

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Capitolo 12
*** Água da minha sede (Epilogo). ***


11. Água da minha sede
(Epilogo)

 
Eu preciso do seu amor
Paixão forte me domina
E agora que começou
Não sei mais como termina
 
Água da minha sede
Bebo da sua fonte
Sou peixe na sua rede
Por do sol no seu horizonte
 
Antonìn Dolohov venne rinchiuso nell’ala di massima sicurezza di Azkaban, condannato a scontare un bell’ergastolo. Secondo voci insistenti, comunque, l’ex-Mangiamorte non manifestò mai alcun tipo di reazione alla cattura e alla reclusione, ma mantenne sempre un comportamento distaccato e incurante che, nelle loro dichiarazioni, i membri del Wizengamot definirono “apatico ai limiti dell’autismo”. Fu scartabellando negli atti del processo (che spulciai febbrilmente nell’intento di vederci chiaro ed esorcizzare i miei demoni) che, qualche tempo dopo, mi imbattei nuovamente in un nominativo che richiamò immediatamente la mia attenzione: il nome della donna il cui ricordo, agendo nell’inconscio alterato di Dolovoh, mi aveva salvato la vita.
Rodina Hlavačkova era stata una coraggiosa strega cecoslovacca originaria, come lo stesso Dolohov, della città di Praga; amica d’infanzia dell’ex-Mangiamorte e da lui amata per tutta la vita, era spirata alla fine degli anni ottanta mentre lui scontava la sua prima reclusione ad Azkaban, tradita dai babbani che lei tentava di far fuggire dal regime sovietico. La presa d’atto della sua morte, avvenuta dopo la fuga in massa da Azkaban del 1995, aveva scaraventato Dolohov nel baratro dell’oscurità più assoluta, neutralizzando qualsiasi possibilità di redenzione da parte sua ed incatenandolo indissolubilmente e inesorabilmente ai cupi propositi del suo Signore.
Il ricordo di quella donna giusta, impavida e determinata, però, non si era mai dissolto del tutto e così probabilmente, nel momento in cui Dolohov aveva ecceduto nel tentativo di manipolare la mia volontà, la sua presenza mai svanita aveva agito come un vero e proprio flusso di coscienza, debellandolo dall’interno.
Fu con grande stupore ed immensa gratitudine che appresi questi fatti cosicché, poco tempo dopo, decisi di fare un salto a Praga per recare omaggio alle spoglie della mia inconsapevole salvatrice. Con un po’ di fatica mi riuscì di rintracciarla, e intensa fu l’emozione che provai quando, finalmente, raggiunsi il suo tumulo immerso nella pace del cimitero di Vyšehrad per depositarvi un mazzo di ortensie azzurre.
A distanza di tanti anni ancora oggi, tutte le volte che ne ho l’occasione, faccio una capatina da quelle parti per farle visita.
 
Il Mondo Magico tornò alla normalità; una normalità screziata da troppi se e troppi ma, forse, ma che tutti quanti si intestardirono a volersi tenere stretta, con le unghie e coi denti.
I “nostri” draghi furono affidati alle cure Hagrid, che li vezzeggiò fino allo spasmo con una certa gelosia da parte di Norberta; poi, grazie alla rete di contatti intessuti da Sturgis Podmore, i responsabili delle diverse Riserve convergettero ad Hogwarts per recuperare i rispettivi esemplari e ricondurli in patria.
Separarsi da loro fu, al tempo stesso, motivo di sollievo e di tristezza perché se, da una parte, ero felice di sapere che sarebbero tornati a casa, dall’altra sapevo anche che mi sarebbero mancati tantissimo. Senza contare che, sul piano simbolico, la loro partenza rappresentava la conclusione definitiva della grande avventura cui, con tutto ciò che ne era conseguito, avevo preso parte nei mesi precedenti.
Ad ognuno di loro augurai ogni bene, soffermandomi a carezzare con affetto i loro musi coriacei mentre loro, piuttosto commossi, si lasciavano sfuggire sbuffi di fumo denso dalle frogie.
In quelle occasioni non ebbi modo di incontrarmi con Charlie ma venni a sapere che, com’era giusto che fosse, si trovava ancora in Inghilterra, nel Devon, a casa dei suoi genitori.
 
