La regina nera

di Ryo13
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***




Capitolo I

♛♚♛
 

Kaylee Turner si trovava a bordo di una sgangherata Ford Taunus del ‘59 e stava percorrendo Michigan Ave lasciandosi alle spalle i quartieri più poveri della città. 

Non le capitava spesso di trovarsi da quelle parti: i tetti bassi delle case e degli sporadici negozi e la scarsa vegetazione avevano ceduto il passo a strade illuminate da grandi insegne, grattacieli e parchi. Aveva appena superato il Meridian, di cui ne aveva ammirato l’imponente struttura, e si trovava a Woodward Ave, ma non aveva ancora capito dove fosse diretta. Sapeva solo che le sudavano i palmi delle mani e che avvertiva indubbiamente una strana tensione nell’abitacolo.

Si girò a sbirciare con ansia sempre maggiore l’uomo che era alla guida: Ian Parker era massiccio, dai capelli a spazzola grigi e gli occhi spenti cerchiati da pesanti occhiaie. Aveva lasciato crescere la barba da qualche giorno e questo, unito ai gesti un po’ nervosi delle dita sul volante e agli sbuffi che regolarmente mandava fuori, indicava che non era di umore raggiante.

Kaylee tornò a guardare fuori dal finestrino sperando con tutta se stessa che quella sera non si verificasse uno dei soliti incidenti con qualcuno dei suoi soci in affari. Ian infatti era uno spacciatore: era dotato di sufficiente intelligenza da gestire modestamente il traffico illegale di un certo numero di quartieri, ma non di abbastanza astuzia da tenersi lontano dalla merce che vendeva.

Non era mai riuscito a mantenere un vero lavoro per più di qualche settimana e tirava avanti scucendo soldi allo Stato con la disoccupazione e sbarcando il lunario coi traffici illegali.

Blaterava sempre di un colpo che un giorno avrebbe fatto per allargare i commerci e salire di “livello” nella malavita organizzata: abbandonato sulla poltrona logora e circondato da bottiglie di birra vuote, sembrava un grottesco re in mezzo ai suoi sudditi di vetro. Ma quelle erano le serate tranquille. Kaylee aveva paura delle volte frequenti, peraltro in cui era irrimediabilmente strafatto: allora alzava la voce e tendeva a sfogare su di lei tutte le sue frustrazioni, soprattutto quella di doversi occupare di una mocciosa che non era sua e serviva solo a succhiargli soldi dal suo già esiguo patrimonio.

Maya Leah Turner, la madre di Kaylee, era stata una ragazza povera, fuggita di casa in tenera età e finita nelle grinfie di un uomo che l’aveva trattata per tutta la vita come una puttana. Ritrovatasi incinta, aveva ricevuto poche, logore banconote per “eliminare il problema”, ma lei si era rifiutata di sbarazzarsi del suo bambino ed era scappata dal suo magnaccia trovando rifugio in Ian, un uomo non molto migliore. Lui l’aveva presa con sé, nonostante lo sgradito ‘carico’, poichè Maya rappresentava del comodo sesso senza pagamento: il problema si presentò quando ebbe il cattivo gusto di morire per overdose, lasciandolo a sobbarcarsi di una bambina del tutto inutile. O almeno, inutile fino a quel momento: quella sera, infatti, in maniera del tutto inaspettata, si sarebbe servito di lei per avere salva la vita.

Questa volta, Ian aveva fatto il passo più lungo della gamba e si era invischiato con la mafia russa, la quale gli aveva passato un grosso carico di roba e che, in parte, era andata persa in una rapina e non aveva modo di ripagare.

Aveva precedentemente tentato di scendere a patti con questi nuovi illustri soci, ma aveva rimediato solo di essere malmenato e non troppo sottilmente minacciato.

Adesso le brevi proroghe che gli erano state concesse per racimolare il denaro o rintracciare la droga erano definitivamente scadute. Da settimane si trovava sull’orlo di una crisi di nervi e non ne era venuto a capo se non prendendo in considerazione un’ineluttabile fuga. 

Finalmente Ian accostò la Ford di fianco al Crowne Plaza e spense il motore. Il tic delle dita sul volante non fece che intensificarsi fino a quando non sbuffò per l’ennesima volta prima di volgersi finalmente verso Kaylee.

«Ho un compito per te, Key», esordì, schiarendosi la gola.

La ragazza lo fissò sgranando leggermente gli occhi. Non era certo la prima volta che lui le affidava piccole faccende: a dirla tutta, negli ultimi mesi non aveva fatto altro che mandarla in bettole e vicoli isolati a raccogliere della grana, o in locali poco raccomandabili per delle consegne. Ma quello era un quartiere ricco e non immaginava cosa avrebbe dovuto fare né con chi avrebbe avuto a che fare.

Senza aspettare una replica, Ian frugò nella tasca della camicia consunta e tirò fuori una busta gialla. Lisciò la carta per rimediare alle pieghettature e gliela allungò senza guardarla in faccia.

«Lì c’è il Crowne Plaza. Entra, chiedi di Kudryashov. Di’ che ti mando io, che hai qualcosa per lui», le afferrò il polso strattonandolo con più forza del necessario. «Non consegnarla a nessuno se non a lui, hai capito? Kudryashov. Ripetilo!»

«Kudryashov», ripetè Kaylee in un soffio. Abbassò lo sguardo sulla busta che adesso aveva in mano. Strano, non sembrava nulla di pericoloso eppure non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato. Ian si comportava in maniera insolita: non era così nemmeno quando faceva uso di droga. «Devo fare solo questo? E poi potrò andare?»

«Sì». Guardava fuori dal finestrino, verso l’entrata dell’hotel.

«E tu mi aspetti qua?»

Sollevò la spalla nervosamente e poi rispose: «No, ti sto lasciando perché ho degli altri affari da sbrigare. Ti prendo dopo».

Prima che lei potesse chiedere ulteriori chiarimenti, Ian si spazientì e, allungandosi oltre il suo sedile, aprì lo sportello e la spinse fuori dall’auto. Le disse aspramente di darsi una mossa, perché non aveva tutto il tempo del mondo. Poi sgommò via.

Kaylee lo guardò allontanarsi nel traffico di Washington Boulevard poi fissò il Plaza, dall’altra parte della strada, che appariva maestoso per quella struttura a vetri così alta. Si strinse lo zainetto sulla spalla e un po’ incerta si diresse all’entrata.

Nella hall, trovò due graziose dipendenti e decise che la cosa migliore fosse chiedere aiuto a loro.

«Salve», apostrofò quella più vicina. Indossava una blusa formale da lavoro e teneva i capelli raccolti sulla nuca. «Cerco il signor Kudryashov. Sa dove posso trovarlo?»

Quando sentì pronunciare quel nome, la donna boccheggiò incerta. «Chi devo dire lo sta cercando?»

«Sono qui per conto del signor Ian Parker.»

«Attenda.»

La donna si voltò brevemente verso la sua collega e dovette farle qualche tipo di segnale perché l’altra abbandonasse ciò che stava facendo e si avvicinasse. Parlottarono in modo da non essere udite, poi la seconda sollevò la cornetta e compose un numero.

«Sono Mr.Williams, dalla hall». Breve momento di pausa. «Sì. Una ragazzina chiede di vedere il signor Kudryashov. Dice che viene per conto del signor Ian Parker». Il silenzio da questo lato del telefono si prolungò tanto che Kaylee si convinse che l’avrebbero mandata via senza darle la possibilità di incontrare la persona che cercava. Stava già pensando a cosa potesse dire per giustificare la  sua presenza in quell'edificio o a come avrebbe spiegato che aveva fallito nel suo compito, quando infine la donna chiuse la comunicazione e, tornata a parlarle, le diede il permesso di raggiungere l'appartamento del loro ospite.

«Ti accompagnerà quel signore», spiegò, indicandole un uomo vicino gli ascensori che era chiaramente una guardia del corpo: alto e muscoloso, in giacca e cravatta con tanto di auricolare all’orecchio.

Non appena raggiunse l'omone che le indicava l'entrata dell'ascensore si sentì sollevata, poiché non era stato poi così complicato. Svelta si infilò dentro e lui pigiò il tasto dell'ultimo piano. Quando arrivarono sul pianerottolo, Kaylee notò quanto l'ambiente intorno a lei fosse sfarzoso.

Tutto era arredato con un gusto d'alta classe, nei toni dello zebrato sui pavimenti e tonalità neutre alle pareti. Le luci erano soffuse e rendevano l'aria dorata, dando un ulteriore tocco di splendore.

L'attico sembrava organizzato per contenere una serie di camere a disposizione di un unico ospite, quasi fosse un appartamento. A piantonare la porta di ingresso della suite c'erano altri due uomini vestiti come il primo, dallo sguardo fermo.

La guardia che l'aveva accompagnata scambiò un'occhiata coi colleghi e attese che gli aprissero la porta; poi la guidò all'interno tenendola per una spalla. 

Al centro di uno spazio enorme vide un gruppo di persone. Un uomo biondo era seduto alla scrivania posta davanti a una vetrata, dalla quale si ammirava una parte della città. Un altro più giovane e di carnagione scura era adagiato con apparente noncuranza in una poltrona di fronte, mentre il terzo, che dava le spalle alla porta, stava in piedi a parlare animatamente con l'uomo biondo.

Kaylee non poté fare a meno di notare che aveva una pistola e non si curava di nasconderla. Tutto il nervosismo che aveva avvertito fino a quel momento di colpo si acuì e desiderò voltarsi e scappare, senza fare più ritorno. Inoltre aveva notato che parlavano una lingua straniera: doveva essere russo, giudicò dai pochi film che aveva visto, e dalla loro fisionomia.

“Che cosa ha a che fare Ian con questa gente?”, pensava freneticamente. “Perché ha mandato me e non è venuto di persona?” Ma queste domande non ebbero pronta risposta.

Gli uomini si accorsero del loro arrivo e si voltarono a studiarla. 

Infine, l'uomo alla scrivania fece un cenno alla guardia e questi spinse Kaylee fin davanti al tavolo dove si trovò a essere valutata da due occhi color del ghiaccio che trasmettevano pari calore: erano leggermente infossati in una struttura ossea sopraccigliare prominente. Aveva anche un velo scuro sotto agli occhi, come se non dormisse abbastanza; il naso e il mento erano marcati ma si sposavano bene con le proporzioni del viso affilato. Inoltre, tra la barba corta e curata, Kaylee distinse una fossetta sul mento che denotava un carattere dominante.

Dopo un lungo momento, l’uomo decise di rompere il silenzio.

«Hai detto che sei qui per conto di Ian Parker.»

La voce cavernosa, priva di qualsiasi inflessione che la identificasse immediatamente come straniera, fece increspare la pelle della ragazza che si riscosse con un brivido, ricordando all’improvviso il motivo per cui era lì.

«Sì», rispose, a corto di fiato. Poi inspirò profondamente cercando di darsi un contegno. Non era una ragazzina particolarmente timida, anche se la si sentiva parlare di rado: la vita le aveva presto insegnato quanto fossero inutili le parole in certi frangenti e, al contrario, l’aveva spinta a fare affidamento sulla propria capacità di osservazione, perché non si poteva mai sapere da dove sarebbe sopraggiunto il pericolo.

Era un tipo molto attaccato alla propria esistenza, contrariamente a quanto si potesse credere. Il mondo non l’aveva accolta col più caloroso dei benvenuti e negli anni sembrava, anzi, volersi accanire su di lei, strappandole con regolarità tutto quello che poteva, anche solo lontanamente, darle una parvenza di sicurezza: non aveva mai avuto un padre ed era cresciuta nell’indifferenza dell’uomo che avrebbe dovuto ricoprire quel ruolo.

Successivamente era venuta a mancare sua madre, l’unico essere al mondo che, a modo suo, l’aveva amata veramente; inoltre era sempre stata sballottata da un luogo a un altro perché la disastrosa situazione economica di Ian li teneva costantemente sul lastrico, obbligandoli a traslocare di frequente, ma solo in bettole scadenti di quartieri malfamati.

Neanche a scuola aveva amici: tutti la evitavano perché di un livello sociale troppo basso.

Tutto questo, unito alla tenacia che contraddistingueva il suo carattere, l’aveva resa un’adolescente atipica: schiva e silenziosa, con uno sguardo fin troppo adulto sul piccolo viso smunto.

Aveva anche imparato a essere prudente in qualsiasi situazione, senza mai far trasparire all’esterno quando qualcosa la faceva sentire nervosa o la spaventava.

«Mi ha chiesto di consegnare una cosa al signor Kudryashov.»

«Sono io», rispose l’uomo, stendendo i gomiti sul tavolo. Si poggiò un dito sul naso, come meditando, mentre finse di cercare qualcosa attorno alla ragazza. «Ma non vedo nessuna borsa o valigetta con te. E quello che mi deve dare il signor Parker non può certo entrare in una tasca.»

«Non so cosa le dovesse consegnare», aggiunse in fretta Kaylee, per nulla rassicurata da quelle parole. 

«A me ha dato solo una busta. Eccola.»

Tirò fuori la carta stropicciata allungandola verso di lui.

Il signor Kudryashov la fissò con un sorrisino enigmatico e glaciale prima di raccoglierla e aprirla. Nel frattempo, nessuno degli altri uomini presenti emetteva un fiato.

Si concentrò brevemente su quanto vi era scritto, poi passò il messaggio alla persona alla sua sinistra, l’uomo armato, che lesse a sua volta. 

«Tsk!», sbuffò, lasciando cadere con disprezzo il foglio sul tavolo. «Etot mudak!»

«Calma, Alek.»

D’improvviso il ragazzo seduto sulla poltrona, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, cominciò a ridere. «Che vi avevo detto?», gongolò, schioccando la lingua sul palato. «Era chiaro che se la sarebbe data a gambe.»

Kaylee quasi collassò. Qualunque cosa ci fosse scritta nel biglietto, aveva fatto irritare enormemente quella gente. Di colpo, comprese perché quel compito era toccato a lei: Ian aveva combinato un altro dei suoi guai e questa volta l’aveva abbandonata a vedersela con le conseguenze, senza curarsi del fatto che quei tipi avrebbero potuto rivalersi su di lei.

Non disse niente, aspettando di vedere come si sarebbero messe le cose.

«Devo riconoscergli una certa originalità, tuttavia», disse Kudryashov. «Nemmeno tu puoi immaginare cosa ci sia scritto in questo foglio, Sergej.»

Intrigato, il ragazzo lanciò un'occhiata alla carta incriminata. «Si è per caso offerto di ripagare il debito in futuro?»

«Oh, no. Ha trovato, diciamo così, una forma alternativa di pagamento.»

«Non potrebbe arrivare alla somma nemmeno se mettesse in vendita  per strada il suo culo.»

Il signor Kudryashov sorrise beffardo, grattandosi il mento. «Deve averlo pensato anche lui. Infatti ci ha offerto la ragazzina come indennizzo.»

Sergej strabuzzò gli occhi, sinceramente sorpreso. Non erano molte le cose in grado di coglierlo impreparato. Aveva infatti una naturale tendenza a comprendere le motivazioni profonde della gente e a prevedere gli eventi in termini probabilistici.

Rivolse un'ulteriore occhiata alla ragazza, come a rivalutarla da una prospettiva differente.

Lei dal canto suo si sentì pietrificare, mentre il cuore saltava qualche battito e cominciava a pompare irregolarmente. “Non è possibile! Non può essere!”, continuava a pensare. “Nemmeno Ian può essere arrivato a tanto! Non può avermi lasciata in questa situazione”. Ma i secondi si susseguivano e nulla cambiava.

Il signor Kudryashov non sembrava intenzionato a dichiarare che fosse tutto uno scherzo.

Lei non riusciva a credere nemmeno che ci fosse stato un malinteso: questo non era che l'ennesimo colpo basso offertole dalla vita. Come si era mai potuta aspettare qualcosa di meglio? Aveva solo toccato un altro livello di profondità: venduta come un animale, senza la minima considerazione per i suoi diritti. Che avrebbero fatto quegli uomini di lei? Le possibilità erano molteplici, ognuna più raccapricciante dell’altra.

Nonostante la tempesta emotiva che si era scatenata dentro, Kaylee riuscì a mantenere uno sguardo vago, assolutamente impersonale. Sapeva, infatti, che reagire a sproposito non le avrebbe giovato: quello era il momento più cruciale in cui doveva stare attenta a raccogliere tutte le informazioni che avrebbero potuto tornarle utili per la propria salvaguardia.

Paralizzata nel corpo, ma non nella mente, cominciò a catalogare con ordine tutto quanto aveva notato dalla sua entrata nella suite d’albergo fino a quel momento.

