Karma is a bitch, kiddo di Happy_Pumpkin (/viewuser.php?uid=56910)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fluorescent Adolescent ***
Capitolo 2: *** Whatever People Say I Am, That's What I'm Not ***
Capitolo 1 *** Fluorescent Adolescent ***
Karma is a
bitch, kiddo
1.
Fluorescent
Adolescent
Mikasa
era una donna pragmatica. Seria, diligente e fin troppo responsabile a
lavoro,
non si concedeva molto tempo per pensare: agiva e basta; se
però qualcosa non
le tornava finiva per essere realmente spaventosa e vendicativa
finché la
problematica non si risolveva.
Per
tali ragioni, quella settimana di gennaio si ritrovò a
guardare il portafortuna
stretto tra le sue mani senza essere comunque del tutto convinta di
quanto stava
facendo; credere in quelle stupidaggini o affidare i propri desideri a
un coso che avrebbe dovuto
somigliare a una
coccinella e invece ricordava più uno scarafaggio era
realmente infantile,
persino da disperati.
Davanti
alla fontana, occhieggiò lo
scarafaggio-coccinella-mutazione-genetica stretto
tra le sue mani, infine emise un impercettibile sospiro.
Beh,
il suo desiderio, effettivamente, era un po’ disperato.
Poteva contare lo
stesso, giusto?
Di
sicuro tutta la faccenda del ‘lancia
nella
fontana questo portafortuna benedetto dagli astri e il tuo sogno si
realizzerà’
sostenuta da quella specie di vecchietto, vestito in un incrocio tra un
barbone
e uno pseudo-indovino, era una presa in giro ma, beh, tanto valeva
gettare quell’obrobrio
che aveva in mano e... chissà, magari succedeva davvero
qualcosa capace di
smuovere una situazione ormai statica da diversi anni.
Con
espressione apparentemente apatica, Mikasa si girò di
spalle, scrutò un’ultima
volta la stuatuetta portafortuna, infine mosse il braccio in uno scatto
rapido.
Udì un tonfo nello specchio d’acqua, parecchio
rassicurante sul fatto che
l’oggetto avesse centrato il bersaglio, e allora con gli
occhi chiusi,
ignorando il fatto di sentirsi sciocca e infantile, Mikasa Ackerman
espresse il
proprio altrettanto stupido ma disperato desiderio.
“Vi
prego, dei,
divinità e congiunzioni astrali. Fate che io possa rivedere
Eren.”
Attese
un istante, immobile, ma non sentì proprio un bel nulla
cambiare: l’aria era
fredda come capitava sempre in ogni città americana
dell’east coast in pieno
inverno, il parco era frequentato da vecchietti, coppiette e negli
angoli bui
persone di dubbia moralità, nell’altra mano lei
continuava a tenere il sacchetto
con il cibo d’asporto, gli stessi noodles scotti di sempre
e...
Il
cellulare squillò, il Requiem di Mozart. Ci stava bene in
qualunque occasione.
“Eren?”
mormorò istintivamente Mikasa, con il cuore che perse un
battito.
Rapida,
tirò fuori il telefono e rispose, ma prima di poter fiatare
sentì la voce
dall’altro capo anticiparla:
“Oi,
mocciosa, pensi di arrivare entro stasera con i fottutissimi noodles
del pranzo
o devo assecondare Hanji e lasciare che ci faccia esplodere cucina,
casa e il
dannatissimo cortile?”
Assottigliò
le labbra. Sentì un rumore di pentole e qualcosa che si
rompeva, sembrava un
piatto.
No, decisamente
non era
Eren.
“Sono
per strada. Stronzo.” Replicò, tagliente.
Ma
proprio sul filo dello stronzo,
dall’altra parte avevano già staccato il telefono.
Impegnata
com’era a uccidere a sangue freddo prima
l’indovino, poi tutti i suoi
dannatissimi parenti Ackerman, Mikasa non riuscì a scorgere,
in cielo, una
splendida cometa in fiamme atterrare.
*
“Whoa! L’hai vista quella, Eren?”
Questi
annuì, con gli occhi sgranati nei quali riluceva tutta la
bellezza di quello
spettacolo astronomico inaspettato.
Finì
di mangiare il pretzel avanzato da uno dei clienti della caffetteria,
si pulì
le mani dalle briciole sul grembiule e commentò:
“Possibile
che si veda così bene in pieno giorno?”
“Magari
è un aereo in fiamme?” dedusse l’altro,
un ragazzo dai capelli castano chiari,
l’aria osservatrice e un atteggiamento quasi
d’ammirazione nel parlare con Eren
che, per contro, tendeva a infervorarsi troppo facilmente e a non
notare certi sguardi che gli
venivano rivolti.
Sussultarono
entrambi quando udirono aprirsi la porta che si affacciava sul
cortiletto del
retro dove, in quel momento, i due si trovavano.
“Floch,
Eren, conviene che vi sbrigate a rientrare prima che Brzenska si
lamenti della
vostra assenza.”
Annunciò
il ragazzo che si era sporto dall’apertura, anche lui con il
grembiule e la
divisa da cameriere e i capelli biondi un po’ scompigliati.
Floch
annuì con un vago senso di colpa, ma Eren sbottò,
incapace logicamente di
accettare quella che per lui era un’ingiustizia:
“Era
la nostra pausa, Armin, ce la siamo guadagnata dopo aver sgobbato tutta
la
mattina e anche il pranzo. Sono il primo a lavorare quando
c’è bisogno, ma qui
stiamo venendo tutti presi in giro! E non lo accetto!
Voglio...”
Fece
per dire altro, con gli occhi che saettavano furia e senso
d’ingiustizia da
tutte le parti, ma Armin lo prese per un braccio, annuendo, per poi
interromperlo con diplomazia:
“Sì,
sì certo Eren, però tieniti le proteste per dopo
e pensiamo a tenerci il
lavoro, perché abbiamo un affitto da pagare e
l’università, quindi non possiamo
esattamente concederci di contestare la politica aziendale dopo le
feste.”
“Ciò
non toglie che Eren abbia ragione, se non ci fosse lui a dire le cose
come stanno
staremmo tutti chini con la testa bassa” intervenne Floch con
una luce vivida
negli occhi, entrando, evidentemente già dimentico della
pausa di cinque
risicatissimi minuti per sostenere con energia la causa del suo collega.
“Taccagna
e approfittatrice – sbottò Eren, lanciando nel
frattempo un’occhiata a Floch –
aspetti solo che finiamo questo girone infernale di lavoro e gliele
farò
scontare tutte.”
“Certo
Eren, giusto il tempo di lasciare passare il mese di gennaio e ci
pensiamo, ok?
– convenne Armin, con un sorriso morbido sul volto accaldato
e un leggero,
impercettibile, tic all’occhio – ora, pensiamo alle
venti ordinazioni in
sospeso, ti va? E a Jean dalle cucine che insiste perché ci
diamo una mossa a distribuire
le portate visto che sono le quattro passate, che ne dici?”
Eren
si allacciò meglio il grembiule per sbottare istintivamente,
al solo sentire
nominare quello stronzo dell’aiuto-cuoco: “Faccia
da cavallo può anche
andarsene a fanc... – ma si interruppe, vedendo lo sguardo
spazientito di
Armin, correggendosi – va bene, va bene, ci penso io. Andiamo
a portare queste
ordinazioni e facciamo in modo che la gente esca di qui pregandoci di
tornare!”
Annuì,
capace di caricarsi con energia e spirito di autoconvincimento
esemplari.
Poi
corse verso le cucine, litigando brevemente con Jean in uno scambio di
insulti per
partire infine verso la sala. Floch fece un fischio.
“Wow,
Eren sa sempre come affrontare alla grande ogni situazione, anche se la
vita
non è stata esattamente gentile nei suoi
confronti.”
Armin
sospirò, sapendo bene a cosa il collega si stava riferendo,
poi scrollò le
spalle: “Più che altro –
guardò con un’aria quasi rassegnata Floch e la sua
espressione di timida contemplazione – è che Eren sa crederci tantissimo.”
*
La
sera, Eren rientrò nell’appartamento
più morto che vivo. Dopo essersi tolto
l’apparecchio
acustico, crollò sul letto della sua stanza con la faccia
sul cuscino, senza
nemmeno le forze di farsi una doccia. Pazienza, ci avrebbe pensato
l’indomani,
oltre a raccattare i libri e le robe lasciate sparse per la camera,
cercare di
studiare qualcosa in vista dell’esame del giorno successivo e
arrancare la sera
per il turno di chiusura della caffetteria che, in via del tutto
eccezionale,
avrebbe tenuto aperto in vista di una festa di compleanno; questo
voleva dire
gente che si sarebbe ubriacata come se non ci fosse stato un domani,
vomito da
pulire e rischio di litigarci, perché Eren sotto stress
diventava una palla
rabbiosa d’aggressività.
Si
rigirò sul materasso, poi afferrò il cellulare e
decise di posticipare la
sveglia, esattamente come aveva posticipato la doccia. Anche se Armin
aveva in
programma di fare un gruppo di studio, Eren avrebbe potuto aggregarsi
in
seguito e godersi, finalmente, un attimo di tempo per ricaricare le
pile in
vista delle pessime giornate che lo aspettavano.
In fondo, che
mai
potrebbe capitare?