Durante i primi tempi, bisognosa di riflettere con calma e riordinare le idee, feci ritorno a casa del professor Vitious, che mi rimise a disposizione la sua varipopinta stanza degli ospiti.
- Rimani pure per tutto il tempo che vuoi, Penny cara – mi disse lui, facendomi però capire che, forse, sarebbe stato anche il caso di riallacciare i ponti con la mia famiglia.
Fu esattamente ciò che feci, man mano che l’estate avanzava; dapprima piano piano e poi con una frequentazione via via più assidua una volta constatato che, alla luce di tutto ciò che era accaduto dallo scoppio della Guerra in poi, il loro atteggiamento nei miei confronti sembrava davvero mutato.
Il primo incontro, dopo tanti mesi di lontananza, fu un po’ imbarazzante; in quell’occasione, però, potei contare sulla presenza di Percy, che si offrì di accompagnarmi da loro. E così, grazie alla sua parlantina (non la smetteva di tessere le mie lodi, con mamma e papà che lo ascoltavano ammirati), il ghiaccio venne rotto molto più facilmente di quanto non pensassi e le cose cominciarono presto a fluire con la massima naturalezza.
Quindi, dopo più di un anno di assenza da casa, finii col trascorrere le ultime due settimane di agosto alloggiata nella mia vecchia stanza, intrattenendomi benevolmente con i miei genitori e con le anziane prozie che, tutti i pomeriggi, ci raggiungevano in giardino per bere il tè, in un gruppeto vociante al quale, spesso e volentieri, si aggregava anche Percy stesso.
Fu un bel periodo, di serenità e di unione, durante il quale ricominciammo praticamente da zero e, fra piccoli errori e significativi successi, imparammo a convivere con i nostri rispettivi caratteri senza recriminare in continuazione sulle reciproche pecche.
Poi alla fine dell’estate, con l’inizio del nuovo anno accademico, mi trasferii nuovamente a Cambridge per riprendere gli studi.
 
Durante tutti quei mesi, Percy fu una presenza assidua nella mia vita.
Premuroso e sollecito, si comportava nei miei confronti in maniera ineccepibile, portando avanti un corteggiamento degno di un galantuomo d’altri tempi.
Io, sapendo quanto delicato fosse il periodo che lui e la sua famiglia stavano affrontando, cercavo di fare tutto ciò che era in mio potere per fargli capire che poteva contare su di me, standogli vicino e facendogli compagnia ma, al tempo stesso, scoraggiando delicatamente i suoi impacciati tentativi di riallacciare il fidanzamento.
Andammo avanti così per utta l’estate, con lui che mi riempiva di amene galanterie ed io che svicolavo sul discorso; poi, quando mi trasferii a Cambidge, lui continuò a farmi visita con un’insistenza che, man mano che si rendeva conto che la situazione era ben lungi dallo sbloccarsi, si faceva via via più tenace e serrata.
- Ma poverino – mi diceva Audrey Golightly, la mia nuova coinquilina, una giovane studentessa del corso superiore di Arti Magidrammatiche. Percy le faceva tenerezza, e non mancò più di una volta di sottolinearlo. – È così carino, poi.
- Percy lo sa che ci sarò sempre, per lui – rispondevo stancamente io, tirandomi su gli occhiali da lettura che mi scivolavano sul naso. – Ma non in quel senso. Non più.
Tale consapevolezza, per lui, fu difficile da digerire.
Non che non lo avesse già capito, ci mancherebbe: Percy era sempre stato un individuo dall’intelligenza superiore alla media. Ma dal capire al comprendere il passo è lungo e così, purtroppo per lui, ad un certo punto fu necessario fermarsi un attimo per mettere i puntini sulle “i”.
Era autunno inoltrato; era sera.
Percy era venuto a trovarmi quel sabato; avevamo fatto una passeggiata nel campus ammantato di foglie dai colori caldi e vivaci e ci eravamo fermati a prendere una burrobirra fumante al chioschetto fuori dall’università.
Poi, incalzato dall’aria frizzante e umida che calava su Cambridge sul far della sera, lui mi aveva accompagnata a casa prima di ripartire per fare ritorno alla Tana. L’appartamento era vuoto: in quel finesettimana Audrey era via, ospite dei genitori in quel di Brighton.
E mentre mi affaccendavo nel cucinotto per riempire d’acqua il bollitore, Percy mi si era avvicinato da dietro e mi aveva posato le belle mani eleganti sulle spalle, andando ad aderire col corpo alla mia schiena.
Io ero rimasta ferma, priva di reazione tanto più che, poco dopo, lui si era chinato e aveva sussurrato al mio orecchio:
- Sogno spesso di vederti così, sai? – mi aveva detto, alitandomi soavemente sul collo e facendomi venire la pelle d’oca. - In quella che potrebbe essere la nostra casa...
E senza attendere la mia risposta mi aveva spinta delicatamente, facendomi ruotare verso di lui, per poi chinarsi verso di me e rubarmi un bacio che Audrey avrebbe definito “da stella del cinema”.
Io protestai debolmente, ma mentirei se dicessi che lo scacciai subito.
Non so spiegare che cosa diavolo mi prese lì per lì: forse l’impeto del momento, forse la solitudine amara che mi attanagliava il cuore, forse la veemenza contagiosa dei suoi desideri, forse il sollievo di ritrovarmi sulla lingua un sapore rassicurante e familiare. Sta di fatto che non lo allontanai subito, come invece avrei dovuto fare: al contrario lo baciai anch’io, a lungo e con trasporto.
Solo dopo qualche minuto, quando, stretta fra il bordo del lavello e il corpo sottile e fremente di Percy, sentii le sue dita da pianista infilarsi piano sotto la mia camicetta per sfiorarmi la pelle, realizzai che la cosa non s’aveva da fare: giammai, per nessuna ragione al mondo.
E così, con un immenso sforzo di volontà, mi staccai dalle sue labbra e gli afferrai i polsi, facendo forza per tenerglieli fermi.
Lui mi guardò per un attimo, stringendo le labbra ancora rosse per l’attrito con le mie.
- Dovevo immaginarlo – commentò, in un soffio un po’ mesto.
- Ti chiedo scusa, Percy – gli dissi io, senza lasciarlo andare. – Perdonami, ti prego.
- Non ti devi scusare di nulla, Penny – replicò lui, sforzandosi di sorridere. – Era la mia ultima carta. Ci ho provato a mio rischio e pericolo, ma in fondo sapevo.
- Ascoltami, Percy – mi affrettai a chiarire – tu lo sai che, se tu lo vorrai, io ci sarò sempre per te, vero? Tutte le volte che avrai bisogno di aiuto e sostegno, tutte le volte che ti vorrai sfogare, tutte le volte che avrai bisogno di parlare con qualcuno o anche solo di un paio di orecchie da infarcire di elucubrazioni. Sempre.
- Lo so.
- Ecco: l’unica cosa che non posso...
- Io penso – mi interruppe lui, liberando una mano dalla mia stretta per alzarla e carezzarmi dolcemente il viso – che, definitivamente, tu sia diventata una persona diversa da quella che conoscevo. Una donna eccezionalmente ammirevole, ma del tutto inadatta alla vita domestica.
Lo fissai sbattendo le palpebre.
- Ma cosa...
- Oh, sì – mi disse lui, prima di uscire dalla cucina, afferrare il cappotto e dirigersi verso la porta. - Ma sai che ti dico? Mi sembri molto più Penny ora di quanto tu non lo fossi prima. Non chiedermi il perché, ma qualcosa mi dice che è così.
 
