Un giorno, per caso...

di SSJD
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***




Un giorno, per caso…
 

  
Londra, 28 Settembre, 1928
 
 
Giro la chiave nella toppa che scatta ogni giorno con sempre maggiore difficoltà. Dovrò olearla, un giorno o l’altro: l’umidità fa disastri in questo periodo dell’anno.
La porta si apre con un cigolio. Perfetto, anche i cardini sono da oleare.
Un pallido sole filtra da due piccole finestre, riscaldando leggermente la stanza.
Entro con la mia attrezzatura per le pulizie: un vecchio carrellino in legno con delle ruote ormai consunte, che mi consente di portare in giro un secchio pieno d’acqua e una ramazza per spazzare i pavimenti.
Questo è l’ultimo laboratorio che devo pulire stamane.
A dire il vero, tutte le mattine lo lascio per ultimo.
Il motivo è che proprio non lo riesco a sopportare l’odore di cui è pregno.
Vecchio.
Muffo.
Umido.
Il lungo tavolo di legno, disposto longitudinalmente rispetto alla piccola finestra che si affaccia sul cortile dell’università, è sempre pieno di basamenti di legno quadrati, necessari per sostenere in posizione verticale decine e decine di provette, molte vuote, molte di più piene di materiali che, ai miei occhi, sono sempre apparsi come schifezze: gelatine inconsistenti o incrostazioni che riempiono il fondo della maggior parte dei bulbi. L’estremità opposta viene chiusa di norma con un batuffolo di cotone. Inutile pensare che sia sufficiente ad evitare la fuoriuscita di odori quantomeno nauseabondi.
Sparsi qua e là sulla scrivania ci sono dei piattelli in vetro rotondi. Molti col coperchio, altri aperti. In anni che lavoro qui ho imparato parecchi nomi degli oggetti usati in questi laboratori. Ne prendo uno vuoto in mano e lo rigiro tra le dita.
‘Chissà se Petri avrà fatto molti soldi con questa stupida invenzione’, il mio unico pensiero mentre ripongo il contenitore sterile al suo posto, sulla scrivania, a fianco alla pila di altri dieci contenitori pieni di altrettante schifezze.
Esperimenti.
Pile di fogli.
Formule chimiche.
Non ho mai capito nulla del lavoro di questi cervelloni.
E soprattutto se uscirà mai qualcosa di veramente importante da questi laboratori.
Per ora c’è solo puzza, queste provette orribili e tanta, troppa umidità.
Passo un panno umido per togliere la polvere dalla scrivania. Lavoro totalmente inutile, visto che, sulla parete a fianco, qualcuno ha avuto la splendida idea di appendere una lavagna sulla quale, ogni giorno, trovo scritte cose differenti, delle quali ovviamente non comprendo alcunché, ma l’unica cosa che so è che qui dentro ci potrei passare le giornate a raccogliere chili di gesso. Se questo avesse un valore, a quest’ora sarei ricco!
Levo la polvere, raccolgo i cumuli di gesso sulla barra in legno alla base della lavagna, spazzo per terra e passo lo straccio. Ogni giorno lo stesso lavoro.
Oggi però mi devo essere perso in qualche pensiero in più, perché come uno stupido ho scordato di aprire leggermente la finestra per creare la corrente necessaria per far asciugare più velocemente il pavimento.
Pazienza.
Mi soffermo sulla porta e aspetto che le piastrelle in cotto, molte delle quali sbeccate in più punti, si asciughino.
Sbadiglio.
Sono parecchie notti che non dormo bene.
Giù alla Sinagoga dicono sempre che l’aria di Londra non fa bene a noi ebrei, abituati al clima eccezionale che c’è in Israele. Sarà, ma io sono nato e cresciuto qui. Cosa c’entra il fatto di essere ebreo col clima di Londra? Secondo me il cielo perennemente coperto e l’umidità fanno male a tutti, mica solo agli ebrei.
Mi stiracchio la schiena, che schiocca preoccupandomi non poco. Mi accendo una sigaretta e me la fumo in pace. I corridoi saranno vuoti ancora per un’oretta buona. Ho tempo di rilassarmi un pochino.
Osservo il laboratorio attraverso i fili grigi di fumo, che si diffondono dal brillio del tabacco, che si incenerisce via via. Ad osservare la stanza con più attenzione mi viene da pensare che, tutto sommato, ha un suo certo ordine, ma ci sono delle cose che fanno intuire che il proprietario non sia così maniaco della precisione.
L’armadietto in vetro appeso a fianco della scrivania, proprio di fronte alla lavagna, ha sempre l’antina aperta.
Cerco di dargli una pulita, ogni tanto, ma sembra sempre inutile. I vetri in pochi giorni si opacizzano di nuovo a causa della polvere, esattamente come quelli delle finestre. Inizio a pensare che giù alla Sinagoga un po’ abbiano ragione. Ma non è il clima ad essere ‘sbagliato’, è l’aria che è pesantissima e sporca.
Inspiro un'altra boccata e mi distraggo guardando uno scaffale su cui sono disposte decine di boccette di forme e colori differenti. Strano. Non avevo mai fatto caso a quel ripiano.
Sarà meglio dare una spolverata anche a quello, non appena il pavimento sarà asciutto. Non vorrei che ci fosse sopra una quantità di polvere tale da indurre qualcuno ad accusarmi di negligenza.
Sarebbe un disastro se perdessi il mio lavoro.
Soprattutto perché non saprei come mantenere mia moglie e i nostri quattro bellissimi figli.
 