Il capogruppo era senza dubbio il signor Kudryashov, altrimenti Ian non le avrebbe detto di consegnargli il messaggio: anche la loro disposizione nella camera, con lui seduto alla scrivania, in posa apparentemente rilassata, da uomo d’affari, indicava che nella piramide di potere stava in cima.

L’uomo armato chiamato Alek, sembrava avere un temperamento nervoso ma sapeva prendere ordini e stare al proprio posto. Era sulla cinquantina, calvo, sul viso aveva una cicatrice che faceva ipotizzare un passato militare e l’aria sfatta di chi aveva ecceduto in più di un vizio.

Non guardò il ragazzo alla sua sinistra, che adesso si era impercettibilmente teso verso di lei, mettendole inquietudine. Era il più giovane fra tutti, sembrava avere almeno venticinque anni ed era scuro, anche se non troppo: capelli e occhi erano neri e la carnagione sembrava quella di una persona abbronzata, anche se, sospettava, quel colorito sarebbe rimasto invariato anche in pieno inverno.

Kudryashov lo aveva appellato col nome di Sergej e sembrava esserci confidenza tra i due: che fossero in qualche modo parenti? La loro fisionomia sembrava escluderlo ma la rilassatezza della posa di Sergej, unita a quella sua certa irriverenza dei modi, indicava tutt’altro.

Ad ogni modo la questione non aveva importanza, ad attirare la sua attenzione fu quanto disse successivamente.

«Potrei averla io?»

Sergej si leccava un labbro come a pregustare la sua preda e allungò finanche una mano a sollevarle una ciocca dei lunghi capelli che portava sempre sciolti e poco curati sulla schiena.

«Credo che mi divertirei con questa bambina, Rafail.»

Il signor Kudryashov non rispose, intento com’era a studiare la reazione di Kaylee. Era sorpreso che ancora non avesse dato di matto o non avesse tentato la fuga, come probabilmente avrebbe fatto chiunque altro al suo posto. Ma lei non reagiva.

O era troppo stupida o troppo spaventata.

Ad ogni modo, era stanco di continuare a perdere tempo.

«Aleksandr, chiama Marc», disse secco. «È arrivato il momento di fare una chiacchierata col nostro simpatico signor Parker.»

♛♚♛

Kaylee era stata lasciata in una delle camere adiacenti del salotto, con la sola compagnia della guardia del corpo di prima. Non sapeva cosa stesse succedendo, ma il fatto che la trattenessero non era un buon segno.

Si era guardata intorno con apparente noncuranza, cercando in realtà qualcosa che potesse tornare utile. Tuttavia l’ambiente non forniva alcun vantaggio: c’erano solo un letto e un bagno in camera, nessun oggetto che potesse usare come arma e nessuna via di fuga, non che avesse sperato diversamente trovandosi in un attico.

Attese un’eternità, poi la porta si aprì. Sergej congedò la guardia, si chiuse la porta alle spalle e venne avanti con un ghigno sul volto.

«Bene, bene… eccoti qui.»

Kaylee che era su una poltrona raddrizzò la schiena. Ma non fece in tempo ad alzarsi che Sergej la bloccò al suo posto. «Dove vorresti andare, malinki

«Non lo sai che adesso appartieni a noi? Parker si credeva furbo, ma non ha ancora capito con chi ha a che fare», disse, con sguardo divertito. «Davvero strana l’idea di cederti a noi in cambio dei soldi che ci deve… non ha proprio idea di quanto poco valga una donna nel mercato della prostituzione, non è così?» 

«Io non lo so.»

«Già, ne sono certo, malinki», ridacchiò. «Ma potresti avere l’occasione di fartene una, che ne dici?» 

Senza preavviso le afferrò una coscia, costringendola ad allargarla. Fece risalire le dita lentamente, solleticandola attraverso i jeans scoloriti.

«Potrei insegnarti qualche trucchetto per guadagnare un sacco di bei soldoni, eh? Saresti una putàna davvero molto carina.»

Kaylee osservava pallida la mano di Sergej sulla sua gamba.

«Potresti anche rivelarti brava, chissà… in tal caso potrei tenerti per un po’, potresti essere la mia šljàhi», sembrava divertito da qualcosa di più del semplice piacere che doveva provare nel bullizzarla. 

Più che per un reale interessamento, continuò a dargli corda per prendere tempo. 

«Cos’è una šljàhi? Un’amante?» 

«Quasi...», mormorò, compiaciuto del suo interesse. «Significa ‘puttana’ ma originariamente si usava per le donne della nobiltà che tenevano un comportamento dissoluto e provocatorio. Anziché darti in pasto a chiunque voglia averti, potresti diventare il mio animaletto da compagnia. Ti offrirei un certo tipo di protezione, almeno.»

La sua mano era arrivata quasi all’inguine. «Che ne diresti?»

Kaylee sollevò il volto e lo fissò dritto negli occhi. «Direi che se mi volessi non potrei fare molto per oppormi».

Si avvicinò all’uomo, con la stessa lentezza che aveva impiegato lui per stuzzicarla. «La vera domanda, Sergej, è che tipo di predatore tu sia.»

Socchiuse le palpebre e piegò impercettibilmente il capo sulla spalla. «Forse… sei uno che caccia le prede più semplici?»

Aveva intenzionalmente usato il suo nome e scelto le parole per sfidarlo, non gli aveva ceduto lo spazio che con prepotenza si era preso, anzi, aveva ricambiato la piccola invasione. 

Sergej perse tutto il divertimento e corrugò la fronte.

«Quanti anni hai? Non sembri averne più di quattordici», chiese, sospettoso.

«Ne ho sedici.»

Fece una smorfia. «Non li dimostri affatto.»

Era seccato per essere stato fuorviato dal suo aspetto. Solitamente non falliva in simili valutazioni.  

«Devi essere malnutrita.»

«Forse. Una šljàhi ha diritto agli alimenti?»

Sergej scoppiò a ridere suo malgrado, lasciandosi andare sul pavimento. Si stropicciò il viso mentre esauriva con un colpo di tosse l’ilarità che quella ragazzina gli aveva suscitato.

Sicuro come la morte, quando era entrato in quella stanza si era aspettato di tutto, sicuramente molte urla e vani tentativi di sfuggirgli, ma non che lo divertisse così tanto.

Era furba, doveva riconoscerglielo. Questo però non fece che aumentare il suo interesse ad averla. In qualche modo, Kaylee si era salvata da un immediato stupro ma aveva anche alzato la posta. E Sergej non era il tipo da accettare quietamente un insulto, seppur sottile, alla sua capacità di conquistare una donna con mezzi più sofisticati della mera violenza. 

«Qual è il tuo nome, ragazzina?»

«Kaylee. Kaylee Turner.»

«Bene, Kaylee...», si mise in ginocchio davanti alla sua poltrona e con un gesto rapido la afferrò per la gola, senza stringere troppo. Quasi una carezza, solo leggermente rude. 

«Un giorno sarai mia.»

♛♚♛

Rafail Kudryashov faceva parte di un’associazione di assassini a pagamento che ultimamente aveva esteso i propri traffici anche al campo della droga.

Il gruppo, capeggiato da alcuni degli uomini più letali al mondo, aveva messo a punto una strategia che avrebbe permesso loro di inserirsi nel nuovo mercato raggiungendo in breve tempo ottimi risultati: incaricati i migliori come delegati, dotati delle giuste capacità carismatiche, erano stati inviati in diverse parti del mondo.

Kudryashov aveva il compito di imporsi e conquistare il traffico illecito di Detroit: erano arrivati da poco meno di due mesi ma era già stata eliminata la concorrenza e si accingevano a conquistare la piccola criminalità da asservire a proprio vantaggio.

Ian Parker aveva sfruttato questa coincidenza di eventi per proporsi in qualità di smerciante e realizzare in tal modo il sogno di assumere una posizione di rilievo all'interno di un’organizzazione di una certa importanza. Tuttavia, abituato com'era a muoversi nel mondo della piccola delinquenza, non aveva intuito quanto i suoi soci fossero in realtà pericolosi.

Non aveva previsto, nel suo brillante piano di fuga, che l'albergo, il quale fungeva da base operativa temporanea, fosse tenuto sotto stretto controllo e che, non appena si fosse presentato con l'inzaccherata Ford, uno degli uomini di Kudryashov si sarebbe messo alle sue calcagna: non aveva fatto in tempo a lasciare il centro città che, al comando di Rafail, era stato fermato e trascinato indietro.

Adesso si trovava al cospetto dell’uomo, il volto già illividito dalle prime percosse, a rispondere alle domande che gli venivano poste. Ansimava e sudava copiosamente, abbandonato sul pavimento in posa patetica.

Aveva detto loro tutto quanto del fallito piano di fuga, perché non sopportava nemmeno il pensiero del dolore che avrebbero potuto infliggergli.

Non sapeva di aver perso molti punti con la propria codardia: i russi potevano ammirare un nemico a terra ma che mostrasse con ardore il proprio orgoglio; quando la morte di qualcuno era già stabilita, mostrare un coraggio fuori dal comune poteva significare guadagnarsi quel rispetto necessario a volgere a proprio favore una situazione disperata; ma Ian Parker mancava di carattere e questo era forse più imperdonabile del tentativo di fregarli.

«Vi prego, vi prego...», mugolava, inghiottendo sangue dalle labbra spaccate, «giuro che vi restituirò tutto! Datemi l’ultima possibilità! Mi serve solo più tempo!»

«Hai già avuto del tempo e guarda come lo hai impiegato», constatava Rafail, allargando le braccia; non poteva proprio farci niente. Era appoggiato alla scrivania con una gamba; aveva anche tolto la giacca ed era rimasto in gilet, informale.

«E poi guarda questo...», mostrò il foglio incastrato tra indice e medio. Strabuzzò gli occhi, sbuffando, come se non potesse credere a ciò che aveva visto.

«Per curiosità, amerikanskiy, ma è questo il vostro modo di saldare un debito? Credi che per noi la pizda di una ragazzina valga qualcosa?»

«P-pensavo solo...»

«Sbagliato!», lo interruppe Rafail, secco. «Tu. non. pensavi».

Abbandonò il biglietto sul tavolo e si fregò il mento. «Altrimenti ti saresti reso conto che l’unico modo per venirne fuori fosse pagarci quanto dovuto. Ma una krysa come te non poteva capire nemmeno una cosa così semplice». Aveva concluso in tono monocorde, quasi dolce e, per questo, più terribile.

«Che cosa mi farete? Che mi farete?!», Ian si agitò, tentando di sfuggire alla presa delle guardie che lo trattenevano senza troppi sforzi. Ricevette un colpo alle costole che gli tolse il respiro e stramazzò sul pavimento.

«Fate venire la ragazza», comandò Rafail.

«Ma...». Sergej, che per tutto il tempo se n’era stato buono a osservare lo spettacolo, si oppose al comando saltando in piedi. «Non c’è bisogno di eliminare anche lei. Possiamo tenerla», suggerì nella loro madrelingua.

Rafail lo guardò con sufficienza, quasi seccato. «Sai che creerebbe solo problemi. Una ragazzina americana pronta a fuggire non appena voltiamo le spalle… e un milione di altre complicazioni che è superfluo elencare.»

«Ce l’ha offerta come un pacco regalo, Raf», disse indicando con un gesto la figura accovacciata di Ian, «e io la voglio.»

Vedendo l’indecisione degli occhi di suo cugino, continuò: «È un tipetto interessante, te l’ho detto. Fuori dal comune, diciamo.... hai visto anche tu quanto è stata coraggiosa finora, no? E poi è più grande di quanto sembri, capirà subito che restare con noi le conviene più che morire; non darà problemi.»

«Dici cose incredibili di quella bambina, ma non la conosci che da meno di un’ora», rispose scettico l’uomo.

«Perché allora non la metti alla prova tu stesso?», lo sfidò. «Dici sempre di non trovare che di rado uomini capaci di tenerti testa; quella ragazzina ha tenuto testa a me e glielo riconosco come merito.»

Rafail lo fissò corrucciato ma si arrese alla sua insistenza. «Andrò a parlarle e valuterò la tua richiesta. Ma non ti prometto niente. Se ho anche solo il sospetto che possa portare guai, la togliamo di mezzo assieme a Parker.»

Fece un cenno alla guardia a cui aveva precedentemente impartito l’ordine: sarebbe entrato da solo.

Era infastidito dal fatto che suo cugino volesse complicargli il lavoro, eppure intrigato dalle lodi tessute per quell’americana: si era accorto di quando il ragazzo si era intrufolato nella stanza intenzionato a violentarla, ma la cosa non gli importava; l’avrebbe lasciato intrattenersi un po’ per ingannare il tempo. Ma quando, col trascorrere dei minuti, non aveva sentito levarsi nemmeno il più lieve dei gemiti né le urla disperate della ragazzina, si era chiesto cosa non andasse. Poi, a sorpresa, lo aveva udito ridere al di là della parete.

Questo, più di tutto, l’aveva lasciato perplesso: oh, non era insolito suscitare l'ilarità di Sergej che, convinto com’era di essere più intelligente della maggior parte della gente, guardava con divertito disprezzo quasi tutti; tuttavia, non aveva sentito la sua risata privata del consueto scherno da non ricordava più quanto tempo.

Aveva promesso di esaminare la ragazza, così dunque avrebbe fatto, soddisfacendo al contempo la propria curiosità.

Quando entrò in camera, si aspettava di trovarla già in lacrime, il viso congestionato dall’ansia, pronta a promettergli mari e monti pur di lasciare quel luogo incolume, proprio come aveva fatto il suo patrigno: era indubbio infatti che avesse seguito tutta la conversazione attraverso il legno della porta. 

Ma non andò così.

Kaylee stava in piedi, rigida, vicino alla vetrata della camera. Teneva le braccia incrociate, strette al corpo, e gli dava le spalle. Si era accorta che qualcuno era venuto per lei e stava cercando di ricomporsi nella solita espressione di neutralità, che nascondesse completamente il suo terrore. Senza ancora voltarsi, domandò: «Siete venuti a prendermi?».

«Esatto», rispose la voce che non avrebbe potuto confondere con altre.

Kaylee a questo punto si mosse lentamente sapendo che, in qualche modo, avrebbe dovuto affrontare il signor Kudryashov: il problema era che non aveva ancora deciso come.

«Ucciderete Ian», soffiò tra le labbra, constatando un fatto inoppugnabile. 

«Anche te», disse con dolcezza Rafail, quasi paterno.

«Lo immaginavo.»

L’uomo sollevò un sopracciglio per quel tono dimesso: sembrava quasi che non le premesse la vita. Le si avvicinò con tranquillità, come se non le avesse appena annunciato l’intenzione di ucciderla. 

«E sei pronta?»

«Avete detto che Ian mi ha ceduto a voi. Perché allora volete sbarazzarvi di me? Non credete che possa tornarvi utile in alcun modo?»

Aveva evitato di rispondere direttamente alla sua domanda, ponendone un’altra.

Rafail cominciò a intuire cosa avesse tanto affascinato il cugino: non erano molte le persone che riuscivano a conservarsi fredde e lucide in simili frangenti; lei sembrava pronta a contrattare anziché pregare, e lui le diede, per la prima volta, la sua piena attenzione.

«Secondo la mia esperienza, se le persone che vengono 'cedute’ in questo tipo di trattativa non conoscono già il giogo della schiavitù, raramente si rendono utili; o comunque lo rendono difficile col loro continuo ribellarsi per riguadagnare la propria libertà. Io ho altro da fare che preoccuparmi di ricavare  un qualche guadagno da te, ragazzina…», lasciò passare qualche secondo di silenzio sospeso, prima di continuare: «Tuttavia, c'è chi si è espresso in tuo favore».

«Sergej», dedusse Kaylee.

Rafail non poté fare a meno di notare l'uso del nome; nonché del tono cupo. «Esatto.»

«Potrei offrirti a lui e farlo contento. Credo che spenderebbe delle energie per renderti inoffensiva… kak znat', magari sarà una soluzione che apprezzerai anche tu», ghignò.

«Ma per essere realmente inoffensiva servirebbe una mia collaborazione, o sbaglio? Se fossi io  stessa a proporre un accordo e vi mantenessi fede, per voi non rappresenterei più una minaccia...»

Rafail sorrise. «Tu per noi non sei una minaccia in nessun caso; al massimo, potresti arrecare fastidio, se non sapessi comportarti», disse, come parlando di un cucciolo non ancora ben addestrato a non sporcare per terra.

Kaylee pensò in fretta a quali fossero le sue alternative: non erano molte, doveva ammettere, ma tra le poche a disposizione, era necessario valutare attentamente quale le avrebbe garantito la posizione più auspicabile.

«Cosa scegli?», incalzò Rafail. «Credi che Sergej possa essere la soluzione?»