Non era trascorso neppure un mese da quel colloquio chiarificatore che, in un tardo pomeriggio di novembre, una scampanellata vigorosa ruppe la quiete del crepuscolo domenicale.
Io stavo studiando per un esame importante che avrei dovuto sostenere da lì a qualche giorno; cosicché, attraverso lo strato spesso della porta chiusa, mi giunse la voce di Audrey che mi urlava:
- Vado io!...
Qualche minuto dopo, la sentii bussare delicatamente alla mia porta. Mi alzai incespicando, anchilosata dalle troppe ore trascorse china sui libri. Dopo essermi stiracchiata con indolenza, girai la maniglia per aprirle.
- Che c’è? – le chiesi, stropicciandomi gli occhi annebbiati dallo studio.
- Hai visite – mi rispose lei con un sorrisetto ammirato. – E fra parentesi: com’è che tutti ‘sti fighi fanno visita proprio a te, Pen? Svelami il tuo segreto, abbi pietà.
Non mi ci volle molto per capire il perché di quelle parole. In piedi nel minuscolo atrio del nostro appartamento condiviso, infilato in un maglione rosso rubino con una C sul davanti e toppe di velluto sui gomiti e intento a guardarsi intorno in modo leggermente nervoso, c’era qualcuno la cui vista fece mancare un paio di battiti al mio povero cuore.
Charlie.
Erano mesi che non lo vedevo, eppure ebbi l’impressione di averlo appena lasciato: mi ci volle un solo sguardo per capire con quanta tenacia il mio cuore lo stesse aspettando.
Dovetti fare ricorso a tutto il mio autocontrollo per impedire a me stessa di corrergli incontro e buttargli le braccia al collo; non sapevo come mai si trovasse lì: volevo evitare di fare boiate.
- C-ciao, Ch-Charlie – gli dissi allora, balbettando in modo indegno. – C-che bello vederti.
- Ciao Penny.
- Ciao – ripetei io, senza sapere bene come andare avanti.
Lui mi sorrise, forse divertito nel riconoscere in me l’esitazione che lui stesso provava.
- E... ehm. Posso entrare?
- Oh, ma certo – mi affrettai a rispondere io, un po’ confusa. – Scusa. Mi vuoi... ehm... dare la sciarpa?... – lo invitai, mentre lui srotolava dal collo la lunga sciarpa di lana con i colori del Grifondoro. – Vieni, ti faccio un caffé.
Una voce vellutata si inserì nel discorso.
- Che disdetta, Penny – cinguettò Audrey, spuntata fuori da chissà dove. – La cucina è off-limits: è appena saltata una tubatura... E ah! Ho preso possesso del salotto: fra poco arrivano le ragazze per provare la nuova coreografia.
- Vuoi che dia un’occhiata ai tubi? – domandò Charlie, premuroso come sempre. Io dovetti chiudere gli occhi e respirare un paio di volte per scacciare l’immagine di un Charlie-magidraulico infilato sotto il lavello, senza maglietta e dotato di chiave inglese.
- Ma no, figurati – rispose lei, scuotendo il capo e allontanandosi per il corridoio. – Ho già citofonato a Mr. Rollins, il portiere. Sarà su in un attimo.
- Oh, benissimo.
Un silenzio imbarazzante calò su di noi. Erano così tante le cose che avrei voluti dirgli, eppure non sapevo proprio da dove cominciare. Fu Charlie a rompere lo stallo, prendendo il coraggio a due mani.
- Senti, Penny... ti posso parlare?
- Oh, sì. Ma certo.
Gli feci segno di seguirmi fino alla mia stanza; una volta dentro chiusi la porta e, dopo averla sgomberata in tutta fretta con un colpo di bacchetta, gli indicai una poltroncina celeste su cui sedersi.
- Accomodati.
Lui mi ignorò e andò a sedersi sul bordo del letto.
Lo vidi che si mordicchiava l’interno della guancia, indeciso; poi, dopo qualche attimo di silenzio, finalmente parlò.
- Domani io e Konsti faremo ritorno in Romania.
- Oh.
- Sì... e ho pensato, ecco, che magari tu avresti voluto salutarlo, sai.
Gli sorrisi timidamente.
- Oh, grazie Charlie. Grazie per il pensiero.
- Di nulla.
Altro silenzio.
- Mi tratterrò in Romania giusto il tempo di sbrigare le pratiche di trasferimento – continuò lui, mentre io mi lisciavo piano piano le pieghe della gonna, ascoltandolo assorta.
- Ah, ma davvero? – gli domandai, incuriosita. – Dove ti trasferisci?
- Qui vicino, in Galles – rispose lui, giocherellando con la nappina di uno dei cuscini posati sul mio letto.
- Mi sembra giusto – scherzai io, tentando di mantenere un tono allegro. – Per compensare il mio fallimento con il Verde Gallese...
Lui si lasciò sfuggire una risatina nervosa.
- Eh sì – annuì, tirandosi indietro i riccioli rossi che, come di consueto, gli ricadevano sugli occhi. – E poi, sai... ho pensato che dovrei stare un po’ più vicino ai miei vecchi, ora che... che...
- Cambiare un po’ aria ti farà bene – divagai io, avvertendo un macigno che mi si depositava sul cuore. – E poi, certamente, per loro...
Charlie strisciò verso di me.
- Penny.
- Dimmi.
- È complicato.
- Lo so.
- Molto complicato.
- Lo so.
Sbuffò affannosamente e mi venne vicino, accostando lentamente il viso al mio. Io chiusi gli occhi, respirando piano; le mani mi tremolavano quando le tesi per accarezzargli il viso. E la sua pelle era calda sotto i miei polpastrelli, leggermente ruvida laddove cresceva un accenno di barba; i suoi riccioli ramati mi si insinuarono fra le dita, soffici come piumino di fenice.
Il suo caratteristico aroma di soave legno bruciato mi pervase le narici, facendomi fremere.
- E se ti dicessi – mormorò Charlie con la voce che gli tremava appena, la fronte premuta sulla mia – che il mio desiderio più grande sarebbe poterti chiedere di venire con me?
- Ti risponderei che il mio desiderio più grande sarebbe dirti di sì – gli dissi, strofinando lentamente il naso contro il suo. – E poi ti direi anche che capisco perfettamente il motivo che ti impedisce di farlo.
Lui si staccò da me quel tanto che bastava per guardarmi negli occhi.
- Lui... lui non è pronto, Penny – sbuffò, mordendosi il labbro. – È venuto da me, mi ha detto che fra voi è davvero finita; mi ha detto che ha capito, che l’ha capito, che tu... che tu mi... mi...
- Charlie – lo interruppi io, col cuore che mi martellava nel petto – non c’è bisogno di...
- Ma se io... non lo posso fare, Penny, capisci? – la sua voce era intrisa di combattuta amarezza. – Quando lui se n’è andato, hanno tanto sofferto. E poi Fred... – non riuscì ad aggiungere altro; lo sentii che tirava su col naso, prima di bisbigliare: – Ed ora lui è tornato, ed è una cosa così importante...
- Lo so, Charlie – mormorai, sbuffando fuori l’aria. – Non sono solo i tuoi genitori ad averne bisogno. Tutti voi dovete...
- Quando era piccolo, sai – proseguì lui, a voce bassissima – io lo proteggevo sempre, perché mi sembrava così indifeso!... E poi, crescendo, si è fatto le ossa; è uno che sa il fatto suo, ma ora, in questo momento io so che lui non...
- Lo so, Charlie – ripetei, sentendomi pizzicare gli occhi e stringendogli le braccia intorno al collo con quanta più forza avevo. – Lo so. E so anche, nonostante tu forse preferirai non parlarne, che ci sono altri lutti che devi affrontare, prima di...
Lo sentii che si irrigidiva in modo impercettibile, in una muta richiesta di chiarimenti.
- Ninfadora Tonks – mormorai, ringraziando Priscilla di non doverlo guardare negli occhi mentre pronunciavo quelle parole. – Devi superare anche...
Charlie si tirò indietro di scatto, divincolandosi dalla mia stretta.
- Dora? – mi disse, la voce alterata – Ma come... no, Penny, no!
Mi afferrò il polso, stringendo forte le dita intorno al braccialetto di cuoio che mi aveva regalato e che io non avevo mai tolto. Il polsino che, come mi aveva fatto notare Percy, un vero domatore di draghi donerebbe soltanto ad una persona speciale.
- È a te – sbraitò, in tono forse un po’ troppo alto – a te che ho regalato questo, a te! A te e a nessun’altra, né a Dora, né a chicchesia! – Mi accorsi che i suoi begli occhi castani erano pieni di lacrime di frustrazione e amarezza. – A te!... Sai... sai che cosa significa, questo?
Non gli lasciai il tempo di proseguire.
Non volevo ascoltare una parola di più, perché troppo forte era il dolore intrinseco in quella dichiarazione urlata con la voce intrisa di affanno.
Mi slanciai in avanti e lo baciai, infervorata e col cuore a pezzi, stringendomi a lui con tutte le mie forze, schiacciandogli le mani sul viso e mordendogli le labbra in un impeto disperato. Fu con una foga furiosa che ci strappammo vicendevolmente gli abiti di dosso, aggrovigliandoci l’uno all’altra con veemenza angosciosa e amandoci con il fuorore cieco di chi sa che, troppo presto, dovrà dirsi addio. Charlie si spinse in me con un’impetuosità ai limiti della follia, ed io lo morsi e lo graffiai, come a volermi impregnare a fondo della sua essenza; e il godimento che raggiungemmo insieme, travolgente e doloroso, ci lasciò inermi e spossati, distesi uno di fronte all’altra, ancora uniti ma già inesorabilmente lontani, a stringerci l’uno all’altra come a volerci fondere in un unico essere per non essere costretti a separarci, respirando la stessa aria e mescolando il sudore alle lacrime, i sospiri ai singhiozzi.
Fu una lunga notte. Lunga e troppo, troppo breve.
Il giorno dopo, Charlie se ne andò.
Io rimasi.
Rimasi fino alla fine di gennaio: poi, partii a mia volta.
 