Il pavimento è asciutto.
Getto la sigaretta a terra e la spengo con il tallone. Raccolgo il mozzicone e pulisco la piccola macchia nera, che lo spegnimento ha lasciato sul pavimento.
Recupero il panno umido dal mio carrello e mi avvicino alla mensola.
Solo in questo momento capisco perché l’ho sempre ignorata: è più alta di me di almeno venti centimetri.
Mi guardo intorno; il cervellone che lavora in questo laboratorio è più basso di me. Deve avere per forza una piccola scaletta o un rialzo per arrivare a questo ripiano.
Scovo uno scalino di legno nascosto in un angolo sotto la lavagna.
Lo prendo e ci salgo.
Ad una prima occhiata mi rendo conto della gravità della situazione: molte boccette hanno sopra talmente tanta polvere che nemmeno si riesce a leggere l’etichetta ingiallita dal tempo.
Chiudo gli occhi e sospiro.
Perché non sono in grado di far finta di niente?
Scendo dal gradino e mi procuro un secondo e un terzo panno pulito prendendoli dal mio carrellino in legno.
Risalgo sul rialzo di fortuna che ho trovato e, con infinita pazienza, inizio a pulire ad una ad una le boccette e, nel contempo, anche lo scaffale.
Leggo i nomi che appaiono sulle etichette consumate: mercurio cromo, ossido di zinco, permanganato di potassio…
‘Chissà a cosa serviranno’, mi domando osservando di tanto in tanto il contenuto colorato di ogni boccetta.
Le ripongo accuratamente sul ripiano, facendo attenzione a mantenere l’ordine che il legittimo proprietario aveva dato loro. La fila è lunga e sono costretto a consumare tutti i panni che ho preso dal carrello e a doverli sciacquare un paio di volte nel piccolo lavandino in ceramica posto in un angolo della stanza.
Sono quasi alla fine e, tra le varie bottigliette, scorgo qualcosa di diverso: una pila di Petri usati, che sta proprio in bilico sul bordo a destra del ripiano.
Probabilmente prendendo le varie bottigliette da detergere e rimettendole al loro posto, non mi sono accorto di averle spinte a poco a poco verso il fondo del ripiano. Per fortuna me ne sono reso conto prima che cadessero. Altrimenti, che disastro avrei combinato!
Mi allungo per prendere l’intera pila fra le mani e tentare di metterla in salvo, quando una voce alle mie spalle mi distrae:
“Posso aiutarvi?”
Volto leggermente la testa per vedere di chi si tratti e, sfortunatamente, perdo l’equilibrio e cado.
Cado sulla scrivania tirandomi dietro non solo parte delle boccette che stavano sul ripiano, ma anche tutti i Petri che tentavo di salvare, che si mischiano con quelli presenti sulla scrivania.
Il contenuto liquido rosso/arancio di una boccetta si sparge ovunque: imbratta fogli, imbeve i batuffoli di cotone, che fanno da tappo provvisorio alle provette, e sporca inesorabilmente di rosso molti dei supporti in legno delle stesse.
Credo di non avere niente di rotto e faccio per alzarmi, prestando attenzione a non mettere le mani sulle schegge delle poche provette che si sono rotte.
Mi metto in piedi di fronte all’uomo che è entrato domandandomi se avessi bisogno di aiuto.
Tengo il capo chino e non oso guardarlo in volto. Probabilmente sarà furibondo e mi farà licenziare.
Pochi secondi dopo, che mi sembrano un’eternità, contro ogni mia aspettativa, mi sento domandare:
“Tutto bene? Vi siete fatto male?”
Trovo il coraggio di alzare lo sguardo e di fissarlo negli occhi.
Ricordavo bene che fosse più basso di me.
Camice bianco impeccabilmente lavato, che nasconde solo in parte il completo beige che gli ho visto indossare molte volte. Camicia bianca e papillon, a completare l’eleganza che lo ha sempre contraddistinto, sin dai primi tempi in cui lo vidi iniziare a lavorare qui.
“Mi-mi disss-piace.” balbetto intimorito.
“Per cosa?” mi domanda facendomi un sorriso.
“Ho c-c-comm-bi-nato un pas-pas-ticcio…” rispondo riabbassando lo sguardo.
“Avanti, non prendetevela, sono cose che capitano a chi lavora sodo. Se uno sta tutto il giorno a poltrire su un sofà, grossi danni, se non a se stesso, non può provocarne, giusto? Mi date una mano a sistemare? Tutto sommato quel ripiano aveva bisogno di una ripulita. Inoltre non ho mai preso il coraggio a due mani, mettendomi d’impegno, a gettare le cose che non mi servono più. Avete altre aule da pulire o per oggi avete terminato?” mi domanda spiazzandomi leggermente.
“In c-che s-senso?”
“Scusatemi, forse non mi sono espresso bene. Volevo sapere se avevate altro lavoro da fare oggi, vi posso aspettare più tardi per aiutarmi a sistemare. Chiamerei un inserviente, ma siete già qui.” Mi spiega sorridente.
“Ah! No, sì, c-cioè, no… Ho f-f-finito, p-p-per oggi. P-p-posso s-s-sicuramente a-ai-aiutarvi.” Dannata balbuzie.
“Perfetto, Mr. Cohen!”
 