A Kaylee non serviva riflettere molto su quella domanda: aveva riconosciuto nel giovane un'attitudine a ottenere inesorabilmente quello che si prefiggeva ma, con altrettanta ineluttabilità, era chiaro come in breve qualsiasi cosa perdeva di interesse ai suoi occhi. La sua grande intelligenza doveva costringerlo a trovare sempre nuovi escamotage al tedio imperante, e Kaylee non poteva rischiare di essere solo un giocattolo da mettere da parte dopo essercisi trastullati per un po’: aveva bisogno di stabilità e di relativo potere per negoziare eventualmente in futuro.

«E lei, signor Kudryashov?»

«Io cosa?»

«Non potrebbe essere lei la migliore alternativa?»

Rafail si sorprese a ridere un'altra volta. «Non vorresti capitare nelle mie mani, devushka.»

«Perché no?», domandò.

L'uomo modificò impercettibilmente il proprio atteggiamento e le elargì uno sguardo vacuo, carico di significato.

«Io compro anime, bambina.»

La parole sussurrate con un tono roco diedero un terribile brivido a Kaylee che sentì in fondo alla sua mente il raccapriccio: qualcosa di così oscuro che, sapeva, non riusciva del tutto a comprendere. Ma quella era l’unica strada che aveva intravisto per avere salva la vita.

Venduta, ma al miglior offerente; non più padrona del proprio destino, ma nelle mani della persona che, almeno, avrebbe potuto accordarle le condizioni migliori per la sopravvivenza.

Se era solo una merce, avrebbe fatto di tutto per contrattare per il prezzo più conveniente. 

«Saresti più contenta di finirla qua. Posso darti una morte pulita», la vezzeggiò. «Posso fare in modo che tu non senta niente.»

Kaylee si permise per un momento di pensare alla tranquillità della morte: la fine di ogni affanno, un sonno eterno che l’avrebbe sottratta per sempre a ogni ulteriore sofferenza. Ma persino mentre vi rifletteva, una parte di lei non credeva che niente avrebbe potuto distruggere quel nodo di rabbia che provava sin da quando ne aveva memoria.

No, per lei, qualcosa come la serenità non esisteva, semplicemente: era una mera illusione, per poveri creduloni. Dietro quel muro di silenzio e impassibilità che aveva costruito per separarsi dal mondo e dal dolore ruggiva un fuoco di furia inestinguibile.

Kaylee odiava la sua vita, odiava Ian, odiava quella città. Era quest’odio ad alimentare le sue giornate: il motore che la spingeva ad alzarsi ogni mattina per sfidare con l’onta della sua mera esistenza tutto quanto più disprezzava.

In un istante di profonda introspezione, intuì quale fosse la strada che avrebbe potuto condurre la trattativa secondo i suoi piani: era un azzardo perché non poteva dire di conoscere Rafail, ma si affidò all’intuito che l’aveva sempre guidata.

Era un uomo di potere, abituato ad avere solo il meglio. Per lui, le persone non dovevano contare molto, dubitava la giudicasse degna di offrire alcunché per averla, ma qui stava il punto: era imperativo che aumentasse il proprio valore agli occhi di lui, spingerlo a credere che avrebbe potuto offrirgli qualcosa che non chiunque sarebbe stato in grado di dargli.

Doveva mostrare una sfrontatezza venata di sottile disprezzo che la ponesse in una condizione superiore: non un essere in ginocchio che pregava disperatamente per la propria vita, ma un’anima preziosa e rara che un collezionista come Rafail avrebbe bramato possedere.

«Cosa siete disposto a offrire per comprare la mia anima, signor Kudryashov?»

Kaylee socchiuse gli occhi e cercò di infondere alle proprie parole un’aria di sufficienza.

«Sicché, intendete venderla a me?»

«Solo se il prezzo sarà equo.»

Rafail sollevò nuovamente il sopracciglio, scettico. «Posso permettermi pressoché qualsiasi cosa. Ma tu… cos’è che mi offriresti esattamente? Prestazioni sessuali?»

Kaylee sbuffò, mostrandogli di aver capito la sua trappola. «Avete chiesto un’anima, non il mio corpo, mi pare; il che significa che sto offrendovi la mia fedeltà incondizionata. Io vi apparterrò completamente e sarete voi a stabilire cosa vorrete prendere da me, ogni volta che vi aggraderà… se vi aggraderà», specificò in ultimo, sollevando il mento e poi interrompendo il contatto visivo.

Guardò fuori dalla finestra: era ormai buio e si scorgevano dappertutto le luci della città che la facevano apparire scintillante. Naturalmente, Kaylee era cieca a quella bellezza abbacinante; l’unico motivo per cui si era voltata era che se avesse continuato a fissare l’uomo con troppa intensità gli avrebbe trasmesso con chiarezza quanto contasse quella trattativa per lei; ma distogliendo lo sguardo dava l’impressione di un leggero disinteresse: l’importante era non abbassarlo a terra, doveva solo cambiare focus.

«E cosa vorreste in cambio di questa fedeltà

«Rispetto», annunciò, spiazzando ancora una volta Rafail che mai, in un negoziato, aveva ricevuto richiesta per una simile merce. «Naturalmente, tutta la roba più ovvia: ricchezza, agio, istruzione...»

«Istruzione?», soffiò l’uomo, ironico. «Ti assicuro che “l’istruzione” non è annoverata tra la roba normale che una donna pretende da un uomo!»

Kaylee si permise un sorriso per costruire una piccola complicità. «Istruzione, dicevo… e qualsiasi cosa mi possa venire in mente per il mio personale benessere; ma tutto può essere riassunto nella mia prima richiesta: voglio rispetto.»

«’Rispetto’ può essere una parola infida… che succederebbe se tu decidessi che non ti rispetto abbastanza?»

«Voi potete fare di me quello che volete, eccetto togliermi la vita o infliggermi un dolore maggiore di quello che io, per natura, possa sopportare… se la vostra intenzione, ovviamente, sarà quella di vedermi soffrire. Devo ammettere che non mi piace il dolore e mi piacerebbe che vi astenesse se non si ritenesse proprio necessario.»

«Interessante… dunque, questo rispetto?»

«Lo voglio per la mia posizione: a prescindere da quale deciderete che sia, io mi sto dando per voi, e voi solo. Pretendo che nessuno abusi di me, nessuno mi comandi come una serva, mi usi; sarò come la regina degli scacchi; l’unico a cui mi sottometto siete voi.»

Kaylee lo fissò ancora, eliminando qualsiasi emozione, inflessione, dubbio o ansito dalla sua espressione. Era granito: non contava che avesse solo sedici anni, che fosse misera, malvestita, denutrita… Lei era la regina di scacchi. Se lo era nella mente, lo sarebbe stata nei modi e lo sarebbe conseguentemente diventata agli occhi di quell’uomo potente, da cui dipendeva tutto.

«Pretendete davvero molto», commentò Rafail dopo un lungo momento. «Essere regina significa essere l’unica: è questo che mi state chiedendo?»

Kaylee si permise di allungare mollemente una mano a sfiorargli il gilet elegante. «Conoscete il rompicapo delle otto regine, signor Kudryashov?»

«Ti riferisci a quel problema matematico... quello in cui si deve trovare un modo per posizionare otto regine nella scacchiera in modo tale che nessuna possa catturare l’altra, se ricordo bene.»

«Esatto. So che un uomo come voi non si legherebbe in modo permanente a un’insignificante donna… no, non voglio quel tipo di fedeltà da voi: vi sono subalterna, non pretenderei mai nulla che voi stesso non voleste darmi.»

«Allora cosa?»

«Come le otto regine… a nessuna dovrete mai dare il potere di mangiarmi.»

Rafail a quel punto le catturò il mento tra pollice e indice e si soffermò a studiare ogni tratto del suo viso. «Sergej mi aveva detto che hai qualcosa… ma non avevo voluto crederci. Non fino a ora.»

Lei rimase in silenzio sotto quell’esame.

«Mi hai convinto… Kaylee». Era la prima volta che pronunciava il nome della ragazza; era stato Parker a menzionarlo durante l’interrogatorio. Ovviamente, prima non era stato affatto importante, ma adesso le cose sarebbero cambiate.

«Andiamo» disse, voltandosi verso la porta.

«Dove?»

«A siglare il nostro accordo.»

Quando comparvero nell’elegante salottino, tutti si girarono a guardarli. Eccettuato Ian, che versava ancora a terra, piegato su un fianco, ansimante e sudato, nessuno suggeriva col proprio atteggiamento o nell’espressione del volto che si sarebbe presto consumato un omicidio.

Rafail sollevò nella propria la mano della sua nuova protetta, e la condusse al centro della sala, esattamente come un cavalier servente scorta una nobildonna.

Sergej ghignò soddisfatto perché aveva capito alla prima occhiata che Rafail aveva cambiato idea e che avesse invece accolto la sua richiesta. Prima che chiunque altro potesse proferire parola, si avvicinò alla coppia, le mani in tasca e disse: «Mi pare si sia arrivati a un accordo».

Il cugino assottigliò lo sguardo e rispose: «Sì, infatti, dvoyurodniy bra, ma la ragazza ha fatto un accordo con me.»

Sergej sussultò e il suo volto si oscurò mentre fissava Kaylee con disprezzo.

Lei percepì il suo sguardo, ma non volle ricambiarlo: continuava a fissare davanti a sé vacuamente. Per un lungo istante temette sarebbe esploso, ma infine il ragazzo rilasciò la tensione e decise di stare al gioco; l’avrebbe affrontato come un ulteriore ostacolo da superare per raggiungere i propri scopi.

«Ma certo… è stata furba. Non è così, Kaylee? Hai scelto di gettarti tra le fauci del capobranco.» 

Tagliò il discorso e chiese che ne dovevano fare di Parker: sentire i suoi lamenti continui gli dava il mal di testa.

Rafail si fece passare una pistola da Aleksandr e montò un silenziatore. Poi tornò dalla ragazza e gliela tese, con un gesto d’invito. 

Kaylee sgranò gli occhi, allarmata, e perdette momentaneamente la propria freddezza, mostrando sbigottimento, paura, orrore… Rafail la guardava con assoluta serietà, nelle pupille lo stesso vuoto che aveva percepito quando le aveva detto che comprava anime.

D’improvviso, dalla fredda consistenza del calcio della pistola, dalla sensazione del pavimento duro sotto ai piedi e dal colore del sangue rappreso sul naso di Ian, capì che era tutto reale.

Fissò l’arma soppesandola nel palmo, mentre il suo cuore e soprattutto la mente, venivano a patti con quanto stava per fare.

Il prezzo di un’anima. 

Vedendola impalata e pallida, Rafail la riscosse con un tono duro: «Forse ci hai ripensato?». 

Kaylee si dominò, ricomponendo anche la propria espressione. «Vuoi che lo uccida qua sulla moquette?»

Lui scrollò le spalle. «Abbiamo chi pulisce. Non faranno domande.»

Ostentando una determinazione che era lungi dal provare, avanzò fino a stare davanti a Ian. 

Questi si era sollevato in ginocchio, gli occhi strabuzzati in un’espressione di puro orrore. 

Rise, non potendo credere ai propri occhi. «Kay, che fai? Non vorrai farmi fuori? No… non ne avresti il coraggio, vero, piccola?»

La voce era supplichevole e ridotta, una grottesca imitazione del suono vezzoso che gli adulti usano per blandire i bambini: un tono che con lei non aveva mai usato.

Kaylee rivide in flash quell’uomo che tirava per i capelli Maya e la trascinava nella camera da letto, mentre lei piangeva in un angolo del piccolo salotto; risentiva il freddo che le aveva congelato le dita dei piedi mentre lo attendeva in un vicolo buio perché doveva recuperare un po’ di roba; lo specchietto che aveva rotto con un pugno, appena prima di colpirla; udì di nuovo le sue risate quando un suo socio, ubriaco, aveva provato a violentarla e lei, spaventata, aveva gridato.

Quei pensieri fluirono fuori, svuotandola.

Sollevò il braccio armato, la mente vuota: non udì le parole dell’uomo che si erano d’improvviso trasformate in terribili insulti. Si accorse solo del silenzio che seguì all’impercettibile rumore sordo dello sparo; lo stesso silenzio attonito che regnava dentro di lei.

“Dunque è questo il vuoto che si sente, quando non si ha più un’anima”, pensò in un frangente.

Rafail si avvicinò e le tolse la pistola, consegnandola a uno dei suoi uomini. Si sfilò un anello che portava all’anulare, e lo infilò al suo pollice, piegandosi poi a baciarlo, da perfetto gentiluomo.

Kaylee scorse il piccolo monile, sorprendentemente aggraziato per appartenere a un uomo: era placcato in oro all’interno e completamente nero all’esterno; dalla semplice fascia nera protrudevano come una corona, alternandosi, le teste del re e della regina degli scacchi. 

«Non poteva essere più adatto alla situazione», commentò Rafail, mentre lei studiava il gioiello; sorrideva perversamente, eccitato come non lo era da tempo immemore di avere acquisito una piccola anima rara.

«Hai chiesto di essere la mia regina...», sussurrò, vicino al suo viso.

Kaylee riportò gli occhi annebbiati sul cadavere mentre la pozza di sangue si allargava sulla moquette zebrata.

«Adesso sarai la mia regina nera.»

 

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AGGIORNAMENTO DEL 31/08/2020: Ho pubblicato una shot su Kaylee e Sergej che si posizione tra il primo e il secondo capitolo. Se sei curioso, leggi  La regina nera: La promessa che ti ho fatto
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GLOSSARIO (In ordine di comparsa):
Этот мудак!, Etot mudak = Quel coglione!;
маленький, Malinki = Piccola;
шляхи, šljàhi = Nobil donna di facili costumi, disprezzata agli occhi della società russa. Si tratta di un gioco di parole con la parola шлюха, šljùha = puttana;
американский, Amerikanskiy = Americano;
пизда, Pizdà = Figa;
крыса, Krysa = Ratto;
kak znat’ = Chissà;
девушка, Devushka = Ragazza;
двоюродный брат, Dvoyurodniy brat = Cugino;
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NOTE:
Storia partecipante al Contest "Patti oscuri, alleanze di ferro e promesse vincolanti" indetto da Shilyss sul forum di EFP.
Pacchetto scelto: Patti oscuri o patto di perdizione. (Tentativo di ribellione + scena di notte)
Bonus A: Anello
Bonus B: Il patto non viene rispettato
Link al contest: *CLICK*

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


AVVISO: Questo capitolo può contenere un linguaggio crudo

 

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AGGIORNAMENTO DEL 31/08/2020: Ho pubblicato una shot su Kaylee e Sergej che si posizione tra il primo e il secondo capitolo. Se sei curioso, leggi  La regina nera: La promessa che ti ho fatto
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Capitolo II

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I contorni dell’incubo si fecero sfumati mentre Kaylee si svegliava tremando, in un bagno di sudore. Qualcuno l’aveva toccata: si accorse della piccola mano posata sul suo avambraccio e sollevò gli occhi a fissare quelli scuri e seri di un bambino di non più di cinque anni. Per un momento tentò di ricordare il suo nome, sebbene lo conoscesse piuttosto bene, ma il terrore che le aveva lasciato addosso il sogno lottava contro la lucidità che ritornava.

«Gabriel», sussurrò, «che ci fai qua?»

«Hai gridato e sono venuto» spiegò in breve il piccoletto. «Era il mostro?»

Kaylee si tirò su e scosse la testa, scostandosi dal collo i capelli incollati alla pelle. «Non quel tipo di mostro… ma tu? Non dormivi?»

Gabriel fece una smorfia.

«Ti va di stare un po’ qui con me? Ci facciamo compagnia.»

Il bambino si arrampicò sul letto, l’espressione sollevata. Kaylee se lo sistemò vicino, cingendo con un braccio il piccolo corpo. Si accorse che tremava leggermente. «Anche tu hai fatto un brutto sogno?» lo interrogò lisciandogli i capelli e accarezzando leggermente una guancia. Lui annuì.

«C’era… c’era il signore cattivo e faceva del male al mio papà e… n-non potevo fare niente.»

«Shh...» lo tranquillizzò, «sai che non può farti nulla. Ti proteggerò io, Gabe.»

«Ma...»

«Nessun ‘ma’... fai quello che ti dico e ti terrò al sicuro.»

«Voglio il mio papà», piagnucolò.

Kaylee immaginò come poteva essere avere qualcuno da amare e da cui essere protetti senza condizioni. «Lo so, Gabe. Vedrai che lo rivedrai presto. Adesso cerca di dormire.»