Autoconvicendosi
di star facendo la cosa giusta con la solita ammirevole fiducia in se
stesso,
Eren si addormentò nel letto, mentre il telefono, al suo
fianco, si spense e si
riaccese improvvisamente.
*
“Levi,
secondo te come potrei descrivere meglio questa cosa?”
Domandò
la donna, all’improvviso.
L’interpellato
deviò gli occhi dallo schermo, appoggiò un gomito
sullo schienale della sedia e
fissò la sua interlocutrice, anche lei davanti al computer
con una matita in
precario equilibrio sul labbro superiore, un’altra matita
incastrata tra i
capelli castani spettinati e gli occhiali scivolati fin sul naso.
“Quale
cosa?”
Domandò,
con voce piatta.
Hanji
Zoe, scrittrice e in parte collega del succitato Levi a cui si stava
rivolgendo, gesticolò un istante con le mani, nel tentativo
di dare la forma a
qualcosa per cui, un secondo dopo, Levi si pentì di aver
chiesto informazioni
più specifiche:
“È
che c’è lui, sopra di lei. Ma non proprio che
vuole entrare per vie normali,
più tipo...”
“Oi,
stop, fermati – Hanji lo guardò, per poi tornare a
concentrarsi sulla matita
prima che cadesse, dunque Levi inspirò brevemente
– le entra con il cazzo nel
culo? È questo che vuoi dire?”
Hanji
lo fissò un istante. La matita le cadde dalle labbra. Poi
annuì, lentamente, e
altrettanto lentamente sorrise con quel misto tra beatitudine ed
esaltazione
che inquietavano la maggior parte degli esseri umani, poco consapevoli
del
carattere eccentrico della donna.
“Sì,
sì esatto! Precisamente quello! –
appuntò qualcosa sulla scrivania, mentre Levi
la fissava inespressivo dopo aver roteato gli occhi seccato –
È che forse
dovrei metterci in mezzo qualcosa di più poetico. Alle donne
in età da marito
non è che piacciano queste cose tanto dirette.”
Levi
afferrò per i bordi la tazza di the bollente, ma
continuò a fissare la sua
interlocutrice, mentre il leggero vapore gli ondeggiava quieto davanti
al naso:
“Che
mucchio di stronzate.”
Concluse
alla fine, asciutto.
Hanji
fece un lamento un po’ scenico: “Grazie tante, eh!
Non sei tu che deve vendere
squallidi romanzi rosa con aitanti stalloni dai muscoli improbabili che
cavalcano ricche ereditiere annoiate – si arrestò
un attimo, picchiettando un
dito sulle labbra – o erano ricche ereditiere vogliose?
Mmm... devo rivedere
questo punto.”
Allora,
Levi smise definitivamente di ascoltarla, sbottando mentre si alzava:
“Con quei
romanzi rosa mi ci pulisco il culo. Riprendi a scrivere il tuo cazzo di
libro
di fantascienza.”
Concluse,
chiudendo il dizionario dei sinonimi e dei contrari che usava per
tradurre,
spegnendo il monitor.
Hanji
fece un mezzo sorriso: sapeva che quello era il modo brutale di Levi
per farle
un complimento e incoraggiarla a scrivere ciò che davvero le
piaceva. Almeno,
dopo anni di amicizia era più o meno così che
interpretava quel mix letale di
carattere scostante, diretto in maniera brutale e del tutto privo di
tatto
tranne in casi totalmente inaspettati e, spesso, con un accompagnamento
del
tutto indelicato. Come quando Hanji era scoppiata a piangere davanti al
finale
di Band of Brothers e Levi, seduto sul divano al suo fianco, le aveva
sporto un
fazzoletto commentando: “Asciugati il moccio,
quattrocchi.”
“Stasera
magari do un’occhiata a quella parte nello spazio e vedo di
lavorarci su. Posso
prendermi anche una pausa dai maschioni aitanti.”
Gli
fece l’occhiolino alla parola maschioni
aitanti ma Levi si limitò a farle una mezza
smorfia, per poi riprendere a
ignorarla del tutto mentre apriva la porta che dava sul corridoio e, al
fondo,
alla sua stanza.
“Vai
già a dormire?” domandò ancora Hanji,
consapevole che l’appetito sessuale di
Levi era un mistero la cui scoperta, probabilmente, avrebbe decretato
il
prossimo premio Nobel alla Scienza.
Dal
corridoio non le arrivò alcuna risposta, eccetto una porta
che si chiudeva in
maniera brusca. Segno che... sì, Levi andava a dormire, e
sì, essendo una cosa
ovvia a quel punto non necessitava nemmeno di una risposta.
L’uomo,
provando un profondo senso di sollievo all’idea di essersi
già lavato da capo a
piedi prima di concludere le ultime righe della traduzione,
occhieggiò di
sfuggita i suoi libri sulla teoria della traduzione, i vari dizionari
inglese-tedesco e inglese-giapponese; poi, più accanto,
qualche compendio sulla
contabilità, dei faldoni ordinati per anno e una rubrica
ancora cartacea con i
numeri di idraulici, elettricisti e... sì, persino pompe
funebri.
Perché
in quei cinque fottutissimi anni tutto ciò era diventato una
costante nella sua
vita, più precisamente da quando Hanji si era ritrovata per
le mani un intero
palazzo, ereditato da un prozio morto che aveva intestato tutto
all’unica
nipote che si fosse degnata di ricordarsi di lui. Ancora più
precisamente, dal
momento in cui la suddetta ereditiera continuava a reputare gli
immobili
interessanti solo per essere picconati, rilevare le tubature di gas,
acqua e
cavi elettrici, assistendo con entusiasmo a tutti gli interventi di
riparazioni, mentre progettava storie strampalate su tecnici riparatori
sexy e
casalinghe annoiate, dunque non esattamente un esempio di zelo
burocratico o di
ottica improntata sul guadagno.
Era
una donna con molta fantasia, ma senso pratico rasente lo zero, ragion
per cui
era totalmente inadatta per gestire inquilini indisponenti, rendiconti,
cattivi
pagatori e disastri sostanzialmente nucleari.
Levi
si era trovato progressivamente sempre più invischiato nei
suoi casini, a
cominciare da quando era andato a picchiare uno stronzo che aveva quasi
un anno
d’affitto arretrato e si lamentava pure degli spifferi del
fottutissimo bagno.
Incazzato, irritato dal vedere Hanji a sua volta irritata, Levi un
giorno era
andato a suonargli la porta, il tizio gli aveva aperto e senza dire una
parola
Levi gli aveva assestato un pugno dritto in faccia, per poi prenderlo
impietosamente a calci:
“Comincia
a pagare, figlio di puttana, o il culo congelato mentre vai a cagare
sarà
l’ultimo dei tuoi problemi.”
“Levi,
com’è che finisci sempre per parlare di
cacca?” era stato tutto quello che,
visto lo spettacolo, Hanji aveva commentato. Sì, nemmeno le
reazioni di
quest’ultima di fronte alla violenza erano decisamente
normali.
Così,
più o meno da quell’occasione era stata questione
di... mesi, giorni? Levi
nemmeno lo sapeva con certezza, fatto stava che lui si era ritrovato ad
aiutare
Hanji a gestire quella specie di condominio, creando un piano di
ristrutturazioni e, soprattutto, pulizie come si doveva,
perché le scale
facevano schifo da quanto erano luride, i mancorrenti erano talmente
saturi di
germi da poter prendere fuoco e i vetri erano sostanzialmente un
simulatore di
nebbia dalla sporcizia accumulata in anni.
In
cambio della precisa gestione, Hanji gli aveva offerto di condividere
un
appartamento un po’ troppo spazioso per lei; se
all’inizio Levi aveva rifiutato
categoricamente, con il tempo, dietro insistenza dell’amica e
ben poco disposto
a cercare qualcosa che non fosse una topaia puzzolente, Levi aveva
deciso di
concederle un’occasione di prova per capire se avrebbe dovuto
pensare a come
seppellire il cadavere della donna o, semplicemente, pensare di
comprare un letto
da ficcare nella stanza assegnatagli.
Ebbene,
sorprendentemente, i pensieri di Levi erano stati dirottati verso la
seconda
delle possibilità perché Hanji, nonostante alcuni
momenti d’invadenza, sapeva
essere a suo modo riservata con una sorprendente empatia, in altri casi
semplicemente si estraniava nei suoi deliri creativi. Ancora
più spesso, loro
due soffrivano d’insonnia cronica e si ritrovavano alle tre
di notte a
riguardare qualche vecchissima puntata di Doctor Who, mentre Hanji
agitava un
cacciavite fingendo che fosse un potentissimo Cacciavite Sonico.
Quella
sera, però, Levi sentiva una stanchezza micidiale addosso,
gli occhi infossati
che si chiudevano e la voglia di gettarsi nel letto per non riemergerne
fino al
mattino seguente.
Con
addosso una maglietta dotata della scritta I
solo killed 39 titans and all I got was this loosy T-shirt e
un paio di
boxer neri, il traduttore si gettò di peso sul letto,
schiacciando una guancia
contro il cuscino.
Dilatò
impercettibilmente le narici.
C’è
puzza di
fottutissimi noodles, arriva dalla cucina. Se non penso io a mettere
via gli
avanzi, né la mocciosa, né la quattrocchi si
ricordano...
Cos’è
che doveva ricordarsi? Levi smise di pensarci. Ebbe un’idea,
prima di
capitolare definitivamente: non aveva visto la spettacolare cometa che
era
passata quella sera nel cielo. Hanji gli aveva quasi rotto
l’osso del collo per
fargli alzare la testa, ma era stato comunque troppo tardi.