Rio de Janeiro era... spettacolare.
Raramente, molto raramente si gode di um panorama urbano così superbo: fidatevi, perché ve lo dice una che, nella vita, di luoghi incantevoli ne ha conosciuti tanti.
Mi trovavo in città da un paio di mesi, impegnatissima nella stesura della mia tesi sul linguaggio dialettale dei Bico-de-Papagaio Carioca (anche detti i Bicos, i simpatici draghi che abitano le montagne alle spalle della città) quando, inaspettatamente, ricevetti un gufo da parte di Audrey. La quale, fra una notizia e un pettegolezzo, mi raccontava di avere incontrato per caso Percy a Diagon Alley e di essersi fermata a bere un caffè insieme a lui.
“Io spero vivamente che la cosa non ti dia fastidio, Penelope” mi scriveva la mia educatissima amica “Per questo motivo ho preferito interpellarti per chiederti se, un giorno di questi, posso invitarlo alla prima del nostro ultimo spettacolo”.
La notizia, complice il caldo sole tropicale che quel mattino filtrava dalla mia finestra semiaperta, mi fece sorridere. Afferrati immediatamente piuma e calamaio, le risposi di getto in un’unica frase:
“Buttati a pesce e non lasciartelo scappare”.
L’invito, probabilmente, ebbe buon esito.
Cosicché non ci volle molto prima che un nuovo gufo, questa volta bardato con gli inconfondibili colori dei Servizi Postali Gallesi, approdasse sul mio davanzale.
La missiva era scarna, redatta con una grafia puntuta e ordinata che riconobbi all’istante e che mi fece seccare la saliva.
“Ho bisogno di parlarti” c’era scritto semplicemente. E sotto, una firma sulla quale il mio sguardo si posò con la tenera intensità di una carezza:
“Charlie”.
 