Gli baciò la fronte e nel buio cominciò ad ascoltare il respiro sempre più regolare e tenue del bambino che sognava la sua casa. Gabriel era figlio di Pablo Gutierrez, un trafficante argentino che aveva dato alcuni problemi a Rafail: circa due mesi prima, quindi, era stato rapito per tenere suo padre in pugno. Kaylee si era ritrovata ad accudirlo e provava per quel piccoletto sentimenti di tenerezza e protezione che non aveva mai conosciuto per nessuno.

Ricordava ancora quando era arrivato alla villa pallido e tremante, stringendo convulsamente un orsetto. Dovevano averlo preso di notte, dal suo letto. Uno degli uomini di Rafe l’aveva mollato nell’ingresso senza perderlo d’occhio. Rafail, vedendola in cima alle scale,  le aveva rivolto un sorriso storto. «Perdona la mancanza di preavviso, mia cara. Ti ho portato un cucciolo», aveva annunciato ilare. 

Aveva ancora addosso la sua tenuta da combattimento, quella che indossava sempre quando partecipava a qualche incursione coi suoi uomini. Si era avvicinato slacciandosi il giubbotto antiproiettile, apprezzando con un’occhiata la leggera sottoveste che indossava, prima di baciarla. Kaylee aveva percepito su di lui l’odore di sudore, e sotto quello della sua pelle, e si era lasciata trascinare a contatto del suo corpo che emanava una particolare vibrazione. Vibrazione che gli trasmise spudoratamente con un massaggio un po’ rude dei fianchi. 

«Occupati del bambino. Ti aspetto di sopra». E lei si era avvicinata a quell’esserino smorto che aveva sussultato quando gli aveva rivolto con gentilezza la parola. 

C’era voluto un po’ di tempo prima che riuscisse a calmarlo abbastanza da fargli dire il suo nome; continuava a portare gli occhi nella direzione da cui era salito Rafail, chiaramente temendo il suo ritorno: dopotutto, era il ‘mostro’ che l’aveva trascinato giù dal letto e lontano dalla protezione della propria casa e della famiglia. Gli aveva dato da bere un po’ di latte con un leggero sedativo, prima di sistemarlo in una camera vicina alla sua e lasciarlo alla custodia di una delle cameriere della magione. Poi era tornata da Rafail.

Mentre rifletteva su tutto questo, la porta si schiuse facendo penetrare un raggio di luce che l’abbagliò; tutto tornò buio quando venne richiusa e percepì passi felpati avvicinarsi al letto. Lei si scostò da Gabriel, il corpo teso in avanti a protezione del piccolo contro “l’uomo cattivo”. 

Rafail grugnì leggermente infastidito. «Non avevo pensato che l’avresti avuto sempre appiccicato addosso quando l’ho portato», commentò. «Non sono sicuro che la cosa mi piaccia.»

Kaylee lo blandì: «Non sei certo in competizione con lui per le mie attenzioni».

Rafail fissò per un momento la sagoma immobile dall’altro lato del letto, poi le afferrò una spalla spingendola e sussurrandole all’orecchio: «Hai ragione. Non sono in competizione con nessuno, perché tu mi appartieni». 

Avrebbe dimostrato coi fatti che poteva fare di lei ciò che voleva. La schiacciò quindi sulle coperte, scivolandole tra le gambe e in pochi secondi la penetrò con foga. Kaylee soffocò un gemito sulla sua spalla: non voleva rischiare che il bambino, svegliandosi, li sorprendesse.

Il fiato di Rafail sulla sua guancia sapeva di whisky mentre il suo odore era quello del dopobarba. Si mosse con la consueta sicurezza di ottenere ciò che voleva, ma c’era nella forza delle sue spinte qualcosa che Kaylee non sapeva definire: stava marcando il territorio. Non ci volle molto tempo prima che lei rispondesse contraendosi, nonostante la situazione, e poco di più prima di sentire in profondità il calore del seme versato tra gli spasmi dell’uomo. Prendendo dei brevi respiri si tirò fuori e si sedette sul letto, riallacciandosi i pantaloni. Kaylee rabbrividì intimamente al contatto dell’aria fresca sul sesso caldo e lo toccò sulla spalla, richiamandone l’attenzione.

«Hai fatto piuttosto tardi» disse mentre tornava a respirare normalmente.

Rafail si passò una mano tra i capelli e si voltò a guardarla. «Sì, ma abbiamo concluso l’affare a Dallas.»

Ne fu sorpresa. «Devi essere contento allora… ha richiesto più tempo di quanto avevi previsto all’inizio, no?»

Lui sbuffò. «Niente che non avessi messo in conto, in realtà. Ma è fastidioso dover risolvere i problemi che creano gli incompetenti». Rafail non sopportava gli incapaci: era solito guardare chi era meno intelligente di lui con rassegnazione, perché da tempo aveva capito che non avrebbe potuto evitare la noia di attendere che le persone arrivassero alle conclusioni che lui aveva già tratto; ma pur tollerando l’idea di essere circondato da gente non troppo brillante, tuttavia, non soffriva di avere a che fare quozienti intellettivi persino al di sotto della media. Era rigido negli affari: raramente lasciava spazio di manovra alla controparte, arrivando anche ad adottare misure estreme, come il rapimento.

Kaylee percepì un ansito alle sue spalle e voltandosi vide Gabriel agitarsi per un sogno che lo turbava. «Lo riporto in camera», disse.

Alzandosi, andò dall’altra parte del letto e si chinò sul bambino, sussurrandogli rassicurazioni e sollevandolo al contempo in braccio, nonostante il peso. Gabriel aveva un velo di sudore sulla nuca e lei lo baciò di nuovo. 

Sulla porta che separava la sua camera da quella del bimbo, Rafail la fermò. 

«Ho dimenticato di dirti che a breve Sergej sarà di ritorno.»

L'osservò assorbire l’inaspettata notizia, mentre cercava di valutarne le implicazioni. Kaylee tentò di sciogliere la tensione sulle spalle senza riuscirci del tutto. 

«Farò preparare una camera per lui allora», rispose sparendo dietro la porta.

♛♚♛   

Il quartier generale di Rafail aveva lo stesso maestoso aspetto di sempre: a una decina di chilometri dalla città di Mosca, sorgeva l’abitazione di duemila metri quadri su un terreno di quasi seimila, che si affacciava su uno splendido lago. La struttura in mattoni chiari era un composto armonico di scalinate, balconi e finestre su un’altezza di tre piani, fino al tetto scuro punteggiato da guglie che ne delimitavano il profilo.

Sergej era fermo sul giardino di fronte l’entrata: aveva attraversato i controlli al cancello senza alcun problema, ovviamente... del resto, era cresciuto in quel posto. Tuttavia non si decideva ancora a entrare. “Tutto questo è ridicolo!”, pensava irritato con se stesso. “Questa è più casa mia che sua!”. Fissava le finestre per percepire qualche movimento all’interno dell’abitazione, ma tutto sembrava tranquillo. Sospirò, arrendendosi all’inevitabile, e si diresse verso la porta. 

Non aveva messo piede alla villa da più di due anni: solo tre anni prima erano tornati dall’America in pianta stabile: gli affari andavano tanto bene da permettere di lasciarne la gestione dei centri maggiori a personale di fiducia. 

Non essendo costretti a vigilare costantemente sull’andamento delle cose, la Belaya Smert aveva permesso loro di ritirarsi. Per la precisione, Rafail stesso si era autorizzato: asceso all’elite del gruppo, grazie ai proventi dei progetti che aveva portato avanti con tanta solerzia, ora poteva fare ciò che più gli aggradava. Ma Sergej conosceva bene il cugino: sapeva che non avrebbe rinunciato all’azione per nulla al mondo. L’esercizio del potere, del resto, era una delle poche cose che riuscissero ad appassionare un uomo come lui. Dunque erano tornati alla casa paterna, a Mosca, con Kaylee la quale, nel frattempo, aveva finito il liceo e si apprestava a entrare all’università in Russia.

Il pensiero della ragazza gli strinse un nodo allo stomaco, come di consueto. 

Sergej colpì lo stipite della porta, contrariato che quella donna avesse un simile potere su di lui, dopo tutti quegli anni. 

All'inizio aveva provato il brivido della sfida: era una ragazzina magrolina ma con un carattere di ferro che si scorgeva attraverso gli occhi caparbi. Aveva anche tentato di spaventarla, cercando di portarsela a letto appena dieci minuti dopo il loro primo incontro. Era stata fin troppo furba nello sfidarlo a metterle le mani addosso, dimostrando l’autocontrollo di un bruto, per poi vendersi al cugino e conquistare una posizione da cui non avrebbe più potuto essere toccata. E toccarla lo aveva desiderato davvero, ogni giorno, con sempre più forza. 

Oh, era bastato poco per far fiorire da lei una sobria bellezza: un po’ di cibo, una relativa stabilità e abiti migliori… e d’un tratto la sua figura si era ammorbidita, mostrandone tutta la grazia. Non era bella in modo classico: non aveva tratti speciali o colori di tonalità esotiche, eppure i piccoli seni e la pelle morbida gli mettevano il fuoco addosso. Poi c’era il suo atteggiamento: freddamente vagliava il mondo giudicandolo e misurandone gli elementi che potevano tornare utili, mentre ergeva un muro di silenzio.

Sergej si era trovato ben presto a chiedersi che cosa celasse al di là: cosa pensava quando lo guardava? E quando stava con Rafail, o lui la portava a letto? 

Poteva solo immaginare di vederla rabbrividire in preda all’orgasmo, l'espressione finalmente turbata, il respiro rotto… “Vot der'mo!” Doveva assolutamente tenere sotto controllo i propri istinti. Non poteva ridursi a scappare di nuovo, come aveva fatto un paio d’anni prima, quando la tensione dentro di lui era arrivata al punto che l’avrebbe aggredita, pur di averla.

Rafail doveva essersi accorto del tormento che stava vivendo: a quell’uomo di rado sfuggiva qualcosa, ma non si era preoccupato di intervenire in alcun modo; anzi, c’era una buona probabilità che l’intera situazione lo divertisse, tanto da stare a vedere se crollava.

Era sicuramente contento di possedere Kaylee perché si era rivelata davvero un acquisto interessante e, per di più, riusciva anche a tormentare l’intelligente e vanesio parente. 

Sergej non si faceva illusioni al riguardo: poteva darsi che Rafail godesse nel vederlo preda del desiderio per lei, ma se l’avesse toccata gliel’avrebbe fatta pagare cara. É la natura stessa del potere a esigerlo: si può mostrare ciò che si possiede per scatenare la sete altrui, ma al contempo bisogna impedirne l’accesso a tutti. 

Adesso l'affare a Dallas era concluso e non poteva rimandare oltre il ritorno all'ovile.

«Ti dico che c'è un uomo qui fuori!»

Sergej sobbalzò nel sentire la voce di un bambino vicino l'ingresso.

«Sta fermo senza fare niente.»

«Gabe, sarà uno dei giardinieri, lascia stare… andiamo piuttosto a farci un panino, che ne dici?»

«Ma io non l'ho mai visto! Dici che è uno  nuovo?»

La tentazione del panino non aveva vinto la curiosità.

«È possibile. Lo sai che la casa è grande.»

D'improvviso gli venne in mente che il bambino Gabe doveva essere Gabriel Gutierrez: alcune settimane prima Rafail gli aveva accennato di avere preso in custodia il figlio del trafficante argentino, suo noto rivale. Ad attrarre la sua attenzione però fu sentire il suono della voce di Kaylee con una nota insolitamente calda, persino allegra. 

La porta si aprì rivelando la figura di un bimbetto smilzo e scuro ma dai vivaci occhi verdi.

«Sei il nuovo giardiniere?», chiese, studiandolo.

«No» rispose. «Sono il padrone di casa. Fammi passare.»

Ma il bambino non si spostò di un centimetro. «Io conosco il padrone di casa: i-il signor Rafail», annunciò deciso, pur oscurandosi al pensiero di quell'uomo. «Non puoi essere tu il padrone», concluse con logica.

«Invece sì. Rafail è mio cugino, nanerottolo. Spostati.»

Avanzò con decisione lasciando all’altro di scegliere se essere travolto o se spostarsi. Il bambino scelse saggiamente: si scostò appena in tempo, rivolgendosi verso Kaylee, dalla quale cercava appoggio e protezione.

Era rimasta alle sue spalle per tutto il tempo, riconoscendo la voce dell'uomo alla porta, ed era rimasta indecisa su cosa fare. Aveva di nuovo le spalle tese ma non poteva negare che la situazione fosse divertente: Sergej alle prese con un bambino col quale si contendeva il territorio. Quell'idea le fece piegare le labbra in un sorriso, che si congelò quando l'uomo, avanzando, le fu di fronte.

«Ecco la reginetta della casa», disse Sergej fissandola col consueto scherno.

«Quale sarebbe di conseguenza il tuo titolo? Il principe  ereditario?»

Sergej grugnì in un modo che lo rendeva pericolosamente simile al cugino. «Avrei davvero belle gatte da pelare a ereditare te, Lee.»

La ragazza rabbrividì al pensiero di cosa avrebbe potuto farle se gli fosse appartenuta: anni di acrimonia e desiderio negato avrebbero potuto esplodere con effetti devastanti per entrambi. Kaylee non ebbe il tempo di pensare a una risposta da dargli perché Gabriel la strattonò per una manica, chiedendo con insistenza il panino promesso.

«Va bene, va bene… adesso andiamo a mangiare. Vai da Marta e dille di tirare fuori i condimenti.»

Gabriel, dopo un'ultima occhiata al nuovo arrivato, corse via.

Kaylee tornò alla conversazione. «Ti ho fatto preparare una stanza di sopra.»

Lui sollevò un sopracciglio. «Non mi avrai sistemato accanto alla camera padronale, voglio sperare.»

«No. Ti ho messo in stanza con Gabriel.»

«CHE COSA?!», gridò allarmato. Quando vide le spalle di Lee tremare da risate appena trattenute, si rese conto dello scherzo. Perplesso e spiazzato, sbuffò, agitandosi sul posto. 

Alla fine sorrise lui pure. 

«Se volevi che mi sbarazzassi del moccioso, dovevi solo chiedere, devushka.»

«Gabriel non si tocca», rispose secca, ma sollevata di essere riuscita a rompere il ghiaccio. Magari avrebbero potuto trovare un modo per superare i loro contrasti. 

«Vieni, ti accompagno sopra.»

Mentre percorrevano i corridoi familiari, Sergej si accorse che erano stati apportati diversi cambiamenti: dovevano essere opera della ragazza. Arrivarono alla porta della camera che gli avevano destinato, della sua vecchia stanza non c’era più traccia. Entrando, lasciò cadere per terra il pesante borsone e si guardò intorno. Era tutto piuttosto semplice, ma raffinato: i colori scuri coordinati tra loro. 

Pensava che Kaylee se ne fosse andata silenziosamente, come era solita fare, ma si accorse che invece era entrata: gli stava persino indicando dove avesse fatto sistemare i vari articoli di toeletta, pantofole e accappatoi compresi. Rifletté sul fatto che era cambiata: che fosse semplicemente l’età o l’effetto della lontananza, c’era qualcosa di diverso.

L’osservò muoversi da perfetta padrona di casa nella sua camicetta azzurro pallido e la gonna al ginocchio beige, da donna morigerata. Le fissò la vena azzurrina sul collo, lì dove una ciocca dei capelli scuri la sfiorava. Adesso che gli si era fatta vicina, riuscì a percepire persino il suo odore di fresia.

Kaylee sollevò lo sguardo su di lui con un’espressione interrogativa. Sergej pensò che probabilmente si aspettava una risposta su quanto gli aveva illustrato, ma lui era preda di una sete potente quanto improvvisa, che l’aveva paralizzato.

«O bozhe...», soffiò tra i denti.

La ragazza si accorse della tensione nei suoi lineamenti. Sbatté le palpebre, tentando di rompere la tensione che si era creata. I suoi occhi scivolarono verso la porta, indecisa se scappare all’istante. Doveva continuare a fingere ignoranza? In passato aveva adottato questa strategia con ben poco successo: l’attrito tra loro si era solo esasperato. Dire qualcosa avrebbe potuto aiutare?

Sergej si era aspettato di vederla guadagnare la porta: l’aveva sorpresa a sbirciarla. 

Lei non si mosse, così allungò una mano posandole le dita alla base del collo, appena sopra la clavicola. Percepì il battito accelerare e vide le sue pupille dilatarsi: chissà, forse per la paura. 

Apprezzò il calore e la sericità della pelle, facendo scorrere il palmo lungo la giugulare, fino a circondarle la nuca. Si chinò su di lei senza spezzare il contatto visivo, i loro respiri che si mescolavano nei pochi centimetri che li separavano.

Sergej corrugò la fronte, socchiudendo le palpebre: le stava silenziosamente chiedendo il permesso. 