***





 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


flem  
 
 
Capitolo II
 
 
 
Gli mostro una delle facce più perplesse del mio repertorio e subito si affretta a precisare:
“La targhetta riporta il vostro nome. Io sono il Dott. Fleming…
“L-lo-lo s-s-so… A-an-anche v-voi a-avete la t-targhetta, f-fu-fuori dal-la p-porta.” Lo interrompo mostrandogli a mia volta un sorriso.
“Già, strano modo di conoscersi, non credete? Da dove è meglio cominciare secondo voi?” mi domanda lasciandomi un po’ perplesso.
Mi sta trattando come se fossi un professionista delle pulizie e sapessi esattamente dove e come mettere mano alle sue cose.
Volto lo sguardo verso il disastro che ho combinato per poi riportarlo sul suo ansioso di sapere come procedere e gli dico:
“Bu-butti-amo t-t-tutto, dot-dot-tore?”
Scoppia in una risata genuina, che mi sorprende: ho sempre pensato che l’umorismo inglese fosse pessimo e che difficilmente capiscano una battuta.
“Buona idea! Aspettate, vi do dei guanti. Avete un cesto per la spazzatura abbastanza capiente?” mi domanda mentre, a sua volta, si infila dei guanti bianchi in gomma.
No, non ce l’ho un secchio.
Mi guardo intorno e vedo sotto al lavandino una scatola di cartone, che pare essere vuota.
Vado a prenderla. Dentro ci sono vecchissimi articoli di giornale e riviste scientifiche di ogni genere.
“In effetti dovrei dare un’occhiata anche a quella roba. Se vi chiedo di rimanere oggi ad aiutarmi a fare un po’ di pulizia in questo vecchio laboratorio, sarebbe un problema per voi?” mi domanda un po’ scoraggiato dalla mole di lavoro che dovrebbe altrimenti affrontare da solo.
“N-No… S-so-solo do-dovrei a-avv-avvviiisare mia mo-moglie.”
“Naturalmente! Prego, potete usare il mio telefono. Avete il telefono a casa, immagino.” Dice mostrandomi l’apparecchio nero a lato della scrivania, fortunatamente salvo da schizzi di liquido rosso.
“N-no, m-ma la n-nostra v-v-vicina, s-sì.”
Prendo il ricevitore e compongo il numero sulla tastiera.
Un paio di squilli e risponde la voce dell’anziana signora, che da anni vive nell’appartamento a fianco al mio.
“Buongiorno Mrs. Smith, avrei urgente bisogno di parlare con mia moglie. Le spiacerebbe andare a chiamarla?”
L’anziana donna mi dice di aspettare qualche istante e lascia il ricevitore sul tavolino a fianco del telefono.
Mi volto per confermare con un sorriso che fra poco sarò libero da impegni, ma la faccia del dottore è quasi allucinata.
“C-cosa?” gli chiedo.
“Ma pensavo balbettaste! Che cosa bizzarra!” esclama per spiegarmi la sua perplessità.
“S-so-solo c-con c-chi n-non ho m-mai p-parlato.” Spiego, per poi continuare con mia moglie giunta all’altro capo della linea: “Cara! Mi fermo tutto il pomeriggio all’università!”
“È successo qualcosa?” mi domanda spaventata.
“No! Aiuto un dottore a sistemare e ripulire il suo laboratorio, non ti preoccupare! Vengo per cena, va bene?” la informo.
“Sì, certo. Ti amo.” conclude abbassando il ricevitore.
“Incredibile.” Sento dire da Mr. Fleming, mentre ripongo il ricevitore sulla sua base, appena sopra ai tasti coi numeri.
“C-cominciamo?” gli domando cordialmente. Sicuro domani rimarrà scioccato quando sentirà che è veramente così la mia balbuzie.
Appena conosco qualcuno vado in crisi totale e inizio a balbettare in un modo assurdo.
Tempo qualche ora, non appena riesco a sentirmi a mio agio, passa tutto.
Non so se con il dottore sarà altrettanto facile: gli ho distrutto mezzo laboratorio. Penserà che non è propriamente il caso di darmi troppa confidenza.
Come non capirlo.
“Direi che possiamo fare così, io prendo le cose che si sono sporcate sulla scrivania e verifico velocemente se si possono gettare o meno. Poi ve le passo in modo che possiate metterle in quel cartone che avete recuperato. Gli articoli che ci sono dentro metteteli su quella sedia, vicino alla porta. Per favore.”
Iniziamo a lavorare e lo osservo mentre meticolosamente scrive una lista in cui descrive il contenuto di tutte le provette che è costretto a buttare.
Sono estremamente imbarazzato per questa incresciosa situazione.
Vorrei chiedergli molte cose del suo lavoro, ma questa dannata balbuzie mi fa impazzire. Ma la mia curiosità di più.
Mentre ripone l’ennesima provetta non rovinata nel contenitore in legno, lo osservo, respiro profondamente, mi concentro e domando:
“Mi s-spiegate che l-lavoro f-fate? S-se potete?”
Termina di scrivere l’appunto che stava prendendo sulla provetta appena abbandonata e depone il pennino nel calamaio davanti agli appunti.
Si volta e sorridente mi dice:
“State migliorando, la vostra parlata si sta facendo più fluida. Non ho mai sentito parlare di balbuzie temporanea. C’è sempre da imparare. La curiosità è la base della scienza, quindi la vostra domanda è del tutto lecita. Sapete cos’è la biologia?”
“S-studia le cose v-vive?” chiedo non proprio sicuro che sia la risposta giusta.
“AHAH, beh, potrei dire che è una definizione un po’ generica, ma di base corretta. Io sono un medico. Mi occupo di curare i pazienti futuri.” inizia a spiegare.
“F-Futuri?” gli domando perplesso.
“Vedete. Io non lavoro all’ospedale. Sono un ricercatore di nuove medicine, che in futuro potrebbero salvare la vita a molte persone. Per farlo ho dovuto imparare anche la biologia e un po’ di chimica.” Precisa.
“Ques-te pro-vette co-ntengono medicine?”
“No, muffe, funghi, parassiti e batteri, in realtà.”
‘Ah! Ora capisco il tanfo nauseante che c’è in questo laboratorio…’ penso evitando di esprimere il mio disgusto per il suo lavoro.
Prende un Petri in parte sporcato di liquido rosso e mi fa segno di passargli un panno, in modo da poterlo ripulire.
Lo fa con cura, per poi alzarlo in modo tale da mostrarmelo meglio:
