Non era amore, ma almeno era Amyl

di NPC_Stories
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1361 DR: Rogne di una notte di Mezzestate ***
Capitolo 2: *** 1361 DR: Loto Blu ***
Capitolo 3: *** 1361 DR: The Hangover ***
Capitolo 4: *** 1361 DR: Meglio giocare con la morte che mettersi in gioco nella vita ***
Capitolo 5: *** 1361 DR: Teatime ***
Capitolo 6: *** 1361 DR: Punti di forza ***
Capitolo 7: *** 1361 DR: Gossip girls ***
Capitolo 8: *** 1361 DR: Cose non dette ***
Capitolo 9: *** 1361 DR: Gita di piacere ***
Capitolo 10: *** 1361 DR: Ricordare il futuro ***
Capitolo 11: *** 1361 DR: Ricordare il passato ***
Capitolo 12: *** 1361 DR: Il diavolo è nei dettagli, e non solo lui ***
Capitolo 13: *** 1361 DR: Famiglia, amici e alleati di vecchia data ***
Capitolo 14: *** 1361 DR: La guerra di qualcun altro ***
Capitolo 15: *** 1361 DR: Della vita segreta di Johel come venditore porta-a-porta di pentole magiche ***
Capitolo 16: *** 1361 DR: Guerra e pac… e treg… e un po’ meno guerra ***
Capitolo 17: *** 1361 DR: Ospite ***
Capitolo 18: *** 1361 DR: Restare è esistere, ma viaggiare è vivere ***
Capitolo 19: *** 1361 DR: Incubi e sogni ***
Capitolo 20: *** 1361 DR: Persone importanti ***
Capitolo 21: *** 1361 DR: Il richiamo del bosco ***
Capitolo 22: *** 1361 DR: Un elfo decente ***
Capitolo 23: *** 1361 DR: Non tutte le battaglie versano sangue ***
Capitolo 24: *** 1361 DR: Non tutti i confronti sono battaglie ***
Capitolo 25: *** 1361 DR: Non tutti gli avversari sono nemici ***



Capitolo 1
*** 1361 DR: Rogne di una notte di Mezzestate ***


1361 DR: Rogne di una notte di Mezzestate


Nel cuore della foresta di Sarenestar, in un luogo raggiungibile solo dagli elfi e dagli gnomi che conoscevano la strada, la città segreta di Myth Dyraalis accoglieva e proteggeva i suoi abitanti. Era un luogo splendido e ricco di magia tutto l'anno, ma quella sera risplendeva più del solito. Tutta la cittadina era stata abbellita con luci fatate, che delineavano con eleganza i rami più bassi degli alberi, creando l’illusione di camminare sotto a un enorme ed elaborato soffitto. Druidi, chierici e stregoni avevano lavorato tutto il giorno per mettere a punto quei decori, e perfino gli artigiani gnomi avevano voluto dare il loro contributo, realizzando lanterne di giunchi e stoffe multicolori.
La festa di Mezzestate era una ricorrenza celebrata da quasi tutte le popolazioni di Faerûn capaci di provare gioia e allegria, ma era sentita soprattutto da chi, come gli elfi e gli gnomi, aveva una lontana origine fatata.
In mezzo all’allegra confusione in cui si mescolavano gli ultimi frenetici preparativi e i primi festeggiamenti rubacchiati prima del tempo, i bambini si rincorrevano senza un pensiero al mondo, facendo risuonare le loro urla e risate sotto la volta degli alberi.
Una di loro continuava ad arrivare ultima ad ogni gara di corsa, perché si fermava ogni tre passi ad ammirare gli splendidi festoni e le luci cangianti. A differenza dei bambini di Myth Dyraalis, Jaylah non aveva mai partecipato a una festa di Mezzestate così grandiosa. Era arrivata nella foresta soltanto da poco.
I suoi compagni di giochi ormai si erano stancati di richiamarla ogni volta che si distraeva, quindi in breve la bambina rimase sola in mezzo a quella fiumana di adulti. Per fortuna, nessun bambino è mai davvero solo a Myth Dyraalis.
Jaylah stava guardando affascinata una lanterna di stoffa e metallo, abilmente realizzata da mani gnomiche e ripiegata nella forma di un drago che apriva e chiudeva le ali. La piccina allungò un braccio verso l’alto, ma qualcuno aveva saggiamente appeso quell’opera d’arte fuori dalla portata dei marmocchi.
Era così concentrata da non accorgersi della persona alle sue spalle, finché la stoffa di un mantello elfico non le sfiorò un braccio. Jaylah spostò a fatica lo sguardo dalla lanterna per posarlo sull’adulto alla sua sinistra.
“Nonno” esclamò, salutando l’elfo con la manina. “Guadda, un drago!”
“Hm. Ammirevole.” Commentò l’anziano ranger, senza nemmeno posare gli occhi sull’oggetto.
“No, è un drago!” Insistette la bambina. “Hai vitto tutte le luci? E la musica? È tutto più bellissimo che mai!”
Tazandil non si mostrò contagiato dall’entusiasmo della nipote.
“Sì. Soddisfa le mie aspettative.”
Una giovane elfa di quattro anni non era in grado di capire davvero quelle parole, ma dal tono del nonno si fece l’idea che quella frase volesse dire, in soldoni, “Meh”.
Non sapeva bene come comportarsi di fronte a quell’atteggiamento così anticlimatico.
Per fortuna in quel momento arrivò suo padre a toglierle le castagne dal fuoco.
“Oooh, chi c’è qui?” Il ranger più giovane intonò la solita pantomima, fingendo di non riconoscere la figlia. “Chi è questa leggiadra fanciulla?”
“Papà!” esclamò lei, alzando le braccia e sfoggiando un enorme sorriso. Era il suo modo per comunicare che voleva essere presa in braccio.
“Amico mio, guarda la finezza delle sue vesti, i suoi splendidi riccioli d’oro. Dev’essere una principessa o una fata.” Il suo amico Raerlan gli resse il gioco, togliendosi il cappello prima di inchinarsi davanti alla bambina.
Jaylah allungò una mano per toccare lo strano bozzo che l’elfo aveva sulla fronte.
“Ciao, Inniconno.” Lo salutò in tono sfacciato. “Puoi dire a papà di prendemmi in braccio?”
“Hai sentito la signorina, Johel?” Raerlan gli diede una leggera gomitata. “Su, prendila in braccio.”
“Non penso che dovresti” s’intromise Tazandil, con la solita impostazione rigida. Nemmeno in un giorno di festa quell’elfo era capace di lasciarsi andare. “Se continui a viziarla e a prenderla in braccio quando te lo chiede, non imparerà nemmeno a camminare.”
“Ma io so già camminare!” Jaylah fece una smorfia buffa all’indirizzo del vecchio ranger, una faccia che secondo lei doveva essere intimidatoria.
“Il nonno è sempre un po’ severo” sospirò Johel, ma si chinò a sollevare la bambina nonostante le proteste di suo padre. Avere avuto Jaylah, avere la responsabilità di una giovane vita, lo faceva sentire abbastanza adulto e indipendente da poter disobbedire a un consiglio esplicito del vecchio genitore. “Ma lo è solo perché ti vuole bene. Tu non vuoi bene al nonno?”
Jaylah poggiò le manine sulle guance di suo padre e lo guardò negli occhi con grande serietà. Anche se era piccola, sapeva quale risposta ci si aspettava da lei, eppure non le andava di dire semplicemente di sì. Quell’elfo non se lo meritava del tutto, e lei aveva uno spirito ribelle.
“Il nonno soddiffa le mie appettative” recitò, corrugando la fronte per la concentrazione. Non era una frase semplice, ma lei voleva proprio restituirgli quel ”Meh” del tutto gratuito.
Johel rimase così interdetto da non sapere come reagire, ma Raerlan raccolse subito il significato di quel commento e scoppiò a ridere quasi in faccia a Tazandil.
E continuò a ridere mentre il suo ranger capo gli affibbiava doppi turni di guardia come punizione per una settimana. Poi per due. Soltanto quando la punizione arrivò a due mesi, l’alicorn finalmente riuscì a calmarsi.
Mentre gli adulti erano distratti, Jaylah riuscì a tendersi fino a toccare una zampa della lanterna-drago, facendola oscillare leggermente. Continuò indisturbata con quel gioco mentre suo padre e suo nonno venivano distratti da altri discorsi da adulti.

“Tazandil! Cercavo proprio te!” Esclamò qualcuno vicino a loro, in tono concitato e sottovoce.
Il vecchio elfo, che già non era di umore tanto roseo, riconobbe quella voce senza bisogno di guardare in faccia il nuovo arrivato. In un certo senso, quella voce popolava i suoi incubi.
“Daren” s’irrigidì. Quel nome per lui aveva lo stesso sapore del succo di un limone acerbo. “Che cosa vuoi?”
L’elfo dei boschi si voltò a guardare il questuante, la più improbabile delle creature in una città segreta di elfi: un drow. In mezzo a tutti quegli elfi dei boschi svettava inesorabilmente per la sua pelle nera e i capelli bianco-argentei. In condizioni normali sarebbe stato attaccato a vista, a causa della millenaria faida fra elfi chiari ed elfi scuri, ma lui era diverso. Era un amico del clan Arnavel di Sarenestar, gli elfi che popolavano Myth Dyraalis.
Infatti non era per la sua razza che Tazandil lo avversava così tanto. Daren era riuscito a convincere Tazandil a guardare oltre la tetra reputazione del suo popolo, e si era guadagnato l’inimicizia del ranger unicamente grazie i meriti del suo carattere.
“Dammi qualcosa da fare!” Il tono del drow era stranamente simile a una supplica. Una cosa più unica che rara. “Lord Fisdril vuole che io rimanga in città per la festa. Ma certamente questo non è il mio posto! Diglielo, tu sei suo fratello, a te potrebbe dare retta. Sono molto più utile fuori, a proteggere questo luogo sacro oppure uno dei villaggi vicini. Questa notte gli elfi abbassano la guardia, e quelli che non lo fanno vorrebbero farlo, quindi per favore! Sii ragionevole almeno tu, lasciami essere utile, mandami a prendere il posto di una delle guardie che vorrebbero essere qui!”
Tazandil segretamente concordava con lui, ma si aspettava questa supplica e aveva ricevuto ordini chiarissimi: non doveva assecondare le richieste del guerriero.
“Mi dispiace, ma gli ordini di Lord Fisdril sono questi. Tu farai come ti è stato detto.” Rispose stringatamente.
“Ma non c’è un motivo al mondo per…”
“Gli ordini sono questi.”
“Tazandil!” Esplose il drow. “Non è una festa mia, non sono davvero uno di voi, che senso ha che io sia qui?”
Il vecchio elfo sospirò, al limite della pazienza, ma capì che Daren non sarebbe andato in pace senza una spiegazione.
“Si è deciso che non ti sforzi abbastanza per integrarti. Continui a ripetere che non sei uno di noi, e in una certa misura è vero, ma la distanza che vuoi mantenere è eccessiva. Sei un Ruathar, un Amico degli Elfi; non insultare il nostro popolo con la tua reticenza.”
Daren boccheggiò, a corto di parole. Era vero, per lui non era mai facile bilanciare il desiderio di mostrarsi amico di quegli elfi, la sua naturale asocialità, e il disagio che provava per il fatto di essere, comunque, un drow. Aveva sempre timore di esagerare in un senso o nell’altro, di essere una presenza sgradita nelle circostanze troppo intime come le celebrazioni.
“Domando scusa se sono stato offensivo.” Disse infine. “Non è per disprezzo verso le vostre usanze. Ho sempre il timore di essere di troppo, soprattutto qui, a Myth Dyraalis. Inoltre, mi sento davvero meglio quando posso essere utile, anziché stare in mezzo alla gente cercando di vincere il mio e il loro disagio.”
“Credi che non lo capisca?” Sbottò Tazandil. Questa era una caratteristica peculiare del loro rapporto: Daren era una delle poche persone capaci di far esprimere una qualche emozione a quell’elfo, anche se si trattava sempre di emozioni negative. “Sai quanto odio ammetterlo, ma io e te in questo siamo uguali. Credi che non preferirei mille volte stare fuori dai confini della città, con l’arco in pugno e lo sguardo rivolto ai pericoli della foresta? Invece mi tocca stare qui e divertirmi. Se devo farlo io, tutti i maledetti anni che il buon Corellon schianta su questa terra, allora una volta tanto puoi farlo anche tu!”
Daren lo guardò in silenzio per alcuni lunghissimi secondi. Alla fine si inchinò e si girò per andarsene, ancora shockato per quel discorso così sincero. Non si aspettava che Tazandil avrebbe mai ammesso una cosa del genere, e quella confidenza quasi valeva il prezzo da pagare. Quasi.

Daren non era mai stato un fan delle feste. Quando era giovane era stato di estrazione sociale troppo bassa per potersi permettere di partecipare ai lussuosi e sfrenati festini in cui indulgevano alcuni giovani nobili e i figli dei ricchi mercanti. Ne aveva sentito parlare ma, accanto alla naturale invidia verso chi era di rango superiore, all’epoca provava anche incredulità e quasi fastidio. Come potevano dei drow essere così noncuranti? Eccedere con il vino e le sostanze inebrianti fino a non essere in grado di stare in piedi? Chiunque avrebbe potuto assassinare con facilità un giovane folle dedito agli eccessi, eppure il tasso di omicidi in quelle feste si diceva che fosse straordinariamente basso.
Forse perfino i suoi simili avevano bisogno di svago, ogni tanto, e riconoscevano quel bisogno con tanto ardore da stabilire un’implicita tregua durante le lunghe notti di bagordi.
Daren all’epoca era un soldato e non sapeva cosa fosse lo svago, ma sapeva molto bene che se si fosse lasciato andare in quel modo, anche solo per una notte in una taverna con qualche collega, non avrebbe visto il nascere del giorno dopo.
Sapeva anche che se fosse stato un valletto anziché un soldato, uno degli addetti ad accudire e rivestire i nobili e i ricchi drow ai festini, avrebbe sicuramente trovato il modo di ucciderne qualcuno. Così, giusto per mandare un messaggio. Che neppure i rampolli viziati avevano il diritto di abbassare la guardia.

Ma questo era molto tempo fa, in un mondo del tutto diverso. Adesso Daren non era più un giovane soldato roso dall’invidia, si era lasciato alle spalle sia la gioventù che l'ambizione. Però restava acutamente consapevole di quanto fossero vulnerabili le persone mentre festeggiavano, e sapeva due cose con certezza: che avrebbe preferito dedicarsi a proteggere questi elfi festaioli, e che per nulla al mondo avrebbe voluto unirsi a loro e abbassare la guardia come l’ultimo degli idioti.
Purtroppo, non sempre si può fare quello che si vuole.

La festa procedeva a ritmo sempre più frenetico man mano che la notte ammantava la foresta. Non era la frenesia bramosa degli elfi scuri, che cercavano il piacere perché non sapevano cercare la gioia; era la frenesia allegra delle razze di Superficie, che per una volta decidevano di abbandonare il controllo sull’ordine sociale e di lasciarsi andare agli eccessi del loro retaggio fatato.
Daren non era abbastanza esperto di feste da capire bene la differenza, gli sembrava solo che tutti avessero perso la ragione. C’erano occasioni in cui gli elfi sapevano festeggiare in modo solenne, come nei giorni intorno al Solstizio d’Estate in cui ricordavano l’epica vittoria di Corellon Larethian sul dio degli orchi Gruumsh. Quella era una celebrazione seria, sette giorni di inni, preghiere, competizioni amichevoli e alla fine una massiccia caccia agli orchi. Non che ce ne fossero molti, a Sarenestar, quindi gli elfi di quella particolare foresta preferivano dare la caccia ad altre creature pericolose, anche se non erano specificatamente legate al mito che stavano replicando.
Ma quella era una ricorrenza del tutto diversa. La notte di Mezzestate cadeva una quarantina di giorni dopo, ed era di carattere completamente opposto. Si diceva che in questa notte il mondo fatato fosse più vicino al mondo materiale (qualsiasi cosa ciò volesse dire), e gli elfi e gli gnomi approfittavano di questa occasione per comportarsi come selvaggi in cerca di piaceri. O almeno, agli occhi di Daren era così. Non capiva il significato profondo di quella festa.

Alla fine aveva scelto il male minore. Siccome il suo amico Johel era andato a divertirsi e Tazandil era costretto a farlo, la piccola Jaylah era stata affidata alle cure di sua nonna, la veggente Hinistel. Daren però aveva sentito dire a Hinistel che capitava raramente una notte di Mezzestate con la luna piena, e che sarebbe stato il momento giusto per tentare qualche divinazione azzardata. Quindi appena dopo l’inizio della festa si era generosamente fatto avanti per prendere la bambina nelle sue cure, in modo che la dama potesse meditare e divinare in pace. Lei aveva capito i suoi motivi reconditi, ma non aveva obbiettato.
Daren aveva seguito la sua piccola iperattiva nipote in anfratti della città che non aveva mai visto, e in ogni luogo c’erano elfi intenti a danzare, bere o scambiarsi effusioni.
Ad un certo punto, era così intento a non guardare in qualsiasi direzione, che Jaylah gli sfuggì da sotto gli occhi.
Il drow sapeva che la bimba non sarebbe andata lontana su quelle sue corte gambette, ma la cosa gli suscitò comunque una punta di panico. Aveva promesso a sua sorella Krystel di tenere al sicuro la sua creatura, e adesso l’aveva persa di vista. Per fortuna, la sua vocetta acuta e cristallina si fece sentire presto.
“Pecché sei così bianca?” Stava domandando, con tutta l’innocenza dei suoi quattro anni.
Quando Daren la raggiunse, si rese conto che non solo aveva appena fatto quella domanda maleducata a un’elegante dama elfa, ma la stava anche indicando con il ditino.
“Uhm… perché sono un’elfa della luna?” rispose l’altra, in tono quasi incerto.
“E pecché vi date i baci?” Inquisì ancora, in modo sfacciato.
Lui spostò lo sguardo dalla bambina alle persone che stava interrogando. La prima, l’elfa della luna, era certamente una persona che non aveva mai visto. Sarenestar era una foresta di elfi dei boschi, quindi doveva essere un’ospite, o forse… spostò lo sguardo sulla sua compagna di baci: era la figlia del capoclan, lady Freya.
Daren aveva una particolare storia di disagio con quella fanciulla, da quando aveva rifiutato le avances di lei molti anni prima. Non sapeva se lei si fosse lasciata il rancore e l’imbarazzo alle spalle, ma non voleva rischiare.
“Vi prego di perdonare mia nipote, lady Freya, lady…” ci pensò un momento, poi tutti i pezzi cominciarono ad andare a posto. Aveva sentito dire che la figlia del capoclan si era sposata da poco, con una maga di una terra lontana. Al primo sguardo si erano riconosciute a vicenda come thiramin, anime gemelle. Era una cosa elfica che lui non avrebbe mai capito, innamorarsi di perfetti sconosciuti come se ci fosse dietro un qualche schema del destino… ma erano tante le cose che non capiva ed era giunto ad accettare i suoi limiti. “Ah... Aphedriel?”
“Corretto” l’elfa della luna lo gratificò con un sorriso leggero. “Dunque è vero quello che mi hanno detto, c’è un drow a Myth Dyraalis. Pensavo mi avessero raccontato una frottola.”
C’era qualcosa nel suo tono che alle orecchie di Daren suonò come una velata presa in giro, ma attribuì la cosa al suo essere sulla difensiva. Quest’elfa era una sconosciuta e non aveva motivo di essergli avversa, a meno che non diffidasse di lui per via della sua razza.
“E devo dire che la mia cara Freya aveva ragione!” Continuò, rivolgendogli uno sguardo lungo e malizioso. “Siete una gioia per gli occhi, ed è quanto mai fortuito incontrarvi in una festa come questa.”
Freya intrecciò le dita con quelle della compagna e poggiò la testa sulla sua spalla, ma rivolse all’elfo scuro uno sguardo che era chiaramente un invito.
Daren cominciò a sudare freddo, perché era chiaro dove le due elfe volessero andare a parare. Afferrò Jaylah con un gesto brusco, animato dalla fretta, e tenne la bambina davanti a sé come uno scudo vivente.
“Apprezzo moltissimo la compagnia di due dame così nobili ma purtroppo ho promesso di prendermi cura di mia nipote, sarei una persona indegna di fiducia se venissi meno ai miei doveri. Possano le stelle benedire il vostro cammino.” Si inchinò in fretta, senza lasciar loro il tempo di ribattere, e si allontanò al massimo della velocità consentita dall’etichetta.

Alle sue spalle, due elfe innamorate mantennero un’espressione leggermente offesa finché non giudicarono che si fosse allontanato abbastanza, poi scoppiarono a ridere.
“Aphedriel!” Freya le diede uno schiaffetto amichevole sul braccio. “Dovevi proprio prenderti gioco di lui in quel modo? È un poveraccio timido e impacciato con le capacità sociali di un orso.”
“Volevo solo vendicarmi un poco, perché lui un tempo ti piaceva.” Ammise la pallida fanciulla, con una scrollata di spalle.
“Gelosia?” rise l’elfa dei boschi. “Mia thiramin, io desidero solo te.”
“Però è stato divertente. Non avevo mai visto un drow in imbarazzo. Anzi, non avevo proprio mai visto un drow! Non avrei mai pensato di poterne punzecchiare uno e sopravvivere.”
Le due giovani amanti scoppiarono di nuovo a ridere, complice il vino elfico che avevano bevuto in abbondanza.
“Hai ragione” riconobbe Freya, “e non dovremmo permettere che l’etichetta e la buona creanza ci trattengano dal farlo ancora!”

Inconsapevole di essere stato solo il bersaglio di uno scherzo, l’elfo scuro continuò a camminare in fretta, ignorando le proteste di Jaylah che ogni due passi cambiava idea su dove andare. Lui tirò dritto fino a tornare nella piazza principale. Era gremita di persone, ma quantomeno queste festeggiavano con vino, musica e danze sfrenate, non con effusioni amorose.
Gli elfi più giovani si stavano cimentando nel saltare oltre un falò; secondo loro forse era divertente, secondo Daren non c’era nessuna ragione al mondo per fare una cosa così stupida.
Individuò il suo amico Johel appoggiato a un albero, con un bicchiere vuoto in mano e l’aria confusa. Andò ad appoggiarsi accanto a lui; gli alberi di Sarenestar erano così larghi che ci sarebbero voluti una dozzina di elfi per abbracciarli (e il drow era sicuro che prima dell’alba qualcuno lo avrebbe fatto).
“Sono troppo vecchio per queste cose” annunciò, a mo’ di saluto.
Johel girò il capo verso di lui e cercò di metterlo a fuoco, con notevole fatica. Sembrava che stesse tentando di recuperare la sua coscienza dispersa fra i fumi dell’alcol.
“E tu… chi… cosa diavolo sciei?”
Daren fece mentalmente il conto di quanti anni, anzi, quanti decenni lui e Johel avessero passato andando all’avventura insieme. Se l’elfo dei boschi non l’aveva riconosciuto, doveva essere così ubriaco da vedere il mondo alla rovescia. Il drow allungò una mano e gli diede un leggerissimo spintone. Come previsto, Johel si sbilanciò e cadde a terra come un sacco di patate.
“Papà!” Gridò Jaylah preoccupata, ma Daren non la lasciò scendere a terra.
“Tuo padre non sta dando il meglio di sé, stanotte.” Spiegò alla piccola. “Lasciamolo dormire.”
L’elfo scuro aggirò la grande radura che fungeva da piazza principale della città, tenendosi vicino agli alberi. Nonostante la sua cautela, almeno un paio di elfi danzanti gli turbinarono accanto invitandolo a unirsi a quel gioioso ballo collettivo, ma il burbero guerriero li scoraggiò con una semplice occhiataccia di ammonimento.
Non gli piaceva approfittarsi del naturale timore degli elfi verso i drow, ma qualche volta si trattava di legittima difesa.

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Capitolo 2
*** 1361 DR: Loto Blu ***


1361 DR: Loto Blu


Daren riuscì a sgattaiolare lontano dalla radura, lungo uno dei viottoli principali che si dipanavano verso la periferia. Nessuna strada a Myth Dyraalis era davvero una strada, non come nelle città umane; non avrebbe potuto passarci un carro trainato da cavalli. Però le vie principali erano un po’ più spaziose e meglio battute dei sentieri secondari, e il drow aveva paura che negli anfratti più remoti avrebbe potuto inciampare in altre coppie di amanti, o perfino in ammucchiate più numerose. Alle sue spalle la musica allegra era cambiata in un ritmo più lento e ossessivo, affascinante, quasi seducente. Il drow sentì un brivido sul retro del collo e si tirò il cappuccio sulla testa, cercando di non dare nell’occhio.
Alla fine s’imbatté nelle uniche due persone che quella notte sembravano aver mantenuto la testa sulle spalle: Tazandil, il vecchio ranger capo che condivideva il suo disagio per le feste, e Amaryll, la ragazza elfa che gestiva il famigerato pub La Casa degli Scapoli. Con loro c’era anche un giovane elfo, non più un ragazzo ma un apprendista druido. Il giovanotto aveva le vesti mezze bruciate, da cui Daren intuì che avesse cercato di saltare oltre il fuoco, con scarso successo.
Amaryll lo afferrò per un braccio e lo trascinò con forza dentro il pub. Tazandil si congedò e si allontanò verso i confini della città, forse per evitare la festa o magari per evitare Daren. L’elfo scuro prese una decisione su due piedi e s’infiltrò nel pub dietro ai due giovani elfi.
Ricordava che Amaryll aveva un figlio, che ormai avrebbe dovuto avere poco più di settant’anni. Era il giovanotto con le vesti bruciate? Oppure quello era l’ultimo amante della locandiera?
“Siamo chiusi per stanotte, ma puoi trovare tutto il divertimento che vuoi all’aperto” gli consigliò Amaryll, sentendo che qualcuno era appena entrato.
“Ti prego, non tradirmi anche tu.” Sospirò il drow. “Tutte le persone che conosco sono ubriache o perse nell’estasi dei sensi. Non cacciarmi, cerco solo un posto dove nascondermi e aspettare che questa notte infernale scivoli via.”
L’elfa si voltò di scatto verso di lui, avendo riconosciuto la sua voce.
“Daren! Tu qui? Non mi aspettavo di vederti nella notte di Mezzestate.”
Lui non aveva mai versato una lacrima da quando era uscito dall’infanzia, nemmeno nei suoi momenti più bui e disperati, ma la frustrazione e l’impotenza di quella notte gli fecero venire voglia di rannicchiarsi in un angolo e piangere.
“Non voglio partecipare alla festa! Mi hanno costretto dicendo che sottrarmi sarebbe stato offensivo, ma non faccio altro che scappare da una parte all’altra per sfuggire alla gente che mi invita a ballare o… o a un altro tipo di danza. Non ne posso più. Ti prego, se mai ti sei reputata mia amica, dammi un posto dove potermi nascondere e magari un lettino per Jaylah” domandò, mostrando la bambina che ora se ne stava in braccio a lui tranquilla e mezza addormentata.
Amaryll strinse le labbra con forza cercando di non sorridere. Non era bello ridere delle disgrazie altrui, ma aveva sempre visto il drow come un guerriero tutto d’un pezzo e ignorava che potesse provare disagio per cose tanto triviali.
“D’accordo, resta pure. La cucina è chiusa, ma posso darti qualcosa da bere. E certamente la tua bambina avrà una stanza, non devi nemmeno chiederlo. Penso che un letto a misura di gnomo vada bene per lei.”
“Grazie. Non sai quanto ti sono grato.” Sospirò l’elfo scuro, appoggiandosi stancamente alla porta chiusa. “Non ti ho neanche salutata come si deve. Ben trovata, Amaryll. Ben trovato… Navar? Sei il giovane figlio di Amaryll, vero?”
Il ragazzo inizialmente non rispose, poi si passò una mano fra i capelli biondi e annuì, con aria pensierosa.
“Io ti ho già visto” azzardò, dopo un momento. “Penso che sia passato molto tempo, ma ricordo un elfo nero che aveva il tuo stesso sguardo.”
“Se già conosci il mio sguardo disperato, che poche persone al mondo possono raccontare di aver visto, è perché quando eri bambino mi hai fatto disperare. Ad un certo punto ho smesso di venire a Myth Dyraalis, e non dico che sia stato per colpa tua, ma certamente hai contribuito.”
“Oh…” Navar Enlee assunse un’aria mortificata, la stessa che indossava quando sua madre lo sgridava per qualcosa. Di solito non era sincero nei suoi pentimenti, ma questa volta sì. Quasi. “Mi dispiace, non ho molti ricordi dell’epoca. Che cosa ho fatto?”
“Avevi appena pochi anni più di Jaylah. Io devo aver catturato la tua immaginazione, o forse gli altri bambini ti avevano raccontato qualcosa. Facevi di tutto per attirare la mia attenzione, come se volessi impressionarmi con le tue imprese ardite. Come risultato, ti cacciavi sempre nei guai. Tua madre non mi ha mai mosso accuse, ma io mi sentivo responsabile per aver causato quel comportamento. Una volta ti sei lanciato da un ramo gridando che potevi levitare… se lady Merildil non ti avesse preso al volo ti saresti fatto male, anche se era un ramo basso. Da quel giorno ho deciso che non mi sarei più fatto vedere, così anche quando ero nella foresta mi sono sempre tenuto alla larga da questa città.”
Man mano che il drow raccontava, il viso del ragazzo si atteggiava sempre di più in una genuina espressione di orrore. “Ghiande, mi dispiace!” Esclamò, arrossendo. “Non era una tua responsabilità. Anche adesso continuo a fare cose pericolose. Sto studiando da druido, ma sono… mia madre dice che sono un’anima inquieta. La conoscenza che apprendo per bocca dei miei maestri non mi basta. Voglio scoprire cose nuove, nuovi paesaggi, nuove piante e animali, nuovi equilibri della natura. Voglio viaggiare, essere un druido esploratore. Non era per te che facevo il matto, tu eri solo il canale attraverso cui esprimevo la mia… frenesia, il mio desiderio di emozioni forti. Quindi, ti chiedo scusa.”
L’elfo scuro rimase molto colpito da quel discorso. Sì, forse Navar era ancora preso dal fervore dell’adolescenza, e continuava a riproporre sempre gli stessi comportamenti spericolati, ma almeno ne era consapevole.
“Non devi scusarti per ciò che hai fatto quando eri un bambino. Non con me. A quell’età ho fatto cose anche più folli.”
“Davvero?” Navar chinò la testa da un lato, con uno scintillio divertito nello sguardo. “Eppure una semplice festa ha il potere di turbarti?”
“Navar, adesso sei irrispettoso. Vai nella tua stanza!” S’intromise Amaryll.
“Ma mamma…”
“No, niente ma. Conosci le regole della Casa. Qui dentro nessuno viene giudicato, per nessun motivo. Alcune persone esagerano quando c’è un festeggiamento, altre persone odiano gli eccessi, sono preferenze personali su cui noi non mettiamo becco. Quindi prendi un po’ di unguento per le ustioni e vai in camera tua.”
“Non mi sono scottato, si sono solo bruciacchiate le vesti” protestò lui. “Non voglio andare a riposare. Voglio festeggiare! E non puoi giudicarmi, hai appena detto che è contro le regole.”
“Figlio mio, non ti sto giudicando” assicurò l’elfa, nel tono più conciliante che le riuscì. “Ti sto minacciando. Va' in camera tua o dirò al tuo druido istruttore di confinarti a pettinare licheni per un mese.”
Il ragazzo restò a bocca aperta e balbettò un tentativo di protesta, ma alla fine si eclissò su per le scale. Amaryll sospirò, restando ad ascoltare i passi del giovanotto sugli scalini. Stava facendo più rumore del dovuto, quindi era di cattivo umore.
“Ha settantacinque anni, benedetto ragazzo, e ancora si comporta come un adolescente” sbuffò.
“L’adolescenza per gli elfi può essere una faccenda lunga e turbolenta” commentò Daren, mentre faceva un confronto mentale con il popolo da cui proveniva. Tutti i drow che aveva conosciuto, comuni cittadini come lui, non avevano potuto permettersi il lusso di indulgere nell’adolescenza. Era una cosa rara, riservata ad alcuni nobili o ricchi rampolli, e comunque solo ai più fortunati fra i loro pari. Era confortante che tutti gli elfi di Superficie attraversassero l’adolescenza, era un segno del fatto che non dovevano preoccuparsi di crescere in fretta.
Amaryll arrossì leggermente, imbarazzata per essersi lasciata andare alle lamentele. “Non voglio annoiarti con i miei problemi. Vieni, ti mostro una stanza per la bambina.”
Le stanze erano tutte vuote, perché gli abitanti di Myth Dyraalis non avevano in previsione di dormire o di riposare, quella notte. Jaylah era già nel mondo dei sogni quando suo zio la sistemò in una cameretta per gnomi, al pianterreno.
“Che bambina tranquilla” commentò l’elfa, accarezzando i riccioli chiari della piccola. “Chi è la madre?”
Daren per un momento la guardò senza capire, poi realizzò dov’era il fraintendimento.
“Oh, non è mia figlia. È mia nipote. Sua madre è mia sorella, e Johel è suo padre.”
“Ah, ma certo! Che stupida, eppure avevo sentito le voci.” Bisbigliò l’elfa, mentre uscivano dalla stanza e si chiudevano la porta alle spalle. “Capisco perché non è con suo padre in questo momento, Johel ha sempre apprezzato molto la festa di Mezzestate.”
Daren andò a sedersi al bancone mentre l’elfa si sistemava al suo solito posto vicino agli scaffali dei liquori, di fronte a lui.
“Perché tu no, Amaryll?” domandò l’elfo scuro, appoggiandosi al piano di legno con entrambi i gomiti. La notte era giovane e aveva molto tempo da far passare. “Perché non sei fuori a divertirti con gli altri?”
L’elfa abbassò il capo e qualche ciocca dei suoi lunghi riccioli fulvi le cadde davanti al viso, dissimulando il suo rossore. “Mh… ero anch’io lì fuori, a dire il vero. Ma conosco Navar e sapevo che prima o poi avrebbe fatto qualcosa di stupido, quindi non mi sono lasciata andare ai festeggiamenti.”
“Il tuo è un lavoro duro” ridacchiò il drow “e non ti invidio!”
“Mi sono divertita abbastanza quando ero più giovane” sottolineò quelle parole con una scrollata di spalle. “In effetti, Navar è un figlio di Mezzestate. È per questo che non so chi sia il padre. In queste feste succede un po’ di tutto, ma i bambini concepiti in questa notte sono considerati figli della foresta. Non solo perché chiunque potrebbe esserne il padre, ma anche perché… a Mezzestate celebriamo la nostra origine fatata, il nostro retaggio ancestrale. Un tempo eravamo spiriti di Natura, e la nostra natura era selvaggia. Questi eccessi sono solo un tentativo di liberarci delle nostre sovrastrutture sociali. Assumiamo alcol e sostanze alteranti, non per stordirci, ma per tornare in contatto con alcuni sensi e percezioni che abbiamo perduto. Perfino la copulazione sfrenata è un modo per sperimentare quello stile di vita selvaggio, privo di regole, in cui vuoi qualcosa e la prendi.” Amaryll afferrò una bottiglia di liquore color del granato, la agitò un paio di volte facendo roteare il liquido che lasciò una patina rossa sul vetro, infine se ne versò un generoso bicchiere. “Forse non stiamo facendo una grande impressione su di te, ma… in realtà, non è che il divertimento sia del tutto senza regole. Ne restano sempre due, che ci rendono diversi dalle fate da cui discendiamo: la necessità del consenso, e il tabù dell’incesto. Ma tutto il resto è consentito.” Poggiò la bottiglia sul bancone e prima di richiuderla chiese al suo compagno di chiacchiere: “Vuoi dello sciroppo di melagrana? Non è molto alcolico, meno del vino elfico.”
“Grazie, ma no. Sembra troppo dolce per i miei gusti.” Poi gli venne in mente lo sguardo d'acciaio di Tazandil mentre gli ordinava di divertirsi. “Però se hai qualcosa di meno dolce, e di non troppo forte, lo prenderei volentieri. Per onorare le vostre tradizioni.”
Amaryll sorrise del suo goffo tentativo di integrarsi.
“Qualcosa di non troppo forte non è esattamente in linea con le nostre tradizioni” ridacchiò “ma apprezzo il tuo sforzo.”
“Mi dispiace” Daren si strinse nelle spalle. Non era davvero dispiaciuto, era solo una formula di rito. “In realtà sento il bisogno di ubriacarmi solo quando sono molto giù di morale, quindi nel mio animo gli alcolici non sono associati alla gioia e al lasciarsi andare al piacere. Sono solo un modo per ottundere i sensi quando la vita è troppo orrenda per essere tollerata. Posso anche bere per compagnia, ma senza esagerare.”
Il tono del tutto tranquillo con cui aveva raccontato quelle cose fece calare un velo di tristezza sul bar quasi vuoto. Amaryll capì, dal suo modo di esprimersi, che non voleva rovesciare su di lei i suoi problemi personali. Aveva raccontato una parte della sua vita che ai suoi occhi di guerriero, di drow, era così normale da non considerarla strana o troppo personale.
“Mi dispiace” tentò, sentendosi la gola secca. Buttò giù un altro sorso di sciroppo di melograno e si voltò verso gli scaffali per cercare una bevanda che rispondesse alle richiesta del suo unico cliente: non troppo dolce, non troppo alcolica. I suoi occhi si posarono su una bottiglia squadrata, che conteneva un liquido dal tenue colore blu, e un’idea cominciò a farsi strada nella sua mente. Afferrò la bottiglia, più leggera di quanto la sua forma facesse intendere, e si voltò di nuovo verso Daren. “Questo. Si chiama Loto Blu, è un liquore che gli gnomi importano commerciando con gli umani. Si dice che venga da oriente e che sia prodotto distillando la linfa e i petali di un fiore che cresce nell’acqua, e non dovrebbe essere troppo forte. Ha un sapore floreale, ma non è dolce come i liquori a base di frutta. Penso che faccia al caso tuo, a meno che ora tu non sia… giù di morale.”
Daren le rispose con un sorriso che però non si estendeva fino agli occhi.
“No. Sono a disagio per essere stato trascinato nei vostri festeggiamenti, e mi sento fuori posto, ma non sono triste. Una parte di me è lusingata che lord Fisdril mi abbia voluto qui, per costringermi a integrarmi.” Il suo sorriso di circostanza si trasformò lentamente in un sorriso sincero. “Il Loto Blu andrà benissimo.”
Amaryll rispose al sorriso e gli versò un generoso bicchiere di quella bevanda esotica. La bottiglia leggera e l’imboccatura larga facevano in modo che fosse facile versare più bevanda del dovuto, e questo lasciava intendere che non fosse rischioso esagerare con le dosi. I superalcolici, al contrario, erano sempre conservati in contenitori dal collo stretto.
“Temo di non essere capace di leggere il tuo umore.” Confessò, ma la sua voce era leggera. “Sei così musone che non capisco quando sei triste o quando sei solo infastidito.”
Daren sospettava che la bevanda leggermente alcolica dell’elfa avesse già iniziato a fare effetto su di lei. Di solito non gli parlava con tanta confidenza.
“Non sono musone, sono solo costantemente infastidito. Così, se mai tu dovessi chiederti… Daren è infastidito?, sappi che è sempre una risposta accettabile. Però raramente sono davvero triste. Solo quando succede qualcosa di brutto per colpa mia, o perché non sono riuscito ad evitare che accadesse.”
La giovane locandiera restò stranamente spiazzata a questa confessione. Abbandonò il suo bicchiere sul bancone e si chinò verso di lui, guardandolo come se fosse uno strano animale esotico. Era così vicina che lui poteva sentire il profumo dolce della melagrana nel suo respiro.
“Hai detto una cosa molto bella e molto triste” gli sussurrò “ma così… normale. Non pensavo che potessi dire una cosa così normale.”
Lui fissò gli occhi in quelli di lei, e vide che erano leggermente lucidi e fuori fuoco per colpa dell’alcol.
“Non capisco cosa intendi.”
“Intendo che chiunque sarebbe triste per queste cose. Pensavo che la tua tristezza fosse più… soprannaturale. Meno banale.”
L’elfo scuro non sapeva bene cosa pensare, ma invece di sentirsi offeso cominciava ad essere curioso.
“Uh… mi dispiace di essere banale?” Azzardò, incapace di trattenere un ghigno.
“Pensavo che la tua tristezza venisse dal fatto che sei drow.” Ammise lei, con sincerità disarmante.
Daren sbatté le palpebre un paio di volte, senza capire.
“Scusa ma non ti seguo.”
“Dai, sì, insomma… pensavo che fossi una nera creatura tormentata perché… perché sì. Scusa, non ci ho mai pensato per bene.”
Il drow adesso si sentiva un pochino offeso, ma anche molto divertito. Era di sicuro la cosa più stupida che avesse mai sentito sul suo conto. Le sue spalle vibrarono in un sussulto, e si accorse che gli era scappata una mezza risata. Amaryll gli rivolse uno sguardo offeso, e lui non riuscì più a resistere: nascose la testa fra le mani e cominciò a ridere.
“Perché ridi?” protestò lei, dandogli uno schiaffetto sul braccio.
“Oh! Sono una nera creatura tormentata!” Recitò lui, mettendosi una mano davanti alla fronte in una posa melodrammatica. “E non riesco nemmeno a inventare un motivo plausibile per cui dovrei esserlo, altrimenti lo metterei in scena con grande enfasi!”
“Non prendermi per i fondelli!” Protestò lei, un po’ risentita.
“La mia tristezza è banale” spiegò lui, tornando serio “perché ho appreso questo sentimento quando ho smesso di essere un esemplare modello di drow e sono diventato un po’ più simile a voi. La mia razza non conosce la tristezza, soltanto il vuoto e l’infelicità che comporta. Ma per conoscere la vera tristezza devi avere qualcosa da perdere. Devi conoscere l’amore, o averne almeno una vaga idea. Le due cose vanno insieme.”
Amaryll lo fissò come se lui le avesse appena aperto gli occhi su un mondo totalmente diverso.
“Quindi… per me la tristezza è banale ma per te no?” Azzardò, incerta su cosa pensare. Non aveva mai sospettato che il dolore potesse essere un sentimento positivo.
“Per me non è banale. Anzi, è una conquista. Non mi piace, ma mi ricorda che sono una persona vera.”
“E l’amore?” incalzò lei.
“L’amore cosa?”
“Quello lo conosci? Nessuno ti ha mai visto intrecciare un rapporto con qualcuno.”
Daren abbassò gli occhi. Il suo sguardo inciampò nel suo bicchiere di Loto Blu, ancora intoccato, e decise che era un buon momento per prendere un sorso.
Andò giù come acqua, anche perché il sapore non gli interessava veramente.
“Non intendevo per forza amore romantico.” Spiegò, un po’ infastidito. “Anche cose come la vera amicizia, o l’affetto per un parente, quelle sono forme di amore.”
“I drow non hanno nemmeno questo?”
“Men che meno questo. A volte, raramente, la passione fra due amanti può portare alla nascita di sentimenti. È una cosa molto pericolosa, e di solito muore molto prima di diventare amore, ma comunque è qualcosa. L’amicizia è più rara. L’affetto per un parente, è quasi impossibile.” La sua mano nera come l’ebano si alzò automaticamente ad accarezzare la tempia destra, dove una minuscola cicatrice, quasi invisibile, deturpava la sua pelle altrimenti liscia. “Quindi se vuoi che risponda alla tua domanda dovrai essere più specifica.”
Amaryll si chinò sul bancone, afferrò il bicchiere di Daren e glie lo portò alle labbra.
“Onora le nostre tradizioni.” Gli ordinò, inclinando il bicchiere verso la sua bocca. Il drow bevve un sorso, perché altrimenti si sarebbe versato il liquido sul mento e nel collo. “Non voglio che tu mi risponda. Non sono nessuno per chiedere.”

Il drow allontanò ogni pensiero dalla mente, mentre assaporava quell’insolita bevanda blu. Amaryll aveva ragione: non dava alla testa, e non era troppo dolce.
Aveva uno strano effetto. Sembrava che in qualche modo affinasse i suoi sensi, anziché ovattarli. Il primo bicchiere andò giù come una tazza di tè freddo, senza alcun effetto collaterale. Anzi, si accorse Daren, aveva quasi la sensazione di riuscire a pensare meglio. Non solo i suoi sensi si erano acuiti; i suoi ragionamenti si erano fatti più svelti, più arditi, e perfino i suoi riflessi erano più rapidi. Anziché un alcolico, gli sembrava di aver appena bevuto una brocca di caffè. Daren era un drow, quindi era abituato ai sapori amari e non aveva problemi con il caffè, ma questa bevanda delicata gli piaceva molto di più.
“Ne vorrei un altro bicchiere!” Esclamò, con forse un po’ troppa enfasi, poggiando una manciata di monete d’oro sul bancone.
Amaryll, che era ormai al quarto calice di sciroppo color granato, fece aleggiare lo sguardo su quelle monete come se non riuscisse bene a metterle a fuoco.
“Non… non devi pagare.”
“Ah no? Sei una pessima locandiera.”
“E tu sei un pessimo drow.” Ritorse lei, agitando un dito in segno di ammonimento, ma per scherzo.
“So che ti ho delusa perché non ho una nera anima tormentata” decise di stare al gioco e si mise anche una mano sul cuore “ma saresti così buona da perdonarmi e versarmi un altro bicchiere?”
Amaryll ridacchiò, afferrò la bottiglia di Loto Blu a due mani e cercò di versarne un po’ nel bicchiere di Daren. Riuscì a completare il suo compito senza fare troppi danni.
Più tardi, con il terzo bicchiere non fu altrettanto fortunata. Il primo sorso cadde sul bancone e lei richiuse la bottiglia di scatto, mormorando “Ooops!”, poi scoppiò a ridere.
“Hai bevuto troppo, Amaryll” sospirò lui, che si sentiva ancora perfettamente lucido.
“Puoi... puoi chiamarmi Amyl. Gli amici mi chiamano Amyl.” Gli concesse la ragazza.
“Amyl” ripeté lui, rigirandosi la parola in bocca come una caramella. Gli piaceva come suonava. “Ti aiuto io a versare, Amyl”
Poggiò le mani su quelle dell’elfa e guidò i suoi gesti, perché lei non voleva lasciar andare la bottiglia. Insieme tolsero il tappo di vetro, ma tenendo le dita sottili dell’elfa fra le sue, Daren cominciò a pensare sempre meno al Loto Blu, e sempre più alla sensazione di quella pelle chiara e tiepida sotto i suoi palmi.
Amaryll era una locandiera e le sue erano dita da lavoratrice. Le mani avevano i calli di chi usa ogni giorno una ramazza, la pelle era screpolata perché stava spesso immersa nell’acqua, ma il drow era un guerriero e le sue mani conoscevano i calli della spada. Al confronto, la pelle della ragazza gli sembrava di seta.
L'elfa si avvicinò a lui, come per capire cosa stesse guardando di così interessante, e lui divenne acutamente consapevole del suo profumo. Il fatto che i suoi sensi fossero acutizzati dall’alcol aveva un effetto collaterale, e presto si rese conto che forse non era lucido come pensava. Stava cominciando a covare pensieri che non erano proprio tipici di lui.
“Grazie per… l’aiuto” biascicò lei, con aria confusa “forse ho bevuto troppo.”
“Forse dovresti andare a letto” le suggerì lui, cercando di recuperare un po’ di contegno. “Non devi stare sveglia solo perché ci sono io.”
“Hm. Sì, forse. Ma...” lei si guardò intorno, un po’ sperduta. “Puoi… accompagnarmi nella…?” Amaryll indicò vagamente la porta sul retro del bar, che conduceva alle camere. Daren capì che intendeva Nella mia stanza.
L’elfa era davvero troppo instabile per poter camminare e lui capì che avrebbe dovuto sorreggerla. Se fosse stato in sé, se si fosse reso conto che in quel momento non era lucido, avrebbe avuto paura delle conseguenze. Invece tutto quello che riuscì a pensare era che si sentiva stranamente contento di doverla prendere fra le braccia.
Amaryll riuscì a guidarlo fino alla sua stanza, anche se prima sbagliò a indicare la porta un paio di volte. La camera della ragazza era al pianterreno per motivi di praticità, e meno male, perché non sarebbero riusciti a fare le scale.
Il drow la accompagnò fino al letto. Quando lei si lasciò cadere sul materasso, lui provò un acuto senso di fastidio perché quella creatura calda e profumata non era più appoggiata contro di lui. Non riuscì a lasciare andare la sua mano. Lei se ne accorse, guardò le dita nere ancora chiuse intorno al suo polso come se non capisse bene quel gesto. Poi la sua altra mano si posò su quella di Daren e lo tirò leggermente verso di sé, per invitarlo a restare.
Un momento dopo si stavano baciando. Nessuno dei due sapeva come fosse successo, ma nessuno dei due voleva che finisse.

     

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Capitolo 3
*** 1361 DR: The Hangover ***


1361 DR: The Hangover


Daren si svegliò la mattina dopo, confuso. Si accorse subito di due cose: la prima, che non sapeva dove si trovasse. Era sdraiato in un letto dalle lenzuola un po’ ruvide, in una stanza che non conosceva. La seconda, che era nudo fino alla cintola, e che pure quella era mezza slacciata. Era come se avesse tentato di sfilarla dalla fibbia senza riuscirci del tutto.
Cercare di alzarsi gli procurò una fitta di mal di testa, quindi si riappoggiò al cuscino con un mugolio di fastidio.
Solo che non era un cuscino. Era il braccio di qualcuno.
In quel momento si ricordò di colpo di chi fosse quella stanza, e quel letto.
Abbassò lo sguardo sulla persona accanto a sé, ma lei era completamente nascosta sotto le coperte, avvolta in un bozzolo. Solo un braccio spuntava da quel groviglio, e qualche ciocca di capelli ramati. Questo fu sufficiente.
Oh dèi. Amaryll. Sono veramente nel suo letto. Ma quindi ho… abbiamo…? No, impossibile, indosso ancora i pantaloni. Ma ho cercato di approfittarmi di lei? Non è una cosa da me, però dovevo essere ubriaco perché non ricordo nulla. Oppure è stata lei a cercare di sedurmi? Non ha senso, Amaryll è una ragazza innocua.
Questo però gli fece tornare in mente una cosa importante.
Ah. Ma per gli elfi il sesso è una cosa innocua. Anche se mi avesse sedotto, non indica cattive intenzioni. Non è come se fosse una drow.

L’elfa in questione fece lentamente capolino da sotto le coperte. Per un po’ si guardarono senza dirsi nulla.
“Daren, suvvia, riprenditi” Amaryll cercò a tentoni un cuscino che era caduto per terra, lo trovò e glie lo sbatté sulla faccia con un gesto stanco. “Non è successo niente. E anche se fosse successo qualcosa, non sarebbe niente. Era Mezzestate, anche se ci fossimo amati come conigli non avrebbe importanza!”
Il drow si tolse il cuscino dalla faccia, con mosse rigide.
“Non ho detto nulla.”
“No, ma sono due minuti interi che mi fissi come una statua di sale. O sei a disagio o stai rimuginando troppo sulla cosa. In entrambi i casi: riprenditi” biascicò lei, rilassandosi sulla sua metà del letto “non ho la forza di gestire una persona in crisi.”
“Come vuoi” sussurrò lui. Di certo il fatto che lei la stesse prendendo così tranquillamente aiutava, e anche che avesse assunto il controllo. Poteva gestire una donna che gli diceva cosa fare, almeno finché la cosa non diventava pericolosa.
“Mi dispiace, io… dovrei andarmene” propose lui.
“Mmmhno, aspetta. Sento i postumi dell’alcol. Ho mal di testa e sto uno schifo. Se mi lasci sola mi sentirò disgustosa e miserabile” mugugnò la ragazza.
Il drow spalancò gli occhi per la sorpresa, non solo per quel pensiero assurdo ma anche per la sincerità con cui gli aveva dato voce.
“Ma che dici, perché?”
“Perché sono una donna da cui un amante scappa via non appena arriva l’alba” rispose il bozzolo di lenzuola. “Una che non va più bene quando torni sobrio.”
L’insicurezza femminile era una novità, per un drow. Aveva visto solo una donna mostrarsi così vulnerabile, sua sorella, e solo dopo che aveva subito un’aggressione. Questo gli fece suonare un campanello d’allarme nello stomaco.
“Santo cielo, Amaryll” sussurrò, sentendo il sangue che gli defluiva via dal viso. “Io non ho… non ti ho forzata a fare qualcosa, vero? Non mi sono imposto su di te?”
Finalmente la ragazza gettò da parte le lenzuola liberandosi fino a mezzo busto, mostrando che indossava ancora una specie di sottoveste. Si puntellò sui gomiti e si girò a guardarlo con aria molto perplessa. I suoi occhi erano gonfi come se non avesse dormito bene, ma era adorabile come sempre, e lui si stupì di quel pensiero involontario. Forse l’atteggiamento rilassato dell’elfa l’aveva tranquillizzato, o almeno era l’unica spiegazione che riusciva a darsi. Lei non si sarebbe comportata con tanta disinvoltura, se lui le avesse fatto del male la sera prima.
“Che cos’hai nella testa? Me ne starei qui a dormire vicino a te se mi avessi molestata? Ieri notte ci siamo baciati e… e poi ci siamo baciati ancora… per un sacco di tempo, e ci siamo accarezzati, e poi abbiamo scoperto che da ubriachi è molto difficile togliersi i vestiti. Poi non ricordo più nulla perché devo essermi addormentata di colpo.”
Il racconto stringato della giovane gli fece tornare in mente qualche flash di memoria. Ricordò che aveva accompagnato Amaryll in camera perché lei barcollava troppo, lei lo aveva tirato sul letto e avevano iniziato a scambiarsi effusioni. Si sentiva ancora in bocca il gusto del melograno, anche se il mattino dopo era contaminato dal sapore dell’alcol e della sete. Ora ricordava un po’ meglio anche cosa avevano fatto dopo, poteva ancora sentire la morbidezza dell’elfa sotto le sue mani, quando l’aveva toccata da sopra i vestiti. E lei gli aveva tolto la casacca, lo aveva accarezzato senza graffiare o mordere, questa era una cosa che rammentava con sollievo. Alla fine Amaryll si era messa sopra di lui e aveva cercato di slacciargli la cintura, ma non ci era riuscita. L’immagine del suo sguardo frustrato balzò in primo piano davanti agli altri ricordi. Era un’espressione che significava guai, sul volto di una femmina, quindi lui era istintivamente entrato in tensione. Lei però aveva solo mormorato Nuuta!, una bambinesca imprecazione elfica, e si era addormentata sul suo petto come se fosse la cosa più naturale del mondo.
“Sei così carina” sussurrò, sulla spinta di quei pensieri.
“Ah, ma grazie” Amaryll si lasciò ricadere sul cuscino, con la stessa gravità di un albero che crolla a terra. “Riesco quasi a portare a termine un flirt dopo anni che cercavo di farmi coraggio, e tu dici che sono carina.”
Il drow restò ancora più sorpreso davanti a quella confessione, perché nella sua esperienza se una donna voleva un uomo non doveva fare altro che dirglielo. Forse il suo atteggiamento sempre imbronciato e sulla difensiva aveva intimorito Amaryll in tutti quegli anni.
“Ho bisogno di acqua” tossicchiò, perché aveva la gola secca. “Vorrei dirti perché “carina” è il miglior complimento che ci sia. Però sono troppe parole e ora ho troppa sete.”
Amaryll si alzò, nonostante la testa le girasse ancora, e corse verso la cucina per prendere una caraffa d’acqua e due coppe. Se c’erano dei complimenti in serbo per lei, non vedeva l’ora di sentirli. Prese anche una fiala di un particolare preparato che contrastava il malessere del giorno dopo, perché si sentiva la testa pesante e di certo per Daren era lo stesso. Quando tornò in camera, lui si era alzato a sedere sul letto ma non si era ancora rivestito, e a lei sembrò una buona cosa. Significava che il suo ospite non era a disagio e non pensava di lasciarla subito.

L’elfa riempì una coppa d’acqua e la porse al suo compagno.
“Se senti mal di testa, puoi mischiare all’acqua metà di questa fiala, è un preparato speciale dei druidi per mitigare gli effetti di una sbronza. È molto richiesto dopo feste come quella di stanotte. Noi due non abbiamo ecceduto troppo, mezza fiala a testa basterà.” Gli propose.
Daren di norma non avrebbe accettato nessun liquido sconosciuto da un’estranea, il suo primo istinto era pensare che fosse veleno. Amaryll però non era un’estranea, nessuno di quegli elfi l’avrebbe mai avvelenato e lo sapeva. Inoltre, anche lei avrebbe bevuto la stessa sostanza. Quindi porse la sua coppa in segno di fiducia.
L’acqua aveva solo un leggero sentore di erbe, ma si sentì subito meglio, il cerchio alla testa si affievolì notevolmente.
“Questo infuso è miracoloso. Grazie, Amyl.”
Lei sorrise perché si era ricordato di chiamarla Amyl, e bevve a sua volta.
Ah, sì. Decisamente meglio. Passò una mano fra i riccioli fulvi, cercando di riordinare un po’ la sua chioma ribelle spettinata dal sonno. E ora, la mia dose di complimenti…
“Perché carina è il miglior complimento?” Chiese subito, partendo all’attacco.
L’elfo nero sbuffò, soffiandosi via una ciocca di capelli argentei da davanti agli occhi. Lei era così prevedibile, quasi divertente.
“Perché ne ho viste tante di donne belle. Nella città in cui sono nato, lo status di qualcuno può sempre migliorare se c’è prestanza fisica, la bellezza apre molte porte, quindi tutti la coltivano gelosamente. Per un maschio questa è un’arma a doppio taglio, perché attirare le attenzioni femminili non è sempre saggio, ma per una femmina drow la bellezza vuol dire molto. Il loro sesso è al comando e non corrono mai pericoli a causa della loro avvenenza, è soltanto oggetto di ammirazione e di stima. Per questa ragione sono cresciuto associando la bellezza al pericolo, era inevitabile. Per quanto una drow potesse essere conturbante, splendida al punto di non voler mai più distogliere lo sguardo, quella stessa donna poteva usarti e poi strapparti il cuore solo per gioco. Per questo, se tu fossi quel tipo di bellezza fatale, non sarei mai riuscito a dormirti accanto. Non sarei nemmeno riuscito a bere in tua compagnia.” Cercò di spiegare, incerto di stare riuscendo a farle capire il punto. “Razionalmente so che sei un’elfa dei boschi e non una drow, e che anche la più bella delle elfe non sarebbe mai così crudele, ma non posso farci niente: la bellezza è una cosa pericolosa e insidiosa, che fa perdere la testa. Tu invece sei… adorabile. Sei carina, che non è una cosa che si limita all’aspetto fisico. Significa che sei di bell’aspetto, eppure in te c’è qualcosa di accessibile, qualcosa che non mi fa sentire in pericolo o in difetto. Il tuo fascino è innocuo, e anche la tua personalità. Sei qualcuno a cui si può voler bene.”
Amaryll non aveva mai pensato che carina fosse meglio di bella. Gli elfi flirtavano con lei, scherzavano e a volte si arrivava a qualcosa di concreto, ma poi inseguivano sempre le donne belle. Lei si sentiva spesso come l’amica della porta accanto, per tutti.
“Non immaginavo che fossi capace di un discorso così tenero.” Ammise lei, un po’ lusingata. Era strano sentirsi dire “sei qualcuno a cui si può voler bene”, fra gli elfi era normale che tutti si volessero bene a vicenda, ma evidentemente per Daren non lo era.
“Tu sei una locandiera. Ascolti i segreti di tutti e li custodisci. Sono certo che saprai mantenere anche il mio, quindi non raccontare in giro questa cosa. Tanto negherei tutto.”
“Perché?” Amaryll poggiò la sua coppa vuota sul comodino, poi si sistemò seduta contro la testiera del letto. “Perché tieni a distanza le persone, visto che hai dei sentimenti?”
Il drow sorrise e scrollò le spalle. “Riesco a dirti queste cose perché siamo solo io e te. Devo conoscere una persona per anni prima di fidarmi. Non è una spiegazione sufficiente? Come potrei gestire l’amicizia ingombrante di decine di elfi? La sola idea mi fa sentire spossato, potrei mandare tutti al diavolo nel giro di due minuti.”
Amaryll ridacchiò e si sporse verso di lui. Le loro labbra si incontrarono di nuovo, e lui non si tirò indietro.
“Chi è carino adesso?” Lo punzecchiò la giovane. Per anni era stata tenuta a distanza da quel suo atteggiamento, ma ora che sentiva di far parte della sua ristretta cerchia di amici, la cosa le piaceva.
Il drow si guardò intorno con gesti enfatizzati. “Non vedo nessuno” scherzò.
Lei poggiò entrambe le mani sulle sue spalle ancora nude e fece scorrere le dita sulla pelle nera delle sue braccia. “Sono contenta che tu non sia andato via mentre dormivo.”
Lui strinse le labbra per non sorridere, sarebbe stato irrispettoso divertirsi per le insicurezze di qualcun altro. Però non poteva fare a meno di trovarla carina.
“Sono contento che tu non mi abbia ucciso mentre dormivo. È la prima cosa che noto in una donna.”
“E mi merito un premio?” propose lei, baciandolo di nuovo.
“No” sussurrò lui, sorridendo contro le sue labbra. “Tu sei quello che sei, chiedere un premio sarebbe barare, piccola imbrogliona. Ma mi piacerebbe molto darti quello che vuoi.”

Due ore dopo Amaryll e Daren si stavano concedendo un bagno rilassante nella grande vasca di legno nel retro della locanda. Era una zona riservata solo a chi si fermava a dormire, e solo su prenotazione. Quel giorno però non c’era nessuno, perché tutti si sarebbero svegliati intorno a mezzogiorno o perfino più tardi.
I due amanti si stavano baciando, ma niente di più, perché erano stanchi e l’acqua calda li faceva sentire più pigri del solito. Però si stavano godendo quel momento e la reciproca compagnia.
“Domani partirai? Andrai di nuovo in pattuglia?” Domandò lei.
“Sì, ma potrei chiedere una licenza fra due settimane. Se… se avrai voglia di rivedermi.”
“Stai scherzando?” Amaryll batté una mano nell’acqua sollevando uno spruzzo verso di lui. “Ovvio che voglio rivederti, voglio rifare tutto quello che abbiamo fatto oggi almeno due volte, e soprattutto voglio rivederti!”
“Lo hai già detto.”
“Voglio dire che mi sei simpatico e mi piace averti intorno” chiarì lei. “Non solo come amante occasionale, anche come amico.”
Daren sorrise fra sé, poi le posò un bacio leggero sulla testa. “Come desideri, amica. Mi piacerebbe continuare a darti quello che vuoi” recitò in tono formale, ripetendo le parole di quella mattina.
Amaryll si accarezzò i capelli nel punto in cui lui l’aveva baciata.
“E quello cos’era?”
“Quello cosa?”
“Mi hai appena dato un bacetto sulla testa?”
“Ma che sciocchezza.”
“Lo hai fatto!”
“Hai una fervida immaginazione” negò lui, ma con evidente divertimento.
“Oh, allora ho una fervida immaginazione” si arrese lei, sapendo che il drow avrebbe negato fino alla morte. Non importava. Le bastava che lo rifacesse.
Poco dopo qualcuno bussò discretamente alla porta.
“Mamma? Sei lì? C’è una bambina che cerca suo padre e che dice di avere fame” la voce di Navar filtrò da dietro il sottile strato di legno.
Daren era fortunato ad avere la pelle nera, altrimenti sarebbe arrossito. “Oh, vith, Jaylah. Sono uno zio di merda!” mormorò, passandosi una mano davanti al viso.
“Sei capace di preparare una colazione decente, Navar!” Gridò Amaryll in direzione della porta. “Per favore occupati di lei per una decina di minuti.”
“D’accordo, mamma. Faccio i pancakes!” Fu la risposta entusiasta.
Amaryll gemette, ma poi sollevò le spalle. Navar in teoria non aveva il permesso di mangiare i fantastici pancakes di farina di nocciole che lei gli aveva insegnato a fare, perché era ancora in punizione per quella volta che aveva portato un asino sul tetto della locanda, gli dèi sanno come. Però adesso aveva colto al volo quest’occasione: si stava occupando di una bambina, doveva prepararle qualcosa di buono e questo gli dava la scusa per mangiarne un po’ anche lui. Dopotutto sua madre aveva appena preteso un favore, e questo cancellava la punizione riportandoli su un piano di parità. Lei non protestò. Con un figlio quasi adulto, la vita era un delicato equilibrio di dare e avere.

Verso mezzogiorno lady Hinistel si presentò alla Casa degli Scapoli per riprendersi la nipotina. Con lei c'era anche suo marito, il burbero Tazandil.
Jaylah si stava baloccando con due ciotole di legno e due cucchiai, suonandole come tamburi. Non era un suono che si sentisse spesso in una città di elfi, il popolo dei boschi non amava molto le percussioni perché erano strumenti tipici degli orchi, ma Jaylah era cresciuta in mezzo agli umani e quel gioco per lei era normale.
“Nostra nipote viene su come una selvaggia” fu il commento freddo del vecchio ranger.
“Nonna!” La piccola mollò tutto e corse dalla veggente, tendendo le braccia verso di lei. Hinistel fece per chinarsi per sollevarla, ma Tazandil glielo impedì. Non era così folle da provare a dare ordini a sua moglie, quindi intercettò la bambina e la prese in braccio lui stesso.
Jaylah lo guardò come se il mondo si fosse appena rovesciato.
“Tua nonna ha un bambino che le cresce nella pancia, non può fare sforzi e prenderti in braccio” si giustificò.
Si aspettava di dover dare più spiegazioni, ma Jaylah era figlia di una strega e sorella di una guaritrice: perfino nella sua limitata esperienza del mondo aveva già visto delle donne incinte.
“La nonna è in attesa” recitò, come se fosse qualcosa che aveva imparato a memoria. “Tisana di zezero per la nasoa, milissa per fare la nanna”.
I due elfi la fissarono con espressioni identiche, così scioccate da essere comiche.
“E poi no’mmi ricordo” si scusò la piccola, stringendosi nelle spalle “nonna, devi chiedere alla mia mamma.”
“Oh, tesoro” Hinistel prese una delle piccole mani di Jaylah e le diede un bacio. “Sei la nipotina migliore del mondo.”
Jaylah però stava già pensando avanti.
“Il nuovo bambino è di nonna e nonno” ragionò, tutta concentrata “quindi anche lui sarà mio papà?”
Questa volta perfino Tazandil si lasciò scappare una mezza risata.
“No, sarà il fratello di tuo papà.” Spiegò con pazienza la veggente. “Quindi sarà tuo zio, come Daren che è il fratello di tua madre.”
Jaylah seguì lo sguardo di Hinistel e posò gli occhi sul drow ancora seduto al tavolo dove lei aveva abbandonato i suoi giocattoli.
“Zio, vado dai nonni” gli annunciò, agitando una manina. Non aspettò risposta, si fece calare a terra e prese l'elfa per mano, trascinandola fuori dal pub.
Prima di seguirle, Tazandil si avvicinò al drow con la sua solita andatura autoritaria.
“Ti sei divertito?” In bocca a chiunque altro sarebbe stata una domanda gentile, ma Daren la recepì come un interrogatorio.
Si limitò ad un cenno d'assenso.
“Eppure so che a un certo punto hai lasciato la festa” inquisí il vecchio elfo.
“Ho incontrato Johel” raccontò “ed era così ubriaco da non riconoscermi nemmeno. Il mio migliore amico! Quindi ho pensato, e se altri avessero fatto la stessa cosa? La maggior parte degli elfi della foresta mi conosce di vista, o per sentito dire, se avessero tutti bevuto così tanto da non ricordarsi di me? Sarei stato solo un drow in una città di elfi, una minaccia, un'ombra sui festeggiamenti, per non dire che anch'io sarei stato in pericolo se non avessi mantenuto una certa lucidità.” Ebbe almeno la soddisfazione di vedere Tazandil che impallidiva sempre più davanti a questo ragionamento. “Quindi sì, ho lasciato la festa e sono venuto qui. Ma Amaryll è una fantastica compagna di bevute quindi ci siamo divertiti comunque.”
“Lord Fisdril e io… non avevamo pensato a questo risvolto. Ti devo le mie scuse.”
Una simile ammissione da parte di Tazandil poteva capitare una volta ogni mille anni, e Daren rimase molto colpito. Non era la prima volta che pensava che, per quanto il vecchio elfo fosse antipatico e autoritario, era anche molto onesto e capace di buonsenso.
“Non eravate del tutto in torto, ho imparato molto da questa esperienza e quindi vi devo ringraziare” il drow decise di rispondere con altrettanta sincerità. “Estendi i miei ringraziamenti a lord Fisdril, per favore. Non so se avrò modo di vederlo prima di tornare ai doveri di pattuglia.”
Tazandil annuì e gli voltò le spalle, ma Daren si accorse che ora il suo passo sembrava più leggero. Per la prima volta si rese conto che il rigido capo dei ranger si era preoccupato che lui s'integrasse fra i civili, non solo fra gli altri guerrieri che proteggevano la foresta, e questo lo fece sentire quasi come se fosse stato adottato da quella gente. Era una sensazione strana, ma non del tutto spiacevole.

           

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Capitolo 4
*** 1361 DR: Meglio giocare con la morte che mettersi in gioco nella vita ***


1361 DR: Meglio giocare con la morte che mettersi in gioco nella vita


Lady Aphedriel era abbastanza felice nella foresta di Sarenestar, eppure sentiva che le mancava qualcosa. Era una maga dalla mente acuta e dai profondi interessi, e ciò di cui sentiva maggiormente la mancanza era il confronto con qualcuno suo pari.
La sua dolce metà, lady Freya, era benedetta da poteri magici innati e non aveva dovuto studiare per quel privilegio. Poteva permettersi di fare cose come scalare alberi e allenarsi nel tiro con l’arco mentre Aphedriel dedicava lunghe mattinate a spulciare libri. La maga amava moltissimo la sua thiramin, la scintilla fra loro era scattata al primo sguardo, ma talvolta si sentiva così sola. Non aveva legato molto con gli altri elfi di Myth Dyraalis, i suoi nuovi suoceri erano gentili con lei ma sotto sotto rimpiangevano di non poter avere un nipotino.
Aphedriel non era del tutto convinta che non si potesse rimediare alla cosa. C’erano sicuramente incantesimi che si potevano usare per lo scopo, ma la verità era che al momento lei non era abbastanza potente per approcciarli, né si sentiva pronta ad un simile passo.
Forse dovrei prendermi una pausa. Non è strano che una coppia di thiramin resti separata anche per molti anni, mentre gli sposi fanno esperienza del mondo, solo per essere ancora più felici quando tornano insieme. Ma non credo che Freya sarebbe d’accordo. È così impulsiva e passionale, non avrebbe la pazienza per una lunga separazione e non sarebbe capace di apprezzare il piacere di un piacere a lungo rimandato. No, è troppo giovane.
Però devo trovare qualcosa con cui intrattenermi, o appassirò in questo posto.

Aphedriel sospirò e si alzò dalla scrivania, ben decisa a uscire di casa, una volta tanto. Era ancora ospite di lord Fisdril e lady Merildil, i genitori di Freya, mentre una squadra di abili artigiani costruiva la casa che un giorno lei e sua moglie avrebbero abitato. Il progetto era ambizioso e prevedeva che buona parte della struttura fosse dedicata allo studio e alla pratica dell’Arte, quindi doveva anche essere un edificio capace di resistere a un certo stress, sia fisico che energetico. Avevano scelto di edificare la loro casa sui rami di un albero di calan, una pianta comune nelle foreste del Faerûn meridionale e apprezzata per la sua resistenza e per la sua natura magicamente neutra.
In ogni parte del mondo gli artigiani e i maghi utilizzavano il legno come materiale per bacchette, e avevano sempre cura di scegliere le piante a seconda del tipo di magia che volevano enfatizzare; il calan era privo di qualsiasi inflessione quindi era meno probabile che interferisse con gli incantesimi delle due elfe, o che si impregnasse involontariamente di energia magica.
Il problema era che il calan era un albero basso, raggiungeva a stento i tre metri e mezzo di altezza, quindi l’intero circolo druidico di Sarenestar aveva studiato un rituale per ingrandire la pianta prescelta in modo permanente. La vera sfida era stata farlo senza lasciare tracce di contaminazione magica.
Aphedriel apprezzava molto che lady Merildil si fosse presa a cuore il progetto, era la più importante druida della foresta e tutti gli altri l’avevano assecondata. Questo aveva anche permesso alla maga di stringere un po’ di conoscenze.
Elfi druidi, gnomi maghi. Questo è ciò che la foresta può offrire. Pensò con un certo rammarico. Prima di incontrare Freya stava conducendo delle ricerche per conto del suo Maestro, un anziano elfo del sole che le aveva promesso di iniziarla ai segreti dell’Alta Magia Elfica. Ogni tanto Aphedriel pensava alle possibilità perdute e sospirava con malinconia, ma non rimpiangeva la sua scelta di vita. Quando un elfo incontra la sua anima gemella, deve reclamare quel legame o perderlo per sempre. Vivere con il cuore spezzato non è vita, solo sopravvivenza, e la saggia ragazza sapeva che tutta la magia del mondo non avrebbe potuto colmare quel vuoto.
Raccolse un paio dei suoi libri di studio più resistenti e li cacciò nello zaino. Sarebbe uscita di casa, magari perfino per parlare con la gente, o quantomeno avrebbe studiato all’aperto. I cittadini di Myth Dyraalis non avevano ancora familiarizzato con lei, forse vederla in giro più spesso avrebbe aiutato.

Ai piedi dell’albero che sorreggeva la casa di lord Fisdril, un inaspettato visitatore le rivolse un cenno di saluto. Era il drow, quello che aveva brevemente incontrato durante la festa di Mezzestate, ormai un mese e mezzo prima. Da allora non si erano più visti, ma la maga sapeva che lui era quasi sempre lontano dalla città insieme alle pattuglie dei ranger.
“Buongiorno” lo salutò, con gentilezza ma senza molta confidenza. Si era comportata in modo frivolo con lui in passato, soprattutto per colpa del vino elfico, e ora quel ricordo la imbarazzava. “Se siete qui per parlare con lord Fisdril, al momento non è in casa.”
“A dire il vero, lady Aphedriel, speravo di parlare con voi.”
Il tono del drow era sospettosamente neutro e la maga entrò in tensione senza volerlo; forse il guerriero aveva intenzione di vendicarsi per quello che era successo l’ultima volta? Aveva scoperto che lei e Freya si erano divertite alle sue spalle?
“Potreste invitarmi a entrare?” insistette lui. “Preferirei che la nostra conversazione restasse privata.”
Aphedriel ora cominciava a sentirsi a disagio, e forse lui se ne accorse.
“Mi rendo conto che non c’è familiarità fra noi e che la mia richiesta vi può sembrare strana, ma ho trovato un oggetto particolare che penso possa servire a qualcuno esperto di arti magiche; ho preferito venire da voi prima di disturbare Mastro Wilhik, perché… lo gnomo non mi giudica molto simpatico e purtroppo la cosa è reciproca.”
Bene, questo poneva l’intera faccenda sotto una luce del tutto diversa. La curiosità professionale dell’elfa cominciò subito a pungolare la sua prudenza.
“Io… vi domando scusa per la mia reticenza. So che siete un Amico degli Elfi, di comprovata lealtà. Avevo solo paura che mi riteneste una persona frivola, e che questo incontro fosse un intricato inganno per mostrarmi il vostro disprezzo.”
“Santo cielo, sono circondato da donne dalla scarsa autostima” sospirò il drow. Aphedriel non colse del tutto il significato di quel commento, ma decise di non lasciarsi influenzare e di non dargli la soddisfazione di provare fastidio.
“Molto bene, allora. Vi invito a entrare, parleremo davanti a una tazza di infuso.”
Daren sapeva che la cucina era spesso la stanza più vicina al suolo, secondo il gusto architettonico di Myth Dyraalis. Ospitare qualcuno in cucina era come fargli tenere un piede fuori dalla porta, ma per i suoi scopi andava bene anche così.

Aphedriel scaldò una teiera piena d’acqua con un semplice incantesimo, perché non aveva voglia di prolungare quell’incontro più a lungo del necessario. Quando l’acqua cominciò a bollire, vi mise una manciata di fiori di camomilla e foglie di fragola, poi versò tutto in due coppe e ne porse una al suo strano ospite.
Il silenzio nella stanza la stava mettendo sempre più a disagio.
“Grazie, lady Aphedriel” disse infine lui. “Ma vi prego di spostare la vostra coppa un po’ più in là, mi serve spazio sul tavolo per mostrarvi il mio ritrovamento.”
Sollevata che la storia dell’oggetto magico fosse vera e non una scusa per farsi invitare in casa, la maga spostò la sua coppa. Daren aprì lo zaino che aveva poggiato per terra e ne estrasse una pianta completamente nera, che evidentemente era stata estirpata con radici e tutto, perché la parte bassa era avvolta in un sacchetto di tela che conteneva anche della terra.
All’inizio lei non capì esattamente cosa fosse. Aphedriel si considerava abbastanza ferrata sull’uso delle erbe e del legno in magia, ma non ricordava di aver mai studiato di una pianta come quella: era una specie di arbusto alto circa mezzo metro, con il tronco del diametro di una monetina, molte ramificazioni e foglie grandi come una mano. Le foglie nella parte alta della pianta erano così sottili da apparire quasi trasparenti, le venature risaltavano come un ricamo su carta di riso. Sui rami inferiori le foglie diventavano sempre più opache e verso il fondo della pianta erano completamente nere.
Alla fine la maga riconobbe quello che stava vedendo, grazie al colore caratteristico e alla forma tonda delle foglie, e rimase raggelata sul posto. La coppa le cadde di mano, rovesciandosi malamente sul tavolo.
“Per tutti i Seldarine” sussurrò. “È un… quello è un…
“Non so come si chiama in elfico” ammise lui. “I drow la chiamano Rinovdr’olva, che vuol dire pianta immortale.”
“Noi la chiamiamo fiore della morte” rispose lei, per colmare quella lacuna.
“Ma non è un fiore” Daren corrugò la fronte.
“Diamine, sì!” Aphedriel si alzò di scatto, abbandonando la sua naturale compostezza. “Di solito è una cosetta alta quanto un trifoglio, con minuscoli rami e foglioline tonde come petali. Cioè, no, non è un fiore, ma lo sembra. Non ho mai visto un esemplare più alto di una spanna, e anche quello era custodito gelosamente nella torre del mio Maestro. Dove diamine hai trovato questa… questa mostruosità?
Daren si appoggiò alla sedia, considerando con soddisfazione che lei aveva iniziato a dargli del tu.
“In un luogo mostruoso. Questa povera piccolina non è una pianta cattiva. È una pianta innocua. Così innocua che quando si trova accanto ad altre piante non può sopravvivere, non ha i mezzi per competere, qualsiasi altra forma di vegetazione le ruba spazio, luce, nutrimento. Per questo riesce a prosperare solo dove non c’è nient’altro di vivo. Poca luce, tutta assorbita grazie al suo colore nero, poca acqua, poco nutrimento. Ma soprattutto, questa pianta prospera perfino dove c’è concentrazione di energia negativa. È lì che l’ho trovata, nel suo habitat perfetto. In una caverna nascosta fra le Montagne del Cammino, molto vicina alla Superficie, dove una frattura lascia passare un po’ di luce del sole. Un luogo che millenni fa è stato teatro di una sanguinosa battaglia e dove il popolo dei nani di Ultoksamrin è caduto. Quel luogo di morte è ancora infestato dagli spettri dei nani, incapaci di trovare la pace. C’è tutto un angolo della grotta letteralmente invaso da queste piante, io ho preso una delle più piccole perché non avevo molto tempo, quegli spettri volevano farmi la pelle.”
Aphedriel rimase in silenzio attonito per un interminabile minuto, e quando parlò di nuovo la sua voce era incerta. “Non l’hai trovata. Sapevi benissimo cosa stavi cercando.”
“Vero. Un’innocua bugia, per convincerti a parlarmi.” L’elfo scuro si strinse nelle spalle.
“Questa pianta è una delle più incredibili componenti magiche per la magia di protezione e di guarigione. Una cosa che, letteralmente, nasce dalla morte.” Ricapitolò, esterrefatta. “E serve anche per la magia di necromanzia, visto che è una pianta refrattaria alla vita.”
“Non è colpa sua, le altre piante la bullizzavano” scherzò il drow. “Io la trovo bellissima e capisco come debba sentirsi. Poter esistere solo nel nulla, ma saperlo fare molto bene.”
“Non si sente in nessun modo, è solo una pianta!” Sbottò Aphedriel.
“Per essere un’elfa non hai un animo poetico.”
“Va bene, basta tergiversare. Qual è il tuo prezzo?”
Daren la gratificò con un sorriso semi-sincero. “C'è una ragazza in città, si chiama Amaryll.”
Aphedriel entrò immediatamente in tensione.
“Nemmeno per un bastone creato da Elminster in persona costringerei qualcuno a provare interesse per qualcun altro!”
Il drow sbatté le palpebre un paio di volte, incredulo che lei fosse saltata subito a una conclusione così squallida.
“Fammi capire bene, secondo te sarei andato a giocare a nascondino con un esercito di spettri solo per poter entrare nel letto di un'elfa? Che razza di considerazione hai del tuo sesso, o di me, per quello che vale? Pensi che sia completamente idiota?” La domanda era retorica, ma la voce era sinceramente perplessa. Anche un po’ indignata, ma soprattutto perplessa.
La maga boccheggiò in silenzio, realizzando mentalmente che era vero, sarebbe stato un motivo proprio stupido per correre un simile rischio.
“Io e Amaryll siamo già amanti.” Le chiarí Daren.
Aphedriel non se l'aspettava, ma questo le permise di farsi un'idea su quello che sarebbe potuto venire dopo.
“Vuoi che usi la mia magia per lei? O che la prenda come apprendista?” Solo un anno prima, quel pensiero sarebbe stato odioso. Però adesso la maga si scoprì a considerare sul serio l'idea. Addestrare un'altra persona alle arti arcane avrebbe voluto dire, un giorno, poter avere qualcuno con cui intrattenere una conversazione decente.
“Ti chiedo di fare qualcosa per lei, ma non con la magia. Amaryll a quanto pare prova molta stima nei tuoi confronti, anche se non ha avuto occasione di conoscerti personalmente. Agli occhi dei cittadini di Myth Dyraalis sei una dama esotica circondata da un alone di mistero, provieni da una razza elfica più civilizzata, hai una maggiore esperienza del mondo. Questo tende a fare presa sulle menti delle persone comuni. Amaryll gestisce un pub, ogni giorno sente i discorsi di mezza città, quindi ha sentito molto parlare di te. Si è fatta l'idea che tu sia una signora raffinata e molto intelligente, qualcuno di tutt'altro livello, per così dire. Quella ragazza ha sempre avuto la tendenza a sottovalutare i propri meriti, ingigantendo quelli degli altri. Vorrei che tu andassi alla Casa degli Scapoli, con una scusa qualsiasi. Magari, visto che sei qui da mesi, potresti inventare che vuoi approfondire la conoscenza con il popolo di tua moglie.”
Aphedriel arrossì, per la vergogna ma anche per la rabbia. Lei stessa si rendeva conto di essere stata un po' troppo negligente, abbastanza da sembrare snob, ma aveva sempre qualche problema a legare con le persone normali... quelle che non riuscivano a stare dietro ai suoi ragionamenti scattanti, e che non avevano interessi in comune con lei. Daren evidentemente si accorse della gaffe.
“Ti prego di non andare in collera perché non ti sto giudicando, io ho aspettato decenni prima di dare una chance al popolo del mio migliore amico. Certo, all'inizio non mi volevano qui perché sono un drow, ma quella per me è stata una pacifica scusa per non dover ammettere che non desideravo conoscerli tutti. Sono l'ultima persona che può permettersi di giudicare una come te.”
Una come me?” Sibilò la maga, per nulla placata dalle rassicurazioni dell'elfo scuro.
“Una persona timida.”
Timida? Ad Aphedriel scappò quasi da ridere. Nessuno l'aveva mai definita timida.
“Ma sono qui per affari, quindi ti chiedo di andare nel pub dove lavora Amaryll e di essere gentile con lei. Non devi per forza essere amichevole, basta che tu le dimostri benevolenza. La gente parlerà di questa cosa e lei, forse, ritroverà un po' di fiducia in se stessa. Poi chissà, potresti scoprire che dopotutto ne vale la pena. Amaryll non è una donna ricca né dotata di poteri magici, non è straordinaria, ma è piacevole e conosce tutti in città. È stata capace di mettere a suo agio perfino uno come me, potrebbe aiutarti ad integrarti se è quello che desideri.”
Aphedriel attese che lui continuasse, ma dopo alcuni secondi fu chiaro che il guerriero aveva detto tutto.
“Quindi tu… stai dicendo che mi darai una pianta dal potenziale magico incalcolabile, in cambio del fatto che io tenti di fare amicizia con la tua ragazza?”
“Amaryll non è la mia ragazza.”
“Ah, capisco. Vuoi che lo diventi, è il tuo modo per fare colpo su di lei. Le dimostri che sei un guerriero in gamba che può provvedere a lei e nello stesso tempo le procuri un po' di prestigio sociale tramite un'amicizia con me. Dovrei essere lieta di venire usata per questo, solo perché sono una curiosa novità?”
“No, che diamine” Daren mise le mani avanti “se Amaryll sapesse che le rivolgi la parola perché io ti ho pagata per farlo, si sentirebbe umiliata. Non puoi essere così ingenua, pensa a quanto sarebbe degradante!”
“Oh…” l'elfa abbassò lo sguardo, sentendosi molto stupida. Era una sensazione strana, per lei. “Non ci avevo pensato. Ma quindi, se non puoi dirle che mi mandi tu, cosa ci guadagni? Non saprà mai di essere in debito con te.”
Non è in debito con me. Non sto cercando di manipolarla. Voglio vederla felice. Lei mi rende felice.”
Aphedriel all'inizio non capì, poi un sorriso saputo si fece largo sulle sue labbra. “Capisco. Devi essere proprio innamorato.”
Daren buttò giù un lungo sorso del suo infuso, ormai tiepido.
“Voi elfi e il vostro amore” borbottò. “Non credo che tu possa capire. Io non sono innamorato di lei. Le voglio bene, Amaryll mi piace, ma non è amore.”
La maga non rispose a parole, ma dalla sua espressione sembrava sinceramente incapace di afferrare il concetto. Non che lui si aspettasse qualcosa di diverso. Sospirò e decise di provare con un altro approccio.
“Non vado a dormire pensando a lei e non mi sveglio pensando a lei. Non brucio di frustrazione al pensiero di non passare ogni momento insieme. Non pianifico di passare il resto della mia vita con Amaryll. È una ragazza a cui voglio bene e voglio che sia felice. Fine della storia.”
“Ma… una grotta piena di spettri” sussurrò l'elfa della luna.
Daren la fissò senza capire l'obiezione.
Aphedriel agitò convulsamente le mani, copiando inconsciamente un gesto tipico del suo maestro.
“Non avresti potuto semplicemente venire qui, spiegarmi la situazione e chiedere un favore?”
Nessun miglioramento nello sguardo del drow.
“Stai suggerendo che avrei dovuto recarmi in visita presso una maga con cui non ho confidenza, per chiedere un favore senza avere nulla da dare in cambio?” Ricapitolò. “Sembra proprio un'idea tremenda.”
L'elfa della luna abbassò gli occhi.
“Sono così aliena e inaccessibile ai tuoi occhi? Agli occhi di tutti? Tanto che non osi chiedermi un semplice favore?”
Nessuna risposta. La maga lo interpretò come un . Forse cominciare a socializzare era più urgente di quanto pensasse.
“Oh, andiamo! Sono una maga, sono straniera, ma ho deciso di far parte di questo luogo. Che cosa avrei mai potuto chiederti che fosse peggio del pericolo che hai corso di tua spontanea volontà?”
“Be’...” L'elfo scuro appariva a disagio. “Quando ci siamo conosciuti alla festa di Mezzestate, tu e lady Freya sembravate avere un'idea precisa.”
“Oh cielo” le guance pallide si tinsero di rosa acceso “no, noi... volevamo solo farci una risata, metterti in imbarazzo. Non era nostra intenzione andare fino in fondo, io e Freya siamo felici l'una con l'altra, nel nostro piccolo sistema chiuso.”
Daren pensò fra sé e sé che solo una maga avrebbe potuto definire una relazione monogama sistema chiuso; era evidente che Aphedriel non era abituata ad aggiustare il suo registro linguistico a seconda della persona che aveva davanti. Poteva solo sperare che questo non creasse problemi ad Amaryll.
“Però è offensivo che tu preferisca rischiare una morte orrenda piuttosto che assecondare il capriccio di due signore. Com'è possibile che siamo così ributtanti ai tuoi occhi?”
“Siete entrambe molto belle” la corresse Daren, con un nodo in gola. Dover gestire una femmina offesa era qualcosa che gli stava già facendo rimpiangere gli spettri dei nani. “Non è quello il problema, qualunque elfo sarebbe fortunato a catturare la vostra curiosità. Però ci sono cose che possono essere fatte solo in modo disinteressato, non in cambio di favori. Da dove vengo io, una persona che vende il proprio corpo lo fa solo perché non ha nessun'altra competenza da offrire. Io sono un guerriero. Voglio essere trattato come tale.”
Evitò di dire alla maga che già una sola amante poteva metterlo a disagio, figurarsi due. Non avrebbe saputo a chi dare retta, vivendo nell'ansia di sbagliare. Soprattutto se erano donne di rango così alto.
Aphedriel annuì prima ancora che lui finisse di parlare, chiedendosi se fosse lui a prendersi troppo sul serio, oppure lei ad aver trattato con troppa leggerezza il legittimo amor proprio di un maschio. Ovvio che non tutti erano disposti a barattare favori con quel tipo di performance, ma lei non l'avrebbe vista come un'operazione commerciale, solo come un amichevole accordo. Lui forse la pensava così perché era drow? O era lei a pretendere troppa familiarità da uno sconosciuto?
“Freya dice che sei…” timido e impacciato, terminò mentalmente, ma invece disse “immune al suo fascino femminile. Non ti avrei chiesto quel tipo di ricompensa. Così come la tua Amaryll si offenderebbe se sapesse che mi hai pagata per andare a parlarle, allo stesso modo Freya si sentirebbe umiliata se un maschio accettasse la sua seduzione solo per baratto, senza nemmeno un po’ di reale interesse”. In realtà lei per prima non ne era così sicura, ma lasciarglielo credere magari gli avrebbe fatto un po’ rivalutare la serietà della figlia del capoclan.
“Freya è una giovane affascinante, consapevole di esserlo. Molto tempo fa si era incaponita sull'idea di conquistare le mie attenzioni, ma l'aveva fatto solo a causa dell'adolescenza. Io ero esotico, misterioso, e la cosa avrebbe mandato ai matti i suoi genitori. Tre grandi tentazioni per un'adolescente. Non è mai stata seria nei suoi propositi e io non potevo dare corda a una ragazzina. Sono lieto che ora abbia trovato la felicità e… forse un maggiore equilibrio.”
Aphedriel non aveva mai sentito nessuno parlare in quel modo di Freya, gli elfi del clan Arnavel non avrebbero mai espresso un giudizio così impietoso e paternalista sulla figlia del loro capo. Però quel racconto le sollevò lo spirito, prima di tutto perché le confermò che non aveva motivo di essere gelosa, e poi perché la divertiva che un drow fosse così brutalmente schietto.
“Parlerò con Amaryll, e lo farò volentieri.” Promise. “Ma rispondi a un'ultima domanda, perché non mi piace essere usata in questo modo. Stai mentendo ad Amaryll perché ai tuoi occhi questo è come organizzare una festa a sorpresa, oppure perché non vuoi che sappia che la ami?”
“Io non la amo” ripeté lui, con aria spossata, “ma lo vedi come ragionate voi elfe? Si convincerebbe del contrario, proprio come te adesso.”
“I grandi gesti di solito indicano amore.”
“Non c'è stato nessun grande gesto!” Sbottò il drow. “Ero in una zona che avrei dovuto controllare comunque, ho solo fatto una deviazione per recuperare un materiale magico che può essere messo a frutto per il bene di tutti; forse non capisci che se continuerai a vivere a Myth Dyraalis avrai presto delle responsabilità. Sei una maga, ci si aspetterà che partecipi alla protezione di questo luogo. Qualsiasi cosa che sia d'aiuto per i tuoi studi serve anche alla città, e quindi serve anche ad Amaryll e a suo figlio e a tutti i cittadini comuni. Se pensi ai benefici su ampia scala, non è stato un grande gesto. Non è come se fossi andato a recuperare un gioiello per blandire la sua vanità femminile.”
Aphedriel ricompensò il suo sfogo accettando quella spiegazione.
“Va bene. Grazie per avermi detto la verità.” Frugò in una credenza per recuperare un vaso vuoto e ci mise dentro la pianta, con delicatezza. “Andrò a parlarle oggi pomeriggio. Per quanto ne saprà lei, questa conversazione non ha mai avuto luogo.”
Il drow recuperò il suo zaino, piegò il busto in un mezzo inchino e lasciò la casa, facendo attenzione a non essere visto dai passanti. Aphedriel lo guardò andare via, pensando che tutto sommato quella conversazione era avvenuta, almeno per lei. Era contenta di aver rotto il ghiaccio con una persona in più, forse una persona con cui avrebbe potuto scambiare due chiacchiere, ogni tanto. Era invadente e anche un po’ saccente, ma aveva un punto di vista diverso dal solito, che non si lasciava sopraffare dalle emozioni. Questa era una cosa che lei, come maga, sapeva apprezzare.