Kaylee si rendeva conto di trovarsi a un’impasse perché se da un lato una inaspettata voglia di abbandonarsi tra le sue braccia si stava facendo largo con prepotenza dentro di lei, dall’altro, non poteva dimenticare di appartenere a Rafail: qualsiasi contatto proibito avrebbe potuto avere conseguenze gravissime, non ultima quella di perdere la propria posizione. Nondimeno, non c’era solo questo a farla titubare: anche Sergej sarebbe stato in pericolo. Rafail, infatti, non avrebbe tollerato nemmeno dal proprio sangue una sfida alla propria autorità.

Sergej era sul punto di lambirle le labbra, ma Kaylee poggiò le dita sulla sua bocca, impedendogli di andare oltre.

«Perché mi fermi?», le chiese con voce roca.

«Lo sai il perché», rispose, respirando il suo fiato.

La grande mano calda di Sergej si tese, poi scivolò pian piano verso il basso, carezzando spalla e braccio, fino a fermarsi sul polso. Lo circondò senza intrappolarlo, mentre col pollice prese a disegnare lenti cerchi. Era riluttante a interrompere il contatto, nonostante il bacio negato. Serrò gli occhi con forza, tentando di dominare il proprio desiderio.

«Come farò a stare in questa casa?», domandò a se stesso. 

Contrasse la mascella e la fissò di nuovo. «Pensavo saresti scappata.»

«Non credo si possa più fare finta di niente. Me ne rendo conto, però...», si interruppe per osservare le loro mani unite, sospese nello spazio tra i loro corpi.

«Però cosa?»

«Vorrei che non litigassimo per ogni cosa.»

Sergej sorrise senza umorismo: avrebbe voluto dirle che, quantomeno, ora che aveva riconosciuto il suo desiderio, anziché fingere che non esistesse, sarebbe potuto essere più facile per lui, ma si rese conto che quella situazione era nuova per entrambi e che non potevano prevedere quali sarebbero state le loro reazioni. 

Le sfiorò il dorso della mano con un piccolo bacio, che le fece correre dei brividi lungo la schiena, tanto giunse inaspettato, e rispose: «Si potrebbe tentare».

♛♚♛  

Le prime settimane passarono in relativa tranquillità. Kaylee e Sergej avevano trovano un certo equilibrio, per quanto entrambi fossero consapevoli della sua precarietà, ma era altresì certo che non potessero fare di meglio.

Rafail aveva accolto la nuova situazione apparentemente con lo stesso atteggiamento impassibile con cui aveva tollerato, negli anni passati, il loro antagonismo: tuttavia, quando doveva assentarsi per le sue missioni, non lasciava il letto di Kaylee prima di avere affermato con irruenza il proprio dominio sul suo corpo.

Era ormai pieno inverno e la luce cominciava a morire mentre Kaylee studiava in biblioteca. Gabriel stava facendo un sonnellino pomeridiano nel salottino limitrofo, da dove poteva raggiungerla facilmente. Seppur ancora sofferente a causa del rapimento, non aveva quasi più incubi durante la notte. 

Kaylee sollevò il capo dal testo di economia internazionale e si perse nei propri pensieri, contemplando lo spettacolo mozzafiato del paesaggio fuori dalla grande vetrata, dalla quale si scorgeva un mondo incantato, placidamente vivo nel candore della neve che ricopriva ogni cosa. Osservava gli aghi dei pini di un verde smorzato sotto al bianco del ghiaccio e immaginava di vivere quel momento per sempre.

Il contrasto tra il gelido scenario e il calore del camino alle sue spalle le dava brividi di beatitudine: sentiva ristorarsi il proprio spirito, provato e inaridito da anni di vita vissuta a metà.

Kaylee aveva ottenuto esattamente quello che si era prefissa, guadagnando comfort, sicurezza e persino quel rispetto che aveva preteso dal patto con Rafail, ma da allora aveva attraversato l'esistenza come in sonnambulismo: l'anima, piagata dai peccati che si accumulavano, languiva dentro il suo cuore, accusandola giorno e notte per le atrocità che non solo aveva commesso, ma che aveva anche tacitamente accettato. Quei brevi momenti di pace erano perciò preziosi come gocce di rugiada nel deserto dell’anima.

Credendo vuota la biblioteca, Sergej aprì la porta scorrevole. Quando si accorse che Kaylee era lì pensò di ritirarsi silenziosamente trovarsi soli non era raccomandabile, soprattutto perché Rafail era fuori per un affare in Argentina ma si bloccò, scorgendo un luccichio sul profilo della sua guancia. 

Ristette, assalito dalla curiosità e da un'emozione più profonda che non riusciva a definire. Percepiva una stretta al petto, era turbato da quelle lacrime e preoccupato del motivo che le aveva provocate.

Tutta la sua figura era composta: se non fosse stato per quel pianto, dubitava si sarebbe mai accorto che qualcosa non andava. Desiderava avvicinarsi, prenderla tra le braccia e baciarle via i lucciconi… ma sapeva che sarebbe stato respinto.

Del resto, aveva ragione lei: era troppo rischioso giocare col fuoco, solo per tentare di vincere una sfida che gli aveva lanciato sei anni prima. Si ripeteva che era da sciocchi attaccarsi con tale insistenza al proprio orgoglio, che doveva sforzarsi di abbandonare ogni pensiero che la riguardava ma ne era attratto in maniera viscerale. 

Non capiva perché funzionasse in quel modo: nessuna donna lo aveva mai tenuto in un simile assoggettamento. Poi, un infido sospetto gli si impose nella mente: una parola, che aveva sempre disprezzato, fece capolino, facendosi beffe di lui.

“Possibile?”, si domandò inebetito. Ebbe un moto di naturale ribellione, quasi volesse respingere quella possibilità, ma era come affondare le mani in un muro di nebbia: l’inquietante ipotesi permaneva, tanto da essere costretto, suo malgrado, a considerarla.

“Possibile?!”, ripeteva.

Era un sentimento che non aveva mai compreso, qualcosa di cui ridere, che non avrebbe mai potuto vincere una mente superiore come la sua. Aveva canzonato colleghi e sottoposti, sfruttato in ogni modo quella comune debolezza contro i nemici, pur di ottenere ciò che voleva e avere successo. 

Com’era possibile, dunque, che adesso si trovasse davanti a uno specchio che gli restituiva un’immagine di se stesso tanto distorta da non parere più nemmeno la propria?

Erano considerazioni, queste, tanto più spaventose e allarmanti quanto più lo esponevano a una vulnerabilità sconosciuta. Si dominò semplicemente perché non poteva tollerare di mostrarsi meno che sicuro.

Con caparbietà avanzò nella biblioteca, fiocamente illuminata, per testare la sua presunta forza.

«Perché piangi?», chiese a bruciapelo, cogliendo Kaylee di sorpresa.

Con un sussulto, si accorse che Sergej la fissava serio. Automaticamente portò una mano sul viso per cancellare le prove della sua momentanea debolezza, ma non riuscì a formulare una risposta.

Scrollò le spalle, lasciando che il silenzio dicesse per lei quanto poco fosse disposta a discutere la faccenda.

Sergej si era avvicinato e seduto sul bordo dell’enorme scrivania, proprio al suo fianco.

La scrutava dall’alto, e fu irritato di vederla chiudersi nel suo guscio. Non era certo una novità per lui, ma stava affrontando una tempesta emotiva, e sentirsi tagliare fuori l’ennesima volta istigò la vecchia violenza. La spinse bruscamente sullo schienale della poltrona, bloccandole le spalle. 

Kaylee spalancò gli occhi.

«Rispondimi», le ingiunse seccamente.

«Cosa vuoi che ti dica?», domandò con una punta di esasperazione nella voce.

Rinserrò la presa, facendole un po’ male. «No. Non voglio una risposta a modino che ti cavi come al solito dagli impicci, chert voz'mi! ». In un angolo della sua testa, capì che spaventarla non sarebbe servito se non a ottenere l’effetto opposto, ma era furente, quindi la lasciò andare senza però smorzare il tono della voce. 

«Sei un muro impenetrabile: questo ha sempre reso le cose piuttosto interessanti, complimenti! Ma è anche decisamente snervante! Non capisco mai quello che pensi… chi sei tu veramente?» le chiese sospettoso. «A volte guardi il mondo con gli occhi di un robot e sei imprevedibile: non riesco mai a capire cosa pensi realmente delle persone… e io non sono abituato a non capire, yebat'! »

Kaylee ascoltò il suo sfogo divisa tra sbalordimento e disappunto. 

Si alzò in piedi per fronteggiarlo quando gli rispose a tono: «Ah, tu non capisci?! Non capisci?!  Ma certo che non capisci… stupido!»

L’insulto le esplose sulle labbra, non più trattenuto. 

Aveva le guance paonazze, non abituata com’era a mostrare le emozioni più violente, tuttavia quella sera era stata presa in contropiede: le settimane passate nella costante tensione per la presenza di quell’uomo così irritante tanto vicino, senza che potesse dare un nome al proprio turbamento interiore, l’avevano logorata; o forse era stata la domanda troppo intima che le aveva posto, troppo vicina al nocciolo di tutto quanto fondava la sua costante disperazione, a destabilizzarla tanto.

«Dici che non vuoi una risposta a modino, ma cosa vuoi veramente? Perché ti interessa sapere certe cose?»

«Perché a te interessa invece non farle sapere?», le rigirò la domanda, nel tentativo di vincere quella gara di logica.

Lei lo schernì con un verso. «Ma che razza di domanda! Tu sei il nemico, Sergej. Davvero non ci arrivi?»

«Il nemico?», ripeté, spiazzato. «Credevo che ormai fossi diventata una di noi, o non è così? Trami forse alle nostre spalle?»

«Per essere una persona intelligente, fai delle domande veramente sciocche...», sbottò esasperata. 

«Sei tu che dici delle cose senza senso!»

«Niente affatto, cavolo! Perché non ci pensi?», gli chiese, spintonandolo con un breve colpo per fare entrare di forza la risposta in quella mente cocciuta. 

«Voi mi avete comprato! Io mi sono venduta a Rafail con un patto! Credi che non sappia che genere di uomo sia lui? O che genere di persona sia tu?!», ansimò con le lacrime agli occhi. «Siete uomini pericolosi, volete potere su tutti: a gente come voi non interessa conoscere il contenuto dei pensieri di chi vi sta attorno, se non per prevederne le mosse nel corso di una trattativa; a voi non interessa nessuno che non sia in grado di mantenere desto il divertimento, o di rendersi utile in qualsiasi modo!»

Sergej era ammutolito e affascinato da quello sfogo così singolare: per la prima volta scorgeva un frammento dei suoi pensieri, valicava la barriera inespugnabile della sua impassibilità. Ma prima che riuscisse a dire alcunché, lei continuò, la voce ridotta a un sussurro.

«Sei il nemico», ripeteva, rabbuiata. «Nel momento in cui mi conoscessi tutta, non sarei più nulla ai tuoi occhi… e diventerei eliminabile.»

Sergej si rese conto della verità di quelle parole: forse adesso le cose erano cambiate, ma non poteva negare che era sempre stato così. Gli enigmi lo entusiasmavano, ma una volta risolti, il suo interesse evaporava come acqua al sole. Se lei non si fosse mostrata così tenace, l’avrebbe avuta una notte magari due e poi l’avrebbe gettata via, come aveva fatto con molte altre donne prima. 

Erano stati il tempo, l’esasperazione e un gioco all’altezza del migliore degli strateghi ad avere creato le condizioni per un’ossessione prima, per una cocente curiosità poi. 

A cosa aveva portato tutto questo? Ne era innamorato? Certo, guardandola sentiva con forza il desiderio, la curiosità… persino la voglia di vincerla, però non voleva più spezzarla; al contrario, anelava ad andare più a fondo nella sua anima, per comprenderla.

Non poteva credere di pensarlo veramente, ma voleva ottenere la sua fiducia.

«Non voglio eliminarti», disse, placato.

Lei lo fissò scettica. «Non hai mai potuto soffrirmi.»

Sergej sorrise. «Questo perché eri troppo testarda.»

«No… è perché non tolleravi di perdere la partita: “un giorno sarai mia”», scimmiottò. «Dovevi realizzare quelle parole a ogni costo, o sbaglio?»

«Te ne ricordi ancora, eh?», mormorò, apertamente divertito.

«Tendo a non scordare le minacce che mi si rivolgono, sai? Questo tipo di memoria serve a tenerti in vita.»

«Touché», ridacchiò. 

«Tu che ammetti una sconfitta?»

«Solo per questa volta… anche se devo dire che sbagli su una cosa.»

«Cioè?»

«Non sono il nemico. Non più, almeno.»

Le portò i capelli dietro le spalle, e prese a sfregarle leggermente le braccia coi palmi, su e giù, come per trasmetterle tranquillità. 

«Non intendo distruggerti se mi mostri quello che provi e se ti riveli più umana di quello che sembri. Prometto di rispettare la tua vulnerabilità, d’accordo?»

Kaylee era confusa, ma fece cenno di sì col capo. Lui la trascinò vicino al suo corpo per depositarle un bacio leggero sulla fronte e poi sulla sommità delle guance, lì dove aveva desiderato asciugarle il pianto poco prima.

L’abbracciò strettamente, respirando l’odore dei suoi capelli e assaggiando la pelle tenera sotto l’orecchio. Kaylee si tese come una corda, arrossendo e rabbrividendo suo malgrado, ma trovando estremamente confortevole quel calore: lei che non era mai stata abbracciata, si ritrovò a tremare mentre teneva il viso premuto sul petto e ne respirava a sua volta l’odore di uomo.

Le sfuggì un piccolo gemito che si trasmise con velocità sorprendente al suo uccello, facendolo irrigidire con uno spasmo. 

Sergej non resistette oltre e si chinò a baciarla. Trovò le labbra già socchiuse, il respiro caldo che si infrangeva sui suoi denti: l’assaggiò e prese un piccolo morso, per poi tornare di nuovo ad assaporarla.

Aveva un gusto dolce, di mele, che gli fece venire l’acquolina in bocca e la tentazione di approfondire ulteriormente quel bacio.

Kaylee non lo stava respingendo, tutt'altro: aveva portato le braccia al collo, carezzandolo sulla nuca e graffiandolo fino a strappargli degli ansiti. 

Quando le strinse una mano sul seno dovette scostare il viso dal suo, presa da una violenta sensazione: non portava reggiseno sotto il leggero maglioncino e la carnalità del gesto le aveva provocato contrazioni nel profondo.

La mano, nel frattempo, era scesa sulla gonna, sollevandola e intrufolandosi in cerca di un contatto ancora più appassionato.

Sergej percepì coi polpastrelli l’estremità della autoreggenti: gemette per la sensualità di quelle cosce calde ornate di pizzo e del calore liquido in cui si immerse poco dopo. Kaylee boccheggiava senza fiato, ondeggiando i fianchi. 

Quando tutto fu semplicemente troppo, venne sollevata di peso e depositata sul tappeto di fronte il camino, ai piedi della scrivania. Sergej prese a baciarla in preda di un desiderio spasmodico: ogni bacio anziché estinguere la sua sete, l’intensificava. 

«Lee, Lee...», sussurrava piano al suo orecchio. «Ti desidero… devo averti», le diceva, scosso da tremori.

Le carezze tra le gambe le stavano rendendo impossibile pensare a nient'altro che non fosse l’appagamento del suo bisogno, tanto che, quando le scivolò dentro con un colpo deciso, nessuna considerazione delle conseguenze potè distoglierla dal piacere che provava.

Si mossero insieme, come se avessero fatto l’amore da tutta la vita, dimentichi di ogni cosa al di fuori di quella piccola, fragile bolla che avevano creato.

♛♚♛  

Furono svegliati dall'allarme dell'abitazione: un suono acuto che percuoteva l'aria come una frustra. Sergej fu il primo a saltare in piedi, all'erta, perché conosceva bene il sistema. Kaylee si guardò attorno confusa. 

«Svelta, rivestiti. Qualcuno ha violato i  confini della villa.»

L'aiutò a tirarsi su e a indossare il maglione. Quando cercò di parlare, le fece segno di tacere. «Cerca di non fare rumore. Se siamo sotto attacco, non sappiamo da dove potrebbero sbucare», le sussurrò con urgenza.

«Gabriel...», sussurrò lei con angoscia. «Devo prenderlo!»

Fece per voltarsi e uscire dalla stanza, ma venne trattenuta per un polso. Sergej voleva andare avanti. Prima però, si avvicinò allo scaffale di una libreria e tirò fuori una pistola nascosta.

Nel corridoio nulla si muoveva, ma non c'era garanzia che gli intrusi non avessero già raggiunto la casa. In ogni caso, sarebbero arrivati molto presto.