“Osservate il contenuto. Vedete questa massa giallo paglierino? Questa è una colonia di batteri. Una colonia è come una grandissima famiglia. Se questi batteri dovessero entrare in un corpo umano, ne provocherebbero sicuramente la morte in pochi giorni, tanto sono pericolosi. Io cerco un fungo, o una muffa che inserita nello stesso Petri, assieme ad un numero limitato di batteri, ne limiti la crescita o li elimini del tutto… questo sarebbe anche meglio. Capite?” mi spiega lentamente, come se cercasse di volta in volta parole non troppo scientifiche e complicate per permettermi di capire meglio.
Rivolgo lo sguardo alla scrivania, sulla quale giacciono ancora in ordine sparso parecchi dischi di Petri.
Ad un’occhiata veloce, direi che finora non deve aver avuto abbastanza fortuna. Tutti i dischetti sembrano avere lo stesso colore di quello che mi ha appena mostrato.
“Ca-pisco. Avete m-m-mai t-t-trovato qu-qualcosa che li di-strugge?” chiedo curioso di capire se l’entusiasmo con cui mi sta spiegando le cose abbia almeno un fondamento derivante da esperienze passate.
“Sì, qualche anno fa scoprii che i liquidi, che il nostro corpo produce, sono in grado di distruggere moltissimi tipi di batteri. Dentro questi liquidi c’è una sostanza, che ai tempi nominai Lisozima, che è molto potente, in grado di distruggere tantissimi batteri. Sfortunatamente agisce però solo su quelli che all’uomo non farebbero comunque niente. Ma io non mi sono arreso. Mi è stata data la possibilità di continuare il mio lavoro e intendo farlo fino alla fine. Sono sicuro… che le mie teorie sulle muffe e sui funghi siano corrette. Ho letto alcuni articoli, di alcuni anni fa. Un certo dottor Burton riuscì ad isolare delle muffe con azione battericida. Devo riuscirci anche io. Questo è il mio lavoro.” Conclude indurendo di gran lunga i tratti del viso e mostrandomi un’espressione serissima.
Solo in questo momento ripenso ai miei genitori, morti entrambi di tubercolosi, durante la prima guerra mondiale e accosto questo pensiero a ciò che il dottore mi ha detto all’inizio del suo discorso, quando accennava al fatto che il suo lavoro riguarda pazienti futuri. Solo ora capisco a cosa si stesse riferendo.
Mi inumidisco le labbra e mi sforzo di dire la cosa giusta:
“È uuuun l-l-lavoro i-i-importante!”
‘Che cosa stupida’ penso.
“Tutti i lavori lo sono, purché siano onesti.” Afferma più pacatamente rispetto alla leggera agitazione che ho notato prima.
Si volta di nuovo verso la scrivania e si rimette al lavoro.
“Avete figli?” mi chiede poco dopo, cambiando completamente argomento.
“Q-Quattro.” Confesso.
“Che meraviglia! Io ne ho uno. Si chiama Robert. Ha quattro anni ed è un discolo…
Si interrompe, osserva attentamente un altro paio di provette, frapponendole fra sé e un raggio luminoso che filtra dalla finestra, per poi cestinarle nella scatola di cartone, che abbiamo deciso di usare come pattumiera.
Sono affascinato da quest’uomo. Ha una corporatura robusta, sicuramente praticherà qualche sport. Non ha per niente l’aspetto del pallido e gracile studioso, sempre con la testa piegata sui libri.
D’altra parte però, la sua professionalità nel lavoro, che sembra svolgere con passione e dedizione, lo rende, ai miei occhi, molto rispettabile.
“Cosa fate nel tempo libero, Mr. Cohen?” mi chiede cambiando di nuovo argomento e distraendomi dai miei pensieri.
“N-non n-ne ho m-molto, Ve-ramente.” Affermo imbarazzato per poi impormi di essere un po’ più socievole e chiedere: “V-Voi?”
“Passeggiate, più che altro. Al momento sono ancora iscritto come membro ufficiale della squadra di tiro al piattello del Saint Mary Hospital… Titolo per il quale vado particolarmente fiero, visto che mi ha consentito fortuitamente di iniziare ad impegnarmi seriamente in questo lavoro. Ho lavorato con il dottor Wright, lo avete mai sentito nominare?” mi domanda mentre continua a sistemare i Petri che via via gli passo ripuliti dal liquido arancio.
“A-vete un art-ticolo s-scritto da lui, t-t-t…
“Tra quelli che vi ho fatto spostare sulla sedia?” mi interrompe finendo per me la frase.
Mi incupisco. Non mi piace essere interrotto. E tanto meno che qualcuno finisca per me le frasi.
Si volta per capire il mio improvviso silenzio e mi guarda in volto.
Deve aver capito di aver sbagliato e subito si scusa con un sorriso:
“Perdonatemi. Sono… ero sovrappensiero. Non succederà più. Ad ogni modo avete visto correttamente. Ho parecchi suoi articoli che riguardano le vaccinazioni e il lavoro che abbiamo svolto assieme in ospedale… Oltre ad aver vinto molti tornei di tiro al piattello. Di quelli però temo di non avere nessun riferimento scritto. Mi dovrete credere sulla parola.” Afferma.
“C-certo. Alcune im-im-imprese aaaa-ndrebbero r-ricordate ne-negli an-nali!” ribatto con sarcasmo, per fargli capire che ho già scordato quanto appena accaduto.
“Mi prendete in giro?” mi domanda girandosi nuovamente verso di me.
“Certo!” riesco a dire senza nemmeno balbettare. Grande conquista, per me.
“AAAHH! Siete davvero di compagnia. Pranzate con me più tardi? Vi posso offrire un quasi commestibile pasto alla mensa dell’università?” mi domanda allegro.
“No, g-grazie. D-dopo ciò c-che ho v-visto qui st-st-stamattina, p-preferisco andare a c-casa mia a m-mangiare. P-perché n-non venite? Mia m-moglie cu-cucina be-nissimo… N-niente fu-nghi, pr-promesso…”
“Perbacco! È come ricevere un invito a nozze! Siete certo che non sia un disturbo per vostra moglie? Le avete detto che sareste tornato stasera per cena, sicuro non vi aspetterà per pranzo, tantomeno con un ospite!”
Giusto, non vorrei farla arrabbiare, in effetti.
“P-posso usare di nuovo il telefono?” gli chiedo cortesemente.
 