Non
seppe perché, ma Levi ritenne di essersi perso qualcosa
d’importante.
*
Eren
si era svegliato carico di buone intenzioni, con l’idea di
farsi una bella
colazione energetica a base di uova strapazzate e bacon, rassettare
quella
sorta di prototipo di bomba atomica che era la sua stanza, per poi
concludere
con una doccia di almeno un’ora in modo da sentirsi in colpa
per l’ecosistema.
Aveva
sentito suonare una sveglia e sussultò di colpo,
perché partì alla riscossa il
ritornello di Fluorescent Adolescent degli Artic Monkeys –
che, per carità, li
amava ma non ascoltava quella canzone da secoli. Eren si mise di scatto
a
sedere, spalancando gli occhi nella semioscurità mentre il
suo cervello gli
diceva di non ricordarsi di aver salvato quel brano, ma lo mise a
tacere; forse
aveva cambiato sveglia la sera prima e non se l’era ricordato.
A
tentoni, mentre la musica continuava, cercò il cellulare.
Rise, sull’onda di
una crisi isterica, perché il comodino incasinatissimo con
quell’affidabile pila di
libri e fumetti su
cui era solito posare delicati oggetti tecnologici era sparito,
mentre la musica continuava a volume sufficientemente alto
da poterla sentire entrargli nel cervello.
Allungò
l’altra mano e finalmente scoprì che il comodino
doveva essersi trasformato in
una mensola quadrata, bassa, mangiandosi anche i fumetti nel frattempo
visto
che era sostanzialmente vuota eccetto un libro rilegato messo
simmetricamente
rispetto al lato. Ma quando mai Eren metteva le cose simmetricamente
ordinate?
Eren
afferrò il telefono e realizzò che doveva
trattarsi di una chiamata e non una
sveglia. Vide anche che erano le sette del mattino, infatti era strano:
andava
bene ogni buon proposito, ma svegliarsi a quell’ora era da
suicidio.
Rimase
però interdetto quando vide che era... Mikasa a chiamarlo.
Non si sentivano da
più o meno dalla fine del liceo, quando sia lui che Armin
avevano seguito rispettivamente
l’uno sua madre ed Eren i suoi genitori, lasciando Mikasa in
balia dei propri
parenti, quelli Innominabili di cui non parlava mai; purtroppo,
l’ultima volta
che si erano visti tutti e tre non era finita esattamente benissimo.
Dopo
un istante Eren rispose. Notò anche uno sfondo dello schermo
con una cabina
azzurra – altra roba che non si ricordava minimamente di aver
cambiato.
“Mikasa?”
Domandò
aggrottando appena le sopracciglia. Dette un colpo di tosse, sentendo
la
propria voce più bassa del solito.
Si
sarebbe aspettato quantomeno un Eren!
Detto con un po’ di stupore e l’aggiunta di una
frase schiva, com’era tipico
del carattere silenzioso di Mikasa, invece l’unica risposta
che ebbe fu un
gelidissimo:
“Sto
andando a lavoro, Kenny è ancora sverso
nell’ingresso. Ho fatto il possibile
per il vomito.”
Eren
tacque.
Mmmh,
non esattamente la conversazione che si sarebbe aspettato, insomma.
“Kenny?”
domandò dopo un istante. Non sapeva se magari aveva
difettato qualcosa nelle
orecchie. Ma, sorprendentemente, non aveva mai sentito così
bene. Si tastò
dunque le orecchie, realizzando di non aver nemmeno messo
l’apparecchio
acustico.
Sentì
benissimo anche un sospiro
spazientito dall’altra parte:
“Mi
stai prendendo in giro? Sì, Kenny, nostro zio, il primo
stronzo a parimerito
della famiglia Ackerman. È uscito con una tipa ed
è rientrato in casa giusto
per vomitare sul tappeto d’ingresso del condominio.
L’ho lasciato lì, sono già
in ritardo.”
“Kenny
– ripeté Eren, perplesso – me ne avevi
accennato insieme all’altro tizio, è lui
il secondo stronzo? Insomma, Mikasa, sono passati anni, dopo tutto
questo tempo
mi chiami per parlarmi di tuo zio annegato nel vomito? Ok spezzare il
ghiaccio,
ma qui c’è decisamente qualcosa che mi
sfugge.”
Dall’altra
parte Mikasa tacque un istante.
Dopodiché
replicò: “È per i noodles,
vero?”
Sembrava
irritata. Lei si sentiva irritata,
questa era bella. Eren
scattò in
piedi – strano, si sentì... basso.
Annusò l’aria, concedendo:
“Sì,
c’è puzza di noodles, non è questo
il...”
“Lo
sapevo, tipico. Sai che c’è? La prossima volta la
cucina lavatela da solo! Ci
sentiamo, Levi.”
A
Eren parve di udire un sussurato nano
malefico, ma non ne fu certo perché la chiamata
era stata brutalmente chiusa.
Però
aveva sentito chiaramente un Levi. L’aveva chiamato Levi?
Mikasa aveva bevuto?
Alle sette del mattino era tragica anche per chi soffriva
d’alcolismo, ma lei
gli era sempre sembrata una donna ben più che responsabile.
Eren
si passò una mano tra i capelli, scostandosi un ciuffo nero
da davanti agli
occhi, mentre contemplava una stanza ordinata, almeno quello era un
pensiero in
meno all’idea di dover gestire strambe telefonare e pulire
pure camera che...
Un
momento.
Da
quando aveva i capelli neri?
E,
soprattutto, da quando aveva una stanza ordinata? Si guardò
attorno. Il cuore
prese a battere più veloce, sgranò gli occhi,
confuso. Quelli... quelli non
erano i suoi oggetti, ora che li osservava attentamente: niente poster
dei
Kinky Talks, il suo gruppo preferito e sconosciuto a quegli sciocchi
comuni
mortali ignoranti di musica, niente bersaglio per le freccette con la
faccia di
Jean traforata, niente ulteriori fumetti e videogiochi sparsi.
Eren
si toccò la faccia. La sentì più
spigolosa, i capelli più lisci, poi abbassò lo
sguardo e vide una maglia mai indossata, e più sotto dei
boxer neri che non
ricordava di aver indossato: suvvia, che senso aveva indossare la
biancheria
intima a letto?
Quando
qualcuno entrò spalancando di botto la porta al grido
euforico di:
“Levi!
Lo stalliere e la ricca ereditiera! Hanno fatto sesso, ce
l’ho fatta! Contro
ogni mobile in arte povera disponibile!”
“Cazzo!”
Urlò Eren, irritato e spaventato dal vedere entrare
all’improvviso una tipa
altissima con gli occhiali e la faccia da esaltata che
ribatté:
“Sì,
è fantastico vero? Sono entusiasta
anch’io!”
*
C’era
stato un tempo in cui Levi aveva pensato di possedere un notevole
controllo
sulla propria vita; certo, esistevano comunque degli imprevisti che lo
costringevano a variare leggermente gli intenti prefissati, ma in un
modo o
nell’altro l’uomo era sempre riuscito a evitare il
disastro totale e salvare la
giornata.
Ecco,
quella volta Levi ebbe la smentita di qualunque cosa detta di cui sopra.
Aprì
gli occhi dopo aver faticato diversi istanti, come se le palpebre gli
si fossero
incollate sopra. Istintivamente dilatò le narici per
cogliere ancora l’odore
rivoltante dei residui di cibo del giorno prima, ma soprendentemente la
puzza
di noodles era stata sostituita a qualcosa che ricordava puzza
di stanza d’adolescente fetido in abiti da universitario.
Il
Maligno.
Mikasa
aveva tanti difetti, tra i quali essere un’universitaria, ma
perlomeno non
puzzava. Aprì gli occhi, sollevò le coperte e
sentì un fastidio immediato,
procurato da un freddo alle palle che rappresentava l’ultima
ciliegina sulla
torta di quella mattinata già cominciata di merda.
Si
alzò a sedere, stropiacciandosi lentamente gli occhi, per
poi abbassare lo
sguardo e rimanere pietrificato.
Realizzò
due cose, quella mattina: prima di tutto, di essere nudo. Niente
maglietta
comprata online, niente boxer neri, nulla. Seconda cosa e,
possibilmente ancora
più sconvolgente, il cazzo... non era il suo. Proprio zero,
nada, errore di
sistema.
Scattò
in piedi, rivoltando le coperte, rigirandosi con le natiche
all’aria e i
gioielli di famiglia, per poi guardarsi attorno braccato:
c’era caos, caos e
disordine. E... polvere. Cristo Santissimo la vedeva, sopra ogni
scaffale pieno
di dispense, fumetti, fotocopie, libri e altri testi imprestati dalla
biblioteca come ogni universitario pezzente sembrava fare
d’abitudine. Per non
parlare di poster di tizi sconosciuti, una foto trapassata da freccette
in
plastica e videogiochi vari.
Fottuto,
era fottuto.
Afferrò
il lenzuolo, se lo mise addosso come un mantello e aprì la
finestra, prima di
morire soffocato, poi pensò, guardando la porta della
stanza: Hanji. Deve
essere là fuori nella cucina a cercare di preparare un
caffè
filtrato che sa di acqua sporca, ma Dio solo sa quanto mi vada bene
anche la
sua brodaglia schifosa in questo momento.