La casa era deplorevolmente sprovvista di guardie lungo il perimetro, perché Rafail aveva portato con sé il grosso della squadra.

Sergej tirò fuori il satellitare e mandò un messaggio conciso al cugino. Con Kaylee alle spalle, raggiunse il salottino dove Gabriel si era addormentato, ma lo trovò vuoto. 

«Dove sarà andato, santo cielo?!»

Sergej provò a farla ragionare, calmandola. «Di solito cosa fa quando si sveglia?»

«Se ha fame, va da Marta per farsi preparare qualcosa.»

«Proviamo in cucina allora. Tu stammi dietro e non fare nulla di avventato.»

Riuscirono a percorrere metà dell’abitazione senza incontrare nessuno. Poi sentirono un crepitio di vetri infranti e delle grida. Kaylee riconobbe la voce di Gabriel e gridò il suo nome. Sergej dovette premerle il palmo sulla bocca per obbligarla a tacere. 

«Sei impazzita? Vuoi farci  ammazzare?», la rimproverò aspramente.

«S-scusa...», mormorò, cercando di ricomporsi.

Era sconvolta per gli ultimi eventi. Capì all'improvviso che la vicinanza di Sergej la rendeva vulnerabile e sensibile a qualsiasi stimolo: dopo anni di repressione e isolamento interiore, il primo contatto umano spontaneo, non suggerito dalla sua mente analitica, l'aveva resa fragile e suscettibile. 

L’incapacità di prevedere gli eventi, la rendeva nuovamente preda del terrore viscerale per la propria esistenza, minacciata da forze oscure, che andavano al di là del suo controllo. 

C'era anche la paura che provava per il piccolo Gabriel: quel bambino rappresentava quanto aveva perduto. La sua innocenza le aveva donato una calda speranza: aveva amato prendersene cura.

In Gabriel vedeva se stessa: entrambi strappati prematuramente dal proprio mondo e gettati in pasto ai lupi, per gli interessi di uomini potenti. Il signor Gutierrez faceva sicuramente parte del mondo che li aveva resi prigionieri, ma del resto anche Ian, il patrigno di Kaylee, a modo suo vi era appartenuto. Come lei, anche Gabriel stava subendo una sorte che non aveva meritato, se non per discutibili diritti di nascita. 

Non era il momento di cadere in pezzi, o di lasciare che la sua rabbia divampasse, bruciando inutilmente: era imperativo trovare il bambino e metterlo in salvo. Non voleva che tutto si trasformasse in un bagno di sangue com'era successo a New York.

Sergej si diresse furtivamente verso la cucina. Kaylee si armò di una statuetta di ferro esposta nel corridoio, la mente nuovamente concentrata sul problema da affrontare.

Incrociarono tre delle guardie al servizio dei Kudryashov. Evitarono in tempo uno scontro accidentale, grazie ai riflessi pronti degli uomini. Con semplici segnali, Sergej prese il comando, lasciando nelle retrovie un uomo a coprire loro le spalle.

La guardia più vicina a Kaylee, col volto coperto, le allungò una pistola di piccolo calibro. La prese con la scioltezza di chi era abituato a maneggiare un'arma e gli fece un cenno di ringraziamento. 

Marc Jacobs si occupava da sempre di controllo e sicurezza al servizio di Rafail e lo seguiva praticamente ovunque: quando si era reso necessario impartire lezioni di autodifesa a Kaylee, Aleksandr Suvorov si era rifiutato di perdere tempo con una femmina, così Marc aveva preso il suo posto di istruttore, facendo un lavoro egregio. 

Avendo la propria allieva dimostrato sin dall'inizio uno spiccato istinto di sopravvivenza e una mente pronta, non si era limitato a impartirle esclusivamente insegnamenti di base ma anche di strategia e attacco.

Al poligono Kaylee aveva totalizzato un ottimo punteggio ma, pur avendo imparato a usare un gran numero di armi diverse, le sue preferite rimanevano quelle semplici e facili da maneggiare.

Tra lei e Marc si era creato cameratismo e, da quando si erano trasferiti alla villa di Mosca, era accaduto spesso che lui rimanesse a protezione della casa anziché seguire il capo all'estero.

Quando arrivarono alla porta della cucina, si disposero ai lati degli stipiti e rimasero in ascolto. Sentirono brevi borbottii intervallati dai gemiti angosciati di Marta. Sergej fece un gesto: presto avrebbero fatto irruzione.

Marc e la seconda guardia guadagnarono l’accesso sul corridoio, in maniera tale da non lasciar loro scampo.

Appena prima che entrassero in azione, una figura robusta di donna si lanciò inaspettatamente fuori, in un tentativo di fuga, ma venne trapassata più volte alla schiena da proiettili silenziosi: il corpo di Marta ondeggiò per le stilettate, piombando pesantemente a terra con un ultimo, flebile singhiozzo. 

Fu il segnale che scatenò lo scontro: volarono colpi ciechi per impedire l’avanzata di entrambe le fazioni.

Kaylee udì distintamente le grida di Gabriel e gli urlò di nascondersi sopra il frastuono.

Non riuscivano a capire quanti uomini ci fossero, né la loro disposizione. La situazione rimase in stallo per alcuni minuti, fin quando un movimento rapido ai limiti del campo visivo di Sergej non lo spinse di riflesso a fare fuoco, riuscendo così a centrare uno dei nemici il quale, cadendo, bloccò la porta, permettendo una visuale migliore.

Gli uomini di Kudryashov irruppero usando l’isola della cucina come scudo, da cui proseguirono con la loro offensiva.

Kaylee, da uno degli angoli, vide un avversario trascinare il bambino verso la porta del corridoio, dove le altre guardie li attendevano. Spaventata per Gabe, si gettò di lato sul pavimento, esponendo testa e spalle al fuoco nemico, e sparò un colpo che centrò l’uomo al capo: questi stramazzò a terra liberando la sua preda.

Sergej e gli altri nel frattempo finirono il lavoro, liberandosi degli intrusi.

Quando la situazione tornò sicura, Kaylee corse da Gabriel, inginocchiandosi sul pavimento, incurante del sangue che le macchiava le gambe, e lo abbracciò con forza, costringendolo a chiudere gli occhi davanti a quella carneficina.

Gli uomini organizzarono un controllo sistematico della casa e uccisero altre due persone al piano di sopra. Avevano perso solo un paio di uomini che erano stati colti di sorpresa al cancello.

Sergej dispose che ammucchiassero i corpi vicino l'entrata e procedette a scoprire i loro volti per l'identificazione.

«È probabile che siano uomini di Pablo», commentò dopo averli osservati. «Hanno tratti latini e i tatuaggi sul collo sembrano quelli del suo gruppo.»

«Pa-papà?», balbettò Gabriel, sollevando la testa dalla spalla di Kaylee. Lei lo trattenne per le spalle, mentre gli assicurava che suo padre non era morto. Il bambino scoppiò a piangere sconsolato. 

«Portalo di sopra, Lee», disse seccamente Sergej. Aveva già tirato fuori il cellulare per mettersi in contatto con Rafail e offrire un resoconto completo degli ultimi avvenimenti.

Quando interruppe la chiamata si accorse che la ragazza lo fissava. Il pianto di Gabriel, nel frattempo, si era ridotto a un flebile singhiozzo.

«Sei ancora qui?»

«Cosa dice Rafail?»

Sergej trasse un respiro, indeciso se rispondere alla domanda. Rivide la maschera impenetrabile di sempre: della donna che, appena un'ora prima, l'aveva avvolto in un abbraccio di fuoco non c'era traccia. Fu irritante eppure stranamente confortevole.

«Ha detto che è quasi di ritorno», disse. Poi proseguì la spiegazione in russo, per non fare agitare il moccioso: «Si trova a Mosca perché ha capito che l'incontro in Argentina era un diversivo e che c'era sotto qualcosa di losco. È riuscito a intercettare uno dei due convogli che erano  diretti qui per suo figlio, in missione di salvataggio. Ha preso il padre del piccoletto, ma non è riuscito a fermare i suoi uomini, né ad avvisarci in tempo del pericolo...»

La vide impallidire e si bloccò.

«Che succede? Perché fai quella faccia?», chiese sottovoce. Poi un’idea lo colpì. 

Comandò alle guardie di controllare il giardino e la zona attorno alla casa e di tornare a riferire se qualcosa non andasse. 

Quando rimasero soli, le si avvicinò.

«Hai paura del ritorno di mio cugino? Per quello che è  successo tra noi?»

«No», rispose piano. E ripeté più sicura: «No… dobbiamo dimenticare quello che è  accaduto!».

«Dimenticare!»

«Ma certo! Pensi che potrei dividermi tra voi due? O che lui potrebbe non accorgersi di niente?! Saremo già tremendamente fortunati se non viene a scoprire che sono stata con te!»

«Non ho mica intenzione di fargliene parola! Non vedo come…!»

«Oh, tu non vedi come! Lascia che te lo spieghi io, allora: hai sempre fatto fatica a nascondere l'irritazione per non avere vinto la fantomatica gara contro tuo cugino, su chi deve possedere questo giocattolo», proruppe puntandosi il dito addosso. «Non appena mi si avvicinerà, so già che ti metterai a ringhiare, proprio come stai facendo in questo momento!», lo accusò.

«Io non sto ringhiando!», negò, i denti stretti.

Lei lo fissò impassibile, in attesa che tornasse alla ragione.

Sergej sbuffò, passandosi nervosamente le mani sui capelli. Lottava interiormente per non cedere all’evidenza, ma col passare dei secondi dovette riconoscere che Kaylee non aveva torto, e che avevano un problema. Il solo pensiero che Rafail la toccasse lo mandò su tutte le furie, ma cercò di dominarsi.

Credette di esserci riuscito quando tornò a parlarle. «Va bene. Che si fa allora?»

«Assolutamente niente», rispose lei, prima di piantarlo all’ingresso, col mucchio di cadaveri. 

Salì di sopra con Gabriel e giocarono per distrarsi. Quando venne sera, lo fece mangiare e lo mise a letto. Kaylee vegliò su di lui a lungo: era preoccupata di cosa Rafail avrebbe fatto del bambino ora che suo padre aveva tentato di raggirarlo con quel raid alla villa.

Era stato questo pericolo a farla impallidire, di sotto: il ricordo del sesso clandestino con Sergej completamente accantonato. Ma quando lui glielo aveva riportato alla mente, si era sentita anche peggio: non soltanto doveva escogitare un modo per tenere il suo piccolo amico al sicuro, ma avrebbe dovuto anche mentire sulle circostanze, e Rafail era maledettamente perspicace!

A notte inoltrata, udì dei parlottii e vide all’esterno dei fasci di luce. 

Lasciò Gabriel sul letto e tornò al piano inferiore dove si erano riuniti Sergej, con le guardie di casa, e Rafail, coi suoi uomini di scorta.

C'erano quattro prigionieri. Tra questi, riconobbe Pablo Gutierrez. Aveva il viso congestionato dalla rabbia, pure imbavagliato emanava un’aura di forza e autorità. Si guardava intorno alla ricerca del figlio, sebbene doveva sapere di non avere molte speranze di fuga.

Ci fu una discussione animata: Rafail ristabilì presto l’ordine e comandò che i prigionieri venissero sorvegliati, in attesa che decidesse cosa farne di loro.

«E non intendo decidere alcunchè se non mi sarò fatto una doccia!», concluse, prima di lasciare ognuno al proprio compito.

Quando vide Kaylee, le fece cenno di seguirlo. Si diressero nella camera padronale di Rafail, dove Kaylee lo aiutò a spogliarsi e lo seguì sotto la doccia.

Rafail era silenzioso e aveva i muscoli contratti. Lei prese una spugna e cominciò a lavargli via il sangue rappreso sulla schiena, tacendo a sua volta. 

Quando ogni traccia di sapone scivolò via dal suo corpo, si voltò a fissarla. «Ѐ andato tutto bene mentre non c’ero?»

Kaylee sollevò un sopracciglio, reprimendo un sorriso.

«Intendo dire prima della visita a sorpresa.»

Lei fece cenno di sì e gli diede un piccolo resoconto degli avvenimenti dal proprio punto di vista.

«Sicché eri in biblioteca con Sergej quando vi hanno attaccati», commentò tagliente.

Lei non provò a negare: sarebbe stato inutile. Da tempo aveva imparato che per mentire in maniera convincente doveva mantenersi il più fedele possibile alla verità, modificando solo quello che andava tenuto nascosto.

«Sì. Ero sul testo di economia… avevo difficoltà col… col Modello di Heckscher-Ohlin e Sergej mi stava dando una mano a tradurre un passaggio. I termini tecnici russi mi risultano ancora un po’ ostici.»

Rafail ridacchiò. «Che sorpresa che tu possa trovare qualcosa difficile… ti destreggi così elegantemente nella vita che si direbbe niente possa metterti in ginocchio.»

«Oh, ma il russo, per quanto difficile, non potrebbe mai piegarmi...», commentò, «mentre mi risulta che tu mi abbia messa in ginocchio più di una volta.»

Gli strappò una risata tutta mascolina, le mani che scendevano a carezzarle il costato scivoloso di sapone. «Se ce ne fosse il tempo, mi piacerebbe metterti in ginocchio subito. Purtroppo non è possibile.»

Con una pacca sul sedere la lasciò e andò a vestirsi. Anche Kaylee lo fece, lasciando, nella fretta, i capelli umidi: non voleva perdere tempo perché Rafail avrebbe disposto della vita e della morte delle persone riunite in quella casa.

Raggiunsero gli altri nello studio, dove Rafail assunse la consueta posizione di comando, alla scrivania. I suoi uomini scortarono i prigionieri nella stanza facendoli inginocchiare in fila.

Kaylee cercò Sergej ma non lo vide.

«Bene, bene… eccoci tutti qui. Signor Pablo, se volevate un invito in casa mia, non avreste dovuto fare altro che chiederlo.»

Quando Marc gli tolse il bavaglio, il signor Gutierrez esplose: «Non dovevi permetterti di rapire mio figlio, hijo de puta de un ruso!»

«Non ci siamo, non ci siamo. Non è questo il modo di parlare al vostro ospite, Pablo. Dove è finita la vostra educazione?»

«Pelotudo», insultò per tutta risposta.

Rafail si avvicinò rapidamente e lo colpì alla bocca con un pugno. Dal labbro spaccato sgorgò sangue che finì sulla camicia e sul pavimento.

«Adesso ascoltami attentamente, mati tvoyu. Ti trovi nel mio territorio, in casa mia, e ho tuo figlio. Immagino che per il tuo piccolo cervello potrebbe essere difficile comprendere in che razza di situazione ti trovi, ma credi che ti convenga continuare a insultarmi? So che voi galletti latini vi insultate per dar prova di essere veri uomini, ma io sono un “ruso hijo de puta”, come dici tu, e qui da noi esigiamo rispetto. Mi intendi?»

Gutierrez sputò per terra, rabbioso, ma non aggiunse altro.

Come se nulla fosse successo, Rafail tornò alla farsa della cortesia: gli piaceva innervosire gli avversari, confondendoli con modi piacevoli, ma questa volta calcò la mano perché sapeva di irritare l'argentino.

«Mi rincresce che i nostri accordi siano saltati. Vi avevo assicurato l'incolumità di vostro figlio, a patto che seguiste docilmente le mie indicazioni. Adesso mi avete messo in una posizione difficile: dovrei punirvi, ma se mi libero di voi rischio di lasciare un vuoto pericoloso a Córdoba.»

In quel momento entrò Sergej, l’atteggiamento apparentemente disinteressato di quanto avveniva. Lanciò un'occhiata prima a Rafail, poi a Kaylee, notando immediatamente i loro capelli umidi e contrasse il viso in una smorfia.

Kaylee trattenne il fiato ma lui distolse lo sguardo, e per fortuna Rafail era tanto concentrato sulle decisioni da prendere da non aver notato nulla. 

I cugini confabularono in un angolo: Rafail assentì col capo a una domanda di Sergej. Questi fece un cenno a uno dei suoi uomini, il quale lasciò la stanza.

«Ecco adesso cosa faremo», cominciò, tornando ai suoi ospiti. «I tuoi uomini moriranno qui mentre tu resterai sotto il mio controllo.»

Ci fu un agitarsi di corpi all'annuncio dell'imminente morte.

Le guardie, allenate da anni di servizio, si portarono alle spalle di ciascuno dei nemici perfettamente in sincrono e puntarono le pistole alla loro nuca, sparando come un sol uomo. I corpi caddero, privi di vita.

Il frastuono e la rapidità d'azione lasciarono sorpresa persino Kaylee la quale, in passato, aveva pur assistito alla sua dose di violenza: sapeva che Rafail teneva in modo particolare alla vendetta, e studiava sempre il modo più efficace di infliggerla, per costituire un esempio per gli altri.