Passiamo un paio di ore a chiacchierare, mentre lavoriamo con molto impegno per sistemare il laboratorio. Il dottore è una persona molto piacevole, colta e di compagnia. Mi racconta che, a differenza di me, non è nato a Londra, ma in Scozia, dove ha passato l’adolescenza, prima di trasferirsi in Inghilterra. Mi conferma che da giovane faceva molti sport, ma che ora sono già parecchi anni che pratica solo il tiro al piattello.
Quando gli chiedo come ha iniziato a studiare biologia, si incupisce un pochino e mi risponde che alla morte di un suo carissimo zio ricevette in eredità la somma necessaria per iscriversi all’università.
Mi racconta che aveva scelto chirurgia, ma il suo amico Wright l’aveva convinto a deviare i suoi studi verso la batteriologia e allo studio dei vaccini.
“D-d-doveva aaam-mirarvi mmmmol-tissimo p-p-per p-p-pro-porvi di cam-biare da c-c-chirurgia a s-ss-chi-schifezzologia…” lo prendo di nuovo in giro.
“Un chirurgo salva una persona per volta, un batteriologo, se trova il vaccino giusto, può salvare milioni di vite tutte assieme.” È la sua risposta sempre accompagnata da un sorriso.
Prende in mano una nuova provetta e inizia ad analizzarne il contenuto, ma poi si interrompe e si mette pensieroso a guardare fuori dalla finestra.
C’è aria di pioggia, come sempre.
Fa un sospiro e mi spiega che durante la Prima Guerra Mondiale lui e Wright vennero mandati in Francia, in un ospedale da campo. Mi racconta con rammarico l’incubo che fu costretto a vivere: i pochi chirurghi che c’erano facevano l’impossibile per salvare vite umane, arrivando necessariamente ad amputare arti dilaniati da bombe o colpi di mitragliatore. Tentavano miracoli e molte volte ci riuscivano, ma la percentuale delle persone che moriva per infezioni era ancora altissima.
Mi spiega che furono lui è Wright a trovare il modo per ridurre le morti per infezioni batteriche, ottenendo un grande applauso dall’intero mondo scientifico, una volta finita la guerra.
Si volta verso di me e, incurvando le sopracciglia in uno sguardo triste, commenta:
“Magra consolazione, sapere di aver scoperto qualcosa di utile per la prossima guerra.”
Il suo pensiero mi lascia quantomeno pensieroso.
Possibile che tutto il suo lavoro abbia come unica applicazione quella di salvare soldati da ributtare sul campo di battaglia?
“E s-se n-non c-ci f-f-fosse una p-p-prossima guuuerra?” Gli chiedo con un mezzo sorriso.
“Ci sarà per sempre una guerra su questo pianeta. Ma spero che le scoperte che ho avuto la possibilità di condividere con Wright, possano essere disponibili a tutti e non solo ai soldati dell’esercito. Voi siete stato in guerra?” Mi domanda.
Lascio cadere le due provette che mi ha dato da gettare nello scatolone e con la mano sinistra alzo la gamba del pantalone mostrandogli che, dal ginocchio in giù, il mio arto è di un leggerissimo e costosissimo puro mogano.
Batto un paio di volte le nocche sul legno, che risuona nella stanza come un piacevole tamburello e lo guardo negli occhi sorridente.
“Oh buon Dio! È stata una granata?” mi chiede preoccupato.
“No, u-u-un c-c-carro b-b-bestiame mi ha-a-a in-in-inves-tito da p-p-piccolo…” spiego.
“Mi dispiace” dice osservando l’arto finto, prima di proseguire: “Vi hanno curato con molta professionalità. Se il mio parere di medico può consolarvi.” Conclude con fare esperto.
“Sì, lo so. Mi haanno oooperato al S-s-s-aint M-Mary!” dico orgoglioso, sapendo di fargli cosa lieta.
Sorride.
Lo imito risistemandomi il pantalone per riprendere a lavorare.
 