           

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Capitolo 5
*** 1361 DR: Teatime ***


1361 DR: Teatime


Daren si presentò alla Casa degli Scapoli il giorno dopo, fingendo di essere appena arrivato in città. Il mattino era sempre il momento più tranquillo della giornata, c'erano pochi clienti nel pub. Era anche il momento della giornata in cui Amaryll aveva del tempo libero. Il suo turno era sempre pomeridiano e serale, ma era facile trovarla al pub anche di mattina perché viveva lì. Se non era sul posto, quantomeno i suoi colleghi gnomi avrebbero saputo indicargli dove fosse.
Lei però era al pub, e nella situazione più strana che Daren potesse immaginare. Aveva requisito il più grande tavolo tondo del locale, abbastanza ampio per ospitare sei o sette avventori, e l'aveva riempito di teiere, tazzine, biscotti e torte. C'erano altre quattro elfe con lei e a quanto pare stavano facendo una colazione degna della più graziosa sala da tè di… di una città elfica più grande e più raffinata di Myth Dyraalis, di sicuro.
La cosa doveva essere in onore di lady Aphedriel, che stava calamitando l'attenzione di tutte, al tavolo. La maga sembrava a suo agio e stava conversando sottovoce con le altre ragazze. Alla sua sinistra era seduta lady Freya, che le stringeva una mano sotto al tavolo. Accanto a lei c'era Amaryll. Alla destra di Aphedriel sedeva una vecchia conoscenza di Daren, l'arciera Pilindiel, e fra lei e Amaryll c'era una ragazza che somigliava a Pilindiel come un clone riuscito male.
Amaryll lo vide entrare e gli fece un cenno di saluto. Daren rispose con un sorriso incerto e si avvicinò al tavolo affollato.
“Buongiorno, signore. Amyl, non immaginavo che avessi ospiti.”
“Oh, Daren, sapessi che novità! Lady Aphedriel ieri sera è entrata nel pub. Riesci a crederci? In un comunissimo pub! Ha detto che stava cercando di vincere la sua naturale timidezza ma il luogo era così affollato che sarebbe stato come lanciarsi in un lago ghiacciato per superare la paura del freddo, quindi le ho consigliato di tornare stamattina perché ci sarebbe stata meno gente. Abbiamo deciso di organizzare una colazione con solo poche amiche in modo da cominciare a farle conoscere qualcuno, un po’ per volta. In città sono tutti curiosi di conoscerla, ma è meglio iniziare da persone fidate e discrete, non credi?”
Amaryll era così emozionata che aveva parlato tutto d'un fiato e si era anche riferita a lady Aphedriel come se non fosse presente, ma la maga non sembrava esserne risentita. Anzi, sorrideva come se la palese venerazione della ragazza le facesse piacere.
“Uh… sì? Mi sembra una buona idea.”
“Non sembri molto entusiasta” il sorriso di Amyl vacillò, sentendo che il suo slancio non era corrisposto.
“No, no, sono molto contento che tu sia contenta. Io non ci capisco molto di queste cose, quindi non so bene cosa dire.”
Lady Aphedriel fu abbastanza accorta da non sorridere apertamente, ma incrociò lo sguardo di Daren e lui capì che era molto divertita dalle sue menzogne. Il drow stava indossando i panni del guerriero non interessato ai rapporti sociali fra donne, anche a rischio di esasperare la sua ragazza, e questo doveva essere esilarante agli occhi di qualcuno che conosceva la verità.
Amaryll abbassò lo sguardo, con aria un po’ abbattuta.
“Sì, posso immaginare cosa stai pensando. Che tutto questo sia una frivolezza, uno stupido passatempo da donnette.”
“Cosa? No!” Daren spalancò gli occhi e si avvicinò alla sua sedia. Si spinse perfino a metterle una mano sulla spalla. “Amyl, io e te siamo diversi e conduciamo vite diverse. Tutto il tuo mondo è qui, è normale che cose come il prestigio e le amicizie siano importanti per te. Non ti sto giudicando, ti ammiro perché sei perfettamente integrata nel tuo tessuto sociale. Ma io no. Non mi sento coinvolto nel balletto politico di questa città perché non faccio parte della città, passo quasi tutto il mio tempo fuori. Giudico importanti delle cose che a te non direbbero nulla.”
L'elfa ammorbidì il suo cipiglio e poggiò una mano su quella di Daren, stringendola leggermente. In questo modo si accorse che portava ancora i guanti che indossava sempre prima di uscire dalla città, e che lei credeva gli servissero a maneggiare le armi con più sicurezza. Questo le fece capire che doveva essere appena arrivato, a quell’ora assurda, probabilmente aveva viaggiato di notte… non come qualcuno che vive in città, ma come qualcuno che è lontano dai ritmi della vita normale.
In realtà il drow era arrivato il giorno prima per parlare con lady Aphedriel, però prima che la mattina scollinasse nel pomeriggio era nuovamente uscito dalla città perché non voleva farsi vedere dalla locandiera, e aveva passato il resto della giornata e tutta la notte a pattugliare la zona intorno a Myth Dyraalis, da solo.
Non sarebbe riuscito a dormire comunque; l’incontro con gli spettri dei nani l’aveva lasciato debole e un po’ sconvolto. Le creature non morte portavano chiaramente impresso il marchio di una morte violenta e terribile, forse più innaturale di una onesta morte in battaglia. Qualunque cosa avesse ucciso quei nani, aveva impedito loro di trovare la pace, e ciò che restava delle loro anime era solo un tormentato guscio vuoto.
Per Daren questa cosa era disturbante a diversi livelli. Lui stesso in passato era morto, ma non aveva mai perso la propria identità in quel modo. Neppure quando gli sembrava di impazzire aveva mai perso se stesso fino a non riconoscere più la propria anima.
In quanto drow era abituato a considerare le torture del corpo come qualcosa che faceva parte della vita, qualcosa che poteva accadere, se una persona era sfortunata. Di solito però la sfortuna terminava con la morte. Era comune decenza, perfino fra i drow come lo era stato lui. Solo le sacerdotesse, che rappresentavano il picco della malvagità del suo popolo, avevano il potere e la volontà di condannare anche un’anima al tormento eterno. Proprio quel senso devastante di eternità aveva tormentato i suoi pensieri negli ultimi due giorni, togliendogli il sonno.
Il tocco degli spettri, la stanchezza per la mancanza di sonno e il turbamento emotivo stavano avendo un effetto deleterio sui suoi nervi e sui suoi riflessi. Temeva che se si fosse tolto i guanti, Amaryll si sarebbe accorta che le sue mani erano fredde e rigide, prive della solita grazia. Daren non era tipo da condividere facilmente i suoi pensieri e le sue preoccupazioni, specialmente perché la cosa sembrava mettere a disagio Amaryll. Davanti alle elfe avrebbe continuato a fingere che non ci fosse nulla fuori dall’ordinario.
“Ho dovuto tratteneremi in pattuglia più a lungo del solito” mentì “e non posso usufruire della solita licenza. Sono passato a trovarti, ma entro stasera dovrò ripartire.”
“Oh” Amaryll strinse un po’ più forte la sua mano. “Devi proprio?”
“Se voglio essere utile alla foresta, devo fare come mi dicono. Per fortuna venivo da ovest e devo recarmi a est, così ho potuto fare una piccola deviazione e passare a salutarti. Ma Johel e altri sono già lì e dovrei raggiungerli.” Almeno quello era vero, anche se non le stava dicendo che aveva usato i suoi due giorni di libertà per quella piccola missione personale.
“Capisco…” l’elfa accettò la sua giustificazione, ma non ne era felice. “Va bene, il mio turno inizia solo dopo pranzo, ho un po’ di tempo e potremmo… stare insieme, fare qualcosa.”
“Certo. Quello che vuoi.” Il drow strinse ancora un momento la sua spalla e poi si congedò dal gruppetto.
Amaryll lo seguì con lo sguardo mentre andava a parlare con il giovane Tippet, l’oste gnomo che formalmente possedeva il pub. L’elfa non capì di cosa stessero parlando ma ad un certo punto il piccoletto guardò verso di lei come per chiederle conferma, e la ragazza annuì per rassicurarlo. Breildrend Orpip Dimble Tippet dei Tippet del Bosco, questo era il suo nome completo, non riusciva a fare un passo senza l’approvazione di Amaryll. Aveva ereditato la locanda dal suo vecchio padre solo un paio di anni prima, quindi l’elfa per lui era la “collega anziana”, anche se era una sua dipendente. Era divertente dover approvare tutte le decisioni del suo capo. Non sapeva cosa Daren gli avesse chiesto, ma lei si fidava del fatto che non fosse nulla di male.
Decise di lasciar perdere la questione e di dedicarsi alla sua tazza di tè e alle sue amiche, vecchie e nuove.

Per un po’ lasciò che fosse lady Freya a condurre la conversazione. Le riusciva naturale, era una ragazza frizzante e dall’entusiasmo coinvolgente. Di norma Amyl l’avrebbe ascoltata con aria rapita cercando di capire come diventare simile a lei, ma adesso rimase sulle sue, ignorando i flussi e riflussi del cicaleccio.
“Amyl? Amaryll?!” La sua storica migliore amica, Kalifein, le toccò discretamente una mano. La locandiera si riscosse dai suoi pensieri, accorgendosi solo allora che si era isolata.
“Oh… pe-perdonatemi, la mia mente vagava” balbettò, all’indirizzo di tutte le altre.
“Pensavi al tuo bel drow?” la incalzò Kalifein con un sorriso sghembo.
“No!” sbottò Amyl, forse con troppa fretta. “Cioè, sì, ma non è il mio drow. Non è il mio niente.”
“Ah no? È un niente che fa una deviazione solo per passare qualche ora con te.”
“Che sciocca che sei, Kali” sbuffò Amaryll. “Non è qui solo per me, è anche più comodo riposare in città anziché campeggiare nella foresta.”
“Riposare? È per questo che lo hai lasciato andare via da solo, perché potesse riposare?” intervenne Pilindiel, dando man forte a sua sorella Kalifein.
“Be’... che… ragazze, che avrei dovuto fare?” domandò, spostando lo sguardo sulle quattro elfe e cercando risposte nei loro occhi.
“Dovresti andargli dietro” suggerì Pilindiel.
“Tanto qui non è che sei molto di compagnia, se la tua mente è altrove” notò Kalifein, con il solito acume malizioso.
“Sono d’accordo con le tue amiche” intervenne pacatamente la maga. “Apprezzo molto quello che hai organizzato per farmi sentire la benvenuta qui, ma noi saremo in città anche domani, mentre lui ripartirà prima di sera. Ed è un guerriero; so che ha la fama di essere molto capace, ma questa foresta non è priva di pericoli, non dovresti dare così per scontato che ritornerà sempre.” Le consigliò, con il pragmatismo e il tatto tipico degli accademici.
Non dare per scontato che tornerà, se continua a mettersi in situazioni pericolose senza dire a nessuno dove si reca. Pensò, ma non poteva certo dirlo ad Amaryll.
La locandiera sbiancò di colpo. Era qualcosa che non aveva mai, mai considerato. Ai suoi occhi Daren era solo… Daren. Troppo testardo per non tornare.
“Coglierò il vostro suggerimento” riuscì a rispondere chissà come, visto come le tremava la voce. Si alzò, rivolse un mezzo inchino alle sue ospiti, poi si diresse con malcelata fretta verso il bancone dello gnomo.

Nello stesso momento, Daren si immerse fino al mento nella vasca di acqua riscaldata magicamente. Come previsto la stanza era vuota, la gente di solito ne prenotava l’utilizzo di sera o di notte.
L’acqua era più calda di quanto lo gnomo avesse raccomandato, ma al drow non importava. Erano giorni che conviveva con i brividi di freddo, un freddo che sembrava venire da dentro.
Uno degli spettri dei nani l’aveva attraversato, lasciandogli addosso una sensazione di morte. Non era stato niente di grave, niente che avesse effetti collaterali a lungo termine, ma gli aveva ricordato una disavventura di molto tempo prima.
La caverna degli spettri dei nani si trovava nel territorio controllato dai drow seguaci di Vhaeraun, gli stessi che aveva diligentemente spiato per alcuni anni, circa sette decenni prima. Erano stati proprio loro a mostrargli l’ubicazione di quel luogo maledetto ma così pieno di risorse. Ogni tanto, un mago o un sacerdote faceva richiesta di recarsi nell’area per recuperare una Rinovdr’olva, oppure qualche altro materiale che s’impregnava facilmente di energia negativa. Talvolta i drow lasciavano di proposito degli oggetti in quel luogo, solo per recuperarli qualche decennio dopo. Se la richiesta veniva accolta, si organizzava una spedizione coinvolgendo i migliori guerrieri e qualche chierico, visto che non era semplice tenere a bada quegli spettri.
Ogni tanto qualcuno moriva. A volte venivano perfino portati dei prigionieri, seguaci di Lolth oppure schiavi di razze inferiori, e venivano gettati in pasto agli spettri affamati di vita mentre i drow si dedicavano alla loro missione di recupero. Daren aveva preso parte a una di quelle spedizioni, come guerriero. Il suo scopo era principalmente quello di proteggere persone più importanti di lui durante il viaggio per arrivare alla grotta, ma poi arrivati in loco era richiesto che tutti dessero il loro contributo. Un mago aveva incantato le sue armi (per infiltrarsi nelle cittadelle drow aveva dovuto abbandonare le sue armi sacre e munirsi di due spade corte di fattura umana), ma anche quella era soltanto una pezza. Daren si era sentito nudo e indifeso senza la sua splendida spada bastarda, incantata per uccidere le creature malvagie e colpire anche gli incorporei.
Però non era stato lui a morire quel giorno. Un altro guerriero drow che faceva la guardia come lui, uno di cui non si era mai curato di imparare il nome, era stato scelto dagli spettri per chissà quale ragione. Forse era solo il più vicino a loro. Lo avevano attaccato, lui si era difeso, alcuni compagni erano intervenuti per aiutarlo… ma alla fine era diventato chiaro che ce l’avevano con lui e che stava per morire. Con crudo pragmatismo, uno dei chierici l’aveva assassinato con un incantesimo, poi era arrivato il segnale della ritirata.
Daren credeva di sapere come mai il sacerdote l’avesse fatto; chi viene ucciso da uno spettro diventa uno spettro. Uccidendolo prima lui, invece, aveva fatto in modo che la sua anima fosse libera di raggiungere il loro dio. Eppure Daren era convinto che il chierico avrebbe almeno dovuto provare a salvarlo. Certo, il pensiero stesso era ridicolo; non è così che agiscono i drow.
Io sono forse diverso? si rimproverò, immergendosi nell’acqua fino agli occhi. Non ho forse preso decisioni altrettanto spietate?
L’esistenza stessa di quella grotta era il fulcro dei suoi ripensamenti. Tutte quelle anime intrappolate gli muovevano pietà, anche se non era un grande amico dei nani. Una parte di lui avrebbe voluto fare qualcosa per liberarli dalla loro pena.
Da solo non sono in grado di fare molto. L’altro giorno ne ho distrutto uno, ed è un’anima fra centinaia che è andata in pace. Questa è una buona cosa, ma so che non posso rifarlo.
L’ho deciso decenni fa. Quando non ho rivelato l'esistenza della caverna a quella nana che si era infiltrata fra i drow. Se c’era qualcuno a cui dirlo, era lei. Quelli sono i suoi antenati, penso.
Ma i nani sarebbero così folli da attaccare i drow per liberare delle anime di guerrieri già morti? E se anche lo facessero, quante perdite ci sarebbero? Inoltre i drow scoprirebbero che qualcuno gliel’ha detto. Potrebbero risalire a me, alla mia missione, e allora saprebbero che gli elfi sono coscienti della loro presenza e preparati in caso di attacco.
Inoltre, ci sono le Rinovdr’olvan. I drow ne hanno già collezionate un po’, ed esse rendono i loro insediamenti impossibili da divinare. Non posso ignorare l’utilità che potrebbero avere per gli elfi se riuscissi a rubarne delle altre. Se poi le anime dei nani venissero liberate, le piante morirebbero in poco tempo, e una preziosa merce di scambio di quei drow verrebbe meno. Che altro hanno da commerciare, a parte normali beni di consumo, armi e incantesimi? Anche i duergar hanno armi e incantesimi, non hanno bisogno di fare affari con i drow per queste cose. Senza il commercio quelle piccole comunità s’impoverirebbero, diventando un facile boccone per la città sotterranea di Guallidurth, che poi alzerebbe gli occhi sulla foresta di Sarenestar.
Non voglio rischiare un esercito di sacerdotesse di Lolth sotto Sarenestar. I seguaci di Vhaeraun sono abbastanza gestibili, perlopiù stanno nel loro, invece Guallidurth parte da una posizione di stabilità e non avrebbe ragione di agire con cautela.
Tuttavia, quanto sono personali le mie ragioni? Se quegli spettri fossero il
mio popolo, so che vorrei dargli la pace.
In quel momento la serratura scattò e la porta si aprì di una spanna. Daren non si allarmò, sapeva che l’unica altra chiave ce l’aveva Amaryll.
Non pensava che lei sarebbe arrivata così presto, ma quando la sua testolina rossa fece capolino dalla porta, lui sorrise istintivamente. La sua presenza in qualche modo riusciva ad allontanare i pensieri bui.
La ragazza sorrise come una bambina che sta per fare qualcosa di proibito, entrò e si chiuse la porta alle spalle. Il drow decise di concentrarsi su quel sorriso. Quello sguardo birichino era qualcosa per cui lottare. La vitalità di quella giovane elfa, la sua temporanea esistenza su questa terra, era così preziosa da non poterlo esprimere a parole.
Era questo che gli dava la forza, dopotutto. Era personale. La sua decisione. Era utilitaria e spietata e terribilmente personale. Voleva che Amaryll e la sua gente fossero al sicuro. Non soltanto perché erano elfi, ma perché erano vivi. L’idea di quegli spettri imprigionati in un’eternità di tormento era annichilente, ma era ancora peggio la prospettiva di condannare delle persone viventi, persone che avevano così tanto da perdere.
Daren era stato un fantasma, per un certo periodo. Ricordava abbastanza che cosa si provasse; era come far parte del mondo eppure non farne parte. I giorni si confondevano in una nebbia grigia di emozioni ovattate, o peggio, ossessive. Quell’esperienza gli aveva lasciato addosso una certezza incrollabile: non importava quanto potesse essere triste il destino dei morti, il mondo apparteneva ai vivi prima di tutto.
Rimase in silenzio a guardare Amaryll, mentre si spogliava dei vestiti eleganti che aveva indossato per colazione e poi si calava nell’acqua accanto a lui.
“Ah! Diamine, quanto è calda!” Borbottò.
“Troppo calda?”
“No, insomma… è tollerabile.” Rispose con una certa prudenza, agitandosi nell’acqua.
Daren si scoprì nuovamente a trovarla adorabile, per come metteva da parte i piccoli disagi per stare con lui. Non era un comportamento che si sarebbe aspettato da una femmina, e questo rafforzava i suoi sentimenti. La tenerezza che provava per lei lo aiutava a sopportare anche le decisioni più crude.
“Grazie per essere qui, Amyl” buttò lì, prima di riuscire a mettere in ordine le idee.
La ragazza piegò le labbra in un mezzo sorriso perplesso.
“Uh… prego? Lo sai che oggi sei più strano del solito?”
“Non esagerare, sono strano sempre.” Scherzò.
Amyl sorrise, ma non lasciò che la sua battuta rompesse la serietà del momento. Nonostante il piacere di essere insieme, ognuno dei due covava pensieri impegnativi, ed entrambi l'avevano intuito.
“So che stai pensando a qualcosa” esordì la ragazza. “Fai sempre quella faccia quando rimugini troppo sulle cose. Perché non condividi i tuoi fardelli con me?”
Il drow le passò un braccio intorno alla vita, un gesto spontaneo e familiare, ma il suo sguardo rimase in qualche modo distante.
“Non condivido certi pensieri con nessuno. Né con un’amante, né con il mio migliore amico. Nemmeno con la mia famiglia.”
“E ti sembra sano?” Lo redarguì lei.
“Dal tuo tono immagino che dovrei dire di no” ipotizzò lui “ma la verità è che non so fare diversamente. Se qualcosa pesa sulle mie spalle e lo condivido con qualcuno, posso ottenere solo due risultati. O quella persona è d'accordo con le mie decisioni, in quel caso la graverei di un inutile peso, oppure non lo è, e questo renderebbe ancora più penosa la mia situazione.”
Amaryll si appoggiò a lui, e il contatto con la sua pelle nuda riuscì in qualche modo ad ancorarlo al presente.
“Non so cosa ti passi per la testa, e tu non me lo dirai” sospirò lei “però sono convinta che passi troppo tempo da solo, nella foresta. Anche quando sei di pattuglia con gli altri, non è che abbiate modo di parlare, giusto? Quindi stai sempre solo con i tuoi pensieri, e lo sanno anche gli dèi che tu pensi troppo. Prima hai detto che non ti senti parte di questa città perché ci passi poco tempo. Bene, io stavo riflettendo su…” prima di continuare, gli poggiò una mano sulla guancia e lo costrinse a guardarla negli occhi “Daren, ti dico queste cose, ma per me non è affatto facile. Mi sento una stupida che si sta esponendo troppo, ma voglio che tu sappia che non ti sto chiedendo nulla. Non voglio che tu faccia cose per cui non sei pronto, o che non vuoi fare. Non ne ho la necessità, non ho alcuna fretta, voglio solo darti un consiglio.”
Lui annuì, perché era chiaro che l'elfa aveva bisogno di essere rassicurata.
“Stavo pensando” riprese lei “che potresti venire a vivere in città. Non tutto il tempo, ma… con un po’ più di costanza. Ci sono ranger che hanno famiglia e che passano parte del loro tempo nella foresta e parte a fare la guardia in città o nel loro villaggio. Tu invece vieni a stare qui solo per due giorni ogni due settimane. Non deve essere per forza così.”
“Amyl…” cominciò il drow, sentendosi la lingua impastata, come se avesse in bocca della melassa. Questo era un discorso pericoloso per lui, perché nonostante tutte le sue rassicurazioni, era chiaro che la ragazza desiderava portare la loro relazione ad un gradino superiore.
Lei attese per qualche secondo che lui continuasse, ma il guerriero sembrava non trovare le parole.
“Ho capito, scusami” sospirò lei infine “ti ho fatto troppe pressioni, non intendevo metterti a disagio”.
“Non è…” balbettò lui. “Lascia che ti spieghi. Ti prego di non offenderti, perché non so in che altro modo spiegarlo. Fare la guardia in città è una passeggiata rispetto a pattugliare il bosco. Ho rispetto per le guardie di Myth Dyraalis, anche perché spesso sono le stesse persone che esplorano la foresta in altri periodi, ma questo lavoro non fa per me.”
“Certo, ma pensi che non sia lo stesso per tutti? Fare un turno di guardia in città, che di solito è di due settimane ogni tre mesi, è praticamente solo una scusa per stare con i propri cari facendo finta di svolgere un lavoro vero.” Ammise lei.
“È per questo che ti chiedo di non offenderti.” Rispose lui, con quella sua orribile sincerità che veniva fuori solo quando doveva fare un discorso molto serio. “Tu sei carina e io adoro passare il tempo libero con te, ma per me avere delle responsabilità è uno stile di vita. In ogni momento di ozio mi sento un impostore. Se non mi rendo utile, io sono… inutile. Di troppo. Una persona impossibile da approvare o sopportare. Amyl, credimi, non è facile per me esprimere questa percezione, ma è così che penso a me stesso.” Si giustificò. “Vivo nella convinzione che nemmeno tu mi vorresti intorno, se non fossi… utile.”
“Ma…” l'elfa rimase senza parole “è la più grossa sciocchezza che abbia mai sentito! Daren, sono una locandiera. Non so difendermi da sola. Un gatto molto incazzato potrebbe uccidermi. Per questo vivo in città, da sempre. Questo è il luogo più protetto di Sarenestar, lo era prima che tu arrivassi e lo sarà ancora dopo che entrambi saremo morti. Non ho bisogno di una guardia, non mi serve che tu mi faccia sentire al sicuro, sono solo felice di stare in tua compagnia.”
“Perché?” Domandò, sinceramente stupito. “La mia abilità con le armi è il mio unico vero pregio!”
“Sei anche intelligente.”
“È sempre intelligenza bellica.”
“Le capacità possono essere trasferite anche ad altri ambiti. Prima di dire che non sei adatto a una vita normale, ci hai mai almeno provato? Ti sei mai messo in gioco, oppure l’idea di essere una persona comune con delle normali relazioni sociali ti è davvero così odiosa?”
“Non… sai che non me lo sono mai chiesto? Odiosa, non penso. Però difficile. Un cambiamento radicale è faticoso, e finora non mi era mai stato chiesto, nemmeno dai miei amici.”
Amaryll raggelò, nonostante l’acqua calda. Gli stava chiedendo più di quanto chiunque gli avesse mai chiesto prima? Gli stava praticamente consigliando di cambiare vita per lei? E se lui avesse deciso che non ne valeva la pena?
“Non voglio chiederti questo, se non è nelle tue corde. So benissimo che noi non stiamo davvero insieme, anche se tu mi piaci molto. Non ho un ruolo nella tua vita e non lo pretendo.”
Daren sospirò, incerto di come rispondere per non allontanarla, ma allo stesso tempo non voleva darle false speranze.
“Amyl, non è una questione di ruoli, o di cosa tu abbia o non abbia il diritto di chiedermi. È vero che questo è il motivo per cui rifuggo le relazioni stabili; non voglio che qualcuno possa dirmi cosa fare, soprattutto facendo leva sui miei sentimenti. Però qui il… problema… è più profondo. Non so se sarei in grado di cambiare il mio stile di vita, nemmeno se si trattasse di due settimane ogni tre mesi. È il principio. Una vita più sedentaria è l’anticamera di una relazione stabile, e anche se tu mi piaci molto, l’idea mi mette a disagio. Non sono certo di essere la persona giusta per te, non sono certo di voler vivere per sempre qui. Ho comunque dei doveri fuori da questa foresta, non posso farti promesse a lungo termine e poi sparire.”
Amyl si sentì un po’ abbattuta per questo discorso, ma non era andata male come temeva. Ad un certo punto aveva avuto paura che lui stesse per tirarsi indietro del tutto, invece era stato capace di un discorso serio e lucido in cui le aveva spiegato chiaramente i suoi limiti e i paletti che aveva stabilito.
“Va bene, non mi offendo. Mi fa piacere che abbiamo avuto modo di parlarne. So che a volte vai via dalla foresta anche per mesi o anni, non stavo suggerendo che tu vivessi qui in modo stabile. Era solo un’idea: passare due settimane in città ogni tre mesi poteva essere un modo per avvicinarti gradualmente alla vita normale di noi elfi. Ti assicuro che non l'ho proposto pensando a noi come a una coppia.”
Lui si rilassò, accorgendosi solo in quel momento che era rimasto in tensione per tutto il tempo. Amyl passò una mano fra i suoi capelli bagnati, giocando con le ciocche candide.
“Se stasera riparti, sarà meglio utilizzare bene il nostro tempo.” Propose la ragazza, con un sorriso accattivante.
Daren sapeva che Amaryll gli aveva appena chiesto di fare l'amore. Non era partito con l'idea di fare quello, o meglio, sapeva che lei prima o poi l'avrebbe suggerito ma pensava che sarebbe stata impegnata con le sue amiche almeno per un'altra ora o giù di lì. In quel momento avrebbe preferito restare immerso nell'acqua per riprendersi dalle fatiche dei giorni precedenti, lasciando che il calore rilassasse i suoi muscoli e che quell’ambiente protetto lo aiutasse a calmare i nervi.
Era stato contento di vedere la ragazza così presto ma non aveva previsto di dover sostenere quella conversazione con lei; era certo di non aver dato il meglio di sé a livello dialettico, e come se non bastasse non si sentiva molto in forma neanche dal punto di vista fisico. Daren però non era abituato a dire di no a una donna. Amaryll non aveva usato un tono autoritario, non lo faceva mai, per questo lui trovava intollerabile l'idea di deluderla.
Lei mi piace, si disse, per farsi animo. Se ora non sono pronto, lo sarò in poco tempo.
Dopotutto sapeva bene come occuparsi di lei mentre aspettava di entrare nel giusto stato d'animo.

Amaryll non sembrava avere alcuna fretta. Per molto tempo si accontentò di baciarlo e stare abbracciata a lui, lì nella vasca. Soltanto quando l'acqua cominciò a diventare tiepida uscirono per spostarsi nella stanza dell'elfa.
“Soddisfatto? Adesso abbiamo i polpastrelli raggrinziti come uva passa!” Scherzò lei. “Anche se sarà interessante sentire l'effetto di queste piccole pieghe ogni volta che le tue dita mi toccheranno” ridacchiò, studiando le mani di Daren con interesse scientifico.
Amyl intrecciò le dita con quelle del suo amante e lo invitò con gentilezza verso il letto.
“Tu… hai aspettato per me? Avevi capito che volevo restare lì più a lungo?” domandò lui, spiazzato.
L'elfa lasciò andare la sua mano e procedette a legarsi i capelli sopra la testa. Le punte erano bagnate e non voleva quel tipo di distrazione durante i loro giochi.
“Acqua troppo calda, niente olii profumati, un solo telo per asciugarsi… è chiaro che avevi preparato la stanza per te, non per noi.”
Il guerriero era del tutto senza parole. Non solo lei se n'era accorta, ma non si era nemmeno offesa?
“Prima, quando ero a colazione con le altre, mi hai detto che dopo avremmo fatto quello che volevo. Ma non dobbiamo fare sempre quello che voglio io. Tu non mi dici mai che cosa vuoi fare, quindi una ragazza deve sapersi arrangiare. Ho dovuto imparare a leggere fra le righe.”
“Amyl…” sussurrò lui, quasi commosso. Non era il comportamento che si sarebbe aspettato da un'amante. “Devi tornare a lavorare fra poche ore e mi hai concesso tutto questo tempo?”
Lei si strinse nelle spalle, imbarazzata. “Uh… li contiamo come preliminari?”
“Oh, sì. Il rispetto reciproco è così sexy” sorrise lui, e probabilmente non stava scherzando. “Mi dispiace solo che farai tardi al lavoro per colpa mia.”
“Non farò tardi al lavoro” ridacchiò la giovane.
“Dobbiamo recuperare il tempo perduto” il sorriso di Daren si fece più affilato, più… pericoloso. Amaryll sapeva che non aveva nulla da temere da lui, ma quello sguardo le faceva sempre venire i brividi. Brividi piacevoli.
Quando il drow si avvicinò e la fece stendere sul letto, l'elfa sentì di nuovo le farfalle nello stomaco, come se fosse la prima volta che si amavano.
“Non dobbiamo per forza… recuperare il…”
Lui non la stava più ascoltando, e dopo poco tempo anche lei perse la capacità di sentire i suoi stessi pensieri.
No, forse non dobbiamo, Amyl. Però lo voglio.

           

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Capitolo 6
*** 1361 DR: Punti di forza ***


1361 DR: Punti di forza


“Tornerai a Myth Dyraalis? Di nuovo?” Johel si tolse l’arco dalla spalla e facendo leva con una gamba curvò l’asta di legno flessibile, per sganciare la corda tesa con una manovra fluida ed esperta.
Il suo amico dalla pelle nera si limitò a scrollare le spalle, per minimizzare la cosa.
“Che te ne frega? Due giorni ogni due settimane, è un diritto di tutti e ne sto semplicemente usufruendo.”
L’elfo dei boschi lo guardò di sottecchi. “Ho la sensazione che tu mi nasconda qualcosa.”
Daren decise di non rispondere, perché se gli avesse dato corda sarebbe stato peggio. Non voleva dargli l’impressione che l’argomento fosse importante.
Johel però sapeva essere insistente come una zecca.
“Non ti è mai piaciuto andare a Myth Dyraalis.”
“Forse mi sto semplicemente ambientando. È quello che tutti mi hanno sempre chiesto di fare, no?”
“Ma finora non l’avevi fatto.” Insistette il ranger. “Anzi, mi ero quasi convinto… davo per scontato che più una cosa ti venisse sollecitata, meno tu fossi bendisposto a farla.”
“Esiste un momento in cui si è sicuri di aver dimostrato la propria indipendenza, e insistere diventa solo uno sciocco capriccio. Sono certo che tuo padre, per dirne una, non osi nemmeno sperare che io mi stia integrando perché lui me l’ha ordinato.”
“Ah, bene, allora siamo al punto.” Johel sorrise come un gatto che ha preso il topo. “Se non per richiesta della nostra gente, perché ti stai integrando?”
Daren lo guardò con sufficienza. L’elfo poteva avere la logica dalla sua, ma ogni drow sa che mentire fino alla fine può essere una tecnica. “Perché… non vedo una ragione per non farlo. Dopotutto ora siamo qui. Forse ci resteremo per mesi, o anni. Potremmo anche allontanarci, ma alla fine torneremo qui. È casa tua… e so che più gli anni passano e più senti il richiamo delle tue radici. Verrà un giorno in cui vorrai fermarti qui e farti una vita. Devo prepararmi per quel giorno.”
“Stai dicendo che ti stai aprendo alla vita sociale perché io sto invecchiando?” Johel era così basito che per poco l’arco non gli cadde dalle mani. “Dovrei… commuovermi perché vedi il tuo futuro qui, con i tuoi amici? Oppure dovrei sentirmi offeso perché mi hai dato del vecchio abitudinario?”
Daren gli rispose con un sorriso enigmatico che probabilmente voleva dire 'entrambe le cose'.
“Dannato drow” borbottò Johel “sei nato sottoterra, sei diventato un… no, due alberi, e parli a me di radici!”
“Non sono mai diventato un albero, stupido elfo, c’è soltanto una vaga impronta della mia anima in quei… oh, vai a baciare una pigna!” Daren raccolse da terra uno strobilo e lo lanciò verso la testa dell’amico. Purtroppo era così leggero che il lancio risultò troppo corto.
In quel momento il loro capopattuglia, un vecchio elfo di nome Suiauthon Arnavel, venne a sollecitare i preparativi per la partenza.
“Ragazzi, ragazzi” dall’alto dei suoi cinquecento anni trattava tutti i guerrieri come ragazzini, tranne Tazandil, anche se li separava circa un secolo d’età. Nessuno trattava il ranger capo con condiscendenza. “Smettete di fare baruffa. Vi è stata accordata una licenza, ma se non partirete entro il tramonto dovrò dedurre che avete cambiato idea e volete restare qui.”
L’anziano guerriero poteva sembrare benevolo, ma dietro il suo sorriso amichevole si nascondeva un’anima di ferro. Johel e Daren smisero all’istante di discutere, raccolsero le loro cose e lasciarono il campo prima di avere il tempo di dire arrivederci. Alcuni altri elfi erano diretti verso la città o verso i rispettivi villaggi, ma la maggior parte si sarebbe spostata per raggiungere un altro accampamento di sorveglianza, secondo lo schema delle pattuglie mobili della foresta di Sarenestar.
Pilindiel e Nelaeryn, due vecchi amici di Johel, si trovarono a fare la strada insieme a loro. Molti anni prima i quattro avevano affrontato una terribile minaccia insieme, e da allora si erano sempre trovati bene a combattere in concerto. Spesso venivano assegnati allo stesso gruppo di pattuglia. Daren aveva notato che di recente Pilindiel gli lanciava delle strane occhiate. Lei sapeva della sua storia con Amaryll, e sicuramente si chiedeva come mai non fosse ancora di dominio pubblico. Però non era stata così indiscreta da chiederglielo direttamente, e il drow non aveva alcuna intenzione di fornire risposte senza che gli venissero fatte domande.
La città distava circa sei ore di cammino, e per un po' procedettero in silenzio.

Sulla via per Myth Dyraalis scoprirono una piccola banda di hobgoblin che sperava di stanziarsi in una macchia di aceri rossi, guidati dal loro sacerdote. Daren sapeva che i gobliniodi vivevano più spesso al confine con le montagne, questi dovevano avere i loro motivi per arrischiarsi nella foresta, che oltre agli elfi ospitava anche parecchi mostri.
Il sacerdote stava dando indicazioni ai suoi sottoposti accompagnandosi con ampi gesti delle braccia, ma tutti cercavano di tenere bassa la voce. Inutilmente. Una pioggia di frecce elfiche, precise come la morte, ne falciò una dozzina in pochi secondi. Gli ultimi tre se la diedero a gambe per tornare da dove erano venuti.
Daren non era un gran sostenitore del metodo prima uccidi e poi fai domande, ma aveva una lunga esperienza in fatto di hobgoblin e non ne aveva mai conosciuto uno che fosse diverso dalla norma: creature intelligenti, più organizzate dei goblin, ma ugualmente spietate e assetate di sangue. Sapeva del loro amore per il colore rosso, il colore del sangue e della guerra. Se si erano accampati sotto quegli aceri probabilmente avevano mire espansionistiche nella foresta. Adesso l’unico sangue che avrebbe annaffiato il terreno sarebbe stato il loro.
Nelaeryn e Pilindiel sparirono in avanscoperta come se fossero stati inghiottiti dalla foresta. Era incredibile il modo in cui i ranger dei boschi sapevano mimetizzarsi con l’ambiente, spesso nemmeno la vista acuta del drow riusciva a distinguerli quando erano in caccia. Johel gli fece cenno con la mano di restare dov’era, poi sparì a sua volta. Era una tattica che avevano testato molte volte. Due o tre persone esploravano i dintorni, una rimaneva sul posto nel caso in cui arrivassero altri mostri. Per Daren non era un problema fare da esca. Con l’indice e il medio pizzicò la corda del suo arco, e una freccia di luce gli comparve in mano per magia. Non aveva intenzione di scagliarla, voleva solo rendersi un bersaglio facile nella foresta immersa nel buio della notte.
Non arrivò nessuno.
Pochi minuti dopo sentì in lontananza rumore di battaglia e il ringhio di una bestia, e decise di lasciare la postazione per andare a vedere cosa stesse succedendo.

Nelaeryn e Johel stavano combattendo contro due grossi felini. Sembravano pantere, ma il loro corpo era angoloso, quasi troppo magro; sarebbero apparse come creature naturali, se non fosse stato per le sei zampe dotate di lunghi artigli e per i due grossi tentacoli che partivano dalle scapole e terminavano in spinose sporgenze cornee.
Belve distorcenti pensò il drow, riconoscendo all’istante quelle creature. Incoccò nuovamente la freccia fatta di pura energia e mirò a una delle due bestie, puntando al centro del corpo. Non sarebbe stato un colpo di precisione, ma non voleva rischiare. Le belve distorcenti avevano la capacità sovrannaturale di apparire sempre in una posizione sfasata rispetto a dov’erano veramente, come per una sorta di illusione, quindi ferirle era molto difficile.
Pilindiel ci riuscì. Daren non sapeva dove fosse l’elfa, ma la sua freccia trafisse uno dei tentacoli della bestia che stava incalzando Nelaeryn. Un ruggito di dolore trafisse l’aria calma, poi la freccia del drow trovò il bersaglio e si piantò nel fianco della stessa creatura. Johel stava combattendo da solo contro la seconda belva distorcente. Il fine udito elfico non si lasciava ingannare dalle illusioni del feroce predatore, i passi felpati delle sei grandi zampe facevano crepitare l’erba secca rivelando la sua vera posizione.
Il drow sapeva che Johel non aveva davvero bisogno di aiuto, lui stesso aveva combattuto bestie simili in passato, quando era molto meno esperto del ranger elfo. Qualcosa però non gli suonava giusto, in quelle creature.
Sono troppo piccole realizzò, guardandole bene. Magari nel Buio Profondo i mostri sono più grandi dei loro simili di Superficie? Ma non ha senso! No… sono piccole, due piccoli esemplari maschi, notò, con la sua vista acuta. Fratelli? C’è la loro madre, da qualche parte?
In quel momento una voce femminile gridò. Un urlo che finì in un suono gorgogliante, poi un tonfo.
Riconoscendo la voce della moglie, Nelaeryn mollò tutto e corse in direzione dell’urlo. Non era un comportamento regolare per un guerriero, ma era più che naturale per un innamorato.
Johel capì al volo cosa stesse accadendo e si spostò in modo da poter coprire la ritirata del suo amico, impegnando entrambe le bestie. Una sfida che poteva essere un po’ troppo anche per lui, ma l’abile guerriero dimostrò subito di saper gestire la battaglia, almeno per scopi difensivi. Daren era più preoccupato per Pilindiel e Nelaeryn. Sapeva che i due erano ranger addestrati e che l’elfa era letale con l’arco, ma le belve distorcenti avevano una loro rudimentale furbizia ed erano maestre nel cacciare in branco; dopotutto la capobranco aveva mandato avanti i suoi cuccioli e aveva aggirato gli elfi, e loro non se n’erano accorti.
Femmine. Sono sempre le più pericolose! sbuffò il drow. Imbracciò di nuovo l’arco e piantò quattro frecce nella schiena del felino più malridotto, uccidendolo. A Johel ora rimaneva davanti un solo nemico, e Daren era convinto che potesse cavarsela da solo. Si mosse rapidamente verso destra per aggirare il combattimento e raggiungere gli altri due, impegnati contro la bestia più grande. Nel farlo, per poco non inciampò nel cadavere di un hobgoblin dilaniato da qualcosa che non erano frecce elfiche, ma sembravano piuttosto grossi artigli. Capì all’istante che quelle fiere probabilmente seguivano il gruppetto da giorni, e forse era a causa loro che gli hobgoblin avevano lasciato il loro territorio.
Nelaeryn stava combattendo bene. Il drow se lo aspettava, l’elfo a volte poteva sembrare indolente, ma combatteva sempre bene quando si trattava di proteggere sua moglie, o di mettersi in competizione con lei. Adesso era decisamente il primo caso, visto che Pilindiel era semi-svenuta. Daren capì con una sola occhiata che il ranger non aveva nessuna speranza da solo; la belva distorcente era una femmina anziana, coperta di cicatrici, veterana di molte battaglie. Riagganciò l’arco alla spalla e sfoderò la sua spada bastarda, un’arma sempre assetata del sangue delle creature malvagie. Nonostante quei grossi felini sembrassero animali, erano creature innaturali e dotate di una lucida perfidia.
Pilindiel giaceva a terra, con la schiena sanguinante. Fino a poco prima si trovava su un ramo basso per poter mirare meglio alle due bestie che avevano attaccato i suoi amici, ma la capobranco l'aveva colpita alle spalle, agganciando l'esile elfa con uno dei suoi tentacoli uncinati e trascinandola a terra. La ranger aveva preso una bella botta in testa e la ferita alla schiena le impediva di usare al meglio il suo arco, quindi si era trovata impotente davanti all'enorme bestia. Nelaeryn era intervenuto per difenderla e in quel modo le aveva salvato la vita, ma in realtà stava solo posticipando la fine per entrambi.
Pilindiel, ostinata guerriera, stava cercando di rialzarsi nonostante la ferita. Il primo istinto di Daren sarebbe stato mettersi fra lei e la bestia e aiutare Nelaeryn, ma esitò. L’arciera non era una fanciulla in difficoltà, era una ranger esperta che meritava il suo rispetto. Le passò accanto e le porse una mano per aiutarla a rialzarsi. L’elfa accettò il suo sostegno, e non si stupì quando un’ondata di energia di guarigione le attraversò il corpo, chiudendo in pochi secondi le sue brutte ferite. Rivolse al drow solo un cenno d’assenso, riconoscendo e accettando la sua decisione. Forse lui avrebbe potuto farsi avanti e mettere in seria difficoltà quel mostro, aiutare Nelaeryn… ma l’elfo dei boschi era il marito di Pilindiel e quella era la loro battaglia. La donna si chinò per recuperare arco e frecce e non si disturbò nemmeno a rialzarsi. Dalla sua posizione inginocchiata, tenendo l’arco in orizzontale, riuscì a far partire una freccia che passò esattamente fra le gambe di Nelaeryn e si conficcò in una delle grosse zampe della belva distorcente.
Questo riuscì a distrarre il mostro per una frazione di secondo, ma fu sufficiente perché Nelaeryn riuscisse a portare avanti un affondo con successo. L’affilata spada elfica penetrò nella spalla della belva simile a una pantera, recidendo pelle e muscoli. Il predatore ringhiò e fece un balzo indietro, sembrando sulla difensiva, ma Daren sapeva che era una finta. Conosceva quella mossa, siccome una volta lui stesso ne aveva subito gli effetti. La bestia stava digrignando i denti, in modo da focalizzare l’attenzione del suo nemico sul suo muso, sulle pericolose fauci. Un combattente avrebbe pensato di aver messo in difficoltà il mostro e di doversi aspettare un morso, non appena il felino avesse ripreso coraggio per avanzare. Invece l’attacco sarebbe arrivato dall’alto, dai tentacoli che partivano dalle scapole e che una belva distorcente sapeva manovrare meglio dei suoi stessi arti.
“Sopra di te!” provò a gridare, e si lanciò in avanti per aiutare l’amico. La spada bastarda roteò e riuscì a bloccare uno dei due tentacoli colpendo l’estremità cornea e irta di spuntoni, ma vista la sua posizione precaria non aveva colpito abbastanza forte da spaccare o ferire quella pericolosa arma naturale. Nelaeryn, messo in allarme dal suo grido, riuscì in qualche modo ad evitare l’altro tentacolo, che colpì il suolo alla sua destra e arò il terreno per quasi mezzo metro prima di rialzarsi. L’elfo impallidì pensando a cosa sarebbe successo se la bestia avesse colpito la sua testa con quella cosa.
“Una di queste mi ha quasi ucciso, una volta” lo informò Daren. Sapeva che l’elfo aveva una grande stima delle sue abilità da guerriero, quindi lo disse apposta per renderlo consapevole del pericolo. Evitò di rivelare che era successo più di cent’anni prima, quando il drow non era più esperto di un soldato qualsiasi. Voleva che il ranger fosse più prudente possibile.
Una selva di frecce volò oltre la loro posizione, sibilando, appena due spanne sopra le loro teste. Erano troppe perché le avesse scoccate Pilindiel da sola, Johel doveva aver terminato il suo nemico ed essersi unito all’arciera. Metà delle frecce mancarono il bersaglio, perché i poteri illusori del mostro lo proteggevano ancora. Una però riuscì a conficcarsi dritta in un occhio del felino. Daren riconobbe una freccia dalle piume nere, il marchio di Pilindiel.
Avrei dovuto scommetterci dei soldi, pensò con rammarico, ma dopotutto nessuno avrebbe scommesso contro.
La freccia evidentemente non era penetrata abbastanza in fondo da danneggiare il cervello, ma la bestia ruggì di dolore e fece un balzo indietro, stavolta per scappare sul serio. Gli elfi non potevano lasciarla andare, una fiera di quelle dimensioni e malamente ferita poteva essere un pericolo per chiunque.
Per il drow, l'inseguimento durò solo pochi minuti, ma fu comunque sfiancante. I ranger conoscevano bene la foresta e riuscirono a spingere la belva verso una zona invasa da rovi e sottobosco, sperando che la cosa la rallentasse. Daren non riuscì a stargli dietro. Non aveva mai imparato a muoversi nella foresta velocemente come loro, rischiava continuamente di mettere un piede in fallo su una pietra instabile o di inciampare in una radice invisibile sotto il tappeto di aghi secchi o foglie morte. Lasciò che lo superassero, e in breve li perse di vista. I lamenti lontani della belva distorcente gli indicavano più o meno la direzione, ma nella foresta poteva esserci una strana eco. Dopo meno di un minuto decise di lasciar perdere. I tre elfi dei boschi potevano di certo cavarsela da soli, ora che conoscevano meglio la preda.
Tornò indietro fino al luogo dello scontro. C’era ancora qualcosa che poteva fare per rendersi utile, pensò, studiando i cadaveri dei due mostri più piccoli.

Daren aprì il suo pratico zaino magico, che poteva contenere molte più cose di quanto le sue dimensioni lasciassero intendere, e ne estrasse un pacchettino di cuoio. In realtà era un astuccio ripiegato su se stesso che conteneva affilati coltelli e altri attrezzi da lavoro necessari a scuoiare un animale.
Lavorò per un’oretta. Alla fine anche gli altri elfi tornarono sul luogo dello scontro.
“Quella bestia ci è sfuggita” si lamentò Johel. “La foresta di notte è troppo buia perfino per i nostri occhi.”
“Mi dispiace. Sono creature pericolose, sarebbe stato meglio ucciderla.” Sospirò il drow.
“Avresti potuto seguirci” protestò Nelaeryn.
“Ci ho provato. Purtroppo non sono rapido come voi quando si tratta di muovermi fra le erbacce.”
“Hai ragione” ammise Johel, con rammarico “a volte dimentico che non sei un vero ranger. Va bene, dovremo avvertire la città che c’è ancora una bestia pericolosa in circolazione.”
Vedendo quello che Daren stava facendo, i suoi compagni si misero a lavorare sull’altra belva distorcente morta. In pochi minuti gli abili cacciatori finirono di scuoiarla. Il drow in quel momento provò una punta di invidia per la loro maestria; Johel gli aveva insegnato i rudimenti, ma Daren ci aveva messo un’ora a fare quel che loro avevano fatto in dieci minuti.
“Pensi che ne verrà qualcosa di utile?” chiese Johel, caricandosi in spalla una pelle arrotolata.
“Ne sono sicuro” affermò l’elfo scuro. “Se c’è un conciatore degno di questo nome a Myth Dyraalis, potremmo ricavarne degli oggetti incantati. Alcune capacità magiche delle creature possono essere cristallizzate nelle loro pelli o in altre parti del corpo.”
Il suo pensiero volò indietro negli anni, quando lui stesso aveva lavorato nella bottega di un conciatore di pelli. Conosceva le sostanze per fissare la magia nelle pelli, ed erano quasi tutte velenose, se usate nel modo sbagliato.
O nel modo giusto, a seconda dell’obiettivo…
Lasciò che Nelaeryn prendesse l’altra pelle. Preferiva tenersi le mani libere, nel caso in cui fossero attaccati di nuovo.

Arrivarono alla città segreta che era già notte inoltrata. Pilindiel e Nelaeryn si diressero subito verso la loro casa, com’era prevedibile. Johel mostrò a Daren la bottega del conciatore, che era sempre aperta anche quando era vuota, come in quel momento. Non c’era un proprietario ufficiale, solo un artigiano esperto che ci lavorava alcune ore al giorno. Per il resto si configurava come una zona di lavoro comune, in cui qualunque cacciatore poteva andare e lavorare le pelli delle sue prede, o lasciarle sotto sale se intendeva chiedere al conciatore di farlo al suo posto. Non c’erano orari per quel lavoro, quindi la gente andava e veniva come voleva.
Le sostanze tossiche erano sotto chiave, in un armadietto posto fuori dalla portata dei bambini. Una scelta molto saggia, secondo il drow.
“Dobbiamo lavorarci noi? Adesso?” Domandò l’elfo biondo, con una punta di ansia nella voce.
“No, mettiamo le pelli sotto sale e basta. Se ci lavorassimo stanotte, domattina saremmo ancora qui, e puzzeremmo come una fogna.”
“E tu non puoi permetterti una cosa del genere” insinuò Johel con un sorriso sornione.
“Lo sai che quando si tratta di sporcarsi sono schizzinoso come qualsiasi altro drow” ammise Daren senza scomporsi. Aveva raggiunto i suoi limiti di tolleranza verso puzza e liquami quando era bambino, e in seguito aveva scelto di diventare un guerriero per non dover mai più ripetere certe esperienze.
“Il tuo è un ragionamento generale? Oppure adesso hai qualche motivo particolare…?”
Sei parecchio insistente, dannato biondino testa di paglia! rimuginò con fastidio. Sapeva che l’amico stava cercando di riprendere il discorso di alcune ore prima, quello sul motivo che lo portava così spesso a Myth Dyraalis.
Se duecento anni prima qualcuno gli avesse parlato in quel modo, Daren avrebbe soppesato attentamente le parole e forse avrebbe cercato di minimizzare la cosa. Oppure no. Forse avrebbe reagito con rabbia a malapena trattenuta, per indurre il suo interlocutore a credere di aver centrato un punto debole che non c’era. Ma adesso l’elfo scuro non viveva più in mezzo ai suoi simili, e Johel non stava sondando le sue reazioni per cercare un punto debole, lo stava solo punzecchiando perché era curioso.
Il problema era che non sapeva bene cosa rispondere. Non voleva che l’elfo scoprisse che si vedeva con Amyl, un contatto occasionale era comprensibile, ma ora i loro incontri si stavano facendo fin troppo regolari. Johel ci avrebbe visto qualcosa che non c’era, come tutti.
O forse no? Dopotutto, chi meglio di lui capisce il concetto di avventure senza impegno?
Il drow mise da parte i suoi dubbi, perché non aveva tempo di considerarli adesso.
“Vuoi davvero che entri nella casa di tua madre con gli abiti più lerci di quanto non lo siano già?” Domandò invece, deviando la conversazione verso il terreno solido del pragmatismo.
“Ah… non hai tutti i torti. Andiamo al torrente, prima di rientrare.” Propose l’elfo. “E se avrai voglia di dirmi qualcosa, lo farai a suo tempo. Avrai due settimane per pensarci.”
Daren sollevò le sopracciglia candide in una muta domanda.
“Ho fatto richiesta di fare un turno di guardia in città, quindi per le prossime due settimane saremo separati.”
“Oh no!” Daren si portò una mano al petto. “Il mio povero cuore!”
L’elfo alzò gli occhi al cielo e cominciò a fare strada verso il ruscello.
“Dovrò pur stare con mia figlia, ogni tanto.”
“Ma sì, non devi rendere conto a me.” Daren si strinse nelle spalle, di nuovo serio. “Certo che devi passare tempo con Jaylah. Io me la caverò, ormai ho socializzato anche con gli altri ranger.”
“Ah-ah” Johel agitò un dito, come se l’avesse colto in fallo. “In realtà quasi tutti pensano che tu sia uno stronzo, sgarbato, provocatore, e aggiungerei un ribelle pignolo che si comporta come se le regole si applicassero solo agli altri, cosa che ti rende ancora più odioso.”
Daren rifletté su quelle parole amare, adombrandosi.
“Le regole si applicano solo alle persone che non hanno abbastanza forza d’animo, buonsenso e intelligenza da sapere cosa fare senza una guida.” Chiarì, con aria di superiorità. “Non è colpa mia se pochi ranger in questa foresta rispondono ai requisiti minimi.”
Johel sospirò, buttando di nuovo gli occhi al cielo.
La maggior parte degli elfi e degli gnomi di Myth Dyraalis credevano che il drow fosse un egocentrico pallone gonfiato che non vedeva i propri limiti. In realtà li vedeva molto bene, ma raramente si metteva in situazioni che potessero esporre i suoi punti deboli. Per esempio, pattugliare la foresta non era una di quelle situazioni. Combattere era facile, e il guerriero era anche fastidiosamente consapevole dei suoi punti di forza.
“Ma senti un po’, che vuoi dire quasi tutti?” Daren lanciò a Johel uno sguardo sospettoso. “Mi domando dov’è che ho sbagliato.”

           

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Capitolo 7
*** 1361 DR: Gossip girls ***


1361 DR: Gossip girls


Daren entrò alla Casa degli Scapoli di buon’ora, anche se non si aspettava di trovare Amaryll già sveglia. Aveva deciso di fare colazione al pub. Era stata una decisione improvvisa, quando la piccola Jaylah si era messa a cantare con orgoglio una canzone elfica che aveva appena imparato.
Il drow aveva già un nipote bardo, certamente non ne voleva un’altra. Una singola canzone non voleva dire nulla, tutti gli elfi suonano e cantano anche senza essere bardi, ma la cosa l’aveva messo di cattivo umore, come se fosse un sinistro presagio. Aveva declinato l’invito di lady Hinistel di restare a colazione e si era diretto verso un territorio più neutrale.
Contro ogni previsione, Amyl era già sveglia. Il pub, che di solito la mattina era vuoto, adesso ospitava un’allegra combriccola di elfe. Lady Freya, lady Aphedriel, Pilindiel, la giovane sorella di Pilindiel, le stesse di due settimane prima.
Ah, già. Le amiche di Amaryll. Sono di nuovo qui per aiutare la maga ad integrarsi. Ricordò, trattenendo un sospiro sconsolato. Che palle questa città, ovunque vai trovi gente.
L’allegra locandiera lo vide entrare e gli fece un gran sorriso.
Nessuno gli sorrideva così, con tanto entusiasmo. La felicità dell’elfa nel vederlo era una cosa davvero strana e inspiegabile per lui, ma gli faceva piacere. Riusciva quasi a far risuonare qualcosa nel suo cuore. Quasi, perché sotto sotto restava un fondamento di disagio, una vocina interiore dura a morire che gli diceva è troppo assurdo per essere vero, un retaggio del suo istinto di sopravvivenza drow. Razionalmente sapeva che Amaryll non lo stava ingannando, era troppo ingenua e carina, non aveva mai dovuto mentire per sopravvivere o per guadagnare potere. La società in cui viveva non richiedeva questi sotterfugi, questi sacrifici. Però il suo affetto era così manifesto, così gratuito, che il drow non riusciva a sentirsi del tutto a suo agio.
“Ciao, Amyl. Buongiorno, signore. Non mi aspettavo che foste operative così presto.” Le salutò, un po’ sulla difensiva.
“Ciao, Daren. Non ho avuto modo di dirtelo, abbiamo deciso di trovarci presto per colazione in modo da avere il resto della giornata libero.” Spiegò lei.
“Il mattino è l’orario più produttivo” aggiunse Aphedriel, con un sorriso leggero. “La mente è fresca e riposata, l’umore è alto e il pub è quasi vuoto.”
L’elfo scuro stavolta rispose al sorriso, ma solo perché l’asocialità della maga lo divertiva. Era un tratto che avevano in comune, e lei lo sapeva.
“Volevo proporti di fare una cosa insieme, più tardi” annunciò la sua giovane amante “ma visto che sei qui e che l’altra volta non c’è stata occasione, vorrei presentarti le mie amiche.”
Il guerriero si irrigidì impercettibilmente.
“Le conosco. Lady Aphedriel, lady Freya, Pilindiel e Sillyfain.”
Seguì un momento di sconcertato silenzio. Kalifein lo guardò come se l’avesse appena schiaffeggiata.
Sillyfain?” Boccheggiando per l’oltraggio, si voltò verso Amaryll, come per cercare risposta, ma la locandiera non ne aveva alcuna.
Il drow si strinse nelle spalle. “Tutte le elfe sono Sillyfain finché non so il loro vero nome.” E a volte anche dopo, pensò, ma non lo disse.
“Ma… che… inqualificabile bastardo!” L’elfa offesa si alzò, sbattendo le mani sul tavolo. Lady Aphedriel fece quasi un salto sul posto. Non se l’aspettava, gli elfi dei boschi avevano reazioni così accorate, spontanee. Un elfo della luna o del sole avrebbe mostrato solo gelido sdegno. “Amyl, sul serio, che cosa ci trovi in questo stronzo?”
“Daren, è la mia migliore amica. Cerca di essere più gentile.” Sospirò Amaryll, nascondendosi il volto dietro una mano. Non capiva perché il suo amante, che con lei era sempre dolce e premuroso, stesse mostrando così poco rispetto alle persone importanti per lei.
“D’accordo, d’accordo” il drow fece cenno a entrambe di calmarsi. “Allora tu sarai Mini-Pilindiel.”
L’elfa continuò a guardarlo male.
“Somiglio a mia sorella, ma non sono una sua appendice!” Protestò.
“Mini-Pilindiel è il massimo che avrai da me, e comunque è un complimento, tua sorella è in gamba.”
“Sì ma non sono io” cercò di fargli capire.
“Non importa. Scusa, Mini-Pilindiel, ma sei l’unica qui di cui ancora non conosco il nome, e le cose dovranno restare così.” Spiegò lui, in tono schietto. “Essere presentato alle amiche è l’anticamera di essere presentato alla famiglia, e santo cielo, è evidente che oggi Amyl ha deciso di farmi fuggire a Maztica.”
Amaryll restò senza parole, e così anche le altre. Poi Pilindiel scoppiò a ridere, e Freya con lei. Kalifein rimase lì, incerta se ridere o restare offesa, anche perché Amyl era chiaramente in imbarazzo.
“Non ti sto chiedendo di sposarmi, Daren” intervenne la rossa, seccata. “Visto che loro sono qui, mi sembrava maleducazione non presentartele. E comunque scusa, se mi piacerebbe renderti un po’ più partecipe della mia vita.”
Il drow non ci capiva molto di elfe, ma in qualche modo intuì che la ragazza doveva essersi scottata, forse perfino ferita.
“Mi fa piacere essere reso partecipe della tua vita” si avvicinò a lei e poggiò una mano sopra la sua. Lei, quantomeno, glielo lasciò fare. “Sarei felice di conoscerti sempre meglio, ma non mi sento pronto a far parte del tuo gruppo sociale o a rendere pubblica la nostra relazione.”
Lei alzò gli occhi su di lui, incerta, turbata, e forse... stanca?
“Perché è tutto così difficile con te? Pensavo che la nostra relazione fosse superficiale perché ci conosciamo ancora poco ed è legittimo che la fiducia si costruisca nel tempo. Ma questo accade normalmente, a tutte le coppie; anche se la gente sapesse di noi, questo non comporterebbe alcun obbligo sociale per te. Non è che se la cosa diventa pubblica allora devi per forza stare con me per sempre.”
Daren esitò. Perché gli dava fastidio rendere pubblica la loro storia? Non ne era certo, ma aveva a che fare con il voler mantenere una giusta distanza dagli altri. Avere una relazione, dimostrare di saper provare quel tipo di sentimenti, era qualcosa che l’avrebbe reso più simile a un elfo, più accessibile. Non si sentiva pronto a diventare un elemento attivo della vita sociale della città.
“Non ha niente a che vedere con te” le giurò. “Tu sei fantastica e non avrei problemi se si sapesse in giro che sto con te. Ma ho problemi a far sapere che sto con qualcuno in generale. È complicato da spiegare.”
“D’accordo” sospirò lei, pensando che dopotutto se l’era cercato, un amante così problematico. “Mi dispiace di averti fatto pressione. Però non essere più così maleducato con le mie amiche.”
“Ah, sì. Non ci ho pensato. Insomma, Johel è il mio migliore amico, e per anni l’ho chiamato stupido biondino” ridacchiò.
In quel momento Raerlan fece capolino dalla cucina.
“Ho sentito pronunciare il mio nome invano?”
Daren gli rivolse uno sguardo strano.
“No, stupido biondino, parlavo dell’amico che deteneva questo titolo prima di te.” Spiegò sbrigativamente. “Ma che ci fai in cucina?”
“Uh… preparo la colazione?”
“E da quando lavori qui?”
L’alicorn si strinse nelle spalle, sorridendo. “Ho dormito qui e volevo fare colazione ma lo gnomo cuoco non sa fare le uova come piacciono a me.”
“Allora torna a cucinare e non origliare le conversazioni altrui!” Gli consigliò Amaryll, guardandolo storto.
“Non stavo origliando, ho sentito il mio… be’, non importa.” Cogliendo gli sguardi minacciosi di Daren e Amaryll, se ne tornò in cucina e si barricò dentro.
Poco dopo si sentì un preoccupante rumore di padelle che cadono a terra, ma Amyl decise che non era in servizio e non aveva il dovere di occuparsene.
“Nel suo caso il soprannome è meritato” ammise l’elfa, indicando la porta della cucina con un gesto della mano.
Le altre elfe al tavolo sorrisero manifestando il loro assenso, e l’atmosfera si fece un po’ più rilassata.
“Posso fare ammenda” promise Daren, chinandosi per parlare nell’orecchio di Amaryll. “Non voglio essere coinvolto con le tue amiche, ma se mi prometti che la cosa resterà tra voi, ti do il permesso di parlare a loro di noi due.”
La ragazza gli rivolse uno sguardo incerto. “Non capisco, loro sanno già che ci frequentiamo.”
“Intendevo che puoi parlare di quelle cose che di solito, per discrezione, rimangono all’interno di una coppia” specificò.
Amyl spalancò gli occhi. Era normale che le amiche parlassero anche di quello, se avevano molta confidenza, ma il drow era sempre stato riservato e fino a quel momento l’aveva pregata di non farlo.
“Sei sicuro? Cioè… sei sicuro che sei sicuro?” Balbettò.
Daren le baciò la punta dell’orecchio, facendole il solletico, poi si rialzò e rimase per un momento a contemplare i suoi occhi chiari e innocenti.
Non ne troverò un’altra così carina, pensò improvvisamente. Forse dovrei cominciare a chiedermi se voglio che arriviamo da qualche parte…
“Sì, ma falle giurare che resterà tra voi.” Rispose, tornando al presente.
Lei si morse il labbro inferiore per non ridere. “Tranquillo, ciò che succede alla Casa degli Scapoli rimane alla Casa degli Scapoli.”

Daren rivolse un inchino di commiato alle ragazze e si diresse con una certa fretta verso la cucina. Amyl aveva una mezza idea che volesse impedire a Raerlan di origliare ancora. Aveva senso, se quello che lei e le altre stavano per dirsi doveva restare confidenziale…
Lo guardò allontanarsi, e solo quando si fu chiuso la porta alle spalle si voltò di nuovo verso le sue amiche, con uno scintillio divertito nello sguardo.
“Che cosa ti ha detto?” Domandò Kalifein, cogliendo qualcosa di nuovo nella sua espressione. Daren aveva parlato a voce troppo bassa perché lei riuscisse a sentire.
“Mi ha dato il permesso di parlare di cose private” rivelò Amyl, piegandosi in avanti sul tavolo con aria cospiratoria.
Questo sembrò scatenare una certa curiosità. Le altre iniziarono a parlottare fra loro, intrigate.
“Molti anni fa” rivelò Pilindiel, sussurrando e guardandosi intorno “quando io e Nelaeryn accettammo di partecipare a quella missione pericolosa per salvare Filvendor… ah, lady Aphedriel, probabilmente non sai cosa era successo all’epoca” immaginò, intercettando il suo sguardo perplesso. “Uno dei nostri, Filvendor, era stato catturato da un gruppetto di drow. Daren era andato a salvarlo, ma l’aveva fatto da solo e senza consultarsi con noi, perché è un grosso idiota. Allora lord Fisdril e Tazandil hanno selezionato un gruppo di ranger esperti per andare a recuperare entrambi i nostri amici scomparsi, e io e Nelaeryn ci siamo offerti volontari. Non eravamo ancora sposati all’epoca, non ci eravamo nemmeno confessati il nostro amore. Alla fine di quella missione, dopo la nostra schiacciante vittoria sui nemici, Nel ha iniziato a comportarsi come un bambino e mi ha accusata di essere andata a rischiare la vita solo perché volevo fare colpo su Daren. Era una cosa ridicola! Non lo conoscevo nemmeno! Però ammetto che quando l’ho visto, un po’ di curiosità m’è venuta” ridacchiò, e tutte le elfe al tavolo capirono all’istante i suoi sentimenti. “Ovvio che non ci ho pensato sul serio, ero innamorata di quello sciocco che poi è diventato mio marito, e lo sono ancora. Però la curiosità mi è rimasta.”
Freya rispose con un sorrisetto altrettanto malizioso. “Io mi sono liberata di quella curiosità quando ho conosciuto Aphedriel, perché l’amore che proviamo è… totalizzante, è come quando sai che ci sono le stelle in cielo anche di giorno, ma non le vedi perché c’è la luce del sole. Ma se stiamo per spettegolare sull’elfo che mi ha rifiutata e che mi ha sempre considerata frivola, allora ci sto!”
Amaryll studiò la figlia del capoclan con una punta di preoccupazione. Provava ancora rancore per il guerriero?
“Però dovete promettermi di non divulgare quello che sto per dirvi” pretese. “Lui è stato granitico su questo punto. Non vi dirò nulla se non giurate.”
“Sono molto brava a mantenere i segreti” promise Aphedriel. Era vero, lei era una maga, erano innumerevoli i segreti che aveva appreso nel corso del tempo. In quel momento stava anche tenendo nascosto il fatto che era incuriosita, non dai dettagli piccanti della relazione fra i due elfi, ma da come potesse comportarsi il guerriero con qualcuno con cui aveva molta familiarità. Non aveva ancora deciso se voleva approfondire la conoscenza o tenersi a distanza da lui.
“Sei la mia migliore amica, quindi ti prometto che non ti metterò nei guai con il tuo amante” promise Kalifein “anche se è uno stronzo.”
“Io preferirei che non si sapesse in giro che mi hai detto queste cose” borbottò Pilindiel fra i denti “sai, Nel sa essere… stupido.”
Tutte e quattro si voltarono verso Freya, per capire se avrebbe promesso anche lei. La giovane si fece pregare per un attimo, poi… “Confesso che non sarà il suo senso del pudore a tenermi chiusa la bocca” disse sinceramente la figlia del capoclan “però ritengo che la cosa che rende prezioso un segreto, sia il fatto di essere una delle poche persone a conoscerlo. Altrimenti, dov’è il bello?”
“Oh, meno male” sospirò Amaryll, visibilmente sollevata. “Perché ho proprio bisogno di parlare di questa cosa con qualcuno.”
Le altre si protesero in avanti, inconsapevolmente, per ascoltare ogni parola. Non era solo pettegolezzo. La loro amica aveva chiaramente bisogno di quel confronto, quindi non poteva avere solo episodi buffi e vanterie da raccontare.
“Tanto per mettere in chiaro: lui non è stronzo con me. Non mi dà nomignoli e non è maleducato. Non so perché, ma con me è gentile e premuroso.”
Pilindiel sbuffò incredula e scosse la testa. “Certo, e io sono una salamandra.”
“Già, questa è un po’ troppo grossa, Amyl.” Concordò Kalifein.
“Ma no, vi giuro, è vero!”
Le due sorelle si scambiarono uno sguardo pieno di scetticismo.
“Io ti credo” affermò Aphedriel, con calma e sicurezza. Le altre la guardarono con curiosità e stupore.
“Ah, non lo conosci” minimizzò Freya. “Quando gli ho fatto capire che mi interessava, mi ha detto Ora che ti guardo bene, sono perplesso; non immaginavo che nella famiglia del capoclan ci fossero antenati umani.” Raccontò l’episodio con un’espressione che tradiva quanto si fosse offesa, anche a distanza di decenni. “Capite? Ha pensato che sminuirmi fosse un buon modo per farmi desistere. L’avrei strangolato!”
“Ma sì, tesoro, non ho dubbi che con te si sia comportato da cafone” la tranquillizzò l’elfa della luna, dandole qualche pacca amichevole sulla mano. “Sto solo dicendo che credo al fatto che con Amaryll si comporti in modo diverso.” E l’avresti capito se il tuo orgoglio non ti inducesse a cadere in queste fallacie logiche, aggiunse, ma solo nella sua mente.
“Ma non c’è un motivo al mondo per cui dovrebbe farlo!” Insistette la ragazza. “Tutte noi apprezziamo Amyl, ma è una persona normale, voglio dire, non è una dea scesa in terra o chissà che…”
“Dice che lo metto a suo agio” intervenne Amaryll, che iniziava a sentirsi un po’ sminuita. “So benissimo che non sono bella come te, lady Freya, né misteriosa e intelligente come lady Aphedriel, e nemmeno una ranger in gamba come Pilindiel, che lavora perfino in squadra con lui, certe volte. Spesso penso che non abbiamo niente in comune. Ma forse a lui questo piace. Forse vuole vivere una dimensione più domestica e tranquilla quando sta con me. E poi mi ha detto che non è a suo agio con le donne dalla bellezza folgorante, forse è per questo che ti ha tenuta a distanza.” Concluse, rivolgendosi all’incantatrice. Aveva capito che l’unico modo per indorare la pillola a Freya era lusingare la sua vanità.
“Oh, bene. Sotto sotto è un pantofolaio, chi se lo aspettava!” Sorrise Pilindiel. “Combattendo al suo fianco, ho notato che a volte è odiosamente paternalista. Si comporta come se chiunque potesse migliorare e come se fosse un suo preciso dovere spingerci a farlo. Se tu fossi una guerriera, penso che lo vorresti avvelenare nel sonno. Non potreste avere un rapporto sereno, tenendo separati il lavoro e la vita privata.”
“Buon per me, allora” sorrise Amyl “che io sia esperta di forchette e coltelli e non di spade!”
Kalifein sorrise, perché quella era la prima volta che notava una certa sicurezza di sé nella sua amica, che aveva sempre avuto la tendenza a sminuire il suo valore perché non aveva alcuna abilità memorabile.
“Ma se con te è davvero una persona diversa, diciamo pure, per amore delle ipotesi, un partner dolce e attento… di che cosa ci devi parlare? Che cosa ti turba?” Avanzò la domanda perché le sembrava che non fossero ancora giunte al punto.
Amaryll annuì e la guardò con gratitudine. “Giusta domanda, Kali. È… non voglio girarci intorno. È la nostra intimità.” Arrossì leggermente, ma era decisa a tirare fuori i suoi dubbi. “Lui si comporta un po’ troppo da drow.”
Questa rivelazione scatenò reazioni violente al tavolo. Freya spalancò gli occhi, Aphedriel impallidì più del solito diventando bianca come un cadavere. Pilindiel domandò “Ti ha fatto qualcosa di male?”, anche se lo chiese in tono un po’ dubbioso perché Daren non le sembrava il tipo, ma la sua voce passò in sordina perché nello stesso momento sua sorella esclamò ad alta voce “Se ti ha fatto del male gli cavo gli occhi!”, impugnando con decisione un cucchiaino.
Amyl guardò l’amica, guardò il cucchiaino, considerò la sua pessima scelta di parole e impallidì quasi quanto Aphedriel.
“No! Niente del genere, lui… scusate. Mi sono espressa male.”
Kalifein continuò a guardarla con sospetto, ma lentamente rimise giù il cucchiaino. La maga la guardò con rinnovata ammirazione.
“Sei minuta e graziosa, Kalifein, ma improvvisamente sento l’urgenza di restare nelle tue grazie.” Si complimentò, in modo un po’ contorto.
“Uhm” borbottò l’elfa dei boschi “sono pur sempre una ranger in addestramento.”
“E nessuno potrà dire che tu non abbia carattere” le sorrise Amaryll. “Ma prima che salti alla giugulare del mio amante, lasciami chiarire cosa intendevo. Non so come si comportino i drow con gli elfi di Superficie, di solito; di sicuro in modo violento e assassino. Ma se ci pensate, nessuno che sia stato accettato dai nostri capi e dai nostri dèi si comporterebbe in quel modo. Daren è gentile con me, anche in quelle circostanze. Però mi tratta come se io fossi una femmina drow.”
Altro giro di sguardi perplessi.
“Ti ha portato un bambino da sacrificare come forma di corteggiamento?” Scherzò Freya, per allentare la tensione.
Funzionò. Tutte e cinque si fecero una risata, perché l’idea era semplicemente troppo assurda.
“No, non ancora” l’assecondò Amyl, ma poi cercò di tornare seria. “All’inizio si aspettava che io gli dessi degli ordini, o almeno delle direttive. Sono sicura che le femmine drow vogliano avere sempre il controllo, nella società matriarcale degli elfi scuri comandano loro. Io però non sono tipo da voler comandare a letto, credo che tutto debba essere più spontaneo, reciproco e paritario.”
Le altre annuirono, perché la locandiera stava esprimendo idee che per gli elfi erano la normalità. All’interno delle singole coppie le dinamiche potevano variare un po’, ma in linea di massima gli elfi cercavano relazioni equilibrate.
“Quando ha capito che non intendevo assumere il controllo, all’inizio c’è stato un momento di confusione. Poi ha deciso di prendere in mano la cosa e da allora mi tratta come se fossi… non lo so… non ci voglio davvero pensare” arrossì e abbassò gli occhi, un po’ mortificata. “Si comporta come se avesse il dovere di compiacermi.”
Le altre si guardarono l’un l’altra, incerte.
“E… cosa c’è di sbagliato?” Kalifein si prese la briga di esprimere la domanda che tutte stavano pensando.
“Che non lo fa come un amante!” Sbottò l’elfa dei boschi. “Lo fa come un servo. Decide lui cosa fare, ma tutto quello che fa è per me. Non si lascia andare davvero, non è mai un po’ egoista, e come se non bastasse ci sono cose che non mi permette di fare per ricambiare. Non è un rapporto paritario, mi fa sentire come se fossi una padrona malvagia che potrebbe scuoiarlo se non mi soddisferà abbastanza. E questo…” incrociò le braccia e si strinse i fianchi come se avesse i brividi “mi fa sentire in colpa.”
“Ma scusa, non hai provato a parlarne con lui?” Azzardò Kalifein, nel suo ruolo di migliore amica.
“Sì, e mi ha assicurato che non ha paura di me. Dice che lo fa perché vuole rendermi felice, e io non sono riuscita a ribattere niente. Ma non mi rende felice, sapere che mi vuole soddisfare per affetto. Vorrei sapere che mi desidera, anche. Altrimenti dov’è la parità? Come faccio a sapere che anche a lui piace?”
“Se non gli piacesse, credo che non farebbe nulla con te” la rassicurò Pilindiel. “Lo sa solo il grande Corellon quanto è difficile fargli fare qualcosa che non vuole fare!”
Amyl sorrise, ma non sembrava troppo rassicurata.
“E comunque ha dei problemi di paure radicate. Altrimenti si fiderebbe a lasciarmi fare certe cose. Non posso essere serena se so che la sua devozione è per metà affetto e per metà traumi giovanili.”
Aphedriel sospirò, pensando fra sé e sé quanto fosse fortunata con Freya. La comunicazione fra loro era fin troppo schietta, e avevano ben pochi tabù. Ma naturalmente una persona con un passato problematico doveva essere più chiusa, o perfino meno consapevole.
“Devi considerare che probabilmente non ti sta mentendo. Se ha dei problemi, forse lui stesso non l’ha realizzato.” La maga diede voce ai suoi sospetti. “Dopotutto ha la fama di essere un tipo elusivo, per quanto riguarda le amicizie e l’amore. Potresti essere la sua prima esperienza da molto tempo.”
“Non ci avevo pensato” Amaryll si prese il mento fra le dita. “Non è una cosa di cui parliamo spontaneamente.”
“E che cosa pensi di fare per questo problema? Se il suo approccio ti mette a disagio, dovresti spiegarglielo.”
La ragazza arrossì furiosamente. “Ci ho provato. Due settimane fa abbiamo parlato. Capitemi bene, a me piace quello che mi fa. A livello tecnico non ho nulla di cui lamentarmi. Il mio unico cruccio è che sia così… professionale, e poco passionale. Non è come qualcuno che vuole dare e avere. Sembra quasi che non sia coinvolto. Ma questa cosa l’ho realizzata solo dopo molto tempo. Due settimane fa si è impegnato molto per ringraziarmi di avergli lasciato i suoi tempi e i suoi spazi prima di portarlo in camera. Ma non è qualcosa per cui dovesse ringraziarmi! In una coppia è solo normale avere cura del partner. E ho cominciato a chiedermi... sul serio stava facendo quelle cose solo per gratitudine? Il pensiero mi ha fatta sentire a disagio. Quindi ne abbiamo parlato e lui mi ha detto, come vi dicevo, che vuole solo rendermi felice. Non capiva le mie obiezioni. E purtroppo, se ne parliamo a letto, io non… uh… non riesco a restare a lungo sulle mie posizioni.” Ammise, vergognandosi un po’.
“Allora forse dovresti parlargliene in circostanze diverse.” Propose Pilindiel.
“È quello che ho intenzione di fare. Finora non ci siamo dati una definizione. Non abbiamo deciso esplicitamente di essere solo compagni di letto, ma lui come avete visto è molto esitante davanti all’idea di impegnarsi in una relazione seria. Stiamo solo vedendo come va, e io oggi voglio proporgli qualcosa di diverso. Vorrei portarlo un po’ in giro per la città, conoscerci meglio a livello personale.”
“Un appuntamento” estrapolò Freya. “Ah! Buona fortuna, non so se vorrà farsi vedere in giro con te. Non perché sei tu, ovvio, ma per le motivazioni che ha espresso poco fa.”
“E quanto è strano stare con uno che a letto ti tratta come una regina e fuori casa si vergogna a farsi vedere con te?” Sospirò Amyl, esasperata.
“Ma non si vergogna!” La rassicurò Pilindiel. “È solo un socioleso senza speranza.”
“Vi frequentate da poco” intervenne Aphedriel pacatamente. “Io credo che lui ci tenga a te, ma avrà bisogno di tempo per capire in che modo può dimostrartelo. Per quanto riguarda la vostra intimità, con il tempo credo che sarà più a suo agio. Di solito nelle coppie il tempo spegne la passione, ma per voi potrebbe essere il contrario, visto il vostro punto di partenza.”
Un consiglio da vera elfa della luna, pensò Amaryll, ma forse la maga aveva ragione. Forse la familiarità era la risposta. Dopotutto conosceva Daren da decenni e lui si era lasciato andare un po’ solo dopo tantissimo tempo, e solo grazie all’alcol. Quella prima notte lui le era sembrato davvero partecipe, più che nei loro incontri successivi. Forse sempre grazie a quel liquore che (come aveva scoperto troppo tardi) aveva un effetto afrodisiaco. Aspettare è comunque meglio che farlo ubriacare di nuovo. Non voglio usare sostanze alteranti sul mio… qualcosa.
“Ma, Amaryll. Non puoi raccontarci queste cose senza entrare nei dettagli.” La punzecchiò Kalifein.
“Uhm…”
“Ti ha dato il permesso” le ricordò l’amica, insistendo.
“Sì, se la metti in questi termini… immagino…”
In quel momento la porta della locanda si aprì e Nelaeryn scivolò all’interno, con il suo passo sicuro e silenzioso da ranger. Pilindiel però era sul chi vive e si accorse subito del suo ingresso.
“Nel, va’ via” gli intimò, senza neanche salutarlo.
“Ma amore” il ranger ci restò un po’ male “stamattina dovevamo andare…”
“Vattene via!” Sbottarono Pilindiel e Kalifein contemporaneamente.
Nelaeryn fece un passo indietro, scioccato come se la moglie gli avesse appena dato uno spintone fisico, poi con occhi sgranati camminò lentamente fino alla porta d’uscita e si eclissò.
Pilindiel si voltò di nuovo verso Amaryll e la guardò con aria di aspettativa.
“Allora, questi dettagli? Non è che hai un blocco per gli appunti?”