Andai a prenderlo al Terminal Passaporte Intercontinentali tre giorni dopo; giorni trascorsi in preda ad un’ansia febbrile, che tentai di esorcizzare buttandomi anima e corpo nel mio lavoro in Riserva e che mi procurò una serie di divertiti inviti a darmi una calmata da parte dei miei flemmatici colleghi.
Il sole batteva più forte che mai quel giorno, facendo brillare come rame colato i riccioli di un Charlie mezzo intontito dalla lunga trasferta; quando lo individuai nel mezzo della folla mi fermai un istante a guardarlo, riempiendomi le pupille della sua bella figura che, quasi tutte le notti da quando ci eravamo salutati a novembre, mi faceva visita in sogno.
Eppure, il fatto di trovarmelo finalmente davanti in carne ossa e vederlo indirizzarmi quel suo sorriso così bianco e affettuoso mi inibì.
Avrei voluto correre da lui e saltargli al collo, baciarlo davanti a tutti (tanto i brasiliani mica si formalizzano); mi limitai, invece, a raggiungerlo con calma, e altrettanto con calma a salutarlo e a chiedergli come fosse andato il viaggio. Poi poco dopo, incurante del caldo soffocante cui non era abituato, cominciai a trascinarlo in giro senza pietà.
Lo feci trottare per tutta la città, senza soste: Pan di Zucchero, Corcovado, i quattro chilometri di lungomare di Copacabana, Flamengo, Confeitaria Colombo e chi più ne ha più ne metta. Oppresso dal calore e dall’umidità, Charlie sudava. Lo vidi che cercava di mantenere un tono, senza lamentarsi mai ma sbuffando ogni tre secondi per la canicola che ci faceva arrostire ad ogni passo, mentre io parlavo a raffica del più e del meno, intervallando banalissime considerazioni sul tempo a descrizioni pseudoscientifiche sui Bicos, il tutto condito da interiezioni tipicamente carioca che, nonostante la stanchezza, lo facevano ridere a crepapelle.
Lo ingozzai di pastéis de nata e di feijoada, lo trascinai al famoso samba della Pietra del Sale dove ballammo fino all'alba, gli presentai un paio di anziani babalorixás afrobrasiliani che praticavano le magie del candomblé, lo feci salire e scendere una decina di volte dalle irte e coloratissime scalinate dell’antico quartiere di Santa Teresa, gli mostrai le chiese barocche foderate d’oro zecchino e lo portai addirittura a vedere una partita di calcio al Maracanã (“Guarda: fanno magie coi piedi, quei babbani!”).
Insomma: a voler dire le cose come stavano, facevo di tutto per evitare di entrare in argomento.
E sarei probabilmente andata avanti così per tutta la durata del suo soggiorno se non che, all’alba del secondo giorno, stremato, al mio ennesimo “Oggi potremmo vedere...”, Charlie mi stoppò:
- Ehm... Penny.
- Oh – risposi io, voltandomi verso di lui. – Dimmi.
- Non è che oggi potremmo fare qualcosa di più... tranquillo? Tipo... che so, andare al mare?
- In spiaggia?!
Oh, Priscilla Santa.
- Se ti va, ovviamente.
- Oh, e va bene.
Quando arrivammo, armati di ombrellone e sedie a sdraio, la striscia di sabbia bianca e fine come farina era ancora poco popolata.
- Occhio al sole, eh, Charles – lo misi in guardia io. – Qua picchia sul serio, mica come in Cornovaglia.
- Ho notato – ribattè lui, mettendosi prudentemente a sedere all’ombra.
Mi appisolai quasi subito, come sempre mi accade quando le onde mi cantano la ninna nanna. Non so per certo quanto tempo dormicchiai; fui svegliata dalle voci di alcune ragazze che, nel frattempo, si erano posizionate lì accanto.
- Nossa, que pedaço de máu caminho – stava dicendo una, facendo ridacchiare tutte le altre.
- Mas que ruivo gostoso – rincarò l’altra, mentre il mio cervello mi scongiurava: “non guardare”. – Por um desses, eu faria loucuras.
Boccheggiai fra me e me, aprendo gli occhi rassegnata. Sapevo cosa avrei visto, e difatti eccolo là, in tutto il suo splendore.
Attraente, Morgana vacca.
In modo intollerabile.
Charlie, in piedi sul bagnasciuga con indosso un paio di mutandoni da bagno rossi come la perdizione, chiacchierava a gesti con un venditore di ghiaccioli, col sole che gli faceva risplendere i riccioli in fiamma viva e gli accarezzava il corpo statuario. Non c’era da stupirsi che le ragazze lo avessero notato, accidenti a lui.
Quando si accorse che lo stavo guardando mi sorrise, facendomi cenno di raggiungerlo in mare; io però non ebbi la forza di muovere un muscolo, cosicché mi limitai ad urlargli:
- Il sole, Weasley!
 