***

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***




Capitolo III
 
 
 
Poco più tardi, ci rendiamo conto che gran parte del lavoro è già stato compiuto. La scrivania è tornata al suo ordine e splendore, per quanto possano essere splendidi accumuli di Petri contenenti batteri mortali, e la scatola di cartone è praticamente piena di ogni genere di materiale: carta, Petri, provette, basamenti in legno.
Finalmente ci alziamo dalle nostre postazioni ed entrambi ci stiracchiamo per riattivare un pochino la muscolatura.
Il dottore si piega in avanti invitandomi a fare lo stesso.
“Cerchi di toccare le dita dei piedi con le mani: in questo modo la sua colonna vertebrale si allungherà un pochino e si sentirà subito meglio!” mi consiglia.
Lo assecondo cercando di imitarlo.
Faccio per risollevarmi, ma il mio movimento è brusco e non fluido come il suo.
“Piano!” mi rimprovera, “Altrimenti il beneficio non si sente!”
Mi rimetto giù e ci riprovo, risalendo molto più lentamente. Lascio la testa a penzoloni, come mi ha consigliato di fare. Da questa posizione guardo attraverso le mie gambe, lasciando il mio sguardo perdersi sotto la scrivania.
Sto per risollevarmi di nuovo, quando vedo un dischetto, che riflette la luce proveniente dal corridoio, in un angolo buio vicino al calorifero.
Mi sollevo lentamente, questa volta, in modo tale che il dottore non mi sgridi di nuovo, per poi accovacciarmi e allungare il braccio per raccogliere il dischetto che ho notato.
“Cosa fate?” mi domanda Mr. Fleming un po’ perplesso.
“Un P-petri è f-f-finito qui s-s-sotto…” gli dico mentre riesco con la mano finalmente ad afferrarlo.
Sto per uscire da sotto la scrivania, quando noto che in realtà ce ne sono altri due incastrati sotto al calorifero. Riesco ad estrarli, con non poca fatica.
“P-perché c’-c’-c’è un p-panno s-so-sotto al ca-ca-calorifero?” chiedo mentre mi ritraggo tenendoli in mano.
“Il calorifero perde acqua, a volte. Porgetemeli, così fate meno fatica ad alzarvi.” Mi esorta il dottore prendendo contemporaneamente i Petri tra le sue mani, in modo tale da lasciare le mie libere, per consentirmi di rialzarmi.
Mi sollevo e mi pulisco i palmi nella tuta da lavoro, prima di alzare lo sguardo di nuovo su Mr. Fleming.
Quando lo faccio rimango un po’ basito.
Se ne sta lì, con in mano uno dei tre dischetti che gli ho appena passato e lo fissa con due occhi quasi allucinati. Se lo rigira fra le mani e lo avvicina più volte agli occhi per poterlo osservare con maggiore attenzione, per poi allontanarlo di nuovo.
Dopo un paio di minuti di quello che a me sembra essere un attimo di follia del dottore, finalmente alza lo sguardo ed esclama:
“Mr. Cohen, l’ha trovato!”
‘Io? Cosa?’ penso tra me e me. Il mio pensiero deve essersi trasformato in un’espressione di perplessità perché d’un tratto chiarisce:
“Vedete questo Petri? Vedete che non è giallognolo come gli altri? Vedete questa macchia più scura? Vedete…
“Dottor Fleming, sono b-b-balbuziente, non c-c-cieco… C-cosa st-st-state dicendo?” lo interrompo solo per cercare di farlo calmare.
Fa un sospiro e riprende con più calma:
“Questo Petri contiene la medicina. La macchia nera che vedete altro non è che una muffa, che ha distrutto la famiglia di batteri che voleva crescere in questo Petri. Capite la mia gioia?” Mi domanda depositando il prezioso contenitore con cura sulla scrivania e mettendomi le mani sulle spalle, come per volermi abbracciare.
La presa è forte.
Gli sorrido.
Non ho capito molto bene cosa sia successo, ma comprendo tutto il suo entusiasmo e la sua gioia, quando vedo delle lacrime comparire nei suoi occhi chiari.
Afferro le sue spalle a mia volta con le mani, come per fargli capire che sì, qualsiasi cosa sia successa, penso sia positiva e sarà positiva per il futuro, se lui mi conferma che è così. Se non altro capisco che è positiva per lui e per la sua vita.
“Grazie, Mr. Cohen! Senza di lei non avrei mai trovato quel Peltri, o magari lo avrei trovato troppo tardi! Avete trovato la medicina!” mi dice mentre una lacrima gli riga il viso.
Sciolgo l’abbraccio distaccato e gli sorrido.
“Io l’ho t-trovata, ma v-voi l’avvv-ete sc-scoperta!”
“Sì. A volte si trova ciò che non si sta cercando… Salverà molte vite, questa muffa, amico mio!” afferma ancora commosso, dopo una breve pausa.
“Qu-quindi, v-vuol d-d-dire che il mio l-lavoro è anche im-importante!” gli dico per farlo tranquillizzare un pochino.
“Essenziale, direi!”
“E v-v-voi m-mi v-v-volevate p-p-portare a m-mangiare all-a m-m-mensa? D-d-dobbiamo f-f-festeggiare! A casa ho un o-o-o-ottimo v-v-ino…” lo prendo di nuovo in giro.
“Perfetto! Dobbiamo festeggiare assolutamente, questo è un giorno importantissimo per tutti noi! Devo assolutamente chiamare mia moglie per informarla… e poi devo andare dal rettore e devo dirlo a Wright e poi a chi altro? Ah, sì! Devo trovare qualche chimico che mi isoli il principio attivo e cercare altri finanziamenti per proseguire gli studi… Accidenti quante cose! Meglio che inizi su…
“Mr. Fleming! Si calmi! Respiri per favore! Tu-tutte q-queste cose le p-p-potrà fare nel po-pomeriggio. Ora andiamo a p-p-pranzo e, quando t-t-torniamo, col telefono avv-vviserà tutto il mondo. Va bene?” glielo dico con il cuore, mi sembra davvero un po’ troppo agitato per avvisare tutte le persone, che sicuramente dovranno essere avvisate. Non sono un medico, ma non è difficile comprendere che è necessario che si calmi un pochino prima di continuare il suo lavoro. Mi guarda negli occhi stranito.
“Andiamo? Mia moglie ci aspetta…” dico tutto di un fiato, riuscendo a non balbettare, finalmente.
“Sì… sì, c-certo. Sssolo metto via il Petri, v-va b-bene?” mi dice quasi intimorito.
“Guardate che la bal-buzie non è c-contagiosa… Dottore.” Lo prendo in giro di nuovo.
“Scusate, sono troppo emozionato.” Si giustifica mentre ripone il Petri in un cassettino, che poi si premura di chiudere a chiave.
Infila la chiave nella tasca interna della giacca, si leva il camice, i guanti di gomma e, come un pupazzo si infila il cappotto.
Sciarpa.
Guanti.
“Andiamo?” domanda come se i suoi pensieri fossero in un altro mondo.
“Certo, passo a riporre il c-carrello nello sg-sg-sga-mhmm!”
‘Dannazione, SGABUZZINO!’ riesco solo a pensare.
Si ferma nel corridoio e mi guarda.
“Respirate profondamente.” Mi suggerisce.
Lo faccio.
“Bene, dicevate?”
“Sgabuzzino.” Concludo.
Con calma, tutto viene.