           

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Capitolo 8
*** 1361 DR: Cose non dette ***


1361 DR: Cose non dette


“Sai, sarò sincera” esordì lady Aphedriel, rivolgendosi direttamente ad Amyl. “Da quello che ci racconti, ho capito quanto ognuna di noi cerchi cose diverse in una relazione. Se un elfo si fosse comportato con me come il tuo amante si comporta con te… a me sarebbe andato bene. Non sono una grande estimatrice dell’altro sesso, preferisco le donne, ma avrei accettato un compagno che fosse capace di starsene nel suo e che si limitasse a rendermi qualche servizio. Mi mette a disagio il modo in cui di solito i maschi pretendono. Tempo, attenzioni, impegno… per me sono troppo aggressivi.” Si confidò. Era la prima volta che dava voce ai suoi sentimenti in modo così schietto, ed era un’esperienza nuova e strana, per lei. Era così che ci si sentiva ad avere delle amiche?
“Ma anche le donne fanno la stessa cosa” Freya la guardò con una punta di preoccupazione. “Credo di essere più invadente e molesta di qualsiasi elfo maschio tu possa aver conosciuto.”
“Sì, Freya, ma a me le donne piacciono, è questa la differenza.” Sospirò la maga. “Quanto a te, ti sarai accorta che ti amo. Purtroppo puoi essere molesta quanto vuoi, non smetterò mai di amarti.” S’imbronciò, fingendo che la cosa le desse fastidio, ma sua moglie capì che stava scherzando.
“Non condivido le tue preferenze ma capisco cosa intendi” rispose Amaryll, conciliante. “Però tu stai pensando a un amante occasionale, un rapporto superficiale. Da come parli, non penso che avresti mai considerato un rapporto a lungo termine con un maschio. Io invece… non so ancora cosa voglio, ma mi piacerebbe che le cose fra noi diventassero più serie.”
“Oh, oh” ridacchiò Pilindiel “anche la nostra Amyl vuole mettere la testa a posto?”
“La mia testa è dov’è sempre stata!” Sbottò la rossa, mentre le sue guance rivaleggiavano con il colore dei suoi capelli. “Non voglio correre, non faccio progetti azzardati, vorrei solo sapere se sto camminando sul terreno o sulle sabbie mobili.”
Sabbie mobili sarebbe trovarsi a dover avere a che fare per sempre con quello stronzo” sbuffò Kalifein. “Che sia il tuo amante va bene, ma se poi facesse parte della tua vita in modo stabile sarei costretta a lavorare molto sulla mia pazienza e tolleranza.”
“Troppo buona,” biascicò la locandiera “ma non fasciarti la testa prima del tempo, Kali. Hai visto come ha reagito quando ho cercato di presentarvi. Non vuole parlare di relazioni serie, anche se sotto sotto io penso che la cosa possa succedere, se lasceremo che accada naturalmente, senza forzarla e senza parlarne.”
Pilindiel si dedicò alla sua tazza di tisana, perché non approvava quella linea d’azione ma non voleva dirlo. Sarebbe stata una critica vuota visto che non aveva consigli da offrire. Aphedriel invece non si trattenne.
“Senza parlarne” ripetè l’elfa della luna, sottovoce. “Ah, siete proprio fatti l’uno per l’altra. La comunicazione diretta vi rende timidi come conigli.”
Questo sembrò punzecchiare Amyl nel punto giusto, perché per la prima volta la ragazza guardò la maga con un’espressione che si avvicinava al risentimento.
“E perché mai? La comunicazione non è sempre verbale, in una coppia c’è molto altro.”
“Oh, sì, c’è molto altro. Ci sono i gesti, i silenzi, le azioni. Ti ha mai detto che è stato lui a consigliarmi di parlare con te?”
Sul tavolo calò improvvisamente il silenzio. Le quattro elfe dei boschi guardarono la maga, senza sapere cosa pensare.
“Ci siamo incontrati un giorno in cui avevo deciso di studiare all’aperto. Freya non c’era, mi sentivo sola, era una calda giornata di fine estate e avevo pensato che studiare all’aperto fosse una buona idea, magari avrei trovato il coraggio di parlare con qualcuno. Lui mi ha vista lì da sola, ha notato che la gente era intimorita e nessuno mi approcciava. Ha aspettato che facessi una pausa e si è avvicinato per dirmi che… in poche parole, che capiva la mia esperienza. Anche lui aveva aspettato molto tempo prima di riuscire a interagire con gli elfi di Myth Dyraalis. Mi ha detto che Amyl lo stava aiutando a prendere confidenza con la città e con i suoi abitanti,” incrociò lo sguardo della cameriera, mentre raccontava senza problemi quella verità parziale “e ti ha dipinta come una persona discreta e affidabile, ma con una buona reputazione e molte conoscenze. Nei giorni seguenti ho riflettuto sulle sue parole. Mi ci sono volute due settimane per farmi coraggio e prendere la decisione di entrare in questo pub. Alla fine ho capito che il drow ci aveva visto giusto, mi sono subito trovata bene con te e con le tue amiche, ma senza il suo consiglio non avrei saputo a chi rivolgermi. E capisco bene che non lo ha fatto solo per me, un elfo scuro non ragiona in modo così lineare. Sapeva che la mia presenza suscita ancora curiosità e ammirazione, che in quanto maga e moglie di Freya ho una buona posizione sociale, quindi ha giudicato che la nostra amicizia potesse essere vantaggiosa per entrambe… e so che ha considerato anche la tua reazione emotiva. Aveva capito che tu ci tenevi.”
Amyl rimase in silenzio per un momento, guardando lady Aphedriel come se non la vedesse davvero.
“Ah...” sussurrò infine. “Non so se mi sento commossa o irritata. Dovrei pensare che è stato un gesto premuroso, o una manipolazione?”
“Non credo che sia una manipolazione” disse sinceramente l’elfa della luna. Poi mentì, con la stessa facilità con cui respirava: “Mi è sembrato davvero sorpreso quando mi ha vista qui per la prima volta. Dopotutto non poteva sapere se avrei colto il suo consiglio oppure no. Credo che ci tenga davvero a vederti felice, e tu non l’avresti mai saputo se non te l’avessi detto io adesso. Non è manipolazione se non va a suo vantaggio.”
Kalifein annuì per dichiararsi d’accordo con la maga, e nella sua mente il compagno stronzo della sua amica guadagnò un piccolo punto.
“Hai ragione” rimuginò la rossa, alla fine. “Forse mi infastidisce che mi abbia giudicata troppo timida e abbia deciso di fare lui la prima mossa, parlandoti. Ma in effetti io non ti avrei mai approcciata, ero in soggezione.”
L’elfa pallida sorrise, come se avesse provato la sua argomentazione.
“Tu hai dei timori quando si tratta di approcciare persone che percepisci erroneamente come superiori” azzardò, e il fatto che si fosse autodefinita non superiore alla locandiera attirò gli sguardi stupiti ma compiaciuti delle altre. “Lui ha dei timori quando si tratta di lasciarsi andare a certi sentimenti. Vedi come siete simili? Non rimproverarlo troppo per le sue debolezze, anche tu ne hai. Tutti noi ne abbiamo.”
Freya studiò il volto sereno di sua moglie per un lungo momento, con rinnovata ammirazione. “Accidenti, come sei saggia.” Si sporse per darle un bacio sulla guancia, e con quella scusa le passò un braccio intorno alla vita.
“Ma no!” Si schernì l’elfa della luna. “Solo… ehi! No! Freya, smettila!” Si divincolò e si alzò di scatto dalla sedia, perché la giovane aveva iniziato a farle il solletico in modo spietato.
“Sei troppo saggia e seriosa” Freya si strinse nelle spalle e si esibì in un sorriso affascinante. “Sai che ti invecchia? Non fa bene alla salute.”
La maga rispose con un’espressione offesa. “Grazie, amore, apprezzo che ti preoccupi per me” le accarezzò una guancia, trasformando quel gesto in un pizzicotto nemmeno troppo dissimulato.
“Ecco, un’altra coppia che a prima vista sembra male assortita” sussurrò Kalifein, indicando le due spose ad Amyl. “Per tutti c’è speranza, non credi?”

Nel frattempo, in cucina, Daren aveva convinto Raerlan a preparare la colazione anche per lui.
“Hai detto che lo gnomo cuoco non fa le uova come piacciono a te, ma da quando hai bisogno di mangiare?” Gli domandò incuriosito, mentre giocherellava con la forchetta nel piatto. Aveva dimenticato una semplice e triste verità: Raerlan era un pessimo cuoco.
“Non ne ho bisogno, ma mi piacciono le uova.” Sorrise, mettendosi in bocca una cucchiaiata di quella che per Daren era poltiglia immonda che sapeva di bruciato.
“Ma tu lo sai che sapore ha il cibo vero?” Si permise di insistere.
“Senti, non mangiarla se non ti piace! Perché mi hai chiesto di cucinare?”
“Io ti avevo chiesto di fare il caffè” lo corresse il drow. “Sei tu che hai insistito per fare le uova in tegame. Che poi a me non serve nemmeno mangiare, indosso un Anello del Sostentamento” gli ricordò, sollevando la mano sinistra per mostrare il cerchietto di metallo che aveva intorno al dito medio.
“Ah” l’alicorn ci pensò un momento “allora posso avere anche il tuo piatto?”
Il drow sospirò e spinse il piatto attraverso il tavolo della cucina. Raerlan allungò un braccio e lo afferrò.
“Sul serio, come mai sei qui?” Gli domandò di nuovo Daren.
“Ho dormito qui” tornò a ripetere il biondo.
“Sì, ma perché? Non stai mai in città, dici che Hinistel ti mette a disagio.”
“Certo, è una veggente, è ovvio che mi metta a disagio” confermò, agitando la forchetta per sottolineare il concetto.
Daren conosceva abbastanza l'amico ranger da sapere che stava evitando di rispondergli per una specifica ragione, qualunque fosse. Riusciva a sentire quasi fisicamente la forza degli incantesimi protettivi dell’alicorn che cercavano di condizionare la sua mente a non farsi altre domande.
“Va bene, non vuoi dirmi perché sei qui” sospirò. “Ognuno ha diritto ai propri segreti, e se hai affari in città non mi interessano.”
Raerlan gli sorrise come per fargli le sue scuse. “Mi spiace, non posso disattivare i miei incantesimi a comando, hanno effetto su di te come su tutti gli altri” si strinse nelle spalle.
In realtà era segretamente soddisfatto. Il drow credeva di aver resistito almeno in parte ai suoi dweomer, era ancora convinto che Raerlan avesse qualche impegno in città. Non si era neppure chiesto se quegli impegni riguardassero proprio la Casa degli Scapoli.
Poco dopo sentirono dei passi leggeri scendere le scale, e un giovane elfo vestito da esploratore s'infilò in cucina dalla porta di servizio.
“Sono pronto!” Annunciò, allargando le braccia. “Andiamo! Ah, buongiorno, Daren” lo salutò di sfuggita.
“Navar” il drow alzò una mano in risposta. “Come va il tuo addestramento da druido?”
“Eeeeh…” il ragazzo si passò una mano dietro la testa “ci sto lavorando. Sono convinto di sentire una particolare connessione con la foresta, ma non sempre la foresta ricambia.”
Il drow si strinse nelle spalle, perché per lui la foresta era solo un letale groviglio di robaccia verde. Non capiva come facessero gli elfi a sentirsi così tanto in connessione con la natura, ma era chiaro che Navar stava prendendo i pericoli molto più sul serio di prima. Adesso indossava vestiti da esploratore anziché la scomoda tunica rituale da druido, segno che pensava di uscire dalla città, e probabilmente aveva chiesto a Raerlan di fargli da scorta. Era molto saggio che un apprendista druido venisse accompagnato da un adulto, anche un ranger poteva andare bene.
Ma Raerlan? Non era esattamente un tipo affidabile.

Il ranger e il giovane elfo si congedarono e uscirono dalla porta di servizio. Daren rimase lì, da solo e senza caffè, a riflettere sulle stranezze della vita.
Non rimase solo a lungo. Poco dopo uno gnomo fece timidamente capolino. Il drow lo riconobbe come il cuoco della Casa degli Scapoli, che non era lo stesso gnomo che aveva ereditato il pub, ma le sue conoscenze si fermavano lì.
“Quel barbaro è uscito?” Domandò il piccoletto, guardandosi intorno di sottecchi.
“Intendi Raerlan? Sì, ha brutalizzato delle uova e poi è uscito.”
Lo gnomo tirò un sospiro di sollievo ed entrò, chiudendosi in fretta la porta alle spalle.
“Mi sono alzato prima dell’alba per terminare i dolci per il circolo dei pettegolezzi, di là” indicò il salone con un brusco cenno del capo, chiaramente riferendosi ad Amaryll e amiche. “Ma forse qualcuno dice mai grazie al vecchio Yandri? No, non sia mai!” sbuffò.
Daren capì che il piccoletto aveva voglia di parlare e la cosa lo mise un po’ a disagio, ma sapeva riconoscere la vera esasperazione quando la vedeva. Un po’ gli dispiaceva anche, per quella creatura, e andarsene subito gli sembrava troppo scortese. Però decise all’istante che se doveva stare ad ascoltare le lamentele di uno gnomo sconosciuto, quantomeno aveva diritto a qualcosa in cambio.
“Sembra che la tua giornata sia cominciata male, messer Yandri. Se sei in piedi da prima dell’alba, ti ci vorrebbe un caffè.”
Il cuoco si fermò come un giocattolo a molla a cui si fosse bloccato un ingranaggio, e lo guardò come se avesse appena proposto una cosa scandalosa ma geniale.
“Pofferbacco! Mi piace come ragioni. Sì, sì, mi merito un caffè. Abbiamo una nuova miscela, appena importata dal Turmish, la patria del miglior caffè del mondo. O così ti dicono loro!” Ridacchiò, andando ad armeggiare dentro una credenza. “Sì, sì, sarebbe per i clienti, ma direi proprio che me lo merito. Ne vuoi anche tu? Il caffè non si beve da soli, e la caffettiera” annunciò, tirando fuori dalla credenza quello che a Daren sembrava un complicato alambicco “è pensata per almeno tre gnomi.”
“Lo gnomo è l’unità di misura per il caffè?” domandò, divertito.
“Lo è qui. Gli elfi non apprezzano questa bevanda perché, senti un po’, dicono che è troppo amara.”
Nel frattempo aveva iniziato a macinare i chicchi fino a renderli polvere. Un procedimento affascinante, se ti piaceva quel genere di cose. Daren trovava tutto un po’ noioso, ma valeva la pena aspettare. Gli dispiaceva che sua sorella Krystel non servisse caffè nella sua locanda, perché nel nord non era una bevanda molto comune.
Il pensiero di Krystel gli fece corrugare la fronte. Si portava dietro un leggero sentore di disagio, e non sapeva perché. Forse perché sapeva che sua sorella doveva sentire la mancanza di Jaylah. O forse perché, come aveva detto a Johel, stava cominciando a considerare Myth Dyraalis come la sua futura casa, e questo avrebbe ridotto le frequentazioni con la sua famiglia. Krystel e i bambini (per lui i suoi nipoti erano e sarebbero sempre stati i bambini) vivevano a molte settimane di cammino da lì. E che ne era della promessa che aveva fatto, di prendersi cura di sua sorella?
Ma ormai Krystel è una donna matura, capace di difendersi da sola, ricordò a sé stesso. Non è senza alleati, a Secomber. Quel ranger che governa la cittadina, com'è che si chiama… be’, quello lì, la conosce e la rispetta, anche se a distanza. Il mago Amelior si può definire un amico. Ma soprattutto, mia sorella ora è consapevole di chi siano i suoi nemici. Non è più la ragazza giovane e ingenua che ho conosciuto cent’anni fa.
Non sono obbligato a tornare spesso a trovarla. Non ha bisogno di me.

Il pensiero era in parte rassicurante e in parte, come sempre, disturbante. Come aveva detto ad Amaryll tempo prima, non era facile credere che qualcuno potesse volerlo intorno anche se non era necessario. Lui e sua sorella ne avevano passate tante insieme, tutto ciò che Krystel sapeva sul suo retaggio l'aveva appreso da Daren, e il sospetto che ora lei potesse metterlo da parte come un utensile usato gli stringeva la gola.
Sono tutte paranoie mentali mie, si impose di pensare. Non si era accorto che nel frattempo lo gnomo gli aveva poggiato davanti una tazza di caffè, e aveva continuato a ciarlare dei fatti suoi per tutto il tempo. Io non sono un buon giudice del carattere di mia sorella, non sono mai riuscito a capirla fino in fondo, quindi non ha senso ipotizzare che cosa farà adesso.
Solo allora si accorse del caffè e prese la tazza fra le mani, ma era ancora troppo caldo.

“Come fai a bere quella roba?” Gli domandò una voce dolce e femminile. In piedi accanto a lui c’era Amyl. Un’espressione sorpresa si dipinse sul suo volto nero, ed evidentemente la ragazza se ne accorse perché le sfuggì un risolino. “Che c’è, non mi hai sentita entrare?”
“Disonore su di me! No, non ti ho sentita entrare” scherzò lui. Il suo sorriso però era solo di facciata, perché il fatto che Amyl fosse comparsa proprio mentre lui pensava alla sua famiglia lontana gli aveva fatto scattare un collegamento preoccupante nella mente.
Dèi. No. Cosa vado a pensare. Hanno in comune solo il fatto di essere locandiere e di essere brave persone. Il mondo è pieno di locandiere carine e gentili. Amyl non è una Krystel più giovane e ingenua con cui è socialmente accettabile fare sesso.
Non lo è.

Guardò la ragazza con aria colpevole e alzò la tazza come per offrirle un sorso di caffè. La rossa si ritrasse, agitando le mani e facendo una smorfia schifata molto buffa.
Amyl è Amyl e a me piace perché è carina e non mi fa troppe pressioni. Non è mai a disagio in mia presenza, non mi tratta con esagerata pazienza come se fosse più vecchia di me. Krystel l’ha sempre fatto, anche quando ci conoscevamo da poco.
Circa un secolo prima, per la prima volta in vita sua, Daren aveva conosciuto una femmina della sua razza che non lo trattava con crudeltà, né con bonaria superiorità (che era il meglio che ci si potesse aspettare da una drow, lui lo sapeva bene, aveva visto come agivano le sacerdotesse di Eilistraee). Quel comportamento insolito aveva attirato il suo interesse, generando sentimenti che all’epoca non aveva ben compreso. Era affetto fraterno? Un giovane drow, senza esperienza di cosa fosse una famiglia amorevole, non poteva capire se quello fosse affetto fraterno o qualcos’altro.
Non aveva mai desiderato sua sorella, ma quello era facilmente spiegabile con i suoi traumi passati e all’epoca ancora recenti verso il genere femminile, uniti ai freni razionali dati dai tabù sull’incesto. Ma l’aveva amata? O avrebbe potuto amarla, se avesse lasciato crescere liberamente i suoi sentimenti?
Non lo sapeva, perché aveva scelto di non chiederselo. A molte persone l’amore capita, involontario e inarrestabile come una disgrazia. Daren invece doveva consentirlo, doveva costruirlo. Non gli veniva naturale. Affezionarsi alle persone, quello sì. Succedeva fin troppo spesso, senza che avesse voce in capitolo. Ma l’amore di coppia no, quello veniva accuratamente considerato, valutato, e finora sempre scartato.
Amyl mi piace perché è come è. Non me n’ero accorto finché non mi sono ubriacato. Deve voler dire qualcosa, deve essere vero. Lei potrebbe perfino essere una persona che potrei amare. Sarebbe consentito e sarebbe sicuro; non è una ragazza pericolosa o incostante. Per la prima volta, si permise di mettere in chiaro quell'idea, di lasciare che emergesse. Poteva almeno permettersi di considerare la cosa.
“Volevo proporti di fare qualcosa insieme, oggi.” Esordì Amyl in tono ottimista, del tutto inconsapevole del suo groviglio di pensieri.
“Certo, facciamo sempre qualcosa insieme” rispose lui in tono assente, chiedendosi dove volesse andare a parare.
“Una cosa diversa dal solito. Mi piacerebbe fare una passeggiata in città. Vorrei mostrarti i miei luoghi preferiti, le cose che per me hanno importanza… ti va bene?” Ora il suo sorriso si era fatto più incerto. Aveva l’aria di chi sta camminando sul ghiaccio sottile e ne è consapevole.
Quella sua reticenza lo fece sentire in colpa. Lei era così giovane. Non era abituata al suo comportamento asociale, non ci aveva mai fatto il callo, come Johel o Raerlan.
“Uhm… Amyl. Mi dispiace per oggi. Non volevo metterti in imbarazzo con le tue amiche.” Esordì il guerriero, perché credeva di aver capito la ragione di quel sottile nervosismo. “Certo che mi piacerebbe, e non ho problemi a farmi vedere in giro con te. Ti chiedo però di non essere troppo esplicita. Se qualcuno ce lo chiede, mi stai mostrando la città, va bene? Io non mi sento pronto ad affrontare i risolini e le insinuazioni di Johel senza prima essere sicuro…” di essere capace di amare qualcuno nel modo in cui voi elfi intendete l’amore, pensò, ma disse “Non so spiegarmi. Johel insinuerebbe che io provi sentimenti che non sono nemmeno certo di comprendere. Non voglio che la gente faccia supposizioni sul mio conto, e soprattutto che si facciano aspettative. Se poi non fossi in grado di mantenere quelle aspettative, la cosa finirebbe per ferire te, prima di tutto” cercò di spiegarle.
L’elfa all’inizio sembrava un po’ dispiaciuta, poi incerta, e infine in qualche modo accettò la spiegazione di Daren. Ritrovò il suo sorriso, un sorriso vero e aperto, e si chinò a baciarlo a stampo sulle labbra.
“Vado a prepararmi! Spero che tu non abbia paura dell’altezza, perché dovremo arrampicarci” gli preannunciò, poi salutò il suo amico gnomo e sparì chiudendosi alle spalle la porta di servizio.
Daren non era sicuro di aver capito bene cosa fosse successo, ma si portò alle labbra la tazza di caffè, ormai tiepido.
Era buono davvero. Il miglior caffè del mondo, o almeno così dicevano nel Turmish. Lo buttò giù senza accorgersi del sapore.

           

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Capitolo 9
*** 1361 DR: Gita di piacere ***


1361 DR: Gita di piacere


Johel si rigirò nelle mani il foglietto con gli appunti che aveva preso.
“Due cinture, una giacca e un paio di stivali?” Ricapitolò Galgath Thiselthath, il migliore nonché unico conciatore di Myth Dyraalis. “Non so, devo vedere in che condizione sono le pelli, in quali punti sono state tagliate. Per adesso non ho altri grossi lavori quindi posso stendere subito un progetto, hai un momento? Dovrò farti delle domande.”
L’elfo biondo si strinse nelle spalle, pensando che non fosse giusto che avessero demandato quel compito a lui. Non amava stare a lungo in quella bottega per via dell’odore pungente di sali e altre sostanze alchemiche, e anche Jaylah in braccio a lui stava già storcendo il nasino.
“D’accordo” si arrese, perché Daren era sparito senza dire nulla, il bastardo. Posò a terra la bambina. “Jaylah, adesso papà ha da fare. Vai fuori a giocare con gli altri bambini.”
La piccola non se lo fece ripetere. Annuì, agitò la manina in segno di saluto e corse subito fuori. Gli elfi non sono una razza molto prolifica, ma tutti i bambini del clan Arnavel vivevano a Myth Dyraalis, quindi Jaylah aveva qualche compagno di giochi.

Nel frattempo, Daren aveva deciso che non aveva più voglia di starsene chiuso in cucina con uno gnomo in crisi esistenziale, quindi era uscito ad aspettare Amaryll nella piazzola antistante la locanda. Si sedette sul bordo del basso pozzo in cui Navar amava calarsi quando era bambino, e riuscì a mantenere un atteggiamento tranquillo anche quando altri bambini si riversarono nella piazzetta per giocare.
“Preso! Ah! Vi ho presi tutti!”
“Adesso tocca a Fyllae prenderci”
“No, non è vero” protestò una bambina sui dieci anni “adesso tocca a Jaylah”
La piccola mezzadrow arrivò trotterellando proprio in quel momento. “Appettatemi! Siete troppo veloci!”
“Jaylah è troppo lenta a correre” puntualizzò un bambino coperto di fango. “È sempre la prima che viene acchiappata
La bimbetta si avvicinò al ragazzo che aveva parlato e gli rivolse una smorfia arrabbiata.
“Oooh, sta facendo la faccia spaventosa! Che paura, Jaylah!” cantilenò il ragazzino infangato, prendendola bonariamente in giro.
“Jaylah, fai la faccia spaventosa! Fammi vedere!” I bambini fecero capannello attorno a lei, e Daren capì che nonostante fosse la figlia di Johel, per loro era ancora una curiosa novità.
La piccina continuò a fare smorfie, aggrottando la fronte e mostrando i denti, e gli altri scoppiarono a ridere. Jaylah si unì al coro di risate, perché non capiva la differenza fra ridere con lei e ridere di lei.
Daren decise che ne aveva abbastanza.
Si alzò dal bordo del pozzo, con una certa flemma, e si avvicinò al crocchio di bambini.
“Jaylah! Come va, piccola?”
La bambina entusiasta gli rivolse un grande sorriso e alzò le braccia per essere sollevata, ma Daren si inserì nel gruppo e si chinò accanto a lei. “Allora, mostriciattola, mi presenti i tuoi amici?”
Jaylah si lanciò in un giro di nomi che sicuramente non erano proprio esatti, ma gli altri non la corressero. Il guerriero comunque cercò di rimanere gentile e sorridente con quei giovani elfi.
“Che cosa stavate facendo di bello?”
“Giochiavamo a elfi e orchi” Jaylah cominciò a raccontare nel suo elfico che migliorava ogni giorno. “Uno è un orco, e noi dobbiamo ss-cappare.” Spiegò, allungando la s per il suo solito difetto di pronuncia. Stava imparando a pronunciare le s quando erano seguite da altre consonanti, ma il risultato non era ancora perfetto. “Ma se corriamo fino al pozzo” agitò le braccia mentre parlava, come se volesse mimare un terribile inseguimento “arrivano i forti e l’orco ss-cappa e noi elfi lo dobbiamo prendere! Anche se ci ha già presi! Perché noi siamo i forti!”
Daren non riuscì bene a capire il concetto finché non comprese che Jaylah intendeva rinforzi.
“Che gioco divertente ed educativo” si complimentò, ma senza molto entusiasmo. “Tu hai già fatto l’orco?”
“Non corro abbass-tanza veloce” disse in tono abbacchiato “ma so fare la faccia cattiva!” Si vantò, facendo di nuovo quella smorfia buffa.
Gli altri ragazzini ridacchiarono sottovoce. Non volevano offendere Daren, ma nemmeno avevano paura di lui.
“Uhm. Hai ancora molto da imparare. Quella faccia non è molto cattiva” la corresse, scompigliandole i capelli. “Per fare una faccia cattiva, devi aggrottare la fronte, così” lo fece, e Jaylah lo imitò. “Poi devi stringere le labbra, come se fossi arrabbiata, così”, di nuovo la bambina cercò di imitarlo. “Brava, brava. Ma la cosa più importante è…” spostò lo sguardo sui ragazzini, che pendevano dalle sue labbra. “Per fare una faccia cattiva, devi essere una persona cattiva. Devi sapere che la tua vita non vale niente, e che a nessuno interessa. Questa cosa ti annichilisce, ti schiaccia, ti fa infuriare. Perché se la tua vita non vale niente, allora il mondo può anche bruciare. No, deve bruciare. E la persona davanti a te è solo un morto che cammina. La tua faccia cattiva sta dicendo: il tempo che ci metto a raggiungerti è il tempo che ti resta da vivere.” Queste ultime parole uscirono in un sussurro tagliente come una lama, e rimasero per un momento a vibrare nel silenzio perfetto. Non dovette nemmeno caricare il suo sguardo di implicite minacce, si limitò a un’occhiata severa. Fu sufficiente. Due bambini scapparono urlando, la ragazzina di nome Fyllae cominciò a piangere in silenzio e a tremare, e il moccioso coperto di fango restò pietrificato come se avesse guardato negli occhi un basilisco.
Amyl uscì di corsa dalla locanda, attirata da quel baccano. “Ma cosa succede…? Daren!” gridò, avendo capito la situazione con una sola occhiata. “Hai spaventato i bambini? Ma cosa ti dice il cervello?!”
“Uhm… non lasciare che bullizzino tua nipote…? Sì, più o meno mi dice questo.” Si difese, prendendo in braccio la piccola mezzadrow e rialzandosi in piedi.
Capendo che non c’era un pericolo immediato, gli ultimi due ragazzini si defilarono in silenzio, prima che l'imprevedibile drow si ricordasse di loro.
“Zio, non ho capito” Jaylah gli afferrò la treccia di capelli argentei e la tirò leggermente. “Com’è che devo fare pe’ la faccia ss-paventosa?”
“Devi guardarli come se ti avessero rubato l’ultima fetta di torta, cucciola.” Gli rispose, semi-serio.
Sul visetto scuro della mezzadrow si dipinse un’espressione a metà fra l’oltraggio e la desolazione. “No! Non sono più miei amici!” Piagnucolò.
“Jaylah… non l’hanno fatto davvero, era solo un esempio.”
“Gli do un pugno per esempio!” rispose arrabbiata, mostrando i piccoli pugni. “Quei brutti vyshaan!
“Ma! Dove hai imparato queste brutte parole?”
“Da te, zio” ammise candidamente. Daren ebbe il buon gusto di mostrarsi almeno un pochino imbarazzato.
“Su, su, dalla a me” Amyl tese le braccia verso la bambina. “Jaylah, ti ho tenuto da parte un po’ di torta. Non te l’hanno rubata. La vuoi?”
Qualsiasi reticenza a farsi prendere in braccio da un’estranea venne subito accantonata. Torta era sempre la parola magica.
Solo allora, quando l’elfa dei boschi gli voltò la schiena per rientrare nel pub, Daren si accorse che Amyl non indossava i soliti vestiti da lavoro. Sulle spalle aveva un corto mantello, pensato per potercisi avvolgere per ripararsi dal freddo, ma che arrivava appena all’altezza dei fianchi lasciando le gambe libere di muoversi. Quelle stesse gambe erano fasciate in morbidi pantaloni di pelle che evidenziavano e sostenevano le sue forme. Il drow l’aveva sempre vista vestita da cameriera, con una gonna al ginocchio, un corsetto e un coprispalle. Già di solito la trovava molto carina, ma adesso si sorprese a fissarle le gambe senza farlo apposta. Non pensava che fosse così sexy vestita da esploratrice.
“Ah, Amyl, cos’hai detto che dobbiamo fare oggi?” la richiamò, seguendola oltre l’ingresso del pub.

Nel frattempo, un giovane apprendista druido e un ranger molto vecchio stavano varcando le porte della città, scoprendo che all’esterno faceva molto più freddo.
“L’inverno arriva presto, quest’anno” commentò Navar, annusando l’aria. Raerlan non rispose. La foresta di Mir, come la chiamavano gli umani, si trovava nei territori meridionali del continente di Faerûn, ma la vicinanza delle maestose Montagne del Cammino poteva garantire inverni molto freddi. Non era così strano.
Senza dire una parola, si slacciò il mantello e lo porse al giovane elfo, con un gesto di invito. Navar arrossì, imbarazzato che l’alicorn lo stesse trattando come un bambino.
“Conosco un incantesimo per resistere al disagio del freddo” gli ricordò. Era un druido, sebbene alle prime armi, ed era molto fiero dei suoi progressi.
“Non lo metto in dubbio, ma hai meditato per preparare quell’incantesimo proprio oggi? Non ti aspettavi che facesse freddo, quindi secondo me non l’hai fatto.”
Navar arrossì ancora di più. Gli dava fastidio essere preso in castagna. Avrebbe preferito fare finta di niente, fingere di lanciare l’incantesimo e non dare a vedere che aveva freddo. Raerlan però non gli diede il tempo di ribattere e gli avvolse il mantello intorno alle spalle. Non era molto più pesante del suo, ma con due mantelli il ragazzo si sentì decisamente più al caldo.
“Non è necessario” protestò alla fine. “Non sono un bambino.”
Io lo so, Navar, ma se ti ammali mentre sei con me, tua madre mi apre la testa e la usa come portavaso.”
L’elfo dei boschi rimase per un attimo senza parole. Cercò di immaginare sua madre mentre faceva una cosa del genere. Era un’idea divertente, ma era anche impossibile. No, non Amaryll.
“Va bene, allora grazie” si arrese, stringendosi nel doppio mantello. “Adesso andiamo però, le giornate sono sempre più corte e c’è molto che voglio esplorare!”

Altre due persone in quel momento si stavano dedicando alle esplorazioni.
Amyl non scherzava, aveva davvero preteso che Daren si arrampicasse con lei su un albero molto alto (che per fortuna non ospitava una casa elfica, altrimenti sarebbe stato imbarazzante).
Al drow non era pesato. L’elfa l’aveva preceduto per fargli vedere dove fossero gli appigli più saldi, ma quello che lui si stava godendo era soprattutto il panorama del suo fondoschiena visto dal basso.
Alla fine raggiunsero un ramo abbastanza alto da svettare sopra le cime degli altri alberi.
“Questo è un abete su cui giocavo da bambina. All’epoca i primi rami toccavano quasi terra, era una pianta giovane. Adesso ha il tronco scoperto fino a una certa altezza… circa cinquanta piedi, e quindi non è più sicuro per i bambini arrampicarcisi” raccontò, mentre entrambi riprendevano fiato su un ramo molto più in alto di cinquanta piedi “in compenso è diventato un albero altissimo, permettendo questa vista mozzafiato.”
Il drow si sedette sul ramo, con la schiena contro il grande tronco della pianta, apprezzando la morbidezza relativa della sua corteccia sugherosa. Il panorama era qualcosa che solo un elfo avrebbe potuto apprezzare: alberi. Da quell’altezza non si vedeva quasi nulla della città perché era coperta alla vista dalle chiome. Non capiva cosa ci trovasse Amaryll, ma era evidente che quel luogo significava molto per lei ed era colpito che avesse voluto portarlo lì.
“Ti arrampicavi così in alto quando eri bambina?” provò a chiedere.
“No, l’abete non era così alto, non svettava sugli altri alberi. Però sognavo che un giorno l’avrebbe fatto. Sognavo… che avrei visto tutto questo dall’alto. Che sarei stata una persona speciale.”
“Perché?”
L’elfa dai capelli rossi girò il viso verso di lui e lo guardò con aria stranita. “Che domanda è perché?
Il drow si strinse nelle spalle. “Non intendevo chiedere perché volevi essere speciale, capisco molto bene l’ambizione e il voler essere… importanti, diciamo. Non me lo aspettavo da un’elfa però. Non eri felice da ragazzina?”
Amyl si spostò più vicina a Daren, andando a sedersi fra le sue gambe. Il guerriero aspettò che lei avesse appoggiato la schiena al suo petto, poi la strinse fra le braccia. Segretamente aveva un po’ paura che lei cadesse di sotto, anche se di sicuro la ragazza era più abituata a stare sugli alberi di quanto lo fosse lui. Ogni tanto si abbracciavano in quel modo, specialmente quando guardarsi negli occhi sarebbe stato troppo imbarazzante.
“I miei genitori vivevano in un villaggio a sud, ma sempre del territorio del clan Arnavel. Non ci sono villaggi a nord, solo accampamenti di ranger, ma a sud è diverso, ci sono più corsi d’acqua e la pesca è una fonte di sostentamento importante. Il mio villaggio si chiamava Corwynfon. Però, come sai, solo la città è davvero sicura. È prassi comune che i bambini dei villaggi vicini, e talvolta perfino i bambini degli altri clan, vengano mandati a crescere a Myth Dyraalis. Spesso un genitore li accompagna, nel mio caso venni mandata qui con mia zia che aveva appena avuto due gemelli. È stato deciso per… ottimizzare le risorse, sai com’è. Però mi sentivo un po’ abbandonata. Io avevo cinque anni e i gemelli erano neonati, quindi ovviamente tutte le attenzioni erano per loro.” Raccontò, e anche dalla voce si capiva che era un po’ turbata. “Mi arrampicavo su quest’albero e cercavo di guardare verso sud, verso il mio villaggio. Purtroppo all’epoca non era abbastanza alto.”
“E adesso? Si vede il tuo villaggio, da quassù?” chiese Daren, guardandosi intorno. “Ho paura di non sapere neanche da che parte sia il sud.”
Amyl sbottò in una breve risata. “A quest’ora, cerca il sole ed è più o meno in direzione sud.”
“Va bene che vivo in Superficie da più di cent’anni, ma puoi scordarti che io cerchi di guardare in faccia il sole! E poi oggi è così nuvolo, non capisco nemmeno da dove arrivi la luce.”
L’elfa guardò verso l’alto. Era vero, quel mattino una spessa coltre di nubi grigie copriva il cielo in modo uniforme. Giù nella foresta doveva sembrare quasi notte, perché le fronde degli alberi coprivano quella poca luce.
“Sembra che stia per piovere” tirò una manica di Daren per fargli sciogliere l’abbraccio. “Dovremmo scendere finché siamo in tempo. E no, comunque, non si vede il villaggio dei miei genitori. È troppo lontano ed è coperto dagli alberi. Non importa, Myth Dyraalis è sempre stata la mia casa.” Si alzò, mostrando un perfetto equilibrio anche se era in piedi su un ramo curvo.
Dalla direzione in cui stava guardando, Daren ipotizzò che il sud fosse alla loro destra. Anche se lei aveva detto che non si vedeva il villaggio nascosto fra gli alberi, il drow cocciuto rimase a guardare per qualche momento, scandagliando il bosco con gli occhi.
“Daren, scostati dal tronco, altrimenti non posso sce…”
Lui la stava ascoltando con mezzo orecchio, ma all’improvviso non la sentì più del tutto. Percepì un netto stacco dalla realtà intorno, la sua vista si fece offuscata, e un attimo dopo non stava più guardando il bosco dall’alto: si trovava ad altezza del terreno, vicino a un ruscello che formava una piccola cascata.

La vegetazione intorno a lui era tipica della regione a sud di Myth Dyraalis, una zona ricca di corsi d’acqua: pini bassi dal colore verde brillante, con i tronchi invasi da funghi filiformi, più qualche quercia e altre latifoglie qui e là. Daren non avrebbe saputo collocare geograficamente quel luogo se qualche volta non ci fosse passato nelle sue esplorazioni insieme agli altri ranger. Era un punto in cui ci si fermava a fare rifornimento d’acqua.
Due persone apparentemente avevano avuto la stessa idea: Raerlan e Navar Enlee. Qualcos’altro però aveva calamitato la loro attenzione: un enorme felino a sei zampe, simile a una pantera emaciata, con due tentacoli uncinati che partivano dalle scapole e molte cicatrici di ferite recenti. Una belva distorcente. Affamata. E incazzata.
Daren spalancò gli occhi con orrore, perché sapeva che le sue visioni non andavano mai a finire bene. Dal suo linguaggio del corpo, era chiaro che Raerlan era a disagio e stava facendo cenno a Navar di stare indietro… ma il ragazzo non gli diede retta e con un sorriso fiducioso si diresse verso quella bestia semi-naturale. Il drow non aveva bisogno di vedere altro, ma le lenti magiche nei suoi occhi non rispettavano mai il suo volere: ogni volta che aveva una visione, la magia imponeva che assistesse fino in fondo. La belva per un momento sembrò davvero incuriosita da Navar. Poi la fame, il dolore, e la sua naturale malvagità presero il sopravvento. Un tentacolo scattò, Navar alzò un braccio all’ultimo istante ma non aveva la forza e le movenze decise di un guerriero: il suo braccio venne spinto verso il basso mentre uno degli spuntoni di quel tentacolo gli scavava un solco nel viso. Anche il braccio restò quasi maciullato e per poco non gli venne strappato via. Poi Raerlan si gettò sul felino, mettendosi in mezzo con la spada lunga impugnata a due mani.


No, no, è tutto sbagliato. Il modo in cui Raerlan impugnava la spada, la posizione delle gambe… da dilettante. Non avrebbe dovuto andare. Non ricorda abbastanza!
La visione terminò di colpo, così com’era arrivata, lasciandogli addosso brividi di orrore. Navar stava morendo da qualche parte e Raerlan non avrebbe mai fatto in tempo a guarirlo. Il guerriero si alzò in piedi, reggendosi al tronco perché si sentiva ancora stordito.
Maledizione, non Navar! Era così importante per Amaryll… e anche per lui. Forse tutto questo non è ancora successo. Le visioni mi lasciano qualche minuto per agire, di solito…
Daren saltò giù dal ramo. Non si curò di cercare appigli; aveva davanti una caduta di una trentina di piedi prima di atterrare sul ramo sottostante, e usò quel poco tempo per fare appello alla magia del suo tatuaggio: un piccolo accrocchio di incantesimi che gli permettevano di replicare quei poteri innati di alcuni drow, come la levitazione.
Alle sue spalle Amyl lanciò un urlo di sorpresa e si chinò sul ramo, ma si tranquillizzò subito quando vide che il suo compagno stava rallentando la caduta. “Che stai facendo?” gli gridò dietro, ma lui non la sentì nemmeno.
Toccò con i piedi il ramo inferiore, cercò subito con lo sguardo una traiettoria di caduta che gli permettesse di arrivare a terra senza l’intralcio di altri rami, poi saltò in quella direzione. Con un comando mentale mise fine all’incantesimo di levitazione, perché non aveva tempo da perdere. La forza di gravità lo reclamò subito, tirandolo verso il basso come un peso morto. Qualche secondo prima di toccare terra attivò un nuovo incantesimo di levitazione. Questo rallentò la sua caduta, ma non la fermò. Toccò il terreno con la violenza di qualcuno che cade da una decina di piedi d’altezza, e con un gesto automatico si buttò a terra e rotolò su se stesso per attutire la forza cinetica. Un momento dopo era di nuovo in piedi, di nuovo in corsa.
Daren non portava mai armi a Myth Dyraalis. Avrebbe potuto, ma non voleva farlo. Aveva con sé solo un coltello che usava per necessità triviali come recidere una corda, o tagliare un rametto… un pugnale ridicolo per combattere. Aveva lasciato le sue armi alla porta sud, dov’era entrato. Raggiunse il posto in meno di un minuto perché non era molto distante dall’albero di Amyl.
Il piccolo presidio di guardia consisteva in due ranger annoiati e un druido che si stava prendendo cura di una giovane pianta di rovere. Daren corse subito alla rastrelliera delle armi d’ordinanza e afferrò la sua spada bastarda. Esitò solo un istante, poi prese anche il bastone che il clan Arnavel gli aveva donato quando l’avevano nominato Ruathar, Amico degli Elfi.
“Emergenzissima” annunciò, con il fiato corto. “Mi serve un passaggio magico per la cascatella delle rane.” Quasi si gettò addosso al povero druido. “Subito! Ti prego!”
L’elfo di mezza età rimase spiazzato. Approntare teletrasporti arborei d’emergenza era il motivo per cui ad un certo punto, precisamente dai tempi del problema drow di settant’anni prima, si era deciso di lasciare un druido esperto ad ogni porta della città; però non erano incantesimi da richiedere con leggerezza.
L’incantatore guardò il drow negli occhi e decise istintivamente che non era il caso di perdere tempo con le domande di rito. Il guerriero non era un ragazzino petulante che chiedeva un passaggio magico per porre rimedio a un suo ritardo, come alcuni giovani ranger avevano tentato di fare. Aveva la nomea di essere serio e un gran lavoratore... be’, almeno come soldato, se non come persona. Il suo tono sconvolto lasciava indovinare una vera emergenza.
Il druido annuì seccamente e gli fece cenno di seguirlo. A pochi passi da loro c’era esattamente la pianta che cercava: un pino più basso degli altri della sua specie, con gli aghi di un verde vibrante. La stessa specie che cresceva copiosamente vicino ai corsi d’acqua nel sud. Senza dire niente, i due ranger si scambiarono uno sguardo d’intesa e uno di loro si unì a Daren e al druido.
L’elfo dei boschi toccò il tronco ruvido dell’albero e cominciò a salmodiare l’incantesimo di Trasporto Vegetale. Erano solo pochi secondi, ma al drow angosciato sembrarono un’eternità.


**********************
Note:

1. Se a qualcuno interessa, l'albero di Amyl è quello che nel nostro mondo si chiama douglasia (o Abete di Douglas), un abete che arriva in media a 70 metri ma occasionalmente quasi a 100, mentre le piante sulle rive dei fiumi sono Tsuga canadensis, una pinacea che necessita di un maggiore apporto d'acqua e che cresce in media una trentina di metri in altezza.
2. La parolaccia che dice Jaylah, vyshaan, è davvero un insulto in lingua elfica. È definita come "una vile maledizione o insulto, in riferimento al clan Vyshaan", un'importante famiglia di elfi del sole a capo dell'antico regno di Aryvandaar. È il clan responsabile di aver dato il via alle Guerre della Corona (-12.000 DR). L'insulto vyshaan potrebbe indicare elfi corrotti dal potere, egoisti e violenti. Però è possibile che la metà degli elfi di oggi non ricordino l'origine di questa parola.


           

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Capitolo 10
*** 1361 DR: Ricordare il futuro ***


1361 DR: Ricordare il futuro


“Fra poco arriveremo a un punto di raccolta dell’acqua. Fermiamoci a fare rifornimento.” Il giovane elfo scattò in avanti con entusiasmo, facendosi strada fra il sottobosco.
“Navar, se continui a bere continuerai a fermarti perché ti scappa. Lo capisci che è un coshee che si morde la coda?” protestò Raerlan, schivando appena in tempo un ramo di rovo che stava per arrivargli in faccia, spinto di lato dal ragazzo disattento.
“Ma che discorsi fai, pensi che abbia cinque anni?” sbottò Navar, offeso. “Dai, il mio otre è vuoto, affrettiamoci.”
Raerlan alzò gli occhi al cielo, ma allungò il passo per non perderlo di vista. Poco dopo sbucarono davvero sulla riva di un fiumiciattolo. Per qualche minuto seguirono il fiume camminando nella stessa direzione della corrente.
“Dov’è che vuoi andare oggi, esattamente?”
“C’è un luogo che ho visto di sfuggita, dove i fiori nascono anche in inverno. Voglio approfondire.”
“Oh, un mistero. Interessante.”
Poi entrambi sentirono finalmente il suono allegro di una cascatella, e l’espressione di Navar si aprì in un sorriso. Raerlan però non riusciva a condividere il suo buon umore. C’era qualcosa fuori posto, qualcosa di sbagliato.
“Navar, non correre. Sento qualcosa.” Provò a frenarlo.
Con un salto e una breve scivolata, il ragazzo superò il dislivello che avevano davanti, trovandosi accanto alla pozza dove si riversava la cascata. Era un luogo chiamato salto delle rane, o anche cascatella delle rane, perché i gorghi della corrente con gli anni avevano scavato alcune pozze laterali nella terra tenera, specchi di acqua quasi ferma in cui piccoli animali del fiume andavano a deporre le uova. D’estate quel luogo era colmo di allegri gracidii e punteggiato dai colori chiari delle ninfee, un tripudio di vita, ma nei mesi freddi sembrava una palude in miniatura. Era un panorama abbastanza desolato, decente solo per merito della cascata e per il verde acceso delle piante che crescevano lungo la riva.
L’acqua degli stagni non era buona da bere, ma Navar sapeva di dover riempire l’otre direttamente dall’acqua fresca della cascata. Aveva già un piede sulla prima roccia bagnata che toccava il fiume, quando Raerlan lo afferrò bruscamente per il mantello e lo tirò indietro.
“Ti ho detto che ho sentito qualcosa!” Sibilò, irritato.
La sua voce suonò più aggressiva di quel che era, perché le sue ultime parole furono sottolineate da un basso ringhio. Navar rimase spiazzato per un momento, prima di accorgersi che non era il ranger a ringhiare. Quel suono minaccioso, che faceva rizzare i capelli sulla nuca, proveniva dai cespugli dall’altra parte del ruscello.
Con passi felpati, ferini, una enorme pantera nera si fece avanti, lenta e silenziosa come la notte. Quando il suo muso zannuto spuntò dalle fronde, Navar si accorse subito che l’animale era sulla difensiva. Poi la bestia si fece avanti, affondando con le zampe nell’acqua bassa, schiacciando e strappando le ninfee sotto i grandi artigli. Solo allora Navar si rese conto che non era affatto un animale naturale.
“Stai indietro” lo chiamò Raerlan, facendogli dei cenni. Con la coda dell’occhio, il giovane druido si accorse che l’alicorn aveva già estratto la spada. La belva distorcente saettava con gli occhi da lui al ranger, come se si aspettasse un attacco.
“No! Aspetta!” Gli fece cenno di fermarsi, cercando di non fare movimenti bruschi. La creatura si era fermata e ora li guardava con sospetto, ma sempre con la stessa aggressività. Eppure, Navar sentiva… qualcosa. Una specie di connessione, come quella che aveva imparato a sentire con gli animali durante l’addestramento da druido. Era un legame sottile come un filo da cucito, ma c’era. Percepiva che in qualche modo lui e quella bestia erano simili, che vibravano alla stessa frequenza. Tese una mano verso il mostro. Se il giovane avesse ragionato con la testa, avrebbe riconosciuto che era un gesto stupido e insensato, le belve distorcenti sono malvagie e solo parzialmente naturali. Ma in quel frangente Navar non era guidato dalla ragione. Era sorpreso di sentire questo collegamento e voleva indagarne la portata, senza rendersi conto che stava giocando con la morte.
E, per un momento, la morte stette al gioco.
Ma solo per un momento.
La belva distorcente non sentiva lo stesso trasporto per il giovane elfo, o forse scelse solo di non curarsene. Era affamata, arrabbiata, aveva perso il suo branco ed era mossa solo dall’odio. Ora questa tenera giovane preda se ne stava lì, in attesa di essere masticata… una tentazione troppo grande.
La bestia colpì, veloce come un gatto.
Raerlan gridò, ma era troppo tardi. Uno dei tentacoli scattò verso l’alto e si abbassò su Navar, che alzò un braccio per parare il colpo, rendendosi conto all’ultimo istante che la sua illusione stava per costargli la vita. Quel braccio sollevato appena in tempo lo salvò da una morte immediata, ma sentì gli spuntoni curvi di quel tentacolo sfregiargli la faccia, scavare nella carne… e poi il braccio venne strattonato in avanti, così forte che dal dolore pensò che gliel’avesse strappato. Il ragazzo cadde a terra, sicuro che sarebbe morto, e perse misericordiosamente i sensi.
La reazione istintiva di Raerlan fu guardare verso il ragazzo, accompagnare con gli occhi la sua caduta, anche se avrebbe dovuto tenere d’occhio la belva. Eppure non riusciva a distogliere lo sguardo da quell’orrore. La creatura ritrasse il tentacolo e ringhiò di nuovo, socchiudendo le fauci con aria famelica. L’alicorn si costrinse a focalizzare l’attenzione sul nemico. Non poteva dedicarsi a Navar, non con un simile pericolo davanti a loro, doveva prima uccidere quel mostro e difendere il giovane druido, sempre che fosse ancora vivo…
Oh, devi esserlo. Devi essere vivo! Forza, Navar, quelli come te non muoiono per così poco! Pensò, ma soprattutto per farsi coraggio. Fece un passo avanti per mettersi fra la belva e il ragazzo svenuto, ma prima che uno dei due potesse attaccare, una freccia luminosa passò attraverso al collo del felino. La belva reagì solo con un’espressione stupita, da cui Raerlan comprese che la freccia non l’aveva davvero colpita, l’arciere era stato tratto in inganno dal potere illusorio del mostro.
Vith!” Sibilò infatti qualcuno dietro di lui, e Raerlan si sentì invadere dal sollievo.
Altre frecce piovvero sulla bestia, questa volta con più metodo: qualcuno stava tirando in rapida sequenza tre frecce a poche spanne una dall’altra, in modo da riuscire a colpire la creatura nonostante non si sapesse la sua esatta posizione. Due di quelle frecce andarono a segno. L’alicorn si voltò e scoprì che Daren, un altro elfo ranger e un druido di Myth Dyraalis erano appena arrivati alle loro spalle, chissà come.
Il drow non perse tempo e seguì l’esempio del ranger, cominciando a tirare a casaccio nella generica direzione della bestia, ma nel frattempo quella si stava allontanando a grandi balzi. Fu raggiunta ancora da una freccia e ruggì come un animale ferito.
“Pensa a curare Navar!” Gli gridò Daren, mentre si preparava a scoccare ancora. “Se ne sei capace, imbecille!”
L’alicorn si chinò sul corpo del ragazzo, pregando che non fosse già morto. Cercò di richiamare alla mente le parole di un incantesimo di cura. Ricordava la sensazione di fare appello ai poteri della guarigione, il dolce pulsare dell’energia della vita che scorreva dalle sue mani al corpo ferito di qualcun altro, il sollievo di portare conforto a qualcuno… ma le parole non vennero. Masticò un’imprecazione sottovoce e recuperò dalla scarsella una pozione di cura.
Nel frattempo, il druido aveva deciso di chiudere la questione della belva distorcente in modo rapido e violento. Le nuvole cariche di pioggia si erano addensate sopra la figura saettante del felino in corsa, e contro ogni ragionevolezza (i fulmini cadono solo quando fa caldo) una maestosa scarica elettrica colpì dal cielo, friggendo sul posto quella creatura ostinata. La pantera innaturale cadde a terra in un mucchietto di carne bruciata, e finalmente non si alzò più.

Per un momento fu il silenzio, dopo il rombo del tuono. Poi la quiete venne rotta dal tossire di Navar, che sputò un po’ di sangue mentre Raerlan lo girava sul dorso. L’alicorn avvicinò la boccetta di vetro alle sue labbra e il giovane druido riprese conoscenza quel tanto che bastava per inghiottire la pozione di cura. In pochi secondi le ferite si rimarginarono per magia sotto i suoi occhi e il ragazzo si svegliò del tutto.
Raerlan forse non ricordava come utilizzare la magia di guarigione, ma padroneggiava ancora le nozioni che aveva appreso come guaritore. Studiò bene il viso dell'elfo, scoprendo con sollievo che la cura magica era stata sufficiente per chiudere quelle brutte ferite, rimarginarle perfettamente senza lasciare cicatrici, e che il suo occhio non era in pericolo. In fondo alla pupilla brillò per un attimo una scintilla residua di magia, segno che aveva avuto bisogno di guarigione.
Avrebbe potuto perdere l’occhio, si rese conto, se non fosse stato curato subito…
“Navar, come sta il braccio? Riesci a muoverlo?”
Il druido in erba cercò di stendere il braccio, ma grugnì di dolore.
“Ah! No, qualcosa non va. La ferita è a posto, ma l’osso…”
Raerlan lo tastò con delicatezza, partendo dal polso e risalendo verso la spalla.
“Hai una spalla lussata. Quando la belva ti ha strattonato il braccio in avanti, l’osso del braccio è uscito dalla sua cavità naturale” spiegò, visto che il ragazzo aveva uno sguardo perplesso. “Tranquillo, si può aggiustare.” Cercò di parlargli in tono calmo e rassicurante, come si fa con qualcuno che ha appena subito un trauma.
Il druido si chinò subito accanto a Navar e verificò a sua volta la diagnosi di Raerlan.
“Sì, è come dice lui” confermò, con un sospiro. “Sarebbe meglio rimettere l’osso al suo posto subito, perché più aspettiamo e meno è probabile che torni come prima. Mi dispiace, farà un po’ male.”
“Sì, maestro Herinter. Mi fido. Anche se farà male… poteva andare molto peggio, ho fatto una vera idiozia.” Mormorò il giovane, mortificato.

Mentre Raerlan e il druido rimettevano in sesto Navar, Daren e l’elfo ranger restarono a fare la guardia al gruppetto, perché la morte della belva distorcente non rendeva la foresta meno pericolosa.
Quando finalmente furono pronti a rimettersi in cammino per tornare in città, entrambi tirarono un sospiro di sollievo.
Myth Dyraalis distava circa un’ora. Per molto tempo camminarono in silenzio, di umore tetro. Navar in particolare, guardava per terra vergognandosi del suo comportamento insensato. Solo quando furono circa a metà strada si fece coraggio e parlò.
“Io… mi dispiace per tutto questo. Non volevo scomodare tante persone per me. Avrei dovuto dare retta a Raerlan ed essere prudente.” Mormorò.
“Non avrebbe fatto differenza” Daren aveva parlato prima che chiunque altro potesse farlo, anche se l’etichetta avrebbe voluto che fosse il druido il primo a rispondere. “Sono rimasto colpito dalla totale inettitudine di Raerlan, purtroppo eravate condannati dal momento stesso in cui avete incrociato il cammino di quella bestia.” La voce del drow era amara, grondante di disprezzo e delusione.
Gli elfi dei boschi sussultarono davanti a quest’accusa impietosa.
“Non esagerare, qualunque ranger sarebbe stato messo in difficoltà, dovendo affrontare quella cosa da solo!” Intervenne il druido, cercando di pacificare gli animi.
Daren grugnì un’imprecazione, ma non insistette. Voleva parlare a quattr’occhi con Raerlan, non voleva mettere i suoi segreti in piazza davanti a tutti, ma quell’umiliazione pubblica se l’era proprio meritata.
L’alicorn non rispose nulla. Sapeva che il suo amico drow aveva ragione.

Quando arrivarono in città, Daren si fermò alla porta sud perché doveva fare rapporto. Non capitava tutti i giorni un’emergenza che richiedesse l’intervento di un druido e un trasporto magico, e il ranger capo, il vecchio Tazandil, voleva assicurarsi che non si abusasse di quello strumento. Quindi, piegandosi alle regole, il drow si trattenne qualche minuto per stendere una breve relazione scritta.
Navar invece venne scortato a casa, cioè al pub dove lavorava sua madre.
Amyl era appena rientrata, a breve avrebbe dovuto cominciare il suo turno. Il suo amante l’aveva piantata in asso nel bel mezzo di un appuntamento, correndo via come se avesse tutti i diavoli dei Nove Inferi alle calcagna.
L’elfa immaginava che avesse una buona ragione per farlo… ma non capiva quale, ed era difficile non prenderla sul personale.
Quei pensieri però scivolarono via come acqua fresca, quando la porta si aprì per lasciar entrare suo figlio, con gli abiti coperti di sangue.
“Navar!” La parola le uscì quasi come un grido, anche se il ragazzo era proprio di fronte a lei. Scattò in avanti e fece per abbracciarlo, ma si fermò in tempo, temendo che fosse ferito da qualche parte. “Per gli dèi, Navar, che cosa è successo? Stai bene? Sei ferito?”
“Non abbracciarmi, mamma, mi fa malissimo la spalla… ma a parte questo sto bene. Mi hanno guarito subito.”
“Guarito da cosa?” sibilò l’elfa, guardando con sospetto Raerlan e l’altro ranger che li aveva scortati. “Raerlan? Elendyl?”
“La belva distorcente” raccontò Raerlan, ritrovando la voce. “Quella di cui parlavano gli avvisi in città. L’abbiamo incontrata vicino a un ruscello… ha attaccato Navar.”
Amyl cominciò a tremare incontrollabilmente. “Oh, Navar…”
“Mi dispiace, mamma, non ce lo aspettavamo” si giustificò. “Anzi, per la verità… Raerlan mi aveva detto di stare più attento, avrei dovuto ascoltarlo. Non sono stato abbastanza prudente. Ma… credevo di poter stabilire un legame con quella bestia, mamma, lo credevo davvero!”
L’elfa dei boschi lo guardò con espressione desolata, esausta. Più che arrabbiata, sembrava che si fosse arresa a qualcosa più grande di lei.
“Oh, figliolo. Sono così stanca” sospirò. Navar si sentì terribilmente in colpa. Poteva gestire una madre arrabbiata, che lo sgridava o gli lanciava frecciatine, ma non sapeva come aggiustare le cose se lei reagiva in questo modo, come se fosse ferita. “Sono stanca di vedere che ti metti nei guai, di essere impotente sapendo che ogni volta che ti allontani da me potresti essere in pericolo. Che cosa devo fare? Non posso chiuderti nella tua stanza, non hai dieci anni!”
“Non è tutta colpa sua” l’alicorn si mise accanto a Navar e allungò una mano per prendere quella di Amaryll. “Alcuni druidi sono in grado di stabilire un contatto empatico con le bestie semi-naturali. Le belve distorcenti sono un po’ troppo furbe per farsi irretire, ma Navar non lo sapeva.”
“Oh cielo…” sospirò la donna, per niente rassicurata.
Vista l’aria che tirava, il ranger Elendyl si diede discretamente alla macchia, borbottando qualcosa su un rapporto da scrivere.
Amyl accompagnò Navar a riposare, mentre Raerlan recuperava delle bende per fasciare la spalla del ragazzo. Si ritrovarono poco dopo nella stanza dell’adolescente.
“Amyl, penso sia il momento che parliamo” le disse lui appena fuori dalla porta, con espressione seria. Una rarità, sul suo volto sempre sorridente. “Ci sono cose che non ti ho mai detto… su Navar.”
La locandiera s'irrigidì, colta di sorpresa. “Navar è mio figlio, non mi serve sapere altro.”
“Navar è tuo figlio” concordò l'alicorn “ma io non credo che tu fossi così ubriaca quella notte, da aver dimenticato le circostanze del suo concepimento.”
Fra loro calò un silenzio pregno di disagio e imbarazzo.
Purtroppo o per fortuna, proprio in quel momento un’altra persona imbarazzata aprì l’uscio che separava il pub dall’androne delle scale che portavano alle camere.
“Amyl, sei qui?” chiamò una voce dal timbro maschile. La rossa abbassò lo sguardo e vide Daren ai piedi delle scale.
“Quassù” gli rispose, agitando una mano per farsi vedere. “Scusa ma adesso non ho tempo, mio figlio è appena tornato a casa in condizioni pietose e devo vedere come sta.”
“Sì, lo so” ammise lui, stupendola. Ma poi la donna immaginò che un ragazzo coperto di sangue che attraversa a piedi la città fosse stato notato un po’ da tutti. “Volevo solo dirti… non importa, possiamo parlare dopo. Poi aggiornami sulle condizioni di Navar. Io intanto devo parlare con Raerlan. Sai dove sia?”
Amyl guardò verso il ranger biondo, che intanto si era addossato alla parete come se volesse diventare un arazzo e che le stava facendo cenno di non tradirlo. Lei si sporse di nuovo dalle scale.
“Raerlan è qui” spifferò, raccogliendo un mugugno lamentoso dall’alicorn. “Adesso però deve parlare con me.”
“Bene, avrà il piacere di spiegarti come mai si è offerto di scortare Navar se non è in grado di proteggerlo!” Quell’accusa gli uscì come un ringhio e Amyl si stupì di quanto suonasse sincero ed emotivamente coinvolto.
Quella frecciatina infamante fu accolta dal silenzio, finché straordinariamente fu Amyl a rispondere. “Conosco già il motivo per cui ha voluto accompagnarlo, ma ignoravo che non fosse in grado di difenderlo. Ma come fai a dirlo? Raerlan è un ranger come tutti gli altri, e dopotutto Navar è tornato a casa sano e salvo… o quasi.”
“Non per merito mio” ammise Raerlan, parlando per la prima volta. “Daren, Elendyl e il druido Herinter sono accorsi a salvarci con tempismo perfetto, ma se non fosse stato per loro io non so… onestamente non so cosa sarebbe successo.”
“Sareste morti” sibilò Daren, guardando i due elfi chiari dal basso dell’androne. “È quello che ho visto nella mia premonizione. Amyl, questo è il motivo per cui sono corso via senza dire niente, ti assicuro che era un’emergenza.”
La ragazza lo guardò in silenzio per un lungo momento. Poi guardò Raerlan. Poi di nuovo Daren, e infine la porta della stanza di Navar.
“Oh… maledizione. Ma non posso avere una vita normale?” Sbottò, sollevando le braccia come qualcuno che è arrivato al limite. “Io vado ad occuparmi di mio figlio. Mio, Raerlan. È un frutto di Mezzestate, non puoi avere un ruolo nella sua vita. Mi andava bene che passaste del tempo insieme, ma non mi hai mai detto che non eri in grado di proteggerlo!” Gli gridò in faccia. L’alicorn era più alto di lei di tutta la testa ed era anche più muscoloso, avrebbe potuto sollevarla usando solo un braccio, ma in quel momento sentì chiaramente il brivido della morte lungo la schiena.
Amaryll gli strappò di mano i bendaggi che aveva procurato, entrò nella stanza di Navar e si sbatté la porta alle spalle.
Raerlan rimase lì a guardare la porta chiusa per qualche momento, ancora stordito per la sfuriata. E di sicuro stava per arrivarne un’altra. Si girò verso il drow e cercò di tirar fuori il suo sorriso più affascinante.
“Ah… le donne, eh? Sono tutte pazze.”
Una sola occhiata al volto nero di Daren gli rivelò che non l’avrebbe rabbonito con qualche battuta.
“Adesso che Amyl ovviamente non ti vuole tra i piedi, vogliamo parlare della tua palese incompetenza?” Salì le scale due gradini alla volta, raggiungendo l’alicorn prima che potesse capire come darsi alla fuga. “Raerlan… è solo per rispetto alla tua serietà, che sai tirare fuori in situazioni estreme, che adesso non ti sbatto la testa contro un muro. Quindi dimmi, e sii sincero per una volta. Cosa ricordi?”
La situazione era troppo tesa e cupa perché il ranger potesse fraintendere quella domanda.
Sospirò, sentendosi con le spalle al muro. “Quasi nulla, in realtà. O meglio… tutto, ma nulla nel dettaglio. Ricordo le cose che ho fatto. Le cose che sapevo fare. Ed è così difficile ricordarmi che non le so più fare! Per me è come… improvvisamente non saper più leggere, o non saper più camminare. Sono cose talmente automatiche che la mente non concepisce di non saperle fare, giusto? Non sono cose che si dimenticano. Be’, io mi sento così per tutto! Ricordo alcune delle competenze che avevo… mi sono rimaste alcune nozioni, sarei ancora in grado di svolgere un rituale perché, sai, per quelli basta seguire le istruzioni. Ma non lo farei con la stessa scioltezza di prima. Sono in grado di riconoscere una spalla lussata ma non di lanciare un incantesimo di guarigione, e la cosa drammatica è che faccio questa scoperta sempre quando è troppo tardi!”
La sua espressione era davvero miserabile e Daren capì che era sincero. Sinceramente desolato, smarrito. Tuttavia la visione di Navar che muore dissanguato sull’erba era troppo fresca e recente perché potesse provare pietà per Raerlan.
“Non ti stai impegnando abbastanza” sferzò, senza mostrare alcuna empatia.
“Ora mi sembra di sentire Tazandil.”
“Non cambiare argomento! Non ti impegni abbastanza, Raerlan, è semplicemente questo.”
“Che diavolo ne sai tu di me!” Raerlan si difese attaccando. “Non sai quanto è difficile per me coltivare la mia crescita personale, imparare cose nuove. Quando mio padre cercò di insegnarmi a diventare un buon ranger, mi ci vollero più di duemila anni per apprendere le basi… per ricordare tutto quello che ho scordato, ce ne vorranno anche tremila!”
“Bene, pigro ragazzetto viziato, quanti Navar hai intenzione di uccidere in questi tremila anni in cui ti ricostruirai con calma delle competenze?” Ritorse il drow, perché questo atteggiamento proprio non lo sopportava. “Conosco le difficoltà di dover curare molte doti contemporaneamente, di dover lavorare alla propria crescita personale senza perdersi per strada i pezzi di tutte le altre cose che si sta cercando di apprendere. È una cosa con cui combatto da tutta la vita, insieme alla difficoltà di mantenere un equilibrio mentale mentre vengo tirato da tutte le parti, sento nella testa la voce della mia dea e mi vengono inviate premonizioni per volere di un altro dio. La differenza è che io sono mortale, so di avere una scadenza, quindi non me la prendo comoda come te!”
“Sì, infatti, tu hai così tanta fretta di diventare il migliore, che hai paura di fermarti e vivere più lentamente accanto ad Amyl” sibilò l’alicorn, perché non aveva nient’altro da ribattere. Si sentiva attaccato sul personale e quindi stava rispondendo allo stesso modo.
Daren lo trapassò con uno sguardo così assassino che l’alicorn capì all’istante di essere andato troppo oltre.
“Il migliore in cosa, brutta testa di sterco” il drow lo afferrò per il bavero e lo sbatté contro la parete. Raerlan gli afferrò i polsi e torse, cercando di costringerlo a mollare, ma non aveva fatto i conti con la resistenza al dolore di qualsiasi drow cresciuto in mezzo ai drow. “Cerco di fare al meglio quello che si richiede da me” ringhiò.
“Come un bravo soldatino” lo derise Raerlan, ma solo per frustrazione.
“Come qualcuno che non lascerebbe morire un ragazzo!”
“Pensi che non m’importi di Navar? Non posso dirlo pubblicamente, ma è mio figlio.” Daren spalancò gli occhi e finalmente lasciò andare il colletto dell’altro, troppo stupito per essere ancora arrabbiato. Raerlan gli scoccò un’occhiata velenosa, ma dietro la rabbia il drow vide che c’era dolore, vergogna. “È stato un errore in buona fede. Credimi, la sua è l’ultima vita che vorrei mettere in pericolo. Sono terrorizzato dal rischio che ha corso. Sono terrorizzato dal fatto di non conoscere più i miei limiti.”
Il guerriero accettò la sua spiegazione senza replicare, perché di certo l’alicorn gli aveva dato molto su cui riflettere. Amyl non aveva mai fatto parola del fatto che Navar avesse un padre. Perché? Non era una cosa importante? Era perché Navar era un figlio di Mezzestate? Oppure si erano lasciati in termini burrascosi?
Alla fine allungò un braccio e batté una pacca sulla spalla del biondo. “Stai allegro, ti aiuterò io. Farò in modo che ricordi al più presto, almeno le tue competenze in battaglia. D’ora in avanti verrai sempre in pattuglia con me e ti assicuro che non avrai mai nemmeno un momento per grattarti il culo.”
L’alicorn rimase ammutolito, un po’ per quella strana piega negli eventi, un po’ perché stava iniziando a capire che quella cosa non andava molto a suo vantaggio.
“Ah… sembra proprio di sentire Tazandil” piagnucolò.
“No, Tazandil è molto peggio di me. Tazandil non dovrà mai scoprire che al momento tu sei un ranger ancora più pietoso di cent’anni fa.”
Quelle parole contenevano un’implicita minaccia, e Raerlan era troppo vecchio e smaliziato per non coglierla.

           

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Capitolo 11
*** 1361 DR: Ricordare il passato ***


1361 DR: Ricordare il passato


Amyl strinse la fasciatura intorno alla spalla di suo figlio, mettendogli anche una benda al braccio perché potesse tenerlo sollevato senza fare forza sui muscoli.
“Rimani in questa posizione” lo ammonì “e cerca di riposare.”
“Ma mamma… per quanto? Voglio tornare alla mia vita normale…” il ragazzo cercò di tirare fuori il suo tono più pietoso, ma sua madre era ormai immune a certi trucchetti.
“Potrai farlo quando il sole sorgerà a ovest in un giorno di neve d’estate” recitò. La stessa risposta di quando lui, da piccolo, le chiedeva se poteva provare i superalcolici.
“Non scherzare, il mio maestro ti avrà pure dato un’indicazione… chessò, una notte di riposo, o un paio di giorn…”
“Due settimane” lo interruppe lei, tagliando corto.
“Due che cosa?” Il suo sguardo era sinceramente sconcertato e un po’ disperato. “Mi prendi in giro.”
La loro conversazione fu interrotta, per fortuna, da qualcuno che bussava alla porta.
Amyl sapeva che Raerlan e Daren erano fuori dall'uscio, li aveva sentiti parlare anche se i dettagli della conversazione non potevano filtrare attraverso la spessa porta di legno. Era un vanto del pub, il fatto che le stanze fossero ben isolate acusticamente, vista la natura ludica che molti avventori attribuivano a quel luogo. Quando Navar era diventato troppo grande per condividere la stanza di sua madre, gli avevano dato una stanza al primo piano, con sua grande gioia. All’età di settantacinque anni aveva già avuto modo di apprezzare la privacy che quelle mura gli garantivano.
Quando l’elfa andò ad aprire la porta, però, solo Raerlan aspettava sul pianerottolo. Non c’era più traccia del drow.
“Daren mi ha sgridato e se n’è andato” bofonchiò l’alicorn.
“E a me cosa me ne frega?” Sbottò Amaryll, che non si era ancora fatta passare l’arrabbiatura verso il ranger impacciato. “Perché mi stai davanti, Raerlan?”
“Dobbiamo parlare” tornò a ripetere lui. “Ci sono cose che tu devi sapere… e anche Navar.”
“Navar deve riposare!”
“Stare a letto e non sforzare il braccio sarà più che sufficiente” protestò lui, cercando di sbirciare dentro la stanza.
“Senti, nulla mi piacerebbe più che stare qui con te a parlare della rava e della fava” lo affrontò, con un tono che grondava sarcasmo “ma in questa stanza c’è mio figlio che ha bisogno delle mie cure, e al piano di sotto c’è un pub in cui fra poco dovrò tornare a lavorare, quindi perché non te ne vai prima che ti cacci a pedate?”
“Oh… se è il tuo lavoro a preoccuparti, stai tranquilla: Daren ha detto che ci pensa lui, perché tu sei una madre in ambasce. Be’, non ha usato proprio queste parole, ma il senso era che è meglio non stare intorno a una madre che…”
“Che diavolo significa che ci pensa lui?” Lo interruppe Amaryll. “Ha intenzione di cacciare tutti gli avventori e barricare la porta?”
“Forse vuole dare fuoco al bancone!” Interloquì Navar, con l’aria di voler contribuire alla conversazione. “Questo sì che renderebbe il locale inagibile per un po’…”
“No” Raerlan scoccò un’occhiata veloce verso il fondo delle scale, dove Daren era sparito poco prima. “In realtà credo che voglia farsi carico di coprire il tuo turno.”
L’elfa restò senza parole, ma lo sconcerto era ben visibile nei suoi occhi verdi. Perfino Navar smise di ridacchiare.
“Ti ha detto una frottola” azzardò alla fine la donna, dopo averci pensato per un momento.
“No, non credo. So che non è una cosa da lui, ma è colpa mia. Abbiamo litigato e l’ho accusato di… non essere abbastanza serio con te, di non sapersi adattare a una vita normale. Credo che voglia dimostrare che mi sbaglio, e che non è un completo disadattato sociale.”
Altro silenzio.
“Ma…” pigolò la barista “lui è un completo disadattato sociale.”
Raerlan si strinse nelle spalle.
“Almeno ti farà guadagnare un po’ di tempo.”
“E dovrei usare questo tempo per parlare con te” Amyl riprese le fila del discorso, in una domanda che aveva l’intonazione di una affermazione sarcastica.
“Non sarei qui a subire la tua rabbia, se non fosse importante” cercò di farla ragionare.
“Dai, mamma, essere costretto a letto è già noioso abbastanza” la pregò Navar. “Se Raerlan ha qualcosa di interessante da dire, sarà comunque meglio che starmene qui a guardare il soffitto e a fingere di ascoltare i tuoi rimproveri” ammise candidamente.
Amyl boccheggiò per un istante, poi comprese di essere in inferiorità numerica.
“Va bene, allora” si arrese, facendo spazio all’alicorn perché potesse entrare.

“Mi stai prendendo in giro, spilungone?”
Breildrend Orpip Dimble Tippet dei Tippet del Bosco, proprietario della Casa degli Scapoli, guardò il drow da sotto in su. Anche perché non poteva fare diversamente.
Daren non disse nulla, colpito da quella risposta amara. Per di più non era abituato ad essere chiamato spilungone.
“Pensi che questo gnomo sia un idiota? Eh? Ho la faccia di qualcuno che nasconderebbe il suo oro alla fine dell’arcobaleno?”
“Non… non ho idea di cosa tu stia dicendo” ammise Daren, cristallino. “Non so perché sei arrabbiato, io di solito le persone le faccio arrabbiare di proposito. Adesso voglio solo rendermi utile.”
“Facendo il lavoro di Amaryll? Ah! Certo, perché chiunque può fare l’oste, non è vero?”
“Non ho detto questo, ma…”
“Sai fino a che punto devi raffreddare i bicchieri per fare in modo che il vino elfico mantenga la sua freschezza?”
“Non sapevo neanche che andasse fatto” ammise il drow, apertamente.
“Certo. Sai preparare un caffè?”
“Per me è alchimia.”
“E quante bacche di ribes bianco vanno in una pinta di ippocrasso?”
“Non lo so…”
“Nessuna!” Sbottò il piccoletto. “Nessuna, per il grande Garl Glittergold! Quale macellaio metterebbe del ribes nell’ippocrasso?”
“Perdonami, hai ragione, sarebbe un crimine” il drow alzò gli occhi al cielo “ma sono un drow, un certo grado di perversione mi è connaturato e non posso evitarlo.”
Lo gnomo seguitò a guardarlo male.
“Ah, bene. Adesso prendi in giro il tuo capo.”
“Ma… pensavo non mi volessi per questo lavoro.” Gnomi, dannazione, chi li capisce è un genio.
“Con Amaryll impegnata a curare suo figlio, non è che abbia molta scelta.” Ammise il locandiere a bocca storta. “Tu prenderai gli ordini e servirai ai tavoli. Io preparerò le bevande. Spero che tu abbia almeno una buona memoria.”
“Eccellente.” Assicurò l’elfo scuro.

“Forse tua madre era convinta che io non ricordassi, per questo non ha mai detto nulla” ipotizzò Raerlan. “O forse è perché sei un figlio di Mezzestate. Ma è la verità, io sono tuo padre.”
Navar accolse quella rivelazione con atteggiamento calmo e composto.
“Ah. Accidenti. Cioè… va bene.”
Forse troppo calmo. Era come se il ragazzo non sapesse bene come reagire.
“No, non è per quello” ammise Amyl, passandosi una mano sugli occhi. “Sapevo che tu ricordavi, Raerlan, l’ho capito quando hai iniziato a gironzolare intorno alla nostra famiglia. Ti facevi vivo solo raramente, quindi non vedevo il motivo di tenerti a distanza. D’altro canto Navar è un figlio di Mezzestate e…”
“E la paternità non fa differenza” concluse Navar per lei, con tono assente. “Sì, lo so, mamma. Ho visto altri figli di Mezzestate, di cui tutti conoscono i padri ma la cosa viene ufficialmente ignorata. Però, perché non hai pensato che io potessi desiderare di saperlo? Se altri come me possono avere un padre non ufficiale, perché non posso averlo anche io? Confesso che durante la mia infanzia me lo sono chiesto… chi fosse la persona da cui avevo ereditato metà del mio sangue.” Raccontò, abbassando progressivamente la voce. Non voleva criticare sua madre, né farla soffrire facendole credere che lei non fosse stata abbastanza. Lo era stata, ma spesso si era chiesto perché suo padre non si interessasse a lui. L’unica risposta plausibile era che la paternità non fosse certa. Le feste di Mezzestate sono sempre caratterizzate da eccessi e promiscuità.
“Non sono una persona adeguata a fare da padre” rivelò l’alicorn “e credo che una madre queste cose le intuisca a pelle. Ho avuto molti figli nel corso della mia vita, ho conosciuto solo alcuni di loro e non posso dire di aver avuto un ruolo importante nelle loro esistenze.”
I due elfi lo guardarono con espressione confusa.
“Ma se sei sempre stato qui… quand’è che hai avuto questi figli? E perché ne parli come se gli fossi sopravvissuto?” Indagò Amyl.
Bene, questo è il risultato dell’aver temporaneamente soppresso gli effetti del mio rituale di protezione. Pensò il ranger con fastidio. Gente che si fa domande su di me.
Raerlan non era abituato al fatto che il pensiero di qualcuno potesse restare focalizzato su di lui a lungo, quindi non era nemmeno preparato a rispondere a domande inquisitorie. Aveva appena parlato senza pensare; di solito non doveva preoccuparsi dei buchi logici nei suoi discorsi, perché la sua magia li colmava.
Non aveva davvero importanza, perché aveva deciso di raccontare parte della verità ad Amyl e a suo figlio, ma lo disturbava rendersi conto di essere un cattivo bugiardo.
“Non sono sempre stato qui. Io sono ospite in questa foresta.” Ricordò all’elfa.
“Ah… è vero, sì. Nessun alicorn è mai nato in questa foresta, si sarebbe saputo. Ma sei arrivato qui quand’eri molto giovane.”
“No, neppure questo è vero” la corresse lui, “è solo una cosa che lascio credere a tutti. In realtà sono molto più vecchio di quanto possa sembrare, perché nelle mie vene scorre sangue fatato.”
Anche questa confessione fu accolta da un silenzio attonito.
“E, ehm, di conseguenza anche nelle tue, Navar.” Continuò, per chiarire il concetto.
Amyl prese un profondo respiro.
“E non hai pensato di dirmelo?” Sibilò. Raerlan ricordò che solo pochi minuti prima aveva paura di lei, e forse era il caso di tornare ad averne. “Quando quella notte mi hai detto Non preoccuparti, bimba, se hai una possibilità di avere figli è con me, non hai pensato di dirmi che avrebbero avuto sangue fatato?”
“Ah… accidenti… te lo ricordi” borbottò il biondo, passandosi una mano dietro la testa. Quel discorso era stato davvero un po’ stupido, una sciocca vanteria e di certo uno strano modo per provarci, ma erano entrambi molto alticci. Amyl aveva la sbronza triste, quella notte, perché non riusciva ad avere figli, e Raerlan aveva fatto un po’ lo spaccone. Non immaginava che lei l’avrebbe preso in parola.
“Lo sai chi altri ha sangue fatato, mh? Lady Freya. Che per decenni ha avuto problemi a controllare sia la sua magia che il suo carattere. Non pensi che una madre dovrebbe sapere prima se suo figlio corre il rischio di subire certe instabilità? Avrebbe potuto mettersi in pericolo in mille modi!”
“Ehi, mamma, io sarei ancora qui” protestò il ragazzo, ma i suoi genitori lo ignorarono.
“Lady Freya discende da una ninfa” la corresse Raerlan, piccato. “Una fata dalla forte caratterizzazione sessuale. Navar è diverso. Io sono diverso. Hai visto bene com’è diventato il tuo figliolo: sottovaluta i rischi, ha un senso dell’umorismo un po’ invadente, è sempre giocoso ed è poco incline a rispettare le regole e le limitazioni. Ma non è poi così diverso da qualsiasi altro ragazzo della sua età.”
“Quindi è colpa del suo sangue fatato se una volta ha portato un asino sul tetto della locanda?”
“Non cominciamo a deresponsabilizzarlo” Raerlan mise le mani avanti “quella è la sua natura, ma è capace di intendere e volere.”
“E allora, se non è poi così diverso da un elfo, perché era importante che noi sapessimo tutto questo?” Domandò l’elfa, tirando le fila del discorso.
“Perché lui è comunque un po’ diverso dagli altri, ed è meglio che conosca se stesso prima di mettersi di nuovo in pericolo come oggi. Navar, sono convinto che tu ora sia abbastanza grande da sapere… ho capito che sentivi una connessione con quella belva distorcente, ma questo non è accaduto solo perché sei un druido. Alcune bestie sovrannaturali, come quella che oggi ti ha quasi ucciso, originariamente venivano dal Feywild, il Piano dove hanno avuto origine le fate. Molti millenni fa, anche gli elfi vivevano in quel luogo selvaggio, ma venendo a vivere sul Piano Materiale con il tempo hanno perso la loro natura fatata. Le belve distorcenti sono arrivate qui più o meno nello stesso periodo, e anche loro non sono più esseri fatati. Ma quelli come noi, che hanno ancora una forte connessione con il Feywild, sentono affinità per le creature che ne derivano. Per questo gli elfi, gli gnomi e gli spiritidi mi piacciono più di ogni altra razza umanoide, e probabilmente sarà lo stesso per te. Però devi tenerlo a mente: non tutte le creature per cui senti affinità sono buone. Le belve distorcenti un tempo erano pantere fatate che la Corte Unseelie usava per cacciare le creature buone o innocue, eppure perfino quelle fate malvagie avevano difficoltà a controllare quei mostri sanguinari. Le hanno scaricate quasi tutte sul Piano Materiale perché nel Feywild il loro numero stava crescendo a dismisura. Non sono bestie magiche con cui tu possa stabilire un legame pacifico, tienilo a mente, sono intelligenti e malvagie e davano la caccia anche ai loro simili.”
Navar aveva abbassato gli occhi sul copriletto, e sul suo braccio fasciato. “Ho capito.” Mugugnò. “Adesso mi devi fare un corso accelerato su quali siano le creature da evitare?”
Raerlan percepì una nota di risentimento, e si fermò a riflettere prima di rispondere.
Uhm… sua madre non gli ha mai detto di me, anzi, raccontava in giro di non ricordare chi fosse il padre del suo figliolo. Io stesso non gli ho mai detto niente, anche se sapevo. Adesso mi faccio vivo solo dopo che è stato ferito, per dargli indicazioni su come stare più attento in futuro. …Come reagirei se fossi un adolescente?
Su, dai, Raerlan, fai un piccolo sforzo. Se mio padre mi avesse parlato solo per insegnarmi a fare il ranger, come mi sarei sentito? Accidenti, se solo mi ricordassi qualcosa in più, su mio padre. Non mi ricordo com’è, fare il figlio.

“Tu sei… ar…rabbiato?” Tentò.
“Non lo so!” Sbottò Navar. “Ho il diritto di essere arrabbiato? Non credo, è evidente che di me non te ne frega una pigna! Quindi a cosa servirebbe? Non sei mai stato mio padre e non lo sei neanche adesso. Se vuoi darmi qualche consiglio di sopravvivenza, ti ascolterò, ma poi vattene per la tua strada.” Sciorinò il ragazzo, ostinandosi a non guardarlo in faccia.
“Oh, Navar…” Raerlan si sedette sul letto accanto a lui, sotto lo sguardo vigile di Amaryll. “Te l’ho detto, non sono bravo a fare il padre. Sono un cattivo esempio e sono poco responsabile. Mi dispiace, non posso essere una figura paterna per te, per nessuno, non mi sono mai sentito pronto a una cosa del genere. Però mi piacerebbe che restassimo in buoni rapporti, visto che entrambi saremo in circolazione per molto tempo.”
Questa informazione ci mise qualche secondo a decantare nelle menti di Navar e Amaryll.
“Che vuol dire che saremo in circolazione per un po’?” Scattò il giovane elfo. “Quanti anni hai detto che hai, esattamente?”
“Non l’ho detto” ammise l’alicorn. “E i miei figli di solito hanno la stessa aspettativa di vita dei normali elfi. Sembra che debbano piegarsi al decadimento fisico e alle malattie della vecchiaia. Però tu hai scelto di essere un druido. Sai che i druidi sono diversi. Invecchiano molto bene, non risentono degli acciacchi del tempo che passa, e i druidi elfi in particolare non mostrano neanche segni cosmetici di invecchiamento. Se continuerai su questo cammino, la tua reale aspettativa di vita si manifesterà appieno, perché il tuo corpo non verrà logorato dalla debolezza e dalle malattie.”
Improvvisamente il ragazzo sembrava aver messo da parte tutta la sua reticenza verso quel padre goffo e inadeguato. La sua curiosità era troppo grande per poterla contenere.
“Ma quindi cosa vuol dire?”
“Uno dei miei figli ha sentito la vocazione per diventare druido, molto tempo fa. Era nato nella foresta di Arcorar, in quella zona che oggi si chiama Foresta di Confine. Ha combattuto nella Guerra delle Ombre contro i drow, ma non è vissuto abbastanza per assistere alla vittoria del suo popolo; il conflitto alla fine gli è costato la vita. Aveva circa cinquemila anni quando è morto. Ho parlato con il suo spirito, mi ha detto che ha scelto di sacrificarsi in battaglia perché sentiva la sua morte naturale ormai imminente. Quindi… non è scolpito nella pietra, ma cinquemila anni è una stima ragionevole.”
Amyl e Navar lo fissarono in silenzio per un lungo, lunghissimo momento.
“Mi prendi in giro?” Domandò alla fine il giovane.
“No, ragazzo, per una volta sono del tutto serio. Ti sto dicendo la verità.”
“Ma… va bene, alcune fate sono immortali, ma i figli di fate e mortali di solito non vivono così a lungo.”
“Ci sono più cose in cielo e in terra, Navar, che nei tuoi studi da apprendista druido” Raerlan fece per dargli una pacca sulla spalla sana, ma l’elfo si scostò.
“Non trattarmi in questo modo! Non è che da un momento all’altro puoi prenderti questa confidenza, tutto quello che hai fatto è stato divertirti con mia madre e poi sei sparito. E adesso vieni qui solo per dirmi che… vivrò molto più a lungo di un normale elfo, con tutto quello che comporta?”
L’alicorn sembrò spiazzato davanti a queste accuse. “Ma… che cosa comporta? Tu decidi come vivere la tua vita. La tua longevità ha il significato che tu le attribuisci. Vuoi esserne felice? Sarai felice. Vuoi concentrarti sul fatto che vedrai morire i tuoi compagni perché hanno una vita più breve? Allora sarai triste. E allora? C’è sempre tristezza nella vita, indipendentemente dalla sua durata.”
“Se diventerò un druido millenario avrò delle responsabilità enormi verso la foresta, io, capisci, io che trovo ancora divertente allentare le cuciture dei calzoni del signor Tippet per fare in modo che si squarcino quando si piega a raccogliere le cose. Non sono la persona giusta per questa responsabilità, ho deciso di fare il druido solo per… curiosità verso il mondo naturale, per capire meglio questa connessione che ho con la foresta! Non sarò mai all’altezza di quel tuo figlio che è morto in guerra, io sono…”
“Un ragazzino di settantacinque anni” lo fermò Raerlan. “Quindi adesso smetti di montarti la testa e respira lentamente. Nessuno si aspetta l’impossibile da te. Vivi la tua età! Fai quello che ti senti. Il tuo fratellastro ha iniziato a mettere la testa sulle spalle solo quando ha superato la normale aspettativa di vita di un elfo. Lui non sapeva di essere così longevo, e nemmeno io sapevo che lo sarebbe stato, altrimenti gli sarei rimasto accanto. Ha visto morire i suoi amici, sua moglie, e qualche secolo dopo anche i suoi figli. Il dolore lo ha costretto a crescere. Non voglio che una cosa simile succeda anche a te, per questo ti sto avvertendo con largo anticipo. Se finirai per passare la tua intera vita con la stessa leggerezza che hai ora, per me sarà una vittoria, non una sconfitta.”