Un gambero.
Eh sì che lo avevo avvertito. Ma niente.
Charlie doveva per forza impararlo a sue spese: il sole dei Tropici è più implacabile delle fiamme di un drago, soprattutto sei sei un individuo di pelle chiara abituato alle latitudini nordiche. Quella sera, le mura di casa mia echeggiarono degli sbuffi di dolore del povero Rosso Inglese brutalmente ustionato.
- Sono un incosciente – continuava a lagnarsi Charlie, cercando invano un sollievo al bruciore intenso che gli faceva ardere l’epidermide scottata. – Un perfetto cretino.
- Un rimedio ci sarebbe – suggerii alla fine io, titubante, dopo aver soppesato all’infinito i pro e i contro.
- Oh, te ne prego – mi scongiurò lui, afferrando con gratitudine il tubetto di Magigel di Aloe che gli tendevo.
- Lo danno in dotazione alla Riserva in caso di... incidenti – gli spiegai – dovrebbe funzionare anche con le ustioni solari.
- Benedetti siano i Pozionisti – grugnì lui, affranto.
Con la coda dell’occhio, vidi che si strappava via la maglia e che cominciava a spalmarsi. Io mi misi a fissare ostinatamente il panorama fuori dalla finestra, sforzandomi disperatamente di non guardarlo; dopo pochi minuti, tuttavia, lo sentii che mi chiamava.
- Ehm... Penny? – mi apostrofò, un po’ esitante. – Non è che riusciresti a... ehm, la schiena, per... per favore?
Oh. Priscilla. Saggia.
- Uhm – biascicai, accaldata. – O-Okay. Vie... vieni qua.
Sedetti sul divano accanto a lui, girandomi nella sua direzione mentre lui, a sua volta, ruotava su se stesso per darmi le spalle. Mi riempii le mani di gel, presi coraggio e cominciai a spalmargli la schiena.
La sua pelle era calda, più del solito; morbida e liscia al tatto, costellata di lentiggini e piccole cicatrici che osservai con attenzione mentre, rese fluide dal gel rifrescente, le mie mani scivolavano su di lui, percorrendo le sue spalle ampie, la schiena tonica e poi più giù, fino ai fianchi snelli da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. E ben presto, senza che io fossi in grado di impedirlo, il mio tocco si trasformò: da semplice incrematura ad inequivocabile carezza. Vidi che i suoi muscoli si contraevano e che la sua pelle reagiva, rispondendo al passaggio delle mie dita, finché un sospiro profondo gli sfuggì dalla labbra, facendomi mozzare il respiro.
Imbarazzata, scattai i piedi.
- Ho... ho finito – gli dissi, cercando di allontanarmi.
Charlie fu più veloce.
- No – mi corresse, afferrandomi i polsi per impedirmi di sgattaiolare via. – Non hai finito un bel niente.
- Oh. Oh! – deglutii io, evitando accuratamente di guardarlo. – D-dove h-hai bisogno c-che...
- Qui.
Charlie mi prese le mani e se le portò al petto. Quando i miei palmi toccarono la sua pelle, ebbi l’impressione di ardere a fuoco lento. Lentamente, mantenendo il mento basso e tremando al ritmo dei battiti del suo cuore che mi sentivo pulsare sotto le dita, lo cosparsi di gel di aloe, gli occhi fissi sul tatuaggio della Furia Buia che spiccava sulla sua pelle arrossata dal sole.
- E qui.
Charlie guidò le mie mani verso il basso, facendo scivolare i miei polpastrelli sul suo addome sodo come il marmo e rovente come lava, il cui contatto mi provocò un mugolio basso ed un’ondata di calore alle viscere. Mossi le mani tentando debolmente di scostarmi; lui però non mi lasciò andare e, con la voce deliziosamente arrochita, mi disse ancora:
- E qui.
Mi sollevò le mani per portarsele sul viso che io, incantata dal suo sguardo affettuoso e un po’ liquido, carezzai con dolcezza, giocherellando delicatamente con i suoi riccioli ribelli, mentre lui mi intrappolava in un abbraccio robusto come una morsa.
- Ho sete, Penny – mi disse allora Charlie, in un soffio. – Tanta, tanta sete, e da troppo tempo, ormai. E, credimi, l’unica acqua in grado di placare quel fuoco che mi consuma fin da bambino è l’acqua pura di una e una sola sorgente. La tua, Principenny Clearwater.
Furono lacrime di felicità, questa volta, quelle che si mescolarono al sudore dei nostri corpi incollati, e risate di gioia quelle che intervallarono i nostri sospiri affannosi mentre, fatti scivolare via i pochi panni che avevamo indosso, riscoprivamo la pienezza del percorrerci l’un l’altra per intero, rintuzzandoci a vicenda, sproloquiando di bramosia e piacere ed infine tornando ad essere un tutt’uno; proprio come quando, tanti mesi prima, ci eravamo rifugiati per la prima volta nella nostra specialissima Isola Deserta.
 