 
****
 
Agosto, 1942
 
 
Odoraccio.
L’odore di etere negli ospedali è sempre stato un mio punto debole. Non lo sopporto.
Sento le palpebre muoversi e, a poco a poco, sollevarsi. Una fioca luce riempie la camera in cui mi trovo.
La mia mente deve essersi già resa conto da tempo che il mio corpo si trova in un ospedale, mentre la mia memoria sta facendo letteralmente cilecca, visto che non ricordo nulla di quando e come sono arrivato qui.
Richiudo gli occhi e faccio un sospiro.
“Dottore, si è svegliato! Ha aperto gli occhi per qualche istante!” sento una voce, che riconosco essere quella di mia moglie, chiamare qualcuno.
Mi sforzo di riaprire gli occhi, quando sento dei passi non troppo leggeri avvicinarsi al mio letto.
“Alexander? Sei davvero tu?” domando con un filo di voce, quando riesco a mettere a fuoco la persona in camice bianco, che mi è a fianco.
“Sì, Meir, sono io…” mi risponde prendendomi una mano e stringendomela forte.
“Cosa è successo? Mi ricordo un fortissimo mal di testa, mia moglie era preoccupata per la febbre alta che avevo… Non ricordo più nulla.” Gli spiego confuso.
“Meningite, la diagnosi era pressoché certa. Non avevi nessuna speranza, Meir…” mi spiega con la sua consueta calma.
Vedo comparire una lacrima all’angolo dei suoi occhi.
“Piangi perché sono ancora vivo?” lo canzono benevolo.
“Sì, hai appena dimostrato che la mia medicina funziona. Per la seconda volta nella mia vita, mi hai donato la gioia di poter continuare con sempre maggiore entusiasmo il mio lavoro! Ricordi quel giorno, di tanti anni fa?” mi domanda come se volesse testare gli effetti della meningite sulla mia memoria.
“Certo, come posso scordarlo? È da allora che mi perseguiti, informandomi di tutte le tue scoperte, o non scoperte…” gli rispondo con sarcasmo.
“La perseveranza è la base della scienza! Sono felice che la tua memoria non abbia subito danni, ma, vedi, ciò che volevo dire è che quando mi sono svegliato poco dopo l'alba, il 28 settembre 1928, non avevo certo intenzione di rivoluzionare tutte le medicine, scoprendo il primo antibiotico o battericida del mondo... Ma immagino che sia esattamente quello che ho fatto! E tu me lo hai confermato, amico mio!” afferma commosso.
Lo guardo male.
Se i nazisti sapessero che ha salvato la vita ad un ebreo in piena guerra contro gli ebrei, probabilmente lo fucilerebbero.
Ma prima dovrà fare i conti con me:
“Alexander. Fammi capire. Hai iniettato nel mio corpo quella muffa schifosa, che avevi in quell’orribile laboratorio?”
Si asciuga le lacrime e torna a sorridere:
“No, veramente l’hai deglutita con un po’ d’acqua, mentre eri semicosciente…” mi dice con una punta di sadismo nel tono di voce.
“Che schifo… Spero almeno tu ne abbia abbastanza ‘sta volta… Non vorrei finire come quel poveraccio di poliziotto che hai fatto fuori l’anno scorso…” gli rimprovero.
“Ah! Che insolente! Ti ho appena salvato la vita! Ma, a parte gli scherzi, ti garantisco, amico mio che, a costo di andare in America a nuoto a prenderne dell’altra, questa volta non rimarrò senza!” mi rassicura con un sorriso sincero.
Salvato da una muffa.
Se i tedeschi ne venissero a conoscenza, la condannerebbero per alto tradimento, mentre gli americani hanno avuto il coraggio e la volontà, nonostante siamo in piena guerra, di trasformarla in farmaco, dopo aver letto della quasi guarigione del poliziotto di Oxford, riportata su tutti i giornali.
 