Navar davanti a questo discorso si calmò davvero, o almeno, non riuscì a trovare niente da ribattere. Nessuno gli aveva mai detto “anche se rimarrai infantile, va bene così”, tantomeno sua madre. Quale genitore direbbe questo al proprio figlio?
Ma Raerlan sta dicendo che essere infantile è la mia natura, e quindi se resterò così per tutta la vita sarà solo perché nessun fattore esterno mi avrà costretto a forzarmi, a cambiare. Come druido, dovrei sapere che il cambiamento è necessario, e che non dovrebbe incoraggiarmi a restare come sono ora.
Come figlio però, è commovente. A
qualcuno vado bene come sono. Lui è simile a me, mi capisce.
Forse è vero che a modo suo mi vuole bene. Deve essere così, ha corso un grande rischio consigliandomi di restare infantile proprio davanti a mamma.

Il pensiero di sua madre però lo costrinse a valutare anche l’altro lato della medaglia.
“Ho capito cosa vuoi dire, Raerlan” considerò, in tono più tranquillo. “Però non sono solo figlio tuo. Sono anche figlio di mia madre. Vorrei che lei mi vedesse diventare una persona responsabile, prima della fine della sua vita. Vorrei che fosse fiera di me.” Ammise, spostando lo sguardo sulla locandiera.
Amyl adesso aveva gli occhi lucidi per le lacrime. Accarezzò dolcemente la testa bionda del ragazzo. “Figliolo, io sono fiera di te. Non è facile essere madre, quando tu sei nato ho dovuto mostrarmi seria e responsabile, forzandomi, perché fino a poco prima anch’io ero piuttosto selvaggia. Ma come avrei potuto dirti che ero fiera di te anche quando hai portato quell’asino sul tetto della locanda? Voglio dire, tutt’ora non so come hai fatto, ma è stata un’impresa degna di nota e l’ho trovata dannatamente geniale; invece come madre ho potuto solo rimproverarti. Il fatto che tu mi metta in difficoltà perché sei socialmente imbarazzante, testardo e scavezzacollo, mi crea dei fastidi ma non mi rende meno fiera di te.”
“Non puoi rimproverarmi se sono socialmente imbarazzante, lo è anche l’uomo che hai scelto per essere mio padre, e perfino l’amante che ti sei scelta adesso.” Le fece notare l’acuto giovane elfo. “Però adesso, senza offesa eh, mi puoi spiegare perché Raerlan?”
Amyl divenne rossa quanto i suoi capelli.
“Non ti devo spiegare un bel niente!”
“Eravamo alticci, ti basti sapere questo” tagliò corto l’alicorn.
“Be’ ma allora come fai a sapere che sono esattamente figlio tuo?” Indagò il ragazzo. “Sento una connessione con la natura, sì, ma anche molti elfi. E sono scavezzacollo, ma non ho nemmeno cent’anni, non sono di certo l’unico!”
I suoi genitori rimasero per un momento in silenzio, evitando di guardarsi l’un l’altra.
“Io non posso avere figli” mormorò alla fine Amaryll, imbarazzata. “Da giovane ci avevo provato, e sai quanta poca pazienza possa avere un elfo giovane. Dopo i primi fallimenti andai subito da un guaritore. Pensavo di sentirmi dire le solite cose, che noi elfi siamo poco fertili e che avrei dovuto avere pazienza… invece mi disse che avevo già avuto un aborto spontaneo, anche se così presto nella gravidanza che non me n’ero accorta, e mi spiegò che ho un problema fisico che uccide il bambino dentro di me. All’epoca avevo un amante stabile, stavamo pensando di unirci in modo ufficiale e formare una famiglia, ma saputo questo non se la sentì di stare con me. Io non riuscii nemmeno a biasimarlo, mi sentivo inutile, difettosa. Quando arrivò Mezzestate non ero molto in vena di festeggiare, ma pensai che se poteva accadere un miracolo forse era solo quella notte. Mi ubriacai, e fu una nottata piuttosto promiscua, ma quella tristezza non mi voleva abbandonare. Poi, poco prima dell’alba, mi trovai a fare discorsi alcolici con un gruppetto di amici fra cui c’era anche Raerlan. Confessai che ero praticamente sterile, e lui cominciò a vantarsi…” la rossa lanciò un’occhiata di sfuggita all’alicorn, che ora sembrava molto in imbarazzo “della sua verga magica.”
L’alicorn emise un verso strozzato, e Navar scoppiò a ridere senza controllo.
“Non credo di aver detto queste esatte parole…” obiettò l’alicorn.
“Oh, sì, le hai dette!”
“Ma in tono autoironico!” Protestò. “Eri triste e volevo farti ridere!”
“Ah, ma che ne so, ero ubriaca” la rossa fece spallucce.
“Abbastanza ubriaca da vomitarmi addosso alla fine dell’atto” sorrise il ranger, che voleva renderle pan per focaccia.
“Oh sacro Corellon, te lo ricordi” Amyl si coprì il volto con le mani, e Navar, che stava appena riprendendo fiato, ricominciò a ridere ancora più forte di prima. “Ma è colpa tua, ero ubriaca e tu mi hai fatta oscillare troppo.”
“Va… va bene… niente… dettagli” pregò Navar, cercando di ricominciare a respirare. “Siete sempre i miei genitori, non voglio immaginarvi a fare cose.”
Raerlan gli sorrise e cercò di nuovo di mettergli una mano sulla spalla, e questa volta il giovane druido glielo lasciò fare. L’aveva appena riconosciuto come padre, dopotutto.

Al piano inferiore, un altro degli amanti di Amyl, anch’egli socialmente imbarazzante e potenzialmente un pessimo padre, stava prendendo confidenza con il lavoro al bancone.
Chiaramente le sue similitudini con Raerlan terminavano qui, perché l’alicorn avrebbe saputo cosa fare. Se non altro il ranger era bravo a parlare con la gente, Daren nemmeno quello.
“Un blumiele con una spruzzatina di vino granato e due ciliegie dentro?” Il drow guardò con estremo sospetto l’elfo dei boschi davanti a lui. Era convinto che si fosse appena inventato quella miscela complicata solo per dargli fastidio. “D’accordo, Elendyl, e il tuo ragazzo cosa prende?”
Gli occhi dorati dell’elfo per un momento furono attraversati da un’ombra di dubbio, poi si girò verso il suo compagno di bevute. “Raedeth, ma gli hai detto tu che stiamo insieme?”
L’altro elfo si strinse nelle spalle con una mezza risata. “No, sta solo implicando che la tua scelta in fatto di alcol sia poco virile.”
L’elfo bruno commentò solo con un cenno di comprensione e si voltò di nuovo verso Daren.
“Hai ragione, ho cambiato idea. Scusa sai, so essere così volubile. Fammi un ninniach”.
“Un cosa?” domandò il drow spiazzato, riconoscendo una parola poetica per indicare l’arcobaleno.
“Prendi un bicchiere di vetro. Poggialo sul quel banco di pietra con quei simboli magici, lì al centro del cerchio, e tocca i glifi magici che attiveranno un incantesimo di freddo. Poi comincia a versare, prima un dito di succo di prugna, che deve rimanere sul fondo. Dopo un minuto, quando sarà ben freddo, aggiungi un dito di succo di mirtillo, poi aspetta un altro minuto, poi ci versi un dito di liquore Loto Blu, poi aspetta due minuti, perché l’alcol è più difficile da raffreddare, poi un dito di succo di mela verde, attendi un minuto, un dito di idromiele e spegni l’incantesimo raffreddante. Nel frattempo fai scaldare a parte del succo di melagrana e agrumi, ma dev’essere appena tiepido, e aggiungi un dito di questo composto nel bicchiere. In cima ci aggiungi uno strato di passata di frutti di bosco, preferibilmente fragoline e ribes. In questo modo verrà un bel bicchiere con una bevanda arcobaleno, ma non devi sbagliare i tempi o i colori si mescoleranno fra loro.”
Ho una gran voglia di mescolarti i connotati, pensò l’arcigno guerriero, ma si costrinse a sorridere perché in quel momento era un cameriere.
“Sembra un disgustoso misto di sapori” ipotizzò. “Sei sicuro di volerlo?”
“Non deve essere buono” Elendyl si scambiò un’occhiata divertita con Raedeth “deve solo essere difficile da preparare.”
Daren prese un profondo respiro. “Fra un paio di giorni io e te potremmo essere di pattuglia insieme. Sei sicuro di volere questa bevanda?”
Elendyl capì che era una minaccia, e nemmeno tanto velata.
“Ne sarà valsa la pena” assicurò, con un gran sorriso.
“Sei un grande amico, Elendyl. Ammiro la tua fiducia nel commissionare una bevanda complessa a qualcuno che maneggiava veleni molto prima di compiere dieci anni.” Si complimentò il drow, con un sorriso così ampio da sembrare inquietante. Finalmente la sicumera dell’elfo sembrò vacillare un pochino.
Nel frattempo si era formato un capannello di gente intorno al bancone. Daren poteva udire i loro bisbigli e risatine. Stava creando un rallentamento nel lavoro, e cominciava a sentirsi molto fuori posto.
“Allora, che succede qui?” sopraggiunse lo gnomo, grazie al cielo. “Che ci fai tu, alle bevande? Ti avevo detto di prendere solo le ordinazioni.”
“Be’, tu eri sparito in dispensa e…”
E niente! Torna a fare il tuo lavoro, non sapresti preparare nemmeno un rum e viola.”
Daren decise di non interrogarsi su cosa fosse quella miscela dal nome poco appetibile, e cominciò a chiedere agli altri clienti che cosa volessero. Dopo aver ordinato, gli elfi andarono a prendere posto ai tavoli. Elendyl aspettò al bancone finché non ebbe ottenuto il suo calice di blumiele con le ciliegie. Daren aveva appena scoperto che il blumiele esisteva davvero, era un misto di idromele e succo di cavolo rosso che, una volta versato nel bicchiere, faceva reazione con una specie di zucchero e sembrava che diventasse blu per magia. Doveva essere una qualche alchimia da gnomi.
Ma il drow non aveva tempo per interrogarsi sui misteri della scienza gnomica, perché i clienti avevano iniziato a chiamarlo ogni piè sospinto.
Nel giro di un’ora il pub contò ventisette cucchiai caduti per terra che necessitavano sostituzioni, quattro casi di amnesia di elfi che gli chiesero di ripetere una lista delle bevande che bene o male non cambiava da duecento anni, dodici richieste particolari di modifiche ai piatti tipici, una bottiglia rotta e un fischio poco educato quando il drow si chinò a raccogliere i cocci. Aveva una mezza idea di chi fosse stato a fischiare, ma non poteva accusare due ranger di Myth Dyraalis senza prove.
Ma che succede oggi, dannazione, questo posto non è mai così pieno all’ora di pranzo! Imprecò mentalmente il guerriero.
Ovviamente si era subito sparsa la voce che l’elfo scuro stesse lavorando come cameriere, e contando le persone che erano lì solo per curiosità, e quelle che volevano davvero farsi una risata alle sue spalle, in definitiva sembrava che mezza città si fosse riversata nella taverna. Daren aveva sempre pensato che fosse un locale molto grande, ma adesso era più affollato che mai, e qualcuno si era addirittura seduto fuori, per terra, ordinando bevande dalle finestre.
“Oggi sto facendo affari d’oro” annunciò il signor Tippet, quando Daren tornò dietro il bancone dopo l’ennesimo giro fra i tavoli. “Però non so se possiamo reggere questo ritmo, il pub non è pensato per questa affluenza.”
“Comincio a pensare che sia colpa mia” borbottò il drow, esausto.
“Un sacco di cose sono colpa tua” lo gnomo si strinse nelle spalle. “Non buttarti giù, non sono arrabbiato!”
“Troppa grazia”, mormorò Daren fra i denti, in tono sarcastico. Afferrò un vassoio perché doveva fare un altro giro per recuperare le stoviglie usate, e quando si voltò di nuovo verso la sala… per la prima volta riuscì ad abbracciare l’intero panorama con lo sguardo.
Decine di persone. Accalcate. A malapena c’era spazio per passare fra i tavoli. Altra gente si era avvicinata al bancone e stava cercando di parlargli.
All’improvviso, il drow smise di sentirli. Quella cacofonia di suoni si fece distante, ovattata, mentre portava il vassoio di legno davanti al petto come uno scudo. La sua mano destra scese istintivamente a cercare l’impugnatura di una spada, che ovviamente non c’era.
Quando la sua mano si strinse intorno al nulla, Daren tornò in sé. Che cosa stava facendo? Perché stare in mezzo alla folla gli trasmetteva una sensazione di pericolo?
Ignorò gli elfi che stavano provando a richiamare la sua attenzione e camminò all’indietro fino alla porta per la cucina, quindi girò il pomello e si fiondò dentro. Richiuse subito la porta alle sue spalle e si appoggiò con la schiena contro lo stipite. La stanza era vuota, fatta eccezione per il simpatico cuoco gnomo che spignattava come un dannato. Il drow pensava che sarebbe stato meglio al riparo da quella confusione, eppure non si stava sentendo meglio. La grande cucina gli trasmetteva una sensazione di vuoto, di calma innaturale, rinforzando la sua convinzione di essere sotto assedio. Appena fuori dalla porta c’era il caos, e quindi, nel suo cervello abituato alla battaglia, fuori dalla porta c’erano aggressori.
Prima di allora non aveva mai affrontato una simile folla tranne che in guerra, e in quel caso era facile, doveva solo uccidere o essere ucciso.
Non aveva paura degli elfi nella locanda, la sua mente razionale sapeva che erano alleati, perfino amici. Però il guerriero non sapeva prevedere le sue stesse reazioni, perché non aveva nessuna esperienza di una situazione del genere. Per la prima volta, stava subendo un assalto di massa a cui non era legittimo rispondere con le armi.
L’altra porta della cucina, quella che dava sulle scale, si aprì cigolando. Per un momento da incubo, Daren credette che la folla avesse preso possesso del pub e stesse arrivando anche da lì. Invece no, naturalmente, era solo Amaryll.
Come la vide, il drow cercò di darsi un contegno, ma il sollievo nei suoi occhi era fin troppo evidente.
“Ah… Amyl, ciao. Va tutto benissimo, sì, sono proprio venuto in cucina per prendere… ehm…”
“Il coraggio, a due mani?” Gli venne in aiuto lei. “Hai lo stesso sguardo che avevo io al mio primo giorno.”
“Là fuori è pieno di pazzi” mormorò l’elfo scuro, abbandonando ogni pretesa di dignità.
Lei gli rivolse un sorriso così dolce e luminoso che riuscì quasi a dissolvere il pensiero di tutta quella gente che aspettava di bere, di mangiare, o in generale di interagire con lui.
“Tranquillo, adesso ci sono io. Mi metto subito a lavorare. Però, visto quanta gente c’è oggi, potresti continuare ad aiutare? Tu rimani al bancone e io mi muovo fra i tavoli?”
Daren la guardò con profonda gratitudine, perché si stava prendendo carico della parte più pesante del lavoro.
“Sì, va bene. E, Amyl… non penso che il tuo lavoro sia più facile del mio. Non l’ho mai pensato.” Chiarì, per correttezza.
“E certamente dopo oggi non sarai mai tentato di pensarlo!” Lo prese in giro lei, con un sorriso furbo. Si baciarono per qualche momento, lì nella cucina, con l’orda degli invasori appena oltre la porta. Una parentesi di pace in un pomeriggio che prometteva di essere burrascoso.

           

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Capitolo 12
*** 1361 DR: Il diavolo è nei dettagli, e non solo lui ***


1361 DR: Il diavolo è nei dettagli, e non solo lui


Quella sera Daren e Amaryll si addormentarono nel momento stesso in cui le loro teste toccarono il cuscino. Per l’elfa era una questione di stanchezza emotiva, dopo le preoccupazioni per suo figlio e le sconvolgenti rivelazioni della giornata. Per Daren… era comunque stanchezza emotiva, ma per altre ragioni.
Il drow non sognava spesso, ma quella notte rivisse come in un incubo il momento in cui quella pazza dell’amica di Amaryll l’aveva chiamato con un cenno e aveva ordinato un “Kalifein”, solo per poi rivelare che era il suo nome.
“Adesso che l’hai sentito non potrai più dimenticarlo, pezzo di merda”, aveva detto con un sorriso smielato e una punta di cattiveria. Poi aveva sollevato un coltello da burro, sempre con quell’espressione folle. “E ricordati che se fai soffrire la mia amica userò questo oggetto per farti a pezzi.”
Non era un coltello affilato, entrambi lo sapevano. Quindi, o l’elfa stava scherzando, oppure intendeva dargli una morte estremamente dolorosa. Lei però sembrava piuttosto seria, e Daren non voleva mettere alla prova le sue minacce.
Sognò che Kalifein lo pugnalava con una spatolina per aver dimenticato il compleanno di Amaryll, e si svegliò in ansia a notte fonda rendendosi conto di non aver mai saputo quando fosse, il compleanno di Amaryll.
Oh, maledizione! Non ho nessun obbligo di saperlo! si disse, stendendosi di nuovo sul materasso e fissando il soffitto con astio. Va bene, è chiaro che non riprenderò sonno, a questo punto.
La stanza di Amyl aveva solo una piccola finestra da cui filtrava poca luce. Le sagome e le ombre dei mobili erano a malapena distinguibili. La locanda di notte era avvolta nell’oscurità, rischiarata solo dai tenui fuochi fatui magici che illuminavano i corridoi, e dalla fioca luce delle stelle nelle stanze con finestra. Questo però non era mai stato un problema per il drow. Si alzò dal letto e recuperò i suoi vestiti e gli stivali, poi uscì, in perfetto silenzio. Si rivestì fuori dalla porta, per non rischiare di svegliare Amyl, e uscì a fare una passeggiata.

Più o meno nello stesso momento, un falco pellegrino volava sopra la città di Myth Dyraalis, descrivendo ampi cerchi. Era stanco e affamato, non aveva trovato molto da cacciare durante il suo viaggio, ma alla fine riuscì a individuare una radura nella fitta foresta e si diresse laggiù. Il mythal che proteggeva Myth Dyraalis non fermava gli animali privi di intelletto, quindi il falco passò indenne oltre la barriera, ma si accorse istintivamente del cambio di temperatura. All’interno della città il clima era più mite, e per un attimo il cambio di pressione destabilizzò l’uccello, ma un animale abituato a lunghi viaggi non si sarebbe lasciato fermare da una sciocchezza come quella. Riuscì ad atterrare indenne su un ramo. Nella sua mente era impressa l’immagine di una casa elfica, ma le case elfiche ai suoi occhi sembravano tutte uguali. Per fortuna il suo arrivo era stato notato da un ranger di pattuglia che lo chiamò con un fischio.
All'inizio il falco lo ignorò, perché aveva una missione da compiere, ma poi l’elfo ripetè il richiamo con un pezzo di carne in mano e il falco ricordò che aveva molta fame. Era un animale semi-addomesticato, abituato agli elfi della sua foresta natìa, e non vedeva differenza fra loro e questo ranger. Scese in volo verso di lui e si posò sul suo braccio proteso.
L’elfo dei boschi gli diede da mangiare (rischiando di farsi beccare un dito) e sfilò delicatamente il messaggio legato alla zampa del rapace. Era evidente che fosse un animale messaggero, i falchi sono animali diurni.
Il ranger svolse il messaggio mentre l’uccello volava via (non era stato addestrato a riportare una risposta), e cominciò a leggere voracemente, alla fioca luce delle stelle.

La mattina dopo Amyl si svegliò di buon’ora, come sempre. Si sentiva stranamente comoda, e presto scoprì il motivo: l’altro lato del letto era vuoto.
La sua stanza non era molto grande e il suo letto, di conseguenza, era spazioso per una persona sola ma scomodo per dormirci in due, e ormai si era abituata a svegliarsi in posizioni costrette quando Daren era suo ospite, rannicchiata contro il bordo del letto oppure sdraiata addosso a lui. All'inizio si chiese che fine avesse fatto, ma ormai la loro relazione era abbastanza consolidata e non si sentì mortificata per la sua assenza. Poco dopo si accorse che lui era in piedi davanti a uno specchio, vicino alla porta d’ingresso.
“Daren? Già in piedi?”
“Mi sono svegliato in piena notte e non riuscivo più a dormire” spiegò lui, anche se dalla voce non sembrava per nulla assonnato. “Sono uscito a fare una passeggiata e sono rientrato da poco.” Mentre raccontava seguitò a guardarsi allo specchio, passando un pettine fra i lunghi capelli chiari.
Amyl si alzò e camminò a piedi nudi fino a lui, gli tolse dolcemente il pettine dalle mani e lo aiutò a sbrogliare i nodi che da solo non riusciva a raggiungere.
“Ti ho visto raramente con i capelli sciolti” commentò lei, giocando con le sue ciocche.
“La mia treccia ormai era scompigliata e in disordine, era tempo di rifarla” fu la spiegazione pratica. “Ieri continuava ad impigliarsi nel gancio del grembiule... e comunque doverlo indossare è stata una cosa gratuita e fastidiosa.”
“Ti sei rovesciato addosso mezza pinta di birra, per questo ti hanno dato un grembiule” lei alzò gli occhi al cielo.
“Mi hanno fatto lo sgambetto! Me ne sono accorto, anche se non so chi sia stato. Uno come me non inciampa e basta!”
“Come vuoi” Amyl decise che non aveva senso insistere, e continuò a pettinare i suoi capelli fino a sciogliere tutti i nodi. “Mi piacciono i tuoi capelli, non riesco a capire se siano bianchi o argentei…”
“Un po’ e un po’, in realtà” borbottò Daren controvoglia “quando un maschio drow invecchia i suoi capelli tendono a diventare argentati o grigi”.
Amyl rimase a bocca aperta per questa ammissione. “Ma quanti anni hai?”
“Uh… sono nato circa duecentosessanta anni fa, ma se conti i periodi in cui sono stato morto, ho qualche anno in meno. Non ho mai capito bene come calcolare la mia età.”
“Non sono tanti comunque!” Amyl sorrise per tirargli su il morale e gli restituì il pettine. “Sei coetaneo di Johel, più o meno. Pensavo che ti colorassi i capelli per via della tua religione.”
“Non li coloro” tagliò corto il drow, anche se dentro di sé sapeva che la supposizione dell’elfa non era così sbagliata. Era vero che la vicinanza costante della sua dea stava lentamente modificando il suo aspetto. I suoi capelli stavano diventando argentei prima del tempo, e talvolta gli sembrava di cogliere un bagliore argentato anche nei suoi occhi grigi. Temeva che un giorno non si sarebbe più riconosciuto allo specchio, per questo aveva molto a cuore quei piccoli dettagli fisici che gli ricordavano che lui era… be’, lui.
La sua treccia era uno di essi, quindi si mise subito all’opera per rifarla. Si mise il pettine fra i denti perché gli servivano entrambe le mani libere.
“Perché non li lasci sciolti, per una volta? Ti stanno molto meglio.” Gli consigliò Amyl, mentre andava a recuperare i suoi vestiti.
“Quehto non ahhatrà mai” rispose lui in tono deciso. Il suo tono fu in qualche modo reso ridicolo dal pettine che aveva in bocca. Lo riprese in mano il tempo sufficiente per recuperare qualche ciocca che si era data alla fuga. “Solo i drow nobili possono tenere i capelli lunghi sciolti, o usare acconciature elaborate. Nella mia città natale c’è un rigido codice estetico. I cittadini comuni si legano i capelli in una singola treccia semplice.” Spiegò, poi lanciò il pettine sul letto di Amyl perché non gli serviva più, e finì rapidamente di intrecciare le ciocche.
“Ma non vivi più in mezzo ai drow.”
“Non importa. Mi ricorda chi sono e da dove vengo. Mi ricorda… il mio posto.” Raccontò, abbassando progressivamente la voce. “Mi ricorda dove mi hanno portato le mie ambizioni smodate.”
La locandiera fu molto colpita da questo discorso, non tanto per i contenuti, ma perché intuiva che l’elfo scuro le stava lasciando intravedere qualcosa del suo passato che ancora lo tormentava. Era chiaro che parlarne gli faceva male, e lei non voleva insistere, ma tornò vicino a lui e si infilò tra le sue braccia.
“Ovunque ti abbiano portato le tue azioni in passato… alla fine ti hanno portato qui. La nostra vita non è mai fatta di compartimenti stagni. Ogni cosa è conseguenza di qualcos’altro, no?”
Daren per un istante restò senza parole. Certo, l’elfa aveva ragione, lui lo sapeva. Se da giovane non avesse fatto scelte così sbagliate, forse sarebbe rimasto per sempre un normale drow, o forse sarebbe morto. In ogni caso non sarebbe arrivato in Superficie, non avrebbe mai stretto amicizia con Johel, non sarebbe diventato l’amante di Amyl né avrebbe scoperto di essere fratello di Krystel.
Lo sapeva, ma questo in qualche modo peggiorava le cose.
“Non è giusto” mormorò infine, con un nodo in gola. “Non è giusto che i miei errori mi abbiano portato qui. Ho fatto una cosa terribile… più di una, immagino, ma ai miei occhi ho fatto una cosa inaccettabile, e come conseguenza ho trovato degli amici, una famiglia e una persona come te.” Strinse Amyl un po’ più forte, senza accorgersene, e le passò una mano dietro la testa in una carezza possessiva. “Che senso ha tutto questo? Tu che sei sempre stata una brava persona, che conosci la differenza fra il bene e il male, dimmi: è mai possibile che una cattiva azione porti a una ricompensa?”
Amyl non sapeva che cosa fosse l’azione passata per cui Daren si tormentava ancora, ma sapeva - i chierici erano stati chiari con tutti a proposito di questa cosa - che uno come lui, un senza-ombra, doveva aver commesso qualche turpe crimine in passato. Però avevano rassicurato la popolazione che questo crimine non aveva niente a che fare con gli elfi di Superficie, perché era stata la prima cosa che avevano controllato, decenni prima. Nessuno poteva essere investito del titolo di Ruathar, Amico degli Elfi, se aveva commesso crimini contro la razza elfica… nemmeno se poi se n’era pentito.
Adesso la donna cominciava anche a capire come mai in tutti quei decenni lui non fosse ancora riuscito a riguadagnare la sua ombra. Come poteva ottenere il perdono, se lui stesso si giudicava così duramente?
“Non so se una cattiva azione dovrebbe portare a una ricompensa” sussurrò infine, accarezzandogli la schiena nel tentativo di fargli sentire la sua vicinanza. “Però so che credo in quello che ho detto prima: ogni cosa è una conseguenza di qualcos’altro. Anche la tua azione malvagia. Io non credo che tu fossi cattivo tanto per. Non credo che tu agissi senza ragioni.”
“Rancore. Ti sembra una ragione valida?”
“Molto valida” l’elfa lo sorprese con questa risposta, e quando lo guardò negli occhi Daren vide solo determinazione nel suo sguardo. “Il rancore nasce solo a seguito di un torto!”
“Era un torto percepito, non reale” balbettò lui.
Questo la rese ancora più triste, perché intuì come dovesse essersi sentito lui. “Allora capisco meglio il tuo senso di colpa, ma hai agito in base a quella che credevi la verità, i tuoi sentimenti in quel momento erano legittimi.”
“Erano sbagliati” insistette lui.
“Erano sbagliati, sì, l’odio è spesso sbagliato, il desiderio di vendetta è sbagliato e non porta a nulla di buono. Ma è comunque legittimo. Le due cose non si escludono. Tutti siamo fallibili, Daren, specialmente qualcuno che non è cresciuto con valori sani. Eri un drow normale, hai replicato l’unico schema che conoscevi.”
“Ero comunque una persona senziente” obiettò lui, ma cominciava a capire il punto di vista di Amyl. “Non so cosa tu sappia del mio popolo, ma non siamo incapaci di ragionare e di provare sentimenti positivi. Veniamo solo… dissuasi dal farlo.”
“Quanti di voi riescono ad andare oltre la loro educazione? Spontaneamente, intendo.”
“Vuoi dire… senza affrontare la realtà in modo traumatico come è accaduto a me, oppure senza essere presi da piccoli ed educati in modo diverso come mia sorella?” Ci pensò per un momento, rimandando alla mente le sue conoscenze all’interno del suo culto e le dicerie che aveva sentito all’infuori di esso. “Non lo so. Uno su… migliaia… forse.”
“E quindi hai la presunzione di essere proprio tu quell’uno su migliaia?” Amyl gli diede una piccola spinta, allontanandolo da sé.
“Non ero del tutto anaffettivo” sbottò lui. Non aveva intenzione di rivelarlo, era il pensiero che gli bruciava di più, non voleva ammetterlo a parole. Eppure l’insistenza di Amyl glielo stava facendo sputare. “Questo è il problema! Quando ero bambino ho voluto bene a mio fratello, certo, a modo mio, come un drow, ma gli ho voluto bene. Quando lui è morto ho giurato a me stesso di non cedere mai più a sentimenti così stupidi e inutili. Ma poi l’ho fatto di nuovo! Avevo un amico a Menzoberranzan, so che era un’amicizia di convenienza ma era molto più di quanto avesse la maggior parte di noi, e a modo suo era reale. Se tutto questo è stato possibile, è perché ho sempre avuto un animo debole, propenso alle emozioni, perfino a quelle positive. Ho ucciso innumerevoli volte, e spesso per odio, non per abitudine. Odiavo in modo viscerale perché capivo che c’era qualcosa di sbagliato in… in tutta la mia vita… e mi manda in collera il fatto di non aver saputo capire cosa fosse! Odiavo chiunque mi fosse superiore in rango, tranne il mio amico mago. Se sono riuscito a provare amicizia per qualcuno che avrei dovuto detestare, significa che… il mio cuore aveva tutti gli strumenti per capire, eppure non l’ha fatto. Non posso essere indulgente con me stesso, perché non ho visto la realtà delle cose anche se era proprio lì davanti ai miei occhi” raccontò, prendendo a malapena fiato.
Evitò di incrociare lo sguardo di Amyl, perché non sapeva come avrebbe reagito. Forse lo stava compatendo, e il pensiero era umiliante. Forse invece aveva paura di lui, perché non avevano mai parlato dell’epoca in cui era uno spietato assassino; vedere l’incertezza nei suoi occhi sarebbe stato ancora più doloroso.
Lei non lo costrinse a guardarla in faccia. Invece, lo abbracciò di nuovo.
“Forse era così anche per altri” sussurrò. Daren si irrigidì, non per il disagio ma per la sorpresa. Non si aspettava un simile pensiero, non da un’elfa. “Io non so molto di come viva la tua gente, però… provare sentimenti è normale. Negativi, o positivi, è comunque qualcosa. La tua razza cerca da più di diecimila anni di eradicare ogni sentimentalismo, però… forse in fondo in fondo, da qualche parte nel vostro animo, sapete di essere elfi. Forse ci sono cose che non si possono sopprimere del tutto. Capisco che per molti drow questa educazione porti...” ci pensò brevemente, cercando le parole “a vivere di odio. Ma che cos’è che odiano? La società, la vita, gli altri drow, le altre razze? Tutto questo mi sembra un chiaro sintomo di una istintiva rabbia, forse sapete che qualcosa vi è stato tolto e non capite cosa. Se non foste capaci di provare sentimenti, non vivreste nell’infelicità, credo.”
L’elfo scuro lasciò che le sue parole sedimentassero per qualche momento nella sua mente.
“Hai un’idea troppo romantica del mio popolo” sorrise alla fine, accarezzandole la testa. Le sue parole l’avevano rincuorato, suo malgrado; non perché ci credesse, ma perché gli piaceva quel punto di vista. “In fondo in fondo possiamo anche essere elfi, ma un normale drow non avrebbe il minimo rimorso a tagliarti la gola.”
“Non sono completamente stupida” ridacchiò lei. “Ma vorrei che tu ammettessi che eri semplicemente una persona normale, così come io sono una persona normale. Non c’è niente di vergognoso in questo.”
“Ah, un’elfa che dice a un drow che non c’è niente di vergognoso nell’essere un normale drow. Potrebbero cacciarti dalla foresta anche solo per averlo pensato!”
“Se tu fossi ancora un normale drow, avrei già chiamato le guardie. Anzi, non saresti nemmeno qui.” Sorrise con aria complice e si sporse per baciarlo. “Ma adesso non sei più normale, sei un Ruathar, e noi non concediamo questo onore a chiunque. Mi hai chiesto se essere qui sia una specie di premio per le tue cattive azioni. No, non lo è. Sai benissimo che è una specie di premio per le tue buone azioni.”
“Non è merito mio” si schernì lui. “Johel mi ha insegnato come vivere in Superficie, e l’ha fatto senza motivo.”
“Johel ha visto qualcosa di buono in te.” Indovinò lei. “Nessun elfo dei boschi si fiderebbe alla leggera di un drow.”
“Johel è stupido come un asino e due volte più testardo” la corresse il guerriero. “Mi ha dato il tormento finché non siamo diventati amici.”
“E tu non l’hai ucciso mentre ti dava il tormento, quindi aveva ragione lui.” Gli fece notare lei, e Daren gemette come un gatto preso a calci, perché sapeva che l’elfa aveva ragione. “Forse quello che ti stava offrendo era proprio ciò di cui il tuo animo debole aveva bisogno. Ciò di cui ogni maledetta persona al mondo ha bisogno. Qualcuno con cui sentirsi a casa.”
Daren ci rifletté in silenzio, aggrottando la fronte. Non aveva mai capito perché Johel gli avesse dato fiducia, e probabilmente era destinato a non capirlo mai, ma era felice che l’avesse fatto.
“Pensi che dovrei sentirmi a casa in questa foresta, con queste persone che mi maltrattano e mi ordinano bevande arcobaleno?”
Amaryll rise di cuore, e la sua risata era fresca come la pioggia di primavera. “Puoi provare a lavorare sul tuo rapporto con gli altri! Ma mi piacerebbe che prima lavorassimo sul nostro.”
“Uh, in che modo?”
L’elfa ripensò ai consigli delle sue amiche, sia a quelli generici che a quelli dettagliati. Le ragazze sarebbero arrivate per la colazione solo fra una mezz’oretta.
“Mi piacerebbe che tu provassi a fidarti di me. So che alcune cose ti mettono in allarme, ma sai che io ti voglio bene e non desidero farti del male.”
“Sì, lo so, ma non capisco dove vuoi arrivare.” Il drow fece un passo indietro, sospettoso.
“Ieri ho apprezzato tantissimo quello che hai fatto per me, soprattutto perché non è nella tua natura. L’ultima cosa che voglio è metterti di nuovo a disagio, non voglio che associ il tempo passato con me a sentimenti come l’ansia. Però vorrei che almeno provassi a rilassarti e a lasciarmi fare qualcosa.”
“Se… se vuoi prendere il controllo a me va bene, sono abituato al fatto che le donne a letto decidano cosa devo fare.”
Amyl prese un respiro profondo, raccogliendo il coraggio.
“Io vorrei che tu non facessi nulla. Vorrei che per una volta lasciassi lavorare me. In modo… non reciproco.”
Daren all’inizio non capì, poi un sospetto cominciò a farsi strada nella sua mente.
“Oh cielo. Non so, mi sembra una cosa innaturale, perversa.”
“In una coppia è una cosa normale” la ragazza cercò di tranquillizzarlo. “Tu fai qualcosa per me, io faccio qualcosa per te; in tutti i nostri incontri precedenti tu hai fatto tante cose per me. Quindi, per favore… tu mi piaci moltissimo e vorrei un po’ più di parità nel nostro rapporto.”
“Se ti dico di sì, mi troverò in una posizione assurda e inconcepibile. Se ti dico di no, significa negare il desiderio esplicito di una donna, che è una cosa assurda e inconcepibile. Amyl, tutto questo è… soltanto folle.”
“Possiamo cominciare con qualcosa di molto tranquillo” propose lei. “Qualcosa che per la tua mente non sia uno sbilanciamento di ruoli. Sai che noi elfi non tocchiamo nessuno senza il suo consenso, ma mi piacerebbe che mi dessi un po’ di fiducia. Sono molte settimane che ci frequentiamo, mi hai vista in momenti decisamente brutti, e io ho visto te in stato di crisi, sia ieri che stamattina.” Ricapitolò lei. “Se sei stato in grado di cercare conforto emotivo da me, puoi permettermi di darti anche conforto fisico.”
Il drow realizzò solo allora che sì, era vero, era illogico e ipocrita da parte sua fidarsi di Amyl al punto di aprirle il suo cuore, ma non abbastanza da lasciarla giocare con il suo corpo. Dopotutto la richiesta di Amyl poteva essere vista come un normale desiderio di controllo, che però prendeva una direzione un po’ eccentrica. Elfica.
“Possiamo provare” decise, infine. “Ma non posso prometterti che sarò a mio agio.”
“Prometto che proverò a metterti a tuo agio, quantomeno” gli assicurò Amyl, e lui non aveva motivo di non crederle.

Una mezz'oretta dopo, Amyl si sedette al tavolo delle sue amiche, leggermente in ritardo. Di solito si legava i capelli in modo elaborato per quei loro incontri, ma questa volta non ne aveva avuto il tempo. Le altre lo notarono subito, e si scambiarono sorrisetti complici.
“Allora?” Fu Freya a prendere la parola, perché come sempre era la più sfrontata. “Come mai questo ritardo? Hai qualcosa da raccontare?”
Amyl si versò una tazza di tisana, e dai suoi gesti posati fu subito chiaro a tutte che l’elfa non sprizzava gioia, anche se non sembrava nemmeno seccata.
“Non molto. Abbiamo… cominciato qualcosa.” Sussurrò.
“Cominciato?” Sillabò Kalifein, senza dirlo a voce alta.
“E non abbiamo finito” mugugnò la rossa, un po’ mortificata. “Arriva un punto oltre cui… insistere diventa inutile. Ma abbiamo cominciato, ed è un grande passo avanti considerando le sue obiezioni passate.”
Freya fece un’espressione dubbiosa, Pilindiel si strinse nelle spalle perché non riusciva nemmeno a capire certi problemi in una coppia, ma Aphedriel si mostrò molto incoraggiante.
“Hai ragione, è un buon inizio” assentì. “Quando qualcuno si sente a disagio le cose possono non funzionare subito, o non sembrare naturali. Ma secondo me con l’abitudine il disagio svanisce, e le cose andranno sempre meglio, a patto che tu non faccia troppe pressioni.”
Amaryll le rivolse uno sguardo carico di gratitudine. “Sì, lo penso anche io. Non insisterò, ma ogni tanto riproveremo. Siamo elfi, abbiamo moltissimo tempo davanti a noi.”

In quello stesso momento, un drow ancora mortificato camminava fra gli alberi della città, senza una meta, solo per svagare la mente. Era stato un completo disastro. Durante l’atto si sentiva fuori luogo perché stavano facendo una cosa che avrebbe dato piacere solo a lui, e questo lo bloccava, ma allo stesso tempo il fatto di non arrivare da nessuna parte gli metteva ansia perché non stava rispettando i desideri della sua amante. Alla fine Amyl si era arresa, e non si era nemmeno arrabbiata. Era stata dolce e comprensiva e questo era stato come un pugno nello stomaco.
Certo, era stato anche tranquillizzante. Lui aveva fallito nel compiacerla e lei aveva detto che andava bene lo stesso, e che era felice che ci avessero provato. Questo era… un ottimo presupposto per provare di nuovo in futuro.
È proprio vero: non conosci il carattere di una persona finché non la deludi, ragionò fra sé e sé. Ma questo mi fa sentire in colpa per avere fallito, e per avere dubitato di lei.
Va bene, farò meglio la prossima volta.
Decise, risoluto.
Nel suo vuoto peregrinare non si accorse che era arrivato quasi ai limiti della città. Decise di tornare indietro, forse sarebbe andato a trovare Johel, visto che per le prossime due settimane l’elfo sarebbe rimasto in città e quindi non avrebbero pattugliato insieme.
Era quasi tornato alla piazzola davanti alla Casa degli Scapoli, quando lady Merildil sbucò da dietro un albero e gli si parò davanti.
“Daren, ti cercavo!” La druida sembrava avere fretta, e tutto nella sua postura indicava che era a disagio. “Hinistel ha avuto una premonizione inquietante e vorrei che tu andassi a controllare le gallerie.”
“Uhm… va bene. Quando?”
“Adesso. Mastro Wilhik è già alla Porta dei Monti con le mappe e le tue armi.”
Cosa?” Daren era incredulo, e anche un po’ offeso. Non gli piaceva che qualcun altro toccasse le sue armi.
“Mi dispiace, credimi, ma ci sembra una cosa molto urgente.”
Il guerriero s’incupì un po’, perché non avrebbe nemmeno avuto il tempo di salutare Amaryll, Johel o Jaylah, ma se Merildil diceva che era urgente allora lui doveva fidarsi e partire.
“Va bene, vado subito. Puoi passare alla Casa degli Scapoli, per favore? Ho soggiornato lì la notte scorsa e… uhm…” Aveva parlato senza pensare e ora era un po’ in difficoltà. Non avrebbe potuto sostenere che avesse in programma di dormire lì anche stanotte, perché nel pomeriggio o verso sera avrebbe comunque dovuto lasciare la città per tornare al suo dovere di pattuglia. Non poteva nemmeno dire di dover pranzare lì perché aveva un anello magico che gli rendeva superfluo il cibo, e tutti lo sapevano. “Ho dimenticato lì una cosa. Puoi dire alla locandiera che tornerò a prenderla quando sarò di nuovo in città?”
La druida sorrise con una certa condiscendenza. “Ma certo, ci penso io. Buon viaggio, e gra… uhm, buon viaggio e basta.” Si corresse, perché lui aveva già cominciato a guardarla male.

Una decina di minuti più tardi, Merildil raggiunse suo marito nella piazza principale.
“È andato?” Mormorò Fisdril, guardando nervosamente verso nord.
“In fretta e senza fare domande” rispose la dama a bassa voce.
“Siano ringraziati i Seldarine. La delegazione sta per arrivare. Che gli hai detto per farlo partire?”
“Che sospettavamo problemi dal sottosuolo. Questo dovrebbe tenerlo lontano dalla vista.”
Lord Fisdril tirò un sospiro di sollievo. A volte dimenticava quanto fosse fortunato ad avere una moglie intelligente e con pochi scrupoli.

           

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Capitolo 13
*** 1361 DR: Famiglia, amici e alleati di vecchia data ***


1361 DR: Famiglia, amici e alleati di vecchia data


Jaylah era una bambina con una missione. Anzi, di più. Con uno scopo nella vita.
Il fatto che avesse scoperto la sua vocazione solo il giorno prima non la rendeva meno vera, o così sembrava a lei.
Per capire meglio la situazione, però, è necessario fare un passo indietro.
Il giorno prima, dopo aver mangiato la torta con quella simpatica signora del pub, la bimba era tornata fuori per giocare con i suoi amici (ogni dissapore era già stato dimenticato). Solo che purtroppo non li aveva più trovati, perché si erano spostati in un altro punto della città. Jaylah era sicura che suo padre fosse ancora in quel posto che puzzava di schifezza, quindi non aveva voluto cercarlo. Nel frattempo, vedendola gironzolare da sola, un elfo che non conosceva si era affiancato a lei e si era chinato per parlarle faccia a faccia.

“Aaye, signorina” la salutò lo sconosciuto. “Ti sei persa?”
Jaylah lo guardò in tralice. Sua madre le aveva sempre raccomandato di non parlare con gli estranei, ma in questa città di elfi aveva l'impressione che valessero regole diverse. Tutti parlavano con tutti, e sembrava che suo padre si fidasse di ogni singolo abitante di Myth Dyraalis.
“No. La mia nonna abita qui vicino.” Spiegò, agitando una manina in modo noncurante. “Io cercavo i miei amici pe’ giocare, ma non ci sono più.”
“Posso aiutarti a trovarli, se vuoi. Mi chiamo Aelrindel, sono un ranger.”
Il visetto scuro di Jaylah si illuminò. “Anche il mio papà è un ranger!” Esclamò tutta contenta, dimenticando ogni diffidenza.
“Sì, lo so. Johlariel Arnavel, uno dei migliori ranger della foresta. Tutti conoscono tuo padre. E anche tuo zio. Per me sarebbe un onore aiutarti a ritrovare i tuoi amici.” Sorrise in modo bonario davanti alla sorpresa della bambina. “I ranger aiutano le persone, lo sai?”
La bambina rimase estasiata per la scoperta che anche suo padre fosse uno che aiutava le persone. Accettò di farsi aiutare e il giovane elfo la caricò sulle spalle, in modo che potesse vedere più lontano e che non si stancasse troppo. Myth Dyraalis è una città grande, quando le tue gambe sono tanto corte.
Dopo aver battuto le vie principali (e salutato molti elfi di passaggio), decisero di inoltrarsi in qualche sentierino laterale… e fu lì che Jaylah vide qualcosa che le fece completamente dimenticare i suoi propositi.
“Lì! Quello! Che cos’è?” Tirò una ciocca di capelli al suo galoppino, che trattava già con familiarità.
L’elfo deviò lo sguardo verso la direzione indicata dalla piccola e vide qualcosa di minuto e colorato per terra. Si avvicinò, ma temeva di sapere cosa fosse.
“È un uccellino” notò.
“Perché non vola?” Inquisì la bimba. “Gli uccellini stanno in cielo!”
Il ranger si chinò e poggiò a terra Jaylah, poi con molta delicatezza raccolse l’uccello. Era vivo, ma aveva un’ala spezzata. Per forma e dimensione era simile a un pappagallino, il piumaggio era di un rosso vivace che virava verso l’arancione sulle penne delle ali e della coda, e il becco e le zampe erano grigio-neri. I suoi occhi non rivelavano una particolare intelligenza, ma quando aprì il becco, fu per parlare.
“Molto lieto di non averti mai visto prima” recitò, con una vocetta squillante.
Il volto di Aelrindel passò rapidamente dalla preoccupazione alla curiosità, poi alla rassegnazione.
“Oh… non è un normale uccellino. È un corollax. Anzi, è il corollax.” Jaylah lo guardò senza capire, ma lui si limitò a sospirare. “Molto tempo fa, tuo zio ha trovato questo uccellino in un mercato, lo ha comprato e poi lo ha liberato qui, perché c’erano delle femmine. Da allora lo stormo di corollax è cresciuto molto, e ora che ci penso… questo uccello dev’essere abbastanza vecchio. Si è rotto un’ala, vedi? Non può più volare. Credo che sia arrivato alla fine.” Lo disse in tono del tutto neutro, perché gli elfi dei boschi sono abituati al ciclo della vita, e quindi all’idea della morte. Non aveva considerato che Jaylah era ancora troppo piccola per simili discorsi.
La bimba spalancò gli occhi e scoppiò a piangere all’improvviso.
“No… ehi… signorina… non piangere” il ranger cercò di calmarla, senza molto successo. Aelrindel era troppo giovane per avere figli, non capiva i bambini e non si aspettava quella reazione viscerale.
“Uccellino sta male” si disperò la ragazzina. “Vollio che vola di nuovoooo” lamentò, trasformando le parole in versi di pianto senza nemmeno riprendere fiato.
Aelrindel si stava già pentendo di essersi offerto di aiutare questa piccola piaga ambulante.
“Va bene, senti cosa possiamo fare… troveremo qualcuno che lo guarisca.”
Jaylah si calmò un pochino e il suo pianto disperato divenne una specie di singhiozzo. “Sì… lo doviamo curare! La mia mamma sa come si fa, ma…” altra piccola crisi di pianto “Lei è tanto lontana”.
“C’è qualcun altro a cui possiamo chiedere. Magari un druido.” Propose, in tono ottimista.
“Co… cos’è un dudo?”
“Lo vedrai.” L’elfo si assicurò che l’uccellino riposasse comodamente nella sua mano, poi si chinò per consentire a Jaylah di risalire sulla sua schiena. “Andiamo a cercare lady Merildil.”
Fu così che quel giorno Jaylah scoprì un sacco di cose interessanti. Per esempio, che sua zia Merildil era una druida, e che poteva guarire gli animali con una carezza e un piccolo incantesimo. Scoprì anche che con l’arrivo della stagione fredda molti uccelli si ferivano, a causa della differenza di temperatura fra la città e la foresta all’esterno, perché passare da un clima all’altro causava scompensi di pressione e problemi nel volo (ovviamente non capì una parola di tutto questo, ma nella sua fantasia l’inverno si prospettava come una stagione in cui gli uccelli si sarebbero schiantati a terra dal cielo, a pioggia).
Scoprì anche che il corollax è un piccolo grazioso animale magico che può imparare a ripetere alcune frasi come un pappagallo, e che quel corollax in particolare conosceva un sacco di parolacce.
“Zia Mary” chiamò, perché il nome Merildil per lei era troppo complicato. “Che cosa vuol dire na… dou… uan?” si sforzò di ripetere la parola così come l’aveva sentita.
“Non vuol dire niente” spiegò la druida, con fretta eccessiva. “Ma tu non lo devi ripetere mai.”
“È una parolaccia come vyshaan?”
“Chi ti ha insegnato queste brutte parole? Ah, non dirmelo, è stato tuo zio.” Indovinò, e ovviamente aveva ragione.
“Vento di culo esce dalla tua bocca!” Intervenne il corollax, puntuale.
“Ancora qui sei, tu? Sciò, vattene via, torna al tuo stormo!” Merildil cercò di cacciare l’uccello, ma il piccoletto svolazzò a pochi metri di distanza e si posò su un ramo, fissandole con sguardo vacuo.
Visto che non riusciva a convincerlo con le buone, Merildil scoccò al pennuto un’occhiata di fuoco e si trasformò in una grossa aquila nera. Riconoscendo all’istante un predatore pericoloso, il corollax prese il volo con tutta la rapidità concessa dalle sue ali nuovamente sane. Il grido confuso di “schiodati dalle palleeee” accompagnò la sua fuga disordinata.
Merildil tornò alla sua normale forma elfica, con espressione annoiata, come se avesse appena svolto una fastidiosa incombenza quotidiana. Non si era accorta che adesso la giovane figlia di suo nipote la stava guardando con occhi sgranati.
“Tu… zia… eri un uccellino… poi eri di nuovo tu!” Boccheggiò la bambina, colma di meraviglia.
“Ma certo.” Merildil aggrottò la fronte, senza capire la sua sorpresa. I bambini elfi assistevano fin dalla primissima infanzia a simili prodigi. “Sono una druida.”
A Jaylah brillavano gli occhi, e non serviva la telepatia per indovinare che in quel momento stava pensando una cosa sola: anch’io!
“Dai, su” sospirò Merildil, prendendola in braccio e mettendosi in cammino. “Ti porto dalla nonna. È quasi ora di pranzo e sarà preoccupata per te.”
“Non ho fame” protestò Jaylah, divincolandosi fra le braccia della zia. “Non vollio la pappa, vollio essere una dudula!”
“Quando sarai grande, tesoro” promise l’elfa, sapendo che per allora la ragazzina avrebbe potuto cambiare idea seicento volte. “Nel frattempo pensa solo a crescere forte e sana.”
“Ma ho mangiato la torta prima” assicurò Jaylah “con quella signora carina che si dà i baci co’ lo zio Daren”.
Questa volta Merildil si fermò di colpo. “Quale signora carina?”

E questa è la storia di come Jaylah si era messa in testa di avere una missione: salvare tutti gli animali feriti della foresta (soprattutto gli uccellini), e diventare una druida.
È anche la storia di come Merildil era venuta a sapere della relazione semi-segreta fra Amaryll e Daren, ma la moglie del capoclan sapeva essere discreta se la situazione lo richiedeva.
Non disse nulla di quella scoperta a lady Hinistel, quando andò a riportarle Jaylah, ma le raccontò dell’incidente con il corollax. Era il caso di spiegare alla veggente come mai da dieci minuti la bambina stesse facendo finta di potersi trasformare in qualsiasi animale.

Il giorno dopo quel gioco non le era ancora venuto a noia. Johel trovava che le fantasticherie della figlioletta fossero divertenti, quindi l’assecondava fingendo di credere alle sue trasformazioni. Dal momento che nessun altro lo faceva, però, Jaylah cominciò presto a mettere il broncio.
“Papà, non ci credono che sono diventata un lupo!” Protestò, immusonita.
Johel ci pensò per qualche secondo. Non aveva molto tempo per arginare i capricci di sua figlia, perché suo zio Fisdril aveva richiesto la sua presenza verso metà mattina (anche se non gli aveva spiegato il motivo). Però aveva in mente una soluzione veloce.
“I lupi sono troppo grandi, per questo nessuno ti crede. Ho in mente un animale più piccolo… se mi permetterai di acconciarti i capelli e pitturarti la faccia con un po’ di argilla bianca.”
Jaylah gli sorrise entusiasta, era sempre molto felice quando suo padre l’aiutava nei suoi giochi.

Un paio d’ore dopo, mentre Johel aspettava qualcosa nella radura della piazza principale insieme a suo zio, una bambina con una missione si aggirava per la città in cerca di animali da soccorrere.
Non aveva ancora familiarità con la città, ma non aveva paura di allontanarsi da casa. Ormai aveva capito che le bastava trovare un adulto qualsiasi, perfino uno gnomo, e chiedere aiuto. Nessuno a Myth Dyraalis si sarebbe girato dall’altra parte davanti a un bambino che diceva di essersi perso.
Alla fine trovò qualcosa. Un uccellino che saltellava sul terreno, esplorando l’area con grande interesse. Per dimensione poteva sembrare un passerotto, ma era il più bello che Jaylah avesse mai visto: azzurro come il cielo terso, paffuto e tenerissimo.
“Uccellino! Perché non voli?” Domandò la bimba, avvicinandosi di corsa. Lo scricciolo saltellò lontano da lei, spaventato da tanta irruenza.
“No uccellino, no' ss-cappare! Ti vollio aiutare!”
Jaylah si fermò e cercò nella tasca il mangime per uccelli che suo padre le aveva dato. Estrasse una manciata di semi e li gettò addosso allo scricciolo, a pioggia.
L’animale chiuse gli occhi e sopportò quel trattamento rude, ma poi si mise subito a beccare i semi. La bambina si avvicinò più lentamente e poi poggiò una mano a terra, perché suo padre le aveva insegnato a fare così. Sulla sua mano c’era ancora qualche seme, e quando lo scricciolo ebbe finito di banchettare saltellò fino alla mano di Jaylah.
Soddisfatta, la bambina avvicinò anche l’altra mano e riuscì a intrappolare lo scricciolo blu fra le mani a coppa. Senza mostrare preoccupazione, l’uccellino continuò a becchettare i semi prima che scivolassero fuori dalle piccole mani.
“Smetti uccellino, mi pizzichi” lo rimproverò Jaylah, poi si mise in marcia per cercare qualcuno che le prestasse aiuto.

Nello stesso momento, alla Porta delle Spade, una piccola delegazione di elfi dei boschi ed elfi selvaggi stava facendo il suo ingresso nella città segreta. Tazandil li aveva scortati fin lì, e aveva un’espressione mortalmente seria, perfino più del solito. Cupa, addirittura.
Il gruppetto contava una dozzina di persone fra cui, straordinariamente, alcune femmine anziane e un paio di bambini. Avevano tutti un’aria greve, dal più fiero dei guerrieri al più giovane dei ragazzini, come se condividessero un terribile peso.
I guerrieri lasciarono le armi alla Porta com’era usanza, tranne Tazandil perché era un ranger di Sarenestar, e si incamminarono insieme verso sud lungo il sentiero principale che portava al centro città. Gli elfi di Myth Dyraalis li guardarono passare in silenzio ma con sguardi curiosi, perché nessuno li aveva avvisati di quella visita. Era strano ricevere improvvisate da altri elfi, specialmente elfi selvaggi, con cui non avevano molti contatti. Ad ogni modo gli ospitali abitanti di Sarenestar accolsero il gruppo con cenni di saluto e di benvenuto, ma vennero ricambiati a malapena. L’atteggiamento di questa delegazione cominciò presto a dare nell’occhio, e i nuovi arrivati si lasciarono alle spalle una scia di mormorii perplessi e ipotesi sussurrate con nervosismo.

Uno di loro, un giovane elfo dei boschi con le lunghe sopravvesti di un chierico, si stava sforzando perlomeno di rispondere ai cenni di saluto. Presto rimase indietro e gli altri non fecero nemmeno il gesto di aspettarlo, quindi cercò di allungare il passo. Si sentiva già abbattuto, depresso e preoccupato per la situazione della sua foresta, e la scarsa considerazione dei suoi compagni stava scavando nel solco della sua frustrazione. Poteva tollerare di dover far fronte a gravi problemi, o poteva tollerare di essere poco considerato dagli altri, ma non entrambe le cose insieme.
Purtroppo il suo proposito di sveltire il passo fu del tutto vanificato quando la sua veste si impigliò in qualcosa. Pensando che fosse solo un arbusto, l’elfo diede un leggero strattone, ma la cosa che aveva agganciato quel lembo di tessuto non voleva mollare la presa. Si voltò infastidito, e si trovò a fissare due enormi occhi verdi che ricambiarono il suo sguardo.
Una… una cosa che probabilmente era un bambino aveva afferrato la sua veste con una manina sporca di terra. La cosa era alta quanto uno gnomo, ma non ne aveva la forma. Le orecchie erano senza dubbio elfiche. I capelli erano di un biondo chiarissimo, acconciati in modo da formare due piccoli chignon alti ai lati della testa. Il viso era dipinto in modo strano, una striscia bianca correva in verticale dalla fronte alla bocca, ma il nasino era dipinto di marrone scuro. La polvere bianca deviava dalla bocca in due coni laterali, andando a illuminare le guance. I luminosi occhi chiari invece spiccavano sulla pelle scura come il legno di noce, perché anche l’area che scendeva dai lati della fronte al naso era pitturata di marrone. Una manina altrettanto scura era ancora saldamente chiusa intorno ad un orlo della sua veste. La cosetta sporse l’altra mano, in cui teneva (piuttosto goffamente) un uccellino azzurro.
“Tu sei magico? Lo puoi curare?”
Il chierico sbattè gli occhi un paio di volte, perplesso. Guardò con curiosità il bambino, che forse dopotutto era una bambina. Sì, a giudicare dalla voce sembrava una femmina.
“Uh…” mormorò, con l’incertezza di chi non ha esperienza con i piccoli. Provò a dare un altro discreto strattone, ma la bimba non mollò la presa. “Non ho tempo adesso. Devo andare a incontrare il capoclan nella radura centrale.” Si guardò frettolosamente alle spalle, i suoi compagni ormai erano spariti dietro una macchia di alberi fitti.
“Ah” il sorriso della piccola vacillò un pochino. “Ma lo so io dov’è. Ci vado sempre a giocare! E mentre che andiamo puoi curare il mio amico?” Tentò di nuovo, sporgendo l’uccellino verso il chierico.
Il giovane elfo dei boschi aveva un occhio clinico per ferite e malattie, perfino degli animali, ma a prima vista non notò nulla di strano in quello scricciolo blu, a parte il fatto di non essere una specie autoctona.
“Che cos’ha? Lo posso curare se mi indichi la strada per la radura.”
Jaylah gli girò intorno e cominciò a trascinarlo per la veste.
“Questa via!” Affermò allegra. “E sai… l’uccellino non vola. Penso che sta male.”
Il chierico affrettò il passo per non inciampare nella sua stessa veste, che ora si avvolgeva in modo infido intorno alle sue gambe. “Va bene, passalo a me, ci penso io.”
Jaylah rallentò il tempo sufficiente per passare l’uccellino di mano, senza grandi scossoni. Il chierico lo soppesò per un attimo, guardò le sue ali, tastò la piccola pancia piumata (e per poco non inciampò in una radice perché non stava più guardando dove metteva i piedi), e alla fine aprì bene la mano, per permettere all’animale di prendere il volo.
Lo scricciolo blu, scombussolato per quel trattamento invasivo, beccò un dito dell’elfo e spiccò il volo con aria sdegnosa.
“Lo hai curato!” Trillò Jaylah, al colmo della felicità.
“Non era ferito.” La corresse lui. “È solo grasso. Ma tu chi sei, e perché ti interessi agli uccellini?”
Nel frattempo i due cominciarono a sentire i suoni di molte voci concitate davanti a loro.
“Sono un tasso. Non lo vedi?”
Il sacerdote ancora una volta non seppe cosa rispondere. Sì, adesso le strane pitture facciali finalmente avevano un senso, ma non pensava che i bambini di Sarenestar giocassero in questo modo. Avrebbe potuto dire qualcosa di carino, come Oh, sì, certo che sei un tasso, oppure Ora che me lo fai notare, si vede, invece gli uscì solo un patetico “Perché?”
La piccola lo guardò come se non aspettasse altro che quella domanda. In tono gongolante e magnanimo, spiegò: “Perché sono una dudula, come la zia Mary!”
L’elfo sbatté le palpebre un paio di volte, in silenzio. Non aveva capito niente, quindi decise di smettere di chiedere.
In quel momento per fortuna arrivarono alla radura, proprio alle spalle degli altri elfi. Il giovane chierico sperava che nessuno si accorgesse del suo ritardo, ma purtroppo la bambina lo tradì ancora una volta.
“Zia Mary!” Gridò, tutta felice, e si lanciò in avanti di corsa, sgusciando fra le gambe di tutti quegli adulti finché non riuscì a raggiungere la dama che stava in piedi vicino alla porta della Sala del Consiglio.
Gli altri elfi della delegazione si accorsero che il loro compagno era appena arrivato, ma non dissero nulla. Il giovane percepì di nuovo che non c’era astio da parte loro, solo disinteresse. Non sapeva se la cosa lo facesse sentire meglio, o peggio.
Erano giustamente impegnati a conversare con un elfo dei boschi dall’aria regale, anche se non portava corone. Il chierico rimandò a mente quello che sapeva sulla foresta dei loro vicini meridionali: non era una monarchia, come Shilmista. La popolazione elfica di Sarenestar era divisa in clan, e avevano dei capiclan. Quest’elfo doveva essere il principale capoclan del bosco, perché faceva gli onori di casa con grande solennità. Accanto a lui c’era l’elfa che era stata identificata come Zia Mary; stava bisbigliando con la bambina, forse per farla stare buona e tranquilla. La donna non aveva l’aspetto regale e quasi ultraterreno del capoclan, al contrario la sua espressione e la sua gestualità suggerivano un carattere pragmatico. Fece un cenno con la mano e un grosso lupo nero comparve da dietro un cespuglio. La bambina trillò eccitata e si mise a correre per gioco, mentre il lupo la seguiva con andatura flemmatica. Il perfetto controllo che aveva su quell’animale selvatico rivelò senza ombra di dubbio che era una druida, anche se le vesti rituali e la corona di vischio avrebbero potuto essere indicazioni sufficienti.
“Voglio unirmi a lord Fisdril nel darvi il benvenuto nella nostra città sacra” recitò, una volta archiviato il problema della bambina. “Non solo come moglie del capoclan, ma anche come capodruido di Sarenestar. Da molto tempo non avevamo notizie dei nostri cari cugini di Shilmista. Che questa casa vi sia riparo.”
Le sue parole erano gentili, ma erano frasi di circostanza. Gli elfi della foresta di Shilmista non erano direttamente imparentati con i clan di Sarenestar; tutti gli elfi delle foreste del Faerûn meridionale avevano origini comuni ma risalivano a più di dieci millenni prima. Shilmista aveva una particolarissima organizzazione sociale, la zona meridionale era abitata da elfi dei boschi mentre la metà settentrionale, a cui tutti erano assoggettati, era stata reclamata dagli elfi selvaggi. Quel fiero popolo non si era mai mescolato con elfi di altre etnie, per questo il loro numero stava diminuendo sempre più.
Gli elfi dei boschi erano la più giovane delle sottorazze elfiche, nati da unioni miste fra elfi della luna, elfi del sole ed elfi selvaggi a seguito delle Guerre della Corona. Erano una razza fiorita grazie a un accorato desiderio di pace e di fratellanza, e consideravano se stessi come amici di tutti gli altri elfi, ma erano vittime di un’innata soggezione verso quelle razze elfiche che consideravano più pure, più antiche. Per questo gli elfi dei boschi di Shilmista si consideravano poco più che ospiti nella loro stessa foresta, anche se l’abitavano da migliaia di anni, e sottostavano alla gerarchia degli elfi selvaggi. Re Galladel, il loro sovrano, era un monarca tradizionalista che aveva sempre puntato sull’isolamento della sua foresta e sull’evitare i conflitti. Spesso perfino gli elfi dei boschi vicini si chiedevano se il nomignolo di Shilmista, Foresta delle Ombre, fosse dovuto alle chiome fitte degli alberi oppure ai misteri che ammantavano quel popolo antico e chiuso.

Johel aveva conosciuto il vetusto re Galladel quasi cinquant’anni prima. All’epoca il coraggioso ranger di Sarenestar era riemerso dalle profondità della terra trascinandosi dietro un disperato gruppetto di elfi di Shilmista, che erano scesi nel Buio Profondo a cercare drow e duergar da uccidere. Johel aveva faticato molto a convincerli a rinunciare a quell’impresa suicida, e re Galladel gli aveva espresso personalmente i suoi ringraziamenti; nella sua prudenza, non voleva rischiare che le azioni avventate di quei guerrieri richiamassero l’attenzione dei nani grigi sulla sua preziosa foresta.
Da allora Johel non aveva più messo piede nel territorio dei loro vicini, ma considerato l’atteggiamento del popolo della Foresta delle Ombre, un contatto risalente a cinquant’anni prima era già segno di grande familiarità.
Chissà se è per questo che ora si trovano qui, si chiese, facendo scivolare lo sguardo su quel gruppetto eterogeneo.
La delegazione contava otto elfi selvaggi, di cui due bambini, cinque donne e un guerriero; in aggiunta c’erano due elfi dei boschi, un ragazzo appena alle soglie dell’adolescenza e un vecchio ranger. Johel non conosceva nessuno di loro, o almeno non li ricordava. Gli elfi selvaggi avevano un aspetto caratteristico, la loro pelle sui toni del marrone era nettamente più scura della sfumatura ramata o ambrata degli elfi dei boschi. Questi elfi in particolare non sfoggiavano molti tatuaggi, a differenza degli elfi selvaggi della Grande Foresta nel nord. Johel rimandò a mente le nozioni che aveva appreso sugli elfi selvaggi di Shilmista: erano fieramente legati alle antiche tradizioni, alla natura e ai cicli delle stelle, ma erano anche più civilizzati dei loro simili che aveva visto in altre parti del mondo. Non avevano una società di stampo tribale, non usavano molto i tatuaggi magici, e per quanto ne sapeva il gentile ranger non tagliavano la testa a qualunque viaggiatore che mettesse piede nel loro territorio… quantomeno, prima mandavano un avvertimento, scagliavano qualche freccia a vuoto. Molto ragionevole.
I nuovi arrivati cominciarono a scambiarsi convenevoli con lord Fisdril, e la mente di Johel deviò verso i ricordi della sua avventura a Shilmista. I saluti e le presentazioni erano sempre così noiosi... uno dei motivi per cui il ranger sperava di non venire scelto come prossimo capoclan. Di solito la successione procedeva per linea ereditaria diretta, ma se alla morte di lord Fisdril sua figlia Freya fosse stata giudicata inadatta a comandare, allora quel compito sarebbe pesato sul suo parente di sangue più prossimo, Tazandil, e in seguito su Johel. Una prospettiva per niente piacevole.
Almeno io non faccio schifo nei rapporti diplomatici, a differenza di mio padre, pensò l’elfo dei boschi, costringendosi a concentrarsi sulla conversazione in atto. Sono stato bravo a Shilmista, ho riallacciato i rapporti con i nostri vicini. Quando mio zio mi dà delle responsabilità le so portare a termine bene. Non era la prima volta che svolgevo un ruolo diplomatico. Ma un conto è essere un portavoce, un altro è prendere decisioni che peseranno su tutti.
E questo era molto probabilmente il motivo di quella visita inaspettata. Gli elfi di Shilmista dovevano avere qualche grave motivo per lasciare la sicurezza della loro foresta, e forse intendevano coinvolgere i loro vicini di Sarenestar.
Johel non si aspettava che i nuovi arrivati vuotassero il sacco immediatamente, lì nella piazza principale, davanti a tutti. Sapeva che prima si sarebbero spostati tutti nella Sala del Consiglio, che Merildil aveva fatto preparare. Ci fu prima di tutto un breve giro di presentazioni, in cui Johel si sforzò di mandare a mente i nomi e i titoli di quelle persone. I due guerrieri si presentarono come veterani dell’ultima guerra, suscitando la curiosità di tutti, perché a Sarenestar non giungevano mai voci delle guerre sostenute entro i confini della Foresta delle Ombre. Per ultimo arrivò anche un altro dei loro, un ritardatario. Johel lo riconobbe all’istante, senza che ci fosse bisogno di presentazioni: era Azadeth, il giovane sacerdote che cinquant’anni prima era stato il suo più grande alleato e sostenitore nella foresta di Shilmista. L’elfo dei boschi sorrise, felice di rivedere il suo vecchio amico e alleato, anche se Azadeth non si era ancora accorto di lui. La sua attenzione era stata deviata da una bambina che stava sgusciando fra le gambe dei suoi compagni, per correre verso Merildil.
Johel sentì un brivido freddo quando vide la sua Jaylah, la sua adorata figlia mezza drow, farsi largo e attirare l’attenzione di quel gruppetto di estranei che detestavano ferocemente i drow.
Oh, no! Speravo che se ne stesse alla larga, a giocare con gli altri ragazzini, pensò, sconsolato. Va bene, avevo un piano di riserva comunque… la sua pelle non è nera, assomiglia più a un’elfa selvaggia che a una drow. Può passare per quello che non è, anche se non sarà facile spiegare quei capelli biondi così chiari.
Grazie al cielo ha perso almeno l’abbronzatura estiva.

Sua zia Merildil ebbe la prontezza di spirito di deviare la bambina altrove prima che gli elfi di Shilmista potessero guardarla troppo bene. Non appena Jaylah si fu allontanata insieme ad Ebrath, il nuovo compagno animale della druida, lord Fisdril si inserì con eleganza nella conversazione invitando gli onorevoli ospiti a entrare nella Sala del Consiglio. Perfino i bambini vennero portati dentro, perché sembrava che i nuovi arrivati non volessero separarsi dai loro preziosi virgulti.
Si comportano come se fossero sulla difensiva, notò Johel. Che cos’è accaduto, perché queste persone sembrano reduci da un trauma?
Avrebbe voluto aspettare Azadeth e scambiare due parole con lui, ma l’etichetta voleva che Johel fosse uno dei primi ad entrare nella Sala, come uno dei portavoce della foresta ospite, quindi sapeva di dover rimandare a dopo qualunque colloquio privato con il vecchio amico.


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Nota: La parolaccia che Jaylah cerca di dire, nadorhuan, significa vile cane nel gergo elfico di Faerûn.

           

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Capitolo 14
*** 1361 DR: La guerra di qualcun altro ***


1361 DR: La guerra di qualcun altro


Jaylah corse in tondo nella radura, inseguita dal grande lupo nero, poi deviò verso i sentieri del bosco. La terribile bestia era sempre dietro di lei (Jaylah sapeva che non era un lupo cattivo, lo aveva già visto ai piedi della zia Mary, ma faceva finta che lo fosse). Ad un certo punto la bambina esaurì il fiato e si fermò, stanca morta, prendendo lunghi respiri. Il lupo si fermò accanto a lei e le diede un colpetto con il muso, invitandola a continuare il gioco.
“Adesso no, Errah, sono troppo ttanca” ansimò, ricadendo nei suoi vecchi difetti di pronuncia. Accarezzò il muso del lupo con la manina, in modo un po’ troppo rude. Lui si sdraiò accanto alla bambina, sopportando quel trattamento.
“Fai piano con Ebrath, piccola” le raccomandò una voce amichevole. Jaylah alzò la testa, e vide che due bellissime elfe si stavano avvicinando a lei. Il lupo cominciò a uggiolare e scodinzolare, sollevando polvere ogni volta che la grossa coda sbatteva a terra. “I nostri amici animali non vanno strapazzati.”
Jaylah aveva già visto quelle due elfe, le erano state presentate dopo la festa di Mezzestate. Non ricordava i loro nomi, ma una era molto pallida e l’altra era la più bella principessa del mondo, e soprattutto era sua cugina.
Ebrath non riuscì a resistere quando la figlia della sua amica Merildil si avvicinò, e si alzò salutando Freya con entusiasmo. Uggiolò come un cucciolo e si sollevò sulle zampe posteriori, appoggiando quelle anteriori sulle spalle gracili dell’elfa.
Nel frattempo l’elfa della luna, di cui Jaylah non aveva speranze di ricordare il nome, si chinò accanto a lei. Sulla spalla aveva un uccellino azzurro che la bimba ormai conosceva bene.
“Uccellino cicciotto!” Indicò la piccola, con un gran sorriso.
“Sì. Infatti.” Aphedriel si sforzò di sorridere, anche se non era molto a suo agio con i bambini, non li capiva. “Gwlith mi ha detto che ti ha conosciuta. Le hai dato dei semi.”
“Ho viss-to che non volava, e mi sono precchiupata. Magari uccellino era malato. Invece no! L’elfo magico ha detto che è solo grasso!” Rise di gusto.
“Ti ringrazio per la tua preoccupazione. Gwlith comunque è una femmina.”
Jaylah alzò un braccio per accarezzare lo scricciolo, ma Aphedriel fu molto attenta a tenere il suo prezioso famiglio a distanza di sicurezza.
“Chi era questo elfo magico?” inquisì Freya, una volta domato il lupo giocherellone.
“Era…” la bimba si rese conto che non lo sapeva. “Uno che cercava la piazza grande. Era vess-tito come un elfo magico. Come… come… quello tutto bianco” spiegò, felice di avere due adulte che le dessero retta per una vera conversazione.
“Come quel… oh, intendi Solaias?” Aphedriel viveva a Myth Dyraalis relativamente da poco, ma sapeva che l’unico elfo pallido quanto lei era il sacerdote di Corellon Larethian. A differenza sua, che era un’elfa della luna, il saggio Solaias era pallido perché era albino. “Un sacerdote?”
Jaylah la ricompensò con uno sguardo vuoto. “Eh?”
“Era uno di quegli elfi venuti da fuori?” Intervenne Freya, chinandosi per essere alla stessa altezza della sua piccola cugina.
“Non lo so” ammise lei, candidamente. “Io li ho solo detto quale era il sentiero giuss-to” tornò a ripetere.
Freya e Aphedriel si scambiarono un’occhiata veloce, ma molto profonda, molto consapevole.
“Elfi da fuori” confermò la figlia del capoclan, perché sapeva bene che qualsiasi elfo di Sarenestar era passato dalla città protetta almeno una volta, e chiunque sapeva trovare la radura principale. “Venuti a parlare di qualcosa… di importante.”
“E che, secondo tuo padre, non ci riguarda.” Il sussurro della maga era così leggero che sua moglie dovette praticamente leggere il labiale. Aphedriel non voleva farsi sentire da eventuali altri elfi, per non mettere Freya in imbarazzo. Entrambe sapevano che la decisione di lord Fisdril era un insulto. Non considerava sua figlia abbastanza seria e affidabile da partecipare a una simile riunione.

“La vostra situazione è molto incresciosa, e lo confesso, anche molto preoccupante. La morte di re Galladel è una notizia drammatica e vi siamo vicini nel vostro lutto” affermò lord Fisdril, dopo aver udito il racconto degli inviati di Shilmista. “In questo momento parlo solo a nome del clan Arnavel, ma naturalmente vi aiuteremo come possiamo. L’avremmo fatto anche prima, se solo avessimo saputo.”
Gli elfi selvaggi avevano una carnagione troppo scura per arrossire, ma era chiaro che uno o due di loro si erano offesi.
“Cerchiamo di risolvere da soli i nostri problemi” ribatté uno di loro, in tono amaro e orgoglioso.
“Tuttavia stiamo parlando di un esercito di orchi e goblinoidi, un nemico antico e che si ripresenta con fastidiosa regolarità. I nostri alleati nella Wealdath hanno affrontato una battaglia simile sessant’anni fa e sappiamo quanto possano essere pericolosi quegli esseri bestiali, grazie al loro numero.”
“Non era solo il numero” ribatté il guerriero degli elfi selvaggi, parlando fra i denti “sono guidati dalla mano di alcuni malvagi incantatori umani. Una maga ha partecipato alla guerra, dando manforte alle schiere di quelle bestie, anzi, guidandole con intelligenza! Ci siamo salvati grazie all’astuzia dei nostri generali, alla prodezza del nostro mago Tintagel, e anche… grazie ad alcuni alleati umani della vicina Carradoon.”
Questa volta, non solo Fisdril ma anche Johel e Tazandil sobbalzarono per lo stupore, e con loro anche qualunque elfo di Sarenestar che fosse un minimo informato sulle tradizioni di Shilmista.
“Alleati umani? Il vostro nuovo sovrano è una continua fonte di sorprese” commentò il capoclan degli Arnavel, cercando con cura di esprimersi in modo neutro. “Ma chiedere l’aiuto di umani prima di rivolgervi ai vostri cugini… posso domandare il perché di questa scelta?”
“Gli umani vivono nella nostra regione” intervenne uno degli elfi dei boschi, quello vestito come un sacerdote. “Se gli orchi avessero devastato Shilmista, i prossimi a cadere sarebbero stati loro, e la città di Carradoon non è preparata a resistere a un simile assalto. Loro lo sapevano e hanno fatto i loro calcoli.”
“Certo” ragionò Tazandil, pensando da guerriero “se fossi stato al loro posto, anche io avrei preferito che la battaglia si svolgesse su un altro territorio, e non direttamente in casa mia. D’altro canto, forse anche voi avete fatto le vostre considerazioni.”
“Gli umani non ci erano del tutto estranei” una delle anziane femmine si fece avanti per parlare. “Quand’ero ancora una giovane guerriera, ricordo che intrattenevamo qualche contatto diplomatico con quei… credo che siano chierici, di un tempio sulle montagne, vicino a Carradoon. Sono tutti addestrati all’uso delle armi, più utili dei semplici pescatori e artigiani che vivono nella città, e di certo possono fornire una conversazione più decente, per gli standard della loro razza.”
“Sono solo umani” tornò a commentare il primo elfo selvaggio, guardando storto il chierico e la donna per aver esposto quelle che lui riteneva essere solo supposizioni fantasiose. “Quello che hanno detto Azadeth e Shabrele è vero; avevano interesse a difendere la regione, e sono in grado di combattere. Da parte nostra… prima di rischiare le vite dei nostri cugini elfi, perché non rivolgersi agli umani?”
Quel commento assolutamente spietato rimase lì ad aleggiare come nebbia. I capi di Sarenestar lo lasciarono sedimentare nella loro mente per qualche momento.
“Quanto calcolo” commentò alla fine Johlariel, sentendosi la gola secca. Nemmeno lui amava eccessivamente gli umani, ma li tollerava volentieri, e non li avrebbe usati come pupazzi da schierare in guerra. Avrebbe preferito coinvolgere altri elfi, perché erano più bravi a combattere nelle foreste e perché… fra elfi ci si aiuta, era una questione di orgoglio razziale, di cameratismo.
Tazandil gli batté una mano sulla spalla in modo paterno, ma Johel percepì che c’era un rimprovero in quel gesto.
“Figlio mio, so che viaggiare per il mondo ti ha aperto la mente, ma proprio perché hai visitato le grandi città umane, te ne sarai ben reso conto… ci sono più umani su questa terra di quanti potrebbero mai perirne in battaglia.” Johel per un attimo non riuscì a contenere la sua espressione di orrore per quel commento, e s'irrigidí come se avesse paura di guardare in faccia suo padre e scoprire che era serio. “E forse, quando tu avrai la responsabilità di guidare i nostri ranger, apprezzerai maggiormente qualsiasi manovra che porti a risparmiare vite elfiche.” Aggiunse l'anziano guerriero.
Johel si girò di scatto verso Tazandil, incredulo. “Stai forse dicendo che non vuoi aiutare Shilmista?”
“Proprio il contrario” rispose suo padre, aggrottando la fronte. “Le vite degli elfi di Shilmista sono preziose, loro sono come noi. Potremmo esserci noi al loro posto. Il richiamo del dovere e del sangue ci impone di prestare aiuto, e sono certo che i nostri cugini capiranno anche le nostre motivazioni più utilitaristiche: Shilmista è solo a pochi giorni di cammino. Se quei maghi corrotti e i loro mastini orchi e goblinoidi conquistassero la regione delle Montagne Fiocco di Neve, quale vicino estremamente sgradevole sarebbero per noi!” Enfatizzò quell’ultimo punto con una smorfia disgustata. “Intendevo solo dire che approvo la loro scelta tattica di cercare un’alleanza con gli umani.”
“Sarenestar darà riparo a coloro che non possono difendersi da soli” decise il capoclan, riprendendo le redini del discorso. “Se Shilmista ha dei profughi che necessitano di aiuto e di un luogo dove stare, il clan Arnavel gli darà rifugio, in modo che coloro che stanno combattendo questa guerra non debbano preoccuparsi dei loro cari.”
“È un sollievo sentirlo, buon lord Fisdril” sospirò Azadeth, ma Johel capì che era una risposta di cortesia. Gli elfi di Shilmista si aspettavano almeno questo, visto che erano arrivati a Myth Dyraalis già forniti di suddetti profughi. Probabilmente in realtà speravano in qualcosa di più.
L’elfo dei boschi non li deluse.
“Inoltre è mia intenzione inviare delle truppe nella vostra foresta, compatibilmente con le nostre possibilità. Il nostro ranger capo, Tazandil, mi saprà consigliare sulle forze che ci sarà possibile schierare e sulle persone adeguate per questo compito.”
Questo accese una vera scintilla di speranza negli sguardi spenti di quei poveri esuli.
“Penso che possiamo privarci di qualche decina di ranger; di più, se convinciamo i villaggi più piccoli del vecchio territorio dei Gysseghymn a trasferire i civili in città.”
Johel sapeva che suo padre stava parlando di un vecchio e rognoso problema; i villaggi dell’area nord-occidentale erano abituati alla loro autonomia, ma il rifiuto di accentrare la popolazione elfica a Myth Dyraalis comportava una maggiore esposizione ai rischi della foresta, e un maggior impiego di ranger per proteggere quei minuscoli centri abitati. Quel territorio era infestato da troll, megere, mostri di ogni genere, e come se non bastasse era la zona più esposta a possibili attacchi da parte dei drow.
“Padre, con il dovuto rispetto, questo è improba…”
“Accetteranno, come misura temporanea” tagliò corto il ranger. “Ne sono certo. Accetteranno quando sapranno che i ranger di Sarenestar dovranno fare a meno della mia guida.”
Johel lo guardò senza capire, e anche Fisdril mostrò un momento di perplessità.
“Intendo guidare personalmente le truppe che sposteremo a Shilmista” chiarì.
Suo figlio continuò a guardarlo in silenzio, non più per curiosità ma perché era senza parole. Tazandil aveva dedicato la sua intera vita a proteggere Sarenestar! Certo, qualcuno doveva pur guidare i ranger dislocati a Shilmista, ma Johel si aspettava che suo padre desse quel compito a un ranger di fiducia, magari perfino a lui, che era già conosciuto nella foresta dei loro vicini settentrionali.
Ma se io parto, Daren si chiederà sicuramente che fine abbia fatto, realizzò all’improvviso. E questo sarebbe un immenso guaio.
“La vostra partecipazione in prima persona ci onora e ci dà speranza, lord Tazandil” affermò il veterano degli elfi selvaggi, e il suo tono sembrava sinceramente commosso. Dietro il suo atteggiamento scontroso si celava una persona capace di capire l’importanza di quel gesto.
“Chiamatemi Tazandil. Non ho alcun titolo onorifico, sono solo il capo dei ranger del mio clan.” Precisò lui, rifiutando quel titolo di cortesia. “A Sarenestar comando le pattuglie di due terzi dei ranger della foresta, ma nel vostro territorio mi rimetterò alle decisioni di re Elbereth e dei suoi generali. Questo dev’essere chiaro alle mie truppe, quindi vi esorto a non appellarmi lord.”
Anche questo discorso sembrò sortire un effetto notevole sugli elfi della piccola delegazione, perché chinarono tutti il busto in segno di rispetto.
“Mi sembra una saggia decisione” approvò lord Fisdril. “Shilmista è in guerra, o lo sarà presto, e i nostri ranger hanno bisogno di una figura di riferimento di cui si fidano, che possa mediare e mettere in atto gli ordini di re Elbereth. Ma chi lascerai qui come tuo sostituto? Anche noi abbiamo bisogno del nostro ranger capo.”
Tazandil storse le labbra in una piega che non si vedeva spesso sul suo volto serio: un sorriso. Be’, una specie di sorriso.
“Ritengo che mio figlio Johlariel sia ormai pronto per questa prova.”
Johel strabuzzò gli occhi, del tutto impreparato a quella nomina. Era certo che suo padre avrebbe nominato il vecchio Suiauthon Arnavel, che era un suo cugino di secondo grado e un fidato capopattuglia. O se non lui, qualche altro ranger della sua generazione. In realtà non è che ci avesse pensato a fondo, era già stata una sorpresa l’annuncio della partenza per Shilmista, ma una parte della sua mente aveva dato per scontato che quel compito non sarebbe toccato a lui.
Nonostante tutto, Johel cercò di non manifestare la sua sorpresa più del dovuto. Si trovavano in presenza di estranei; lasciò che la sua educazione da diplomatico prendesse il comando e reagì in modo meccanico, chinando il busto e accettando quell’onore come se fosse una cosa che aveva previsto. Qualsiasi incertezza, o senso di inadeguatezza, non aveva spazio in un incontro ufficiale.
Nemmeno se sospettava che suo padre avesse basato quella scelta sulla necessità di far preoccupare i villaggi del nord-ovest, nominando un ranger capo giovane e inesperto, per convincerli a trasferire i civili a Myth Dyraalis.