Un chiarimento definitivo si rese assolutamente necessario dopo qualche ora, alle prime luci dell’alba.
Charlie non era affatto uno sciocco: al contrario, era intelligente e sensibile e, oltretutto, mi conosceva abbastanza bene da avere capito che gatta ci covava.
E così ad un certo punto, mentre ancora mi teneva stretta contro il suo fianco tiepido, si schiarì la voce e mi domandò:
- Perché non volevi parlarne?
Io mi irrigidii.
- Non è che non volessi... – cominciai, prendendola alla larga.
- Vai dritta al sodo, Penny – mi redarguì lui, allungandomi un buffetto ruvido.
- Oh. E va bene.
Mi tirai su a sedere e lo guardai in faccia, riordinando le idee. Poi, tratto un respiro profondo, mi decisi a parlare.
- Ho spesso sognato questo momento – esordii, con la voce che mi tremava leggermente. – Il momento in cui i tempi fossero stati maturi per permetterti di... di vedermi senza ferire nessuno.
Charlie annuì col capo, facendomi cenno di proseguire.
- Ultimamente però (e qui mi riferisco agli ultimi mesi, ma sospetto che le radici di questa mia presa di coscienza siano più remote, forse risalenti al periodo in cui ti ho conosciuto) ho realizzato una cosa. Una cosa che, tra l’altro, mi ha fatto notare anche Percy e sulla quale ho avuto modo di riflettere molto.
- Che cosa ti ha detto Percy?
- Mi ha detto che mi aveva scoperta del tutto inadatta alla vita domestica. Ecco, io credo che, in senso lato, intendesse dire che ero inadatta ad un tipo di vita, diciamo così, tradizionale: con marito, casa, figli e cose del genere.
Feci una piccola pausa, indecisa se continuare o meno. Perché oramai, volente o nolente, ero finalmente giunta al nocciolo della questione.
- In quell’occasione, però  -  bofonchiai infine - Percy mi confessò anche di riconoscermi “píù Penny” di quanto non lo fossi mai stata in precedenza.
- Il che significa...
Mi morsi le labbra, senza smettere di guardarlo.
- Significa che per circa vent’anni, a costo di reprimere la mia vera personalità, sono stata fermamente convinta di essere destinata alla classica vita da strega borghese mentre invece ora, dopo aver avuto modo di assaggiare la libertà, sono sicura di desiderare per me ben altro futuro!
Charlie mi guardava a bocca aperta.
Io tacqui immediatamente, temendo che la mia dichiarazione così sfacciatamente emancipatoria lo avesse contrariato. Dopo una decina di secondi, però, vidi che le sue labbra si piegavano in un sorriso di pura allegria, mentre una risata vorticosa gli solleticava la gola.
Io lo fissai, rossa in viso e un po’ confusa.
- Oh, Penny – mi disse, prendendomi le mani per trascinarmi di nuovo al suo fianco e stringermi forte. – Tu sei come me. Come me.
- Come... come te?
- Uno spirito libero imprigionato in un involucro di carne, ecco cosa sei. E così non lo si diventa: lo si nasce. Ed io non potrei desiderare... senti – mi disse tirandosi su sui gomiti e facendomi girare di scatto per permettermi di guardarlo negli occhi. – Io, per te, mi ci sarei anche impelagato in una vita tradizionale. Ma se anche tu mi stai dicendo che...
- Non c’è bisogno di aggiungere nulla – lo zittii io, travolgendolo con un abbraccio che gli fece perdere l’equilibrio, mandandolo nuovamente a cadere lungo e disteso.
E davvero, non ci fu il minimo bisogno di aggiungere altro.
 