Era stata una sfortuna, allora, che la quantità di Penicillina disponibile fosse scarsa. Quell’uomo si sarebbe davvero potuto salvare.
Allo stesso tempo però, il miracoloso miglioramento, che le condizioni di salute del poliziotto avevano avuto in seguito al trattamento con la medicina proposta da Alexander, ha portato alla produzione massiccia del farmaco, negli Stati Uniti.
A questo punto mi chiedo quante persone dovrò ringraziare.
Il poliziotto, gli americani…
 
Guardo mia moglie che abbraccia Alexander e lo ringrazia, mentre le lacrime le rigano il viso, e i miei pensieri si spostano sulla mia famiglia.
Se i miei figli fossero qui sarebbero sicuramente venuti a trovarmi. Per fortuna sono emigrati in America, prima che le cose in Europa si mettessero male.
Sono rimasto solo con mia moglie. Non potevo lasciare Alexander, dopo che quel giorno di quattordici anni fa, siamo diventati amici.
Sono diventato la sua spalla, una delle prime persone a cui ha sempre confidato i suoi dubbi, come quello di trovare il nome giusto della muffa che aveva scoperto essere battericida; i suoi rammarichi, come quando cercava qualche chimico che gli isolasse il principio attivo e non lo trovava. Ma anche le sue gioie, nel constatare che quella schifezza, come mi ostinavo e ancora non desisto a chiamarla io, in quel Petri, poteva essere efficace contro diversi tipi di batteri.
C’ero per lui, quando la commissione a cui Alexander presentò la Penicillina lo guardò con aria scettica e lo trattò con sufficienza. Ero lì fuori ad aspettarlo, mentre spazzavo il corridoio, e ricordo le sue lacrime di delusione e di forte rammarico, per non essere riuscito a convincere tutti che la sua scoperta era eccezionale, come lui, ed io e molti altri sapevano che fosse.
Sono rimasto al suo fianco, in tutti questi anni, perché ho creduto in lui, molto più di quanto abbiano fatto i suoi colleghi illustri che, accecati dalla magnificenza e dalle aspettative, che la più grande industria farmaceutica dei nostri tempi abbia mai fornito loro, non hanno voluto aiutare Alexander nel suo progetto.
Quando ai tempi gli dissi che lo avrei sempre supportato in tutto e per tutto, ascoltando costantemente tutti i suoi propositi di portare avanti le sue idee, mai, mai e poi mai avrei pensato di diventare un giorno il punto di partenza dei suoi futuri riconoscimenti.
Vedo le sue lacrime di gioia infinita, mentre parla con mia moglie, e storco il naso. Immagino di dovergli essere grato, nonostante mi abbia appena ridotto di ruolo: da amico di lunga data a cavia…
“Alexander, grazie.” gli dico solamente richiudendo gli occhi, prima di appisolarmi.
 
 
FINE
 
 
 
NA:
- La vera storia di Alexander Fleming la trovate qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Alexander_Fleming
- Di quanto ho scritto, di vero c’è il fatto che Fleming abbia trovato realmente per caso il Petri contenente la famosa Penicillina. Ergo, Mr. Meir Cohen è un personaggio frutto della mia sola fantasia (Meir in ebraico significa: “Colui che porta la luce”). Ma è vero anche che nel 1942 Fleming abbia salvato un amico malato di meningite, testando per la prima volta la medicina che aveva scoperto. Ciò gli valse in Nobel per la medicina, che gli venne assegnato in piena guerra, nell’ottobre del 1945.
- Le frasi nel testo che trovate scritte in corsivo e di colore blu, sono vere citazioni di Fleming.
- Per puro patriottismo, vorrei infine sottolineare che il primo scopritore della Penicillina fu un italiano: Vincenzo Tiberio, che la studiò e scoprì già nel 1895. (https://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Tiberio).
Ma il caso volle che i suoi studi venissero pubblicati solo su una rivista italiana, ai tempi poco conosciuta.
Dopo la prima guerra mondiale, quando finalmente avrebbe potuto riprendere gli studi sull’azione battericida delle muffe, morì d’infarto lasciando a Fleming, di fatto, l’onore della scoperta.
Fleming seppe solo due anni dopo aver preso il Nobel, delle eccezionali scoperte di Tiberio e ne parlò con rammarico, affermando che con le ricerche già svolte dal suo collega italiano, si sarebbero potute salvare centinaia di migliaia di vite in più.
 
N.F.A.: Ringrazio anche io Fleming, senza la Penicillina all’età di dieci anni probabilmente sarei morto pure io di polmonite.
Già che ci sono ringrazio tutti coloro che hanno letto e hanno speso qualche minuto del loro tempo per lasciarmi un commento. Questa è la prima minilong che scrivo tra le originali. Ho scoperto che è stato un divertimento, per me, scriverla e spero sia stato un po’ interessante per voi leggerla!
Alla prox!
SSJD

 
 

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