Un’altra persona giovane e inesperta in quel momento stava tenendo il broncio per non essere stata invitata alla riunione.
“Freya, tesoro” sospirò Aphedriel, occhieggiandola dall’altra parte della stanza “non vorrai farmi credere che ci saresti andata di buon grado.”
“No, certo che no” mugugnò la ragazza, controvoglia “una riunione politica, che frittella di ghiande!” Esclamò, uno slang giovanile per indicare una cosa insipida e noiosa. “Però è come hai detto tu, è un insulto che non me l’abbiano chiesto. Non dovrei essere qui! Dovrei essere lì ad annoiarmi e a desiderare di essere qui.”
“Uhm… in un certo senso, è fantastico che tu la pensi così. A tuo padre farebbe piacere.” Approvò la maga, continuando a passare la spazzola fra i capelli morbidi e ondulati di Jaylah. “Ma tu desideri diventare capoclan, un giorno?”
No!” Rispose subito l’elfa dei boschi, con convinzione granitica. “Per me sarebbe una responsabilità terribile. Conosci il mio carattere! Come potrei fare una vita del genere? Mia madre, mio padre, loro sono ottimi capi. Io sono uno spirito libero, non ho la pazienza di ascoltare le lamentele della gente…”
“Le necessità della gente, amore” la corresse al volo Aphedriel.
“I piagnistei della gente” rincarò Freya. “Né tantomeno avrei la testa di dedicare ore a organizzare la città, il territorio settentrionale della foresta, coordinarmi con il ranger capo e con i druidi…”
“Mi fa piacere che almeno tu sappia cosa fa un capo.” Ridacchiò la maga.
“Tu saresti una buona capoclan” ipotizzò l’elfa dei boschi. “Sei intelligente e paziente.”
“Sono molto onorata di avere la tua stima, cucciola mia, però l’intelligenza e la pazienza non bastano a fare di una persona un buon capo. Io sono una maga, e non desidero niente più che potermi dedicare ai miei studi… e passare la mia vita con te.” Aggiunse, scoccando alla moglie uno sguardo carico d’amore. “Sono troppo egoista per essere un capoclan. Tu forse non lo vedi, perché il mio egoismo ha una veste diversa dal tuo.”
“E allora perché stiamo giocando con la figlia di mio cugino?” Freya, che era stravaccata sul letto, si girò a pancia in giù e appoggiò i gomiti al materasso, sollevando il busto per guardare cosa stessero facendo Aphedriel e la bambina.
“Giochiamo alle principesse!” Esclamò Jaylah tutta contenta, sollevando uno specchietto incastonato in una cornice d’argento. “Freia, tu sei la più bella di tutte. Poi Ariel.” Enumerò, indicando Aphedriel col ditino. “E poi dopo io, però sarò più bella quando diventerò grande.”
“Preferirei ricopiare un tomo sulla genealogia di tutta Evereska senza l’ausilio dell’incantesimo Amanuensis, piuttosto che passare un pomeriggio a giocare con un bambino.” Chiarì, tanto per puntualizzare. “Non stiamo giocando. Stiamo trasformando la figlia di Johlariel e una… quello che sai tu… nella figlia di Johlariel e un’anonima elfa selvaggia.”
“Oh?” Freya si girò in modo da trovarsi seduta sul letto, sporgendosi avanti con curiosità. “Conti di camuffarla un po’ con la magia?”
Aphedriel e Jaylah erano sedute davanti a una toeletta che disponeva di uno specchio a mezzobusto e un ripiano colmo di barattoli, polveri, creme e pettinini. La piccola aveva la pessima abitudine di toccare tutto, e l’elfa della luna si stava cimentando in un esercizio di pazienza.
“Magia e cosmesi” precisò la maga. “A cominciare da questi capelli. I suoi boccoli sono adorabili, ma poco comuni negli elfi di Superficie. Non possiamo lisciare questa chioma selvaggia, ma possiamo inventarci una bella acconciatura con una treccia circolare. Se i capelli sono legati e in ordine, non si vede che sono ondulati.”
“Una treccia come lo zio Daren” cinguettò Jaylah.
“Per carità di Corellon” sospirò Freya. “Facciamo che sia una treccia molto migliore di quella di tuo zio Daren. Quel tipo manca di stile.”
“E intanto credo di poter produrre al volo un po’ di tinta magica per dare a queste ciocche slavate un colore più vicino al miele” considerò Aphedriel, rigirandosi intorno a un dito un ricciolo color platino.
“La sua pelle è color castagna, ma ha un sottotono che tende al blu. Riusciamo a darle un sottotono olivastro? Più caldo?” Domandò Freya, ormai intrigata da quel progetto ambizioso.
“Con la magia, forse sì, ma è ancora più importante schiarirla un pochino. Non molto, ma quel tanto che basta per dare una prima impressione che dica chiaramente elfa selvaggia. Poi, anche se l’incantesimo dovesse venire meno, nessuno lo noterà.”
“Sono un’elfa selvaggia” affermò la bambina, guardandosi nello specchietto e facendo il confronto con lo specchio più grande davanti a sé. “A volte mangio con le mani e la nonna mi s-grida!”
Freya sbottò in una mezza risata per quell’associazione mentale, Aphedriel piegò appena la bocca.
“Il problema sono le cose che dice” sospirò. “Ogni volta che questa bimba apre bocca, risulta chiaro a tutti che la sua educazione non è tipicamente elfica. Non parla nemmeno bene la lingua!”
“Ha quattro anni, e mio cugino è un girovago.” La giustificò Freya. “Possiamo facilmente dare la colpa a questo. Però non mi hai ancora detto perché stiamo… non-giocando con Jaylah.”
“Perché tu non vuoi essere capoclan, ma vuoi comunque il rispetto e la stima di tuo padre. Ti brucia che lui non ti consideri. Non vuoi il suo ruolo, ma il fatto che sia lui a non offrirtelo ti ferisce.” Spiattellò Aphedriel, con parole semplici e dirette.
Freya rimase così di sasso che per un lungo momento non seppe cosa rispondere. Non lo aveva capito. Certo, provava fastidio, ma pensava che fosse solo questo. Sentirlo dire da sua moglie, però… le fece capire la gravità dei suoi stessi sentimenti.
Era vero. Era tutto vero. Il fatto di non aver ricevuto un invito la faceva sentire una figlia indegna. Quasi un fallimento. Il suo caratteristico buonumore si spense all’improvviso.
“Oh…” mormorò, abbassando gli occhi. Si sarebbe arrabbiata con Aphedriel per la sua mancanza di tatto, perfino per la sua insolenza nel volerle leggere dentro, ma la verità era che amava troppo l’elfa della luna per potersi arrabbiare con lei. E soprattutto, se non ci fosse stata Aphedriel a rivelarle i suoi veri sentimenti, Freya avrebbe potuto andare avanti a provare risentimento in eterno senza nemmeno capirne l’origine. “Suppongo… che possa essere vero.”
“Te lo dico io che è vero” continuò la maga, stavolta in tono più dolce. “Mio padre non mi ha mai riconosciuta, e io per tutta la vita non ho desiderato altro che una parola gentile da parte sua. Mi sono sempre sentita inadeguata, come se non fossi abbastanza, qualsiasi cosa facessi, qualunque risultato ottenessi… capisco come ci si sente a desiderare la stima di qualcuno, di un genitore. Sai che siamo simili, nonostante le apparenze, altrimenti non saremmo thiramin. Ma a differenza mia, tu puoi conquistare il rispetto di tuo padre con le tue azioni, e il suo amore lo hai già. Io farò di tutto per aiutarti ad ottenere quello di cui hai bisogno. Potrei anche passare mezza giornata a truccare una bambina.”
“La figlia del mio perfetto cugino.” Commentò Freya con una smorfia esagerata, ma in realtà aveva gli occhi velati di lacrime per la commozione e l’affetto. Nessuno le aveva mai parlato così, mostrando di avere così tanta cura dei suoi sentimenti.
“Stiamo parlando del cugino che ti solleverà dai tuoi doveri di erede, assumendosi l’impegno di guidare il clan mentre io e te pratichiamo magia e facciamo l’amore?” Precisò Aphedriel.
La giovane elfa dei boschi si sentì improvvisamente la bocca secca e il battito cardiaco accelerato.
“Esatto, sì. Il mio cugino preferito.”


********************
Nota: per chi avesse familiarità con la serie di R. A. Salvatore "The cleric quintet", sì: le vicende narrate dagli elfi di Shilmista sono esattamente quelle di "In sylvan shadows", edito in italiano come "Le ombre della foresta". Se non avete mai letto quei libri, li consiglio vivamente.

           

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Capitolo 15
*** 1361 DR: Della vita segreta di Johel come venditore porta-a-porta di pentole magiche ***


1361 DR: Della vita segreta di Johel come venditore porta-a-porta di pentole magiche


Aphedriel, Freya e la piccola Jaylah fecero una pausa verso mezzogiorno per mangiare qualcosa, e le due elfe ebbero il primo assaggio di cosa volesse dire prendersi cura di un bambino. Jaylah non era viziata e di solito mangiava un po’ tutto, ma aveva una vera passione per i dolci e per le due ragazze fu una vera sfida tenerla sotto controllo perché non saccheggiasse la cucina.
"Amore?" Biascicò Freya, dopo una mezz'ora estenuante in cui aveva cercato di nascondere ogni tipo di sostanza dolce che avessero in casa. Non aveva mai realizzato che fossero così tante. "Tu sei proprio sicura che sia magicamente possibile avere un bambino, io e te?"
"Non sono sicura per niente, ho solo detto che avrei fatto ricerche" precisò Aphedriel.
"Smetti di farle" ordinò l'elfa dei boschi, in tono categorico, tombale.
L'elfa della luna scoppiò a ridere. "Non avevo neanche incominciato, e non pensavo di farlo per molti anni ancora!"
"Pensi che vorrai dei figli un giorno?" Domandò ancora la stregona, in tono incerto. "Perché io sto cominciando a pensare che non li voglio. Magari è solo che non sono pronta, ma penso che sia una responsabilità troppo grande per me, non tanto diversa da diventare capoclan."
Aphedriel abbassò gli occhi, riflettendo seriamente su quella domanda mentre ripuliva il tavolo della cucina da tutto il disordine che avevano lasciato.
"Io so che i tuoi genitori ci terrebbero, e so che qualunque elfo dovrebbe essere felice alla nascita di un figlio. Penso che se un giorno tu volessi figli io potrei assecondarti. Però la cosa non partirà da me; sono anch'io figlia di un'elfa che sentiva il thiramin, e so molto bene cosa vuol dire non poter essere la persona più amata da tua madre. L'amore che si prova per i figli è diverso dall'amore di due amanti, ma mi rendevo conto di non essere io la persona per cui mia madre apriva gli occhi ogni mattina." La maga deglutí a vuoto e sollevò lo sguardo sulla sua compagna. "Spero che tu non mi giudichi immatura o sciocca per questo, ma io non voglio questo per i miei eventuali figli. Non voglio che sentano di non essere la mia priorità. Ho sempre promesso a me stessa che nel remoto caso in cui avessi avuto figli li avrei messi al primo posto, ma ora so che non potrei farlo."
"Capisco, ma questo non significa che non li ameresti…"
"No, non capisci" il tono di Aphedriel tranquillo, posato, quasi rassegnato. "Forse potrei essere una madre migliore di mia madre. Lei era maledetta da un amore non corrisposto e quindi viveva nella depressione, il fatto che io non fossi abbastanza per lei era lampante. Adesso invece io ho te, e se avessimo dei figli crescerebbero nell'amore di due persone che si amano e che li amano… quindi potrebbero perfino non accorgersi mai del fatto che amerò sempre te più di loro. Io però lo saprei. Mi sentirei come se avessi tradito… la mia integrità, le mie promesse. Mi sentirei come se avessi tradito me stessa."
"Oh, amore" Freya corse ad abbracciarla, allentando il controllo su Jaylah che ne approfittò per scappare verso una credenza. "Se per te l'idea di avere figli porta con sé tutti questi problemi, avresti dovuto dirmelo subito. Io dopotutto non ci ho mai pensato seriamente, davo per scontato che un giorno ne avremmo avuti perché è quello che tutti vogliono sempre, però per me la tua serenità viene prima di tutto… e sto seriamente cominciando a pensare che la maternità non faccia per me, dopo solo qualche ora ad occuparmi di Ja… dove diamine è finita?"
Il rumore di un’anta che si chiude attirò lo sguardo di entrambe verso un angolo della cucina.
“Jaylah, vieni fuori da lì!” Freya spalancò l’antina, rivelando una bimba elfica rannicchiata fra i pentoloni. “Non ci sono dolci qui dentro, furbetta!”
“Ci sono io, che sono un brownie” ridacchiò lei.
Rimase lì, con un sorrisetto scaltro, in attesa di una risata che non arrivò mai.
“Un brownie è un follettino, che vive nelle cucine” spiegò Jaylah con pazienza. “Ma è anche il nome di una torta.”
“Ah… quand’è così, ammetto che è una battuta carina. Sì, è un po’ più di quello che mi aspettavo da te, ma è carina” ammise Freya, senza sbilanciarsi.
“Una battuta da umani” borbottò Aphedriel, adombrandosi. “Questo è proprio il tipo di cose da cui ti mettevo in guardia, tesoro. Meno parla, meglio è.”
Freya dentro di sé sapeva che la maga aveva ragione, ma cominciava a pensare che far stare zitta Jaylah fosse un’impresa.
“Dai, vieni fuori, piccola brownie.”
“Solo se prometti di no’ mangiarmi” pretese la piccola.
“Lo prometto. Non ti mangerò, e nemmeno Ariel.” Promise Freya. “Vieni fuori e continuiamo a truccarci?”
Jaylah era tentata, si vedeva chiaramente, ma stava anche occhieggiando la maga con sguardo sospettoso.
“Io ho deciso di non mangiare più dolci perché sto ingrassando” mentì Aphedriel, ma in tono molto solenne. “Con me sei perfettamente al sicuro.”
“Va bene” la cuginetta uscì, facendosi spazio fra le pentole. “Però prima devo fare la cascatella.”
Freya e Aphedriel sbatterono le palpebre un paio di volte e si guardarono negli occhi, ma le loro identiche espressioni perplesse non fornivano alcun indizio. Poi, vedendo le movenze contenute di Jaylah, l’elfa dei boschi ci arrivò.
“Ah! Hai bisogno di usare il vaso magico?”
“Il vaso delle meravillie” scherzò Jaylah.
“La pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno!” Rilanciò Freya.
“Siete volgari come solo gli elfi dei boschi sanno essere volgari!” Le rimproverò Aphedriel, storcendo il naso.
“Dai vieni Jaylah, ti porto in bagno” propose Freya, indicando con la mano verso l’alto. Le case degli elfi si sviluppavano in verticale, erano costruite su piattaforme di legno sui diversi rami del proprio albero-casa. Jaylah era troppo piccola per sapersi arrampicare bene (e nella casa di sua madre non aveva mai avuto bisogno di imparare), quindi a Myth Dyraalis le serviva sempre l’aiuto di un adulto che la portasse sulle spalle.

Cinque minuti dopo, Jaylah guardò con interesse scientifico le sue deiezioni scomparire magicamente dal vaso da notte incantato. Le rune incise nel metallo avevano brillato per un attimo, e poi puff!, tutto sparito.
“Ma com’è che lo fa?” Domandò, notando che il vaso adesso era perfettamente pulito. “Anche quello dei nonni è così ma non ho mai capito com’è che lo fa. E ce l’ha anche la mia mamma!”
“Immagino, deve averglielo portato Johel. Tuo padre viaggia tanto, quindi a un certo punto ha avuto il compito di diffondere il più possibile questi vasi magici, specialmente nelle locande.” Spiegò Freya, mentre aiutava la bambina a lavarsi le mani.
“Ma dov’è che va a finire la pipì? E la cacca?” Chiese la bambina, curiosa. “O ss-parisce e puff?”
“Eeeh…” sospirò Freya. “Questo è un segreto conosciuto solo da pochi elfi e gnomi della foresta. Non lo so con certezza nemmeno io.”

Qualcun altro, in quel momento, quella certezza ce l’aveva. Le zaffate erano assolutamente inconfondibili, pestilenziali.
“Ma gli elfi non cacavano arcobaleni?” Si lamentò il drow, avvolgendosi una pezza davanti al naso e alla bocca.
Lo gnomo non rispose, perché per parlare avrebbe dovuto prendere fiato. Si limitò a scuotere la testa con un’espressione di sconforto.
Daren e Wilhik avevano deciso di cominciare a esplorare il sottosuolo dalla zona meglio protetta: le grotte e i passaggi che conducevano dalle Montagne del Cammino al dedalo di gallerie che si apriva sotto la foresta. Si trattava di una vasta area che copriva una fascia virtuale di territorio che correva sotto alle pendici delle montagne, dove cominciava la foresta, formando una lunga L rovesciata. In quella zona le difese erano state disposte in modo da costringere i drow a convogliarsi in pochi cunicoli, selezionati con cura e disseminati di incantesimi di allarme e di focus per la divinazione. Erano stati scelti anche per una particolarità: avrebbero costretto un esercito a dividersi, solo per poi riunirsi molto più avanti, rendendo gli invasori dei bersagli più scoperti.
A quell’epoca non era stato semplice pensare a come i difensori di Sarenestar avrebbero potuto convogliare i drow dove volevano loro. Gli elfi non conoscevano abbastanza le strategie drow, e in aggiunta non avevano familiarità con il sottosuolo; anche le mappe più accurate non rendevano l’idea. Daren aveva fatto tutto il possibile per rendersi d’aiuto. Era stato in grado di spiegare agli elfi quale fosse il più grande punto debole dei drow, che li accomunava tutti, indipendentemente dalla fede e dalla provenienza geografica: erano schizzinosi e odiavano essere sporchi o trasandati. Pensare a come utilizzare quell’informazione a loro vantaggio, però, non era stato semplice. Era un piano che aveva richiesto grande creatività e capacità di pensare fuori dagli schemi.
L’elfo scuro non ricordava di preciso chi se ne fosse venuto fuori con quell’idea, ma sicuramente era stato uno gnomo. Un piano malvagio come “Ehi, perché non riempiamo le gallerie di merda?” poteva solo essere il parto di una mente gnomica.
Sempre gli gnomi si erano messi al lavoro per realizzare quel piano: i migliori metallurghi e fabbri avevano cominciato a produrre in serie i vasi di metallo, perché il metallo era il materiale che reagiva meglio alla magia. Gli elfi dei boschi non sono quasi mai esperti di magia arcana, quindi il compito di mettere a punto quelle difese creative era ricaduto tutto sulle spalle degli gnomi. Questo non era stato un male; aveva rafforzato i legami di amicizia e fratellanza fra le due razze, e in certa misura aveva anche richiesto che Sarenestar commerciasse con il Tethyr, sempre per mezzo degli gnomi (gli elfi non commerciavano direttamente con gli umani, non in quell’epoca oscura, in cui gli umani del Tethyr perseguitavano gli elfi uccidendoli per divertimento).
“Qui bi sebbra tutto in oddine” affermò Wilhik, con voce nasale perché due dita tenevano le sue narici ben serrate. “Gli iccattesibi non sono tati banobessi.”
“Eh? Ah… gli incantesimi non sono stati manomessi” bofonchiò il drow da dietro lo strato di tessuto. “Bene, passiamo a un’altra zona.”
Il loro lavoro era appena cominciato, avevano ancora molte miglia di cunicoli da controllare, e quel lavoro andava ripetuto anche in strati più profondi perché sotto la foresta si estendevano gallerie per un’altezza di circa un miglio, e in alcuni punti le caverne si inabissavano verso gli strati inferiori del Buio Profondo. Era un lavoro sporco, ma qualcuno doveva farlo. Per fortuna non avrebbero dovuto controllare tutto il sottosuolo di Sarenestar, solo le possibili vie d’accesso dalle città drow.
Ci avrebbero messo almeno mezzo mese, comunque, per fare un lavoro fatto bene.

Lord Fisdril, Tazandil, Johel e gli ospiti di Shilmista passarono il pomeriggio a ipotizzare schemi di attacco e di difesa, vagliando possibili candidati per la missione a Shilmista e decidendo quali ranger esperti sarebbero dovuti rimanere a Sarenestar per aiutare Johel nel suo nuovo compito. Ad un certo punto i capipattuglia di stanza a Myth Dyraalis e nei dintorni della città vennero chiamati a partecipare all’incontro, e tutto quel parlare e pianificare si protrasse fino a sera. Il giorno dopo avrebbero ripreso il discorso, era previsto che arrivasse anche lord Ailmar, il capoclan degli elfi Teasen'aear che abitavano la zona meridionale della foresta. Quella sera però avrebbero cercato di mettere da parte momentaneamente le preoccupazioni e i tristi ricordi. Quando i guerrieri uscirono dalla Sala del Consiglio, si accorsero che qualcuno si era dato da fare per organizzare un banchetto di benvenuto per i loro ospiti.
Gli elfi selvaggi rimasero molto sorpresi e colpiti, perché non erano molto avvezzi agli eventi sociali su larga scala; l’unico momento in cui si riunivano erano le celebrazioni religiose o spirituali, come il Daoine Teague Feer, la danza rituale per ricevere la benedizione delle stelle. Questa però non sembrava una celebrazione religiosa, gli elfi dei boschi di Myth Dyraalis avevano organizzato una festa mondana solo per mostrare che erano felici di riallacciare i rapporti. Per gli schivi elfi selvaggi era un’esperienza nuova e strana.
Anche i pochi elfi dei boschi di Shilmista furono presi in contropiede, perché si erano sempre adeguati alle abitudini e ai costumi degli elfi selvaggi. Si trattava però di una piacevole sorpresa, che li fece sentire più vicini a questi altri elfi dei boschi, loro simili.
La piazza principale era stata addobbata di luci festose come se fosse Mezzestate. Qualcuno aveva portato fin lì tutti i tavoli e le sedie della Casa degli Scapoli, e anche quelli di alcuni elfi che avevano deciso di mettere a disposizione le loro cose per l’occasione. Molte persone avevano contribuito per cucinare. Johel vide lady Aphedriel che accendeva con la magia alcune luci, mentre Freya dava direttive ad alcuni giovani elfi su come sistemare le portate sul tavolo più grande. Poi passò a parlottare con il suo vecchio amico Illianar, il migliore bardo di Myth Dyraalis, che annuì con sguardo innamorato e si mise a suonare una famosa ballata elfica pizzicando le corde della sua lira. Un altro bardo lo seguì con il flauto.
In quel momento un gruppetto di bambini passò correndo davanti a loro, e un piccoletto di otto o nove anni si fermò per invitare al gioco anche i due bambini di Shilmista. Loro non risposero, si limitarono a fissare il coetaneo con occhi vuoti. Questo rafforzò la teoria di Johel, che quei bambini fossero stati traumatizzati dalla guerra. Chissà se avevano perso qualcuno di caro? Un genitore, un fratello? Non lo sapeva, ma dal loro sguardo poteva immaginarlo.
Un’altra bambina, che sembrava in tutto e per tutto un’elfa selvaggia, si lanciò verso le gambe di Johel e ci si attaccò con un abbraccio entusiasta.
“Papà!” Esclamò Jaylah, al colmo della gioia. “No’ ti ho viss-to pe’ tutto il giorno!”
Il ranger si chinò per essere allo stesso livello della figlia e la guardò stranito per qualche momento. Era lei, eppure non era lei. Aveva qualcosa di diverso. Era difficile a dirsi nella penombra, ma forse i suoi capelli erano un po’ più scuri, più simili ai suoi? E quell’acconciatura elegante e i vestiti elfici, da dove spuntavano fuori? Di solito Jaylah indossava gli abiti che le aveva dato sua madre, comodi e semplici e di foggia umana.
“Ti piace, papà?” domandò lei con un gran sorriso, beandosi di tutte quelle attenzioni. “Freya e Ariel mi hanno vess-tita come una principessa! Freya mi ha dato i suoi vess-titi di quando era grande come me!”
L’intelligente elfo dei boschi comprese al volo quello che Freya e Aphedriel avevano fatto per sua figlia: l’avevano resa più elfica possibile. L’acconciatura, i vestiti, ed era sicuro che avessero cambiato leggermente anche i suoi colori… se c’era un momento per presentare formalmente Jaylah, era quello. La prima impressione era fondamentale.
Sempre a proposito di prime impressioni, Johel osservò i vestiti di Jaylah mentre la prendeva in braccio: erano abiti eleganti, ma non cerimoniali. Non quelli che avrebbe potuto indossare la figlia di un capoclan. Grazie al cielo, pensò fra sé e sé, sarebbe stato molto inappropriato. Sembra che mia cugina conosca bene i fronzoli della politica, anche se finge che non le interessi.
“Jaylah, saluta come si deve i nostri ospiti. Vengono da fuori, hanno fatto molta strada per venire a trovarci.” Le sussurrò, girandosi in modo che lei potesse guardare in faccia gli elfi di Shilmista.
Trovandosi davanti tutti quegli estranei che la guardavano, la bambina rimase spiazzata per un momento e alzò una manina, salutando timidamente.
“Sia lieto il noss-tro incontro, perché i noss-tri cuori sono leggeri e… e le noss-tre spade sono ingua… inguaianate... abbiamo la pace nelle noss-tre mani e… la sua luce ci guida” recitò la piccola con grande fatica, poi arrossì e nascose il volto nell’incavo della spalla di Johel.
Il ranger le passò una mano sulla schiena per confortarla, perché la piccola sembrava in imbarazzo, ma era esterrefatto che sua figlia avesse memorizzato una frase così lunga in elfico. Doveva avergliela insegnata Freya, perché lui non si era mai curato di far imparare a Jaylah le frasi rituali del suo popolo.
“Molto brava” disse una delle anziane elfe selvagge, più che altro per gentilezza. Jaylah alzò lo sguardo su di lei e le rivolse un gran sorriso. L’espressione di fredda cortesia dell’elfa si ammorbidì un po’, e Johel capì che quelle persone non erano rigide per loro natura, erano solo provate dalle difficoltà e dal dolore.
“Io sono Jaylah” si presentò allora, con rinnovato coraggio. “Voi due volete venire a giocare?” Quell’invito naturalmente era rivolto ai bambini degli elfi selvaggi.
Questi scossero la testa, aggrappandosi alle gambe degli adulti che conoscevano. Jaylah si dimenò per farsi mettere giù, e Johel la poggiò a terra. Tirò fuori dalla scarsella un paio di biscotti e li offrì a quei bambini, con un gran sorriso. Loro, cautamente, accettarono il dono.
“Io e i miei amici andiamo a giocare. C’è un albero grosso grosso, che è un…” si fermò, perché non conosceva i nomi degli alberi “uno con il tronco nero. Lì c’è una fontanella. Dicono che di notte ci vanno le fate, ma io no’ le ho mai viss-te. Noi andiamo lì, pe’ cercare di vedere le fate. Se volete venire, tutti sanno dov’è l’albero nero grosso grosso” spiegò, cercando di essere più precisa possibile. Johel si accorse che arrancava ancora sulla pronuncia elfica, ma sperò che la cosa passasse in sordina grazie alla sua giovane età.
La piccola salutò con la manina e corse via, buttandosi in mezzo alla fiumana di elfi indaffarati e sgusciando con maestria fra le loro gambe.

Gli elfi di Shilmista si unirono volentieri al banchetto in loro onore, perché dopo la sorpresa iniziale non poterono fare a meno di apprezzare la buona volontà dietro a quel gesto gentile. Non gli era stato riservato un tavolo speciale, perché l’idea era che fossero liberi di sedersi dove volevano e mescolarsi con gli elfi di Myth Dyraalis, se questo era il loro desiderio.
Non lo fecero. Gli elfi selvaggi si sedettero tutti vicini, e anche gli elfi dei boschi di Shilmista rimasero con loro, forse si sentivano troppo al centro dell’attenzione e tutta quella baraonda li stava mettendo a disagio. Jaylah sedette fra suo padre e suo nonno, ma per tutta la sera si mosse fra il loro tavolo e quello degli ospiti, portando altri biscotti e leccornie ai bambini.
“Quess-to è il mio preferitissimo!” Affermò, porgendo ai bambini due identici panini dolci ricoperti di semi. “È il pane pe’ la colazione delli gnomi, ma è buono buono!”
Ogni volta i ragazzini accettarono i suoi doni in silenzio, ma poco a poco cominciarono a rispondere ai suoi sorrisi.
Quando tornò al tavolo della sua famiglia per l’ennesima volta, Tazandil la guardò storto.
“Hai le mani sporche di terra” notò.
“Sono caduta” spiegò Jaylah, senza scomporsi. “Sono ciampata nel mio vess-tito che è bellissimo ma è lungo e ci ciampo sempre!”
“Vai a lavarti le mani prima di sederti a tavola” la freddò il vecchio elfo. “E smetti di correre in giro come un’invasata.”
Jaylah era una bambina dolce, attenta alle parole degli altri, per quanto potesse esserlo un’elfa di quattro anni. Però le lamentele di Tazandil non le sopportava proprio.
“Sono un’elfa selvaggia” rispose, con aria altezzosa. “Posso correre in giro e cadere e mangiare colle mani.”
“No, non puoi!” Il vecchio elfo la fulminò con lo sguardo. Quello sguardo aveva messo in soggezione molti giovani ranger, e anche il suo stesso figlio, ma la testarda nipote rispose mettendo il broncio.
“Quello che il nonno vuole dire” intervenne Johel, più conciliante, “è che elfo selvaggio non significa elfo che si comporta come un barbaro. Gli elfi selvaggi sono un popolo fiero che ha uno stretto legame con le foreste, ma sanno come comportarsi. Forse vedi qualcuno dei nostri ospiti tutto sporco di terra?”
Jaylah si voltò brevemente verso il tavolo degli elfi forestieri, come per controllare.
“No” ammise.
“Tu in questo momento sei una mezza elfa selvaggia, lo so che per te è un gioco, ma loro ci credono davvero e devono continuare a crederlo. Se tu ti comporti in modo rozzo e se non ti lavi le mani, per loro sarà un insulto. Lo capisci, tesoro?” Johel afferrò l’otre d’acqua che portava sempre con sé e tolse il tappo. “Tendi le mani, ci penso io.”
Jaylah non aveva capito proprio tutto, ma era felice che suo padre avesse cercato di spiegarle la situazione anziché sgridarla e basta. Anche sua madre faceva sempre così, e Jaylah era abituata ad essere trattata come un essere senziente e razionale, non come un soldatino che deve obbedire e basta. Si tirò su le maniche e porse le mani a suo padre, che le lavò brevemente con l’acqua. Una volta pulita, Johel la sollevò e la fece sedere di nuovo a tavola con loro.
“Nonno, io però vollio andare ancora a trovare quei bambini” annunciò, indicando con un cenno del capo gli elfi selvaggi. “Ci posso andare ancora, se no’ corro e no’ ciampo?”
Tazandil finalmente abbandonò la sua espressione corrucciata, perché era sorpreso e anche un po’ soddisfatto che quella scimmietta incontenibile gli stesse chiedendo il permesso per fare qualcosa. Non lo sfiorò nemmeno il pensiero che Jaylah potesse aver agito così proprio per fare pace con lui. Non la credeva capace di una simile sottigliezza.
“Certo che puoi” borbottò, cercando di mantenere un’aria severa ma senza riuscirci troppo. “Tu hai un grande cuore e sei molto gentile ad occuparti di loro. Stai solo attenta a mantenere un comportamento dignitoso.”
“Sì nonno.” Promise la piccola, poi si voltò a sussurrare a suo padre: “che cosa vuol dire dinnitoso?

Verso la fine della serata, Johel riuscì a trovare un momento per parlare con Freya e Aphedriel. Le trovò che stavano chiacchierando con i bardi che avevano allietato la cena, due giovanotti e la loro maestra. Avevano portato loro da bere per ringraziarli per l’impegno.
Johel per un momento si sentì vecchio e fuori posto, ma poi quell’istante passò e si fece avanti con un sorriso.
“Mie carissime e operose cugine, posso dirvi due parole?” Domandò, facendosi avanti con Jaylah che gli saltellava accanto. Vedendo i bardi con gli strumenti musicali, la bambina andò subito a chiacchierare con loro, sommergendoli di complimenti e domande curiose.
Freya e Aphedriel si congedarono dal gruppo e seguirono Johel qualche passo più in là, in modo che la loro conversazione restasse privata.
“Non so come ringraziarvi per aver reso mia figlia presentabile. Sarebbe stato un guaio se a qualcuno fosse venuto il sospetto che lei fosse… quello che è.”
La giovane figlia del capoclan era così orgogliosa di quel complimento che sembrava brillare di luce propria, e Aphedriel le strinse discretamente una mano per comunicarle la sua vicinanza. L’elfa della luna era davvero felice che quel piccolo stratagemma avesse rivalutato Freya agli occhi della sua famiglia.
Jaylah scelse proprio quel momento per tornare da suo padre, con un’espressione un po’ mesta.
“No’ mi volliono press-tare i loro ss-trumenti” mugugnò. “Propio come mio ratello Luel.”
“I bardi sono fatti così, tesoro” Johel si strinse nelle spalle. “Ormai dovresti averci fatto l’abitudine.”
“Hm” Jaylah andò a nascondersi dietro ad Aphedriel, che aveva una gonna lunga e fluttuante. “E se da grande vollio fare il bardo? Potrò avere uno ss-trumento?”
Aphedriel le mise una mano sulla testa, come per calmarla, ma approfittò di quel contatto per rinnovare l’incantesimo che manteneva la sua pelle un pochino più chiara del normale.
“Se da grande vorrai fare il bardo, ho paura che tuo zio non ti vorrà più parlare” sospirò Johel, ignaro del sotterfugio in atto. Freya si lasciò sfuggire una risata e Aphedriel sollevò un sopracciglio. Non pensava che un seguace di Eilistraee potesse avere qualcosa contro la musica.
“Ah, allora no” decise la bimba, uscendo di nuovo allo scoperto. “Allora farò la dudula, è deciso. Così il nonno non può più ss-gridammi se metto le mani pe’ terra. E se mi ss-grida, divento un lupo e lo mangio!”
La risatina di Freya si trasformò in un sussulto incontrollabile. La giovane elfa si mise perfino una mano sulla bocca per non diventare sguaiata.
“Oh, cielo” Johel sospirò, prevedendo guai. “Jaylah, tu hai un grande cuore, come tua madre, ma hai anche la sua stessa elasticità nell’accettare le critiche.”
La piccola elfa lo guardò senza capire e forse stava per fare una domanda, ma qualcun altro si inserì con entusiasmo nella loro conversazione.
“Johlariel!” Chiamò una voce allegra. Era Azadeth, il chierico degli elfi dei boschi di Shilmista. Johel accolse il suo arrivo con un gran sorriso, e i due elfi si abbracciarono come vecchi amici.
Cinquant’anni prima, il villaggio di Azadeth era stato attaccato dai drow e metà degli abitanti erano stati uccisi, fra cui la madre del giovane elfo. In quei giorni Daren stava viaggiando sulle pendici delle montagne Fiocco di Neve, appena fuori dai confini di Shilmista, e gli elfi l’avevano catturato e giustiziato pensando che fosse coinvolto nell’attacco. L’intera vicenda era ancora un ricordo doloroso, sia per gli elfi che per il drow, ed era quello il vero motivo per cui lord Fisdril aveva voluto allontanarlo: anche se in seguito era stato resuscitato, Daren aveva attraversato un brutto momento dopo il disastro di Shilmista, e ancora dopo cinquant’anni sentiva fitte di senso di colpa solo a sentir nominare quella foresta.
Azadeth era l’unico elfo di Shilmista a sapere com’erano andate davvero le cose, e a riconoscere Daren come sincero Amico degli Elfi. Nel breve periodo che Johel aveva passato a Shilmista, Azadeth era diventato un amico per lui, più che un alleato.
“Chissà perché, ma non mi sorprende trovarti circondato da bellissime ragazze!” Scherzò il sacerdote, rivolgendo un inchino galante a Freya, Aphedriel e Jaylah.
“Freya è la più bella di tutte!” Intervenne la bimba, credendo di essere d’aiuto. “Ma Ariel ha l’uccellino cicciotto”, aggiunse, come se fosse un elemento che faceva pendere l’ago della bilancia in suo favore.
Johel si intrufolò fra le due giovani e mise un braccio sulle spalle a ciascuna. “Sì, splendide ragazze, ma sono le mie cugine, quindi sai… sono fuori dai giochi.”
A quella notizia, il giovanotto emise un mugolio di dispiacere, strappando alle due elfe un sorrisetto sornione.
“E… c’è qualcun altro che dovrei salutare? Il tuo amico forse? Hai più dato seguito al tuo proposito di farlo… tornare?”
“Daren è tornato” confermò Johel, con un sorriso. “Ma non è qui. Per lui è molto penoso ricordare gli eventi di quel periodo, e lord Fisdril ha organizzato perché andasse in pattuglia. Non sa nemmeno che siete nostri ospiti.”
“E non sa nemmeno della guerra, immagino.”
“Se lo sapesse, sarebbe già lì a cercare di infiltrarsi fra i nemici cercando di non farsi scoprire da voialtri…”
Azadeth sospirò, alzando gli occhi verso le stelle, ma poi riuscì a sorridere tiepidamente. “Non posso negare che sarebbe un grande aiuto, ma non è giusto chiederglielo. Partecipare ai conflitti di Shilmista sarebbe un peso per il suo animo e ha già fatto abbastanza cinquant’anni fa. Come hai detto oggi alla riunione… meglio chiedere l’aiuto dei nostri cugini elfi.”
“Voi due avrete sicuramente molte cose di cui parlare” Freya scivolò via da sotto il braccio di Johel “quindi forse è il caso che vi lasciamo, adesso.”
“Certo” Johel sollevò anche l’altro braccio, lasciando libera Aphedriel. “Andate a divertirvi, finché è possibile.”
“Vieni Jaylah, chiediamo a quei suonatori se possono dedicarci una ballata” la invitò Freya, sapendo che la piccola cugina non poteva resistere al suo fascino.
Azadeth e Johel rimasero da soli, e per un momento il chierico non riuscì a distogliere gli occhi dalle due elfe girate di spalle. Johel lo toccò con un gomito, per farlo tornare in sé.
“Oh, sì” disse il chierico dal nulla, come se si fosse ricordato una cosa importante, “sai che Tintagel è diventato una specie di eroe di guerra? Ormai è senza dubbio il nostro mago migliore. Nell’ultima battaglia è quasi morto, perché vuole stare sempre in mezzo all’azione! Se non ci fosse stato quel sacerdote umano a curarlo…”
Passarono il resto della serata a parlare della guerra, degli eroi che si erano distinti per la loro baldanza e le loro strategie, e delle persone che Johel aveva conosciuto cinquant’anni prima. Nonostante tutto, i due vecchi amici riuscirono a mantenere alto il morale.

           

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Capitolo 16
*** 1361 DR: Guerra e pac… e treg… e un po’ meno guerra ***


1361 DR: Guerra e pac… e treg… e un po’ meno guerra


“Nonno, cos’è la guerra?” Chiese Jaylah il giorno dopo la festa, mentre aiutava, a modo suo, a rimettere a posto la radura.
“Non starmi fra i piedi, ho delle cose da fare” fu la replica sbrigativa del vecchio elfo.
“No!” la bambina lasciò cadere a terra le decorazioni che stava trasportando e trotterellò dietro al ranger. “Me lo devi dire!”
“Devo andare a controllare l’arsenale, non puoi seguirmi. Ci sono spade e coltelli ed è pericoloso.”
“Anche la mia mamma ha un coltello” osservò lei, con l’aria di voler fare conversazione. “Non è pericoloso, bass-ta che non lo tocco.”
“E io ti dico che non puoi seguirmi, quindi non darti disturbo.” Affermò l’elfo, lapidario, e per sottolineare il concetto si arrampicò sul primo albero che gli capitò davanti, per proseguire il percorso camminando sulle passerelle sospese e sui ponti che collegavano gli alberi.
La bambina lo vide sparire in pochi secondi, e rimase lì con le pive nel sacco.
“Vecchio bargiabanni!” Gli gridò dietro, in uno scoppio d’ira. Alzò perfino un pugno verso il cielo. “Vai a fare la cacca su un riccio!”
Per fortuna aveva urlato in lingua chondathan, il dialetto umano delle zone in cui era cresciuta, e nessun elfo poteva capire le sue parole.
“Jaylah, cosa succede? Non volevi aiutarmi a mettere in ordine?” Amaryll si affiancò alla piccola, anche lei con le braccia piene di decorazioni che stava riportando al loro posto.
“Sì è vero, Amyl” bofonchiò la bambina, guardando per terra e passando automaticamente alla lingua elfica. “Ma poi ho viss-to il nonno e gli dovevo chiedere cosa è la guerra.”
“La guerra? Perché, tesoro?”
“Perché…” la piccola si guardò intorno, con aria circospetta. “Ho sentito tanti che dicevano, ieri sera, che c’è la guerra in un altro boss-co. Ma papà non mi ha detto cos’è quess-ta parola. Ho anche sentito che tanti ci volliono andare. Allora magari è una cosa bella e ci vollio andare anche io.”
“No” la parola le uscì fin troppo brusca, ma la locandiera era davvero presa in contropiede da questa uscita della bambina. “La guerra non è una cosa bella.”
“Ah” l’entusiasmo di Jaylah si sgonfiò subito. “Pensavo che forse era la neve. Non so la parola di voi elfi per dire neve, ma a me piace tanto. Si può fare a palle di neve ed è tutta morbida e bianca.”
Amyl non conosceva il dialetto chondathan, ma era abbastanza simile alla lingua comune degli umani, e riuscì a estrapolare dal contesto ciò di cui la piccola stava parlando.
“La parola che cerchi è sige. La guerra è un’altra cosa. In guerra non ci si diverte, le persone combattono, uccidono e a volte muoiono. È una cosa molto pericolosa e brutta.”
I bambini elfi dell’età di Jaylah di solito avevano già familiarità con il concetto della morte, almeno in teoria. Amyl non si aspettava che la piccola mezzadrow fino a quel momento avesse vissuto una vita protetta.
La nanerottola spalancò gli occhi, guardando l’elfa adulta con orrore.
“E il mio papà deve fare quess-ta cosa guerra?”
“No, lui no!” Esclamò subito Amaryll, rendendosi conto del suo errore.
“E la zia Mary? Lo zio Daren? La nonna?”
L’elfa dai capelli rossi scosse la testa.
“Il… nonno?” Chiese alla fine Jaylah, in tono strano, incerto.
“Lui sì. Sicuramente.” Confermò la locandiera.
Jaylah esitò, mostrandosi pensierosa.
“No’ mi piace il nonno” ammise cautamente, “però mamma dice che è l’unico nonno che ho. E mamma dice pure che la famiglia è… non so come si dice… sacra” disse in chondathan.
“Sour” l’aiutò Amyl. Il significato non era identico, ma era il termine che ci si avvicinava di più.
Jaylah sospirò come faceva sempre lo zio, dandosi un tono da adulta, mentre incamerava tutte quelle nuove informazioni. Non aveva capito bene quella storia della guerra, ma non le piaceva.

Due giorni dopo Tazandil e alcune decine di ranger di Sarenestar si stavano preparando a lasciare Myth Dyraalis e la sicurezza delle loro case, diretti a nord. Verso Shilmista, verso la guerra.
Mezza città si era radunata alla Porta delle Spade per salutarli e augurare loro buona fortuna e un sicuro ritorno a casa. Anche la famiglia di Johel non faceva eccezione, anzi, era in prima linea. Lord Fisdril si rammaricava di non poter andare a sua volta, ma naturalmente non era compito di un capoclan abbandonare il territorio e andare in guerra, nemmeno per aiutare degli alleati.
Tazandil salutò Johel con grande solennità, ribadendo la sua decisione di lasciare temporaneamente il comando a lui. Poi salutò sua moglie, con più familiarità e affetto, perché quello era consentito. Quando fu il turno di salutare Jaylah, la bambina decise che se ne fregava delle convenzioni sociali e impugnò a due mani un vecchio orsacchiotto di tela, porgendolo verso l’anziano ranger come se fosse un tesoro.
“Nonno, prendi il mio orsetto Lacis. Ti aiuterà quando ci sarà la guerra e quando avrai paura!”
Tazandil rimase interdetto per un istante, mentre intorno a lui calava il silenzio. Quel pupazzo era grande quanto il pugno di un elfo e sembrava sopravvissuto a più eoni di quanto sarebbe lecito per un giocattolo, era pieno di rammendi e pezze e gli mancava un occhio. Metà dei presenti guardò la marmocchia con tenera indulgenza, l’altra metà cominciò a ridacchiare per quell’offerta assurda. Un guerriero tutto d’un pezzo come Tazandil non aveva mai paura. O se l’aveva, non la mostrava. Di certo non aveva bisogno di un simile conforto.
“Non mi serve. Sono un guerriero esperto, nipote.”
Jaylah non desistette.
“Ma devi prennerlo. Lo ha fatto la mia mamma e porta fortuna. Era di Kore prima. E poi di tutti gli altri i miei rate…”
“Grazie, piccola” la interruppe Tazandil, togliendole il pupazzo dalle mani prima che potesse citare i suoi fratelli. Non era il caso che gli elfi di Shilmista, pronti a partire con loro, si facessero troppe domande. “Lo accetto come un pegno d’affetto, ma non ne ho bisogno. Te lo riporterò sano e salvo.”
Qualcuno continuò a sogghignare, questa volta per il disagio del vecchio elfo. Stava tollerando da sua nipote dei comportamenti che non avrebbe mai accettato da suo figlio, e questo era evidente a tutti, tranne che alla nipote in questione. Il ranger, dal canto suo, era troppo in imbarazzo per potersi commuovere per quel gesto, e non desiderava altro che partire il prima possibile. Molto meglio la guerra che questo. Per il momento infilò sbrigativamente l’orsetto nello zaino. Durante il viaggio, però, approfittando delle ridotte dimensioni del pupazzo, lo legò con attenzione alla cintura, appena dietro al fodero della spada. Non era superstizioso, ma passato il disagio iniziale aveva scoperto, suo malgrado, che il gesto di sua nipote gli ricordava l’importanza di avere qualcuno per cui combattere.

Azadeth e i guerrieri che avevano scortato i profughi erano partiti insieme ai ranger, naturalmente; volevano tornare a fare il loro dovere per la loro amata patria. Soltanto i bambini e gli anziani di Shilmista rimasero nella foresta meridionale, al sicuro.
Erano stati invitati a rimanere a Myth Dyraalis, la capitale segreta, protetta da un antico mythal che con la sua magia impediva alla città di essere trovata da chi non era un elfo. Loro però non erano abituati a vivere in mezzo a così tante persone. Un migliaio di gnomi e quasi altrettanti elfi rendevano quel luogo una vera metropoli, per gli standard degli elfi selvaggi, una metropoli cosmopolita. Non erano a loro agio con quel tipo di vita, quindi accettarono l’invito a stabilirsi in un piccolo villaggio nel sud. Avrebbero voluto restare a nord, più vicini a Shilmista, per ricevere notizie più fresche dalla loro patria, ma lord Fisdril e lord Ailmar sapevano che il sud era più sicuro: era meno esposto al pericolo di un’incursione drow (non che se l’aspettassero, ma nel caso), meno vicino ai territori umani e alle montagne che ogni inverno sembravano vomitare mostri.

Con gli elfi di Shilmista lontani dagli occhi, la vita a Myth Dyraalis stava tornando velocemente alla normalità, anche se era strano non avere più quasi nessun ranger in giro per la città. Come previsto da Tazandil, alcune decine di elfi dei villaggi a nord-ovest si trasferirono temporaneamente nella capitale, rimettendo in uso alcune vecchie case elfiche che nel tempo erano andate abbandonate. La popolazione di Myth Dyraalis era sempre stata abbastanza fluttuante, alcune famiglie si erano estinte e altre nuove famiglie si erano formate, e un nuovo nucleo famigliare tendeva a volersi creare la propria casa, come stavano facendo anche Freya e Aphedriel in quei mesi. La conseguenza era che alcune delle case più antiche erano rimaste vuote e abbandonate, e gli elfi vi facevano poca manutenzione, in attesa che il legno marcisse e quelle antiche abitazioni venissero inglobate di nuovo dalla foresta.
Gli elfi dell’ex-clan Gysseghymn presero possesso delle case abbandonate che sembravano più in buono stato e ripararono quel che c’era da riparare, convinti che comunque si sarebbe trattato di una soluzione temporanea.
Johel sperava tanto che avessero ragione. Il compito di ranger capo gli era caduto in testa senza preavviso, e l’elfo si stava rendendo conto che c’era una bella differenza fra essere un buon ranger ed essere un buon capo. Non era spaventato dalle responsabilità, suo zio Fisdril aveva iniziato a utilizzarlo come diplomatico fin da quando era giovanissimo, ma il suo ruolo gli aveva insegnato a pacificare gli animi e a far collaborare persone recalcitranti, non a fomentare e trascinare truppe che ancora non lo rispettavano. Johel aveva quel tipo di fascino da ragazzo della porta accanto, ottimo per avere tanti amici, pessimo per vestire i panni del leader.
Dovrò guadagnarmi il rispetto sul campo, decise, dopo una lunga e attenta riflessione. E so benissimo che non sarà facile. Mio padre ha guidato i ranger del clan Arnavel per centocinquant’anni, dalla morte di sua madre. E anche lei… dopo una vita di servizio militare e dopo aver aiutato zio Fisdril a prendere le redini del clan, è morta combattendo un drago rosso a quasi settecento anni, un’età a cui le elfe normali stanno a casa a dedicarsi al giardinaggio da almeno due secoli. È una famiglia di cui è difficile essere all’altezza.
Aveva promesso a Jaylah di passare le successive due settimane con lei, in città, ma sapeva che non avrebbe potuto mantenere la parola data. Avere il comando gli imponeva dei sacrifici.


Alcuni giorni dopo

Amyl si stava annoiando. Dopo le attività frenetiche di qualche giorno prima, per organizzare il banchetto di benvenuto per gli elfi di Shilmista, la ragazza non aveva più avuto molto da fare. La maggior parte dei ranger della città aveva lasciato la foresta, quindi la locanda aveva perso quasi tutti i suoi clienti elfi. Restavano gli gnomi, che per fortuna continuavano a frequentare il pub in gran numero, ma alla giovane elfa socievole mancavano le chiacchierate con i suoi simili. Lady Freya era di umore altalenante in quei giorni e lady Aphedriel faticava a tenere il passo, Pilindiel era partita e Kalifein aveva messo il broncio perché non le era stato consentito di partire a sua volta. I loro incontri erano stati sospesi per qualche tempo e in città c’era un’aria strana, tesa, perché nessuno voleva ammetterlo ma tutti erano preoccupati per i loro parenti e amici che erano andati a combattere a Shilmista.
A Myth Dyraalis correva voce che sempre più elfi stessero arrivando da nord-ovest, dai territori dell’ex-clan Gysseghymn. Amyl si rigirò in testa quel pensiero, mentre puliva per la terza volta il bancone di una sala vuota. Quella voce aveva iniziato a circolare quando i primi elfi erano arrivati, con famiglie al seguito. La rossa si aspettava che portassero nuova linfa vitale nella locanda, ma così non era stato.
Forse sono abituati a vivere in piccoli villaggi nascosti, dove non c’è tempo né spazio per simili attività comunitarie. Di questo passo, non verranno mai alla Casa degli Scapoli. Anzi, di sicuro si stanno raccogliendo intorno alle loro famiglie, perché già si son dovuti trasferire in una casa che non è la loro… figuriamoci se hanno voglia di separarsi e gozzovigliare.
Amaryll non era sicura di quel pensiero, ma le stava nascendo in mente un’idea. Daren l’aveva lodata diverse volte per la sua capacità di mettere le persone a loro agio. Diamine, era riuscita a stabilire un rapporto con quel drow musone e aveva perfino fatto amicizia con la schiva lady Aphedriel… forse lei era la persona giusta per aiutare quegli elfi ad ambientarsi. Erano cugini, dopotutto, appartenevano a Sarenestar quanto lei. Non avrebbero dovuto sentirsi fuori posto a Myth Dyraalis, una città pensata per essere un porto sicuro per gli elfi.
Sì, decise con nuova risolutezza, chiederò un permesso per uscire prima e andrò a parlare con quelle famiglie. Qualcuno deve farlo, ed è meglio che starmene qui con le mani in mano.


Un paio di settimane dopo, territori settentrionali di Sarenestar

“Ripetimi un po’ dov’è andato Tazandil…”
Johel si irrigidì, perché non voleva rispondere a quella domanda. Non sinceramente, almeno.
“Da qualche parte nella Wealdath” borbottò, nascondendo il suo nervosismo dietro una facciata di fastidio.
“Che strano” ribatté Daren, sedendosi sul ramo dove si erano arrampicati per fare la guardia. “Di solito sei tu che vai in missione diplomatica.”
“Non è una vera missione diplomatica. C’è da discutere di alleanze militari e cose del genere.” Inventò, ma sempre restando nell’ambito della menzogna che lui e i suoi parenti avevano progettato di vendergli. “E forse la città di Suldanessellar è minacciata, anche se non sappiamo bene da cosa.”
“Un’altra premonizione di qualche veggente?” Domandò il drow, con un sorriso sghembo. Johel per un attimo sentì un brivido gelido lungo la schiena. Daren aveva capito che gli avevano mentito sulla premonizione di Hinistel? No, forse la sua era solo una battuta… se avesse capito che gli avevano mentito, Johel sarebbe già stato ucciso nel sonno.
Non si manda un drow a camminare fra la merda impunemente. Non senza un buon motivo.
“Non lo so, ma il pericolo era abbastanza reale da mobilitare metà dei ranger di Sarenestar.” Gli fece notare il biondo.
“E quindi ora sei tu al comando” sospirò Daren, lasciando oscillare le gambe in segno di frustrazione. “Com’è fastidioso. Torno da una missione disgustosa, e per inciso, abbiamo rinnovato le misure di sicurezza… e trovo te al comando dei ranger. Non c’è limite al peggio!”
“Ti domando scusa” scherzò il ranger, con una punta di sarcasmo. “La cosa ti crea così tanti problemi?”
“È ovvio che mi crea problemi. Il pensiero di dover obbedire a te è… è… semplicemente odioso!”
“Se ti consola, l’idea di doverti dare ordini non mi fa riposare tranquillo” ammise l’elfo dei boschi, sottovoce. “Ho paura che mi pugnalerai appena chiudo gli occhi.”
“Splendido.” Daren si fregò le mani. “Mi fa piacere che tu abbia ancora un po’ di sacro timore. Ma non preoccuparti, non ho intenzione di sfilacciare la corda del tuo arco” promise, un modo di dire che per gli elfi equivaleva a metterti i bastoni fra le ruote. “Ho capito che ora sarai tu a decidere i turni e le zone da pattugliare… va bene. Sono tuo amico. Il mio compito è supportarti, non crearti problemi.”
Johel si girò a guardarlo come se credesse di avere davanti un doppelganger, e lentamente avvicinò la mano alla spada.
“Non fare il cretino! Sono io, e non sono sotto controllo mentale!”
“Provalo” intimò Johel sfoderando la sua sciabola elfica e facendo un salto indietro. “Prova che sei davvero chi dici di essere!”
“Testa di legno!” Daren lo fulminò con lo sguardo. “Questa pantomima sta durando anche troppo.”
“Non sto scherzando” ribatté Johel, e in effetti suonava mortalmente serio. “Dimostrami che sei tu, oppure…”
“L’amicizia non genera debiti!” Daren cedette, esasperato, e pronunciò la frase che gli avevano attribuito durante il rituale in cui l’avevano nominato ruathar. Quelle poche parole erano intrise di potere sacro, e lo identificavano immediatamente come Amico degli Elfi di fronte a qualunque elfo di Superficie.
Johel abbassò immediatamente l’arma e il suo volto preoccupato si distese, solo per assumere poco dopo un’espressione sorpresa.
“Ma tu mi hai sempre creato problemi.”
“Solo problemi che potevi risolvere, che ti avrebbero fatto crescere” puntualizzò il drow. “Minare la tua autorità adesso sarebbe un errore, perché non ne hai alcuna. Posso permettermi di essere ribelle con Tazandil, ma non ho mai guidato una ribellione contro di lui, ti pare? Nessuno mette in dubbio che lui sia il capo, tuo padre può sopportare che io gli disobbedisca e può perfino cambiare i suoi piani seguendo i miei suggerimenti, questo non toglie nulla alla sua autorevolezza.”
“E quindi… con me sarai rispettoso e non farai lo stronzo bastian contrario?” Riassunse Johel.
“Già. Penso che possa esserti utile per non sentirti ancora più terrorizzato di quanto già sicuramente sei…” il drow si strinse nelle spalle.
“Riesci a essere odioso anche quando ti comporti da amico. Ho smesso di chiedermi perché lo fai, ma mi sto ancora domandando come ci riesci.”
“Basta mezz’ora di esercizio mentale ogni giorno” rivelò Daren, con l’aria di condividere un grande segreto. “Scrivi una decina di frasi di varia natura, e poi esercitati a rigirarle nel modo più offensivo e ambiguo possibile.”
“Oh? Ad esempio?” Johel non voleva approfondire il discorso, ma cominciava a provare un orripilato interesse, come quando vedi una scena disgustosa e non riesci a smettere di guardare.
“Ad esempio… potrei dire Spargerò dei fiori sulla sua tomba, oppure potrei dire Omaggerò la sua carogna buttandoci sopra degli organi sessuali recisi e putrescenti.”
“Che schifo” Johel distolse lo sguardo, pentendosi di aver chiesto.
“Mi dispiace, ma i fiori sono que…”
“Va bene, basta!” L’elfo agitò una mano come per allontanare quell’immagine mentale. “La prossima volta che ti faccio una domanda, ignorami.”
Daren sorrise come un djinni a cui avessero appena espresso un desiderio formalmente scorretto.
“Non sarà un problema. Ma, parlando di turni, quando potrò tornare a Myth Dyraalis?”
“Ci sei appena stato!”
“Una capatina per togliermi la merda di dosso, non ci sono rimasto nemmeno mezza giornata.”
Johel lo guardò con sospetto. “Tempo fa mi hai detto che stai cercando di abituarti alla città perché pensi che il nostro futuro sia lì. Ora io però ho bisogno di te sul campo, e lo sai. Quali sono quindi le tue vere ragioni? Perché vuoi andare in città?”
Daren non rispose, ma sospirò amareggiato. Si aspettava quella replica. La verità era che, in tutti quei giorni, aveva cominciato a sentire la mancanza di… non proprio di una vita domestica (era ancora traumatizzato dalla disavventura come cameriere), ma di Amyl sì. E anche di Jaylah, e di alcune singole persone che aveva imparato ad apprezzare. Se ci pensava con attenzione, se si concentrava sulle singole persone una alla volta, non brillava dalla voglia di rivederle… Raerlan, Pilindiel, Nelaeryn, Navar, lady Aphedriel, perfino lord Fisdril, e quel simpatico gnomo cuoco con la passione per il caffè, erano le persone meno fastidiose in città. Non significava che Daren morisse dalla voglia di passare più di dieci minuti con loro. Eppure, l’idea di stare in mezzo a loro gli riempiva la mente di sentimenti agrodolci e nostalgia.
Che cosa diamine mi sta succedendo? Si domandò, scuotendo la testa.
“Daren?” Lo richiamò l’amico.
“Eh?”
“Ti ho appena fatto una domanda.”
“Mi hai appena detto di ignorare le tue domande. Non più di un minuto fa!” Protestò il drow.
“Ma…”
Ma niente. Credi davvero che guadagnerai il rispetto degli altri ranger con le tue continue contraddizioni e con questo comportamento indeciso? Cresci un po’, che diamine!”
Daren si alzò in piedi sul ramo e ricominciò a scalare l’albero, per guadagnare una posizione d’osservazione migliore. Improvvisamente era di cattivo umore, e non capiva perché.


Penultimo giorno di Marphenoth, foresta di Shilmista

Tre frecce scoccate quasi in contemporanea, ma dirette su bersagli diversi: non era una cosa difficile per Pilindiel, la migliore arciera di Sarenestar. Tre goblin caddero in un istante, due con la freccia piantata nel collo e il terzo con un occhio trafitto, perché il suo collo era davvero troppo tozzo per essere un buon bersaglio.
“Soltanto goblin” sussurrò Tazandil con disgusto, cercando nuove frecce dalla sua faretra. Non ne trovò alcuna. Scoccava più rapidamente, l’anziano ranger, ma con meno precisione.
“Dovremmo continuare a combattere a distanza” suggerì Pilindiel, poco più che un sussurro. “Chissà quali odiose trappole…”
“Sono solo goblin!” La zittì il suo capo, sfoderando la spada.
Si calò dall’albero, silenzioso come la morte, e insieme ad altri due ranger accerchiò i mostriciattoli da dietro, mentre si affannavano a mettere in piedi una barricata.
Quelle patetiche creature erano un nemico ricorrente, per gli elfi di Superficie. Nel corso dei secoli, innumerevoli goblinoidi erano caduti sotto le spade degli elfi, non solo a Shilmista ma in tutto il Faerûn. Erano comuni un po’ ovunque… ma non a Sarenestar. Ce n’erano pochi, tenuti a bada da mostri più pericolosi di loro. Tazandil quindi non era esperto di tattiche di combattimento goblin, altrimenti avrebbe saputo che non ne avevano.
Di solito erano creature codarde, crudeli ma deboli, pronte a scappare non appena la loro preda si fosse un minimo ribellata. Non era da goblin, costruire barricate per difendere una posizione.
Qualcuno doveva avergli ordinato di farlo. Con la foresta di Shilmista già mezza invasa, era chiaro che le forze degli orchi e dei goblinoidi non avevano intenzione di tirarsi indietro, anche se la loro avanzata era stata fermata e il loro esercito aveva perso il suo leader.
Gli elfi non sapevano chi fosse ora il nuovo leader degli invasori, anzi, forse non lo sapevano neanche i goblin. Forse adesso i nemici erano spaccati in diverse fazioni in lotta per il comando, ma questo non cambiava le cose: gli elfi di Shilmista volevano riprendersi la zona settentrionale della loro foresta, e se la sarebbero ripresa, con l’acciaio e con il sangue.
La foresta di Shilmista si sviluppava per più di centocinquanta miglia da nord a sud, una stretta striscia di alberi fra le montagne Fiocco di Neve e le pianure dell’Amn. Riprendersela tutta non sarebbe stato un lavoro breve, e tutti si aspettavano che in primavera, se non prima, i misteriosi nemici umani che tramavano nell’ombra avrebbero rimpolpato le fila degli orchi e dei goblin, alleandosi con il nuovo capo o imponendone uno di loro comodo. Per questo era di vitale importanza recuperare più terreno possibile e consolidare delle nuove postazioni difensive.
Gli elfi di Sarenestar si erano ambientati subito. Niente come la caccia ai goblin poteva cementare un’alleanza fra elfi. Il contingente di Tazandil era stato diviso in gruppi più piccoli, perché non servivano tanti ranger per distruggere un accampamento goblin. Inoltre era vitale non far accorgere i nemici dell’avanzata delle truppe elfiche.
Insieme a ogni piccola squadra di ranger di Sarenestar c’erano almeno uno o due elfi di Shilmista, perché potessero guidare gli alleati in quel territorio sconosciuto.
Tazandil non conosceva Shilmista e non conosceva i goblin in generale. Nessuno conosceva l’attuale assetto dell’esercito, nel particolare.
Muoversi alla cieca non è mai una buona idea, nemmeno se sono solo goblin.
Nell’accampamento era stata scavata una trincea. Spaventati dalla pioggia di frecce, quei piccoli mostri si erano rifugiati laggiù, coprendosi alla meglio con scudi di legno e di metallo. La trincea era completamente coperta e ora assomigliava più a un camminamento, un sentiero artificiale poggiato sul terreno sconnesso della foresta. La protezione improvvisata li riparava dalle frecce, ma impediva anche a loro di contrattaccare.
In quella mossa Tazandil vide solo codardia, e non una manovra per costringere gli elfi a scendere in corpo a corpo. Eppure, lui stesso era lì.
Tre elfi dei boschi stavano accerchiando il campo goblin con mosse furtive e prudenti, ma non avevano proprio calcolato che potesse essere una trappola.
La trincea non era senza sbocchi, come appariva al primo sguardo: all’interno erano stati scavati dei cunicoli più piccoli, segreti, che sbucavano a qualche decina di passi dal campo. In questo modo, mentre credevano di accerchiare i goblin, gli elfi vennero accerchiati a loro volta.
Due dozzine di nemici assetati di sangue si lanciarono sui ranger, senza preavviso. In pochi mesi quei laidi invasori avevano imparato a muoversi nella foresta quasi senza fare rumore, ma le orecchie fini degli elfi sanno cogliere anche il minimo fruscio. Nonostante la valida tattica, Tazandil e i suoi si accorsero in tempo di quell’agguato alle spalle e riuscirono a prepararsi e a mettersi in posizione difensiva prima di essere assaliti. Respinsero la prima ondata, senza riportare troppe ferite. I goblin li avevano quasi colti di sorpresa e questo gli aveva dato un grande vantaggio, ma di per sé quei piccoletti non erano certo una sfida preoccupante per i formidabili guerrieri. Presto i goblin cominciarono a cadere sotto il filo delle spade elfiche, e alcune frecce di supporto piovvero dall’alto, per mano di Pilindiel e Nelaeryn.
Quello che tutti stavano mancando di considerare, era che doveva per forza esserci una mente dietro quella strategia. Qualcuno doveva aver dato ordini ai piccoli soldati.
Quel misterioso qualcuno si rivelò alla vista proprio mentre Tazandil veniva assalito da quattro goblin in contemporanea; quello che sembrava un sasso coperto di muschio, e fino a un momento prima perfino gli elfi avrebbero giurato che lo fosse, si alzò di colpo in piedi rivelando la sagoma di un bugbear abilmente mimetizzato con il paesaggio. Il bugbear non era armato, ma le sue enormi mani erano dotate di artigli, e i suoi riflessi erano rapidi come quelli di un gatto. Era stranamente intelligente e svelto per uno della sua razza, forse era perfino il nuovo capo dell’esercito goblinoide, o uno dei capi… ma Tazandil non ebbe il tempo di chiederselo, perché una mano artigliata lo afferrò al collo da dietro, strappandolo alla battaglia. Il vecchio elfo si ritrovò sbilanciato all’indietro in un istante, poi sollevato in aria, con i piedi che scalciavano al vuoto.
Pilidiel cercò subito una freccia da incoccare, ma la sua faretra ormai era vuota. Nelaeryn ne aveva ancora, ma si era già lanciato giù dall’albero sfoderando le armi, fuori dalla portata dell’elfa.
Tazandil non era ancora un elfo perduto; cambiò subito presa sulla spada, girandola in modo che la punta fosse diretta alle sue spalle, e cercò di colpire alla cieca il bugbear. Era grosso, perfino per la sua specie, non avrebbe dovuto faticare per colpirlo… e lo tagliò, infatti, conficcando la spada da qualche parte nel ventre o in una gamba, impossibile capirlo. La bestia urlò, ma non lasciò la presa, anzi, strinse ancora di più. Tazandil scalciò senza farlo apposta, era una reazione istintiva per cercare di respirare.
Sarebbe un modo molto stupido di morire! pensò, estraendo la spada dal corpo del nemico e cercando di colpire ancora. Avrebbe lottato fino a quando le stelle che vedeva davanti agli occhi non si fossero spente del tutto. Si rifiutava di morire contro un bugbear. I suoi ranger sarebbero intervenuti. Doveva solo resistere fino a quando… doveva solo…
Il bugbear lo lasciò andare di colpo, con uno strattone laterale che mandò Tazandil a cadere a tre passi di distanza sul terreno sassoso. L’elfo non cercò di resistere alla caduta, anzi, si appallottolò e rotolò lasciando che l’energia cinetica si sfogasse. La mossa lo allontanò ancora di più dal bugbear, e quando finalmente l’elfo riuscì a fermarsi e a rialzare la testa, scoprì che non era stato uno dei suoi ranger a colpire il nemico alle spalle.
Una mostruosa creatura spettrale aveva afferrato il guerriero goblinoide e l’aveva sollevato (anche se il bugbear era tutt’altro che piccolo e leggero!); quella cosa trasparente era grossa quanto un orso crudele, e ne aveva più o meno la forma. L’orso non era del tutto incorporeo, perché era riuscito ad afferrare il nemico fra le zampe anteriori e a sollevarlo alzandosi sulle zampe posteriori, eppure Tazandil aveva la sensazione che non fosse neppure completamente fisico.
Ho le allucinazioni, pensò, tastandosi la gola. La mancanza d’aria, forse…
Per un attimo sembrò che fosse in atto una sfida di forza bruta fra l’orso e il bugbear, poi il più piccolo dei due si spezzò come un guscio secco fra i bracci di uno schiaccianoci. Il rumore delle ossa che si spezzavano riverberò fra gli alberi, viscido e raccapricciante, e poi fu il silenzio. I goblin erano quasi tutti morti per mano dei ranger, e quelli che non erano morti se l’erano saggiamente data a gambe.
La bestia spettrale lasciò andare il suo macabro fardello e si avvicinò a Tazandil, con molta flemma. Nonostante avesse appena fatto a pezzi una creatura che era robusta il doppio di un elfo, il vecchio ranger sentì con certezza che quell’animale… quello spirito… non voleva fargli del male. Vedendolo da vicino era chiaramente un orso, anche se i suoi contorni sembravano appena abbozzati a causa della trasparenza. L’elfo era abbastanza sicuro che allo spirito mancasse un occhio.
L’orso rugliò fra i denti, un suono basso e borbottante, come se stesse mugugnando un rimprovero all’indirizzo del ranger, infine scomparve in una nebbia spettrale.
Dopo qualche secondo di silenzio, Tazandil si pulì i vestiti dal terriccio e rinfoderò la spada.
“Grazie, Lacis” bofonchiò a bassa voce. E grazie, Jaylah. Non dubiterò mai più delle creazioni di una strega.

           

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Capitolo 17
*** 1361 DR: Ospite ***


1361 DR: Ospite


“Non so come avrei fatto senza di te” sorrise l’elfo, con sincera gratitudine. “Adesso questa casa sembra un posto vivibile.”
“Figurati, Vialaer. So che non è facile riadattarsi alla vita di città, specialmente in una casa che non è la tua.” Amyl rispose al sorriso, ma in modo un po’ incerto. Era vero, però: nelle ultime settimane avevano lavorato sodo per riportare quella vecchia casa elfica ad uno stato decente, e si meritava quei ringraziamenti. “Ma come mai sei qui da solo? Non avevi… una compagna?”
L’elfo dai capelli rossi evitò il suo sguardo e si strinse nelle spalle. “Ah, no, era soltanto una frequentazione. Non siamo arrivati a nulla, diceva che mi importava solo del mio lavoro e che non le sembravo abbastanza interessato a lei.” L’imbarazzo passò subito, perché solo parlare del suo lavoro gli riaccese una scintilla negli occhi. “A proposito, vuoi vedere le mie ultime creazioni?”
“No” tagliò corto Amyl, senza preoccuparsi di suonare maleducata.
Vialaer le rivolse uno sguardo spiazzato e un po’ triste. “Oh. Be’, non sai che ti perdi. Sto sviluppando un nuovo tipo di tessuto vegetale leggero e resistente, che vorrei sperimentare su un abito vero, e potrei concederti l’onore di confezionarti un prototipo su misura…”
“No” ripeté l’elfa, puntando anche un dito verso il basso come si fa con i cani. “Ho sopportato la tua passione per i vestiti per tutta l’infanzia, cugino, e per anni sono andata in giro addobbata con i pastrocchi che mi cucivi tu. Sono molto felice che questo ti abbia aiutato a sviluppare un’arte, ma ho chiuso per sempre con le tue idee innovative. Mi piacciono gli abiti che indosso.”
“Ma sono banali!”
“Mi piace essere banale. Mi piace essere una persona qualsiasi. Ma confido che troverai qualcun altro da contagiare con la tua passione per la moda, in città. Anzi, penso che sia il tuo habitat naturale, non ho mai capito perché hai voluto trasferirti in quel minuscolo villaggio Gysseghymn.”
“Saeron si era trasferito, e io e mio fratello siamo sempre stati molto legati” ammise, stringendosi nelle spalle. “A ripensarci adesso, con il senno di poi, forse è stata una decisione affrettata. Avrei dovuto pensare più alla mia vita. Specialmente ora che Saeron… ogni tanto fa discorsi strani.”
“Strani come?” Iniziò a chiedere lei, ma i due vennero interrotti dall’arrivo di un alto elfo.
“Vialaer, Amaryll! Sono qui!” Esclamò il nuovo arrivato, con un gran sorriso. Aveva i calzoni sporchi di resina, le mani arrossate per i segni delle corde, e si era tolto la camicia. Nessun elfo può dirsi davvero muscoloso, non come gli umani, ma questo giovane era più scolpito e allenato di… be’, di Vialaer, di sicuro.
Amyl lo riconobbe, era uno dei migliori amici di suo cugino; faceva parte del gruppetto che si era stabilito in quella casa. Era un costruttore, nel suo villaggio si occupava di progettare e costruire case e passerelle sopraelevate in collaborazione con il loro druido. Era l’unico di quel gruppetto a portare i capelli corti, quindi lei l’aveva riconosciuto subito, e dopo un momento ricordò anche il nome.
“Sì, lo vedo che sei qui” rispose l’elfo dai capelli rossi, piegando la testa da un lato. “Ma lo dici come se fossi atteso?”
Il nuovo arrivato, Belegron, passò lo sguardo dall’amico alla ragazza, il suo sorriso che si cristallizzava rivelando una punta di imbarazzo.
“Ho finito il mio lavoro e sono venuto ad aiutarvi. Vi avevo chiesto se avevate bisogno di aiuto e mi avevate detto che era più importante riparare le passerelle che portavano a questa casa. Ebbene, l’ho fatto, e adesso sono qui per vedere se avete bisogno di aiuto!”
“Ma…” Amyl e Vialaer si scambiarono un’occhiata. “No, veramente abbiamo finito anche noi.”
“Però è stato molto gentile da parte tua” s’intromise Amaryll, che credeva che suo cugino si stesse comportando in modo un po’ scortese. “Adesso devo tornare al pub, ma perché non ci venite anche voi? Ora che i lavori alla casa sono finiti, potete riprendere fiato e socializzare un po’ con gli abitanti di Myth Dyraalis.”
“Eh…” questa volta, fu il turno dei due elfi scambiarsi un’occhiata. “ll problema è che nel nostro villaggio non si usa molto il denaro. Anzi, non si usa per niente. Siamo pochi, e ognuno fa la sua parte. Non abbiamo bisogno di pagarci a vicenda. Ogni tanto troviamo qualche tana di mostro, o qualche cadavere di viandanti, che hanno qualche soldo o gemme preziose… ma non vi diamo peso e le teniamo soprattutto come decorazioni. Non sapremmo come pagare, al pub.”
“Oh, ma…” Amyl esitò, perché per un’elfa che viveva a Myth Dyraalis, era difficile spiegare la struttura economica della città. “Nemmeno noi usiamo tanto il denaro. Gli gnomi lo usano, un po’, soprattutto perché vogliono commerciare con l’esterno. Più spesso, ci arrangiamo con baratti e scambi di favori. Chi non ha tempo o voglia di mettere le sue capacità a disposizione della comunità finisce per pagare in denaro, ma è più facile che il taverniere offra cibo e bevande a chi gli dà in cambio beni di consumo, o presta il proprio lavoro.”
“Interessante” considerò Belegron, asciugandosi la fronte con il retro della mano. “Sai se il pub ha bisogno di riparazioni? Potrei offrirmi volontario, e in cambio avrei l’occasione di… trattenermi nei pressi, conoscere persone, e magari averne in cambio qualcosa.”
“Riparazioni vere e proprie no, ma è una locanda, ha sempre bisogno di manutenzione” spiegò Amyl. L’elfo le rispose con un gran sorriso e lei non poté fare a meno di sorridere a sua volta, il buonumore di Belegron era contagioso.
“Tenterò, allora. Mi farai parlare con il locandiere? E che dite, chiediamo anche a Saeron di venire con noi?”
“Perché no!” Approvò l’elfo più mingherlino. “Abbiamo lavorato tutti con impegno. Vai tu a chiamare Saeron, vuoi?”
“Ma è tuo fratello” protestò il costruttore.
“Tu l’hai visto per ultimo. Non ho voglia di perdere tempo a cercarlo.”
Amaryll assistette allo scambio di battute fra i due amici, senza capire bene cosa stesse succedendo, eppure con l’impressione che stesse succedendo qualcosa. Vialaer fissò gli occhi in quelli di Belegron e l’amico sostenne lo sguardo, in segno di sfida. Però alla fine fu il costruttore a desistere.
“Va bene” mugugnò. “Ci vediamo lì.” Prima di andarsene gettò un’ultima occhiataccia all’amico, si girò e se ne andò stiracchiandosi, come per rilassare i muscoli dopo il lavoro.
Amyl lo guardò andare via, perplessa, poi spostò gli occhi sul cugino. Cercò di trasmettergli una muta domanda.
“E poi la gente crede che io mi metta in mostra, solo perché mi piacciono gli abiti originali.” Protestò Vialaer. “Hai mai visto qualcuno pavoneggiarsi tanto?”
“Si stava pavoneggiando?”
“Certo! Che bisogno aveva di andare in giro a petto nudo?”
“Avrà avuto caldo” lo giustificò la ragazza, stringendosi nelle spalle.
“Non fa caldo. Va bene, stava lavorando; ma anche noi abbiamo appena finito di lavorare, e non ci siamo denudati.”
“Non capisco, cugino, è il tuo amore per i vestiti che ti spinge a disprezzare chi non li usa, oppure sei insolitamente puritano?” Ridacchiò Amyl, perché non era normale che un elfo se la prendesse per quella sciocchezza.
“Non mi scandalizzo davanti alla nudità, ci mancherebbe.” Negò l’elfo più giovane. “Mi dà fastidio che faccia il cascamorto con te. Sei mia cugina, sei una brava ragazza, e lui è un donnaiolo.”
Amaryll rimase senza parole, e per qualche secondo boccheggiò a vuoto.
“Che sciocchezze! Non è interessato a me, e ad ogni modo non penso a me stessa come a una brava ragazza.”
Vialaer rimase a corto di obiezioni, ma solo per un attimo.
“Però sembri una brava ragazza, e questo ha una grande attrattiva su persone come Belegron. Sicuramente non vede l'ora di aggiungerti alla lista delle sue conquiste. Hai notato come ha cercato di rimanere da solo con te, mandandomi a cercare mio fratello? E chissà quando l'avrei trovato…”
“Stai correndo con la fantasia, cuginetto” Amyl si stiracchiò, facendo scrocchiare le spalle. Mentre lavorava non si era accorta di aver tenuto per lungo tempo una posizione scomoda. E adesso sarebbe dovuta tornare al pub, quindi non c’era tempo per riposare.

Amyl aveva già indossato la divisa della Casa degli Scapoli e si stava preparando a ripulire il bancone, quando l’altro suo cugino, Saeron, entrò dalla porta della taverna accompagnato da Belegron. Quest’ultimo si era finalmente vestito come si deve, ma sembrava che i suoi abiti fossero giusto un pochino troppo stretti per lui.
“Sciocco pavone” borbottò Vialaer, seduto al bancone. Amyl l’aveva sentito, perché il cugino era seduto molto vicino a lei, ed era sicura che il sarto si fosse lasciato sfuggire l’insulto a mezza voce proprio per farsi udire da lei. Quel commento però la spinse a riflettere e a prendere in considerazione la figura di Belegron. La tunica che aveva scelto lasciava intravedere il suo torace muscoloso (per un elfo) e la linea dei bicipiti.
Forse ha ragione mio cugino, è un tipo vanesio. Oh, ma chi se ne importa, non è un crimine.
Accantonò quei pensieri e sorrise ai due elfi. “Ben arrivati! Qualcosa da bere, per rinfrescarvi dopo il lavoro?”
Saeron si strinse nelle spalle. Aveva un’espressione lievemente infastidita, ma era sempre stato così fin da quando Amyl ne aveva memoria. Suo cugino andava in giro con quell’aria di malcelata disapprovazione, come se sentisse tutto il tempo un odore cattivo che solo lui poteva percepire. La cameriera sospirò fra sé e sé, notando che gli anni non l’avevano affatto cambiato. I suoi occhi neri scandagliavano il posto come se lo stesse valutando.
“Non ho bisogno di rinfrescarmi, mentre lavoravo avevo caldo, ma passato quel momento mi sono accorto che il clima qui non è poi così clemente” raccontò, con la solita inutile dovizia di particolari. “Il lavoro però mi ha messo fame. C’è qualcosa in questa taverna gnomica che sia commestibile anche per un elfo?”
Amyl rimase un po’ spiazzata per quel commento… Saeron era sempre stato un po’ snob, ma non se lo ricordava anche razzista. Be’, non che avesse detto qualcosa di terribile, ma era comunque sgradevole.
“La Casa degli Scapoli offre servizio sia agli gnomi che agli elfi, come puoi notare dal bancone a due altezze” gli indicò, perché il bancone ad un certo punto s’interrompeva in una sorta di gradino e diventava molto più basso. C’erano anche delle piccole sedie a misura di gnomo. “E offrirebbe servizio anche ad altre creature, se ce ne fossero” concluse con una punta di gelo nella voce.
Belegron intervenne prima che la situazione potesse degenerare, e fece una battuta che Amyl non ascoltò veramente, ma strappò una risata a tutti i presenti.
Sarà vanitoso, ma almeno è un tipo alla mano e di buonsenso, considerò l’elfa, mentre spostava lo sguardo da Belegron a Saeron, e viceversa. Mio cugino Saeron invece è vanitoso, snob e si crede superiore agli altri. Mi dispiace vedere che non è migliorato affatto da quando eravamo ragazzini.

Saeron e Vialaer erano gemelli, ma non avrebbero potuto essere più diversi. Vialaer aveva un carattere estroverso, capelli fulvi solo un po’ più scuri di quelli di Amyl, vestiva sempre in modo eccentrico, ma gli occhi chiari e i tratti squadrati gli davano un’aria aristocratica e seria finché non apriva bocca; a quel punto diventava evidente che era un artista mezzo squinternato, troppo preso dalle sue passioni per essere affidabile. Però almeno era una persona positiva, in un modo tutto suo.
Saeron invece era borioso e pieno di sé, sempre troppo in alto per gli altri comuni mortali, e non aveva alcun motivo valido per considerarsi tale; la sua famiglia non era importante e non era nobile, ma Saeron passava ore a curare i suoi capelli neri in modo che fossero lucidi come la seta e a volte li intrecciava in acconciature sofisticate, per dare l’impressione di essere uno con del tempo da perdere. A conti fatti era un artista anche lui, era un bardo, ma Amyl sospettava che avesse scelto quella carriera più per evitare il lavoro vero, che per amore della musica.
Gli elfi dei boschi avevano delle credenze strane e superstiziose sui gemelli. Pensavano che per un’elfa fosse impossibile concepire due gemelli, e che l’evento si verificasse solo quando lo spirito di un antenato, che voleva tornare nel mondo, si trovava a cercare di occupare il corpo di un feto che aveva già un suo spirito. A quel punto, secondo le loro credenze, il bambino non poteva ospitare due spiriti e si scindeva in due, diventando due gemelli. Di solito i due gemelli erano uguali, spesso erano così in simbiosi da completare l’uno le frasi dell’altro, e questo era un chiaro segno del fatto che una volta fossero la stessa persona.
Ogni tanto due gemelli nascevano diversi, come in questo caso, e quello era segno del fatto che i due spiriti fossero così incompatibili da modificare il corpo stesso in cui si trovavano.
Amyl era cresciuta con quelle convinzioni e non le aveva mai messe in dubbio; era una spiegazione valida, secondo lei. Vialaer e Saeron erano certamente diversi come il giorno e la notte. Eppure non c’era limite all’affetto che Vialaer provava per suo fratello, un affetto che sconfinava quasi nella sudditanza.
Amyl ogni tanto si chiedeva se fosse corrisposto.
“Allora, c’è qualcosa da mangiare?” Saeron riprese il discorso.
“Abbiamo del sedano fresco, ricordo che ti piaceva” propose Amyl. Scegli tu se mangiarlo e se farne un altro uso, aggiunse a mente, ma non voleva cominciare a litigare dopo che Belegron era riuscito ad alleggerire l’atmosfera.
“Certo, se sei capace di cucinarlo, mi va benissimo.”
“Di solito non cucino io, ma il signor Yandri, il nostro cuoco. Ma per il mio caro cuginetto posso fare un’eccezione.” Amyl sorrise con l’aria di chi sta accettando una sfida.