Aprì
la porta, incurante di essere sostanzialmente un incrocio tra un
maniaco e un cos
player fallito di un antico romano.
Dall’altra
parte, invece, il brillante e gentile Armin Artlet fece per sorridere
nel
sentire Eren già in piedi e lo cominciò a
salutare con un:
“Ciao,
Eren, che bello ved...”
Si
bloccò. Anche l’altro si arrestò, con
una mano ancora sulla maniglia.
Armin
guardò un po’ spiazzato Eren con i capelli come
sempre disordinati, sulle
spalle le lenzuola, un’aria affannata e tutte le sue
nudità allegramente
all’aria. Non che Armin non avesse avuto occasione di vederlo
nudo in quegli
anni di convivenza, ma sicuramente mai con un prototipo barbone di
mantello,
specie di prima mattina, in cui Eren non si alzava nemmeno se gli
avessero
regalato un biglietto al concerto di una delle band sconosciute che
piacevano
soltanto a lui.
Levi,
dall’altra parte, aveva visto un tizio biondo, coi capelli
che ricordavano un
incrocio tra He Man e un fungo, lo sguardo fastidiosamente pacifista e
le labbra
che avevano detto qualcosa ma lui aveva colto appena un suono leggero.
La cosa
che lo inquietò è che gli ricordava Erwin, e
sapeva, poteva giurarci sul suo
set di panni elettrostatici, c’era un motivo più
che valido per quella
somiglianza, ma in quel momento i suoi neuroni si connettevano a
rallentatore.
“Che
hai detto? Alza la voce!” ribattè dunque, per poi
guardarsi attorno. Un divano
sfondato, mobili recuperati forse alla discarica, poster da hypster di
eventi
musicali e film pieni di denunce sociali, pareti dalla tappezzeria
imbarazzante
mai cambiata nel corso dei secoli. La camera universitaria era
tramutata nel
salotto universitario. Levi sentì un moto di disgusto
salirgli alla bocca dello
stomaco.
Armin
sospirò, alzando la voce: “Eren!
L’apparecchio acustico! Hai dimenticato di
metterlo?”
Levi
lo fissò, smettendo di guardare la pila di piatti sporchi
con residui di cibo
precotto e si girò verso il ragazzetto biondo. Aveva parlato
a rallentatore ma
se non altro era riuscito a capire tutto, compreso un nome mai sentito
prima.
“Eren?
Chi cazzo è Eren?” gli era uscita di getto quella
domanda, la testa che aveva
cominciato a vorticargli per quell’insieme di cose mai viste,
né sperimentate.
Armin
cercò di non guardare l’amico come se stesse
osservando una persona con
evidenti problemi mentali, ma non fu certo di esserci riuscito. Con
tutto il
tatto possibile disse sempre a voce alta, mettendo su un sorriso
conciliante:
“Dai,
non scherzare. Jaeger, Eren Jaeger. Sei tu, su, fingere una crisi
d’identità
non ti aiuterà denunciare Brzenska per sfruttamento sul
lavoro.”
Levi
lo fissò, senza battere ciglio. Deglutì un solo
istante, poi lentamente annuì,
due volte, cercando di riprendere il controllo di se stesso o,
perlomeno, di
quanto era rimasto di sé.
“Il
bagno. Dov’è?” domandò
asciutto.
Armin
aveva conosciuto Eren sotto molte sfaccettature bizzarre, ma se non
altro era
sempre stato estremamente discreto e autonomo nell’espletare
le proprie
funzioni corporali. Però non volle questionare e
indicò la porta al fondo del
corridoio:
“Laggiù.”
Lo
vide annuire, molto più serio del solito, e dirigersi verso
il bagno.
Levi
dovette impiegare un istante per calibrare piede e cervello, rendendosi
conto
che, oltre a non sentire un cazzo, si avvertiva sbilanciato e
fastidiosamente
più in alto del normale. Non ebbe tempo per pensarci. Con
ancora indosso il
lenzuolo spalancò la porta del bagno, la richiuse con un
gesto secco e si
fiondò verso lo specchio.
Rimase
paralizzato, con le mani inchiodate al lavandino – che, per
giunta, aveva delle
incrostazioni di dentifricio risalenti probabilmente al pleistocene
– ma Levi
era impegnato a vedere altro per notare i residui bellici di tardo
adolescenti
fuori controllo.
Aprì
appena la bocca, poi la richiuse.
Non
vide riflessi nello specchio i propri occhi un po’ affossati
nelle occhiaie, né
i capelli neri che tagliava alla stessa maniera da anni: ricambiavano
il suo
sguardo, infatti, due occhi verdi decisamente più grandi e
vitali dei propri,
contornati da capelli castani spettinati e sopracciglia piene.
Si
sfiorò lo zigomo maggiormente morbido, con un velato accenno
di barba, e lasciò
lì le dita, la testa che gli vorticava, la salivazione
assente. Non aveva mai
visto nulla di più bello in quegli ultimi anni, anche se
faticò a sentire la
propria voce quando mormorò:
“Eren.
Io sono... te.”
Visti
tutti i casini che sarebbero successi da lì in avanti,
quella fu l’ultima volta
in cui Levi pensò davvero ci fosse qualcosa di bello in
tutto quel gigantesco,
spropositato, ammasso di colossali sfighe.
Sproloqui di una zucca
Ebbene
sì, dopo eoni finalmente sono tornata a scrivere sul fandom
di AOT. In realtà avevo in testa questa storia da mesi e
l'ho scritta nei vari ritagli di tempo. Ora è giunta quasi
alla fine e, siccome avevo bisogno di qualcosa di leggero e carico
d'ironia, ho pensato: pubblichiamo! Quindi beccatevi questo racconto
(sarà di 11/12 capitoli credo) che spero vi farà
fare qualche risata, anche se ogni tanto ci saranno delle punte di
angst perché, suvvia, altrimenti non sarei io XD
Ma comunque il tutto sempre alternato a eventi un po'
bizzarri, inseguimenti, e via dicendo; nonostante il filo ironico, la
storia non sarà mai demenziale e, soprattutto,
cercherò sempre di rendere IC al massimo ogni personaggio
che vi prenderà parte.
Due
ultimi punti prima di salutarvi:
1.
L'idea dello scambio di corpi è superusata: negli anime,
nella letteratura, nei film e via dicendo. Tanti saluti. Posto
ciò, lo svolgimento di trama sarà totalmente mio
personale e, spero, con imprevisti divertenti/dinamici.
2.
Ogni capitolo avrà il titolo di una canzone (questo, per
esempio, è degli Artic Monkeys), titolo sul quale potrete
cliccare per sentire la canzone stessa e avere un po' l'idea del ritmo.
Cercherò sempre in ogni capitolo di mettere un riferimento a
tale suddetta canzone scelta, perché mi diverto a mettere
richiami vezzosi, e perché in un certo senso il titolo
richiama il contenuto del capitolo stesso.
Giunti fin qui, vi ringrazio
per aver letto. Come sempre, recensioni, opinioni e quant'altro sono
ben gradite. Alla prossima!
|
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Capitolo 2 *** Whatever People Say I Am, That's What I'm Not ***
Karma is a bitch, kiddo
Eren
guardò un istante la donna con gli occhiali, sentendo
istintivamente il bisogno di coprire le proprie parti intime, solo per
poi ricordarsi di essere più che vestito.
Lei gli
batté una pacca sulla spalla esclamando divertita:
“Levi! Da quando fai il vergognoso con me? Abbiamo visto cose
l’uno dell’altra che nemmeno nei peggiori incubi di
Lovecraft!”
Gli fece
l’occhiolino, per poi tornare a sorridergli tutta entusiasta,
anche se aveva delle evidenti occhiaie di chi la notte aveva fatto
tutto meno che dormire.
Eren si
schiarì la voce, cercando di recuperare il ricordo di dove
avesse già sentito quel nome, poi domandò,
passandosi una mano dietro il collo:
“Ehm,
sì, posso chiederle chi è lei?”
Sorrise, ma il
sorriso di spense quando la donna si bloccò, fissandolo
perplessa, spenta di ogni precedente spensieratezza.
“Levi?
– domandò, per poi mettergli una mano sulla
fronte, preoccupata – Che ti è successo? Stai
male, hai la febbre? Da quando mi dai del lei? E sei... educato!”
“Sono
normale
vorrà dire!” ribatté Eren, considerando
che per sua madre dare del lei era giusto il modulo propedeutico alle
maniere civili da mantenere con gli estranei, insegnate a forza di
paiolate sul sedere.
Hanji non
sentì traccia di temperatura corporea anomala.
Ascoltò l’ultima risposta di Levi, beccandosi
tutta la formalità del caso, indietreggiò di un
passo e si portò la mano sotto il mento, scrutando
l’uomo che aveva davanti a sé. Non vide alcuna
traccia di cambiamento: stessi occhi metallici infossati, capelli neri
dritti come spaghetti, altezza minima per non essere considerato un
bambino in età prescolare... Levi, sì, quello era
decisamente Levi. Poi il fatto che parlasse come una persona dotata di
normali funzionalità sociali era un altro discorso.
“Mh,
sì, ok Levi, mi piace la tua insolita fiducia nel mondo di
prima mattina.”
Gli diede
qualche colpetto sulla testa, trovandolo così adorabile.