Pablo non batté ciglio, continuando a fissare con odio profondo Rafail, davanti a lui: se gli dispiaceva per i propri uomini lo nascose molto bene. 

La porta si aprì un'altra volta e Kaylee vide entrare un Gabriel dal visetto assonnato, che stringeva al petto il suo orsetto di peluches.

«Dal momento che ti avevo avvisato», proseguì Rafail nel silenzio della stanza, «sai già che cosa capiterà a tuo figlio.»

Quando il bambino riconobbe il padre, lo chiamò a gran voce, cercando inutilmente di raggiungerlo. Pablo si irrigidì tutto, l'espressione del viso sconvolta da emozioni tanto intense e viscerali da non avere nome.

Kaylee sentì il proprio sangue congelarsi nelle vene e fermò la mano armata di Rafail, che si era sollevata in direzione del piccolo. Gli si parò davanti, proteggendo col proprio corpo la figura minuta di Gabriel.

«No!» esclamò. «Ti prego, Rafail, risparmia la vita  al bambino. Lui non ha colpe!»

L'uomo accolse quella protesta prima con sorpresa, poi con fastidio, ma lo celò prontamente dietro un'espressione di calcolo predatorio. 

«Ma il padre sì», disse, la voce bassa ma ben udibile a tutti. «I termini che avevo posto erano la sua obbedienza in cambio dell'incolumità di suo figlio.»

«Lo capisco, ma ti chiedo comunque di fare un'eccezione...»

«Questa decisione non è negoziabile!»

«Ma...»

Rafail afferrò il braccio della ragazza con una presa ferrea che le avrebbe procurato un livido. Kaylee contrasse il viso ma non gemette e rimase a fissarlo negli occhi attraverso un sottile velo di lacrime trattenute.

«Ti stai forse ribellando ai miei ordini, Kaylee?», ruggì, assottigliando lo sguardo.

Pur tremando sotto quell'esame, lei non demorse. Abbassando il tono della voce per renderlo il più ragionevole possibile, si giocò il tutto per tutto.

«Non è mia intenzione ribellarmi ai tuoi ordini,  Rafail. Però ti chiedo di non uccidere il bambino a causa dei peccati del padre. Dato che sono la regina al tuo fianco, mi puoi accontentare?»

Rafail la studiò a lungo, soppesando le sue  parole. «Una richiesta da parte delle mia regina, eh? Non ne avevi mai fatta una che annullasse una mia decisione, specie in ambito di affari», commentò.

Kaylee rimase rigida al suo fianco, il braccio dolente nella morsa della sua mano, nonostante avesse allentato un po’ la presa. 

Dopo un momento, la lasciò lentamente e disse: «E sia. Esaudirò la tua richiesta: non ucciderò il bambino a causa del peccati del padre».

Kaylee tremò di sollievo nella frazione di un secondo, il cuore che le batteva all'impazzata. Si girò con un sorriso verso Gabriel, per poterlo prendere tra le proprie braccia.

Il bambino aveva il visino corrucciato nello sforzo di seguire la conversazione tra gli adulti. D'improvviso spalancò gli occhi per lo shock. Abbassando lo sguardo sul proprio petto, scorse una macchia cremisi allargarsi: non sentì le urla di suo padre e di Kaylee, perché aveva le orecchie attutite dall'esplosione dell'arma. Non si accorse neppure di cadere, ma vide che il suo orsetto si era sporcato di sangue. Riuscì solo a sussurrare: «Papino?», prima di abbandonarsi al freddo abbraccio della morte.

Kaylee si gettò sul corpicino, sollevandolo sulle ginocchia, senza badare alle grida isteriche del signor Gutierrez, il quale insultava Rafail con tutto il fiato che aveva in corpo. Uno degli uomini dovette tramortirlo con un colpo alla nuca per farlo tacere.

Rimase con il suo dolore: gli occhi pieni di quella morte che aveva portato via l'ultima luce al suo spirito.

Carezzò per l'ultima volta il viso pallido del bambino e lo cullò al proprio petto, mentre lacrime silenziose piovevano sui morbidi capelli scuri.

«P-perché?», chiese con voce roca, sollevando lentamente la testa verso Rafail. «Avevi detto che non lo avresti fatto.»

«Ho acconsentito a non ammazzarlo per i peccati del padre», spiegò granitico. «L’ho fatto per punire la tua disobbedienza.» 

Consegnò la sua pistola a Marc e si diresse verso l'uscita dello studio, trattenendosi all'ultimo per aggiungere: «Non dimenticare mai più che sopra la regina c’è il re!».




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GLOSSARIO (In ordine di comparsa):
Вот дерьмо, Vot der'mo = Oh, merda;
девушка, devushka = Ragazza;
О боже, O bozhe = Oh, Dio;
черт возьми!, chert voz'mi! = Dannazione!;
ебать!, yebat'! = Cazzo!;
Hijo de puta de un ruso = Figlio di puttana di un russo;
Pelotudo = insulto dello spagnolo argentino che si potrebbe tradurre con  “Stronzo” o “Coglione”;
Mati tvoyu = “Testa di cazzo”;
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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo III

♛♚♛  

 

Evelyn Kennedy guidava il suo pick-up Ford lungo la US-6, fuori da Kane, Pennsylvania. Aveva appena finito il suo turno alla Penn Oak Energy Services e non vedeva l’ora di tornare a casa da suo figlio.

Jacob era un bambino molto vivace. Aveva sei anni ma un’intelligenza che lo faceva sembrare molto più maturo. Quando lei era a lavoro, stava dai vicini: i signori Reed erano due tranquilli pensionati che dirigevano una fattoria. Prendersi cura del ragazzino era un piacere per loro, che non avevano avuto figli.

Inoltre, in una casa rurale come quella che avevano, c’era sempre qualcosa da fare: non mancava né il lavoro né l’avventura in quelle terre, e tanto bastava a tenere impegnato un bambino sulla soglia dell’età scolare. Non era, questo, un risultato indifferente, dal momento che la popolazione di Kane non contava neanche quattromila individui: il rischio di annoiarsi era piuttosto alto.

Evelyn aveva avuto la sua dose di guai nella vita, quindi la tranquillità le andava bene. Era manna dal cielo, per dirla tutta.

Quando la sera rientrava e cenava con Jacob quasi non poteva credere alla fortuna che aveva. A volte, doveva darsi dei pizzicotti sul braccio per capire che non si trattava di un sogno, dopotutto. Altre volte, invece, la realtà le appariva in una luce freddamente chiara nel volto affilato del bambino, nei capelli scuri e negli occhi dalla felina arguzia che erano il ritratto di quelli di suo padre.

La donna mise da parte il pensiero dell’uomo che si era lasciata alle spalle, assieme alla sua vecchia vita. Richiamarla alla mente, seppure fuggevolmente, la faceva sentire fragile e insicura.

In modo un po’ scaramantico, non desiderava soffermarsi sul passato, per paura che questo sbucasse dal nulla all’improvviso, trascinandola in uno stato di paura.

In verità, Evelyn non aveva mai smesso di avere terrore: lo indossava come un abito logoro, dopo tutti quegli anni, ma non poteva farne a meno. 

La Belaya Smert non perdonava.

Le ruote dell’auto graffiarono il selciato, fermandosi davanti al cancello della fattoria.

Non aveva fatto in tempo a spegnere i fari che udì la voce del suo bambino chiamarla e, dopo pochi secondi, si ritrovò in un abbraccio pieno di calore.

«Mamma! Finalmente sei tornata!», esclamò Jacob, con un sospiro.

«Non credo di aver fatto molto tardi, Jake, non più del solito, almeno», commentò, sorridendo di quell’impazienza infantile. Lo scostò appena da sé per guardarlo in viso. Gli passò una mano tra le ciocche ricciute dei capelli. «Ma guarda! Sei tutto sudato… avrai fatto penare la povera signora Reed con tutta questa agitazione. Che hai combinato?»

Jacob, per nulla scoraggiato dagli amorevoli rimproveri, cominciò a raccontarle delle sue conquiste. Aveva seguito il signor Reed nella riparazione di un mulino, ma non era questa la fonte della sua gioia.

Evelyn si compiacque del suo viso acceso, delle guance rubizze: gli davano un’aria davvero felice.

«Su, forza… dimmi che cosa hai trovato», lo punzecchiò, intuendo nel suo atteggiamento il proposito di fare una rivelazione.

«Un cucciolo!», gridò estatico. «Il signor Reed dice che è un American Wolfdog! Ti rendi conto, mamma?! Un mezzo lupo! »

Cominciò a saltellare sui piedi, battendo le mani, mentre la investiva di dettagli sulle circostanze del ritrovamento, sul colore, l’odore, la forma del povero animale…

Evelyn non si trattenne più davanti a tanta estatica beatitudine, e scoppiò a ridere.

«Credo che tu muoia dalla voglia di farmelo conoscere», disse.

Jacob non perse altro tempo, afferrandola per una mano e trascinandola a casa degli anziani padroni.

Sulla soglia furono accolti dalla signora Reed, che esibiva un piccolo sorriso condiscendente. 

«Mary, ti ha fatto stancare molto, oggi?», chiese Evelyn.

«Niente affatto, cara. È un ragazzo giudizioso e oggi ha dato una mano a John. Da quando ha trovato il cane, poi, si è tutto dedicato a lui.»

«Sono contenta. Coma va il dolore alla schiena?»

«Eh… potrebbe andare meglio, ma non mi lamento. Il Signore voglia che tiri avanti quanto basta!», esclamò, lasciando intendere il resto alla sua giovane amica.

Evelyn conosceva la situazione dei suoi vicini di casa: non avendo eredi, né parenti prossimi, erano esposti ai pericoli della vecchiaia, il più grande dei quali era l’eventualità che uno dei due sposi morisse, lasciando l’altro da solo. Mary diceva sempre di pregare che Dio sistemasse le cose per loro, curandone gli interessi, in modo da non soccombere alle preoccupazioni. 

Evelyn, dal canto suo, invidiava quella fede semplice e schietta della coppia: vivevano ogni giorno come un dono prezioso, non scevro da affanni e apprensioni, eppure ricco di amore, forte del reciproco legame.

Jacob, il quale dal portico si era fiondato dentro, ritornò nella veranda portando tra le braccia un animale dalle proporzioni enormi.

«Sei sicuro che sia un cucciolo?», commentò tra il serio e il faceto sua madre. «Non credi piuttosto che sia un cavallo in miniatura?»

«No, mamma! È un mezzo lupo, ti dico!»

«Se lo dici tu...»

Scherzarono per qualche minuto. Mary offrì a Evelyn una tazza di thè caldo e parlarono del più e del meno, nell’attesa che suo marito John tornasse.

«Volete rimanere per cena?», invitò l’anziana donna.

«Ti ringrazio, ma ho lasciato un pasto pronto in casa e sono così stanca che vorrei andare subito a rilassarmi.»

«Mamma!», intervenne Jacob, aggrappandosi alla sua maglia. «Ti prego...»

«Sai che non possiamo tenerlo, Jake. A casa non ci siamo quasi mai...», replicò subito Evelyn, consapevole di cosa voleva chiederle.

«Ti prego!», gemette, imperterrito.

«Ma pensa a come sarebbe complicato fare avanti e indietro e...»

«Ti prego, ti prego, ti prego!», diceva, le mani giunte e il miglior faccino triste. «La signora Reed mi ha dato il permesso di tenerlo qua quando vengo a farle visita! Possiamo portarlo con noi… starà qui quando sono a scuola… ti prego!»

La donna si rivolse a Mary: a quanto pare, ne avevano già discusso. «Va tutto bene, Evelyn, cara. Ho già detto a tuo figlio che può tenerlo qui, sempre che tu sia d’accordo. È una grande fattoria, questa, un animale in più o in meno non fa differenza.»

Sospirò, ormai rassegnata. Del resto, farlo così contento era una tentazione troppo grande.

Quando finalmente diede il suo consenso, Jacob si esibì in un balletto, pieno di entusiasmo. Scoppiarono tutti a ridere, compreso John, il quale era sbucato dalla porta sul resto in tempo per assistere allo spettacolo.

«Trattalo bene, ragazzo», raccomandò il vecchio, prima di congedarlo.

Lasciarono la fattoria in un’atmosfera di festa. Jacob si sistemò il nuovo cucciolo sulle gambe. Per tutto il tragitto verso casa, tenne le braccia avvolte al suo collo: lui, di contro, sembrava disposto a farsi fare qualunque cosa, la lingua penzoloni fuori dal finestrino.

Giunsero a casa. L’architettura in legno era semplice e sorgeva in un luogo piuttosto isolato. Forse non era adatta a una donna sola con figlio, ma la solitudine che la circondava era di conforto a Evelyn.

Salirono le scale e si apprestarono ad accendere il camino: anche se era ancora autunno, la sera cominciava a fare piuttosto freddo.

Dopo cena, come di consueto, si sedettero sul tappeto, davanti al fuoco, a leggere in tranquillità un libro. In quel momento, erano alle prese con Moby Dick che aveva spinto la fantasia del bambino a sondare le profondità oscure del mare.

Il nuovo membro della famiglia sembrava essersi adattato perfettamente all’ambiente. Stava comodamente sdraiato di schiena, offrendo la pancia ai massaggi del suo padroncino.

«Un giorno andrò anche io in mare!», sognava Jacob, immaginando le navi. «Ovviamente verrà con me anche Wolf!»

«Quindi hai scelto il nome?», chiese sua madre, elargendo una carezza sul pelo arruffato.

«Sì! È un bel nome! Vedrai come lo guarderanno i miei compagni quando gli avrò detto che ho un lupo

«Un mezzo-lupo», precisò ironicamente Evelyn, per il gusto di riportarlo alla realtà.

«Non importa che sia un lupo a metà! Ce l’ha pur sempre nel sangue!», esclamò, difendendo la sua romantica idea.

«Come vuoi», cedette lei. «Ma adesso è tardi, devi andare a letto.»

A nulla valse protestare: Evelyn sapeva imporsi quando necessario. Bastò l’accenno al fatto che gli avesse permesso di portare a casa Wolf per ottenere una grata obbedienza. 

Lo seguì nella sua camera, dove gli rimboccò le coperte e gli diede il bacio della buonanotte.

♛♚♛

Evelyn stava lasciando asciugare i capelli bagnati al calore della fiamma, mentre sorseggiava del vino. Il gusto corposo le scivolava nella gola, riscaldandole lo stomaco e sciogliendo la tensione della giornata.

Indossava dei pantaloncini sotto la leggera vestaglia, la cicatrice sulla gamba visibile. Ne sfegò i contorni col dito, seguendone i margini fino alla prossimità dell’inguine. Quel segno se l’era procurato fuggendo. Aveva rischiato di morire.

Il ricordo della coltellata le diede un brivido. Cercò di cancellare quel pensiero ingollando un altro sorso.

Chissà dov’era finito quel mostro

Scolò l’ultima goccia dal bicchiere e ne picchiò il fondo sul pavimento di legno. 

«Basta!»

Era il momento, quello, di notte, in cui le facevano visita i fantasmi. Fantasmi che facevano troppa paura.

Non sapeva se si sarebbe mai liberata di loro. Ne dubitava. Eppure, non voleva che perseguitassero anche Jacob. Purtroppo non aveva potere in questo. Tutto ciò che riusciva a fare era nascondersi, e lo faceva ormai da quasi sette anni.

Certe sere era maledettamente stanca di scappare, ma non sapeva vivere altrimenti.

D’improvviso, un rumore fuori posto la riscosse. Raddrizzò la schiena e tese l’orecchio, in cerca di una minaccia. Trascorsero minuti di immobilità, poi si mise in piedi per sorvegliare il bosco dalla finestra.

Appariva tutto normale, eppure forse complici i macabri pensieri non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che qualcosa non andasse.

Arrivò all’armadio dei fucili e ne estrasse uno, armandolo prontamente. Uscì nel patio imbracciandolo, scrutando l’oscurità notturna.

L’aria fredda le penetrò il petto, cancellando le tracce residue del calore alcolico. Stette ferma, assorbendo ogni suono familiare, cercando di affinare l’udito.

Quando si sentì un po’ più sicura, rientrò, chiudendo la porta con più mandate. Tenne però il fucile a portata di mano.

Raccolse il bicchiere per portarlo in cucina. Tuttavia, voltandosi, se lo lasciò sfuggire di mano: il vetro si infranse con un tintinnio acuto.

«Rafail!», esclamò, piena di angoscia.

Desiderò che fosse solo uno spettro evocato dal vino unito all’ansia, ma il perfido sorriso e i passi che fece così fluidi, così sicuri non le lasciarono dubbi sull’identità della persona che era penetrata in casa. I suoi incubi non l’avevano mai evocato con tanta chiarezza.