I tre elfi si fermarono alla locanda per pranzo e divenne presto chiaro che Vialaer aveva ragione. Il suo amico ci stava provando con Amyl.
All’inizio lei non ci voleva credere e aveva liquidato la cosa come una fantasia del cugino, ma dopo una dozzina di commenti ambigui dovette ammettere che forse era stata ingenua.
Cercò di svicolare e di deviare il discorso ogni volta che l’approccio di Belegron si faceva troppo diretto, e lui ad un certo punto capì che la rossa era a disagio, quindi allentò la presa e decise di limitarsi a un comportamento amichevole.
Troppo presi dal loro complicato balletto di flirt e disagio, non si accorsero che un avventore inusuale era entrato nel pub e si era avvicinato al bancone. Amyl se ne rese conto solo quando Vialaer fischiò a bassa voce.
“Accidenti. Guarda!” sussurrò a suo fratello toccandolo con il gomito, un po’ per sincera sorpresa e un po’ per distrarre Saeron dal suo cupo malumore.
Saeron, che già di suo aveva l’espressione di chi ha appena pestato una cacca, si girò per vedere cosa avesse colto l’attenzione del suo gemello… e la sua smorfia infastidita divenne ancora più marcata.
Amyl si accorse di quel giro di sguardi e cercò la fonte di tutto quello scompiglio.
Un drow fradicio di pioggia si era appena appoggiato al ripiano del bancone. Non era armato, ma indossava ancora l’armatura di cuoio, segno che sicuramente veniva da fuori città.
“Daren!” Amyl gli rivolse un sorriso luminoso, spontaneo, il sorriso di chi non vede il suo amante da più di un mese. L’elfo scuro sembrò quasi sorpreso del suo entusiasmo. In effetti la sua espressione era strana, incerta, e per un momento non seppe come risponderle. Poi alzò una mano in segno di saluto.
“Buongiorno, Amaryll. Uhm… ha iniziato a piovere, se mi dai uno straccio pulisco il…” indicò le sue impronte bagnate con un cenno della testa.
“Sciocchezze, se ha cominciato a piovere chiunque entri bagnerà il pavimento. Ci penserò dopo. Adesso vai vicino al camino a scaldarti, ti porto qualcosa da bere? O vuoi prima una stanza e un cambio d’abiti?” Propose, sapendo quanto il drow odiasse essere in disordine.
Se lui avesse accettato lei l’avrebbe indirizzato verso la camera che condividevano di solito, ma in privato. Amyl ricordava bene che Daren non voleva rendere pubblica la loro relazione, quindi in presenza di estranei l’elfa cercava di trattarlo con gentilezza ma senza eccessiva familiarità.
Lui ci pensò un momento. Il suo comportamento era strano, di solito sapeva cosa voleva e lo sapeva subito. Non era mai così esitante, tranne quando discutevano della loro relazione.
“Andrò vicino al camino. I miei vestiti non sono tanto bagnati, l’armatura è quasi impermeabile.” Spiegò, affermando l’ovvio. Un’armatura di cuoio non doveva impregnarsi per la pioggia, e nemmeno per un tuffo in acqua, altrimenti avrebbe raddoppiato il suo peso. Amyl naturalmente non poteva saperlo.
“Benissimo. Ti porto qualcosa?”
“Uh, non so…” Daren in realtà era entrato solo per vederla, ma lei in quel momento stava lavorando, non poteva dedicargli attenzioni e lui non voleva che lo facesse davanti a tutti. Però non aveva realizzato che avrebbe dovuto comportarsi come un cliente. “Una tisana calda. Fuori dalla città fa freddo, sta iniziando a nevicare.”
Amyl tornò dai suoi amici, fermandosi solo un attimo per recuperare un bricco di metallo da sotto il bancone. Lo riempì con acqua potabile che conservava in un catino, e lo poggiò sopra a una lastra di pietra incisa di simboli magici. Quell’oggetto poteva generare un intenso freddo o un intenso calore, e veniva usato per raffreddare o riscaldare le bevande. Amyl toccò un paio di glifi che si accesero di rosso fuoco, dando il via a un processo di progressivo riscaldamento. Non serviva essere incantatori per poterlo usare, per fortuna.
Lasciò il bricco con l’acqua a scaldarsi, prese al volo qualche pacchetto di erbe e fiori e tornò dai suoi cugini. I tre elfi la guardarono in silenzio mentre disponeva le erbe in proporzioni diverse in un colino di fibre intrecciate.
“E così, piove” commentò Vialaer, tendendo l’orecchio per sentire il rumore dell’acquazzone autunnale. Il suo tono era sempre leggero, ma in modo un po’ esitante. “Sembra che abbiamo finito di lavorare appena in tempo, eh? Speriamo che il tetto della nostra nuova casa regga.”
“Reggerà, l’avevo sistemato a dovere” rispose Belegron, sforzandosi di sorridere come prima. Amyl non si accorse del cambiamento d’umore dei suoi amici, perché in parte era concentrata sul suo lavoro, e in parte l’arrivo di Daren aveva calamitato il resto della sua attenzione. Cinque settimane di separazione le erano sembrate moltissimo tempo. Non aveva quasi avuto notizie di lui, se non da voci di corridoio. Sapeva che qualche tempo prima era tornato dalla sua missione, quella che aveva intrapreso dietro invito di lady Merildil, ma di cui non conosceva i dettagli. Poi però era stato subito richiamato in pattuglia da Johlariel, e non era passato nemmeno a salutarla. Amyl non aveva saputo cosa aspettarsi da lui, poi quel giorno per magia era apparso nel pub come se nulla fosse, senza annunciarsi, senza una parola o una lettera o niente.
La rossa avrebbe dovuto essere arrabbiata. Avrebbe voluto essere arrabbiata.
Invece riusciva soltanto a essere sollevata.
“Che cos’era, quello?” Saeron insinuò a forza la sua voce sgradevole nei suoi pensieri. No, non era la voce… era il tono a essere sgradevole, anche più del solito.
“Quello cosa?” domandò la ragazza, guardandosi intorno. Dal tono del cugino, pareva che avesse visto un topo camminare sui biscotti.
Quello sei tu che familiarizzi con un drow.” Si degnò di spiegare, senza nemmeno curarsi di abbassare la voce.
Amaryll rimase di sasso, e perfino Vialaer e Belegron lo guardarono straniti. Tutti conoscevano Daren, almeno di fama. Nessuno si sarebbe sognato di contestare la sua presenza in quel luogo.
“Scusa ma non ti seguo” l’elfa decise che la situazione era troppo imbarazzante e desolante per prenderla di petto, e se Saeron aveva qualcosa di razzista da dire era meglio che lo dicesse direttamente, perché in quel momento sarebbe stato pericoloso mettergli in bocca parole che aveva solo lasciato intendere. “Io sono una cameriera e Daren è un cliente. Ormai viene spesso in città, è normale che lo conosca.”
“So benissimo che ha il permesso di essere qui e non è questo che sto contestando” ammise il bardo, con aria stizzita.
“Non ha il permesso di essere qui, è un nostro amico.” Lo corresse Amyl, incapace di trattenersi.
“E quindi ha il permesso di essere qui” Saeron non cedette di un palmo. “Non senza ragione, per carità, ma è comunque un ospite. Non è uno di noi. Va bene che sia qui, ma non va bene che tu…”
“Che io cosa?” Minacciò la ragazza, puntandogli contro un dito accusatore. “Pensaci bene, cugino, perché tu non hai il diritto di dire agli altri cosa fare, e nemmeno di sputare sentenze.”
Saeron arrossì di rabbia. Nessuno gli si rivolgeva mai con quel tono.
“Se una mia parente si prende troppa confidenza con un… N’Tel’Quess…
Tecnicamente non è un N’Tel’Quess, in quanto appartiene a una razza elfica” specificò Amyl, cercando di mettere il cugino con le spalle al muro. “A differenza del mio capo, che è uno gnomo, e di metà della popolazione di Myth Dyraalis.” Finse di avere un’idea improvvisa e si mise una mano davanti alla bocca. “Oh! Non mi dirai che è per questo che te ne sei andato, anni fa?” Lo provocò, in tono fintamente sorpreso.
Saeron s’irrigidì. “No, ovviamente, se mi desse fastidio questa cosa non sarei tornato a vivere qui. Sto solo dicendo che tu sei…”
Amyl sollevò le sopracciglia in un’espressione d’invito. “Sì?”
“Sei un’elfa, e non sei più una ragazzina, penso che dovresti smettere di fare la cameriera e pensare a crearti una famiglia... anziché civettare con tutti i tuoi clienti, Tel’Quessir e non.”
Amyl arrossì di rabbia. Vialaer arrossì per l’imbarazzo. Belegron si guardò intorno un po’ impanicato, e si pentì di essere seduto quasi in mezzo fra i due litiganti.
“Ehi, Amaryll, mentre difendi il tuo diritto ad essere una donna libera, è un problema se mi servo da solo?” domandò il drow, che si era avvicinato al bollitore.
Amyl spostò lo sguardo su di lui, senza sapere cosa pensare. L’osservazione la fece sentire inadeguata nel suo lavoro, perché aveva dimenticato di servire un cliente, ma il tono di Daren non era critico. Anzi, sembrava molto divertito dall’alterco.
“Sì, certo, scusami” la rossa passò al guerriero la tazza vuota con il filtro e le erbe che aveva preparato. “Però non ridere di me, non è divertente!”
“Non sto ridendo di te” Daren alzò le mani in un gesto innocuo. “Sì, trovo ridicolo che un’elfa debba difendere le proprie scelte di vita, ma questo non mi spinge a ridere di te. Piuttosto…” spostò lo sguardo su Saeron e sorrise, un sorriso per nulla cattivo, ma proprio per questo quasi minaccioso. “Credo sia commovente che un estraneo si preoccupi così tanto del tuo futuro.”
“Non sono un estraneo” Saeron corrugò la fronte e raddrizzò la schiena, facendo conto sulla sua maggiore altezza per torreggiare sul drow. “Sono suo cugino.”
“Ah! Ma certo. Non ero stato informato che secondo i costumi degli elfi dei boschi i cugini avessero il diritto di decidere la carriera delle cugine. Ma io sono solo un estraneo e un ignorante.”
“Siete un estraneo, infatti” l’elfo snob non aveva intenzione di farsi un nemico, ma nemmeno di cedere terreno. “Vi pregherei di stare lontano da faccende che non vi riguardano.”
“Sono qui solo per la mia tisana” si difese il drow, con un conciliante cenno del capo. “Be’, lo ammetto, anche per lo spettacolo. Mentre il vostro amico corteggiava Amaryll ho pensato che foste livido a causa di un vostro interesse per lei, ma poi quando l’avete rimproverata mi sono detto… No, non è possibile, va bene che non capisco del tutto la società elfica, ma nessuno parlerebbe in modo così aggressivo a una ragazza che gli piace. Se dite che siete suo cugino, a maggior ragione non poteva essere quello il motivo.” L’elfo scuro perseverò nel suo sorriso piacevole, tranquillo, assolutamente terrificante. “E stante il mio animo Tel’Quess che apprezza il melodramma quanto qualsiasi altro elfo, mi sono trovato a ponderare, sebbene non siano affari miei, quale fosse la vera ragione del vostro malumore di poc’anzi…”
Amyl assistette allo scambio di battute con espressione perplessa, perché Daren di solito non parlava in quel modo, sembrava che stesse facendo mille giri di parole inserendo un sacco di fronzoli in un modo che non era affatto da lui. Sembrava che non volesse farsi capire.
Saeron però doveva aver capito benissimo, perché impallidì anche più del solito e fece un passo indietro.
“È… è la pioggia.” Mentì infine. “Il brutto tempo mi rende lunatico e malinconico e non mi accorgo del mio brutto carattere finché non infastidisco le persone intorno a me. Mi rincresce, Amyl, se sono stato sgarbato.”
Il suo improvviso cambio di tono insospettì la ragazza, ma accettò comunque le scuse del cugino. Era solo per fare scena, come anche la sua falsissima giustificazione.
“Saeron, perché non andiamo a vedere se il tetto di casa sopporta la pioggia?” propose Vialaer al gemello. “Potremmo tornare qui stasera e vedere cosa possiamo offrire in cambio della gentilezza di Amyl e della cena.”
“Aspetta” Amaryll fermò Vialaer prima che potesse portare via lo scomodo personaggio. “Saeron, non credi di dovere a Daren delle scuse?”
Il bardo aveva un colorito pallido per un elfo dei boschi, quindi tutti videro la sua faccia diventare viola. Fece per aprire bocca, con l’entusiasmo di chi deve addentare un limone, ma l’elfo scuro lo prevenne.
“Non è necessario. Aveva ragione su una cosa, io qui sono un ospite. Non avrei alcun diritto di stare in questa città, se i capiclan non avessero considerato favorevolmente le mie azioni e non mi avessero riconosciuto come amico. Lui invece è un elfo di Sarenestar” nonostante le parole accomodanti, lo sguardo del drow non era meno perforante quando si fissò negli occhi del bardo “appartiene a questo luogo per diritto di nascita.”
Il sottotesto era ben chiaro all’elfo: il drow gli stava risparmiando l’umiliazione di scusarsi, ma in cambio aveva sottolineato “Io mi sono meritato di essere qui. Tu non hai fatto niente di utile.”
Saeron ingoiò un’amara risposta, perché in realtà non c’era nulla che potesse dire. Era vero. Aveva dedicato la sua vita all’apparenza, a sembrare importante, a sembrare indispensabile, a sembrare un artista. Se l’era anche cavata abbastanza bene. La vita non gli aveva dato nulla di ciò che lui aveva sempre voluto, e a quel punto poteva solo lavorare duro per recuperare, oppure fingere di avere tutto. La menzogna era una tale consolazione, poteva quasi credere di essere la persona che voleva essere.
Odiava che qualcuno gli ricordasse che non era così.
Scoccò al drow un’occhiataccia che sapeva di vuote minacce, e se ne andò stizzito, senza nemmeno salutare.
“Eh… mi sa che vado con lui” annunciò Belegron, con imbarazzo. “Così, se… se scoprissimo che piove in casa, potrei aggiustare il tetto immediatamente. Visto che la pioggia, uh, lo indispone.”
L’elfo dai capelli corti scappò fuori nella pioggia, e Amyl non poté fare a meno di considerare che i suoi assurdi vestiti troppo stretti non avrebbero nascosto proprio nulla, una volta bagnati. Ma forse era quello che Belegron voleva ottenere. Lei scosse la testa, pensando a quanto erano sciocchi, a volte, i maschi.

Daren notò che l’elfo con i capelli rossi e i vestiti bislacchi era rimasto, e che Amyl sembrava a suo agio in sua presenza. Dal suo linguaggio del corpo era chiaro che questo qui fosse il suo unico vero amico fra quei tre. L’elfo non si era ancora presentato (ma dopotutto perché avrebbe dovuto?), però lo stava guardando di sottecchi.
“E quindi…” cominciò il mingherlino. “Non riesco a capire se avete un rapporto speciale con mia cugina oppure no” decise di vuotare il sacco.
L’elfo scuro fu preso alla sprovvista da questa domanda, e non si curò di nascondere il suo stupore. Era impressionato che l’altro l’avesse capito da quel breve scambio di battute, ma sperò che la sua sorpresa venisse scambiata per negazione.
“Cosa ve lo fa pensare?”
L’elfo dei boschi si strinse nelle spalle. “Siete accorso ad aiutarla non appena Saeron ha cominciato a trattarla male. Come un… ah… cavaliere in un’armatura fatta di superiorità morale e sarcasmo.”
Daren piegò un angolo della bocca in un ghignetto involontario.
“Solo sarcasmo. Non sono superiore a nessuno, l’ho minacciato in modo molto meschino per fargli abbassare le arie.”

Questa volta fu il turno di Vialaer spalancare gli occhi sorpreso, perché non si era accorto di niente.
“Cosa? In che modo?”
Il drow prese un lungo sospiro e ci pensò un momento.
“No. Lui ha mollato il colpo. È stato ai patti, quindi non rivelerò il suo segretuccio ai suoi amici.”
“È mio fratello” lo corresse l’elfo strano. “Oh, e, io sono Vialaer. Sono un cugino… l’altro cugino di Amaryll.” Si affrettò a presentarsi, porgendo al drow il braccio destro.
“Io mi chiamo Daren” rispose lui. Strinse l’avambraccio dell’altro, ricevendo in cambio una stretta uguale. Era una forma di saluto informale, dal quale immaginò che Vialaer fosse molto più alla mano del fratello.
“Sul serio non volete dirmi in che modo avete minacciato mio fratello? Non credo che fosse una minaccia fisica, quindi non agirò contro di voi.” Promise.
“Ve l’ho detto. L’ho minacciato di rivelare un segreto, una cosa che avevo capito dal suo comportamento. Ma non posso dirvi cos’è. Sono affari di vostro fratello.”
Vialaer rimase in silenzio per alcuni secondi, pensandoci su.
“Va bene.” Accettò infine. “Ma potete dirmi se c’è del tenero fra voi e mia cugina? Perché il vostro comportamento è strano. Siete corso qui quando lei aveva bisogno…”
“Amyl sa difendersi da sola, ho soltanto perso la pazienza” lo corresse Daren, osservando di sottecchi la reazione di Amaryll. Lei sembrava abbastanza compiaciuta.
L’elfo annuì, ma terminò comunque il suo pensiero: “E siete un amico intimo, perché usate il suo soprannome, ma non avete mosso un dito mentre Belegron la corteggiava.”
L’elfo scuro divenne improvvisamente illeggibile, riparandosi dietro un mezzo sorriso di circostanza. “Perché avrei dovuto dire qualcosa? Un elfo che corteggia un’elfa in modo non insistente e non sgradevole… stava agendo nel suo diritto. Così come era un diritto di Amyl scegliere di considerarlo oppure no. Sono suo amico, mi preoccupo solo nel momento in cui qualcuno la mette a disagio.”
Vialaer lo soppesò ancora per qualche momento, poi scosse la testa con un sorriso. “Allora ho malinterpretato la situazione. Chiedo scusa.”
Amyl sapeva perché suo cugino era convinto di aver preso un abbaglio: anche se la gelosia non è comune fra gli elfi, esiste comunque il concetto di monogamia e di solito quando gente della loro età cominciava a frequentare qualcuno era per una storia seria. Fare scenate non era molto elfico, ma se lei avesse avuto un fidanzato, quel fidanzato si sarebbe sentito in diritto di farsi avanti e mettere in chiaro la situazione, in modo civile ma inequivocabile. Daren non lo aveva fatto, quindi non poteva essere il suo compagno. O quantomeno non poteva essere una cosa seria.
Anche lei sarebbe stata tentata di pensarla così, e di sottovalutare il loro rapporto, specialmente dopo cinque settimane di silenzio. Però non poteva ignorare il fatto che il drow venisse da una cultura del tutto diversa, una in cui i maschi dovevano solo accettare le attenzioni delle femmine, e non avevano nulla da pretendere in cambio. Non sapeva se esistesse la monogamia fra i drow, ma probabilmente era unilaterale.
E cos’era quella sua espressione strana, leggera, ma come se nascondesse qualcosa? Perché aveva la sensazione che Daren sotto sotto fosse a disagio?
“Ti fermi alla locanda, stanotte?” Gli domandò, sperando in una risposta affermativa. Quando lui annuì, tirò un sospiro di sollievo: non poteva parlare apertamente con lui mentre lavorava come cameriera, ma quella notte sarebbe stato suo ospite, e avrebbero avuto il tempo di chiarirsi. Magari anche di fare il punto della loro relazione.

           

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Capitolo 18
*** 1361 DR: Restare è esistere, ma viaggiare è vivere ***


1361 DR: Restare è esistere, ma viaggiare è vivere


Aphedriel stava studiando. Questo non era strano, la giovane maga era sempre molto ligia e passava la maggior parte del tempo china su grossi tomi di teoria e pratica magica.
Quello che invece era strano, era che Freya le stesse facendo compagnia sui libri. Be’, su un libro.
“No!” squittì Freya, chiudendo di scatto il volume. “Che fai, brutto imbecille, lei ha troppo stile per cascarci!”
Aphedriel sollevò un sopracciglio corvino e si girò per sbirciare cosa stesse facendo Freya. Era sdraiata sul loro letto e teneva in mano un romanzo, che aveva già riaperto cercando freneticamente la pagina.
“Una lettura avvincente?” le domandò con un sorrisetto. Era una cosa rara, vedere la stregona così presa da un testo scritto.
Aphedriel sapeva che le letture della moglie erano semplice narrativa. La figlia del capoclan non era stupida, ma aveva un carattere troppo frenetico, un tomo di saggistica l’avrebbe annoiata a morte. Freya non sentiva la necessità di nozioni ma di emozioni. La maga era molto contenta che avesse trovato uno svago in quel libro, perché di norma avrebbe cercato quelle emozioni da lei… Aphedriel amava la sua giovane sposa e il suo entusiasmo, ma a volte sentiva la mancanza di un intero pomeriggio sui libri senza essere interrotta da baci, abbracci, tentativi di flirt e di Come Sei Bella Quando Ti Concentri. Aveva il sospetto che per Freya fosse una specie di missione, distrarla dallo studio, come se si sentisse in competizione con i libri e fosse gelosa.
“È un romanzo che Johel mi ha portato dall’ultimo viaggio, l’ha comprato a… Dagger… burg… o qualcosa del genere. A Waterdeep hanno una cosa nuova che si chiama macchina da stampa e stanno stampando molte copie di novelle di avventura, amore, intrighi e crimini efferati. Questi sono libri che potrei leggere senza annoiarmi! E anche se pensavo che questo fosse noioso, perché è stampato fitto fitto, alla fine ho deciso che mi piace.”
Aphedriel sbirciò la copertina, con la sua vista acuta da elfa. Il titolo era tutto un programma: La Rosa di Neverwinter: l’Amore Sconfigge l’Oscurità.
La sovrabbondanza di lettere in maiuscolo e la calligrafia floreale in caratteri d’argento le fecero immediatamente bollare il libro come spazzatura, ma non voleva smorzare l’entusiasmo di Freya.
“Che bello, tesoro” sorrise a labbra strette.
La brunetta fece scorrere le pagine, sospirando perché non trovava più il punto in cui si era interrotta. Non c’erano poi molte pagine fra cui cercare.
“C’è questa città umana chiamata Neverwinter, fatta solo di castelli collegati fra loro… che secondo me è una sciocchezza, perché dov’è il popolo? Una città abitata solo da nobili non ha il minimo senso.”
“Hm-hm” concordò Aphedriel, distrattamente.
“Però la trama non è male. A Neverwinter ci sono settanta nobili fanciulle bellissime…”
“Oh! A saperlo avrei visitato Neverwinter decenni fa” scherzò la maga.
“Non è la vera Neverwinter” Freya le lanciò un’occhiataccia, ma l’altra era di spalle e non la vide. Sentì, però, il tono un po’ offeso della moglie.
“Scherzavo, tesoro, non mi interessano le donne umane. Alcune di loro sono anche passabili, ma poi ti giri un istante, e un attimo dopo hanno già le rughe e i loro seni floridi sono solo un ricordo…”
Freya le tirò una scarpa di cuoio, colpendo lo schienale della sedia.
“Non esistono altri seni floridi all’infuori dei miei” bofonchiò.
“A volte mi chiedo se sei davvero un’elfa” Aphedriel si girò a guardarla, appoggiando il mento su una mano e facendole una smorfietta provocatoria. “La gelosia, la tua rozzaggine… all’inizio pensavo fosse una cosa tipica degli elfi dei boschi, ma pochissime persone qui sono come te.”
Nessuna persona è come me” la corresse Freya “e lo sai che non sono un’elfa completa, la mia bisnonna era una ninfa.”
“Che sarebbe la nonna di tuo padre, l’elfo più dignitoso e compassato che io abbia conosciuto fuori da Evereska, quindi trova un’altra scusa.”
La stregona aggrottò la fronte. “Be’, sono anche giovane. E sono molto innamorata, purtroppo.”
“Oh? Purtroppo?” Aphedriel la punzecchiò ancora.
“Una maledizione! Guarda…” riprese a sfogliare freneticamente il suo libro. “La ragazza più bella di Neverwinter viene contesa da sei principi. Sei maledetti principi belli da schiantare il fiato, e lei è lì che li tiene sul filo e si fa corteggiare. E io, che sono molto più bella di qualsiasi umana, non avrò mai sei spasimanti che gareggiano per me, perché sono già sposata e irrimediabilmente innamorata!”
“Avrei dovuto corteggiarti di più quando potevo farlo” l’elfa della luna stette al gioco. “Nei dieci secondi fra quando ci siamo incontrate e quando mi hai chiesto di sposarti.”
“Sì, è vero, potrei essere un po’ irruente…” Freya si strinse nelle spalle.
Aphedriel stava per mettersi a ridere, ma in quel momento uno scroscio di pioggia si riversò nella stanza dalla finestra. Gli acquazzoni tardo-autunnali erano improvvisi e violenti, a Myth Dyraalis.
Aphedriel lanciò un urletto, e Freya scattò in piedi, correndo a chiudere le imposte.
“Accidenti… dannato vento…” imprecò, sporgendosi dalla finestra per recuperare le persiane che sbattevano. Alla fine riuscì a chiudere fuori la pioggia, ma quando Aphedriel accese una luce magica per rischiarare la stanza si accorse che Freya era bagnata come un pulcino. La risata che aveva trattenuto prima le scappò di bocca.
Freya stava per offendersi, ma Aphedriel l’asciugò immediatamente con un incantesimo e le passò una mano fra i capelli spettinati. “Scusami, eri adorabile così bagnata. E poi si vedevano bene quelle cose che solo tu hai…”
L’elfa dei boschi rimase perplessa per un attimo, poi ricordò la battuta sui seni floridi e arrossì. “Ma dai, stavo scherzando. In realtà… leggere quel libro pieno di castelli, splendidi giardini, persone nobili e corteggiamenti, mi ha fatta riflettere sulla nostra vita.” Cercò lo sguardo di Aphedriel come se volesse la sua approvazione. I loro occhi si incrociarono, nell’intimità della loro stanza rischiarata da un tenue incantesimo di luce. “Sulla mancanza di romanticismo nella nostra vita. Io ti ho portata via da una città piena di splendidi palazzi, giardini addomesticati, alberi dalla chioma blu…”
“Hanno proprio colpito la tua immaginazione, quegli alberi” scherzò la maga, ricordando che Freya si era lamentata di come gli elfi cittadini pretendevano di imbrigliare la natura, ma era rimasta affascinata dalle piante di fogliablu che crescevano nel nord.
“Sono belli. A me piace tutto ciò che è bello. E mi sono ritrovata a pensare… che razza di vita ti ho dato? Myth Dyraalis per me è casa, ma non è il posto più bello del mondo.”
“Freya, questa città è splendida. È la quintessenza di quello che una città elfica dovrebbe essere. Palazzi arborei, ponti a diverse altezze, piante di ogni genere, sentieri ben curati…”
“Piante molto simili” rettificò Freya “senza grandi colori, perfino in primavera. Solo toni di verde, e nemmeno l’ombra di un corso d’acqua. Abbiamo i pozzi per l’acqua potabile, e una piccola sorgente che alimenta un ruscello, ma non abbiamo un angolino romantico, nemmeno un ponticello pittoresco, per non parlare di eleganti canali navigabili nelle notti di luna piena su una nave a forma di cigno con un baldacchino di seta e…”
“Dovresti proprio smettere di leggere quella roba” la interruppe Aphedriel “sul serio, amore, gli unici gesti romantici che contano sono quelli spontanei. Lasciamo le barche a forma di cigno agli umani, e lasciamogli anche roseti che fioriscono in inverno, grossolani poemi d’amore, passeggiate sul lungofiume nelle sere di primavera e altre sciocchezze. In questa città c’è vera bellezza, e il culmine di quella bellezza sei tu. Questo è il luogo che chiami casa, quindi è anche la mia casa.” L’elfa della luna scandagliò le parole della moglie nella sua mente, per cercare di capire se Freya stesse davvero imputando a lei quel desiderio di romanticismo oppure se fosse un’inconscia proiezione dei suoi desideri. Freya dopotutto aveva passato la vita a Sarenestar, uscendo solo per la sua breve gita ad Evereska. Forse la stregona si sentiva in trappola nella casa della sua infanzia? “Ad ogni modo siamo donne adulte. Possiamo anche viaggiare ogni tanto, prenderci una vacanza. Non dico proprio in questo momento, il tempismo sarebbe pessimo, con quasi tutti i nostri ranger lontani dalla foresta… io non me la sentirei di abbandonare Myth Dyraalis senza il supporto dei nostri poteri, perché non si sa mai cosa può succedere. Ma quando Tazandil tornerà da Shilmista, allora potremmo anche dedicare un po’ di tempo a noi due. Potremmo andare… non so… a visitare altre città elfiche, o perfino le città umane.”
Freya sembrò rasserenata dal discorso della sua amata, e verso la fine un bagliore di genuino entusiasmo si accese nel suo sguardo. Forse Aphedriel ci aveva visto giusto, dopotutto. L’elfa dei boschi aveva bisogno di evasione.
“Sì! Hai ragione, non possiamo lasciare la città fintanto che siamo in situazione di allarme, con le difese ridotte ai minimi e senza sapere se mio zio tornerà sano e salvo. Però fra un po’ di tempo potremmo viaggiare. Non nel Tethyr umano, sono in una fase di instabilità politica e guerriglia che va avanti da… da… boh, dieci anni o poco più, e quindi potrebbe durare ancora molto. Però c’è sempre la Wealdath, la foresta di mia zia. Potrei… forse in futuro potrei anche propormi per missioni diplomatiche, come mio cugino Johel.”
Aphedriel le accarezzò una guancia, perdendo tempo a giocherellare con i suoi ricci castani. Aveva il solito sguardo adorante, ma c’era qualcosa di più; era anche orgogliosa di Freya, in quel momento. Sta crescendo, disse a se stessa. Sperimenta quel desiderio di vedere un pezzetto di mondo, come quasi tutti gli elfi della nostra età. Io non ne sono altrettanto ansiosa… ma forse dovrei mettere in conto che la mia vita potrebbe non essere stanziale come avevo immaginato.
“Sì, potresti” l’assecondò. “Tuo padre ne sarebbe contento. Ma se vuoi ricoprire un ruolo diplomatico, tesoro, dobbiamo lavorare un pochino sul tuo carattere.”
“Cosa? Che ha il mio carattere che non va?” Freya incrociò le braccia sul petto, offesa, dimostrando che Aphedriel aveva ragione. “Mi sento profondamente insultata, Ariel. E ferita. Questo conta come un litigio.”
L’elfa della luna fu colta alla sprovvista dall’improvviso malumore della compagna, ma poi riconobbe il bluff per quello che era.
“E se anche fosse un litigio?” decise di darle corda, per vedere dove volesse andare a parare.
È un litigio” confermò la stregona. “Quindi ora dobbiamo fare pace.”
Aphedriel rispose con un sorrisetto interessato, mentre Freya attaccava con impazienza i bottoni del suo vestito. Una vocina interiore le ricordò timidamente che poco prima stava studiando, e che era contenta che Freya avesse qualcos’altro da fare anziché dedicarsi a lei, ma nel giro di un attimo l’elfa della luna aveva già cambiato idea sulle sue priorità.

Fuori dalla loro finestra sprangata uno scricciolo blu atterrò su un ramo, zuppo di pioggia. Gwlith era di ritorno da uno dei suoi voli esplorativi, e aveva trovato la finestra della sua padrona chiusa dall’interno. Incapace di stabilire un contatto telepatico con la sua maga, che evidentemente era impegnata a fare altro, l’uccellino si scrollò di dosso la pioggia e scese in planata verso un’altra struttura di legno, più in basso sullo stesso albero.
Gwlith sapeva che c’era un’apertura, fra la parete e il tetto, abbastanza larga per lasciar passare un uccellino. Un tempo era usata dalla piccola civetta di Merildil, che poi era morta di vecchiaia, ma sul legno c’erano ancora i segni dei suoi artigli. Gwlith era sollevata che non ci fossero altri uccelli predatori intorno a quella casa, le bastava la poiana dell’altra elfa.
Con il tempo lo scricciolo e la poiana avevano imparato a convivere, visto che fra le loro padrone c’era così tanta intesa, ma la piccola Gwlith non era comunque a suo agio accanto a Piper.
Gwlith sapeva che non c’era modo di accedere alla stanza della sua padrona Aphedriel passando dalla cucina, perché in una casa elfica come quella le stanze erano piattaforme separate, su diversi rami; però almeno sarebbe stata al caldo e all’asciutto. Volò fino al tavolo. C’erano diverse elfe in cucina in quel momento, ma Gwlith le conosceva tutte, quindi non si allarmò; anzi, si avvicinò alla padrona di casa e iniziò a cinguettare con insistenza, per farsi dare dei semi.

“Uccellino!” Esplose Jaylah, vedendo lo scricciolo blu planare sul tavolo. “Ciao uccellino, vieni sulla mia mano!”
Gwlith ovviamente la ignorò.
Merildil ormai conosceva l’irruenza della nipotina, che non sapeva dosare il suo entusiasmo davanti agli animali, ma pensava che in quanto druida fosse un suo dovere educarla.
“Jaylah, se vuoi diventare amica degli uccellini devi lasciare che siano loro ad avvicinarsi a te. Non gli puoi gridare addosso in questo modo, li spaventi” le ricordò con pazienza.
“Ma posso darli io la pappa?” Domandò la piccola, guardando con desiderio il sacchetto di semi che Merildil stava tirando fuori da un cassetto. “Così diventiamo amici!”
“Puoi, ma devi farlo con calma” insistette Merildil, guidando la piccola mano della mezzadrow nel prendere e stendere sul tavolo una striscia di semi.
“E adesso quando si avvicina ci posso giocare?”
“No, quando Gwlith si avvicinerà tu la guarderai mangiare in pace. Così lei si abituerà ad averti intorno anche mentre è felice perché sta mangiando. Se tu la spaventi mentre mangia, non si fiderà mai di te.”
“Ma io non vollio spaventalla! Non ho mica fatto la faccia cattiva…” Jaylah sembrava un po’ demoralizzata.
“Certo che non vuoi, ma tu sei molto più grande di un uccellino. Gli animali hanno sempre paura di quello che è più grande di loro. Perfino dei bambini.”
“Oh” Jaylah tradì un’espressione rassegnata, un po’ triste. “Va bene.”
Merildil tenne d’occhio la nipote per controllare che avesse capito davvero. Sembrava di sì. Jaylah aveva appoggiato i gomiti al tavolo e ora stava osservando rapita lo scricciolo che beccava i semi. Era chiaro che avrebbe voluto tendere una mano e toccarlo, ma si trattenne.
Merildil mise mentalmente a confronto quella scena con le parole di Hinistel di poco prima. Sua cognata era venuta a trovarla portando la bambina e una lettera di Tazandil. Era venuta per tre ragioni. La prima, più personale, era per chiedere alla druida un parere sullo stato della sua gravidanza; Hinistel non era più giovane, e anche se alcune elfe rimangono fertili ben oltre i quattrocento anni, comunque era il caso di tenere sotto controllo il suo stato di salute. La seconda ragione era politica: consegnare a lord Fisdril la lettera di Tazandil. Il ranger talvolta rasentava la paranoia, aveva deciso di non scrivere lettere a suo fratello per paura che fossero intercettate dai maghi nemici, quindi aveva nascosto con cura informazioni sullo stato della guerra in mezzo a una lettera apparentemente innocua e nostalgica a sua moglie. Hinistel non conosceva il codice di Tazandil, ma Fisdril sì. La donna poteva solo leggere il significato più superficiale della lettera di suo marito, e sperare che le tenere parole che aveva per lei fossero sincere e non solo una facciata per nascondere messaggi strategici. Aveva bisogno di Fisdril per determinare quali espressioni fossero rivolte a lei, e quali al capoclan.
La terza ragione riguardava la famiglia, ed era racchiusa nell’ultima frase della lettera, così diretta e impersonale, così da Tazandil. Merildil la rilesse ancora una volta, per sicurezza.

In ultimo, ti informo che Jaylah è approvata come nipote. Per quando tornerò spero di trovarla più acclimatata alla cultura elfica di quanto non lo sia ora.

Il tono della frase, piuttosto secco, sembrava dissonante rispetto alle parole tenere che aveva scritto per sua moglie… ma agli occhi di chi conosceva Tazandil di persona quell’ultima frase sarebbe apparsa come l’unica davvero scritta di suo pugno.
“Che cosa significa che Jaylah è approvata come nipote? È vostra nipote” Merildil alzò lo sguardo dalla lettera per sondare l’espressione di lady Hinistel. “Non c’era nulla da decidere.”
“Tazandil è così” l’elfa dai capelli rossi si strinse nelle spalle. “Deve sempre far credere di avere il controllo. Io non ho mai messo in dubbio che la nostra piccola faccia parte della famiglia.” Confermò, accarezzando i capelli biondissimi della bimba mezzadrow. “D’altro canto non ha torto su una cosa: non è ancora acclimatata con i nostri usi e costumi. Non è elfa. Anch’io vorrei che lo diventasse, ma a volte mi chiedo…” la sua voce si spense in un silenzio imbarazzato, perché non sapeva trovare le parole per esprimere i suoi dubbi.
“È buona la pappa, uccellino?” sussurrò Jaylah, guardando Gwlith con il chiaro desiderio di interagire con l’animale. “Vuoi altri semi?”
Merildil allontanò il sacchetto di semi dalla portata della nipotina. Era chiaro che la piccola avrebbe fatto di tutto pur di stabilire un contatto amichevole con il famiglio di Aphedriel. Anche a costo di riempirlo di cibo fino a farlo esplodere.
“Basta semi. Ha mangiato abbastanza. Se si riempie troppo, poi non riesce più a volare.”
Jaylah ridacchiò, divertita dal pensiero di un uccellino sferico che sbatte inutilmente le ali.
“Vollio fare un disegno di uccellino che è troppo cicciotto pe’ volare” affermò.
Merildil per fortuna aveva sempre dei carboncini, e le diede un vecchio tagliere di legno su cui disegnare. Qualsiasi cosa purché si intrattenesse da sola, in silenzio.
“Ti preoccupa il modo in cui parla?” domandò a Hinistel, con un sorriso di comprensione. “Temi che Jaylah abbia dei… problemi di apprendimento?”
“Non ho visto miglioramenti significativi da quando è qui.” La veggente vuotò il sacco, condividendo le sue preoccupazioni. “Sono cinque mesi ormai. I bambini della sua età di solito imparano in fretta. Ha imparato a pronunciare meglio alcune parole, ha ampliato il suo vocabolario un pochino, ma mantiene ancora certe abitudini… e certi difetti di pronuncia che Johel aveva già perso prima dei tre anni.”
“A volte accavalla le consonanti diverse” confermò Merildil, che aveva notato le stesse problematiche. “Oppure non si cura di pronunciare l’ultima lettera se è una consonante.”
“A volte sbaglia l’ordine delle sillabe all’interno di una parola” rincarò Hinistel.
“Però, amica mia, non dobbiamo dimenticare che l’elfico non è la lingua in cui è cresciuta finora. Spero che Johel parlasse con lei nella nostra lingua, ma chiunque altro, forse perfino sua madre, parla in quel volgare dialetto umano.” Le ricordò la druida.
Le due nobili elfe si scambiarono uno sguardo incerto, di sottecchi. Non parlavano mai della madre di Jaylah. L’argomento era… non proprio imbarazzante, ma un po’ scomodo. Era una drow e sapevano che non era malvagia, ma non era come Daren che cercava almeno di vivere fra gli elfi; ai loro occhi, lei faceva la contadina in mezzo ad umani contadini.
Perfino gli elfi di Sarenestar sapevano che non tutti i drow vivevano nel sottosuolo, ma quelli che vivevano in Superficie di solito erano i gentili seguaci di Eilistraee (gentili in termini generali, con l’eccezione di Daren), oppure i malvagi fedeli di Vhaeraun che cercavano di riappropriarsi indebitamente di un posto sotto le stelle. Tutti loro avevano una cosa in comune: una loro identità, un’idea di comunità. Non erano tipici drow, ma erano drow.
La madre di Jaylah era una stramberia perfino per gli standard del suo popolo. Secondo Hinistel e Merildil un’elfa, di qualsiasi razza fosse, non avrebbe dovuto mescolarsi così agli umani. Ma loro erano elfe dei boschi. Appartenevano a un popolo che amava le foreste e cercava di mantenere il suo stile di vita ancestrale. Gli elfi dei boschi, nonostante il loro buon cuore, sono isolazionisti e tradizionalisti. Se fossero state elfe della luna, abituate all’idea di vivere in città miste fianco a fianco con gli umani, forse avrebbero trovato più accettabile lo stile di vita di quella drow solitaria.
“Forse abbiamo imposto a Johel un fardello troppo pesante, fin da quando era giovane, facendone un girovago” sussurrò Hinistel. “Non è la prima volta che ci penso. All’inizio viaggiava solo fra insediamenti elfici, ma guarda com’è cambiato da quando ha iniziato ad avere contatti con gli umani. Io… so che era giusto lasciargli fare le sue esperienze, ma a volte penso che qualcosa di elfico in lui si sia perso.”
“E tuttavia è la diversità che ci arricchisce” considerò Merildil. “Tuo figlio non è meno elfo di me, ha solo un punto di vista un po’ diverso. Non possiamo mettere da parte con leggerezza le opinioni di qualcuno che ha visto in prima persona il mondo. Ci serve qualcuno che sappia interpretare i comportamenti degli umani. L’incomprensione e le barriere culturali sono una delle principali cause di conflitto.”
Hinistel annuì, perché era una cosa su cui aveva riflettuto a lungo. Sapeva che una figura come quella ci voleva, ma il fatto che fosse proprio suo figlio a dover rivestire quel ruolo ambivalente le causava sentimenti contrastanti.
“Io non sono… contraria al fatto che Johel viaggi. All’inizio ci occorreva qualcuno che mantenesse i rapporti con la Wealdath e lui sembrava la soluzione ideale, essendo figlio di entrambe le foreste. So che molte volte ha fatto visita al mio clan di nascita e questo mi fa molto piacere. Ma poi ho capito che una volta visto un angolo di mondo, non si sarebbe fermato lì. Era così giovane, curioso, direi quasi inquieto. Volevo che facesse le sue esperienze.”
“Hai ragione a dire che quelle esperienze lo hanno reso un po’ diverso da noi. Ma se così non fosse stato, ora non avremmo Jaylah” sorrise Merildil, guardando con tenerezza la bambina che disegnava, sdraiata per terra a pancia in giù.
Hinistel si irrigidì leggermente. Spiò la reazione della cognata, indecisa se confidarle un segreto o no.
“L’arrivo di Jaylah… non era del tutto inaspettato” confessò.
Merildil inclinò la testa da un lato, dubbiosa sull’importanza di quello che aveva appena sentito. Poi ricordò che lady Hinistel era una veggente.
“Oh, certo, l’avrai previsto” considerò. “Johel avrà impiegato settimane per giungere qui con la bambina.”
“L’avevo previsto” confermò l’elfa. “Ma non così di recente. Quando Johel era appena alle soglie dell’età adulta, e venne mandato a compiere la sua prima missione diplomatica, io cominciai a preoccuparmi per il suo futuro. All’inizio temevo soltanto che potesse farsi male o incontrare pericoli. Quindi cercai di divinare il suo futuro, ma era troppo incerto. Un solo messaggio continuava a uscire, dalle carte e dalle meditazioni e anche da altri canali: che Johel avrebbe desiderato viaggiare. Il viaggio stesso è foriero di molte incertezze e pericoli, e la vita di un girovago è meno semplice da predire rispetto a quella di una persona stanziale.”
“Certo, è comprensibile.” Annuì Merildil, che aveva poca esperienza di divinazione ma comprendeva almeno le basi dei misteri arcani.
“Nonostante questo, non mi arresi. Johel era il mio unico figlio… lo è ancora” si toccò il ventre gravido, perché per scaramanzia era meglio non chiamare un bambino prima che fosse nato. “Ero preoccupata per le conseguenze delle sue scelte. Cercai di divinare allora sulla base di due premesse: cosa sarebbe accaduto se l’avessi lasciato viaggiare, e cosa invece se avessi insistito per farlo restare. Lui era giovane, e sapevo che non avrebbe mai voluto darmi un dispiacere, quindi mi avrebbe ascoltata se io mi fossi opposta.”
Merildil cominciò a intuire che quel racconto era più che un semplice aneddoto: Hinistel doveva avere un qualche peso sulla coscienza.
“Vai avanti” la incitò, bevendo ogni parola. La druida era una buona ascoltatrice.
“Ho visto che se l’avessi tenuto con me, in questa foresta, avrebbe raggiunto un’età venerabile e avrebbe avuto una vita… lineare. La sua carriera avrebbe seguito certi binari prestabiliti e non si sarebbe discostato dalla nostra cultura. La divinazione non si esprimeva su nient’altro. Non ho visto amore, né felicità, ma non significa che non ci sarebbero stati; solo non… non sarebbero dipesi da quella scelta, non so se mi spiego.”
“Non credo di aver capito proprio tutto, ma alla fine hai lasciato che scegliesse il corso della sua vita, vero? Quindi cos’hai visto quando hai guardato nell’altra direzione?”
Hinistel ci pensò per un lungo momento, poi raddrizzò le spalle.
“Non sono pentita della mia decisione” annunciò. “Perché per la verità era la sua decisione. Johel ha fatto ciò che voleva fare, ed è sempre più facile per una madre perdonare il suo stesso egoismo se coincideva con il volere dei suoi figli. Nell’altra direzione ho visto una vita molto più sfaccettata. Ho visto pericolo e dolore, ma anche gioia, amore, ricerca della verità. Ho visto tutto quello che un elfo normale vive in dieci vite, e la cosa mi ha spaventata, ma mi ha anche elettrizzata. Ho visto buone probabilità di sopravvivenza oltre l’età adulta, anche se non era una certezza, e ho visto l’alleanza di persone che l’avrebbero aiutato e sostenuto. Alcune di quelle persone siamo sicuramente noi, la sua famiglia… ma non soltanto noi. Johel è capace di stringere amicizia facilmente e questa è una virtù senza prezzo per un viaggiatore. E poi ho visto” Hinistel gettò una fugace occhiata a Jaylah, e Merildil ricordò le sue parole di poco prima: aveva previsto l’arrivo della bambina.
“Hai visto lei?” sbottò Merildil, incredula. Non era riuscita a trattenersi.
“Non proprio lei.” Sussurrò la veggente. “Non raggiungo questo livello di precisione. Ho visto qualcosa però, e sono quasi certa che si tratti di una realtà e non di una potenzialità.” Guardò Jaylah come se la stesse seriamente considerando. Poi si decise a parlare. “Tre figli. So quasi per certo che Johel avrà tre figli. Uno nato dall’amore, uno dalla lussuria e uno dall’affetto.”
Merildil rimase senza parole.
Se Hinistel sapeva tutto questo decenni prima della nascita della bambina, allora la sua decisione di lasciar partire Johel aveva sicuramente un secondo fine. La veggente dava un grandissimo valore alla possibilità di avere una discendenza, più di quanto lo facesse Merildil stessa che era la moglie del capoclan. Ma la druida sapeva che le considerazioni di Hinistel non erano di natura materialistica: l’elfa era sinceramente convinta che i bambini fossero un dono e una gioia, quindi se aveva intravisto un futuro in cui suo figlio avrebbe avuto dei figli, non poteva impedirgli di prendere quella strada. Si sarebbe sentita colpevole per aver impedito quelle nascite.
“Ma forse anche se fosse rimasto qui avrebbe avuto figli. Hai detto tu stessa che avrebbe avuto una vita… normale.”
“Nulla di sicuro” le ricordò Hinistel. “Mentre invece questi tre bambini erano ben più di una possibilità. Quasi una certezza. Non si ricevono simili dettagli se non c’è almeno quasi una certezza.” Spiegò, sulla difensiva.
“Quali dettagli? Le circostanze delle loro nascite? Tu pensi che la loro madre possa essere sempre la stessa donna? Che il suo… rapporto con Johlariel… possa evolversi dalla semplice lussuria all’affetto, e poi all’amore? O in un diverso ordine?”
“No” l’elfa scosse la testa, con sicurezza. “Ci sono altri dettagli che non ti ho ancora raccontato. Non può trattarsi della stessa madre, perché un bambino sarà elfo, uno sarà elfo per metà, e uno sarà elfo e non elfo insieme.”
Merildil questa volta dovette sedersi. Così tanti dettagli davano ragione a Hinistel, quella discendenza non era solo una potenzialità, era quasi inevitabile. A meno che non fosse successo qualcosa di brutto a Johel, altri due bambini prima o poi sarebbero arrivati.
“Un momento, un mezzo elfo… potrebbe già essere nato, Johel viaggia moltissimo da almeno un secolo e non disdegna le donne umane. Se il suo figlio elfo per metà fosse umano per l’altra metà, potrebbe essere già adulto o addirittura già morto.” Ragionò, facendo mentalmente il conto degli anni. “O tu pensi che sia Jaylah la bambina elfa per metà?”
Hinistel intrecciò le dita sul ventre, pensando a quella domanda. Era un interrogativo che le rimbalzava in mente fin da quando Johel aveva portato la piccola a Myth Dyraalis.
“Ci ho riflettuto a lungo, e credo che Jaylah sia elfa e non elfa insieme. Sua madre è drow. I drow appartengono al popolo elfico, ma sono una razza a parte, e nessuno di noi li definirebbe volentieri elfi.” Condividere le sue ipotesi con Merildil era un sollievo, perché poteva sentire l’opinione di un’altra elfa colta e ragionevole. “Ammetto che Jaylah non è ciò che mi aspettavo come nipote, ma l’ho amata fin da subito e non m’importa la sua ascendenza. È una bambina gentile, si vede che è stata cresciuta da persone buone e assennate. Non ho nulla contro sua madre.”
“Ma non ti farebbe piacere se fosse lei la persona che Johel ama.” Merildil trasse le sue conclusioni, valutando l’espressione cupa di Hinistel e il bisogno che aveva sentito di difendere la piccola.
“È così.” Confessò la veggente. “Ci sono tante cose che mi preoccupano, quando penso alla vita di mio figlio e a questa mia profezia. Temo che non conoscerò mai uno dei miei nipoti. Come dici tu, potrebbe essere già nato e non sapere neanche chi sia suo padre. Temo anche che Johel si innamori della persona sbagliata.”
“Perché è drow?” Indagò la druida. Non voleva giudicare Hinistel. Non era un discorso facile. La madre di Jaylah era sicuramente una persona per bene, ma non sarebbe stato facile, per la foresta di Sarenestar, accettare che il possibile futuro capo del clan Arnavel avesse una relazione seria e duratura con una drow. Jaylah stessa non sarebbe mai potuta diventare capoclan, a meno di non mentire per sempre sulle sue origini. Il clan Arnavel avrebbe potuto accettarla, ma le altre foreste? Se una mezzadrow fosse diventata una figura di rilievo nella politica di Sarenestar, avrebbero perso l’alleanza con Shilmista e chissà con chi altri.
“Se si trattasse della vera felicità di mio figlio, metterei da parte qualunque considerazione politica” la corresse Hinistel, immaginando i suoi pensieri. “Ma questa donna ha una vita stanziale molto lontano da qui. Non abbiamo visto Johel per anni, è rimasto in quel paesino del nord per restare accanto a Jaylah e sua madre nel corso della gravidanza e dei primi anni della bimba. Lo capisco, ma adesso che accadrà? Se lui volesse vivere con questa drow? E se lei non volesse venire a stare qui? Johel se ne andrebbe di nuovo e potrei non vederlo più per anni, o decenni. Non sono pronta, Merildil. Un conto è saperlo in giro all’avventura, ma non era mai stato via per così tanti anni, prima.”
Merildil rimase profondamente colpita da questo discorso. Davvero, le motivazioni di Hinistel non erano proprio ciò che si aspettava. Pensava che la veggente fosse preoccupata per il clan, invece era solo una madre che temeva di non vedere più suo figlio.
“Hinistel, non abbiamo nemmeno la certezza che questa persona sia il vero amore di Johel. E poi, la tua divinazione non diceva nemmeno questo. Diceva che uno dei suoi figli sarebbe nato dall’amore, ma l’amore può anche sfiorire. Non si è mai parlato di amore eterno, o sbaglio?”
“Ho… ho visto anche l’amore eterno, ma ora che me lo fai notare, Merildil, non sono sicura che fosse legato alla nascita di uno dei suoi figli. Hai ragione, la persona con cui concepisce per amore potrebbe non essere la stessa persona che amerà su un lungo termine. Ma di solito lo è, quindi ho supposto che lo fosse. Però forse mi sto fasciando la testa prima di romperla, non c’è sicurezza che Jaylah sia nata per un’unione di amore. Potrebbe anche essere la lussuria o l’affetto.”
“Johel ha parlato di questa Krystel come di una persona che stima e rispetta, un’amica e una confidente” le ricordò Merildil, cercando di pacificare i suoi timori “ma non ho visto i suoi occhi brillare d’amore.”
Hinistel si sentì un po’ rassicurata, in effetti, ma questo non risolveva tutto.
“Rimane un problema: nonostante la gentile concessione di Tazandil che ha accettato nostra nipote, lei è comunque figlia di sua madre. Non potrà restare qui per sempre. Hanno lasciato quella cittadina… Secomber?… e Johel ha detto che sono partiti in primavera. Quanto a lungo possiamo onestamente tenere una bimba lontana dalla sua mamma?”
“Jaylah parla raramente di lei” notò la druida. “A volte, quando è triste per qualcosa, si lascia sfuggire di volere la mamma, ma per il resto non le ho mai sentito dire che sente la mancanza di casa, o della sua altra famiglia.”
Questo è vero, pensò Hinistel con grande stupore, ora che ci rifletto bene, anch’io l’ho sentita parlare pochissimo di sua madre. Non penso sia normale.
L’elfa dai capelli rossi si avvicinò a Jaylah, che stava dando gli ultimi ritocchi al suo disegno.
“Amore?”
“Ho finito, nonna!” Esclamò lei tutta orgogliosa, mostrando il pastrocchio che aveva tratteggiato sul tagliere di legno. “Quess-to qui rotondo è l’uccellino, e vedi che ha le ali ma troppo piccole, perché… perché lui in realtà è diventato troppo cicciotto! E no’ può volare. Però pe’ terra ci sono tanti semi e quindi uccellino fa un graaan sorriso.”
“Che bello” mentì l’elfa, generosamente. “Ma l’uccellino non è triste perché non può volare?”
La piccola Jaylah si strinse nelle spalle. “Ieri, quando ero piccola, avevo le galline. Sono mooolto più cicciotte dell’uccellino azzurro, e no’ sono triss-ti anche se no’ volano. Gli piace mangiare i semini e l’erba dei soffioni.”
“Cosa sono le galline?” domandò Hinistel, perché la nipote aveva usato una parola in linguaggio chondathan per definire quegli uccelli.
“Eh, sono uccelli grossi che no’ volano, vivono in casettine di legno, fanno le uova e poi le uova si mangiano. Qui no’ ci sono. Ma qui no’ ci sono nianche le caprette. E no’ c’è il latte coi biscotti. A me piace tanto.”
“Tesoro, non capisco una parola su tre” confessò la donna, perché Jaylah non aveva un termine in lingua elfica per tutti quegli animali che gli elfi non allevavano, e nemmeno per il latte che gli elfi non bevevano. “Dimmi, senti mai la mancanza di casa? E… della tua mamma?”
“Un pochino” confessò la bimba, ma non sembrava eccessivamente sconvolta. “Quando faccio la nanna sogno di essere a casa co’ la mia mamma. Quindi è come se la vedo tutte le notti. E nonna… io no’ vollio imparare a fare la rereve” confessò, e Hinistel capì che si riferiva alla reverie, la meditazione rilassante che gli elfi sceglievano al posto del sonno.
Hinistel ultimamente aveva cercato di introdurre la nipotina a quella pratica, per renderla più consapevole della sua natura elfica, ma Jaylah si era sempre rifiutata senza dirle il motivo. La nonna non aveva nemmeno insistito troppo… una Jaylah addormentata era una Jaylah che restava fuori uso per un numero maggiore di ore, e questa era una benedizione a cui non si rinunciava facilmente.
“Se faccio la rereve poi ho paura che no’ faccio più i sogni e no’ vedo più la mamma.” Spiegò, finalmente.
“Tesoro, sono solo sogni. Durante la reverie non si sogna, ma si rivivono scene della propria memoria e anche lì potresti ritrovarti alla casa di tua madre…”
“Ma non è la ss-tessa cosa!” Obiettò Jaylah, in tono esasperato. “No’ vollio pensare alla mamma mentre che faccio la… la revire” spiegò, cercando di pronunciare meglio la parola. “Vollio vedella pe’ davvero. Come quando sogno! A mezzanotte, è un… puntamento fisso. A mezzanotte devo essere sempre a nanna.”
Questa convinzione granitica della bambina stupì molto Hinistel, perché naturalmente Jaylah veniva sempre messa a letto molto prima di mezzanotte. Forse la piccola non sapeva nemmeno bene cosa fosse, la mezzanotte. Se aveva quell’idea in testa, doveva avergliene parlato qualcun altro.
Possibile che quell’appuntamento quotidiano non fosse solo il frutto della fantasia di una bambina?
Merildil e Hinistel si scambiarono uno sguardo dubbioso. La veggente decise che quella notte avrebbe indagato più a fondo la questione.


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Nota: il libro che Freya legge esiste davvero nel Faerun ed è citato in questo articolo della Wizards of the Coast.


           

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Capitolo 19
*** 1361 DR: Incubi e sogni ***


1361 DR: Incubi e sogni


Amyl non sapeva perché Daren fosse sulle spine, anche lì, nell’intimità della sua camera. Se c’era uno fra i due che aveva il diritto di essere turbato, era lei. Non vedeva il suo amante da settimane e lui non si era nemmeno preoccupato di comunicare in qualche modo con lei, di farle arrivare un messaggio. Poi aveva pensato bene di tornare così, comparendo dal nulla, e ora si permetteva pure di essere a disagio. Costringengola ad essere lei quella forte e responsabile.
L’elfa non aveva mai avuto intenzione di fargli una scenata, ma le dava fastidio il fatto che lui non le stesse lasciando la possibilità di scegliere come comportarsi.
“Daren, vuoi dirmi cosa ti turba?” Gli domandò di punto in bianco.
Il drow, che si stava sfilando la camicia ancora umida, si fermò a metà del gesto per guardarla. Con le braccia alzate e incastrate nell’indumento, e la treccia che penzolava mezza fuori e mezza dentro dal colletto, aveva un’aria un po’ buffa.
“Uh… in che senso?”
“Non ci vediamo da più di un mese” si lamentò lei, “e va bene, sei arrivato mentre stavo lavorando quindi abbiamo mantenuto il contegno, ma speravo almeno che appena rimasti soli avessi voglia di baciarmi o abbracciarmi. Sono contenta che tu voglia passare la notte con me, ma… non ti comporti come un amante in astinenza, e questo un po’ mi ferisce.”
Il guerriero spalancò gli occhi, la sua espressione prima insondabile ora lasciò trapelare un’ombra di disagio. Lei, che conosceva bene la sua tendenza a nascondere le emozioni negative, capì che se non riusciva a contenere l’ansietà allora la situazione doveva essere grave.
“No!” gli puntò contro un dito e pronunciò quella parola in tono imperativo. “Non tirare fuori il panico da ‘santo cielo, ho contrariato una femmina’! Giuro che se lo fai puoi anche prenderti un'altra stanza. Non sono una femmina, sono Amyl, e sai che puoi dirmi tutto. Se sei a disagio per quello che abbiamo fatto l’ultima volta, se siamo andati troppo oltre i tuoi limiti, non ti chiederò più di farlo, però per l’amor del cielo parlami.”
“Non è quello” lui finì rapidamente di togliersi la camicia, facendo un po’ fatica a sfilarla dalle braccia a causa delle maniche ancora bagnate, e questo gli fornì una scusa per abbassare lo sguardo. “Non stavo pensando alla nostra intimità, e non escludo di riprovare certe pratiche, se è quello che desideri. È solo che” l’elfo scuro si bloccò, mentre ogni fibra del suo essere gli gridava che avrebbe dovuto tacere, che era contrario alla sopravvivenza continuare per quella strada. Non era facile per un drow ammettere di avere bisogno di qualcun altro, perché nel suo mondo questo avrebbe voluto dire mettere un’arma in mano a quella persona. Ma si fece forza, perché certi condizionamenti dovevano essere lasciati nel passato. Molti anni prima era già riuscito a dire a Johel che teneva alla loro amicizia, quindi ora poteva fare qualcosa di simile anche con Amyl. “In queste settimane mi sei mancata.”
Amyl sollevò un rosso sopracciglio. Aveva la sensazione che quella frase, un semplice convenevole per gli elfi normali, avesse un significato diverso per Daren. Eppure il senso del messaggio le sfuggiva ancora.
“Sì? Non so, non me lo stai dimostrando molto…”
“Mi hai chiesto che cosa mi turba.” Le ricordò Daren. “Questo è ciò che mi turba. Mi dispiace che la mia… mancanza di passione ti abbia ferita. Non è che non voglia baciarti. Sono preoccupato e questo ha deviato la mia attenzione.”
“Be’ ma… sei preoccupato perché hai sentito la mia mancanza? Anch’io ho sentito la tua.”
Daren alzò una mano, per chiederle di lasciargli il tempo di riflettere.
“Non è… non è un ‘mi fa sempre piacere vedere Amyl e non la vedo da un po’, quindi mi manca’. È più una cosa come ‘Amyl fa parte della mia vita, e ora che non c’è mi sembra che mi manchi qualcosa’. Non so se ha senso e... non voglio dire che tu sia una cosa.” Tentennò. “Ma sono confuso, mi è successo con pochissime altre persone, e mai con qualcuno con cui io abbia un rapporto complesso come…”
Lo sguardo di Amyl si ammorbidì sempre di più man mano che lui estrapolava. Non lo lasciò finire di parlare, gli saltò al collo stringendolo in un abbraccio riconciliatore.
Suo malgrado, l’elfa si sentiva intenerita dalla sua incapacità di gestire i rapporti affettivi.
Non dovrei sentirmi così, si rimproverò, mordendosi il labbro inferiore per non lasciarsi scappare un sorriso. Lui in quel momento non poteva vederla in faccia, ma la locandiera aveva la sensazione che se ne sarebbe accorto ugualmente. Daren è condizionato da un passato in cui i sentimenti positivi non avevano posto, quindi si lascia spaventare dalle emozioni più normali del mondo e questo è un ostacolo alla nostra relazione. Non è una cosa di cui essere contenta. Allora perché mi viene solo da sorridere?
Forse è perché mi fa sentire speciale, essere una di quelle pochissime persone di cui parla.
“Non stare a pensarci troppo” gli consigliò, accarezzandogli la schiena con una mano nel tentativo di aiutarlo a rilassarsi. “Anche tu mi sei mancato. Qualunque sia la natura dei tuoi sentimenti, mi fa piacere che li provi. Sai che non voglio caricarti di aspettative, ma non voglio neanche farti sentire rifiutato. Io… mi sono persuasa da tempo che la cosa migliore sia adeguarmi al tuo ritmo.”
“Non è solo una questione di ritmo, anche se la tua decisione mi tranquillizza.” Daren si sciolse dall’abbraccio e fece un passo indietro, non per allontanarsi da lei ma solo per poterla guardare in faccia. “Questo desiderio di familiarità e vicinanza, che provo nei tuoi confronti… per me è una cosa nuova. Ho già provato qualcosa di simile verso i miei amici più cari e verso la famiglia di mia sorella, ma stavolta è leggermente diverso. Forse è colpa de… forse è merito del fatto che verso di te provo anche attrazione fisica. O forse quello che provo è diverso dalla semplice somma di attrazione e amicizia, non lo so. Quello che so è che sono preoccupato. In passato ho dato il peggio di me quando non sapevo capire o controllare i miei sentimenti.”
“Che cosa intendi dire?” Amyl corrugò la fronte, cercando di star dietro ai suoi ragionamenti. Secondo lei quel testone rimuginava troppo sulle cose, ma non aveva mai osato dare voce a quella critica, non in modo serio, perché c’era ancora molto di lui che non sapeva e temeva che sarebbe stata fuori luogo.
“È vero che non si tratta dello stesso sentimento, ma mi è già capitato in passato di desiderare una donna in modo involontario, contro il parere del mio buonsenso. All’epoca ero un giovanotto, diciamo un adolescente, anche se questa definizione non ha molto senso nella cultura drow. Fisicamente, però… i sintomi della gioventù non erano molto diversi da quelli che sperimentate voi elfi, e le femmine drow sono molto affascinanti. È stato sconcertante, d’un tratto, non essere più un bambino e iniziare a vedere quelle creature pericolose come oggetti del desiderio. Sapevo che sarebbe stato meglio starne alla larga. Una drow può usare un maschio a suo piacere e tormentarlo o ucciderlo durante l’amplesso anche solo per divertimento, e questo è consentito, è legittimo, a meno che il maschio non sia di rango elevato. Solo un pazzo si sarebbe gettato volontariamente fra le braccia di una di quelle predatrici, e non voglio dire che fossero tutte così, ce n’erano alcune un po’ più sane di mente, ma era sempre un’incognita; le femmine drow sono come i pesci pyrimo del Buio Profondo, deliziose ma potenzialmente velenose. Non puoi mai sapere se arriverai vivo alla fine dell’incontro, specialmente se sei un comune soldato.”
Amyl gli accarezzò un braccio, lentamente, solo per fargli sentire la sua presenza. Lui, per qualche motivo, aveva deviato lo sguardo verso la finestra come se ci trovasse qualcosa di interessante, ma era chiaro che voleva solo evitare lo sguardo dell’elfa.
“Non so se riesci a capire quanta rabbia e quanta frustrazione mi causassero, le mie stesse pulsioni.” Ammise, abbassando ancora la voce. “Se c’è una cosa che da giovane non ho mai tollerato è la stupidità, perché la giudicavo contraria alla sopravvivenza. Ritrovarmi improvvisamente così… schiavo dei miei impulsi… ho passato l’adolescenza accecato dall’odio e dalla rabbia. Odio verso di loro, ma rabbia verso me stesso. Ho… ho perfino ucciso alcune drow, per nessun altro motivo se non il desiderio che provavo per loro. Credevo che quel desiderio mi avrebbe portato alla morte, spingendomi a correre dei rischi, a immolarmi come una vittima sacrificale entusiasta. Le odiavo perché in loro presenza mi sentivo così stupido e avventato.”
Amyl rimase in silenzio per tutto quel racconto, e non interruppe mai il contatto fisico. Anche se Daren le stava raccontando delle cose orribili, lei non riusciva a riconoscerlo in quelle parole. Il drow che aveva frequentato negli ultimi mesi non era così. Aveva mostrato disagio, a volte, durante i loro incontri, ma mai si era comportato in modo aggressivo o rancoroso. Né tantomeno violento.
“La cosa è andata scemando da sola, lo confesso” mormorò alla fine. “Crescendo, le mie passioni si sono fatte meno intense. Ho trovato… o meglio, ritrovato, la mia freddezza mentale e la mia prudenza. Ora sembra difficile crederlo ma quell’epoca ero prudente, sì. Quasi paranoico, perfino nel pianificare omicidi spinti dall’odio. Ma con l’assopirsi di quel desiderio bruciante, anche l’odio ha smesso di tormentarmi. Ho ricominciato a vedere le femmine solo come delle possibili minacce, e la loro bellezza mi ispirava solo ammirazione estetica, non passione viscerale. Ho smesso di essere consumato dalla rabbia verso me stesso e quindi ho cessato di incanalarla verso l’odio e gli omicidi. So benissimo che una cosa del genere non mi potrà succedere mai più, un po’ perché sono troppo vecchio per queste stronzate, un po’ perché la mia moralità da allora è cambiata drasticamente. Ma questo è ciò che è successo l’ultima volta che non ho avuto il controllo dei miei sentimenti, e anche se non può ripetersi, ricordo ancora quell’odiosa sensazione di provare sentimenti involontari e ricordo il terrore dato dal non avere più la padronanza di sé. Tu non sai come sia… sapere che qualcosa è sbagliato e volerlo fare comunque, volerlo fare con tutto il tuo essere, anche se forse ti ucciderà.”
“Ma non è sbagliato” sbottò la rossa, incapace di contenersi oltre. “Quello che facciamo io e te non è sbagliato e non è pericoloso.”
“Lo so, ma non è quello il punto… la mancanza di controllo mi inquieta. Moltissimo.” Ammise lui, tornando finalmente a guardarla in viso. “Sono tormentato dal ricordo di come mi sono sentito quando non avevo il dominio sulle mie emozioni. So che la nostra relazione è completamente diversa, ma ho paura che un giorno potrei guardarti, capire che sto iniziando a provare troppo, o troppo in fretta, e sentire di nuovo quell’ansia paralizzante che rende impossibile andare sia avanti che indietro. E quando ci penso, mi chiedo che cosa ti aspetti tu da me, che cosa posso darti, perché tu potresti avere una persona migliore al tuo fianco semplicemente facendo un sorriso alle persone giuste, e ne avresti anche diritto. Quando oggi pomeriggio quell’elfo ha provato a rendersi amichevole con te, ho pensato che qualsiasi elfo in questa foresta sarebbe una scelta migliore di me. Perché almeno condividereste una cultura, un passato simile, un comune intendimento su come si porta avanti una relazione e su come si gestiscono i sentimenti.”
“Stai dicendo che vuoi lasciarmi perché hai paura di andare avanti su questa strada?” Amyl gli scoccò un'occhiataccia, con aria di sfida: poteva anche accettare di essere rifiutata, ma non per un motivo così stupido.
“No… non lo so. Pensavo solo che meritassi di sapere la verità. Questa relazione che abbiamo è ancora più complessa di un’amicizia, il che è tutto dire, almeno per me. Non so se sono in grado di gestirla in un modo che per te sia accettabile, o in tempi ragionevoli.”
“Ma questo è un problema solo mio” replicò l’elfa, con sicurezza. “Quello che io sento nel tuo discorso, è che ti andavo bene quando la nostra era solo una piacevole frequentazione con un po’ di sesso, ma all’improvviso non ti vado più bene non appena ti accorgi di provare qualche sentimento nei miei confronti.” Il suo tono era amareggiato, ma non poteva farci niente. Era ferita, delusa. “Ricordi quando ci siamo svegliati nello stesso letto per la prima volta? Ti ho pregato di non andartene subito, perché mi sarei sentita disgustosa e miserabile, una donna da usare e basta, una che diventa inadeguata quando il suo amante torna sobrio. Come credi che mi senta, adesso? È la stessa cosa, ma su scala più grande! Diamine, Daren, avrei accettato che tu mi dicessi che… che la nostra relazione non poteva evolvere perché non provi niente per me. Avrei accettato che rimanesse un’amicizia con un po’ di sesso, se tu mi avessi detto che sei incapace di sentimenti diversi. Ma mi stai dicendo l’opposto, e non lo accetto!”
“No, non ho mai detto che sei inadeguata!” Protestò lui, scuotendo la testa. Gli sembrava di aver di nuovo davanti la ragazza vulnerabile e così terribilmente giovane che si era svegliata al suo fianco dopo la notte di Mezzestate. “Proverei lo stesso disagio se questi sentimenti fossero rivolti a un’altra. Non sei tu il problema. E ti dico di più, non c’è mai stata un’altra per cui provassi le stesse cose, nessuna mi ha mai messo a mio agio come hai fatto tu. Non sono certo venuto qui con l’intenzione di mettere fine alla nostra storia! Sono venuto a Myth Dyraalis solo perché mi mancavi, e ti assicuro che ho dovuto dare il tormento a Johel per settimane, per farmi concedere una licenza di un paio di giorni. Ma quando sono arrivato e ti ho vista parlare con quell’elfo, ho capito quanto fossi più compatibile con i tuoi simili, quanto potresti essere più felice con uno di loro… e non so, forse mi sembra di starti togliendo questa possibilità, o forse ho solo paura che un giorno mi guarderai e capirai di aver buttato via il tuo tempo, che io non sono all’altezza di gestire una relazione e sei stanca dei miei difetti e delle mie lungaggini. Se dovesse accadere, che cosa farò? Se questa fiammella che comincio a sentire sarà già diventata un fuoco, come la spegnerò?”
“Oh, tu…” Amyl si passò una mano sul viso, perché finalmente riusciva a tradurre tutti quei vaneggiamenti in termini più comprensibili. “Mi hai fatto tutto questo discorso solo per dire che hai paura di innamorarti? Bene, non è una cosa drow: tutto il mondo ha paura di innamorarsi. Ogni coppia di amanti che abbia mai calcato questa terra, almeno una volta ha sperimentato la paura che l’amore o l’affetto o la passione si esaurissero di colpo lasciando uno dei due a naufragare. Che ti devo dire? Solo tu puoi decidere se io, anzi noi e il nostro possibile futuro insieme, possiamo valere il rischio. Non posso prometterti che andrà tutto liscio, che sarà per sempre o che ci innamoreremo perdutamente l’uno dell’altra. Posso solo prometterti che avrò pazienza, se crederò che abbiamo un futuro. Se crederò che ci sia qualcosa su cui investire. E tanto perché tu lo sappia, non voglio un elfo come Belegron. Avrei potuto tentare in passato, se avessi voluto qualcuno come lui. Ho avuto anche degli amanti occasionali che però poi non mi hanno voluta sul lungo termine. Tu invece stai affrontando molti ostacoli interiori, lo stai facendo per me, e non mi hai ancora lasciata. Per ora sei decisamente più affidabile degli elfi che conosco.”
Daren la fissò sconcertato per un lungo attimo.
“Affidabile, io?” Ripeté, dubbioso. “Hai degli standard davvero strani.”
“Parli tu, che hai degli standard bislacchi per tutto!” L’elfa gli fece una smorfia come provocazione. “Siamo strani, noi due, è per questo che stiamo bene insieme.”
Finalmente il drow si rilassò e rispose al sorriso, quasi con naturalezza. Non aveva superato del tutto i suoi timori, ma era contento di aver avuto quel confronto. Decise di dirglielo.
“Sono sollevato che abbiamo avuto questa conversazione. Insomma… era giusto che ti informassi di quanto sono problematico.”
“Era giusto che mi informassi anche che cominci a essere interessato a me in modo diverso” sorrise lei, e all’elfo scuro sembrò di cogliere un bagliore nei suoi occhi.
“Sì. Mi sei mancata.” Tornò a ripetere lui. “E credo che abbiamo parlato a sufficienza. Mi sei… mancata in tutti i sensi” confessò.
Il sorriso di Amyl prese una piega più maliziosa. Anche a lei era mancato, ed era lusinghiero che lui la desiderasse, considerando com’era finita l’ultima volta. L’elfa poggiò le sue mani chiare sugli avambracci del guerriero e lo invitò ad avvicinarsi, senza forzarlo. Lui non se lo fece ripetere. Si baciarono, all’inizio con esitazione, poi con più naturalezza, riscoprendosi e ritrovando la loro intesa in un attimo. Per quella notte non parlarono più.

Qualcun altro, invece, quella notte si chiedeva se avrebbe dovuto sostenere una conversazione, e di che tipo. Lady Hinistel era incuriosita dalla confessione di Jaylah sui sogni, e da buona veggente aveva intenzione di indagare.
Come tutti gli elfi dei boschi, Hinistel non era abituata a dormire. Di solito preferiva lo stato di meditazione rilassante che la sua gente chiamava reverie, una disciplina elfica che permetteva di riposarsi in molto meno tempo di quanto ne occorresse con il sonno. La reverie, però, non consentiva di sognare. Si potevano rivivere memorie della giornata, oppure ricordi più lontani, ma la meditazione non portava mai a voli di fantasia o messaggi oscuri della mente inconscia. O per dirla in termini più esoterici, la reverie non consentiva l’accesso alla Regione dei Sogni, la dimensione sovrannaturale in cui viaggiavano le menti dei dormienti, creando ognuna il proprio scenario grazie alla natura plasmabile di quel luogo.
Era lì che Jaylah si recava ogni notte mentre dormiva, come tutti gli altri sognatori, e forse era davvero possibile che sua madre la venisse a trovare in sogno. Hinistel non aveva molta familiarità con la Regione dei Sogni, avendola frequentata pochissimo in vita sua. Non aveva conoscenza nemmeno di quali fossero i poteri delle streghe, anche perché in ogni diversa regione quella parola veniva usata per indicare qualunque professione i contadini non sapessero spiegare: una strega poteva essere in realtà una maga, un’indovina, una druida, una malefica fattucchiera, una guaritrice o una sensitiva, o anche semplicemente un’imbrogliona, e l’elfa non sapeva quale accezione del termine fosse in uso in quella lontana regione del nord.
La veggente accarezzò con reverenza il tomo di magia che sua madre le aveva donato quando si era sposata. Rappresentava la sua eredità, e conteneva incantesimi e rituali che le sue antenate avevano scoperto o creato nel corso dei secoli. Il grimorio di Hinistel era relativamente nuovo, perché sua madre le aveva consegnato solo una copia e non l’originale. L’originale probabilmente ormai si era disfatto, un libro non è pensato per resistere ai millenni. Fino a quel momento, la dama elfa aveva dovuto ricorrere molto raramente ai complessi incantesimi di quel libro, di solito si affidava solo alle sue capacità spontanee. Questa volta però avrebbe dovuto addentrarsi in un territorio inesplorato.
Aveva passato tutto il pomeriggio a sfogliare quelle preziose pagine, ma non aveva trovato nulla sul mondo dei sogni. C’era qualcosa sul pilotare i sogni lucidi, ma era praticamente una forma diversa di reverie. Hinistel sapeva che se avesse scelto di dormire, sarebbe approdata naturalmente a quella dimensione onirica, ma come fare per tenere d’occhio Jaylah? Lei e la nipotina, una volta addormentate, si sarebbero trovate ciascuna nel proprio sogno, incapaci di ritrovarsi.
Dopo averci pensato a lungo e aver vagliato diverse possibilità, Hinistel aveva optato per un rituale che aveva il potere di unire due menti nella reverie, per condividere gli stessi ricordi. Con un po’ di fortuna avrebbe funzionato anche per i sogni.

“Nonna, a cosa serve che mi metto quess-to?” domandò Jaylah, studiando con interesse il braccialettino intrecciato che aveva intorno al polso. “Lo hai fatto coi tuoi capelli?”
“Sì tesoro, l’ho fatto intrecciando i miei capelli. E quello che indosso io è fatto con i tuoi.” Le confidò, mostrando la treccia di capelli biondo platino che si era legata intorno al polso.
“Che bello. Ora siamo migliori amiche?” Cinguettò la bambina.
Hinistel si sentì invadere dalla tenerezza, come spesso accadeva quando si prendeva cura di Jaylah. Parlare con Merildil quel pomeriggio l’aveva rattristata, perché le aveva ricordato che un giorno la sua prima nipote sarebbe tornata a vivere da sua madre, lontano dalla sua famiglia elfica.
“Certo che siamo migliori amiche, se vuoi. Adesso andiamo a letto che è già tardi. Che dici, vuoi dormire con me nel lettone dei nonni?”
“Sì! Sì! Sì!” Esclamò la piccola, saltellando contenta per quella bella sorpresa. Di solito le toccava dormire sola. “Bass-ta che vado a dormire prima di mezzanotte.”
“Allora finisci la tua camomilla e poi andiamo.”
Hinistel ripose il suo prezioso libro di magia in una borsa, che sistemò a tracolla in modo che non le desse fastidio. Aspettò con pazienza che Jaylah vuotasse la sua tazza, poi la prese per mano e la portò fuori dalla cucina, verso il tronco dell’albero su cui si sviluppava la loro casa. Da quando la sua gravidanza si era fatta evidente, Tazandil aveva deciso di appendere al tronco una scala di corda, per agevolare la scalata all’elfa che non poteva più muoversi con la stessa agilità di un tempo. La nipotina non sapeva arrampicarsi molto bene sul tronco nudo degli alberi, ma aveva imparato subito a salire la scala di corda, e infatti ora non aspettò nemmeno il permesso di Hinistel; si aggrappò a quella struttura basculante arrampicandosi come se non avesse fatto altro per tutta la vita. La veggente non era troppo preoccupata: la capitale elfica era permeata di una magia antica, che impediva alle persone di farsi male quando cadevano per errore dagli alberi. Purtroppo quel mythal non era intelligente e non impediva di farsi male quando si saltava giù volontariamente, e non sapeva fare distinzioni fra adulti e bambini. La primissima lezione di Jaylah a Myth Dyraalis era stata “Non saltare giù dai ponti e dai rami”.
Di solito la piccola dormiva nella stanza di suo padre, con o senza di lui, ma quando Tazandil e Johel erano entrambi assenti poteva capitare che Hinistel la portasse con sé nella stanza padronale. Quel vizio era un piccolo segreto che doveva restare fra loro, un’innocua trasgressione che le faceva sentire complici.
La stanza di Tazandil e Hinistel si trovava molto più in alto sul tronco, ma non era un problema per le due agili creature; perfino un elfo senza un braccio sarebbe riuscito salire una scala di corda senza la minima difficoltà.
La dama mise a letto Jaylah accanto a sé, le rimboccò le coperte con cura e cominciò a raccontarle una storia sulla vita di un antico re elfico. Era una leggenda piuttosto noiosa, non molto adatta ai bambini, ma Jaylah non era mai sazia di dettagli e curiosità. Forse era il suo modo per dimostrare interesse verso le sue radici elfiche, o almeno questa era la teoria di Hinistel; di sicuro era una delle poche cose che Tazandil apprezzava davvero del suo carattere. Quando il burbero ranger si trovava in città, se la nipotina gli chiedeva di raccontarle antiche storie elfiche, lui non di rado l’accontentava. Che fosse giorno o sera, Tazandil riusciva sempre a trovare qualche minuto per instradare la sua nipote mezzadrow verso la cultura di suo padre. Dopo la partenza di Tazandil, sua moglie era stata ben felice di raccogliere il testimone.
Jaylah di solito era un’ascoltatrice attenta, ma quella sera era stanca. Dopo una mezz’oretta smise di fare domande e poco dopo si addormentò di colpo, come accade ai bambini.
Mancavano ancora tre ore alla mezzanotte. Hinistel non aveva molto sonno, ma sapeva che dormire richiede molto più tempo per rilassare il corpo e la mente, rispetto alla reverie. Era meglio che si sforzasse di addormentarsi, se voleva avere qualche possibilità di svegliarsi prima dell’alba.
Con un sospiro si sdraiò più comodamente possibile, accanto a Jaylah, e cercò di rilassarsi ascoltando il respiro tranquillo e regolare della bambina. Gli elfi non amavano i sogni, erano troppo incontrollabili e questo li rendeva inquietanti, quasi spaventosi. Anche quelli più belli avevano qualcosa di non del tutto sano, per la loro mentalità. Quella sottile inquietudine le stava rendendo davvero difficile addormentarsi, ma cercò di regolarizzare il respiro e di racchiudersi in se stessa, ascoltando il minuscolo battito del cuore del bambino che stava nascendo dentro di lei. Alla fine quel semplice esercizio la calmò, e il sonno non si fece attendere molto.

Hinistel si ritrovò in una stanza vagamente familiare. Non sapeva come ci fosse arrivata, ma non se lo chiese, perché nel sogno aveva la sensazione di essere lì da sempre. Era la stanza di una bambina, sembrava trovarsi al livello del suolo, l’arredamento era uno strano miscuglio di gusto elfico e mobilio umano. Un po’ rozzo, agli occhi di Hinistel. Jaylah era lì con lei e stava giocando con una bambola di pezza.
“Nonna! Sei venuta a trovarmi!” La bimba saltò in piedi non appena si accorse dell’elfa più anziana, e l’abbracciò con slancio. Hinistel registrò in un angolo della mente che riusciva a vederla molto bene, perché non aveva più il pancione. Rimase perplessa, come se le sfuggisse qualcosa.
Non ero incinta? No, ho sognato di essere incinta. Ricordo chiaramente questa cosa. Ma perché non sto continuando a sognarlo? Avrei tanto voluto, mi piaceva quell’idea!
È un peccato essermi svegliata, pensò, con l’incoerenza tipica dei sogni.
“Vieni nonna, gioca con la mia bambola. Poi quando nasce lo zio posso giocare con lui, vero?” Domandò Jaylah, con aria di grande aspettativa. Hinistel si accorse che non riusciva a capire quale linguaggio stesse usando la nipote, sembrava in grado di capirla solo per una sorta di comunione mentale.
“Quando nasce lo zio?” Ripeté la rossa, corrugando la fronte.
“Sì! Il tuo bambino” confermò Jaylah, indicando con un ditino una culla di legno in un angolo della stanza.
Hinistel guardò la culla con grande stupore. Era sempre stata lì? Era davvero incinta, o lo aveva sognato? Quando era nato il bambino? O forse si stava illudendo e nella culla c’era solo un’altra bambola?
Si avvicinò a quel lettino decorato secondo i canoni elfici. All’interno c’era un minuscolo neonato, nudo e scoperto. Era una femmina.
Jaylah trotterellò verso di loro, alzandosi in punta di piedi per sbirciare nella culla.
“Nonna, non vedo bene, non ci arrivo” protestò. “Cosa c’è dentro?”
“Una bambina” mormorò Hinistel, al colmo della meraviglia. Provò la fortissima tentazione di prendere in braccio quell’esserino, ma si fermò, intimorita. La neonata era completamente formata, ma era uno scricciolo, ancora così piccola. Non si fidava a sollevarla dalla culla.
“Tu vuoi stare qui a giocare con la nuova bambina?” Jaylah sembrava vagamente delusa. “Io vado fuori a giocare nel prato, che poi arriva la mia mamma a prendermi.”
“A… prenderti?” Hinistel spostò lo sguardo da Jaylah alla minuscola creatura nella culla, indecisa.
“Sì! Ha detto che mi portava a casa, mi ricordo che sono già tornata a casa prima. Ho chiesto alla mamma se vuole venire nella casa di papà ma lei dice sempre di no.”
“Jaylah, aspetta” Hinistel provò a fermarla, ma la mezzadrow imboccò la porta e uscì. C’era un bel prato verde all’esterno, che era contemporaneamente un pascolo immenso e una radura di Myth Dyraalis. Hinistel vide dalla finestra che Jaylah era lì fuori e cercava di fare capriole nell’erba. Poterla tenere sott’occhio era sicuramente un sollievo, la bambina non era svanita nel nulla, ma la veggente non avrebbe voluto che si allontanasse. Doveva seguirla all’esterno. Hinistel spostò lo sguardo verso sinistra, sulla parete, ma la porta era sparita. Nel punto in cui c’era l’uscio adesso campeggiava la culla. Ma non era accanto a lei un momento prima?
L’elfa dei boschi cominciò a farsi prendere dal panico. Tutto era così illogico. All’improvviso realizzò che si trovava all’interno di un sogno, la sua mente entrò in contrasto con se stessa e come una perfetta dilettante in fatto di sogni si svegliò di colpo.

La veggente scoprì di essere nuovamente nel suo letto, semi-sdraiata, con il fiato corto. Il suo ventre era sempre gonfio per la gravidanza, chissà perché nel sogno era convinta di aver solo sognato di aspettare un figlio… rabbrividì, spaventata dalla mancanza di controllo su quell’esperienza onirica.
“Sei una bambina?” Mormorò, sfiorando la pancia con la punta delle dita. “Quello che ho visto corrisponde al vero? Sei tu che non mi hai consentito di uscire dalla stanza?”
Si impose di rilassarsi, appoggiando di nuovo la schiena al materasso. Facendolo, si rese conto di quanto fosse tesa fino a un momento prima. I muscoli del collo le facevano già male.
Aveva molti interrogativi ma nessuna risposta, quindi decise di metterli da parte per il momento. Fissò il soffitto in silenzio, lavorando sul respiro per recuperare la serenità e mettere in ordine le idee.
Jaylah non può allontanarsi da me, grazie a questi oggetti incantati, si ricordò, toccando il bracciale fatto con la ciocca intrecciata di Jaylah, che portava ancora al polso. Ma questo funziona solo se anche io sto dormendo. Se resto sveglia, l’immagine onirica di mia nipote potrebbe finire ovunque, potrebbe essere rapita da sua madre. Devo riuscire a riaddormentarmi prima che mi venga portata via.
No, no, sto sbagliando tutto. Jaylah non è in pericolo. Stando alle sue parole, vede sua madre tutte le notti. Non sono obbligata a ritentare proprio oggi. Non… non so se sarei utile a qualcosa, in questo stato mentale.
Hinistel rimase in bilico fra la curiosità e la paura, ancora per qualche secondo. Infine decise di meditare e fare la reverie, per quella notte, perché ne aveva avuto abbastanza di tutte quelle emozioni incontrollabili. Nessun esperimento magico riesce mai al primo colpo, e un’elfa sa essere paziente.

           

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Capitolo 20
*** 1361 DR: Persone importanti ***


1361 DR: Persone importanti


Il giorno dopo lady Hinistel si alzò di buon mattino, più serena e riposata dopo qualche ora di reverie. Jaylah dormiva ancora e la dama non voleva abbandonare la bambina da sola, quindi rimandò a più tardi le sue incombenze della giornata e decise di approfittare di quei tempi morti per scrivere una scaletta delle cose che avrebbe voluto dire a Tazandil in risposta alla sua lettera. Il testo principale sarebbe stato scritto da lord Fisdril perché doveva celare la vera risposta alle sue comunicazioni tattico-militari, ma lei aveva il diritto di aggiungere una nota personale.
Intinse la sua piuma preferita nel calamaio dell’inchiostro e picchiettò la punta contro un foglio di carta. La carta assorbì l’inchiostro sporcandosi di macchie circolari, ma lei non vi badò. C’erano molte cose che avrebbe voluto dire a Tazandil ma non sapeva in quale punto della lettera sarebbe riuscita ad aggiungere i suoi commenti, quindi decise di scriversi degli appunti generici, non discorsivi.
Stiamo tutti bene, scrisse, ma un momento dopo si morse un labbro per la frustrazione di aver scritto una cosa tanto banale. Per lei, leggere da Tazandil che gli elfi inviati a Shilmista stavano tutti bene era un gran sollievo, ma Tazandil non aveva motivo di temere per la salute dei suoi parenti nella città protetta. Tranne forse…
Andò a capo, lasciando un po’ di spazio sotto la prima riga.
Il tuo sostituto si sta dimostrando un buon ranger capo.
Fissò quella frase, sospirando con una punta di tristezza per aver scritto di suo figlio in modo così formale. Ma se la lettera fosse finita in mano a dei nemici degli elfi, lasciargli scoprire che a comandare i ranger c’era il figlio di Tazandil avrebbe potuto mettere Johel in pericolo. Lo avrebbe reso un bersaglio ancora più di quanto già non fosse.
Sta guadagnando il rispetto dei suoi sottoposti, persone che fino a poco fa lo vedevano solo come un compagno. Ha dovuto assumere un cipiglio più serio, non fare favoritismi a nessuno.
Intinse la penna ancora una volta, riflettendo velocemente. Alla fine aggiunse:
Il suo amico è stato collaborativo oltre le nostre previsioni.
Hinistel non era sicura che suo marito avrebbe gradito ricevere anche notizie di quel drow che sopportava a collo torto, ma non gli sarebbe sembrato strano non riceverne?
La vita, in città, si svolge in modo regolare e l’arrivo di nuovi abitanti non ha sconvolto la quotidianità… rimase con la piuma sospesa sulla carta, intrappolata nell’ennesima frase banale. Poi prese una rapida decisione e aggiunse:
Ho deciso di cercare un precettore per nostra nipote. Io non ho l’autorevolezza per insegnarle, preferisco delegare questo compito a un esterno e continuare a essere la persona che la vizia. Aggiunse quest’ultima frase con un sorriso birichino sulle labbra, pensando alla faccia che avrebbe fatto suo marito leggendola: lui era fortemente contrario a viziare i bambini, nipoti o non nipoti.
Inoltre in questi giorni mi stanco facilmente. Credo che non manchi molto e non vedo l’ora che tu torni. Temo che se i nostri doveri di alleanza si protrarranno ancora a lungo, arriverai a casa a fatto compiuto.
Rilesse alcune volte le ultime frasi, poco soddisfatta perché non voleva chiudere la lettera mettendo fretta a suo marito. Eppure non le veniva in mente niente a parte le ennesime banalità.
Jaylah si agitò nel sonno e si girò più volte su se stessa, avvoltolandosi nelle coperte fino a formare un piccolo bozzolo. Hinistel seguì i suoi movimenti con la coda dell’occhio, attenta che la bambina non cadesse dal letto o non soffocasse.
Fu a quel punto che finalmente le venne un’idea: al momento di scrivere la lettera vera, avrebbe lasciato che fosse Jaylah a chiudere con una semplice frase di saluto. Certo, la bimba non sapeva ancora scrivere, ma era possibile aiutarla guidando la sua mano o farle copiare una frase già scritta. Sarebbe bastata solo qualche lezione per raggiungere quel livello base di competenza.