E così è stata, da allora, la nostra vita.
Charlie in Galles, io in giro per il mondo a studiare il linguaggio dei draghi esotici; argomento nel quale, modestia a parte, comincio a riscuotere un certo riconoscimento da parte delle più eminenti istituzioni accademiche del globo.
La Riserva dei Verdi Gallesi è il mio posatoio: ogni volta che torno in patria mi trasferisco làaggiù per periodi di tempo più o meno lunghi, giusto il tempo di ricaricare le batterie in compagnia del mio spavaldo Rosso Inglese e poi volare di nuovo via, verso nuovi orizzonti.
Charlie, a sua volta, mi raggiunge spesso laddove mi trovo ed insieme ci divertiamo ad esplorare luoghi sempre nuovi e sempre diversi in compagnia dei rettili sputafuoco più strani che esistono; e ritrovarsi è sempre una grande, anzi no, un’immensa gioia.
Nei periodi più o meno brevi che ci vedono separati viviamo al massimo le nostre quotidianità, godendoci il più possibile tutto ciò che la nostra singolare ed esuberante gioia di vivere ci regala. E se, qualche volta, la nostalgia si fa viva e ci punge con insistenza, i nostri braccialetti di cuoio sono lì sui nostri polsi, a ricordarci che, l’uno per l’altra, ci siamo sempre, e che i nostri cuori si appartengono.
Cosicché, alla fine, di presentazioni ufficiali alle rispettive famiglie non ce ne furono e, a quanto sembrerebbe, non ce ne saranno; da qualche anno, però, a Natale ho cominciato a ricevere dei pacchi (non troppo misteriosi), contenenti splendidi maglioni di morbida lana celeste con una piccola corona gialla ricamata sul davanti.
Il che per me, a conti fatti, significa molto più di qualsiasi pranzo di fidanzamento con tanto di tartine, confetti e orchestra romantica
 
Post-Scriptum:
La citazione a inizio capitolo è tratta dalla canzone Água da minha sede di Zeca Pagodinho e potrebbe essere tradotta all’incirca così: Ho bisogno del tuo amore/ Una passione forte mi soggioga/ Ed ora che è cominciata/ Non so più come finisce/ Acqua della mia sete/ Mi disseto alla tua fonte/ Son pesce nella tua rete/ Tramonto nel tuo orizzonte.
Golightly è il cognome di Holly Golightly, la protagonista di Colazione da Tiffany, film reso immortale dalla recitazione della bellissima Audrey Hepburn.
Bene!
Mi rendo conto di averla tirata un po’ per le lunghe con questo epilogo, ma c’erano tante questioni da sistemare e non me la sentivo di spezzarle in due parti. Spero che la soluzione finale sia stata di vostro gusto e che la storia, nel suo complesso, vi sia piaciuta.
Come sempre, ringrazio tantissimo chi ha avuto la pazienza di seguire, con un ringraziamento speciale a tutti gli amici che hanno speso un po’del loro tempo per farmi sapere che cosa ne pensavano.
Grazie di cuore e a presto!
AdhoMu, febbraio 2019

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