Eren fece una
smorfia ma, stranamente, data la sua vena impulsiva, comprese che
doveva esserci qualcosa di terribilmente sbagliato in tutta quella
faccenda, donna strana compresa, la quale pareva proprio essere
convinta che lui fosse un altro. E, capelli neri a parte che gli
sembrava di aver scorto, lui effettivamente si sentiva un altro.
Uno specchio.
Aveva bisogno di uno specchio. E di capire che stesse succedendo.
Ma prima che
potesse accennare qualcosa, la tipa eccentrica annunciò con
fare allegro:
“Bene,
dato che sei tornato ai tuoi soliti silenzi da parla-e-ti-ammazzo, che
ho sempre ignorato, ne approfitto per dirti che il caffè
è solo da far scaldare, io vado a recuperare ore di sonno
– si portò una mano alle labbra morbide e
aggiunse, trasformando il volto in un qualcosa a metà tra la
minaccia e l’entusiasmo – e... non scordarti di stasera.”
Eren
sgranò gli occhi, sempre più confuso:
“Stasera?”
Hanji rise,
battendogli una mano sulla spalla: “Ah, da quando sei anche
simpatico? Dai, l’altra volta ti sei divertito, è
per beneficienza!”
Gli
scombinò appena i capelli per poi andarsene canticchiando
felice. Eren si stropicciò il volto, ringhiò
qualche parola di rabbia e sconforto, infine si sedette sul letto di
peso, contemplando brevemente la maglietta che aveva addosso con la
scritta I solo killed 39
titans and all I got was this loosy T-shirt e
rifletté che se non altro il proprietario doveva essere una
persona divertente. O... ironica.
“Proprietario...”
Mormorò.
Di scatto
afferrò il cellulare dimenticato sul letto, ringraziando che
non ci fosse un blocco-schermo; scorse una playlist messa in pausa che
realizzò essere l’album degli Arctic
Monkeys,Whatever People Say I Am, That's What I'm Not, così
senza pensarci due volte mise play. Sentire le note di The view from the afternoon
gli infuse un maggior senso di calma, così nel mentre con
maggiore lucidità attivò la fotocamera.
Beh, poteva
essere un inizio, no? L’idea di andare in bagno e fare...
qualcosa con un corpo non suo lo turbava parecchio, quindi prima di
farsi troppi problemi forse poteva semplicemente guardarsi attraverso
la fotocamera interna e realizzare di essere semplicemente se stesso
– ecco, magari la signora con gli occhiali esclusa, ma poteva
arginare a dopo il problema che la riguardava.
Sorrise,
sicuro e fiero di sé, con la musica che andava ad alto
volume, per poi guardarsi sullo schermo del cellulare e...
sgranò gli occhi, rimanendo con la bocca aperta.
Chi era quello? E
perché sembrava comunque così insofferente,
nonostante lo stupore?
Gli occhi
più piccoli, azzurro metallico, capelli persino troppo
ordinati nonostante glieli avessero sostanzialmente shakerati, sguardo
infastidito e a tratti vagamente apatico... non seppe
perché, ma all’improvviso Eren ritenne di essere
diventato precisamente l’altro
stronzo della famiglia Ackerman. E non si trattava dello
zio riverso sulle scale all’ingresso.
“Levi.”
Mormorò,
prendendo consapevolezza di qualcosa di trascendentale.
Nel farlo, per
sbaglio premette sull’autoscatto. E ritrasse un fotogramma
realmente imbarazzante, a metà tra lo stupito e il coma
cerebrale. Non seppe come ci fosse riuscito perché, al di
là del caos nella sua testa, in un pensiero fugace ritenne
che quello stronzo sopracitato fosse persino un bell’uomo. Ma
Eren, appunto, riusciva in imprese che ad altri erano impossibili.
Nemmeno
pensò a cancellare la foto, né guardò
le altre. Sconvolto, riuscì solo a mettere in pausa la
musica, smanioso al tempo stesso di chiarire la situazione per via del
carattere impaziente.
Si
alzò in piedi, annuendo con convinzione. Aveva rimandato
anche troppo a lungo, si trovava in una condizione ai confini del
paranormale e probabilmente stava ancora sognando ma... necessitava di
fare pipì. E, sogno o meno, avrebbe urinato.
Anche se si
trattava, faceva comunque stento a crederlo, di utilizzare un apparato
riproduttivo e urinario non suo. Poteva riuscirci. Doveva.
Aprì
la porta della camera e andò alla ricerca del bagno. Di
riflesso, portò un dito dietro l’orecchio, quasi
un tocco veloce, trovando forse persino più incredibile
l’idea di essere senza apparecchio acustico: sentiva la porta
aprirsi come se lui si fosse trovato fin dentro il legno e i cardini
oliati, udì il ronzio del frigo nella grande cucina con il
tavolo e, oltre, un divano angolare, udì il rumore della
vita al di fuori. Eren si sentì, allora, veramente spaesato,
sommerso da qualcosa di magnifico.
Aprì
una porta con persin troppo entusiasmo e scorse quello che sembrava uno
studio, almeno a giudicare dalle due scrivanie e dalle carte, quindi
andò oltre nel corridoio: beccò uno sgabuzzino
con ciascun oggetto impilato e sistemato in una maniera organizzativa
impressionante, infine riuscì a trovare il bagno. Lo
aprì, ci si chiuse dentro e per un istante
dimenticò lo specchio: la finestra infatti era aperta. Dava
su un cortiletto interno dove giocavano dei bambini intenti ad andare
sul triciclo, chiacchieravano e ridevano girando in tondo. Lui li
sentì, sentì la loro risata mischiarsi al fruscio
leggero del vento che accarezzava gli alberi e sollevava un sacchetto,
portandolo con sé per qualche metro.
Si
toccò ancora le orecchie, quella volta entrambe.
Avvertì gli occhi lucidi. Era un sogno, giusto?
Si
voltò, scorgendo il profilo di un uomo allo specchio. Non si
riconobbe in esso, ma distinse i tratti dell’uomo a cui aveva
fatto l’autoscatto. Lo guardava, con le mani sulle orecchie e
gli occhi sconvolti, velati di quelle che erano lacrime in procinto di
uscire.
“Merda.
Cavoli. Wow.” Disse in sequenza, senza chiudere occhio.
Passò
almeno dieci minuti a guardarsi o, se non altro, a guardare il tizio
nel quale sembrava essere piombato quella strana mattina.
Sollevò la maglietta, contemplò tastando i
leggeri addominali – beh, i propri da Eren erano
più definiti, anche se non aveva lo Sguardo da Stronzo
Brevettato – si girò di schiena dando
più di un’occhiata alle natiche – mmh,
ecco, forse quelle erano decisamente più belle – e
si toccò con le dita la mascella, sollevando il mento per
guardarsi sotto ogni prospettiva.
Annuì,
umettandosi le labbra, per poi sentire la vescica ricordargli che forse
era il caso di espletare i propri bisogni, anziché perdere
tempo a elogiare un corpo che non era il proprio.
Eren dette un
colpo di tosse, sollevò l’asse del water
splendente e si guardò i boxer.
“Ok,
si può fare. Che vuoi che sia Eren? Sai fare grandi cose se
solo ti ci metti.”
Annuì,
autoconvincendosi.
Si
portò le dita alle mutande, lanciò
un’occhiata fugace allo specchio, per poi tornare a fissare
le proprie mani e il modo in cui abbassarono l’elastico per
scoprire quel tanto che serviva... l’erezione.
Wow, perfetto,
fantastico. Giusto quello che ci voleva.
Si
umettò le labbra. Insomma, non era la prima volta che vedeva
un cazzo, oltre al proprio. Aveva avuto delle... esperienze. Un paio.
Sì, almeno un paio. Nessun amore della vita, sua madre non
aveva mai neppure conosciuto un aspirante fidanzato da quando le aveva
confessato di avere giusto qualche tendenza verso la sponda maschile,
ma specie in un frangente tanto delicato non doveva eccitarsi da
stupido adolescente per un pene come un altro, per quanto notevole e su
un corpo ancora più notevole.
Fece per
ripetersi nella testa qualcosa di macabro per farsela passare, con
l’arte del canemortocanemortocanemorto
bisbigliato in maniera quasi ritualistica tra le labbra, quando una
signora gli urlò da oltre la finestra:
“Pervertito! Non si sta con la finestra aperta! I bambini
potrebbero rimanere traumatizzati!”
Anche se, per
inciso, quella finestra non scendeva oltre metà torace. Ma
Eren sgranò gli occhi, come se fosse stato colto sul fatto,
arrossì vistosamente e corse a chiudere l’imposta,
rischiando di inciampare nei boxer che, muovendosi, erano scesi fin
sotto le natiche.
“Merda!”
Esclamò,
per poi sedersi sul bordo della vasca. Quella si preannunciava una
lunga giornata, o un lungo sogno, anche se Eren era sempre meno
convinto che fosse tale.
Alla fine
riuscì a fare quello che doveva, toccando un cazzo che non
era il suo, con tanto di scrollata e asciugata sommaria con la carta
igienica – fu difficile, molto difficile non eccitarsi ancora
e perdere del tempo a masturbarsi – infine si dette una
sistemata, per poi bere velocemente qualcosa e rendersi conto, una
volta ritornato in cucina, che nel frigo non c’era
assolutamente nulla da mangiare. Il deserto più totale.
Forse i noodles erano il segno fatale che bisognava fare la spesa.