Jaylah stava sognando. Era rimasta con la mamma per molto tempo, a giocare e a chiacchierare, ma ad un certo punto la strega l’aveva salutata con un bacio sulla fronte: “Ti lascio ai tuoi dolci sogni adesso, amore. Salutami il tuo papà.”
La bimba però non aveva sognato il suo papà. Il prato dove aveva giocato con la mamma si era riempito di coniglietti - Jaylah
adorava i coniglietti - ed erano di tutti i colori, come i buffi gatti di sua sorella Hilda. C’erano conigli gialli, azzurri e rossi, alcuni perfino rosa, ma il suo preferito fra tutti era un batuffolo nero. Il suo pelo era lucido come la seta e scuro come la pelle della sua mamma. Il coniglio nero la guardò con aria timida e scappò verso gli alberi. Jaylah lo inseguì, e mentre correva il coniglietto diventò un uccellino azzurro e cicciotto, e un attimo dopo l’uccellino erano i suoi amichetti di Myth Dyraalis. Jaylah aveva sempre la sensazione di rincorrere qualcosa di inafferrabile, ma l’oggetto del suo desiderio cambiava continuamente. Alla fine si ritrovò in una foresta insieme a tanti elfi, ma non riconobbe tutti i loro volti. Ce n’erano alcuni che aveva già visto, amici di suo padre, e c’era nonno Tazandil; tutti gli altri però erano facce nuove.
Alcuni di quegli elfi erano feriti, avevano delle fasciature che gli coprivano le parti del corpo scoperte dalle armature. Un’elfa, molto pallida, aveva il collo bendato e un tizio con lunghe vesti da
elfo magico le stava facendo un incantesimo per farla stare meglio.
Jaylah corse dal nonno perché non lo vedeva da molto tempo, ma lui aveva steso una mappa per terra e non le diede retta.
“Cosa guardi?” Chiese Jaylah, ma venne ignorata. La cosa non le piacque, quindi come al solito si imbronciò. “Nonno?!”
Un attimo dopo non era più Jaylah, irritata perché voleva conoscere i pensieri di Tazandil.
Era Tazandil. Aveva tutto perfettamente senso, come accade nei sogni, per quel che ne sapeva era sempre stata Tazandil. Solo che stavolta non era come nei normali sogni, in cui si diventa qualcun altro solo nell’aspetto o nella convinzione; ora stava provando emozioni e vagliando pensieri che non potevano essere suoi. Jaylah non comprendeva quei ragionamenti, erano troppo complessi, e le emozioni erano troppo stratificate. Preoccupazione, dolore, nostalgia, paura. Non paura per la propria vita, ma paura di fallire. Jaylah non aveva un nome per quelle sensazioni, non riusciva a farle proprie, e sopra a tutta questa confusione c’era il mal di testa: era concentrato sul lato destro della fronte, dove l’elfo dei boschi aveva preso un colpo di qualche genere. Aveva un livido, anzi un vero e proprio bernoccolo che tirava la pelle e faceva male; pensare diventava ogni momento più difficile, ma il cocciuto elfo tirava avanti a senso del dovere, paura e determinazione.
Stava pensando a una battaglia recente contro una
sacca di resistenza di goblinoidi, che Jaylah scoprì dai suoi pensieri non essere una borsa molto robusta, ma un gruppo di mostri asserragliati su un piccolo altipiano difendibile. Nei ricordi di Tazandil c’erano frecce che volavano e vili trappole, elfi feriti e goblin morti. C’era anche la convinzione che presto avrebbero preso quel fazzoletto di terra e liberato un’altra regione della foresta dagli invasori, ma c’era anche incertezza perché non avevano più avuto notizie da altre pattuglie e poi quel costante mal di testa che però avrebbe dovuto sopportare perché avevano un solo sacerdote e stava esaurendo gli incantesimi, almeno per quel giorno, e c’erano elfi molto più malconci di lui che necessitavano di aiuto.
A Jaylah tornarono in mente tutte quelle volte in cui era andata a sbattere contro i mobili e gli spigoli, quando viveva ancora a casa di sua madre; fin da quando aveva imparato a camminare aveva amato correre, ma una casa non è il posto migliore per farlo. Per più di due anni della sua vita aveva dovuto convivere con bernoccoli ed ematomi vari, e c’era una cosa che la sua mamma faceva sempre quando lei si faceva male, ma che cos’era?
La bambina non riusciva a ricordarselo, perché nei sogni è difficilissimo rammentare certi dettagli, ma le bastò concentrarsi sul suo passato per tornare a essere Jaylah. Ora vedeva di nuovo suo nonno dall’esterno ma aveva ancora la sensazione che tutti gli altri elfi fossero suoi amici, persone che conosceva da tanto tempo.
“Nonno, smetti di fare questa cosa della guerra e torna a casa!” Sbottò, puntando i pugnetti contro i fianchi come faceva sempre sua madre quando era davvero indignata. Lui non la udì, stava indicando qualcosa sulla mappa usando un rametto. Nella foresta era così buio che la bimba si chiese se gli altri elfi riuscissero a vedere i suoi movimenti.
Poi notò un’altra cosa curiosa: nell’oscurità della foresta riusciva a vedere un sottilissimo filo dorato che spuntava dal torace di Tazandil. Forse era una cucitura dell’armatura di pelle che si era sfilacciata, ma era quasi luminoso. Jaylah si sistemò sulle gambe del nonno (che non diede segno di averla notata) e prese fra le dita quel filo. Era sottilissimo e molto più lungo di quanto le fosse sembrato. Lo tenne fra due dita saggiandone la lunghezza, e man mano che lo faceva scorrere si accorse che sembrava non finire mai. Un capo era saldamente assicurato al petto del ranger, l’altro capo diventava visibile man mano che lei lo scopriva al tatto. A un certo punto incontrò una biforcazione e si accorse che una delle diramazioni di quel filo era collegata a
lei, più o meno all’altezza del suo cuore, mentre l’altra continuava verso il centro del cerchio di elfi.
Jaylah seguì quel filo dorato finché non si dipanò in decine di altri fili, e la piccola mezzadrow comprese che quelli erano collegati agli altri elfi lì presenti. La bimba soppesò nella mano lo snodo in cui tutti quei fili si intrecciavano e si collegavano, andando poi a perdersi nell’oscurità. Non aveva peso, ma era splendido, come una raggiera fatta di luce.
Che cos’è questa cosa? Si chiese, sentendone la consistenza fra le dita. Cosa succede se provo a rompere un filo?
“Non puoi farlo, tesoro” le comunicò una voce pacata. “Ma che cosa ci fai qui?”
Jaylah alzò lo sguardo e si rese conto di non essere più nella foresta, ma in una stanza molto grande e completamente invasa da quei fili dorati. Un elfo gigantesco con lunghi capelli d’argento e vesti multicolori le dava le spalle; stava intessendo quei fili in una sorta di arazzo, con grande cura. Non era stato lui (o lei?) a parlarle, comunque: era stata un’elfa dall’aspetto angelico e dal sorriso confortante. L’elfa aveva dimensioni normali (be’, come un normale
adulto), occhi a mandorla di un color nocciola dorato e una cascata di capelli ramati, di un arancio vivo quasi quanto quelli di nonna Hinistel.
Jaylah la fissò a bocca aperta, poco educatamente. Era molto bella ma aveva anche qualcosa di familiare. Non ricevendo risposta, il sorriso dell’elfa si fece un po’ incerto.
“Chi sei, e come sei arrivata qui, piccola?” Le domandò. “La Torre Evanescente non è posto per bambini.”
“Mandala via” fu il commento neutro della creatura che intesseva i fili. La sua voce era possente, non aggressiva ma penetrante, sembrava emanare da ogni luogo contemporaneamente. “Non è davvero qui, sta sognando.”
L’elfa davanti a Jaylah sobbalzò per lo stupore. “Come, una
tel’quess che sogna?”
Jaylah si sentiva molto intimorita dalla voce dell’elfo gigante, quindi si aggrappò alle gambe della donna con cui stava parlando, che le sembrava buona e gentile.
“Voglio tornare da nonna Hinistel” mugugnò nascondendosi fra le vesti indaco dell’elfa.
Alla menzione di questo nome, l’adulta sussultò di nuovo. “Hinistel? La piccola Hinistel A’dou’vielin?”
Jaylah la guardò senza saperle dare risposta, perché non aveva mai sentito quel nome così lungo.
“Non te lo ripeterò di nuovo, Calaerel Amarthiar A’dou’vielin” ripeté l’elfo, scandendo il nome con quella voce spaventosa. La sua servitrice rabbrividì e Jaylah si tappò le orecchie di riflesso. “La tua linea di sangue sopravvive in un’altra figlia, questa creatura non ha posto nella mia casa.”
“Ma… ha il sangue delle veggenti Amarthiar…”
“E anche il sangue di sua madre, che la porta troppo vicina ai reami divini. Per questo ci ha trovati, ma nemmeno le Amarthiar hanno il permesso di sbirciare oltre il Velo prima di morire e giungere qui.” Spiegò l’elfo gigante con uno sforzo di pazienza. “Devo ricordarti che più tempo passa qui, più rischia di perdere il senno? Quattro primavere sono troppo poche per udire la voce di un dio.”
“Quattro…” sussurrò l’elfa di nome Calaerel, impallidendo. Abbassò gli occhi su Jaylah che ancora si teneva le mani sulle orecchie, la sollevò di peso e la portò di corsa fuori da quella stanza. “Sarà meglio che impari in fretta a fare la
reverie, tesoro.”

Jaylah non afferrò dove l’elfa la stesse portando, ma un momento dopo si svegliò di colpo nel lettone dei nonni. Aveva il fiato corto e la sensazione di aver fatto sogni molto strani, ma non ricordava nulla tranne che aveva rivisto la sua mamma e nonno Tazandil.
Hinistel si accorse che la bambina sembrava turbata e corse da lei, stringendola in un abbraccio affettuoso. “Che c’è piccola, hai fatto un brutto sogno?”
Jaylah la guardò con gli occhioni spalancati, confusa, poi annuì perché le sembrava di aver fatto un brutto sogno anche se non ricordava proprio tutto.
“Ti va di raccontarmelo davanti a una tazza di tè coi biscotti?” Propose Hinistel, per tirarle su il morale.
La parola ‘biscotti’ fu sufficiente a far dimenticare a Jaylah il disagio residuo della sua avventura onirica.

Più tardi, quella mattina, Hinistel scese con cautela la scala di corda che portava dalla stanza da letto alla piattaforma principale della casa. Da lì, una comoda passerella l’avrebbe condotta ad altri alberi dove piattaforme più grandi fungevano da luogo d’incontro o di passaggio. Era possibile attraversare quasi tutta la città senza toccare terra, se si sapeva come fare, e l’elfa pesantemente incinta preferiva fare così ormai piuttosto che scendere e salire i tronchi degli alberi. Portò con sé la nipote, tenendole sempre la mano per paura che saltasse di sotto per gioco. Non avrebbe dovuto e lo sapeva, ma la prudenza non era mai troppa.
Mentre camminava su quei comodi ponti, Hinistel si domandò ancora una volta per quale vezzo del destino fosse rimasta incinta così avanti negli anni, e non uno o due secoli prima. Lei e Tazandil avevano cercato a lungo un secondo figlio, e quello… quella… era arrivata quando entrambi erano già vecchi, entrambi quasi al termine del loro quarto secolo di vita. Hinistel avrebbe compiuto quattrocento anni fra solo una ventina di lune, mentre il marito era più giovane di lei di quasi tre decenni.
Gli elfi sapevano che la loro longevità era un dono, ed erano profondamente grati di quella fortuna; ancor più che della lunga vita, erano felici della buona salute fisica e mentale che di solito li accompagnava fino a un’età veneranda. Il loro corpo appariva giovanile fin quasi al letto di morte, la maturità poteva essere intuita dal loro sguardo e dal comportamento più che dall’aspetto fisico. Questa era la ragione per cui una donna come Hinistel poteva ancora portare avanti una gravidanza. Era anche il motivo per cui la madre di Tazandil era stata un’indomita guerriera fino quasi ai suoi settecento anni.
Purtroppo non tutti loro erano baciati dalla fortuna; accadeva, raramente a dire il vero, che un elfo potesse contrarre qualche malattia o infermità invecchiando.
Era il caso di Noraemir Erlathan, un tempo sommo sacerdote di Solonor Thelandira. Si era quietamente ritirato dalla sua posizione una cinquantina di anni prima perché lo stress delle responsabilità aveva imposto un tributo alla sua salute. Ora viveva una vita tranquilla ed era un anziano rispettato e molto amato, ogni tanto il suo successore Caelim andava ancora a chiedergli consiglio, ma per sua esplicita richiesta non era più stato coinvolto nella politica della foresta.
Si occupava, curiosamente, di insegnare le antiche tradizioni elfiche ai bambini che avevano voglia di ascoltarlo. In tutta la sua lunga vita non aveva mai avuto figli suoi, ma si era occupato della comunità quasi come un padre, e adesso in vecchiaia adorava prendersi cura dei più piccoli. A volte la sua mente non si mostrava più acuta come un tempo, ma era un elfo gentile e conosceva moltissime storie.
A Jaylah era capitato qualche volta di fermarsi ad ascoltarlo, sedendosi in cerchio con gli altri ragazzini… ma spesso non riusciva a star dietro ai suoi racconti perché richiedevano una conoscenza pregressa, un’infarinatura di cultura elfica che lei non aveva. Per questo la bambina fu molto sorpresa quando, dopo colazione, nonna Hinistel la portò a trovare quell’anziano signore.

Le mani ossute di Noraemir tremarono leggermente mentre serviva una tazza di infuso alla donna e alla bambina, ma non volle farsi aiutare: era questione di rispetto per lui poter fare gli onori di casa, a costo di metterci qualche minuto in più.
Hinistel lo ringraziò con calore, poi gli espose il motivo della loro visita: cercava qualcuno a cui affidare Jaylah per renderla più elfa, qualcuno che avesse esperienza di bambini e di insegnamento e che fosse dotato di pazienza e cultura.
L’anziano elfo rimase molto colpito dalla richiesta, perché nessuno gli aveva mai chiesto di assumere il ruolo del precettore. Gli bastò uno sguardo alla bambina per capire il motivo di quella necessità.
“Intuisco che fino ad ora questa bella signorina non abbia avuto un’educazione propriamente elfica” considerò, sorridendo con indulgenza.
“La mia mamma è come un’elfa, però è nera” raccontò lei, in tono tranquillo. “Il mio papà invece vive qui e tutti gli volliono bene. Io però di più!” Rivendicò senza la minima esitazione.
Non lo stava facendo di proposito per intenerire l’adulto, ma Noraemir capitolò immediatamente davanti a quell’affermazione così spontanea e dolce.
“Mia cara Hinistel, nulla mi renderebbe più fiero che contribuire all’educazione della tua adorabile nipote, ma comincio a temere che non saprei essere imparziale” confessò con un risolino. “Potrei essere troppo indulgente.”
La dama sospirò, scuotendo leggermente la testa. “Mio vecchio amico… come ti capisco. Io non riesco a negarle mai nulla. La vizierei da mane a sera, ma poi chi lo sente Tazandil?”
“Nonno Tazandil è in guerra” interloquì Jaylah, toccando con cautela la sua tazza ancora troppo calda. “Ma la guerra no’ li piace, quand’è che torna?”
“Amore, tornerà il prima possibile” spiegò Hinistel, stringendosi nelle spalle. Era preoccupata per suo marito, ma cercò di non farlo trapelare perché non voleva allarmare la nipote. “Ho intenzione di scrivergli una lettera, mi piacerebbe che tu aggiungessi un saluto alla fine. Cosa ne dici?”
“Sì, voll… vorrei.” Si corresse, ricordando gli insegnamenti di sua nonna sull’uso della parola voglio. “Ma non so scrivere le parole elfiche” obiettò subito dopo, un po’ abbattuta.
“Per questo siamo qui. Se prometti di essere brava, rispettosa e ubbidiente, mastro Noraemir potrebbe accettare di insegnarti a scrivere e ad essere un po’ più… elfa. Uhm, non che tu non vada bene così come sei, ma a nonno Tazandil farebbe piacere vedere che ti impegni. Sarebbe una bella sorpresa per lui, al ritorno dalla guerra… potresti fargli vedere che hai imparato a parlare in elfico come si deve, come una signorina grande, e che sai come ci si comporta” concluse, con l’aria di camminare sul ghiaccio. Non le piaceva porre il discorso in quel modo, le sembrava di discriminare la bambina per la sua razza o per la sua educazione fino a quel momento, ma lei era troppo piccola per cogliere i sottintesi e offendersi.
Jaylah abbassò il capo e sporse in avanti il labbro inferiore, riflettendo profondamente.
“Tu dici che il nonno mi vorrà più bene se divento più elfa?”
Hinistel sentì il cuore affondarle nelle scarpe. Non voleva che un altro bambino sentisse di doversi guadagnare l’amore di Tazandil, non dopo il modo in cui Johel aveva guardato suo padre per tutta l’infanzia. Il vecchio ranger non era molto bravo a dimostrare affetto e non era facile per una persona così giovane capire che quell’affetto comunque c’era. La veggente aveva promesso a se stessa che avrebbe protetto il suo nuovo figlio, o figlia, da questa erronea impressione. A quanto pare avrebbe dovuto fare lo stesso con Jaylah.
“No, il nonno ti vuole già moltissimo bene, ma non è capace di esprimerlo. Se tu impari l’elfico lui sarà soddisfatto e sarà fiero di te, ma il suo amore non dipende da questo.”
“Come non è capace?” Jaylah alzò la testa di scatto, stupefatta. “Ma lui è vecchio, io pensavo che sapeva tutte le parole!” Hinistel boccheggiò, in cerca di una risposta, ma la piccola non aspettò per completare il suo pensiero: “Maestro Nomimì può insenniarmi tutte le parole che ci sono e poi può insenniare al nonno a dire ‘ti vollio bene’, ché no’ può essere tanto difficile!” Recriminò gonfiando le guance in modo buffo.
Hinistel non sapeva se quella della nipote fosse vera incredulità o una forma stranamente precoce di sarcasmo, ma si scambiò un’occhiata impotente con il vecchio Noraemir e poi, incapaci di resistere, scoppiarono entrambi a ridere.


Nel frattempo, non molto lontano

Yerkna era sempre stata una cagnolona felice, ma da quando il suo amico Raerlan l’aveva portata a vivere a Myth Dyraalis era ancora più felice. Tutti quegli elfi e gnomi simpatici a cui fare le feste! E tutti quei bambini! La sua grossa coda candida si agitava tutto il tempo senza riuscire a fermarsi.
Quella mattina Yerkna si era seduta fuori dalla porta della Casa degli Scapoli e uggiolava piano, ma sempre scodinzolando. Raerlan le aveva insegnato a non entrare in quell’edificio, perché era il territorio di un vecchio cooshee brontolone. Il cane elfico non passava tutto il suo tempo alla locanda, ma quando c’era si comportava da stronzetto territoriale e non consentiva l’ingresso a nessun altro loppide. Aveva ringhiato perfino a Yerkna, anche se fuori da quell’edificio i due cani andavano d’amore e d’accordo.
In realtà la grossa cagnona bianca come la neve era lì proprio per quello: stava cercando di richiamare all’esterno il suo amico, per giocare. Da dentro si sentiva già il rumore di zampone che grattavano contro la porta di legno. I due cani si divertivano un mondo insieme, facevano sempre lunghe corse, salti e lotte amichevoli nella foresta, sia dentro che fuori dalla città… anche se ultimamente Yerkna non era troppo in vena di lotte, e nemmeno di salti.
“Ciao, Yerkna” la salutò Amyl, quando aprì la porta della locanda per lasciar uscire il suo cooshee. La testa di Yerkna arrivava quasi alla spalla dell’elfa, sicuramente un halfling avrebbe potuto usarla come cavalcatura. Era grossa almeno quanto un pony. L’elfa allungò una mano per accarezzare la grossa testa dell’amichevole bestia gigante, ma non fece in tempo: il cooshee sgusciò accanto alle gambe di Amyl e corse da Yerkna, saltando per afferrarle un orecchio con i denti. La cagnolona ringhiò, ma per gioco, e ricambiò il finto morso cercando di ingaggiare l’amico in una lotta. Presto i due animali si allontanarono correndo e inciampando l’uno nell’altra.
Amyl li guardò allontanarsi sorridendo, chiedendosi quale sventurato passante avrebbero travolto nella loro corsa cieca. Yerkna in particolare era una creatura goffa, sembrava aver preso dal suo padrone. Tinsel, il cooshee, quantomeno era abbastanza aggraziato. Solo l’età avanzata l’aveva reso un po’ meno agile.

“Oh, il cane dell’impiastro” commentò Daren, facendo capolino dalla porta dietro Amyl. “Come mai è qui? Prima non stava a Myth Dyraalis.”
“Raerlan è stato affidato alla difesa della città e si è portato Yerkna” spiegò la rossa. “Quindi vive qui da quando Tazandil è partito. Non dico che ci sia una diretta correlazione fra queste due cose, ma nemmeno posso negare che lo sospetto!” Ridacchiò, alludendo al goffo entusiasmo dell’animale. Il vecchio ranger capo non avrebbe approvato quell’elemento di disturbo della quiete pubblica.
Daren annuì, approvando quella scelta. Non tanto la presenza molesta di Yerkna, quanto l’aver affidato Raerlan alla difesa della città. Era un lavoro a basso rischio, adatto a lui visto che per il momento l'alicorn non era in grado di affrontare pericoli veri. Doveva averlo deciso Johel.
“Johlariel è un buon ranger capo” commentò. Era un pensiero che sembrava uscito dal nulla e infatti Amyl gli rivolse un’occhiata perplessa. Il drow sorrise in tralice e si corresse subito: “Però non riferirgli che l’ho detto.”
La cameriera sbuffò una mezza risata. “E come potrei? Non lo si vede in città da settimane. Non è mai tornato neanche per stare con sua figlia. Il dovere lo tiene lontano.”
“Il dovere lo spaventa” la corresse Daren, tornando serio. “Sente di dover dare tutto se stesso e anche di più, per eguagliare suo padre, anzi crede che nemmeno questo sarà abbastanza. Di questo passo sarà esaurito fisicamente e mentalmente entro la fine dell’anno.”
Il sorriso di Amaryll prese una piega un po’ amara. Era solo un cambiamento infinitesimale rispetto a un momento prima, eppure si notava.
“E tu devi stargli vicino e supportarlo” considerò. Non era una domanda.
Daren lanciò uno sguardo alla radura di fronte alla Casa degli Scapoli; a quell’ora c’erano già alcuni elfi e gnomi impegnati nelle incombenze quotidiane. Si ritirò nell’ombra della sala del pub, lontano da sguardi indiscreti. Amyl lo seguì e si chiuse la porta alle spalle.
“Sì. Io devo dargli tutto l’aiuto possibile.” Confermò. Il suo tono, la sua espressione, in quel momento erano difficili da leggere perfino per Amyl. “Posso immaginare che tu sia contrariata per questo, ma ripartirò presto. Devo essere all’accampamento di Johel per iniziare il turno di notte al tramonto.”
La rossa sgranò gli occhi, perché in autunno inoltrato il tramonto giungeva molto presto. Anche i più vicini campi dei ranger distavano comunque qualche ora a piedi dalla città, quindi…
“Praticamente devi partire adesso” fece conto.
Il drow sospirò e affossò le spalle. “Sì, passo a salutare Jaylah per darle notizie di suo padre, ma poi parto subito. Mi spiace non poterti dedicare più tempo.”
“Non c’è problema” mentì lei, sapendo che doveva fare buon viso a cattivo gioco. “Non mi fa piacere, ma ricordo che tu dai molta importanza al poter essere utile alla foresta. E poi, noi stiamo insieme da qualche mese. Johel è il tuo valdekwen da decenni.”
“Il mio che?” L’elfo scuro sollevò un candido sopracciglio.
“Una parola antica che esprime il concetto di… persona importante. Un migliore amico, un parente o una persona amata, tutto questo è valdekwen.” Daren stava già aggrottando la fronte, ma Amyl lo fermò con un gesto della mano. “Ehi, non protestare, me lo hai detto tu. La sera che ci siamo ubriacati e ti ho chiesto se conoscevi l’amore, tu mi hai detto che anche quello per gli amici e per i parenti è amore. Ho scoperto dopo che esiste una parola in elfico antico per questo tipo di affetto, il dare importanza a qualcuno indipendentemente dal tipo di amore che si prova.”
Il drow accettò quella logica e sospirò sconsolato. “Accidenti, allora ho tantissimi valdekweni” mugugnò, declinando la parola al plurale. Non specificò se Amyl ne facesse parte, e lei decise di non chiederglielo.

           

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Capitolo 21
*** 1361 DR: Il richiamo del bosco ***


1361 DR: Il richiamo del bosco


“Partiamo da qualcosa di semplice, che ne dici? Partiamo da O” propose l’anziano elfo dei boschi.
Jaylah sbatté le palpebre un paio di volte. “Ma non è la prima lettera.”
“Che signorina sveglia! No, non è la prima lettera, ma molte parole elfiche importanti iniziano con la O. Prima fra tutte… O, che significa genitore” pronunciò l’ultima parola nel linguaggio degli umani, perché la bimba potesse capire meglio. “Da questo ne deriva O’su, il padre, e O’si, la madre.”
La piccola mezzadrow rimase molto colpita da quell’excursus di etimologia.
“Ma il mio papà mi ha sempre detto di chiamarlo Va” obiettò.
“Quella è una parola informale che usano i bambini piccoli” Noraemir Erlathan sorrise con indulgenza. “Posso capire come mai Johlariel ti abbia insegnato a chiamarlo così, ma quando sarai più grande lo dovrai chiamare O’Su.”
Attese qualche secondo per accertarsi che Jaylah avesse capito, poi la bambina fece un cenno d’assenso. “Sì ma io sono già grande!”
“Uhm…” l’elfo non voleva essere maleducato, ma non sapeva come esprimere il suo disaccordo. “Per essere un’elfa, sei ancora giovanissima.”
“Sono grande abbass-tanza per dare la pappa alle galline” replicò tutta convinta. L’ex chierico sollevò un sopracciglio a quella parola pronunciata in lingua umana, ma in effetti non c’era una vera parola elfica per galline.
Tuttavia c’era qualcosa di simile.
Rûn’gyrah” rettificò. “Significa uccello che vive sulla terra.”
“Ah come l’uccellino cicciotto che è troppo rotondo pe’ volare!” Esclamò la piccola, orgogliosa di poter contribuire all’espansione della lingua elfica.
“Uuuuhm…” Noraemir era sempre più convinto di essersi andato a impegolare in qualcosa che non comprendeva del tutto. “Magari su questo punto ci torniamo dopo. Ripartiamo dalla O?”
“O. O’Su e O’Si. E poi so dire anche U’osu e I’osu” recitò, ripetendo le parole elfiche per nonno e nonna. “Ieri, quando sono arrivata qui all’inizio, no’ sapevo dire U’osu e allora ho chiamato il nonno Tazandil Vava, perché… è il papà del mio papà… e lui mi ha guardata con una faccia molto brutta e no’ mi ha parlato pe’ tutto il giorno!”
L’elfo dei boschi stava sorbendo un sorso di tisana e per poco non si strozzò. Era molto difficile rimanere serio con quella bambina intorno.
Vava non esiste, come parola” confermò l’anziano precettore. “Tazandil non è molto flessibile.”
“Eh?”
“Voglio dire, Tazandil è molto severo.”
“È un brutto vecchio bargiabanni” s’immusonì la bimba, ma Noraemir non riuscì a capire quella parola in dialetto umano.
“Un cosa?”
Jaylah si sforzò di riformulare la frase in elfico. “Un… uccello che vive di notte, e che vive pure vicino alle case umane; se li umani fanno rumore di giorno il bargiabanni si svellia e fa dei versacci ridicoli, tutto rabbiato. Se una persona è brontolona, tutti le dicono ‘è notte, vecchio bargiabanni!’, che vuol dire che no’ c’è niente da brontolare.”
Noraemir rimase spiazzato per un lungo momento, alla fine si limitò a commentare: “Affascinante.”
“E poi so dire anche Osi’Tan e Os’Tan ma no’ so che differenza c’è” riprese, tornando all’argomento di partenza. “E Os’Nyr, per la zia Mary.”
“Questo è semplice: Os’Tan significa zio, qualunque zio. Va bene anche per lo zio di un tuo genitore o per il marito di tua zia. Osi’Tan invece vuol dire espressamente fratello della madre, è una parola che esprime un dettaglio in più. Puoi chiamare Daren Osi’Tan e lord Fisdril Os’Tan, oppure puoi chiamarli entrambi Os’Tan.”
Jaylah si raccolse in meditazione per un lungo momento.
“O’Si, Osi’Tan… quando c’è una i da qualche parte, c’entra una mamma. E invece O’Su, U’osu… se c’è una u c’entra un papà. Però… se c’è una i e anche una u come in I’osu, mamma del papà, me lo devo ricordare a memoria perché… è troppo difficile” si arrese, guardando l’elfo con aria triste.
Noraemir si rese conto con meraviglia che quello che Jaylah intendeva dire era non ci arrivo con un ragionamento, perché la presenza di caratteri maschili e femminili in una stessa parola la confondeva ed era troppo difficile per lei ricordare la corretta posizione delle lettere, e quindi fare distinzione fra concetti come nonna paterna o nonno materno. Poteva solo imparare a memoria le parole corrispondenti.
Cioè come tutti i bambini.
“Tesoro, nessuno si aspetta che tu comprenda con la logica le parole elfiche in base a come sono costruite. Tutti quanti abbiamo imparato queste parole solo grazie all’uso e alla ripetizione… non ho mai visto una bambina della tua età cercare di comprendere l’etimologia.”
Jaylah lo guardò senza capire. “È un tipo di magia?”
L’anziano scosse la testa.
“No, non importa. Perdona un vecchio sciocco che parla a vanvera.” Le sorrise con benevolenza. “È normale che tu abbia un approccio diverso, l’elfico non è la tua prima lingua.”
“Papà mi parlava sempre in elfico anche ieri quando ero piccola” lo corresse lei.
“Ah… ieri non va bene per esprimere qualsiasi momento nel passato. Ieri si riferisce solo al giorno appena trascorso, prima di andare a riposare.”
La bambina sembrò all’improvviso mortificata di aver sempre usato la parola sbagliata.
“Molti-ieri?” Tentò, speranzosa.
L’elfo rise di nuovo, sempre più affascinato dalla giovane mente della sua allieva.
“La parola giusta è afea. Significa prima di ora o genericamente prima” spiegò, aggiungendo una traduzione in lingua umana.
“Allora è giusto se dico… Amin irma lisserim afea kail’adoe?
“Se stai cercando di dire che vuoi dei dolci prima di andare a letto” tradusse in lingua Comune “hai usato correttamente la parola afea, ma il plurale di lisse è lisser, non lisserim.”
“No. Lisserim. Non solo ‘dei dolci’, ma tantissimi dolci!” Chiarì lei, restando sulla sua posizione.
“Uhm. Allora lo hai detto bene, ma troppi dolci fanno male alla salute, quindi non è una buona idea.”
Jaylah sembrò nuovamente abbattuta da questa scoperta, ma si riprese quasi subito:
“Se ‘tantissimi dolci’ fanno male, allora devo dire a nonno Tazandil di dammeli per punizione!”
Lo disse in tono così convinto ed entusiasta che il vecchio elfo non poté fare a meno di ridere di nuovo.

Daren aveva lasciato la Casa degli Scapoli pronto a ripartire verso la foresta e i suoi doveri, ma prima voleva andare a salutare Jaylah. Quella si rivelò una specie di missione, perché andato alla casa di Tazandil e Hinistel non trovò la veggente né la bambina, e un elfo di passaggio lo informò di aver visto Hinistel dirigersi verso il tempio di Solonor Thelandira. Daren allora andò a cercarla al tempio, ma lì gli dissero che la dama elfa era venuta a pregare per la sua salute e per quella della sua famiglia e poi se n’era andata.
A quel punto cominciò una breve ricerca per ricapitolare gli spostamenti dell’elfa. Il drow era sempre più perplesso, al tempio non avevano fatto menzione di Jaylah, eppure se non era con Hinistel dove mai poteva essere?
Alla fine individuò la madre di Johel in una radura secondaria, mentre calava un secchio in un pozzo per riempire il proprio otre.
“Lascia che ti aiuti” la fermò, avvicinandosi a grandi passi. “Non dovresti affaticarti!”
Hinistel sobbalzò, perché non si era accorta della sua presenza, ma poi gli sorrise con gratitudine. “Apprezzo il tuo intervento, ma non sono un’invalida” scherzò, dandosi una piccola pacca sul ventre. “Potrebbero mancare dei mesi.”
L’elfo scuro afferrò la manovella del pozzo e cominciò a issare il secchio pieno d’acqua.
“Non so nulla dei misteri della gravidanza, ma penso che non dovresti compiere sforzi, non è che contraendo i muscoli poi corri il rischio che… insomma… che nasca qui e ora?”
La veggente rimase senza parole per quell’ipotesi assurda e riuscì a trattenere una risata solo grazie alla sua grande forza di volontà. “Non credo, non per aver sforzato i muscoli delle braccia. Ma vai avanti a descrivere il tuo scenario improbabile, pensi che la bambina potrebbe rimbalzare a terra e cadere nel pozzo?” Lo prese in giro bonariamente, perché in realtà apprezzava la sua preoccupazione.
“Bambina?” Il drow sollevò le sopracciglia, confuso. “Hai usato i tuoi poteri di veggente per scoprire che sarà femmina?”
Hinistel arrossì, perché quello sarebbe stato un modo ben stupido di usare i suoi poteri; per gli elfi, un figlio o una figlia erano un dono ugualmente grande, non esistevano differenze di status fra i generi. “L’ho scoperto per caso” si difese, a mezza voce. “Sono abbastanza sicura che sarà una bimba.”
“E allora, dal momento che porti in grembo la sorellina di Johel, lascia che ti dica una cosa: non so nulla dell’elasticità dei neonati, non so se potrebbe rimbalzare e cadere nel pozzo, ma so che se ti lasciassi muovere un dito quando posso farlo al tuo posto Johel non la prenderebbe bene. Adesso è il mio capo, finché non torna Tazandil” le rammentò, alzando gli occhi al cielo “quindi ha l’autorità per inventare modi astrusi per punirmi. Piuttosto che niente mi farebbe scavare le latrine, quindi no grazie.”
Ormai il secchio era arrivato in cima al pozzo, quindi Daren lo prese e lo poggiò sul muretto perché Hinistel potesse riempire il suo otre e bere.
“Allora ti ringrazio a nome di mio figlio per aver compiuto il tuo dovere civile” affermò lei, con gran solennità. Poi tornò a sorridere. “Immagino che tu stia cercando Jaylah?”

Raggiungere la casa elfica che Hinistel gli aveva indicato fu straordinariamente difficile, perché era considerato maleducazione arrampicarsi sul tronco della casa di qualcun altro senza farsi annunciare, ma la veggente gli aveva rivelato che il nuovo precettore di Jaylah era anziano e un po’ duro d’orecchi e viveva molto in alto su un albero quindi non era nemmeno possibile annunciarsi. Ormai il suo fisico non gli permetteva più di scalare agilmente gli alberi, quindi ogni stanza della sua casa era stata collegata alla rete di ponti sospesi della città, ed era possibile arrivare dal terreno al suo salotto con un largo giro di passerelle in leggera pendenza. Un largo giro non proprio intuitivo.
Ma che diamine, e poi la gente crede che orientarsi nei cunicoli sia difficile? Qui è anche peggio, riesco a vedere i maledetti ponti ma non capisco come si colleghino fra loro…
Il drow stava quasi per gettare la spugna, quando per fortuna sentì la vocetta squillante di Jaylah: “devo dire a nonno Tazandil di dammeli per punizione!”
Il drow si rimise in cammino facendo del suo meglio per orientarsi su quei ponti sospesi, avendo ora ben chiara la sua destinazione.

"Ora che abbiamo ripassato tutte le parole che indicano la parentela, vorrei che tornassimo a O, genitore. Tu di sicuro sai che per indicare il plurale di una parola, cioè per indicare che c'è più di un soggetto, ci sono diversi modi. Uno di questi e aggiungere la lettera r alla fine della parola. Or quindi significa genitori, ma…" l'anziano elfo si chinò verso la bambina con l'aria di volerle rivelare un segreto "Or significa anche bosco. Noi siamo gli Or'Tel'quessir, elfi dei boschi. Capisci cosa significa?"
La piccola mezzadrow era rimasta a bocca spalancata, sentiva che c'era una rivelazione appena oltre la sua comprensione ma non riusciva proprio ad indovinare cosa fosse. Fece un cenno di diniego con la testa sperando che il suo precettore le spiegasse meglio.
Noraemir sorrise con soddisfazione e si appoggiò allo schienale della sedia. "Significa che noi consideriamo il bosco nostro padre e nostra madre. Noi siamo nati dal bosco e viviamo grazie ad esso, vi apparteniamo."
Jaylah spalancò gli occhi per la sorpresa ma allo stesso tempo si fece scettica. "Ma io ho un papà e una mamma. Loro no' sono alberi! E anche il mio papà… lui ha nonno Tazandil e nonna Hinistel. Soltanto mio ratello sembra un albero, ma io mica diventerò così da grande?"
L'anziano precettore in parte si aspettava quell'obiezione, anche se non capì molto bene quel commento sulla persona che sembrava un albero. Decise di catalogarla come una fantasticheria infantile.
"Non intendo dire che ciascuno di noi sia fisicamente nato dal bosco. Noi siamo figli del bosco in senso spirituale."
Jaylah esibì un'espressione ancora più confusa ed era chiaro che stesse per fare una domanda, ma qualcuno li interruppe bussando alla porta.
Noraermir non aspettava nessuno, se non Hinistel che prima o poi sarebbe tornata a prendere Jaylah, ma avevano concordato che la bambina sarebbe rimasta fino a mezzogiorno. Non sapeva cosa aspettarsi, ma a Myth Dyraalis le persone vivevano tranquillamente nella convinzione di essere al sicuro da ogni pericolo, e l’anziano elfo sapeva che chiunque avesse bussato doveva essere un amico.
“Avanti, prego” chiamò ad alta voce, sporgendosi per vedere chi sarebbe entrato dalla porta.
"Mastro Erlathan" annunciò invece una voce da fuori la porta, "sono Daren, lo zio di Jaylah. Vorrei salutare mia nipote prima di andare in pattuglia."
"Zio Daren!" Esclamò la bambina tutta felice, e si lasciò scivolare giù dalla sedia. Scattò di corsa verso la porta, ma altrettanto repentinamente si fermò. "Maestro, posso aprire allo zio?"
"Ho già detto che può entrare" ripeté il vecchio sacerdote con un sorriso. "Non chiedo a nessuno di dichiarare la sua identità e le sue intenzioni" disse ad alta voce, a beneficio del drow.
L'uscio si aprì lentamente, rivelando la figura del guerriero sulla soglia.
"Vi ringrazio, Mastro Erlathan" cominciò Daren, ma venne interrotto da un'entusiasta Jaylah che gli si lanciò addosso abbracciandolo alla vita.
"Zio! C'è anche papà?" Chiese subito, tutta agitata.
Daren si adombrò per un attimo, perché purtroppo avrebbe dovuto dare una brutta notizia alla nipotina.
"No, cucciola. Tuo padre sta proteggendo la foresta finché nonno Tazandil non torna. So che vorrebbe venire a trovarti, ma tante cose dipendono da lui in questo momento."
Jaylah prevedibilmente ci rimase male.
"Oh" abbassò gli occhi, ma senza sciogliere Daren dall'abbraccio. "Mi diss-piace. Puoi dare tu un abbraccio al mio papà e dire che è da parte mia?"
Nemmeno se mi ammazzi a colpi di fichi molli, stava per rispondere, ma si morse la lingua perché la bambina sembrava davvero delusa.
"Se proprio ci tieni… anche Johel ti manda un abbraccio, anzi mi ha detto di abbracciarti due volte: una per lui e una per me."
Si piegò su un ginocchio per essere all'altezza della nipotina e la strinse fra le braccia, non troppo forte perché indossava già l'armatura di cuoio.
"Ma zio" boccheggiò Jaylah "tu no' mi abbracci mai".
Era vero. Il drow la prendeva in braccio di frequente, questo sì, e spesso riusciva a dissimulare un abbraccio con la scusa di doverla trasportare, ma non la stringeva mai in un gesto d'affetto fine a se stesso.
"È vero, ma tuo padre me l'ha ordinato. Adesso lui è il mio capo al posto di nonno Tazandil, quindi se mi dà un ordine devo obbedire."
Jaylah rimase a bocca aperta, di nuovo.
"Ma se ti dice di saltare, devi saltare?"
"Come un grig." Raccontò, anche se non era proprio così. Johel non era così pazzo da dargli ordini inutili. Sapeva che il suo ruolo di comando ad interim non sarebbe durato per sempre, e che alla fine avrebbero fatto i conti.
La piccola invece non poteva capire quelle sfumature.
"Ora sono la figlia del tuo capo" affermo con un grande sorriso, districandosi dall'abbraccio. "Devi fare anche tutto quello che dico io?"
"Sei la figlia di mia sorella, quindi eri già la figlia del mio capo anche prima" scherzò Daren. "Non prendo ordini da te, mocciosetta! Sei tu che devi obbedire agli adulti, devi fare quello che ti dice nonna Hinistel… devi fare la brava bambina."
"Sono moltissimo brava" rispose Jaylah con la sua grammatica elfica ancora zoppicante, ma con una certa alterigia. "Chiedi a Maestro Nomimí, che io ss-to imparando bene l'elfico così poi nonno Tazandil è contento. Li scriverò una lettera! Li dirò tante cose con le parole giuss-te."
Daren abbracciò una seconda volta la bambina, come aveva promesso di fare, poi si alzò tenendola tra le braccia e si avvicinò all'anziano elfo.
"Vi ringrazio per quello che state facendo per mia nipote" cominciò, non sapendo bene come intavolare un discorso delicato.
"È un piacere e un privilegio. Questa ragazzina è intelligente e possiede una certa intuizione, in certe cose la definirei precoce. È chiaro che ha delle lacune per quanto riguarda la cultura di suo padre ed è indietro con la padronanza della lingua rispetto ai suoi coetanei, ma mi sembra perfettamente in grado di recuperare. I timori di lady Hinistel sono infondati, secondo la mia opinione."
Il drow sbatté le palpebre un paio di volte. "I timori?"
"Che la bambina potesse essere predisposta ad uno sviluppo più lento rispetto al normale." Lo disse in tono completamente tranquillo, privo di giudizio. Gli elfi potevano necessitare di molti anni per svilupparsi e nessuno si preoccupava se un bambino aveva bisogno dei suoi tempi. L'importante era capirlo.
"Mia sorella ha avuto molti figli e ognuno di loro ha avuto i suoi tempi" Daren si strinse nelle spalle, per nulla preoccupato. "Naturalmente un elfo si svilupperà più lentamente di un mezzumano, ma anche fra i suoi figli di razza elfica si sono evidenziate delle differenze. Non mi stupirebbe se Jaylah mostrasse più talento in certi ambiti e più difficoltà in altri. Per quanto io voglia bene a mia sorella e a Johlariel, nessuno dei due ha esattamente la stoffa dell'arcimago" sollevò entrambe le sopracciglia con espressione eloquente "se capite che intendo."
"Siete senza pietà!" Il vecchio sacerdote si fece una risata.
"Non sto dicendo che manchino in qualcosa" specificò Daren con un sorriso di scuse. "Solo che le mie aspettative per Jaylah sono nella media, e le ritengo ragionevoli. In effetti non desidero nulla più che una vita normale e felice per lei."
"Credo che abbiate un'idea un po' viziata di cosa sia la media" ribatté l'elfo dei boschi, per nulla scomposto. "Ma il vostro desiderio è comprensibile."
"Sapevo che avreste capito, perché avete esperienza con le persone e mi hanno detto che per anni la vostra saggezza ha dato un contributo alla società" cominciò il drow, felice di aver trovato un modo per introdurre un argomento spinoso. "A proposito di vita normale: in questo momento non posso spiegarvene il motivo, ma è desiderio di Johlariel e di mia sorella che la piccola Jaylah non venga accostata al concetto di religione, almeno per ora. Vogliono che da grande sia libera di scegliere."
Mastro Erlathan rimase un po' sorpreso da quella strana richiesta.
"Mi è stato chiesto di insegnare alla bambina la nostra cultura, e la religione fa parte di quella cultura. Non è mai stata mia intenzione indottrinarla, ma so che i nostri déi l'accoglierebbero."
"Non sto mettendo in discussione la vostra buona fede o quella dei vostri dèi" rispose, anche se non era così sicuro su quest'ultima affermazione. "Ma purtroppo la bambina condivide la sventura della mia famiglia: una volta accesa la fede in un dio, diciamo che ci è quasi impossibile cambiare idea. Neppure mia sorella le ha mai parlato della dea della Natura, in cui ripone tanta fiducia e amore. I genitori di Jaylah vogliono che la bambina rimanga al riparo da certe questioni finché non avrà l'età per scegliere" ripeté, senza cedere di un palmo.
Noraemir un tempo era stato il sacerdote responsabile del tempio di Solonor Theladira, e forse a quel tempo avrebbe insistito. Adesso era molto più vecchio, più saggio, e soprattutto aveva smesso la tonaca clericale per vestire i panni del precettore. Se quella era la volontà dei genitori l'avrebbe rispettata.
"Se ciò che dite è vero, perdonate la curiosità di un vecchio dalla mente ormai debole, voi come avete fatto a sfuggire alla fede nella crudele dea del vostro popolo?"
Era una domanda niente affatto da vecchio dalla mente debole, ma Daren sorrise apprezzando quell'ultima difesa dialettica di un vecchio prete fiero della sua professione.
"Non è stato necessario, non mi ero mai avvicinato a quella dea, non con il cuore. In quanto maschio di scarsa posizione sociale, mi era chiesto solo di mostrare una fede di facciata e stare al mio posto nei confronti delle femmine."
"Quello è il mio poss-to" interloquí Jaylah, che come al solito ascoltava solo una frase ogni tanto, quando parlavano gli adulti. Stava puntando il ditino verso la sedia che aveva occupato fino a poco prima. "È il mio poss-to perché c'è sopra un cuscino. Sono troppo bassa pe' ss-tare seduta bene al tavolo." Confessò con aria un po' mogia.
"Tesoro, sei mezza drow" Daren la riappoggiò sulla sua sedia munita di cuscino. "Sarà meglio che ti abitui ad essere bassa."

"C'è un limite a quello che posso sperimentare in città. Posso assicurarti che in settantacinque anni di vita ho esplorato questo posto da cima a fondo, mamma, conosco Myth Dyraalis come il palmo della mia mano, so esattamente quali alberi vi crescono e quali muschi crescono su quegli alberi. Potrei dare un nome ad ogni ago di conifera."
"Benissimo, allora fallo" invitò Amyl, senza cedere di un passo davanti alle richieste del figlio.
"Ma mamma!"
"Ma mamma niente. L'ultima volta che sei uscito dalla città sei quasi morto. Fintanto che le forze dei ranger sono ridotte al minimo, tu non te ne andrai a zonzo a giocare al piccolo druido esploratore in mezzo ai mostri. Nelle ultime settimane sono stati avvistati troll e hobgoblin."
"Solo un gruppetto di hobgoblin, e sono stati tutti uccisi o messi in fuga. Mamma, non puoi tenermi qui dentro per sempre."
"Non uscirai senza essere scortato e nessuno ora può dirsi disponibile a scortarti. Santo cielo Navar, hai sentito Raerlan. Sei destinato a vivere una vita molto lunga, fammi il sacrosanto piacere di esercitare la pazienza!"
"Anche tu hai sentito Raerlan e dovresti sapere che la pazienza non si sposa bene con il sangue fatato."
"Per questo ti ho suggerito di fare uno sforzo" Amyl rispose con un sorriso angelico. "Aspetta che tornino i ranger e poi chiederò a qualcuno di scortarti dove vuoi, ti concederò un'uscita di un intero ciclo di luna. Che ne dici?"
"Dico che ho settantacinque anni e sono quasi un adulto, non ho bisogno che mia madre mi faccia concessioni" si adombrò lui.
Amyl prese un profondo respiro, per un momento fu quasi sopraffatta dallo sconforto e la sua mente scartò fuori dal suo controllo verso ricordi lontani. Le tornarono in mente flash del passato, della sua giovinezza di emozioni assolute, ricordò il desiderio bruciante che aveva di concepire un bambino. Sul momento non capì il perché di quei ricordi involontari ma fu inevitabile chiedersi: Perché volevo così tanto un figlio? L'adolescenza è un tale incubo!
Sapeva che quello non era un pensiero serio, ma si scoprì comunque a guardare Navar con una punta di senso di colpa. Altri ricordi le salirono alla mente, di quando Navar era bambino, sempre pronto a sgattaiolare fuori dal suo controllo, sempre infilato in qualche tana di animale o sul fondo del pozzo a cercare tesori. Era sempre stato un piccolo esploratore, ribelle, incontenibile. Adesso non era diverso, era solo più grande e più in diritto di pretendere la libertà.
"Non intendo tenerti alla catena per sempre" sospirò infine, stanca di quella discussione. "Non potrei farlo e comunque non sarebbe giusto. Ma cerca di capire che tu sei la persona più importante della mia vita. Non sai come mi sono sentita quando sei tornato a casa ferito e ho saputo che avevi rischiato la vita. Ti sto chiedendo solo di aspettare qualche mese fino al ritorno dei nostri ranger, puoi sopportare un po' di noia se l'alternativa è far morire di preoccupazione tua madre?"
"Oh, mamma! È un ricatto morale" insistette lui, incrociando le braccia tutto imbronciato.
"D'accordo allora" la locandiera decise di giocarsi il tutto per tutto. "Se ci tieni tanto a uscire dalla città vuol dire che verrò con te."
Navar rimase a bocca aperta, preso in contropiede da quella svolta negli eventi. "Ma non puoi!"
"Ah non posso?" Amyl inarcò un sopracciglio.
"Mamma, con tutto il dovuto rispetto, sei una cameriera! Cosa pensi di fare se incontrassimo un mostro, offrirgli una camomilla?"
"E tu invece che cosa potresti fare se incontrassi un mostro?"
Navar non aveva una risposta. Credeva, per se stesso, che la buona fortuna l'avrebbe protetto. Certo non avrebbe potuto fare nulla contro un mostro o un hobgoblin o un troll, era soltanto un apprendista druido, ma gli veniva naturale allontanare la preoccupazione con una scrollata di spalle pensando che tanto era improbabile che succedesse. Se si trattava però di immaginarsi a esplorare la foresta insieme a sua madre, perfetta cittadina inerme incapace di sollevare un'arma più pesante di un coltello da cucina, improvvisamente tutta quella fiducia nella fortuna cominciava a venire meno.
"Oh. Ooooh. Adesso capisco." Il giovane elfo si massaggiò le tempie con le mani, capendo finalmente il trucchetto di Amaryll. "Mi hai costretto a vedere le cose dal tuo punto di vista. Molto arguta."
L'elfa sorrise, perché ormai sapeva di avere vinto. Il figlio aveva compreso la sua preoccupazione, il fatto che avesse radici nell'amore.
"Solo finché non tornano i ranger, tesoro" gli ripeté per l'ennesima volta. "Nel frattempo ti consiglio di goderti le tue ultime settimane da giovanotto libero. Vai a trovare gli amici, sperimenta con qualche ragazza, fai cena con i dolci della colazione, puoi perfino fare scherzi alla gente se ne hai voglia. Quando potrai di nuovo uscire dalla città mi aspetto che tu ti dedichi con tutta l'anima ai tuoi studi da druido, e non avrai più tempo per i giochi infantili."
Il ragazzo sorrise, accettando quel compromesso. Non vedeva l'ora di tornare a dedicarsi ai suoi studi, ma la proposta di sua madre non era così male, un po' di caro vecchio ozio condito di divertimento era l'ideale per sopportare quella lunga prigionia in città.

Navar andò in camera sua a prendere il suo blocco di fogli di carta. La carta prodotta dagli elfi era un supporto simile alla pergamena degli umani, ma molto più fragile perché veniva ricavata intrecciando fibre vegetali. I fogli di carta non avevano la stessa durata delle pergamene, e verrebbe da pensare che il lavoro necessario per produrli in fin dei conti non valesse la pena, ma gli elfi non avevano a disposizione molti animali dalle cui pelli si potessero ricavare pergamene. Per abitudine gli elfi dei boschi non praticavano l'allevamento, se mangiavano carne era solo a seguito della caccia, ed era più frequente che trovassero conigli o volatili piuttosto che cervi o daini, e men che meno capre, che vivevano allo stato brado solo in alto sulle montagne dove la foresta lasciava il posto a prati e sterpaglie. Per questa ragione usavano soprattutto surrogati della pergamena di origine vegetale, e anche se la loro resistenza e durata erano inferiori andavano benissimo se lo scopo era farne un album per degli schizzi e appunti. Navar aveva un discreto talento per il disegno e nel tempo aveva collezionato riproduzioni di fiori, pigne, dettagli di corteccia, tutto quello che potesse aiutarlo a memorizzare le differenze fra le varie specie di conifere della foresta, che magari un profano (come ad esempio Daren) avrebbe trovato quasi identiche fra loro.
Questa volta il suo quaderno degli schizzi gli sarebbe servito per una pratica più dilettevole, ritrarre persone o animali o qualunque cosa gli capitasse a tiro. Magari avrebbe disegnato anche qualche caricatura.
Recuperò dalla sua scrivania il blocco di fogli tenuti insieme da lacci di fortuna, prese anche alcuni carbonici e buttò tutto nella sua borsa a tracolla. Scese le scale rapidamente per uscire all'aperto e sfruttare al meglio il poco tempo che gli restava prima del pranzo del mezzogiorno. Forse avrebbe anche potuto saltare il pranzo visto che non prevedeva di fare esercizio fisico e di sprecare energie. Sì, magari sarebbe semplicemente rimasto all'esterno fino al calare della notte; sua madre non si sarebbe preoccupata, fintanto che fosse rimasto nella città protetta.
Arrivato al pianterreno spalancò con foga la porta della locanda, trovandosi davanti un elfo che stava per bussare.
Per qualche istante, nessuno dei due disse nulla.
"Ehm… buongiorno. Tu sei il cugino di mia madre, vero?" Domandò, per rompere l'imbarazzo.
L'elfo dai lunghi capelli neri rimase ancora per un momento con il pugno sollevato, quasi nell'atto di bussare, poi abbassò il braccio.
"Uh, sì. È qui per caso?"
"È qui, non per caso. Sta per iniziare il suo turno. Devo dirle che la stai cercando? O vuoi parlarle direttamente?"
Navar non aveva avuto ancora modo di stringere conoscenza con questo particolare cugino, ma l'aveva visto un paio di volte e gli era sembrato un tipo dalla parlantina spigliata, anche troppo, uno che era più difficile da far star zitto che da far parlare. Eppure in quel momento aprì e richiuse la bocca come un pesce rosso.
"No, se sta per mettersi al lavoro non la disturberò. Tornerò più tardi. O magari domattina." A Navar sembrava tanto che stesse cercando una scusa per andarsene. "Ehm, arrivederci… Navar?"
Il biondino annuì, un po' perplesso, incapace di riportare alla mente il nome di quel parente; avrebbe voluto ricambiare almeno la cortesia di mostrare di averlo riconosciuto. L'elfo però girò i tacchi e se ne andò prima che potesse dire altro.

           

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Capitolo 22
*** 1361 DR: Un elfo decente ***


1361 DR: Un elfo decente


Saeron attraversò la città in silenzio, perso nei suoi pensieri. Non si curò nemmeno di rispondere ai cenni di saluto della gente, ma per una volta, non per scortesia. Non li vedeva davvero, troppo impaludato nelle sue ansie.
Era un elfo dei boschi con una sua dignità. Ci teneva a sottolinearlo spesso, non a parole perché sarebbe stato degradante, ma attraverso gli atteggiamenti, le pose, il tono della voce, le sue scelte. Nella sua miopia aveva sempre scambiato la dignità con l’alterigia e il suo concetto di fierezza era tenere gli altri a distanza, non rinunciando alle interazioni sociali (figuriamoci, un bardo!, sarebbe stato un suicidio professionale) ma rifiutando un confronto vero e paritario.
In poche parole, Saeron non aveva mai coltivato amicizie profonde. Aveva degli ammiratori, ovviamente delle ammiratrici, aveva un fratello, e poi aveva… un rapporto indefinibile con Belegron, che era un amico di Vialaer ma aveva questa curiosa mentalità ‘sei il fratello del mio amico, quindi sei mio amico anche tu’. Era letteralmente così che si era presentato, molti decenni prima. E Saeron aveva sentito una rispostaccia salirgli alla punta della lingua, ma non l’aveva mai espressa perché… perché Belegron era…
L’elfo dei boschi abbassò lo sguardo a terra mentre un leggero rossore gli accendeva le guance. Lui che aveva un incarnato più pallido della media degli elfi dei boschi purtroppo diventava del tutto trasparente quando era imbarazzato o turbato. Affrettò il passo verso la casa arborea che condivideva con suo fratello, con il loro amico e con un’altra famiglia di elfi del loro villaggio.
Belegron era stato per decenni l’unica persona oltre a suo fratello con cui Saeron avesse un rapporto un minimo profondo. Era facile, perché l’elfo gioviale e farfallone appariva come una persona semplice. Non che difettasse di quella sensibilità che era tipica degli elfi, ma aveva un modo tutto suo per alleggerire le situazioni e lasciare alle persone i loro spazi. Con il tempo, il bardo aveva capito che il suo amico non era affatto uno sciocco ma manifestava la sua intuizione in modo diverso dalla norma. Scoprire che fosse una persona stratificata, più complessa di come appariva al primo sguardo, aveva solo aumentato il fascino di Belegron ai suoi occhi, e per anni lo aveva anche un po’ invidiato, lo aveva preso di punta, leggendolo come un possibile rivale per il ruolo di elfo più affascinante del villaggio. Ma era un titolo che il carpentiere non voleva, richiedeva di avere un’immagine troppo strutturata, costruita in modo fittizio. Era, decisamente, il ruolo di chi ama più il proprio riflesso nello specchio che la compagnia altrui, e quindi era tagliato su misura per Saeron. A Belegron bastava riuscire a conquistare le attenzioni femminili ogni volta che ne sentiva il capriccio.
E questa era un’altra cosa che a Saeron non era mai andata giù del tutto. Perché apparentemente non importava quanto potesse affinare la sua arte, rendersi seducente, curare il suo aspetto, farsi cucire abiti su misura dal fratello, spazzolare i suoi capelli fino a renderli lucidi come una cascata di seta, o rifinire le sue maniere fino a diventare apparentemente educato come un lord: c’era una persona, nel suo entourage, che continuava a sembrare immune alla sua immagine ammaliante, e questo lo indispettiva da sempre. Saeron ci aveva messo davvero molti anni a capire che il sentimento ambivalente che provava per Belegron non era invidia, ma desiderio. E non semplice desiderio sessuale; era prima di tutto desiderio di avere con l’altro un rapporto diverso, di avere la certezza che Belegron potesse comprenderlo, o anche solo notarlo.
Come quasi tutte le creature senzienti, gli elfi erano capaci di sentimenti complessi; ma a differenza di altre razze come gli umani o gli gnomi, di solito gli elfi erano in grado di identificare molto bene la linea di demarcazione fra sentimenti positivi e negativi. Gli capitava molto raramente di provare ostilità e affetto per la stessa persona, era una situazione confusa, indegna del controllo e della profonda consapevolezza che la loro razza aveva sviluppato nei secoli e che tramandava alle nuove generazioni attraverso l’educazione. Saeron aveva capito di non saper tracciare la linea fra sentimenti positivi e negativi, e questo lo preoccupava, ma era una preoccupazione che faticava ad ammettere perfino con se stesso; si era chiesto più di una volta, nell’intimità della sua stanza, ‘Che cosa c’è che non va in me?’, ma poi aveva sempre scosso la testa rimproverandosi di essere troppo melodrammatico. Non riusciva a tollerare l’idea che ci fosse qualcosa che non andava, in lui. Preferiva interpretare quei dubbi come una tendenza eccessiva all’autocritica, trasformando così un momento di riflessione in uno di auto-assoluzione, lui che di autocritica in realtà era incapace.
La verità era che il bardo era soggetto a provare sentimenti confusi per gli altri perché provava sentimenti confusi prima di tutto verso se stesso, ma non ne era assolutamente consapevole. Suo fratello in qualche modo l'aveva intuito, per questo si era sempre rifiutato di lasciarlo solo, anche se ormai erano adulti.
Alla fine le sue gambe lo portarono ai piedi dell’albero dove sorgeva la sua casa, meccanicamente, senza quasi che si accorgesse del percorso fatto o del tempo che era passato.
“Saeron” la voce di Belegron lo richiamò all’ordine. L’elfo si guardò intorno, poi realizzò che la voce veniva dall’alto. Il carpentiere era affacciato da una passerella che collegava alcuni rami alla piattaforma più alta della casa. “Aspettami, scendo.”
Il bardo si concesse un sorrisino timido, una cosa insolita, per lui. “Ma no, incontriamoci a metà strada” propose, iniziando ad arrampicarsi sul tronco mentre Belegron scendeva. Era solo all’apparenza una concessione gentile; in realtà Saeron sapeva che avrebbe dovuto riferire di aver fallito la sua missione, e sperava - anche se era una speranza debole - che se fosse riuscito a mettere piede in casa, Belegron non l’avrebbe ricacciato giù per costringerlo a tornare da Amaryll.
Era così facile fallire in una missione che non voleva compiere…
“Allora?” Belegron lo accolse con un sorriso incoraggiante “sei riuscito a parlare con tua cugina? Le hai porto le tue scuse?”
L’elfo pallido arrossì ancora di più.
“Io… non… ecco, lei...” il suo balbettio incerto riuscì a spegnere perfino le speranze di Belegron. “Non c’è stata l’occasione!” Buttò fuori, cercando di giustificarsi.
“Ah, certo, non c’è stata occasione” l’amico storse la bocca in una smorfia. “Immagino che tu non ti sia sforzato molto per crearla, l’occasione.”
“Stava per mettersi a lavorare, presto sarebbe arrivata gente, non mi andava di affrontare l’argomento… in un momento in cui lei aveva altro da fare e qualcuno…”
“E qualcuno avrebbe potuto sentirvi, intaccando la facciata di infallibilità che hai costruito” concluse per lui Belegron. “Non è questo che avevamo deciso, Saeron. Ti ho detto che vorrei che diventassi un po’ più sincero.”
Sono sincero!” Sbottò il bardo, e forse lo credeva anche. “Ma vuoi che sia ancora più sincero? Benissimo! Non capisco cosa ho fatto di così sbagliato da giustificare il rischio di un’umiliazione pubblica.”
“Non ti ho mai chiesto di subire un’umiliazione pubblica, sei tu che hai nicchiato e rimandato solo per poter arrivare al pub quando lei stava per mettersi a lavorare, e avere così una scusa per venirtene via senza parlarle! Pensi davvero che non conosca i tuoi giochetti, dopo tutti questi anni?”
“Non è vero, non ho nicchiato… non guardarmi in quel modo!” Sibilò, puntando il dito contro Belegron. “È solo che non capisco per quale ragione debba scusarmi.”
L’elfo più alto e muscoloso non aveva un viso altrettanto espressivo, non si era allenato davanti allo specchio per anni come Saeron, ma quando sollevò entrambe le sopracciglia il suo stupore fu chiaramente palpabile.
“Ma come, ne abbiamo parlato ieri sera, sul serio non hai capito dove hai sbagliato?”
Il bardo cercò di ricomporsi. “Hmpf. Sì, ho capito dove… avrei potuto esprimermi meglio. Però non capisco perché scusarmi. Sono stato spocchioso, e allora? Mia cugina non si aspetta niente di diverso da me. Perché rettificare?”
“Perché è questo il comportamento corretto per un elfo!”
“Tu dici? Mi risulta che noi elfi abbiamo la nomea di essere orgogliosi, elitari, perfino spocchiosi” gli fece notare Saeron.
Belegron aggrottò la fronte, cercando di capire come mai all’improvviso l’amico si stesse rifugiando dietro a preconcetti negativi sulla loro razza. “Solo un N’tel’quess ci chiamerebbe così. Loro non ci conoscono bene, ma è vero che a volte siamo altezzosi verso i non-elfi. Però non siamo mai spocchiosi fra di noi! Che ti prende, Saeron?”
“Forse abbiamo le nostre ragioni per guardare dall’alto in basso le razze meno evolute, non ti pare? E che mi dici di Amaryll? Lei si accompagna sempre con creature inferiori, ti sembra strano che questo la renda meno elfa ai miei occhi? Perché dovrei abbassarmi al livello di una…”
“Ah! Non hai appena millantato di essere una persona sincera?” Belegron quasi gli rise in faccia. “Se non ti conoscessi bene, ti chiederei conto di questa tua deriva razzista. Ma ti conosco, e so che non c’è nessuna deriva razzista, questo non è il tuo vero pensiero.”
“Lo è eccome!”
“Baggianate! Quanto devi essere disperato per voler prendere una posizione, anche una così odiosa, pur di avere qualcosa da dire?” Belegron lo affrontò a muso duro, per la prima volta in decenni. “Tu non hai ideali razzisti, Saeron, perché non hai ideali e basta. Non hai un pensiero che sia tuo! Sei un pusillanime, un guscio vuoto, abbracceresti qualsiasi filosofia che ti permetta di continuare a essere uno stronzo algido che non si piega davanti a nulla. Questa idiozia delle razze inferiori te la stai inventando per giustificare il fatto che non vuoi scusarti con Amaryll.”
Saeron, che fino a poco prima era paonazzo, sbiancò improvvisamente e sentì un capogiro. Non si aspettava che Belegron potesse strappare via la sua maschera con tanta facilità. Non credeva che qualcuno, chiunque, si sarebbe mai accorto che… be’, che era una maschera. Ormai nemmeno lui stesso sapeva più dove finisse la finzione e iniziasse la realtà, quindi come poteva saperlo Belegron?
“Ma non capisci perché volevo che ti scusassi?” Infierì. “Per anni ho cercato di capirti, giuro. Ho aspettato, osservato, sperando che di quando in quando emergesse uno sprazzo della tua vera personalità, e invece niente! Allora ho capito. La maggior parte delle persone esprime ciò che ha dentro attraverso il comportamento, le scelte, lo stile. Esprimono l’idea che hanno di loro stessi. Tu fai il contrario: ti costruisci un bozzolo, un’identità fasulla, qualcosa che forse vorresti essere, e poi cominci a crederci. Forse, quindi, se tu ti scusassi… se tu cominciassi a comportarti come un elfo decente, a pensare a te stesso come a una persona gentile, forse un giorno arriveresti a esserlo anche in cuor tuo.”
Calò un lungo silenzio carico di tensione.
“Dunque è questo che pensi di me. Secondo te merito questo genere di insulti” riepilogò Saeron, in tono molto amareggiato. “Perché ti prendi la briga di farti chiamare mio amico?”
“Non lo so” ammise Belegron, dopo qualche secondo. “La versione ufficiale è che ti sto vicino perché sono amico di tuo fratello, e se devo dirla tutta, Vialaer mi ha chiesto di esserci per entrambi voi, perché non crede di poterti gestire da solo.”
“Se tu o mio fratello pensate che un ricattuccio morale poss…”
“Ma la verità” Belegron lo interruppe, con prepotenza. “È che sono uno stupido e un superficiale, immagino. Per anni… no, per decenni, ti ho gironzolato intorno con la scusa dell’amicizia perché sono attratto da te. In questo riesci così bene, curi il tuo aspetto fisico con tanta maniacale attenzione” gli rinfacciò, come se fosse una colpa.
Saeron aveva già una rispostaccia sulla punta della lingua, ma gli andò di traverso. L’amico aveva appena detto che… lui gli piaceva?
Era così sconcertato - Belegron non l’aveva mai lasciato intendere! - che perse l’occasione per controbattere.
“Ti sono rimasto accanto perché chissà, forse speravo che tu prima o poi tirassi fuori qualcosa, qualche lato nascosto della tua personalità che potesse giustificare un’attrazione a tutto tondo, non solo estetica. Ma come ti ho già detto, ormai sono giunto alla conclusione che tu non abbia nessuna personalità, e anziché imitare il comportamento altrui per poter almeno passare per un elfo decente, ti sei costruito questo piedistallo su cui ti piace tanto vivere.”
“Facile per te!” Sbottò Saeron, così punto nel vivo da lasciar passare in secondo piano anche l’estemporanea confessione del carpentiere. “Mi giudichi dalla tua posizione di persona semplice, sempre che sia vero, ma è questo che tutti pensano di te, no? Che Belegron è un elfo semplice, alla mano, simpatico, un po’ farfallone, uno a cui non si può rifiutare un sorriso. Ti riesce facile piacere agli altri! Come credi che sia, essere l’esatto opposto? Cercare la propria identità e non trovare nulla, avere la mente piena di interrogativi, e chiedersi cosa accadrà se - quando! - gli altri se ne accorgeranno. Mi piace avere intorno un alone di mistero, tenere la gente a distanza con fredda grazia, cercare ideologie che possano dare un senso al mio comportamento. Tu dici di essere un elfo semplice, benissimo, se perfino un elfo semplice è arrivato ad accusarmi di essere vuoto, cosa potrebbe dire qualcuno con un minimo di cervello più di te?”
“Niente! Nessuno direbbe niente! Maledizione, Saeron, la gente non passa la vita a giudicare gli altri” sbottò l’elfo più alto, cercando di tenere basso il tono della voce anche se avrebbe voluto gridare. “Tu pensi che tutti ti guardino e ti valutino tutto il tempo? Be’, forse è perché tu ti sei messo su un palcoscenico. E ti svelo un segreto, la gente non ha motivo di giudicare con malizia una persona simpatica, se tu tenessi un maledetto profilo basso nessuno cercherebbe di analizzarti! Ma no, questo è troppo poco, il signorino deve brillare, deve avere l’attenzione di tutti ma guai a scendere al loro livello, questo non lo vuoi fare, vuoi essere guardato da lontano e mai giudicato, come se fossi un dio!”
“Ora mi attribuisci delle ambizioni superiori al vero” Saeron si mise sulla difensiva. “Non voglio essere considerato un dio, voglio solo essere considerato. Voglio essere speciale, voglio che la gente sappia il mio nome. È un crimine? Dovrei rinunciare al mio sogno solo perché non ho… non ho…” si fermò, come se non riuscisse a mettere bene in luce che cosa gli mancasse.
“Non hai umiltà, non hai personalità, non hai considerazione per il prossimo” elencò Belegron, zelante. “Dimmi, hai almeno dei sentimenti?”
“Ce li ho!” Ringhiò il bardo. “E sono piuttosto feriti in questo momento!”
“Bene, è meglio di niente! E visto che ora sai cosa si prova, ti sembra divertente far patire la stessa cosa agli altri?”
“Altri? Altri! Ti definisci mio amico e anteponi i sentimenti degli altri ai miei. Bene, prendo atto! Ma dimmi, chi sono questi altri che avrei ferito? Posso essere spocchioso e snob, ma quando mai ho ferito qualcuno?
“Amaryll…”
“Amaryll se ne frega delle cose che dico! È il gioco delle parti, io dico quello che devo dire e lei dà poco peso alle mie affermazioni. Non starò a pesare le parole e a forzarmi di essere cortese con persone che tanto non mi ascoltano.”
“Dici sempre cose sgradevoli, non stupirti se nessuno prenderà a cuore le tue parole.”
“Non hai ancora capito? Non voglio che lo facciano” sibilò il bardo. “Voglio che le persone se ne stiano al loro posto. Non cerco un legame. Voglio poter costruire l’immagine che preferisco e non avere il potere di ferire nessuno mentre lo faccio.”
Belegron annuì, non perché accettava le sue parole ma perché era l’affermazione più sincera che gli avesse mai sentito fare, e approvava quel passettino in avanti.
“Ma così facendo, ferisci tuo fratello e anche me. Siamo gli unici due elfi che in qualche modo ti vogliono bene, come pensi che ci sentiamo vedendoti riproporre sempre gli stessi modelli sbagliati, giorno dopo giorno?”
“E siamo tornati al ricatto morale” Saeron alzò il mento con arroganza, con il tono definitivo di chi sta chiudendo un cerchio. “Se non hai altro da dirmi, gradirei interrompere questa noiosa e infruttuosa conversazione.”
Rimase in silenzio, come in attesa, per qualche secondo. L’amico rispose solo con un triste cenno di diniego. Saeron gli voltò le spalle e uscì dalla casa sull’albero, camminando tutto impettito.

Quello stesso giorno, nel pomeriggio, una dama elfa si sedette allo scrittoio della sua bella casa sull’albero e riprese in mano la lettera che aveva iniziato a scrivere. Hinistel aveva ricevuto da Fisdril le indicazioni su come redigere la prima parte del messaggio, quella che doveva contenere un messaggio segreto per Tazandil, e l’aveva anche istruita su cosa non scrivere nella lettera, per non rischiare che informazioni su Myth Dyraalis cadessero nelle mani sbagliate.
Era un po’ offensivo che lui avesse ritenuto necessario spiegarglielo, ma la saggia donna non se l’era presa. Non molto.
“Maestro. Mastro. Astro. Asta. Basta. Bastare… Ss-tare” borbottò Jaylah, ripetendo quella serie di parole mentre gironzolava per la stanza. Aveva imparato a dire Maestro senza inciampare nel suo solito errore di pronuncia, e grazie alla guida del saggio Noraemir aveva fatto degli esercizi vocali per estendere quella nuova competenza anche ad altre parole. Aveva padroneggiato l’arte dell’attaccare la s ad altre consonanti, ma solo quando c’erano delle altre vocali intorno. Non riusciva a pronunciare bene delle parole che cominciassero con st, sc, sp. Era come cercare di saltare senza rincorsa.
Hinistel ascoltava con mezzo orecchio i suoi progressi, sorridendo teneramente. D’un tratto, Jaylah si accorse di quello che stava facendo la dama, che aveva ancora la penna in mano.
“Nonna? Quella è la lettera pe’l nonno?” Domandò Jaylah, sbirciando curiosa lo scrittoio di Hinistel.
“Sì amore, lo zio Fisdril ha scritto la maggior parte della lettera, ma io posso aggiungere una nota personale. Pensavo di far scrivere qualcosa anche a te, ma… rispondere è piuttosto urgente, e Mastro Noraemir non ti ha ancora insegnato a riconoscere le lettere, giusto?”
“Uh-uh” la bambina scosse la testa. “No’ so ancora… ss-crivere.”
“Imparerai, col tempo” la rassicurò la nonna, con un sorriso divertito. “Magari posso scrivere io un messaggio per tuo conto. Tu mi dici cosa vuoi scrivere al nonno, e io lo aggiungo in fondo alla lettera, che ne dici?”
“Sì, va bene” ponderò Jaylah. “Però la prossima volta lo faccio io! Allora, nonna, ecco cosa devo dire al nonno” la bimba si schiarì la voce, poi annunciò con grande serietà: “Caro nonno, sono Jaylah. Ti mando un abbraccio grande… oh, e anche a Lacis” aggiunse, ricordando il suo orsacchiotto che aveva prestato a Tazandil come portafortuna. "Ss-to facendo lezioni di come essere una brava elfa con il Maestro No-raa-mir, nonna metti il nome giusto che no' so bene come si dice… e lui dice che ho molte potenze” annunciò tutta fiera.
“Dice che hai molte potenzialità, tesoro” la corresse Hinistel, lasciandosi sfuggire un risolino.
“Sì quello! Da grande diventerò super potentissima” confermò la nipotina con un sorriso. Non aveva capito molto bene che cosa volesse dire 'potenzialità'. “Nonna scrivi anche: ho deciso che da grande sarò una dudula, ma per ora nessuno vuole insenniarmi. Ci sono tante altre cose che devo imparare prima, e oggi ho imparato una cosa importante.” Jaylah si sforzò di riportare a mente la frase che si era preparata. “Nonno, ora conosco i miei diritti. Sono tua nipote e devo essere una brava elfa ma anche tu devi essere un bravo elfo e un bravo nonno. D'ora in avanti mi devi chiamare 'tesoro' come fa la nonna, oppure con altre parole carine. Se non lo fai io lo dico al capo del clan e poi non ti parlo più."
Hinistel, che fino a poco prima stava trascrivendo con cura le parole che Jaylah le dettava, sollevò la penna dal foglio e guardò la nipote con totale sbalordimento.
“Tu vuoi che scriva a Tazandil ‘conosco i miei diritti’? Oh, cielo…” si mise una mano davanti agli occhi e cominciò a ridere in silenzio, le spalle squassate da singulti. “Dove hai imparato tutte queste parole difficili?”
“Dal Maestro. Dice che tutti i bambini hanno i diritti di essere amati. Forse nessuno gliel’ha detto al nonno, allora glielo dico io.”
“Be’... quello che dice Mastro Noraemir è molto giusto ma… non tutti i bambini hanno la fortuna di essere amati. E quelli che non lo sono, a volte da grandi non sanno come esprimere i loro sentimenti.”
Jaylah la guardò con aria vacua, senza capire mezza parola di quel discorso.
“Ma non è difficile! Basta dire ‘ti vollio bene’. Il nonno può imparare da te, nonna.”
“Ah, fosse facile. Sono secoli che aspetto e spero che impari per imitazione” l’elfa dei boschi sorrise, un po’ rassegnata. “Alla fine sono io che ho dovuto imparare il modo in cui lui comunica. Forse non ti chiamerà mai tesoro, però ti vuole bene.”
“Hm. Allora, vollio ss-crivere anche questo: nonno, ss-tai attento alla guerra e metti la pomata sul… come si dice in elfico, bercoccolo?
“Ber… che cosa?”
“Bercoccolo! Quando hai un male alla testa e ti viene una collinetta… qui…” puntò un dito contro la fronte mentre cercava di esprimersi nel suo elfico ancora imperfetto.
“Ah, un bernoccolo” ipotizzò, esprimendo la parola in lingua umana.
“No, no, si dice bercoccolo. Perché quando vado a ss-battere, e mi viene male alla testa, mamma mi mette la pomata e… e poi mi fa le coccole.” Spiegò, enfatizzando l’assonanza fra le due parole.
Hinistel sussurrò un “Aaaaw” intenerito, mentre quel piccolo aneddoto le faceva tornare alla mente la conversazione che aveva avuto con Noraemir: a quanto pare, Jaylah amava cercare un senso nelle parole, non si accontentava di impararle a memoria. Che fosse davvero più intelligente di quanto il suo sviluppo lento lasciasse intendere?
Il racconto di quel piccolo spaccato di vita famigliare le pungolò anche un altro nervo ancora scoperto: la madre di Jaylah. Sembrava una persona per bene, che aveva a cuore sua figlia. Hinistel non aveva dimenticato la sua decisione di indagare i sogni della bambina, di capire se davvero la strega venisse a trovarla nel mondo onirico.
“Scriverò al nonno di riguardarsi, ma non credo che abbia della pomata a portata di mano.”
Jaylah commentò quella notizia con un’espressione di assoluto orrore. “Oh, no! E come fanno quelli elfi se si fanno male?”
“Be’... avranno un sacerdote.” La bimba la guardò con aria perplessa. “Insomma, un guaritore.”
“Ah” s’illuminò, perché finalmente Hinistel parlava di cose che anche lei, nella sua limitata esperienza del mondo, poteva capire. “Anche mia sorella Tine è una guaritora.”
“Una guaritrice” la corresse l’elfa.
“Una guaritrice. Ha anche un bellissimissimo inniconno.”
“Un… ehm… ma certo” Hinistel trattenne le sue domande sulla punta della lingua. Non poteva indagare ogni cosa strana che la bimba diceva, non se voleva finire di scrivere la sua lettera prima del tramonto.
Non si fece troppe domande sulla questione del bernoccolo: sicuramente Jaylah non conosceva altre forme di ferite o contusioni, quindi la sua mente infantile doveva immaginare che la guerra portasse tanti bernoccoli.

Nel tardo pomeriggio, un'oretta prima del calar del sole, un elfo solitario raggiunse una radura secondaria dopo aver passato gli ultimi minuti a camminare e riflettere. Il pub noto come Casa degli Scapoli era aperto, ma non ancora fervente di attività.
Saeron spinse la porta di legno, che si aprì con un lievissimo cigolio. Amaryll era al bancone, come sempre.
Si avvicinò in silenzio, e sempre in silenzio si sedette su uno degli alti sgabelli, proprio davanti a lei.
“Buon pomeriggio” la rossa lo accolse con un sorriso di rappresentanza, quello che rivolgeva a tutti i clienti. “Cosa ti servo?”
“Non sono qui in veste di cliente” rivelò l’altro, brusco e seccato come se fosse stato irritato da una domanda stupida. “Sono qui perché voglio scusarmi per ieri sera.”
Amyl rimase talmente stupefatta che smise di pulire le posate e fissò lo sguardo su di lui, a occhi sgranati.
“Ah… e perché pensi che dovrei accettare le tue scuse?”
Saeron parve preso in contropiede.
“Le scuse si devono accettare?
“Be’... ... quando desideri il perdono di qualcuno, gli porgi le tue scuse, e quella persona decide di accettare le tue scuse e perdonarti, oppure non accettarle e non perdonarti.”
Il bardo restò in silenzio per un momento, come se stesse processando un concetto del tutto nuovo.
“Ma a me non interessa particolarmente il tuo perdono” ammise.
“Ah. E allora perché mi stai chiedendo scusa?”
“Perché sento di essermi comportato in modo eccessivamente sgarbato, e volevo condividere le mie conclusioni. Ho esagerato. Ma non sono emotivamente legato a te fino al punto che m’interessi il tuo perdono.”
“Oh, mamma. Quindi sei qui per avere una sorta di assoluzione di tipo sociale? Vuoi che ti dica che il tuo comportamento tutto sommato era accettabile, o non era così grave?”
Il bardo si strinse nelle spalle.
“No, non credo. Non mi importa molto della tua opinione. Onestamente non lo so, è la prima volta che mi scuso con qualcuno in vita mia.”
Amyl, contro ogni sua previsione, sbottò in una risata cristallina.
“Oh, per tutti i Seldarine! Se è la tua prima volta, non stai facendo un brutto lavoro.” Si sporse e gli batté una mano sulla spalla, in amicizia. “Come ti senti, ora che ti sei scusato?”
“Uhm… non mi sento meglio, ma non mi sento nemmeno umiliato come immaginavo. Direi che non è cambiato molto, a parte la consapevolezza di aver fatto il mio dovere sociale.” Saeron ci pensò ancora per qualche minuto. “Ma tu non dire a Belegron che mi sono scusato. E nemmeno a Vialaer. Non voglio dargli la soddisfazione.”
“Agli ordini” scherzò Amyl, quanto mai divertita dalle strane relazioni sociali in quel gruppetto. “Sarà il nostro piccolo segreto.”