«Kaylee...», la salutò con un sussurro. «O forse dovrei dire Evelyn, come ti fai chiamare ora?»

La donna era paralizzata, impossibilitata ad allungarsi verso il fucile. Del resto, Rafail non si era preoccupato nemmeno di disarmarla. 

Cosa avrebbe mai potuto fare? Era ben consapevole di essere sempre stata impotente davanti a lui: poteva avere imparato a uccidere, a far perdere le proprie tracce, a giocare partite mentali con uomini della malavita, riscuotendo un leggendario successo, diventare la regina del mondo delle ombre... ma non aveva mai potuto opporsi al suo padrone, a colui che possedeva la sua anima.

«Mi hai reso davvero difficile trovarti, devushka », continuò, amabile. «Marc ti ha davvero istruito per bene.»

Kaylee era molto pallida, non riusciva a parlare.

«Ti vedo sconvolta, Koroleva», le disse, prendendole il mento tra le dita. «Pensavi forse di non rivedermi mai più?» 

Rise, ma c’era in quel suono qualcosa di tagliente.

Indicò con una mano il divano: «Forse sarà meglio sederci, prima di vederti svenire», disse, e la fece accomodare.

«Ti prego...», tentò flebilmente la donna.

«Non pregare», l’interruppe brusco. «Non mi è mai piaciuto e non ti riesce bene!»

Vederlo irritato, scatenò il panico dentro di lei. Si sarebbe volentieri abbandonata all’isterismo, ma si ricordò di Jacob, che dormiva nel suo letto, e si ricompose. Inspirò alcune volte, poi raccolse il coraggio di parlare.

«Come mi hai trovato?», gli chiese, tagliente.

«Si potrebbe dire per puro caso, mia cara», rispose, un luccichio nello sguardo. La trovava combattiva come un tempo e ne era compiaciuto. Sarebbe stato davvero piacevole distruggerla.

«Non ti sono mancato? Sono quasi sei anni che non ci vediamo.»

Kaylee era scappata da Mosca circa sette anni prima, quando aveva scoperto di essere incinta. Gabriel era stato ucciso solo da pochi mesi e, spaventata da quel ricordo, era stata certa che Rafail gli avrebbe fatto del male, quando avesse scoperto che il padre era suo cugino.

Si era maledetta per la propria sbadataggine, ma, del resto, con Rafail non aveva mai concepito, pur non usando alcun contraccettivo. Aveva capito, col tempo, che lui era sterile.

La notte trascorsa con Sergej era stata del tutto inaspettata: entrambi non erano stati abbastanza lucidi da considerare tutte le conseguenze.

Dunque era scappata, raccogliendo i soldi dal suo conto privato e portando con sé poco o niente.

Rafail, inizialmente, aveva creduto che qualcuno l’avesse presa e aveva comandato ai suoi uomini migliori di ritrovarla. Rastrellare il terreno della malavita, però, non aveva portato a nulla. Aveva cominciato così a interrogare tutti coloro che le si erano trovati accanto, fino a risalire al medico che le aveva diagnosticato la gravidanza: solo allora aveva compreso come stavano le cose.

Seguendo quella pista, l’aveva rintracciata un anno più tardi. Era riuscito a coglierla di sorpresa, ma non abbastanza da impedirle una nuova fuga. Si era aspettato di trovare la ragazza orgogliosamente sottomessa di un tempo, invece ormai era una mamma, disposta a tutto per la sopravvivenza del proprio figlio.

L’unica soddisfazione che si prese, quella volta, fu di lasciarle un ulteriore ricordo: l’aveva ferita alla coscia, in prossimità dell’arteria femorale. Non era riuscito a reciderla, e per questo era sopravvissuta.

Si era nascosta meglio cambiando persino il proprio nome in un paese sperduto, un territorio miseramente desolato dove nessuno la conosceva.

Ora che l’aveva ritrovata, dopo tutto quel tempo, aveva intenzione di prendersi la sua rivincita. L’anima di lei gli apparteneva: era venuta meno al loro accordo, per questo avrebbe meritato la morte. Tuttavia, il raffinato intelletto di Rafail aveva studiato una speciale vendetta, fatta apposta per la sua regina nera.

«Dimmi che cos’hai in mente, Rafail», sussurrò pressante Kaylee.

«Tesoro, hai perso qualsiasi diritto tu abbia mai avuto di farmi una simile domanda. Ma in memoria dei bei vecchi tempi, ti risponderò», ghignò, accondiscendente.

Con un cenno del suo dito, venne fuori dall’ombra un uomo completamente vestito di nero. Le puntava addosso un’arma, in attesa di ordini.

«Mi ucciderai?»

«Non credo possa servire allo scopo,  no», rispose.

Al successivo segnale, l’uomo armato si diresse verso le scale.

Kaylee saltò su dal divano in un impeto di rabbia e timore: non gli avrebbe permesso di raggiungere Jacob.

Rafail agilmente la trattenne e lei, sbilanciata, precipitò ai piedi del divano.

Prese a dimenarsi come una furia, nel tentativo di liberarsi e salvare il suo bambino. Rafail usò il proprio peso per schiacciarla a terra, bloccandole le mani.

Kaylee scoppiò allora a piangere, disperata.

«Non lo toccare! Non lo toccare», gemeva. «Non hai diritto di uccidere il mio bambino! Mostro!»

Rafail, imperturbato, le sorrise, nonostante lo sforzo di contenerla.

«Oh, ma io non ho intenzione di ammazzarlo, devushka.»

«Non ti credo! Lo ucciderai davanti ai miei occhi!», sgridava, sconvolta. «È così che fai!»

«Non questa volta, davvero.»

Kaylee sentì la verità nelle sue parole e rimase sorpresa. Poi, una paura ancora più grande la colse e disse: «Non vorrai uccidere me davanti a lui?! Non puoi farlo!»

«Anche se volessi, mia cara, non sta a te decidere ciò che posso o non posso fare!»

Le avvolse una mano alla gola, stringendo quanto bastava per mozzarle il fiato.

«Ricordi la notte in cui abbiamo stretto il nostro patto?»

Kaylee lo fissava vacuamente.

«Sì, avevi proprio questa espressione… eri così decisa nel darti a me per salvare la tua vita. E io ho accettato, ricordi? La tua anima e la tua fedeltà mi appartenevano, tu hai avuto in cambio comfort, ricchezza, sicurezza e… rispetto!»

Quando allentò un po’ la presa, Kaylee boccheggiò, respirando rumorosamente.

«I-io sono stata fedele al nostro accordo s-sempre», sussurrò, tra gli ansiti. «Ma non potevo più rimanere a... ah… a causa di Jacob, lo sai.»

«Oh? Perché il tuo bastardo è figlio di mio cugino? È questo che ti ha spinto a fuggire?»

«Sì!», rispose. «Dimmi: che cosa avresti fatto scoprendo che io e lui eravamo stati assieme?»

Rafail corrugò la fronte, infastidito. «Ve l’avrei fatta pagare, naturalmente.»

«Esatto!», disse Kaylee, guardandolo con rabbia. «Non sarei mai rimasta con te, sapendo che potevi fargli del male! Ti avevo dato potere su me stessa, ma lui non ti appartiene! Jacob è libero! Non ha mai fatto nessun patto, mai nulla di male! E tu non hai diritti su di lui.»

«Davvero credi, dopo tutti questi anni, che mi serva un diritto per prendermi quello che voglio?», la derise.

«Sono qui per prendermi il diritto della vendetta, Kaylee, e nessuno me ne priverà!»

Con uno strattone, la rimise in piedi, avvolgendole le braccia attorno al corpo, petto contro schiena, per tenerla ferma. «Ti prenderei qua, su questo pavimento, per ricordarti chi è che comanda. Ma ho cose più importanti da fare.»

Tirò fuori una siringa dalla tasca e le iniettò un farmaco dal collo.

Kaylee si afflosciò, perdendo le forze, ma rimanendo perfettamente lucida.

Rafail l’adagiò sul divano logoro, mettendola seduta. Ripose il paralizzante nella giacca, prima di piegarsi sulle ginocchia, per portarsi alla sua altezza.

«Ora che ti sei calmata», cominciò ironico, «potrò spiegarti che cosa succederà a questo punto.»

Dei pesanti passi sulle scale annunciarono il ritorno della guardia. Jacob era in braccio, legato e imbavagliato a dovere.

Il bambino si agitava, cercando di scalciare senza riuscirci.

L’uomo attraversò il salottino, consegnandolo a Rafail.

«Sta’ buono, piccoletto», gli ingiunse, strattonandolo per la nuca e costringendolo a piegare la testa di lato. Poi lo girò verso di sé, scrutandolo in faccia.

«È il ritratto di Sergej», commentò cupo. Una tetra risata raschiò fuori dai suoi polmoni.

«Chissà come dev’essere stato crescerlo, mentre ti ricordava costantemente da dove venivi.»

Perso interesse per il bambino, riportò l’attenzione sulla donna. Godeva del terrore della sua regina, costretta dall’immobilità a subire la sorte che aveva deciso di infliggerle.

Le afferrò il viso, passandole il pollice sulla bocca. Una fame che conosceva molto bene gli agitò le viscere, e si leccò le labbra.

«Ricordi quando ti spiegai il significato di Balaya Smert?», domandò suadente.

«“La morte bianca”», sussurrò Kaylee, le pupille dilatate. 

«Mi dicesti che era il soprannome di un tiratore scelto finlandese Simo Häyhä che nella guerra d’Inverno contro il tuo paese aveva fatto fuori circa ottocento soldati, guadagnandosi l’appellativo.» 

«Esatto. Non ti sei chiesta perché un’organizzazione criminale russa abbia scelto questo nome per il proprio gruppo?»

Kaylee annuì. «L’ho fatto, infatti… e credo di avere capito.»

«Capito cosa?», l’incoraggiò.

«Non era per il significato del nome: “la morte”; o almeno, non solo… il punto stava proprio nel nemico, la persona che vi aveva inflitto una simile perdita, seminando terrore.»

«Continua», mormorò, compiaciuto. Aveva sempre apprezzato l’acume della ragazza, così diversa dalla gente insulsa che lo circondava. Non l’avrebbe mai ammesso, ma perderla gli era costato qualcosa, non solo in termini di orgoglio. Eppure adesso, poteva giocare con lei in un altro modo.

«Avete assunto l’identità del vostro avversario per esorcizzarne la potenza, per renderla vostra. Ci sono culture in cui si crede che bere il sangue dei nemici rubi la loro forza: credo che per voi sia una forma di cannibalismo ideologico.»

«Mi complimento per la tua perspicacia», disse Rafail, lo sguardo bramoso. «Dunque potrai comprendere quello che sto per dirti.»

«Io prenderò tuo figlio», annunciò, spietatamente. «Mi apparterrà perché tu hai rotto il nostro patto:  lo esigo come risarcimento.»

Trascinò Jacob vicino alla madre, ma non abbastanza per poterlo toccare. Il ragazzino si agitava freneticamente, con le lacrime agli occhi. Era confuso, non capiva che razza di incubo stesse vivendo. Fissava sua madre angosciato, l’uomo che lo tratteneva con odio profondo.

«Guardalo per l’ultima volta, Kaylee», le ingiunse. «Non lo rivedrai.»

«Non ti toglierò la vita, prenderò la sua, e tu vivrai per sempre nel rimorso di avermi tradito.»

Rafail sapeva che ucciderla non sarebbe servito a placare la sua ira. Invece, desiderava vivesse per soffrire ogni giorno, rimpiangendo la sua disobbedienza. 

Avrebbe preso il figlio di colei che l’aveva tradito, per farne il suo punto di forza; il figlio di suo cugino per tormentarlo: solo in questo modo la vendetta sarebbe stata completa e totale.

Infine si alzò. Spinse il figlio di Sergej verso la guardia, la quale prontamente lo trascinò fuori, sparendo nell’oscurità della notte autunnale. 

Kaylee non riuscì a piegare la testa per seguire quel movimento, mentre inesorabilmente si allontanava. Gridava il nome del suo bambino, le lacrime che le appannavano la vista, fino a quando la voce non le si spezzò in un rantolo affannoso.

Rafail si piegò sulla donna e rimase a fissarla per un lungo momento. Le percorse il profilo del collo, lentamente, fin quando toccò il filo di una collana. La sfilò dall’indumento, trovandosi a stringere in mano il proprio anello, quello con le corone di scacchi. Se lo rigirò tra le dita, pensieroso. 

«Sai? Credo che questo possa chiamarsi ‘scacco alla regina’», disse, con un ghigno storto sul volto. Poi le diede un ultimo, amaro bacio che per Kaylee ebbe il gusto della morte. 

«Questo lo puoi tenere», disse, lasciando cadere il monile tra i suoi seni. «Avrai modo di non dimenticarti di noi.»

Andò via come era venuto, in silenzio.

Sola e paralizzata, Kaylee si sentiva tramortita da un’angoscia mortale.

Aveva perso tutto, qualcosa di più prezioso della sua stessa anima. Non c’era più possibilità di riscatto: anche la vita di suo figlio sarebbe stata consumata da quella ruota di distruzione eterna.

Pianse fino a quando anche l’ultima fiamma della brace si spense, e rimase al buio.

 

 

- FINE -




 

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GLOSSARIO (In ordine di comparsa):
девушка, devushka = Ragazza;
королева, Koroleva = Regina;
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NOTE FINALI:
Volevo ringraziare tutti coloro che hanno letto e seguito con gusto questa storia, soprattutto coloro che hanno commentato, lasciando il proprio parere.
Sono contenta di aver partecipato a questo contest che è risultato molto suggestivo, per questo ringrazio con calore il giudice che l'ha organizzato così bene, Shilyss. Era da tempo che non scrivevo, e le tracce del pacchetto mi hanno permesso di immaginare una storia molto complessa che qui, per esigenze tecniche, ho dovuto limitare, scegliendo di narrare spaccati significativi del racconto, funzionali a tracciare i contorni della trappola di un patto che, lungi dall'essere di salvezza, si è rivelato oscuro e dannoso per il benessere dell'anima della protagonista.
Kaylee ha sempre perso tutto — un pezzo di se stessa alla volta — nel tentativo di scendere a compromessi, dicendosi che la sua vita valeva ogni prezzo. Questo fino a quando non ha avuto qualcosa di più prezioso persino di sè: un figlio, per il quale ha scelto di ribellarsi agli accordi presi in giovane età.
In questi capitoli ho voluto mantenere vivo un contatto con i bambini, simbolo di innocenza ma anche di vulnerabilità: per questo Kaylee nel primo capitolo appare ad una prima occhiata, più piccola della sua età, ed è ancora effettivamente giovane e relativamente innocente; Gabriel nel secondo capitolo riesce a creare con lei un legame molto forte perché la protagonista si rivede in lui; ma è solo nel terzo capitolo, con il figlio avuto da Sergej, che Kaylee trova un legame che non può tollerare la morte recida. I figli, dopotutto, rappresentano la speranza che vive al di là degli uomini stessi... e Jacob non è più solo una proiezione dell'innocenza uccisa della protagonista, ma un essere umano prezioso e insostituibile, con diritti alla libertà che nessuno può e deve ignorare.
Mi è stato fatto notare che la sorte di Jacob appare molto incerta, si potrebbe pensare che venga trascinato via a morire da qualche parte, ma il discorso finale di Rafail, riguardo la storia della "morte bianca" è dirimente a tal proposito: non serve uccidere un nemico per distruggerlo, quando questo ha inferto una tale ferita da vivere nel ricordo del terrore suscitato: a volte una forza intelligente può scegliere strategie sottili per prevalere, come è nel caso di assimilare a sè ciò che del nemico ha costituito la sua forza e la sua leggenza perché non sia più un elemento ti danno ma di vittoria.
A Rafail non serve dunque uccidere il figlio del cugino perché può usarlo per vincere tre volte: contro Kaylee alla quale viene strappato, contro il cugino che lo ha tradito, prendendogli quel figlio che non ha neppure potuto crescere, e contro la natura stessa, ottenendo un erede che da sé non può generare.
Gli sbalzi temporali potrebbero aver disorientato i lettori (tra il primo e il secondo capitolo trascorrono sei anni, mentre tra il secondo e il terzo ben sette), però spero che, oltre la confusione iniziale, possano anche avere incuriosito riguardo alle parti non narrate.... perché prossimamente ho intenzione di colmarle con una nuova storia. Questa verterà sugli eventi nascosti e sulle trasformazioni che sono avvenute in questi archi di tempo, di cui, qui, si legge solo il risultato finale.
Non mi dilungo oltre... spero solamente che la narrazione sia risultata avvincente!
Grazie a tutti! 
Ryo13

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