In quel
momento non è che Eren avesse chissà quale
disponibilità mentale per mettersi a fare acquisti per dei
perfetti estranei, ma aveva fame e, forse, uscire a prendere qualcosa
poteva essere un buon compromesso per capirci qualcosa di
più, magari in alternativa addirittura svegliarsi davvero.
Ritornò
nella camera di Levi, se aveva ben afferrato il discorso, si
guardò un istante attorno per poi notare una ciotola di
legno nella quale erano state messe delle chiavi. Le
afferrò, ipotizzando che fossero quelle di casa, seppur
confidando nella presenza della signora strana che dormiva e forse
poteva aprirgli, infine cercò un paio di pantaloni dismessi
per raccattare il portafoglio, sempre con la speranza che tale Levi non
fosse esattamente un pezzente.
Oltrepassò
qualche scaffale per poi aprire un grande armadio ad ante scorrevoli
dove, al seguito di una rapida ricerca tra scaffali con maglie
ordinatamente piegate, vide un ripiano vuoto eccetto per una maglia e,
sotto, un paio di pantaloni.
“Cioè,
davvero piega e mette via i vestiti del giorno dopo?”
Eren scosse la
testa, considerando che il suo massimo era ‘appallottolali e
lanciali dove capitano’. Sollevò la maglia e vide
che sopra il pantalone era stato messo un portafoglio. Sollevato, lo
prese, si mise i pantaloni, indossò la felpa sopra la
T-shirt e prima di mettere via l’oggetto delle sue ricerche
lo aprì, scorgendo la carta d’identità.
Levi
Ackerman.
Sì,
ne ebbe la conferma: era decisamente l’altro stronzo della
famiglia Ackerman.
Ed era pure
più vecchio di lui. Nove anni. Eren sentì una
fitta al petto. Non gli avrebbe mai dato così tanti anni di
più.
Senza nemmeno
controllare i soldi, Eren mise il portafoglio e le chiavi in tasca,
afferrò la prima giacca che ebbe a tiro e, uscendo,
scoprì che quella non
doveva essere la sua giacca. Levi Ackerman, oltre a essere maturo,
bello e straordinariamente asociale, era effettivamente basso: le
maniche, infatti, gli arrivavano a corprire persino parte delle dita.
Si
trovò nell’atrio di quello che sembrava un blocco
di appartemanti in piena regola, con di fianco le scale e di fronte il
portone d’uscita; fu allora che si ricordò dello
zio abbandonato sulle scale: non per un vero e proprio lampo di
memoria, quanto perché effettivamente Eren vide un tizio
riverso sulle scale intento a russare con, accanto, una pozza di vomito.
Eren socchiuse
un istante gli occhi. Perfetto, ora gli era passata la fame.
Sentì
l’uomo mormorare qualcosa, come se avesse avuto un radar nel
sentirlo arrivare, poi lo vide tirarsi su, biascicare con la bocca,
occhieggiare con indifferenza il vomito e infine fissarlo, con lo
sguardo ancora addormentato ma gli occhi dal profilo leggermente
cadente piantati addosso in una maniera tale da incutere una certa
soggezione. Nonostante fosse un tizio dalla barba lasciata crescere, e
miracolosamente senza residui di vomito, le rughe da disadattato, il
naso adunco, i capelli sporchi schiacciati da un lato e, accanto, come
già menzionato un residuo delle sostanze eiettate solo fino
a poche ore fa.
“Alla
buon’ora, nanerottolo!”
Fu tutto
quello che una persona del genere riuscì a dire non appena
vide quello che, evidentemente, doveva essere il parimerito sul podio
degli stronzi Ackerman.
Eren strinse i
pugni. Nuovamente perfetto, ora gli era passata pure ogni voglia di
essere gentile.
“Alla
buon’ora nulla! Fai schifo, ridurti così alla tua
età! Ringrazia che qualcuno si sia degnato di raccattarti
prima che ti denunciassero!”
Quello che
Eren non sapeva di tutta la faccenda, era che c’era un motivo
ben specifico per cui non solo tale zio era stronzo, ma anche per cui
avesse occhi capaci di incutere comunque tanta soggezione.
Lo
realizzò a sue spese, infatti, quando dovette rientrare in
casa a tamponarsi il naso per un pugno ricevuto in pieno volto. Avrebbe
anche ribattuto, entrando nella sua modalità
rabbia-cieca-non-capisco-più-nulla, non fosse stato che
Kenny, dopo essersi messo in guardia e aver evocato nomi di spie russe
inesitenti assieme a nomi femminili di donne che lo avevano
abbandonato, aveva vomitato una seconda volta e si era accasciato al
suolo, sostenendo di essere troppo vecchio per raddrizzare il
comportamento di un, testuali parole:
“Fottutissimo
nanerottolo moccioso.”
Eren
capì, comprese perfettamente, perché Mikasa non
aveva mai voluto parlare degli unici parenti che le erano rimasti.
*
Levi Ackerman
era un uomo determinato, capace di passare sopra ogni ostacolo con la
violenza diretta di uno schiacciasassi al fine di realizzare lo scopo
prefissato. Ma in quel caso la situazione era un po’ diversa:
si trovava ad avere a che fare con un moccioso, in una casa di mocciosi
che puzzava di mocciosi convinti di essere cresciuti solo
perché andavano all’università. Peggio
ancora: lui era proprio nel
corpo di un moccioso, non sessualmente parlando, ma
proprio a livello anatomico e la sola idea avrebbe fatto svalvolare
chiunque. Levi però aveva uno spirito pratico, quanto
più possibile razionale e non amava perdere tempo in
patetiche sceneggiate totalmente inutili a togliersi da quella pessima
situazione.
In primis,
svolse i propri bisogni corporali, seppur con un certo
disagio psicologico all’idea di toccare robe private di un
perfetto sconosciuto che gli sembrava comunque sano, nonostante
puzzasse vagamente di fritto e di cucina. Già solo per
quello aveva attivato la doccia per strigliare la pelle come di dovere:
se proprio avesse dovuto passare ancora del tempo in quel corpo, che
almeno fosse pulito. Si tolse i vestiti, gettò tutto a
lavare, pensando che quel bagno doveva proprio essere
lavato da cima a fondo, e dopo aver controllato che non ci fossero
pantegane nella doccia pulita a un livello accettabile, Levi fece per
entrare prima di scorgere il riflesso allo specchio del bagno.
Era uno
semplice specchio da lavandino schizzato di dentifricio, ma gli dette
l’occasione per vedersi di nuovo e guardare il fisico che,
appunto, non era il proprio. Aveva una bella corporatura, alta,
slanciata, con la muscolatura asciutta e tonica di un giovane attivo,
scarsa peluria, capelli castani che stavano crescendo fino alle spalle
e capaci di scombinarsi nei modi più improbabili.
Bene. Si disse
Levi inarcando appena un sopracciglio pieno. Almeno non sono capitato nel
corpo di un cesso a pedali, è già qualcosa.
Poi
andò sotto il getto bollente dell’acqua e senza
perdersi in troppi convenevoli cominciò a lavarsi, ignorando
il principio d’erezione più per una questione di
orgoglio e senso pratico, visto che era una gran bella erezione
– poteva scordarselo infatti, il dannato moccioso, che gli
facesse il piacere di masturbarsi dopo essersi quasi eccitato vedendosi
da solo – per concentrarsi invece sul da fare. Riprendere
possesso della propria identità era la base, nel frattempo
avrebbe dovuto pensare a una soluzione su come affrontare la faccenda
in qualunque fottutissimo posto si trovasse. Doveva contattare Hanji e
dirle di alzare il culo per coordinare un’azione di recupero,
poi vagliò l’ipotesi di parlare con il ragazzo
funghetto ma, non conoscendolo, non sapeva quanto avrebbe impiegato a
ritenerlo fuori di testa.
Inoltre,
c’era un fattore altrettanto rilevante: non sentiva un cazzo.
Aveva delle
percezioni acustiche, ma ogni suono gli sembrava fastidiosamente
ovattato; si ritrovò a domandarsi se il proprietario del
corpo avesse problemi d’udito sin dalla nascita o in seguito
a qualche trauma.
Chi
se ne fotte, ho altre priorità.
Sbottò,
insaponandosi, convincendosi della totale indifferenza,
perché non avrebbe avuto più nulla a che fare con
quel tipo: una volta trovato il modo di ritornare nel proprio corpo, o
svegliarsi da quello che sembrava l’incubo più
vivido mai vissuto, non sarebbe tornato a incrociarsi con il moccioso.
Quando Levi fu
in accappatoio, capelli asciutti e puliti, si sentì
d’umore notevolmente migliore, la testa svuotata pronta per
trovare una soluzione rapida e andarsene da quel posto dissestato ai
livelli di una favela. Uscì dal bagno, si guardò
un istante attorno, infine percorse il breve tratto di corridoio per
giungere sino alla camera. Poteva mai andare liscio e senza intoppi?
No, ovviamente, perché...
“Eren!”
Appunto.
“Che
c’è?” sbottò, con voce piatta
e lo sguardo evidentemente seccato.
Vide che il
ragazzo funghetto lo osservava un po’ perplesso, poi
spostò lo sguardo e notò al suo fianco un tizio
alto dalla faccia allungata, l’espressione presuntuosa che
già gli faceva venire voglia di prenderlo a cartellate sui
denti.
“Il
gruppo di studio, per l’esame...”
Disse
qualcos’altro ma Levi non capì.