           

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Capitolo 23
*** 1361 DR: Non tutte le battaglie versano sangue ***


1361 DR: Non tutte le battaglie versano sangue


Johel non si era mai preso carico della gestione delle pattuglie di ranger fino a poche settimane prima, ma aveva dovuto imparare in fretta. E nonostante gli sporadici scatti di autoritarismo che derivavano con tutta evidenza dalla sua paura di fallire, e quindi da un tentativo di emulare l’atteggiamento di suo padre, per la maggior parte del tempo era un ranger capo professionale ed equilibrato. Era ragionevole, ascoltava le valutazioni dei suoi sottoposti, si confrontava con i colleghi anziani prima di trarre le sue conclusioni. La sua parola però era definitiva, e lui lo sapeva: non poteva mostrarsi tentennante. Anche se fosse stato necessario correre dei rischi, anche se avesse avuto dei dubbi, non poteva cambiare idea dopo aver dato un ordine. Nessuno lo avrebbe mai rispettato, se l’avessero visto indeciso.
Nonostante la sua convinzione che tutto sarebbe andato a rotoli da un giorno all’altro, però, fino a quel momento nulla era andato a rotoli. Erano state settimane di calma, la foresta non era mai perfettamente sicura ma non avevano dovuto affrontare nulla di peggio di uno sciame di pipistrelli giganti, intelligenti e maligni, che avevano fatto il nido in una caverna cieca nel fianco di una collina. Una pattuglia di sei esperti arcieri li aveva sistemati. Anzi, era stato più difficile affrontare il problema dello sciame di scintillini che aveva preso possesso di uno degli accampamenti: le creature fatate minuscole, dispettose e stupide, alla fine se n’erano andate solo quando gli elfi avevano fumigato l’intero campo con erbe dall'odore cattivo.
Johel stava cominciando a rendersi conto che forse fare il ranger capo non significava dover gestire emergenze ogni giorno.
Infatti stava assaporando uno dei benedetti momenti di pace che non pensava avrebbe avuto, quando uno dei suoi ranger si avvicinò e gli fece un cenno.
"Johel. Posso parlarti un momento?"
All'elfo bastò un'occhiata per riconoscere l'altro. Non era esattamente un amico stretto, ma si conoscevano da moltissimi anni.
"Elendyl. Certo, ti ascolto."
"Sarebbe possibile parlare in privato?"
Il ranger capo sollevò le sopracciglia. Era una richiesta strana, ma immaginò che avesse a che fare con una necessità fuori dall'ordinario, un cambio di turno o qualcosa del genere.
"Andiamo nella mia tenda."
Cogliendo il suggerimento, Elendyl fece un passo indietro e lasciò che il suo superiore lo conducesse a una tenda al centro dell'accampamento. Una volta dentro, si assicurò che le cortine di tessuto e muschio fossero ben chiuse. Johel notò il suo gesto e cominciò a sospettare che ci fosse sotto qualcosa di più importante di un cambio di turni.
"Elendyl, che succede?"
"Ricordi il mio nome completo?" Gli chiese l'altro, a bruciapelo.
Johel dovette pensarci, ma solo per un momento. "Elendyl Arnavel" rettificò. "Perché?"
"Mio nonno è Suiauthon Arnavel. Credo che tu lo conosca."
"Certo, è stato mio capopattuglia per diversi anni. Non sapevo che fosse tuo nonno, ma non ho mai studiato con attenzione l'albero genealogico di famiglia."
"No, lo immagino. Gli Arnavel del ceppo principale non hanno interesse a farlo."
E questo cosa vorrebbe dire? Si chiese Johel con una punta di fastidio.
"Non appartengo al ceppo principale. Il capoclan è mio zio, non mio padre."
"Sei comunque molto vicino al capoclan. Sei terzo in linea di successione, dopo la giovane Freya e tuo padre."
"La linea di successione è un concetto teorico" Johel aggrottò la fronte, senza capire dove l'altro volesse andare a parare. "Non funziona in modo così rigido. È vero che di solito viene scelto un discendente o un famigliare del capoclan precedente, ma deve essere approvato dal Consiglio. Nel caso non ci fosse un candidato adatto potrebbe anche essere scelto qualcuno estraneo alla famiglia, quindi a cosa serve parlare di linea di successione?"
"Ma è proprio questo il punto" Elendyl andò al sodo. "Secondo le nostre leggi chiunque abbia il cognome Arnavel può candidarsi per essere il successivo capoclan. È proprio per questa ragione che è stata introdotta una limitazione: un Arnavel può mantenere il cognome solo se ha un rapporto di parentela fino a cugino di quarto grado con l'elfo che era capoclan al momento della sua nascita. Mio nonno è cugino di secondo grado di tuo padre e di tuo zio. Io sono pro-procugino secondo di lord Fisdril. Per chiarire, sono cugino di quarto grado della tua bambina. Sono ancora abbastanza vicino alla tua famiglia da poter mantenere il nostro cognome. Siccome mio nonno è troppo anziano per essere un eventuale successore, e mio padre è morto, non farò nomi ma qualcuno è già venuto a farmi sgradite pressioni." Lo disse in tono molto seccato, incrociando le braccia.
Johel sbatté le palpebre un paio di volte, senza capire.
"Pressioni per cosa?"
"Lord Fisdril porta benissimo i suoi anni, ma ha quasi visto passare cinque secoli."
"È anziano, ma non certo decrepito" obbiettò Johel. "E la sua vita sedentaria e poco rischiosa in realtà gli conferisce un'aspettativa di vita più alta della mia e della tua messe insieme!"
Elendyl sbottò in una risata improvvisa, perché dopotutto era vero. "Grazie per questa iniezione di fiducia! Io sono d'accordo con te, tutte queste congetture sono inutili castelli in aria, ma sai che la gente ama pensare al futuro quando non ha niente di meglio da fare. E pensando al futuro, quasi tutti riconoscono che lady Freya non sembra avere la stoffa né la predisposizione per succedere a suo padre."
"Mia cugina è ancora molto giovane, e a suo padre restano ancora molti anni. Il suo carattere potrebbe cambiare, lei potrebbe trovare un equilibrio. È già migliorata molto da quando si è sposata."
"È vero, ma sono un sacco di se. La realtà dei fatti è che al momento attuale il successore più papabile sei tu. Tuo padre è un ottimo ranger capo, ma non ha la sufficiente elasticità mentale o la pazienza per fare il capoclan. Forse non ne ha nemmeno la vocazione."
"Io non ho mai chiesto di diventare capoclan. Al momento conduco anche una vita seminomade, prima di tornare qui ero stato lontano da casa per anni, come fa la gente a considerarmi la migliore scelta?"
"La migliore scelta all'interno del nucleo della famiglia ristretta di lord Fisdril" gli ricordò Elendyl. "Nonostante la tua vita seminomade tutti danno per scontato che un giorno metterai la testa a posto. O almeno era così fino a poco tempo fa. Da quando sei tornato hai perso molti sostenitori."
Johel rimase sinceramente sorpreso da quella notizia. Non che gli importasse di diventare capoclan, ma sapere che le persone non avevano fiducia in lui era comunque un duro colpo.
"Perché? Non sto lavorando bene? Non mi sto prendendo a cuore il benessere della mia gente?"
Elendyl mosse una mano come per dissipare quei dubbi.
"Tu sei una bravissima persona. Sei un elfo di cui la nostra foresta può andare fiera. Ma sei tornato con una figlia mezza drow, e io te l'ho detto che le persone oziose amano pensare al futuro. Se diventerai capoclan, Jaylah diventerà la prima in linea di successione. E mi spiace dirtelo, ma quasi nessuno vuole una mezzadrow come capoclan."
Johel sentì un brivido gelido attraversargli le ossa. Prima ancora di rendersene conto si era gettato su Elendyl e lo aveva afferrato per il bavero.
"Cosa diamine vuoi dire con questo?" Strattonò l'elfo più basso con più forza di quanto avesse voluto, ma era spaventato. Aveva portato la sua dolcissima bambina nella foresta per farle conoscere i suoi nonni, la sua famiglia elfica, non per esporla alle cattiverie di sconosciuti che pensavano solo alla politica.
"Non prendertela con me! Io ti sto avvertendo perché sono dalla tua parte. Ascoltami, chiunque abbia conosciuto Jaylah non può fare a meno di adorarla, ma adesso è una bambina. Un giorno sarà un'adulta, e non susciterà più la stessa tenerezza. È ovvio che tutto questo discorso è prematuro, Jaylah non è in pericolo…"
"Ci mancherebbe altro!" Ringhiò Johel.
"Ascoltami. Siamo elfi, non umani. Nessuno farà del male a tua figlia. Però le persone stanno iniziando a borbottare il loro malcontento. L'esistenza di quella bambina mette a rischio la tua posizione come successore di lord Fisdril."
"Sai quanto me ne importa!" Sibilò, lasciando andare di colpo Elendyl che barcollò all'indietro.
"A me importa." Ribatté l'altro ranger. "Se porterò avanti la mia relazione con Raedeth, è chiaro che non avrò figli. Come ti dicevo sto già ricevendo delle pressioni. Qualcuno vuole che mi candidi come capoclan quando sarà il momento, speriamo fra alcuni secoli. Ma se malauguratamente dovessi assumere io quella carica, cercheranno di separarmi dal mio compagno. Perché tua figlia è mia cugina di quarto grado ed è più giovane di me, quindi rimarrebbe comunque nella linea di successione."
"E quindi diventerebbe necessario che tu produca degli eredi" comprese Johel, "per sfatare il pericolo che una mezzadrow diventi capoclan. Ma illuminami, sono confuso. Da quando i mezzi elfi possono diventare capoclan? Non c'era una legge che lo impediva?"
"Non più. Sai che le nostre leggi non sono così rigide. Fisdril è diventato capoclan anche se è figlio di una mezza-ninfa. È vero che le ninfe sono creature dei boschi, affini agli elfi, ma qualcuno potrebbe obiettare che i drow siano elfi a pieno titolo, su base razziale, anche se sono un po' diversi da noi. Tua figlia ha più sangue elfico dell'attuale capoclan. E siccome i membri del Consiglio sono sempre persone vicine al capoclan, amici o familiari, se un giorno tu sarai al comando e proporrai tua figlia come tuo successore è probabile che verrà accettata dal Consiglio."
"È nata fuori dal matrimonio" tentò Johel. "Questo non la squalifica?"
Elendyl scosse lentamente la testa.
"Tu sei il padre, l'hai riconosciuta e le hai dato il tuo cognome."
"Ma come dicevamo prima, la successione non è una cosa automatica. Un capoclan deve essere approvato dal Consiglio. Anche se nel Consiglio ci fossero dei miei amici, non potranno ignorare un eventuale malcontento popolare. Se Jaylah dovesse essere osteggiata dal clan, con che coraggio il Consiglio l'appoggerebbe?"
"E questo è davvero l'unico suo appiglio" assentì il ranger. "Il Consiglio non approverebbe mai qualcuno che non è del tutto acclimatato alla cultura elfica."
Le parole di Elendyl furono seguite da un lungo e pesante silenzio.
Johel strinse i pugni fino a sbiancarsi le nocche, mentre sentiva dentro di sé montare una vampata di rabbia.
"Mi stai consigliando di far crescere Jaylah lontana da qui" ricapitolò.
Elendyl tentennò. Aveva l'aria di chi sa di stare camminando sulle uova.
"Se crescesse qui, se dovesse diventare una persona di spicco e guadagnare la stima della città, si creerebbe una frattura profonda fra chi saprà apprezzarla e chi non vorrebbe mai una mezzadrow come figura istituzionale."
"Mentre invece se crescesse in territorio umano, insieme a sua madre, i suoi eventuali meriti non ci riguarderebbero" concluse Johel. "Potrebbe essere una persona brillante oppure una persona comune, senza che le sue inclinazioni rischino di creare una frattura nel tessuto sociale."
Elendyl annuì tristemente. "Mi dispiace essere latore di queste informazioni. Non ho passato molto tempo con Jaylah, ma mi sembra una bambina adorabile. So che i tuoi genitori la amano molto. Odio dover parlare di lei in questi termini, ma gli elfi della nostra foresta non sono un popolo uniforme come potresti pensare. Hai passato molto tempo lontano da qui e ci sono cose che non sai. C'è tumulto nel nord, i territori che prima appartenevano al clan Gysseghymn. Sono i più vicini ai territori umani, sono i più a rischio di attacco da parte dei drow che si nascondono sotto le montagne, e sono anche i più lontani da Myth Dyraalis. Sappiamo che la nostra foresta è già sufficientemente chiusa e campanilista. Le zone periferiche lo sono ancora di più."
Johel sbiancò. "Nelle ultime settimane molti elfi dai villaggi del nord si sono trasferiti temporaneamente nella capitale" ragionò. "Mia figlia potrebbe essere in pericolo?"
"Nessuno farebbe del male a una bambina!" Tornò a ripetere Elendyl. "Tantomeno a una bambina che è per metà una di noi. Un conto è protestare, discriminare. Un altro conto è avere davvero il fegato di alzare le armi contro una bimba, o contro chiunque, se è per questo. La nostra gente non è abituata a pensare in modo violento. Siamo elfi, abbiamo a cuore il nostro popolo, e sono certo che anche gli elfi più fondamentalisti condividano questi valori. Penso che il loro malcontento si esprimerà solo attraverso le parole, almeno per molti decenni ancora."
Johel si passò una mano sul viso. "Ma ormai il cammino verso la reclusione e la paura del diverso è stato imboccato."
"Forse" mormorò l'altro. "Forse, ma questa tendenza potrebbe essere invertita se riuscissimo a intrattenere rapporti migliori con i nostri vicini."
"Con i drow sotto le montagne?" Johel sbottò in una risata senza gioia.
"Con gli umani. Ci hanno già aiutati a scacciare i drow dalla foresta, secoli fa. Da allora purtroppo il regno umano del Tethyr ha cambiato governo diverse volte, e negli ultimi decenni i rapporti fra noi e gli umani sono stati molto tesi. Ma adesso se ho capito bene è in atto un colpo di stato, e la situazione per noi potrebbe migliorare. Potrebbero decidere di lasciarci in pace, e le rivendicazioni di quelli di noi che usano i crimini degli umani per propagandare la necessità comunità elfica chiusa perderebbero spessore. Senza più la sensazione di essere minacciati da ogni parte, anche gli elfi del nord di Sarenestar potrebbero diventare meno paranoici."
"Resterebbe comunque la costante minaccia dei drow" gli ricordò Johel. "Con cui mia figlia condivide metà della sua eredità, anche se sua madre non ha nulla a che vedere con gli elfi scuri di questa regione."
"È una minaccia potenziale. Negli ultimi settant’anni non hanno mosso un dito.[1] Se continuassero a non farsi sentire e nel frattempo la pressione dai territori umani si allentasse, la sensazione di essere presi fra due fuochi scomparirebbe. Se guardi alla realtà dei fatti, noi non siamo in guerra. Né con gli umani né con i drow. Ma l'incertezza e la tensione stanno logorando gli animi."
"Quindi tu pensi che il futuro sia nella diplomazia, Elendyl?"
Johel cercò di sondare le intenzioni del suo sottoposto, ma negli occhi dorati di Elendyl vide soltanto sincerità e preoccupazione.
"Penso che non siamo abbastanza forti per combattere contro tutti" ragionò l'elfo, in tono neutro. "La diplomazia con gli umani non sarebbe vista con favore all'inizio, ma potrebbe portare benefici sul lungo termine. Inoltre penso che potrebbe essere importante rafforzare i nostri legami con la foresta Wealdath, a nord del Tethyr. Quieterebbe le paure della gente."
Johel ragionò a lungo sullo scenario che l'altro elfo gli stava dipingendo.
"E Jaylah?"
"Immagino che la bambina ormai senta la mancanza di sua madre" suggerì l'elfo.
"Quindi tu sei d'accordo con chi sostiene che dovrei allontanarla."
"Sto soltanto descrivendo le cose come stanno: tua figlia appartiene a questa foresta soltanto per metà. È giusto che cresca conoscendo entrambi i mondi, è giusto che possa scegliere quando sarà più grande. Per adesso è prematuro parlare di cosa farà quando sarà adulta."
Entrambi avevano un altro argomento sulla punta della lingua, il bambino che Hinistel portava nel ventre. Presto Johel avrebbe avuto un fratellino o una sorellina, un altro possibile elemento da considerare nella linea di successione. Però portava sfortuna nominare un bambino prima che nascesse.
Portava ancora più sfortuna riversare speranze e grandi progetti su un bambino non ancora nato, perché più alte erano le aspettative, più era probabile che il fato beffardo se ne prendesse gioco, e Hinistel non era più un'elfa giovane. Quindi entrambi tacquero sull'argomento, ma entrambi sapevano che la questione rimaneva ancora molto aperta.
"Potresti mettere la testa a posto" suggerì Elendyl con un sorriso incerto, per alleviare la tensione. "Potresti trovarti una brava ragazza elfa e generare dei piccoli elfi."
Johel comprese gli intenti del cugino e gli rispose con un sorriso tirato, un tentativo di riappacificazione. “Oppure potresti farlo tu!” Ritorse, con lo stesso tono ironico. “Visto lo stato delle cose, al momento manterrebbero il cognome di famiglia, giusto?”

Molte miglia più a nord, un manipolo di elfi stava affrontando problematiche ben più concrete, ben più immediate.
I goblin avevano resistito al primo attacco degli elfi, ma si era trattato solo di una battaglia a distanza, combattuta con archi e frecce (da parte degli elfi) e lanci di pietre e uso di vili trappole (da parte dei goblin). Il fatto che quei mostriciattoli fossero abbarbicati su un piccolo altipiano fra la foresta e i monti Fiocco di Neve rendeva tutto più difficile; attaccare mentre si scala una salita ripida è molto rischioso. Tazandil si stava confrontando direttamente con Re Elbereth di Shilmista per capire come agire. Gli elfi nativi conoscevano meglio il territorio, e il loro responso era stato pessimistico: non c’era un lato che presentasse una scalata meno ripida. Il piccolo altipiano era dappertutto ugualmente ostile.
Il vecchio ranger di Myth Dyraalis aveva alcune idee da avanzare, e sapeva che nessuna sarebbe stata accolta bene.
“Per come la vedo io, maestà, ci sono poche opzioni a disposizione. Attaccare frontalmente al costo di molte vite sarebbe il corso d’azioni più onorevole ma anche il più disastroso e io mi sento di sconsigliarlo.”
“Sono solo goblin” l’orgoglioso re di Shilmista corrugò le sopracciglia nere come il carbone. “Durante l’invasione, nei mesi scorsi, non hanno versato una sola goccia di sangue elfico finché quella loro maga umana non si è unita alle loro schiere.”
“Non hanno versato una goccia di sangue ma hanno conquistato territori.” Tazandil non sapeva bene come rigirare il discorso in modo che non passasse per un insulto. “Durante l’invasione gli elfi hanno avuto la saggezza di sapere quando ritirarsi per evitare perdite.”
Re Elbereth contrasse la bocca in una smorfia che non lasciava dubbi: l’aveva comunque presa come un’accusa di codardia.
“Queste sono state le decisioni di mio padre” ribatté, forse per discolparsi o forse per sfidare Tazandil a parlar male delle decisioni di un re defunto.
“E forse sarebbero state anche le mie” lo sorprese l’elfo dei boschi. Il sovrano sembrò preso in contropiede da questa ammissione che sembrava così poco caratteristica per Tazandil, o almeno era quello che avrebbe pensato chi non lo conosceva bene. Infatti il ranger continuò: “Non sarebbe stato saggio mettere in pericolo le vite di molti elfi prima di conoscere l’entità delle forze nemiche. Un elfo che sopravvive un giorno in più può ancora combattere il giorno dopo.”
Un momento di silenzio seguì la discussione, e alla fine Elbereth annuì a fatica, come per accettare tacitamente quella tregua dialettica.
“Questo però non cambia la mia valutazione iniziale: scalare questa altura potrebbe costare molte vite. Non sappiamo quanto possano essere letali i goblin quando hanno il vantaggio di un terreno favorevole e quando gli elfi non si ritirano al momento giusto. Sulla base delle vostre decisioni passate, possiamo dire con sollievo che non si è creata una casistica.”
“Quindi non dovremmo sottovalutare questo nemico” ricapitolò Elbereth.
“È mia opinione che non dovremmo, no. Io cerco di non farlo, eppure ho comunque commesso una leggerezza e sono quasi morto a causa di un bugbear.”
Re Elbereth rifletté seriamente sulle parole di Tazandil. Spostò lo sguardo sui suoi diretti sottoposti, elfi fidati che guidavano pattuglie di guerrieri. Anche loro avevano un’espressione truce e poco ottimista.
“E dunque cosa consigliate?”
Tazandil lo guardò con qualcosa negli occhi che forse non era esitazione, ma era rammarico. “Non vi piacerà” preannunciò.
Il re gli fece un gesto con la mano come per invitarlo a parlare comunque.
Tazandil prese un profondo respiro. “Conosciamo il territorio ma non il numero delle truppe nemiche. Potremmo prendere d’assedio l’altipiano.”
“Possiamo circondarlo solo su tre lati” li interruppe un’elfa dal cipiglio fiero. “Se immaginate la base dell’altipiano come un rozzo trapezio, il lato più largo si fonde con le montagne. Non possiamo circondarli dall’alto.”
“Ma le montagne sono territorio di nessuno, da sempre infestate di goblin” intervenne un altro dei generali di Shilmista. “Se gli impediamo di tornare giù verso la foresta… sull’altipiano il bosco è più rado e non si trova molto cibo, se i goblin sono numerosi a un certo punto avranno fame e dovranno abbandonare la posizione… o mangiarsi fra loro. Scacciarli in alto sulle loro montagne sarebbe già una vittoria.”
“È un grosso se” ragionò Elbereth. “Se sono numerosi, li prenderemo per fame. E se invece sono pochi?”
“Ci penserà l’inverno” ipotizzò Tazandil. “Ormai è alle porte e sui monti arriva prima. I goblin capiranno che se non vogliono morire di freddo e di stenti possono solo tornare giù nella foresta, incontrando le nostre lame, o andare a cercarsi un buco fra i monti il prima possibile.”
Quel riferimento a un buco fra i monti fece di nuovo calare il silenzio sul gruppetto. I goblin della regione non erano esattamente abitanti del Buio Profondo, ma vivevano nelle grotte per trovare riparo e cacciavano e raccoglievano il loro cibo nel dedalo di caverne che attraversava le montagne. Questo creava nuove prospettive, inquietanti prospettive.
“I goblin sanno muoversi nelle gallerie” realizzò Elbereth improvvisamente. “Se lassù ne trovassero una che conduce ai piedi delle colline, nella nostra foresta, potrebbero sciamare di nuovo nei nostri territori mentre noi rimaniamo ad assediare un altipiano ormai vuoto.”
Tazandil annuì, concorde con l’intuizione del sovrano. “È una cosa che ho considerato. Mentre venivamo qui ho inviato alcuni dei miei a battere le colline e i piedi delle montagne in cerca di caverne e cunicoli, ho ricevuto i rapporti questo pomeriggio. È un compito a cui siamo tristemente avvezzi, avendo dovuto mappare il sottosuolo di tutta Sarenestar qualche decennio fa, a causa della minaccia sempre presente dei drow.” Mentre gli elfi di Shilmista rabbrividivano al pensiero, il sempre pragmatico Tazandil diede un’ultima scorsa mentale al piano che stava per proporre. Per la prima volta in vita sua gli dispiacque di non poter avere Daren e le sue competenze a disposizione. “Non abbiamo modo di sapere quali di queste gallerie arrivino da qualche parte, nessuno di noi si muove bene nel sottosuolo. Però potrebbe essere utile chiuderne la maggior parte e sistemare delle esche nei pressi delle rimanenti. Piccoli accampamenti di elfi, che possano rappresentare una tentazione per le orde di goblinoidi. Il grosso dell’esercito rimarrebbe a mantenere l’assedio, o almeno è quello che i nemici dovranno credere. Alcuni elfi fingeranno di essere delle facili prede, campeggiando a gruppetti di due o tre individui nei pressi delle gallerie, ma in realtà i rinforzi non saranno lontani. Così forse riusciremo a stanare i goblin dal loro nascondiglio sopraelevato.”
Gli elfi di Shilmista rimasero turbati a questa proposta. Era ardita, rischiosa, e si trattava di un sotterfugio quasi subdolo. Non che avessero dilemmi morali all’idea di prendere in trappola dei goblin, ma non a tutti gli elfi sarebbe venuto in mente.
“Un’idea interessante, ma rischiosa. Prevede di frazionare le nostre forze, senza conoscere i numeri del nemico” obiettò re Elbereth. “Se dovessero accorgersi che qui ci sono solo pochi soldati a tenere l’assedio…”
“I goblin non sono famosi per la loro intelligenza. Avete un mago, dico bene? Se avesse delle illusioni nel suo arsenale ci farebbero molto comodo” Tazandil espose maggiormente i dettagli del suo piano. “Potrebbe creare l’impressione che qui ci siano molti più elfi, e potremmo rafforzare l’idea accendendo diversi falò qui e la, piantando molti più accampamenti di quanti ne servano. Nel frattempo predisporremo le esche vicino a qualche grotta e nei pressi si nasconderanno le vere truppe. A noi elfi non serve nemmeno un incantesimo di invisibilità per nasconderci alla perfezione nel bosco, quindi il vostro mago potrebbe restare qui, ai piedi dell’altopiano. Potrebbe perfino farci dei segnali con la magia se qualcosa andasse storto, in modo da richiamarci subito qui.”
Tazandil illustrò al re le sue idee, esprimendole come semplici proposte anziché come un piano dettagliato. Avrebbe avuto anche altro da dire, ma non voleva dare l’impressione di comandare in casa d’altri.
“Un piano da fine ingannatore” borbottò il re, poco felice di dover riconoscere la validità di quelle idee. Era una tattica migliore di scaliamo e attacchiamo.
“Un piano da stratega” Tazandil s’irrigidì sulla sua posizione. Riusciva a comprendere che re Elbereth fosse stanco, frustrato e ancora incerto nel suo ruolo di sovrano. Ma a suo parere, questo non giustificava la sua presa di posizione; scegliere un corso di azioni troppo prevedibile avrebbe potuto portare alla perdita di vite elfiche. “Abbiamo dovuto affinare la nostra capacità di tendere e prevedere trappole, visto il nemico che abbiamo sempre alle porte.”
Il re degli elfi di Shilmista gli si avvicinò fino a trovarsi a un passo da lui, poi gli poggiò una mano sulla spalla con atteggiamento neutro, forse un po’ condiscendente.
“Rifletterò con cura sulla vostra proposta, amico mio” disse in un tono che esprimeva un’amicizia ben tiepida. Poi si sporse ancora di più verso Tazandil e sussurrò, in una finta confidenza visto che i suoi generali probabilmente potevano sentire: “Attenti a non diventare troppo simili a ciò che volete combattere.”
Tazandil sbiancò per lo sconcerto e per la rabbia. Era troppo… troppo perfino per fare una scenata. Era un insulto inconcepibile. In pubblico, poi. L’anziano elfo diede un’occhiata di sfuggita ai capi dell’esercito. Uno di loro era corrucciato, forse in accordo con il re. Uno fingeva di non aver udito, ma era impallidito e chiaramente a disagio. L’elfa sembrava supplicarlo con lo sguardo di non reagire.
Ma Tazandil non era Johel. Non poteva non reagire. Per la prima volta in vita sua, si rammaricò che non ci fosse suo figlio al suo posto. Lui avrebbe saputo come mantenere l’alleanza anche con un re che si lasciava guidare dall’inesperienza e da un erroneo senso di sicurezza.
“Ho sentito parlare delle vostre grandi imprese” annunciò Tazandil ad alta voce, mentre faceva un passo indietro per scrollarsi di dosso la mano di Elbereth. Con sforzo sovrumano riuscì anche a ridurre al minimo l’animosità e il sarcasmo nel suo tono di voce. “Di come avete utilizzato un antico rituale del nostro popolo per animare i grandi alberi di Shilmista e convincerli a combattere l’invasore con voi. Impressionante. È materiale per le leggende, niente meno, mentre vostro padre sembrava aver perso la fede nelle antiche tradizioni dei Sy’Tel’quessir e voleva condurre la difesa con metodi più… mondani. Forse portare a compimento questa impresa può avervi convinto di essere l’unico depositario della cultura elfica, il baluardo vivente dell’elfità degli elfi, se vi piace come suona.” Nonostante fosse partito con buone intenzioni, ormai l’acredine per quel commento ingiusto stava trapelando copiosamente dalle parole del ranger. “Ma lasciate che vi dica questo: noi siamo elfi, tanto quanto voi, e non saremo mai niente di diverso da elfi. Per questo siamo qui, per onorare la nostra alleanza e il nostro legame di sangue. E non ce ne andremo finché avrete bisogno di noi, indipendentemente dalle vostre opinioni sui nostri metodi.”
Re Elbereth si era pentito delle sue parole nel momento in cui le diceva, ma non poteva ammetterlo davanti a Tazandil in quel momento. Tazandil sapeva che la sua risposta avrebbe messo il re in una posizione scomoda ancor prima di aprire bocca, ma non aveva potuto evitarlo. Seguì un lungo momento di silenzio, mentre il giovane regnante valutava le sue opzioni.
“A Sarenestar gestite le cose in modo diverso, mi è chiaro” dichiarò alla fine. “Noi siamo ancorati ad antiche tradizioni e ne andiamo fieri, esse sono la nostra identità. Ho parlato in modo troppo scortese perché non ho mai visto elfi pensare in modo diverso da noi.”
Tazandil capì che quelle erano delle scuse, più o meno. Il tipo di scuse che ci si può aspettare da un re. Ancora una volta si complimentò mentalmente con suo figlio per essere capace di gestire certi soggetti.
“Allora è un bene che abbiamo ripreso i contatti, dopo molto tempo” rispose dopo qualche momento di silenzio. “Potremo imparare gli uni dagli altri.”
Non era una resa, non era una concessione, ma era quantomeno una tregua. Tazandil non aveva la minima voglia di combattere anche battaglie dialettiche con i suoi alleati. Gli bastavano le battaglie fisiche contro i goblin.

Johel rimase impegolato nei suoi pensieri cupi per tutto il giorno, perché le rivelazioni di Elendyl lo avevano messo di pessimo umore. Fu con questo insolito cipiglio che accolse il suo amico Daren, quando arrivò all’accampamento poco prima che scendesse la sera.
“Sei quasi in ritardo” borbottò al suo arrivo, a mo di saluto.
“O sono in orario o sono in ritardo, quasi in ritardo non vuol dire niente” replicò il drow. “E poi ho perso tempo per salutare Jaylah.”
Daren non si disturbò nemmeno a cercare la sua tenda. Aveva già capito, dall’atteggiamento dell’amico, che avrebbe dovuto mettersi a lavorare subito. Johel era sempre nervoso da quando aveva dovuto sostituire Tazandil, ma quel giorno sembrava peggio del solito.
Tuttavia, bastò nominare la bambina perché le rughe di preoccupazione sulla fronte di Johel si spianassero un poco.
“Come sta la mia zuccottina?”
“Non la sento chiamare così da quando aveva due anni” ridacchiò Daren.
“Lei mi manca” spiegò Johel, con un tono nostalgico nella voce e un sorriso dolce sulle labbra. “Ma soprattutto mi manca poterle dedicare il mio tempo. Mi manca la vita più semplice che avevamo quando stava con sua madre.”
“Da cui, il nomignolo infantile” indovinò il drow. “Sta benissimo, tua madre le ha trovato un precettore che le insegni l’elfico.”
Johel si corrucciò di nuovo. “Mia figlia parla già l’elfico.”
Il guerriero si strinse nelle spalle. “Che vuoi che ti dica? Forse non lo parla abbastanza bene. Credo che Mastro Noraemir le stia insegnando anche la cultura elfica.”
La rivelazione colpì Johel come una secchiata d’acqua fredda e l’elfo si irrigidì senza poterlo evitare. Era certo che sua madre avesse preso quella decisione in buona fede, ma dopo il discorso di quella mattina il fatto che Jaylah si acclimatasse troppo alla cultura elfica gli sembrava pericoloso. Sarebbe stato più sicuro, per la bambina, continuare ad essere una mezza estranea per il popolo dei boschi.
“Devo parlare con mia madre. Non può decidere dell’educazione di Jaylah al posto mio.”
Daren lo fissò in silenzio per un lungo momento, senza capire. “Come, pensavo che ne saresti stato lieto. Sei sempre andato fiero della tua identità e della tua ascendenza, hai fatto i salti mortali per far crescere la bambina bilingue. Adesso all’improvviso non vuoi più che cresca come un’elfa?”
“È… complicato” masticò quelle parole come se non volesse sputarle fuori. Non voleva coinvolgere Daren in questa cosa. Il drow non aveva alcuna delicatezza politica, era un guerriero, il suo modo di affrontare la vita era prenderla a calci e aspettarsi altrettanto. Non proprio quello che avrebbe voluto per Jaylah. “Voglio dire che sono io suo padre, e dovrei decidere io. E non sono il suo unico genitore. Non voglio riportare a Krystel una bambina che si sarà allontanata troppo dalla sua cultura.”
Questo era un discorso che Daren poteva capire e apprezzare. Intuiva che non fosse tutto, c’era qualcosa che Johel non gli stava dicendo, ma in qualche modo capiva anche che la questione era oltre. Oltre la sua portata. Oltre la sua comprensione. Doveva trattarsi di una menata elfica, o di qualcosa che aveva a che fare con i sentimenti. Due campi in cui non si sentiva particolarmente ferrato.


**********
[1] Dopo gli eventi narrati in L'amicizia non genera debiti


           

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Capitolo 24
*** 1361 DR: Non tutti i confronti sono battaglie ***


1361 DR: Non tutti i confronti sono battaglie


Hinistel ripiegò la lettera, soddisfatta di quanto aveva scritto. L’avrebbe portata da lord Fisdril per sottoporla a un ultimo controllo, poi il capoclan l’avrebbe spedita a Tazandil mediante un falchetto messaggero. Non era sicura che sarebbe riuscita a finire prima di sera, invece quando uscì dalla sua stanza si accorse che il cielo era ancora rischiarato dalla luce del tramonto.
Presto sarebbe calato il buio, perché la foresta era fredda e l’inverno alle porte. Le giornate erano brevi e la notte calava improvvisa. Meglio avviarsi subito.
“Jaylah, andiamo a trovare zio Fisdril” chiamò la nipotina, invitandola con un cenno della mano. “Metti le scarpe e il mantello pesante, fa freddo.”
La piccola obbedì, ripescando le sue scarpe che aveva disseminato per la stanza e poi andando a prendere il mantello. Era un bel mantello verde di fattura elfica; quello che le aveva dato sua madre era troppo semplice e troppo rozzo, gli altri bambini l’avrebbero presa in giro - l’avevano presa in giro - quindi Jaylah aveva smesso di usarlo.
Le sue dita elfiche, sempre meno paffute di mese in mese, riuscirono senza sforzo ad allacciare la chiusura ad alamaro. “Nonna, sono pronta!” Annunciò con orgoglio, agitando le braccia e facendo oscillare il mantello. “Sono a’bastanza dinnitosa per lo zio?”
Hinistel notò con piacere che Jaylah si stava sforzando sempre di più di scandire bene le parole.
“Sei bella come una principessa. Su, andiamo” le porse la mano, aspettando che la bimba la prendesse.

Saeron era turbato e stanco. Aveva vissuto l’inusitata esperienza di scusarsi con qualcuno e aveva deciso che ‘per oggi basta così’. Troppe stranezze in un giorno solo: prima Belegron che aveva dimostrato un eccezionale acume leggendo oltre la sua maschera (e con quanta villaneria lo aveva fatto), confessandogli nel frattempo un semi-interesse nei suoi confronti con un tono - così sbagliato - di rabbia e rammarico; poi Amyl che lo aveva trattato con condiscendenza, come se non fosse stato un vero adulto ma una specie di ragazzino troppo cresciuto.
C’era una cosa sola che poteva fare per pacificare i suoi nervi: isolarsi da quel marasma di gente e rifugiarsi nella musica. Suonare lo rilassava sempre. Per molti minuti si lasciò cullare dal flusso della melodia del suo flauto, e riuscì in parte a ritrovare la pace.
Era così catartico. C’era lui, c’era l’ispirazione, c’erano i suoni ben ordinati come in una poesia senza parole. Nient’altro.
Tranne quel giorno, a quanto pare.
Quel giorno c’era anche una bambina.

“Ciao” lo salutò lei, prendendosi quella fastidiosa confidenza che era tipica dei piccoli.
Saeron non si prese la briga di rispondere, ma smise di suonare. Forse, se fosse rimasto zitto e immobile, quella se ne sarebbe andata. Non era così? Non erano i bambini ad avere la vista legata alla percezione del movimento?
“Che cosa fai?” Insistette quella, e Saeron capì che no, non se ne sarebbe andata, e che forse stava confondendo i bambini con qualche altro animale.
L’elfo allontanò il flauto dalle labbra. “Sto suonando. Non è ovvio?”
La piccola sembrò un po’ presa in contropiede. “Sì ma che cosa suoni?”
“Un’antica canzone elfica che s’intitola ‘ballata tragica di un bardo che voleva stare solo’.”
“Ah” quel suono uscì con più h che a, come se fosse l’inizio di una risata. “No’ ci credo. Zio Daren dice che nessun bardo vuole ss-tare solo.”
A questa menzione, Saeron guardò con più attenzione la bimba. I grandi alberi le facevano ombra, ma l’elfo fece un cenno per invitarla ad avvicinarsi. Nella luce del sole morente, sì, era più evidente: una bambina mezzadrow.
“Con tutto il dovuto rispetto” ribatté l’elfo, in un tono che di rispetto non ne faceva trasparire nemmeno una goccia “tuo zio non sa un bel niente dei bardi. Ho sentito parlare di lui: la musica non gli piace nemmeno. Quindi che può saperne, eh?”
La bimba si strinse nelle spalle. “Glielo chiedo quando torna, poi ti dico! Adesso no’ c’è. Ss-ta facendo la guardia nella foresta co’ mio papà.”
Questo dettaglio riaccese all’istante l’interesse di Saeron.
L’elfo scuro non c’era. La sua piccola ingenua nipotina era sola, non c’era nessuno in vista.
Era un’occasione semplicemente troppo perfetta.

“Zia Hinistel” Freya salutò la veggente con un sorriso allegro. “Che bello vederti, come stai?”
“Bene, grazie tesoro” la donna più anziana porse le mani alla più giovane e si strinsero vicendevolmente gli avambracci, in quella che era la versione elfica di un abbraccio fra persone adulte. Era il modo giusto di tributare Freya da quando era uscita dall’adolescenza, ma Hinistel sentiva un po’ la mancanza di un contatto più informale con la sua giovane nipote. “Sono venuta per parlare con tuo padre, devo consegnargli una lettera.”
“È impegnato… ha rapito mia moglie per studiare insieme a lei un modo per mascherare le nostre comunicazioni con la magia.” Lo disse sbuffando, perché non era contenta di essere separata da Aphedriel.
“Cara, è giusto che anche Aphedriel faccia la sua parte. È quello che ci aspettiamo da ogni membro della comunità, e lei si è legata niente meno che alla figlia del capoclan. È importante che tua moglie coltivi il suo prestigio sociale.”
“Sì, lo so… ma mi manca” Freya si lasciò cadere su un divanetto di giunchi, stravaccandosi in modo poco dignitoso. “Quando Aphedriel non è con me, mi manca. Anche se è solo nella stanza accanto.”
“Sembra che il thiramin ti abbia colpito con la forza di una bastonata in testa” scherzò la zia.
Freya si lasciò andare in un lungo sospiro consapevole. "Aphedriel dice che è sempre così. Anche sua madre sentiva il thiramin, e stando ai suoi racconti non riusciva a pensare a nient'altro che al suo amato. Io però non credo che la mia condizione sia del tutto normale. La madre di Ariel era così ossessionata perché non era ricambiata. Io e mia moglie invece ci amiamo, e io credo che il thiramin stia imponendo il suo tributo a ciascuna in modo diverso. Lei fatica a concentrarsi sui suoi studi quando ci sono io. Invece io fatico a concentrarmi su qualunque cosa se lei è lontana. Se Aphedriel è con me, posso anche riuscire a dare il meglio nei miei studi sulla manipolazione della magia, oppure nei miei esercizi di tiro con l'arco, perché desidero farle una buona impressione. Ma se lei non è con me, è come se mi mancasse la motivazione. Certo d'altra parte quando siamo insieme è molto difficile non cedere alla tentazione di… be', avrai capito."
Hinistel si era accomodata su una poltrona mentre la nipote parlava, e adesso stava annuendo con un sorriso leggero. "Mia cara Freya, io penso che non ti serva davvero una scusa per essere distratta e incostante" azzardò in tono scherzoso.
L'elfa più giovane si adombrò e si sedette più compostamente, come se all'improvviso volesse dimostrare qualcosa.
“Sei ingiusta, zia, sono migliorata negli ultimi tempi. Aphedriel mi ha davvero dato un senso. Ora che ho lei… io so chi sono. Prima non lo sapevo.”
Hinistel distolse lo sguardo. Aveva inteso scherzare, ma Freya si era offesa. Forse senza volerlo aveva toccato un tasto dolente.
“È vero, ho sentito dire che sei migliorata” concesse “purtroppo ormai ci vediamo meno di quanto vorrei, altrimenti l’avrei constatato in prima persona.”
Questo scucì a Freya un accenno di sorriso. “Giusto. Io sono impegnata con la mia nuova vita, con la casa che stiamo costruendo, e tu… anche tu hai una nuova vita a cui pensare, no? E ti sei presa anche l’incombenza di occuparti di Jaylah… a proposito, non è con te?”
“No” Hinistel guardò la porta da cui era entrata, come se potesse vedere attraverso il legno e rintracciare la nipotina. “Mentre venivamo qui ha sentito una musica soave ed è andata a cercarne la fonte. Quando avrò finito di parlare con tuo padre andrò a cercarla, lei sa che non deve allontanarsi.”
“Non è giusto che il compito di badare a lei ricada interamente su di te” Freya si adombrò. “Andrò io a cercarla, tu non devi sforzarti più del necessario. E se desideri puoi portarla qui ogni tanto. Se hai bisogno di una pausa o qualcosa del genere.”
“Grazie, cara, ma mi sento più tranquilla se posso tenerla d’occhio. Jaylah non è esattamente una bambina come le altre, non è ancora una di noi e mi sto occupando della sua educazione. Ti confesso che mi inquieto un po’ quando non è sotto il mio sguardo, e questo mi ricorda…” l’espressione di Hinistel si fece preoccupata. “Di recente ho scoperto che sua madre viene a trovarla in sogno.”
Questo succulento dettaglio reclamò subito l’attenzione di Freya. La giovane elfa si sedette più composta, sporgendosi inconsciamente verso la zia. “Sua madre, la drow? La sorella di Daren?”
“L’unica madre che ha” Hinistel ridacchiò in modo nervoso. “La drow. La strega.” Lo disse in un tono strano, dubbioso.
“E questo in qualche modo ti preoccupa” indovinò Freya.
“Sì… cioè, non proprio, ma in un certo senso…” prese un profondo respiro e si fermò, per fare ordine nella sua mente. “In verità non so bene che cosa sia a preoccuparmi. Forse non mi piace che qualcun altro possa rivendicare Jaylah. Non mi piace che mi si ricordi che ha una madre. Mi sento come se il nostro tempo con Jaylah fosse limitato, e lei è la mia nipotina. Il mio tesoro. Ma allo stesso tempo anch’io sono una madre e immagino quanto sia penoso per questa donna essere separata dalla sua figlia più piccola. Io non mi sarei mai separata da Johel quando aveva quell’età. So che è giusto che prima o poi Jaylah torni da sua madre, ma vorrei che quel giorno non arrivasse mai. E a questo, aggiungi anche il fatto che è una drow che non conosciamo.”
“Ma è la sorella di Daren, e anche Johel si fida di lei.”
“Sì, ma non la conosciamo.” Tornò a ripetere. “È una persona… al di fuori della nostra conoscenza e del nostro controllo. Per di più appartiene al mondo fuori” guardò Freya con occhi febbrili, implorandola con lo sguardo di capire. “Non solo fuori dalla foresta ma anche fuori da qualunque comunità elfica. Ci è aliena e non so cosa pensare di lei. Inoltre, venendo a trovare Jaylah in sogno, chissà cosa avrà scoperto su di noi.”
“Su di noi? Ma zia, che dovrebbe farsene di queste informazioni? Vive a centinaia di miglia di distanza e Johel dice che non era interessata a venire qui. Non penso nemmeno che sia una cattiva persona o che sia in combutta con altri drow, Daren lo saprebbe. Per quanto mi stia sulle ghiande…”
“Freya, modera il linguaggio” la rimbrottò Hinistel automaticamente.
“Per quanto non apprezzi il suo carattere e la sua compagnia” rettificò Freya con una punta di sarcasmo “non sarebbe in buoni rapporti con sua sorella se lei fosse una persona malvagia.”
“Sono tutte cose a cui ho pensato anch’io, ma mi fa bene udirle anche da qualcun altro” la veggente emise un lungo sospiro e si appoggiò allo schienale della poltrona. “Nonostante tutto, però, mi sentirei più tranquilla se potessi entrare nei sogni di Jaylah. La scorsa notte ci ho provato, ma il mio controllo sul sonno e sull’esperienza onirica lascia molto a desiderare. Come tutti gli elfi, di solito medito anziché dormire.”
“Hm, hai ragione, sono due cose molto diverse” la più giovane si strinse nelle spalle. “Ma posso aiutarti, se vuoi. Nei primi anni della mia adolescenza, quando i miei poteri hanno iniziato a manifestarsi, soffrivo di improvvisi attacchi di sonno. Un momento prima ero piena di energie, un momento dopo quasi cadevo a terra addormentata.” Raccontò, agitando le mani come per scacciare il fastidio che aveva provato per quella mancanza di controllo. “O più spesso, cadevo addormentata dopo aver dato sfogo involontariamente ai miei poteri. Erano attacchi troppo improvvisi perché potessi entrare in meditazione, quindi mi coglieva il sonno come accade agli umani o ad alcuni di noi quando sono malati. Ho una certa esperienza in fatto di sogni.”
Le due elfe rimasero a parlare per molto tempo, e alla fine fu proprio l’atteso lord Fisdril a interromperle. Hinistel realizzò che era quasi volata un’ora, e che non si era accorta dello scorrere del tempo; le nozioni di cui aveva discusso con Freya erano complesse, per lei, e adesso aveva molto su cui rimuginare.
Consegnò in fretta la lettera che aveva scritto per Tazandil e uscì per cercare Jaylah. Freya si offrì di nuovo di aiutarla, ma l’anziana elfa era già a metà del ponte verso il prossimo albero e non si guardò neppure indietro.

Hinistel lasciò la casa di Fisdril in tutta fretta, fiduciosa che la sua lettera avrebbe preso il volo entro sera. Avrebbe trovato Jaylah, e poi… era finalmente ora di tornare a casa e riposare.
Benedetta bambina, dove si sarà cacciata? Si chiese, tenendosi una mano sul ventre. Ormai non poteva più camminare velocemente ed era facile preda del mal di schiena.
Cercò di fare mente locale, rammentando i loro spostamenti. Avevano lasciato la casa sull’albero per andare dal capoclan, ma a metà strada Jaylah era stata distratta dalla melodia dolce e acuta di un flauto e aveva preso una passerella in discesa per andare a cercare la fonte del suono. La nonna l’aveva lasciata fare: non c’erano pericoli a Myth Dyraalis.
Tornò fino al bivio fra le passerelle, dove si erano separate, e si sforzò di sentire ancora quel flauto; la melodia bella e triste non c’era più, ma udì qualcos’altro al suo posto. Qualcosa di non altrettanto aggraziato. I suoni acerbi e stentati di una specie di fischietto.
Hinistel non era sicura di quel che stava udendo, ma era la sua unica traccia, quindi cercò di rintracciare la fonte del suono.

Jaylah teneva tra le piccole mani un oggetto di terracotta dipinto di azzurro. Aveva una forma difficile da descrivere, vagamente a goccia, ma con un’imboccatura su un lato. Era uno strumento musicale, decorato con grazia con incisioni che ricordavano le onde di un fiume, se visto in un certo modo, oppure certe grandi foglie se visto da un’altra angolazione.
Era bellissimo. L’elfo dai lunghi capelli neri le aveva dato una dimostrazione su come suonarlo, traendone una musica celestiale. Lei aveva provato a imitarlo ma aveva ottenuto solo qualche sgraziato fischio.
A quel punto l’elfo, che all’inizio le era sembrato un tipo altezzoso che stava sulle sue, le aveva rivolto un sorriso incoraggiante.
“Non è tanto difficile imparare a suonare l’ocarina, ma ci vuole pratica. Devi solo continuare a esercitarti.”
Jaylah si era rigirata fra le manine il grazioso strumento musicale. “Ma io non ce l’ho una carina”.
“Non importa. Possiamo vederci al pozzo nella radura piccola, ogni pomeriggio, e ti insegnerò a suonare. Se diventerai abbastanza brava, come premio ti regalerò la mia ocarina.”
La bimba si illuminò. “Davvero? Me lo prometti?”
Saeron sorrise, e Jaylah era troppo ingenua per notare la malizia in quel sorriso. “Ma certo. Per un bardo è sempre una gioia insegnare agli altri come fare della buona musica.”
In quel momento Jaylah udì dei passi che conosceva. Era Hinistel, che appesantita dalla gravidanza non riusciva a essere silenziosa come un tempo.
“Nonna! Ho trovato un altro Maestro!” Sollevò l’ocarina verso il cielo con aria di vittoria. “Imparerò a suonare la carina!”
La veggente trasse un respiro profondo. Altri impegni, altri luoghi in cui accompagnare Jaylah ogni giorno.
Oh, be’. Merildil ha sempre detto che camminare mi fa bene. Pensò, rassegnata.
“È magnifico, tesorino” disse invece, mentre la sua espressione si apriva in un sorriso stanco. “E chi è questo elfo gentile che dobbiamo ringraziare?”
Il bardo si alzò dalla sua posizione seduta, si pulì le vesti dal terriccio e rivolse a Hinistel un inchino formale. “Saeron, dal villaggio di Amonsiire” notò subito che l’elfa non aveva mostrato segni di riconoscimento al nome del villaggio, quindi cercò un altro modo per identificarsi. “Sono un cugino di Amaryll, la cameriera della Casa degli Scapoli.”
A questa menzione, Hinistel s’illuminò. “Oh, conosco bene Amaryll. Una bravissima ragazza. È sempre gentile con Jaylah” affermò, accarezzando con una mano la testa ricciuta della bambina. “Spero che farete altrettanto, è una bambina che richiede pazienza. Se dovessero sorgere problemi, parlatene pure con me.”
La donna non accennò nemmeno a ricompensarlo per le lezioni di musica, perché non era così che funzionava fra gli elfi di Myth Dyraalis. Si dava semplicemente per scontato che ognuno facesse la sua parte per contribuire alla comunità, ed educare i bambini faceva parte dei compiti degli adulti.
Jaylah si avvicinò al bardo e gli restituì con delicatezza l’ocarina. “Il pozzo davanti alla taverna?” Chiese, per conferma. “Domani pomeriggio?”
Saeron riprese il suo strumento e annuì con aria solenne. “Mi aspetto impegno da te, ragazzina. In cambio cercherò di rendere divertenti le lezioni. Se mi ascolterai, diventerai così brava che nessuno saprà resistere alla bellissima musica che farai.”
E in quella promessa c’era di nuovo una punta di malizia.

“Tutto sistemato!” Annunciò Saeron, entrando con passo trionfante nella cucina della casa sull’albero che divideva con il fratello e l’amico.
“Non so di cosa parli, ma hai sempre un ottimo tempismo nel tornare all’ora di cena” commentò l’elfo dai capelli rossi, intento a rimestare una zuppa dal profumo invitante.
“Io so di cosa parla” intervenne Belegron “ma ci credo poco.”
“Ah! Elfo di poca fede” Saeron gli puntò contro un dito accusatore. “L’avevo promesso e l’ho fatto, mi sono scusato con Amaryll.”
“Per tutti i Seldarine” Vialaer sussultò così forte che per poco non si lasciò sfuggire di mano il cucchiaio. “Questo è un giorno da celebrare. E lei ha accettato le tue scuse?”
“Ancora con questa storia dell’accettare le scuse?” L’elfo bruno aggrottò la fronte. “Mi pare di sì, ma la cosa non mi tange.”
“Ah ecco. Ora mi sembri di nuovo tu” ridacchiò il gemello.
“Perdona il mio scetticismo, Saeron” intervenne il carpentiere in tono amaro “ma se non è per il balsamico potere del perdono ricevuto, mi spieghi come mai sei così di buon umore? Pensavo che doverti abbassare a porgere le tue scuse a qualcuno ti avrebbe lasciato l’amaro in bocca, e non credo che tu abbia avuto una miracolosa conversione in un pomeriggio.”
“Ormai l’ho superata, sto già guardando al futuro” il bardo dissipò le obiezioni dell’altro con un cenno della mano. “Quel dannato drow, ad esempio. Ha tentato di umiliarmi, e io ho trovato un modo per vendicarmi!”
Vialaer stava per dire qualcosa come ‘È riuscito ad umiliarti’, ma si trattenne, perché il fratello era già in vena di vendetta. Meglio non aggiungere altra legna sul fuoco.
“Oh, ti prego, esponici questo tuo piano suicida” commentò Belegron in tono sarcastico, perché di pazienza, per quel giorno, non ne aveva più.
“Stasera un fortunato incontro mi ha suggerito l’idea perfetta. La piccola nipote del drow è rimasta affascinata dalla mia musica e mi sono offerto di insegnarle a suonare…”
Belegron s’irrigidì, colto dal terrore. Vialaer questa volta lasciò cadere il cucchiaio per davvero e si girò verso il fratello.
“Non vorrai farle del male?!”
“È una bambina!” Sbottarono quasi in contemporanea.
Saeron per un momento rimase senza parole, preso in contropiede da questo attacco su due fronti.
No! Per i nove inferi, che cosa vi dice il cervello? Sarebbe rivoltante!” Sul suo volto solitamente impassibile si dipinse una genuina espressione di sconcerto e disgusto. “Quale elfo farebbe mai… è questo che pensate di me?”
I due elfi si scambiarono uno sguardo, senza sapere che dire, sospesi in quell’atmosfera di sollievo e vergogna.
“No… scusami, fratello. No, non penso che ti abbasseresti a fare una cosa del genere.” Concesse Vialaer. “Ma quando hai nominato la bambina… ecco, sappiamo tutti quanto tu sia vendicativo.”
“C’è una sottile differenza fra una vendetta e una faida, per tutte le stelle!” Saeron si passò una mano fra i capelli, ancora corrucciato. Il gesto gli riuscì molto melodrammatico. “E voi due siete troppo grezzi per capire l’arte della vendetta. Deve essere elegante, deve essere sottile, ma allo stesso tempo deve essere significativa. Fare del male fisico a qualcuno è una cosa volgare. Fare del male a qualcuno che non ti ha fatto nulla, solo per connessione con la persona che odi, non è solo volgare ma anche da codardi. Quella bambina non è l’oggetto della mia vendetta, ne è soltanto il mezzo.”
Gli altri due si scambiarono un’altra occhiata perplessa.
“Temo che il tuo elegante piano sia al di là della comprensione delle nostre menti semplici” concesse Vialaer, ma quello che intendeva davvero era che nessuno di loro aveva mai in animo di progettare vendette, quindi non capivano la sua logica.
“Ebbene, state al passo. Tutti sanno che il drow ama la sua nipotina. Ma tutti sanno anche del suo odio per la musica. Ora, se la piccola Jylla dovesse…”
“Jaylah” lo corresse Vialaer.
“Ho la faccia di uno a cui importa?” Ribatté Saeron senza battere ciglio. “Se la piccola mezzadrow dovesse appassionarsi alla nobile arte bardica, se io riuscissi a convincerla che è davvero portata per la musica e che suonare le riesce proprio bene, a quel punto non avrei necessità di muovere un dito contro il drow. Agli occhi di tutti, io sarei il bardo gentile che ha aiutato una misera mezzelfa a padroneggiare un’arte così importante per la nostra cultura, e lui sarebbe l’insensibile stronzo che non approva la vocazione e la crescita personale di sua nipote.”
Vialaer e Belegron accolsero la sua spiegazione con un silenzio molto consapevole.
“Questo è davvero un piano sofisticato” si complimentò Belegron, dopo qualche secondo di riflessione. “Mi piace. La piccola apprenderà delle importanti conoscenze per il suo retaggio elfico, e il drow… uhm…”
“Ne sarà di sicuro molto infastidito” Vialaer venne in aiuto dell’amico. “Ma non potrà prendersela con te. Una bella pensata.”
Saeron si illuminò. “Lo credete anche voi, eh?”
“Hai tutta la nostra approvazione” gli assicurò Belegron con un sorriso un po’ legnoso.
“Bene, bene.” Saeron annuì a se stesso, fiero della sua idea geniale. “Sono felice che noi tre siamo di nuovo d’accordo. Vado a lavarmi le mani, spero che la cena sia pronta quando tornerò” annunciò, rispolverando il solito tono di pretesa.
Per i suoi amici fu molto difficile restare seri mentre il bardo usciva, ma quando finalmente fu fuori dalla portata d’orecchio i due elfi si concessero una lunga risata. Entrambi sapevano che Saeron mal sopportava i bambini. Ai loro occhi, la sua complicata vendetta avrebbe portato incomodo soprattutto a lui.

           

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Capitolo 25
*** 1361 DR: Non tutti gli avversari sono nemici ***


1361 DR: Non tutti gli avversari sono nemici


Tazandil sapeva bene come prepararsi a una battaglia: ne aveva combattute molte nel corso della sua vita, forse troppe. Per la maggior parte si era trattato di scaramucce, ma c'era stato anche qualche scontro degno di questo nome. L'anziano elfo non era capace di stare fermo, di vivere nell'ozio, per questo considerava il suo lavoro una benedizione. Era più che un lavoro; anche quando si trattava di offrirsi volontario per dare la caccia ai troll o agli hobgoblin, come era loro costume durante alcune festività sacre, non si tirava mai indietro. Poi c'era stato il memorabile scontro, breve ma intenso, contro i drow del sottosuolo una settantina di anni prima. Forse la sfida migliore della sua vita, a cui era sopravvissuto grazie al buon lavoro di squadra con i suoi sottoposti.
Sì, forse questa era la cosa più importante quando ci si preparava ad una battaglia: la coordinazione, ripassare i piani con i propri alleati, conoscere il territorio se possibile, ma soprattutto conoscere il proprio ruolo. Un elfo solitario aveva meno possibilità di sopravvivenza, perfino quando gli avversari non sembravano molto pericolosi.
Quella notte non avrebbe saputo dire se i goblin fossero da ritenersi pericolosi oppure no; molto dipendeva da quale leader li stesse guidando, dalla sua intelligenza strategica.
Tazandil si stava preparando alla battaglia, ma non era neanche del tutto certo che ci sarebbe stata, una battaglia contro i goblin.

**********


Hinistel non era pronta a tentare un’altra avventura onirica, ma sentiva di non avere scelta. Voleva scoprire la verità sui sogni di Jaylah, su quegli incontri notturni con sua madre, la strega. Erano reali? Erano una fantasia della bimba? C’era solo un modo per scoprirlo.
Jaylah si era addormentata all’improvviso, come accade ai bambini piccoli. Il bracciale fatto con i capelli intrecciati di Hinistel era legato intorno al suo polso. La veggente non aveva davvero scuse per rimandare, e se voleva prendere sonno prima di mezzanotte era il caso di provarci, almeno.
Si sdraiò nel letto e cercò di rilassare la mente. La parte più difficile era non scivolare nella Reverie, che le riusciva così naturale. Doveva dormire. Spegnere la propria consapevolezza. Forse tutto il movimento che aveva fatto nel corso della giornata l’avrebbe aiutata ad addormentarsi, era così stanca…

Hinistel si trovava di nuovo in una stanza dalle pareti in pietra. Era la stessa della notte prima, ma l’elfa non poteva saperlo perché non ricordava il suo sogno precedente. Aveva solo una forte sensazione di déjà-vu.
Jaylah era seduta in un angolo della stanza, su un tappeto circolare. Intorno a lei aveva una bambola di pezza, il suo vecchio orsacchiotto e una lanterna che conteneva una fatina imprigionata.
“Nonna!” La bimba saltò in piedi appena la vide e corse ad abbracciarla. “Che bello, sei venuta per il tè? Ci sono anche i biscotti.”
Hinistel fece una carezza alla nipote, ma continuò a guardarsi intorno nervosa. Non le piaceva essere in un edificio dalla foggia così umana.
“Questa è la tua stanza, tesoro?”
Jaylah la prese per mano e la trascinò con sé verso il suo tappeto.
“Sì questa è la mia stanza, ma io gioco che questo angolo è la mia casa di quando sarò grande” spiegò, sedendosi di nuovo per terra. “C’è anche Lacis l'orsetto, la sua amica Dora che è una bambola, e poi c’è la fatina che vive nella casa di vetro.”
“Uhm… è la sua casa quella? Sembra una prigione” azzardò, tentennante.
“No, è la sua casa! La voleva tutta di vetro. Non è vero Lucciola?” Si sporse verso Hinistel e sussurrò, con fare cospiratorio “si chiama Lucciola perché fa luce, me lo ha detto lei.”
“Oh. Uhm.”
“Hai portato la tua bambina?”
“Cosa?” Hinistel si rese conto solo in quel momento che avrebbe dovuto essere incinta ma non lo era. Eppure non ricordava di avere nessuna bambina. “Non sei tu la mia bambina?”
“Uh… forse. Ma io ho una mamma, e tu sei la mia nonna.” Jaylah ci pensò per un momento. “Sono una bambina, quindi se vuoi sono la tua bambina, ma non sono tua figlia. Lo sai, no?”
Hinistel si sentiva molto confusa. Non era consapevole di stare sognando, pensava che fosse tutto reale, ed era così
strano sentirsi meno consapevole del mondo rispetto a una bimba di quattro anni. Era come se Jaylah fosse diventata la più sveglia e intelligente fra le due, cosa impossibile vista l’abissale differenza di età.
“La tua bambina. Nonna, te la ricordi? Dev’essere nella culla.”
Solo nel momento in cui la indicò, l’elfa dei boschi si accorse che c’era una culla. Era chiaramente di foggia elfica e stonava molto con l’arredamento semplice e grossolano -
umano - della stanza.
La veggente si avvicinò alla culla e vi trovò un minuscolo neonato. Come aveva previsto Jaylah, era una bambina.
“Jaylah, come sapevi che era una femmina?” Chiese Hinistel, un po’ allarmata.
“Uh… non me lo ricordo. Non me lo hai detto tu?”
La veggente ci pensò per un momento. “Forse” concesse. “Ma perché è così piccola?”
“Be’, non è ancora nata” ragionò Jaylah.
La risposta suonò assolutamente plausibile. In un
sogno poteva avere senso, la bambina era lì ma era piccola perché non era ancora nata, chiaro e lineare.
“Come siamo arrivate qui da Myth Dyraalis?” Domandò ancora.
“Io vengo qui quando voglio perché è casa mia” spiegò Jaylah, “mi basta che faccio un passo, e sono qui.”
“Ma” qualcosa non quadrava esattamente, la casa natìa di Jaylah non era nel nord? Non doveva esserci almeno la foresta Wealdath, di mezzo? “Cucciola, casa tua non era lontana lontana?”
“La mia mamma dice che casa ce l’hai sempre nel cuore” rispose la bambina, tranquilla. “Allora, nonna, prendi il tè con noi? Lucciola ne vuole una tazza molto piccola così le ho dato un ditale.”
Hinistel si riscosse a quelle parole, come se all’improvviso avesse ricordato una cosa molto importante.
“Tua madre! Anche lei è qui?”
“Oh, lei arriva quando arriva” minimizzò la bimba. “Starà facendo i lavori.”
“Lavori?” Ripeté in un sussurro.
“Sì, sai… lavare i piatti, dare la pappa alle galline, e poi agli asini, e togliere le erbacce dall’orto, e fare le cose magiche, e cucinare, e lavare i panni e tutto il resto. Mamma deve sempre fare tanti lavori noiosi.”
“E perché non usa la magia per pulire?” Domandò l’elfa, scioccata.
Jaylah si strinse nelle spalle e continuò a giocare con la sua teiera e le tazzine. A quanto pare contenevano davvero del tè. “Lo fa quando ha fretta, ma dice che ogni tanto si deve pulire per davvero, perché… puri… qualcosa.”
La conversazione fra due soggetti sognanti aveva molto più senso logico rispetto a quella che sarebbe potuta avvenire fra una di loro e qualcuno che fosse frutto del sogno, quindi Hinistel continuò a non accorgersi che era, appunto, un sogno. Avrebbe voluto sedersi a giocare con Jaylah, ma non voleva allontanarsi dalla culla. Non sapeva per certo se quella all’interno fosse la
sua bambina, ma si sentiva attratta da quella creaturina indifesa, come se fosse legata a lei.
“Nonna mi sono appena ricordata una cosa. Chi è Amatiar?”
“Chi?” L’adulta guardò la piccina senza capire.
“Non lo so! Ieri ho incontrato una signora tanto bella, che si chiamava Amatiar, era un po’ simile a te. Poi ha detto che tu eri piccola e ha detto che anche io ero Amatiar.”
Hinistel sbiancò. “Vuoi dire
Amarthiar? Quello è il nome ancestrale della mia famiglia, per linea di madre.”
Jaylah le rivolse uno sguardo vacuo. “Scusa nonna, mi sa che non ho capito niente.”
“Hai incontrato questa signora a ca… a Myth Dyraalis?”
“No, sono sicura di no. Era un altro posto. Pieno di fili dorati come quando avete messo gli addobbi di Mezzestate e c’erano fili luminosi fra gli alberi. Ma
più bello.
La veggente ci pensò a lungo, ma alla fine scosse la testa. “Non ho idea di che luogo possa essere. Non l’avrai sognato?”
“No, ho sognato nonno Tazandil. Era in guerra e aveva un
bercoccolo.”
“Hm… non so cosa dire. Se la vedi di nuovo, magari chiedile chi è. Se è una persona gentile dovrebbe risponderti.”
“Sì, è gentile… ma alla fine mi ha detto che devo fare la Reverie; ma lei non capisce, io non posso fare la Reverie altrimenti non vedo più la mamma! E allora mi stavo quasi arrabbiando e volevo dirglielo, ‘fatti gli affari tuoi!’, ecco.” Sbottò Jaylah gonfiando le guance. “Ma non ho fatto in tempo perché… ah! Perché poi mi sono svegliata. Hai ragione nonna, era un sogno!” Ridacchiò. “Mi sono proprio
sconfusa!
“E perché non me lo hai detto quando ti sei svegliata?”
“Perché non me lo ricordavo!” Sbuffò la bimba esasperata, poi le scagliò uno sguardo colmo di fastidio. “Nonna, qui marca male. Vuoi giocare con me o no?”
Hinistel cominciò a considerare che il modo di esprimersi di Jaylah era
strano. Per cominciare, non avrebbe saputo dire se la nipote stesse parlando in elfico oppure no, sapeva solo che era in grado di comprendere ogni parola che diceva. Poi, stava usando espressioni idiomatiche molto inusuali, anche un po’ volgarotte, che doveva aver appreso dagli umani della regione in cui viveva.
“Sono nella casa di tua madre. Dunque credo di essere qui per parlare con tua madre.” Ragionò la donna.
“Sì, lo credo anch’io” esordì una terza voce. Hinistel ne cercò la fonte e notò subito due cose: la porta della stanza era sparita, e una drow se ne stava appoggiata alla parete dove poco prima c’era la porta. O almeno, Hinistel credeva che fosse lì. C’era mai stata una porta?
“A meno che invece non siate qui per spiarmi senza farmi la cortesia di rivolgermi la parola” scherzò la drow, ma c’era una punta di durezza nel suo tono, nel suo sguardo. Forse non era una semplice battuta. La sua occhiata sembrò passare Hinistel da parte a parte.

**********


Tazandil si appoggiò al tronco di un albero, cercando di schiacciarsi il più possibile contro la superficie ruvida della corteccia. Avrebbe voluto sparire, rendersi invisibile. Nel tempo aveva perfezionato la sua capacità di muoversi fra le ombre degli alberi, come a diventare un tutt’uno con la foresta, ma talvolta perfino lui incontrava un avversario così abile da poterlo sorprendere.
Questo poteva essere uno di quei rari casi, quindi l’anziano elfo ranger si muoveva con cautela.
Alla fine re Elbereth aveva accettato il suo piano di tendere una trappola ai goblinoidi: un finto accampamento era stato improvvisato vicino alle pendici di una collina, non lontana dall’altipiano che altri elfi stavano ancora circondando.
L’anziano guerriero sapeva che lì c'era una grotta, più o meno a mezza altezza della collina, che era collegata - probabilmente - alle gallerie che correvano dentro alle montagne. Se i goblin avessero visto quell'accampamento elfico come una facile preda, quasi certamente avrebbero attaccato perché avevano dalla loro anche il vantaggio di trovarsi su un terreno in discesa, avrebbero potuto calare sugli elfi come una valanga di picche e rozze spade e approfittare dello slancio per infliggere un duro colpo ai nemici. In realtà sarebbe stata una situazione perfetta per gli elfi se avessero preparato trappole, buche con pali appuntiti, corde di inciampo… ma non ce n’era stato il tempo, avevano dovuto preparare il terreno di battaglia in quattro e quattr’otto.
Avevano solo sistemato alcuni buoni ranger in quell’accampamento e arcieri ancora migliori sugli alberi lì intorno.
Fra gli elfi che fungevano da “esca”, tre appartenevano alla foresta di Shilmista e fra loro c’era un mago; due venivano da Sarenestar, il veterano Nelaeryn e il meno esperto Raedeth. Erano stati scelti perché in passato avevano lavorato insieme, anche se per brevi periodi. Quella scelta a Tazandil era comunque sembrata un po’ forzata, ma era stata un’idea del vecchio Suiauthon. Era un elfo affidabile e assennato, aveva servito come capopattuglia per decenni, Tazandil l’aveva voluto a Shilmista anche per la sua esperienza e per avere il suo consiglio.
Anche, ma non solo.
Suiauthon era un decente stratega, ma tendeva a mettere in atto sempre gli stessi schemi che si erano rivelati efficaci. Per questo Tazandil era sorpreso che avesse preso l’iniziativa e portato tanti suggerimenti fin da prima che partissero per Shilmista. L’aveva aiutato nella selezione dei volontari da portare in guerra e ogni tanto dava anche consigli sulle formazioni di battaglia. Era inusuale, perché di solito il vecchio elfo non ci metteva così tanto impegno. Non era mai stato completamente soddisfatto della decisione di lord Fisdril di nominare Tazandil come ranger capo, mentre Suiauthon aveva più anzianità e più esperienza; c’era una patina di ruggine fra loro, anche se mantenevano rapporti cordiali.
Il problema era che Suiauthon mancava dell’adattabilità necessaria per diventare ranger capo, un limite che non aveva mai capito di avere… un limite che Tazandil invece non aveva.
Non molte persone avrebbero associato l’idea di flessibilità, o perfino di fantasia, a Tazandil; però sul campo di battaglia aveva entrambe. Sul campo di battaglia era completamente se stesso e dava il meglio di se stesso, mettendo a frutto tutte le sue potenzialità.
, rimuginò Tazandil accarezzando l’impugnatura di una delle sue spade lunghe; è qualcosa a cui non posso rinunciare. Questo. La battaglia. Il mio lavoro. Morirò con le spade in pugno, come mia madre. Hinistel, dovrai avere pazienza con me…
Il ricordo della moglie riuscì a portare un momentaneo sorriso sul suo volto asciutto. Poi nell’aria si alzò il verso di un gufo, il segnale convenuto con le sentinelle, e ogni pensiero ozioso venne allontanato: era il momento di scoprire come il nemico avrebbe giocato le sue carte.

**********


“No, sono sicura di essere qui per parlare con voi” rettificò l’elfa.
“Bene. Attendevo il vostro arrivo da quando ieri notte Geyla mi ha detto che eravate venuta a trovarla” ammise la strega. Quell’affermazione strappò uno sguardo confuso alla veggente.
“Ieri notte? Io?”
Il sorriso semi-sincero della drow si distese in un’espressione più accogliente, più genuina.
“Comprendo la vostra confusione. Permettetemi di darvi il benvenuto nella mia casa.” Krystel si avvicinò e le porse una corona di fiori freschi - l’aveva sempre avuta con sé? - e la poggiò con gentilezza sul capo di Hinistel. No, non sul capo. La corona era troppo larga, era una collana, e scivolò oltre la sua testa fermandosi poi sulle spalle. Hinistel avvertì un profumo particolare, dolce ed esotico. La cosa la prese in contropiede; si accorse solo in quel frangente che era la prima volta che sentiva l’odore di qualcosa, in quella stanza.
“Questi sono fiori dell’oblio. Vi impediranno di svegliarvi e vi costringeranno a continuare a sognare” spiegò.
“Sognare?” Hinistel spalancò gli occhi. “Ma sono sveglia.”
Sembrava che la drow stesse facendo del suo meglio per trattenere un sorrisetto, che Hinistel percepì come un gesto di scherno.
“No, non lo siete. State sognando. Anche ieri notte stavate sognando, quando siete venuta qui. Ma Johel mi ha chiarito che gli elfi dei boschi solitamente non dormono, quindi immagino che non siate molto esperta di sogni. Le persone non abituate ai sogni hanno la tendenza a svegliarsi non appena la loro mente realizza che qualcosa non va e che stanno sognando, hanno paura di questa mancanza di controllo.”
Questa volta la veggente fece un passo indietro, sconcertata. Le rivelazioni della drow avevano una certa logica. Si portò le mani al petto, tastando la collana di fiori che ricadeva mollemente sotto alle clavicole.
“No, vi prego.” L’elfa scura si sporse in avanti e mise le mani sulle sue. “Potrete toglierla in qualunque momento, non siete mia prigioniera. Ma se ora andaste via, vanifichereste i miei sforzi e i vostri.”
Le dita pallide dell’elfa si svincolarono da quelle della drow, con una certa fretta. Rifletté brevemente su quella proposta.
“Mi giurate che posso andarmene quando voglio?”
“Uffa, mamma, che noia” s’intromise Jaylah, alzandosi dal suo tappeto e correndo a incunearsi fra le due donne. “Hai finito con i discorsi da adulti? Io voglio giocare con te e la nonna” abbracciò sua madre alle gambe, reclamando attenzioni.
Krystel sorrise e ricambiò l’abbraccio della figlia, ma non smise di guardare la veggente. “Certo, ve lo giuro. Non voglio farvi nulla di male, siete la nonna di mia figlia e sembra che lei vi adori.” La drow sospirò, pareva incerta se aggiungere qualcos’altro, e infine lo fece: “Questo per me è un grande conforto e sollievo. Sapere che la famiglia di Johel ha accettato Geyla e la ama.”
Hinistel si sentì presa in contropiede da quelle parole. Potevano forse fare diversamente? Jaylah era la figlia di suo figlio. Come avrebbero potuto non amarla?
L’elfa scura però non le lasciò il tempo di rispondere, si lasciò condurre dalla bambina nel suo salottino immaginario che stava assumendo tratti sempre più reali. Per esempio, c’erano sempre state quelle poltroncine che sembravano fatte di cuscini cuciti insieme? Sì, sicuramente sì. Ce n’era anche una pronta per Hinistel, di un arancione brillante come la sua chioma di fuoco. Non era un segreto che Jaylah amasse i suoi capelli rossi, forse per questo aveva sognato una poltrona uguale. Hinistel avrebbe voluto sedersi con loro, ma la creatura nella culla… non voleva allontanarsene.
“Nonna dai vieni! Prendi anche la tua bimba, può bere il tè con noi!” La chiamò Jaylah.
Hinistel aveva qualche dubbio che la cosa potesse funzionare, ma si chinò sulla culla e con grande attenzione sollevò fra le braccia la neonata. Era piccola, nuda e indifesa, eppure quando Hinistel la prese in braccio sentì che era al sicuro. Che la creaturina non poteva essere toccata, non poteva essere ferita, perché in qualche modo era ancora parte di lei ed era protetta da lei.
La veggente si sedette sulla poltroncina vuota fra i giocattoli, di fronte a Jaylah. C’era un tavolo tondo di legno fra loro, simile a quelli che campeggiavano nella Casa degli Scapoli. Dal tavolo poteva vedere Krystel e Jaylah alla stessa altezza, come se la bambina sedesse su una sedia alta, ma non era così. C’era qualcosa di illogico, ma lo registrò solo con una piccola parte della sua mente. Il profumo dei fiori che aveva intorno al collo si fece più intenso.
Jaylah servì il tè a tutti, anche ai giocattoli, che si mossero per berlo. Anche Krystel stava sorbendo il tè, da cui Hinistel giudicò che non fosse pericoloso stare al gioco.
La bevanda era calda al punto giusto ma non aveva nessun sapore.
"Grazie, Geyla, è buonissimo" sorrise la strega, e Hinistel capì che era una gentile menzogna. "Adesso vogliamo fare vedere la locanda alla tua nonna?"
"Certo!" La piccola saltò in piedi con un balzo entusiasta. "Mi terrai per mano, mamma?"
"Necessariamente", rispose l'elfa scura, e Hinistel pensò che fosse uno strano modo di esprimersi.
Krystel dovette cogliere la sua perplessità, perché si prese il disturbo di spiegare a suo beneficio: "I bambini non ricordano mai bene la planimetria di una casa, anche perché ne hanno una prospettiva sfalsata, e la mia casa è molto grande. Se volete vedere il luogo in cui Geyla è cresciuta dovrò essere io a guidarvi, e questo significa che passeremo dal sogno di Geyla al mio. Per questo devo condurla per mano: per natura, la sua mente si ribellerebbe a questa cessione del controllo. E... voglio mettere in chiaro che se questo vi crea qualche problema non vi costringerò a seguirci, ma dal momento che avete legato l'identità onirica di mia figlia alla vostra, l'unico modo per separarvi da lei sarebbe che una di voi due si svegliasse."
"Come sapete che l'ho fatto?" obiettò la veggente.
"Sono una strega" rispose semplicemente Krystel. "Non conosco il rituale che avete usato, ma ne ho compresi gli effetti."
"Johel mi ha detto che siete una strega, ma non capisco… nel dettaglio, cosa significa?"
L'elfa drow piegò le labbra in un sorriso esitante, serrato ed enigmatico. "Cento streghe potrebbero darvi cento definizioni diverse, perché non solo i poteri delle streghe, ma anche la loro idea sulla loro posizione nel mondo, cambiano da regione a regione e talvolta anche da persona a persona. Mi piacerebbe darvi una spiegazione dettagliata ma sarebbe inutile perché al risveglio non ricorderete tutto, vi resteranno in mente solo le cose più salienti."
"Al risveglio? Ma io sono sveglia…"
"Abbiamo già avuto questa conversazione, lady Hinistel" sospirò Krystel. "Non intendo offendervi, ma non credo che siate pronta per tutto questo."
"Mamma, voglio andare in giardino, e voglio cavalcare un asinello" pretese Jaylah, afferrando una manica della madre per richiamare la sua attenzione.
"Ma certo tesoro, adesso andiamo. Vuoi portare Lacis?"
"No, Lacis adesso deve fare la nanna. Lui è piccolo."
"È molto più vecchio di te, trappolina" la prese in giro la strega. "Ma fai come vuoi."

Hinistel rimase a guardare mentre Jaylah rimetteva a posto i suoi giocattoli, una buona abitudine che aveva anche a Myth Dyraalis. Poi la bambina si mise davanti alla porta, scalpitante. Hinistel non si era resa conto che ci fosse una porta.
"Su, nonna, vieni!"
La veggente era in piedi, anche se non ricordava di essersi alzata, e si avvicinò alla nipotina sempre tenendo in braccio la sua neonata… non ancora nata, in realtà.
"Dovrei rimetterla nella culla?" Ipotizzò, scrutando con attenzione la minuscola creatura che sembrava addormentata.
"Non potete" la fermò Krystel. "La bambina è parte di voi. Siete legate ancora troppo strettamente. Non vi permetterà di lasciarla indietro, scommetto che se la rimettete nella culla non vedrete più la porta d'uscita."
Hinistel sobbalzò, ricordando improvvisamente qualcosa. "È successo questo, ieri! Volevo uscire dalla stanza, ho voltato le spalle alla culla con la bambina, ma la porta era scomparsa e davanti a me mi sono ritrovata di nuovo la culla!"
Krystel stava annuendo con aria saputa.
"Vostra figlia non vi lascerà andare via. È abbastanza grande da avere già una mente sognante, significa che è ben sviluppata nel corpo e nello spirito. Però non è ancora pronta a staccarsi da voi."
La strega aprì la porta, mostrando che dava direttamente sul giardino. Prese una mano di Jaylah nella sua e la condusse fuori. L'elfa chiara le seguì, come se fosse stata trainata da una forza invisibile, ma non ci stava badando molto. Le parole dell'altra donna avevano colpito nel segno.
Hinistel strinse più forte la bambina, sentendo il suo minuscolo cuore pulsare forte. "È cresciuta lentamente, per molti mesi non ho visto il mio ventre gonfiarsi" confessò, senza capire perché ne stesse parlando proprio con la drow. Non si fidava ancora di lei, eppure sentiva il bisogno di confidarsi. "Avevo paura che non fosse ben sviluppata, anche se la nostra druida mi diceva il contrario."
La luce del sole splendeva luminosa, irriverente, molto più sfacciata di quanto Hinistel ricordasse. Certo, lei viveva in una foresta, era abituata ad una luce molto più tenue e filtrata dalle fronde. Il giardino era di un verde vibrante, tranne in un punto in cui era stata ricavata una strana aiuola circolare in cui erano sbocciati molti fiori diversi. Hinistel forse l'avrebbe trovato un po' strano, perfino di cattivo gusto, per il modo in cui la natura era stata imbrigliata. Però in quel momento il panorama era l'ultimo dei suoi pensieri.
"Non posso avere contezza del suo stato di salute fisico," continuò Krystel, "ma la sua volontà è forte, e questo di solito indica che anche il corpo lo è. Specialmente nei bambini non ancora nati: prima si sviluppa il corpo, e poi la mente. Questa bimba potrebbe venire al mondo domani e sopravvivere… ma non vuole ancora farlo. Datele ascolto, e date ascolto al vostro corpo. Sognare, dormire, sono cose a cui non siete abituata. Non so quanto sarete riposata domattina, ma ogni fonte di turbamento per voi è una fonte di turbamento anche per la piccola. Pensate molto bene a quello che state facendo, Geyla è al sicuro con me, non ha bisogno della vostra supervisione."
Hinistel scosse la testa, per negare quella logica. "Ma io non vi conosco. Fate parte indirettamente della mia famiglia perché siete la madre di mia nipote, eppure non capisco la natura del vostro rapporto con mio figlio, non capisco
voi, che tipo di persona siete e che vita conducete. Come posso stare tranquilla?"
"Io non faccio parte della vostra famiglia" la strega si adombrò, la sua voce assunse una tonalità più fredda. "Non faccio parte di nessuna famiglia elfica. Mia figlia fa parte della vostra famiglia, non io. La vostra mania del controllo non è un mio problema."
"Mamma, che posto è questo?" Intervenne Jaylah, guardandosi intorno curiosa. "Quando siamo uscite dal giardino?"
"Non siamo usci…" cominciò Krystel, ma poi si interruppe di colpo. Anche Hinistel notò che c'era qualcosa di strano: non erano più nel cortile delimitato da mura di pietra, non c'erano più edifici umani in vista, adesso erano in una foresta. Per un momento l'elfa dei boschi si spaventò, pensando che fosse Sarenestar. Non avrebbe dovuto essere il sogno della strega? Come poteva conoscere quella foresta così lontana?
Quasi subito però si rese conto che la flora non era quella giusta: non c'erano gli stessi altissimi e imponenti alberi di conifere, il terreno stesso appariva diverso, più umido e con un sottobosco differente. Grandi tronchi di
chiomanera svettavano facendosi strada al di sopra del frondame largo e piatto degli alberi del crepuscolo, che schermavano parzialmente il sole; ma nessuno di quegli alberi era paragonabile alle conifere di Sarenestar, che potevano arrivare anche ai trecento piedi d'altezza. La corteccia quasi nera degli alberi del crepuscolo riusciva a dare alla foresta un'aria spettrale, nonostante si potessero udire delle risate leggere in lontananza. Eppure anche quelle risate avevano qualcosa di sbagliato, di tetro. La strega si era fermata di colpo.
"Non dovremmo essere qui" sussurrò con un filo di voce, come se avesse paura di attirare l'attenzione di una bestia pericolosa. "Torniamo indietro."
"Dove siamo?" Hinistel si guardò intorno cercando di cogliere una qualche logica in quella foresta, sperando di individuare un sentiero magari. Non ve n'era nessuno, anzi, sembrava quasi che gli alberi si spostassero ogni volta che lei distoglieva lo sguardo, come per confondere loro le idee.
"Siamo dentro a un incubo" mormorò Krystel. "Un
mio incubo."
La veggente strinse la sua bambina con una punta di panico.
"Siamo in pericolo?"
L'altra scosse la testa. "No. Non è un incubo violento, è uno di quegli incubi che ti lasciano addosso solo una cappa di disagio."
"Ci sono diversi tipi di incubi?" Hinistel adesso era da qualche parte a metà fra la paura e la desolazione. Cielo,
perché qualcuno avrebbe mai dovuto scegliere di sognare anziché di meditare come dovrebbero fare gli elfi?
"La vostra presenza qui, temo abbia fatto strani scherzi alla mia mente. Sentirmi
giudicata da una di voialtri, un'elfa chiara, e quel ridicolo discorso sulla famiglia…" Krystel le lanciò un'occhiata di sbieco come se la ritenesse direttamente responsabile dell'incidente "deve aver liberato i miei ricordi più tetri".
L'elfa dei boschi sobbalzò e si rese conto che la drow aveva preso in braccio Jaylah e la stringeva con la stessa spasmodica ansia con cui lei stringeva la sua neonata. Si rese conto per la prima volta che era solo una madre che voleva proteggere sua figlia, ma da che cosa, non lo aveva capito. Era quasi come se volesse proteggerla da Hinistel tanto quanto dai pericoli dell'incubo.
"Un ricordo? Voi siete già stata in questa foresta?" Questa rivelazione la confuse parecchio, perché cosa mai avrebbe potuto fare una drow in una foresta? Credeva che la madre di Jaylah vivesse in una zona di campagna, in mezzo agli umani, e che avesse sempre vissuto lì. La foresta dell'incubo, non era una semplice allegoria?
"Oh, sì, sono già stata qui. Ho
vissuto qui. Andiamo via, prima che arrivino loro."
"Loro? Chi sono, loro?"
"Loro. Gli elfi della luna."

Krystel, Hinistel e le loro bambine cominciarono a muoversi fra quegli alberi che sembravano farsi fitti, innaturalmente fitti, apposta per dare fastidio a loro. Hinistel non aveva mai avuto paura di una foresta o di un albero, e non ne aveva nemmeno ora, ma percepiva una sensazione di ansia, fretta, disagio. Forse era la paura di Krystel che la stava contagiando; quello era il suo sogno dopotutto, il suo territorio, il suo immaginario.
Le risate eteree, gioiose e inquietanti insieme, risate che sicuramente appartenevano agli elfi della luna, erano sempre al confine della loro sfera uditiva, anzi ogni tanto sembravano farsi più vicine. In aggiunta a tutto questo c'era la sensazione di stare girando in tondo.
"Così non va bene. Dannazione." La strega sibilò con fastidio. "Non va affatto bene. Temo che non riuscirò ad uscire finché la cosa che mi trattiene qui resterà al mio fianco."
"E la cosa che vi trattiene qui sono io" ricapitolò Hinistel.
"Non esattamente voi. Il vostro giudizio. Il vostro atteggiamento di superiorità così
elfico."
"Insomma dovrei cambiare atteggiamento per sollevare la pressione dal vostro animo, è questo che state dicendo?"
La strega fu scossa da un sussulto, che dopo un momento la veggente riconobbe per quello che era: una risata amara.
"Non mi aspetto che lo facciate in questi prossimi minuti. Nei sogni siamo noi stesse, senza filtri, senza maschere, nemmeno quelle che di solito ci mettiamo per gentilezza. Non vi fidate di me, io non mi fido di voi, non diventeremo amiche stanotte; nemmeno per uscire da un incubo."
"Che cosa vi hanno fatto gli elfi della luna?" Sussurrò Hinistel. "Quale nervo scoperto ho toccato?"
"Mi hanno giudicata, ve l'ho detto. Mi hanno giudicata e mi hanno trovata inadatta,
non elfa, aggressiva e colpevole. Ero colpevole solo di essermi difesa, ma non mi hanno creduto perché sono drow, quindi bugiarda e infida per natura. Non è quello che temete anche voi?"
"No…" Hinistel provò a negare. "Non ho un'opinione così definita."
"Eppure non vi potete fidare del giudizio di Johel" ribatté lei, "né del parere di mio fratello, o del modo in cui ho cresciuto mia figlia. Tutto questo non vi dice abbastanza su di me, avete bisogno di controllare di persona."
"Sarebbe lo stesso se foste umana!" Sbottò Hinistel, perché era davvero esasperata dall'atteggiamento della strega, dal suo essere sulla difensiva. "Avete detto che nei sogni siamo sincere, giusto? D'accordo, siete voi l'esperta, dovreste sapere che ora sono sincera. Non mi piace che la madre di mia nipote non sia una di noi: ecco, l'ho detto. Non mi piace perché non vi capisco, perché siete strana, perché vivete con gli umani, e
anche perché siete una drow ma questo non è tanto importante quanto pensate; noi abbiamo accolto un drow come Amico degli Elfi, che è una grandissima cosa per una comunità chiusa come la nostra. Dannazione, sarebbe una grandissima cosa per qualsiasi comunità elfica! Non è la vostra razza il problema, è la vostra cultura, che non conosco, che ho bisogno di comprendere, perché non so come crescerà mia nipote quando tornerà da voi a centinaia di miglia dalla sua famiglia elfica. Jaylah è una di noi, è sangue del mio sangue, non posso essere tranquilla sapendo che sarà affidata a una donna che per me è una perfetta sconosciuta."
"Ma io sono sua madre, Geyla non è vostra" obiettò Krystel, ma non aveva più lo stesso tono teso e piccato. Le risate degli elfi della luna sembravano svanite in lontananza.
"Lo so" riconobbe Hinistel. "E la cosa mi manda ai matti."
E a quel punto, la strega fece l'ultima cosa che l'elfa dei boschi si sarebbe aspettata: sorrise e sbottò in una risatina. Qualche raggio di sole in più riuscì a filtrare tra le fronde.
"Siete qui per amore di mia figlia" riconobbe infine, con voce un pochino più morbida. "E non avevo sbagliato a pensare che fosse per mania del controllo."
"Non avete sbagliato" concesse Hinistel, ancora rossa in viso. "Ma vi assicuro che sono qui per conoscervi e non per giudicarvi. La mia opinione su di voi non è mai stata negativa, perché mio figlio mi ha parlato di voi e dell'affetto che prova per voi."
"Allora la sua opinione ha un peso" Krystel appariva quasi stupita. "Però voi sapete che non è amore, vero?"
"Lo so" annuì la dama elfa "e ne sono molto sollevata. Non voglio che anche lui vada a vivere a centinaia di miglia da casa."
"E non volete nemmeno che io venga a vivere con voi" indovinò Krystel.
"Siete voi la prima a non volerlo" ritorse Hinistel. "Ma se le cose dovessero cambiare, se il sentimento che vi lega a mio figlio dovesse diventare più…
più, scoprireste che la nostra foresta è molto più bella di questo tetro angolo di mondo" sottolineò con orgoglio, indicando con un gesto della mano la boscaglia intorno a loro.
"Per carità, ho già vissuto con gli elfi, per ben due volte. Da bambina con gli elfi della luna, e in seguito con gli elfi selvaggi, il popolo del mio defunto marito. In nessuno dei due casi sono stata accolta bene, ero soltanto tollerata di malagrazia, finché alla fine non mi hanno cacciata. Non reputo di essere una persona antipatica o indisponente, credo che i motivi fossero altri."
"Non siete stata molto simpatica con me" puntualizzò Hinistel, ma c'era una nota scherzosa nel suo tono.
"E non lo sarò, finché avrete l'intenzione di tenere per voi la mia bambina" Krystel rispose con lo stesso tono, perché forse aveva capito che alla fin fine Hinistel non avrebbe avuto cuore di separare Jaylah da sua madre. Nonostante tutto.
"Mamma, lì!" Jaylah richiamò la sua attenzione e indicò con un ditino un muro di pietra che era comparso in mezzo agli alberi. In quel muro c'era una porta. "Quello non è il muro del cortile di casa? La porta degli orti?"
Hinistel non conosceva i luoghi a cui Jaylah stava facendo riferimento, ma vide l'espressione di Krystel illuminarsi.
"Sì, lo è. Bravissima, topolina. Sembra che possiamo tornare a casa." Rivolse alla veggente un tiepido sorriso. "E forse io e la tua nonna potremmo perfino diventare amiche, prima o poi."

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