Rifletté solo sul fatto che quel ragazzino dagli occhi
grandi aveva un volto consciuto, gli ricordava qualcuno, ma si
trattò per lo più di un pensiero fugace
perché infatti Levi concentrò tutte le sue
già scarse risorse sociali per cercare di capirci qualcosa.
A maggior ragione, ogni interesse per quella peculiare somiglianza
venne del tutto archiviato quando emerse il ricordo che,
effettivamente, il tizio gli aveva detto qualcosa di un apparecchio
acustico.
“Frena,
frena, frena. Ho un apparecchio per sentire, giusto? Dimmi
dov’è perché mi sto rompendo il cazzo
di vederti muovere le labbra.”
Armin
aprì la bocca, ma Jean – che era arrivato
lì con tutte le intenzioni di passare quel benedetto esame,
visto che già la sua situazione universitaria era piuttosto
critica, gli ci mancavano solo le turbe mentali di Eren –
s’intromise esclamando:
“Eren,
datti una svegliata! Non solo sei stato chiuso in bagno per qualcosa
come un’ora, adesso trovi pure scuse: se vuoi farmi perdere
la pazienza ci sei già riuscito!”
Levi non aveva
capito esattamente quello che aveva detto quel tizio troppo alto, ma
sapeva di per certo che era qualcosa di fastidioso e vicino
all’insulto, dunque si limitò a dirgli:
“Con
te faccio i conti dopo. Lamentati ancora e aggiungiamo un quadro nuovo
in casa, perché per allora ti avrò appeso al
muro.”
Detto
ciò entrò in camera alla ricerca del dannatissimo
apparecchio acustico. Armin e Jean rimasero immobili, persino
quest’ultimo non seppe cosa ribattere; dopo qualche istante
si guardarono e Jean finalmente domandò:
“Quello...
quello era Eren?”
Di solito
quest’ultimo si sarebbe limitato a urargli contro in una
rabbia cieca insulti classici ai quali entrambi sapevano a memoria cosa
ribattere, ma in quel caso il suddetto Eren era stato talmente
lapidario da averlo proprio messo a tacere.
Armin scosse
la testa, scrollando le spalle: “Sembrerebbe, anche se...
è strano forte. Cioè, più strano del
solito.”
Quando Levi
riuscì finalmente a infilarsi il dispositivo, dopo un
fischio acuto iniziale riuscì a regolare il tutto un
po’ a caso e a raggiungere gli altri che erano rimasti fermi
a guardarlo. Sentiva più dei boati, ma immaginò
che fosse sempre meglio di nulla.
“Beh?
Non avevate tutta questa fretta di studiare? Cominciate, io devo prima
capire un paio di cose.”
“Tipo?”
replicò Jean allargando le braccia, infastidito.
Levi lo
sentì e, in fondo, non seppe se esserne davvero contento,
perché appunto almeno significava che
l’apparecchio stava facendo il suo dovere.
“Cioè
informazioni basiche. Fate finta che io abbia avuto una momentanea
crisi di memoria, ok?”
Jean fece per
replicare a tono, ma Armin lo bloccò, inserendosi in mezzo:
“Ehi,
ehi, calma. Sediamoci a tavola e parliamo un istante. Tu Jean comincia
a prendere i libri e a stendere un programma di studio, va
bene?”
Il ragazzo
alto borbottò qualcosa, poi si decise e andò al
tavolo, tirando fuori il materiale.
Armin si
sedette di fronte a Eren, che aveva appoggiato il gomito sullo
schienale, accavallato una gamba e lo guardava con
un’espressione vagamente infastidita. Decisamente, quello pur
essendo il proprio migliore amico sembrava un’altra persona.
“Eren...
che succede, mi vuoi spiegare?”
Levi
valutò l’ipotesi di dirgli tutto ma
optò per escludere la possibilità: si trovava in
un contesto delicato, poi c’era tutta la faccenda con Erwin e
quella sera... doveva assolutamente tornare indietro. Non sapeva se
poteva fidarsi del testa bionda, o se era tutta una macchinazione di
quelli che Erwin stava seguendo da più anni, ma per il
momento doveva cercare di trovare delle spiegazioni e, contestualmente,
una via d’uscita.
“Hai
un computer?” domandò. Immaginò che il
moccioso dovesse avere un cellulare, ma prima di chiamare Hanji doveva
verificare un paio d’informazioni.
Armin
annuì: “Sì, è lo stesso
portatile dal quale guardiamo film e con cui scrocchi sempre la
connessione – ma, prima che lui potesse chiedergli altro,
Armin aggiunse – prima però mi devi far capire se
c’è qualche problema, Eren, perché,
davvero, non sembri nemmeno più tu.”
Levi lo
fissò, fissò gli occhi azzurri piantati su di
lui, lanciò un’occhiata a Jean che si era messo a
mandare un vocale per chiedere le domande fatte dal professore agli
ultimi esami, infine replicò, convinto che forse in fin dei
conti meritasse almeno una spiegazione, anche se di un qualcosa che
nemmeno lui stesso capiva:
“Non
qui, fammi capire un paio di cose, poi ti spiego.”
Armin
occhieggiò a sua volta Jean, poi annuì:
“Ti prendo il portatile.”
Dopo qualche
minuto gli mise davanti il laptop e osservò Eren accedere a
internet, aprendo Google Maps per domandare:
“Dove
siamo? Città?”
Armin
aprì un istante la bocca, poi la richiuse. Allora si
preoccupò davvero, perché Eren non aveva affatto
l’aria di uno che scherzava. Eppure... non sembrava affetto
da amnesia.
“Halle,
Germania.”
Bene,
perfetto, già l’America è grande,
dovevo necessariamente finire nella stramaledettissima Europa?
Solo per
muoversi da Francoforte a New York ci volevano più di sette
ore di volo. E non aveva nemmeno i documenti per sperare di arrivarci
senza intoppi, considerando che lui non era decisamente chi diceva di
essere.
Se solo Levi
avesse avuto un buon rapporto con i cellulari avrebbe potuto sperare di
ricordare a memoria il numero di cellulare di Hanji, o addirittura il
proprio. Ripensò a Erwin che gli suggeriva di comprarsi un
cercapersone e lo mandò mentalmente a fare in culo.
Assottigliò
gli occhi, infine domandò al ragazzo biondo, mentre
l’altro era preso a completare l’elenco.
“Si
può accedere a Facebook?” inquisì,
quasi con sospetto.
Odiava i
social, ma l’unica speranza era che Hanji non fosse ancora
andata a dormire e gli rispondesse. Poteva contattarla e spiegarle la
situazione. Sì, gli sembrava decisamente una buona idea, la
quattrocchi doveva credergli.
Armin si
mostrò perplesso, ma si degnò di rispondergli
perché proprio la situazione stava degenerando:
“Sì.
Insomma, dovrebbero essere memorizzati i tuoi dati, lo usi solo tu da
quel computer. A che ti serve? Devi contattare qualcuno?”
Almeno il ragazzetto biondo
è sveglio. Rifletté Levi.
Annuì
senza dargli troppe spiegazioni, poi accedette alla pagina del moccioso
in cui si era evidentemente incarnato.
Il nome Eren
Jaeger gli comparve non appena cliccò sul profilo e
sospirò quando vide una foto pressoché sgranata,
scattata assieme al funghetto e a un tizio dai capelli rasati. Una foto
profilo davvero merdosa, di uno che aveva tutta l’aria di
aver preso la prima immagine a caso giusto per non lasciare vuoto il
riquadro.
Bene.
Non è un hipster che fa i selfies anche quando va al cesso.
Già mi sei più tollerabile, moccioso.
Scorse giusto
la foto di copertina di quello che sembrava un gruppo musicale dal nome
americano, i Kinky Talks, mai sentito prima. Vide che proprio due
giorni prima il ragazzo aveva condiviso una canzone da youtube
appartenente allo stesso gruppo, senza commenti e con giusto qualche
like da gente che, evidentemente, doveva condividere gli stessi
patetici gusti per gruppi sconosciuti.
Cercò
il contatto di Hanji. La trovò sotto il nome fittizio di
Hanji Seldon e le chiese l’amicizia, scrivendole un messaggio
breve ma significativo:
Quattrocchi, sono Levi.
Nel corpo di un moccioso di nome Eren Jaeger. Fammi mettere in contatto
con chiunque ci sia al mio posto, se il moccioso stesso o se io sono in
stato catatonico, e avvisa Erwin. Non farmi uscire, per nessun motivo.
Dobbiamo risolvere la situazione.
Attese
un istante, per poi aggiungere.
Se
non mi credi fammi domande che solo io potrei conoscere. O falle a
chiunque abbia preso il mio posto.
Rimase in silenzio qualche istante, ma logicamente non ci fu replica.
Erano le undici di mattina, dalle loro parti dovevano essere circa le
cinque di notte; nemmeno Hanji era una grande amante dei social, ma
magari poteva avere improvvisamente voglia di condividere qualcosa e,
di conseguenza, rispondere all’emergenza.
Sollevò
lo sguardo verso il ragazzo di fronte a sé che gli disse:
“Tu
non hai mai conosciuto questa Hanji Seldon. È successo
qualcosa questa notte?”
“Oi,
non far sembrare tutta questa faccenda più strana di quanto
già sia – espirò, infine disse,
risoluto – senti, vieni un attimo fuori.”
Senza
aspettare risposta si alzò in piedi e, prima che potesse
andare inconsapevolmente verso lo sgabuzzino, Armin lo prese per un
braccio, conducendolo invece verso la più appropriata porta
d’uscita sul corridoio, socchiudendo la porta.
Lo
fissò negli occhi, esortandolo:
“Vuoi
dirmi che sta succedendo?”
Fanculo, o la va, o la spacca.
Si disse Levi, per rispondere, cercando di non sembrare schizofrenico:
“Non
sono quello che tu chiami Eren. Il mio nome è Levi e non so
perché cazzo mi trovo qui.”
Ok, forse
doveva giusto lavorare un po’ sulla presentazione.
Armin non
mosse muscolo facciale. Gli occhi grandi erano immobili, la bocca
corrucciata in una smorfia leggera. Aveva quell’espressione
da conato di vomito imminente perché stava pensando, giusto?
“Dunque
– disse dopo un istante il ragazzo dai capelli biondi,
deglutendo come per guadagnare tempo – tu mi staresti dicendo
di non essere Eren. Sei consapevole, vero, che questo è il
corpo di Eren? Insomma è il suo.”
“Certo
che lo so! Riesco ancora a guardarmi in faccia e realizzare che questa
non è la mia fottutissima faccia.”
Ribatté Levi.
Armin non
sembrò scomporsi dall’attacco di rabbia; Eren
diceva poche parolacce, ma quanto a rabbia e scoppi furenti non lo
batteva nessuno.
“Ammetto
che mi trovo giusto un istante in confusione. Insomma, sei strano,
però sei sempre stato strano... con affetto, eh. In ogni
caso, ecco, il volto, tutto, è tuo, cioè, di
Eren, anche se la personalità è piuttosto
sospetta.”
“Più
sospetta di un universitario che non condivide foto di quando si
ubriaca a merda o fuma canne? Avanti, qui siamo al limite della
psicopatia!” ironizzò tagliente Levi, pensando al
profilo facebook più anonimo della storia. Lui ci accedeva
con una rarità imbarazzante, ma almeno condivideva roba
interessante. Tipo... boh, aveva mai condiviso davvero qualcosa? E, ora
che ci pensava, non cambiava foto profilo da almeno quattro anni.
Armin
accennò una risata: “Beh, sì, Eren
è più un tipo diretto, diciamo... – si
morse un labbro, accorgendosi di star parlando di lui come se chi aveva
davanti fosse realmente un altro tizio – senti, cerchiamo una
prova tangibile, poi entriamo dentro e agiamo in base a come valutiamo
la situazione. Posso farti qualche... domanda?”
“Bravo
ragazzo fungo, stavo per proporti la stessa cosa.”
“Armin.
Mi chiamo Armin.” Replicò l’altro, un
po’ a disagio.
“Va
bene, Armin – quel nome gli disse
qualcosa e, in un attimo, credette di sapere cosa, però si
tenne per sé l'idea per non peggiorare la già
precaria situazione – Ora vediamo di
muoverci, perché mi sto gelando il culo e devo trovare in
fretta una soluzione.”
Armin, che
già cominciava a dubitare dell’effettiva
personalità manifestata dal presunto sostituto di Eren, per
quanto paradossale, elaborò in fretta un interrogativo, una
cosa che avrebbe potuto dire soltanto il migliore amico:
“Chi
vorresti picchiare fino a veder riconosciuti i tuoi diritti a
lavoro?”
Gli venne
quasi da ridere, ma si trattenne.
Levi
inarcò un sopracciglio. Che domanda del cazzo era quella?
Che diritti potrebbe avere mai uno studente lavoratore, eccetto una
mansione a ore sottopagata e vicina alla schiavità?
“Kenny.
Picchierei Kenny.”
Replicò
asciutto. Gli sembrava comunque una risposta plausibile.
Armin
aprì un istante la bocca, per poi convenire:
“Ok,
non so chi sia questo Kenny, ma suppongo che tu abbia comunque le tue
buone ragioni. In ogni caso... no, avresti detto senza esitazione
Brzenska. Però... ecco, potresti pure star mentendo. Anche
se non sei tipo da scherzi di questo genere, a meno che non sia tutto
per indispettire Jean – prima che l’altro potesse
ribattere, però, aggiunse – facciamo al contrario.
Qualcosa che solo tu in quanto... Levi sai e che non potrebbe sapere
Eren.”
“E
come fai a capire se non è una cosa che mi sono inventato
sul momento?”
Ottimo, mi
complico anche la vita da solo con osservazioni del cazzo.
“Una
verità scientifica, inconfutabile. Sono piuttosto informato
in generale, dammi un tuo campo di specializzazione e vediamo di
trovare una quadra. Può andare?”
Levi si
sentì quasi commosso. Con Hanji sarebbero passati
direttamente alla vivisezione.
“Ho
una certa conoscenza di astronomia.”
“Ottimo,
per esempio possiamo conversare del Quintetto di Stephan: tre galassie
su cinque sono più recenti, due molto più
vecchie, affascinante no?”
“Cazzate.
Una sola è più giovane, quella che in foto
vedresti coi colori tendenti all’azzurro.”
Armin
sospirò, annuendo:
“Ok,
non sei Eren.”
Levi
annuì: “Perfetto. Grazie Stephan per aver
dimostrato pseudo-scientificamente che non sono il moccioso con
l’aspetto del moccioso.”
Armin, allora,
abbandonò tutta la sua compostezza per portarsi una mano tra
i capelli. No, quello davanti a sé non poteva essere Eren.
Per quanto l’amico fosse curioso e tutto sommato propenso a
investigare su ciò che non conosceva, difficilmente nel
corso di una notte si sarebbe messo a studiare le galassie e i fenomeni
astronomici solo per... immedesimarsi in qualcun altro.
Il che era un
bel casino comunque. Dov’era Eren? Nel corpo del tizio che
diceva di chiamarsi Levi? Poi... perché? E come farlo
tornare indietro?
“Oi,
respira – Armin sussultò, spostando gli occhi su
Levi che aggiunse – guarda che, anche se non sembra, quello
messo peggio qui sono io. Ho contattato una persona di cui mi fido,
perché non so se da sola riesca a capire che qualcosa non
va. Dipende dalle giornate.”
“Hanji
Seldon?” interrogò Armin.
Levi
annuì e il ragazzo rifletté: “Non
capisco la fenomenologia, ma già stabilire un punto di
contatto è importante. Se Eren è nel tuo corpo,
cosa molto probabile, magari dovete incontrarvi, per quanto non sia una
cosa immediatamente fattibile, se abiti dalle parti di New York. Tutto
questo è successo di notte?”
“Sì.
Sono andato a letto stanco e mi sono svegliato Eren, pensa un
po’” Spiegò Levi, con ironia asciutta.
Ma Armin non
si scompose e continuò a ragionare: “Quindi
potrebbe essere legato al sonno. Facciamo così, per il
momento resta al gioco: attendiamo che Hanji ti contatti e vediamo di
interagire con Eren. Dopodiché ci muoveremo di
conseguenza.”
Levi lo
fissò, con le braccia incrociate. Gli sembrava un buon
piano, non che avesse molte alternative.
Si guardarono,
poi rientrarono dentro. Lanciò un’occhiata a
Facebook: ancora nessuna risposta da parte della sua merdosissima
salvatrice, fantastico. Poi sentì Armin parlare con Jean
riguardo la possibilità di accorciare il tempo di studio e
si ricordò che nell’impersonificare un
fottutissimo studente universitario avrebbe dovuto almeno fingere di
studiare.
Impassibile,
fece per sedersi anche se con addosso la voglia di disintegrare quel
posto, e giusto in quel momento arrivò la notifica.
Pensò
in un attimo di vana speranza che si trattasse di Hanji, invece...
qualcuno aveva messo un like alla canzone sfigata di un gruppo sfigato.
“Tra
disagiati ci si riconosce.” Commentò, roteando gli
occhi.
Cliccò
sulla notifica per togliersela di torno, quando vide il nome di chi
aveva espresso il suo gradimento per una roba simile.
Per poco non
si strozzò con la sua stessa saliva, perdendo per un istante
l’aria scazzata che, dal di fuori, rendeva Eren terribilmente
meno Eren.
Non era
possibile.
Mikasa
Akerman ha aggiunto una reazione al tuo link.
Sproloqui
di una zucca
Ed eccoci finalmente
con il secondo capitolo. Purtroppo sono state settimane intense tra
Romics e trasloco di studio imminente (non che ve ne freghi magari
qualcosa XD però diciamo che se non altro non sono rimasta
con le mani in mano), quindi ho approfittato dell'attimo di calma per
correggere questa parte come meritava e postarla.
Con il prossimo
capitolo, che non vedo già l'ora di pubblicare, finalmente
in qualche forma Levi ed Eren entreranno in contatto fra di loro -
anche se, ehm, in un certo senso sono entrati già molto in contatto XD - e
soprattutto si scoprirà cosa dovrà succedere in
questa fantomatica serata che vede coinvolti Hanji ed Erwin! Ce la
faranno i nostri eroi?
Ammetto che mi ha
divertito tantissimo vedere i protagonisti di AOT usare i social e le
tecnologie, detto ciò spero che il capitolo vi sia piaciuto,
vi abbia fatto sorridere e anche trasmesso qualcosa, perché
sia Levi che soprattutto Eren hanno un bel po' di cose del loro
passato/vita che emergeranno.
Grazie di tutto e alla
prossima!
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