Karma is a bitch, kiddo

di Happy_Pumpkin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fluorescent Adolescent ***
Capitolo 2: *** Whatever People Say I Am, That's What I'm Not ***



Capitolo 1
*** Fluorescent Adolescent ***


Karma is a bitch, kiddo

 

1.

Fluorescent Adolescent

 

Mikasa era una donna pragmatica. Seria, diligente e fin troppo responsabile a lavoro, non si concedeva molto tempo per pensare: agiva e basta; se però qualcosa non le tornava finiva per essere realmente spaventosa e vendicativa finché la problematica non si risolveva.
Per tali ragioni, quella settimana di gennaio si ritrovò a guardare il portafortuna stretto tra le sue mani senza essere comunque del tutto convinta di quanto stava facendo; credere in quelle stupidaggini o affidare i propri desideri a un coso che avrebbe dovuto somigliare a una coccinella e invece ricordava più uno scarafaggio era realmente infantile, persino da disperati.
Davanti alla fontana, occhieggiò lo scarafaggio-coccinella-mutazione-genetica stretto tra le sue mani, infine emise un impercettibile sospiro.
Beh, il suo desiderio, effettivamente, era un po’ disperato. Poteva contare lo stesso, giusto?
Di sicuro tutta la faccenda del ‘lancia nella fontana questo portafortuna benedetto dagli astri e il tuo sogno si realizzerà’ sostenuta da quella specie di vecchietto, vestito in un incrocio tra un barbone e uno pseudo-indovino, era una presa in giro ma, beh, tanto valeva gettare quell’obrobrio che aveva in mano e... chissà, magari succedeva davvero qualcosa capace di smuovere una situazione ormai statica da diversi anni.
Con espressione apparentemente apatica, Mikasa si girò di spalle, scrutò un’ultima volta la stuatuetta portafortuna, infine mosse il braccio in uno scatto rapido. Udì un tonfo nello specchio d’acqua, parecchio rassicurante sul fatto che l’oggetto avesse centrato il bersaglio, e allora con gli occhi chiusi, ignorando il fatto di sentirsi sciocca e infantile, Mikasa Ackerman espresse il proprio altrettanto stupido ma disperato desiderio. 

“Vi prego, dei, divinità e congiunzioni astrali. Fate che io possa rivedere Eren.”

Attese un istante, immobile, ma non sentì proprio un bel nulla cambiare: l’aria era fredda come capitava sempre in ogni città americana dell’east coast in pieno inverno, il parco era frequentato da vecchietti, coppiette e negli angoli bui persone di dubbia moralità, nell’altra mano lei continuava a tenere il sacchetto con il cibo d’asporto, gli stessi noodles scotti di sempre e...
Il cellulare squillò, il Requiem di Mozart. Ci stava bene in qualunque occasione.
“Eren?” mormorò istintivamente Mikasa, con il cuore che perse un battito.
Rapida, tirò fuori il telefono e rispose, ma prima di poter fiatare sentì la voce dall’altro capo anticiparla:
“Oi, mocciosa, pensi di arrivare entro stasera con i fottutissimi noodles del pranzo o devo assecondare Hanji e lasciare che ci faccia esplodere cucina, casa e il dannatissimo cortile?”
Assottigliò le labbra. Sentì un rumore di pentole e qualcosa che si rompeva, sembrava un piatto.

No, decisamente non era Eren.
“Sono per strada. Stronzo.” Replicò, tagliente.
Ma proprio sul filo dello stronzo, dall’altra parte avevano già staccato il telefono.
Impegnata com’era a uccidere a sangue freddo prima l’indovino, poi tutti i suoi dannatissimi parenti Ackerman, Mikasa non riuscì a scorgere, in cielo, una splendida cometa in fiamme atterrare.
 

*

 
“Whoa! L’hai vista quella, Eren?”
Questi annuì, con gli occhi sgranati nei quali riluceva tutta la bellezza di quello spettacolo astronomico inaspettato.
Finì di mangiare il pretzel avanzato da uno dei clienti della caffetteria, si pulì le mani dalle briciole sul grembiule e commentò:
“Possibile che si veda così bene in pieno giorno?”
“Magari è un aereo in fiamme?” dedusse l’altro, un ragazzo dai capelli castano chiari, l’aria osservatrice e un atteggiamento quasi d’ammirazione nel parlare con Eren che, per contro, tendeva a infervorarsi troppo facilmente e a non notare certi sguardi che gli venivano rivolti.
Sussultarono entrambi quando udirono aprirsi la porta che si affacciava sul cortiletto del retro dove, in quel momento, i due si trovavano.
“Floch, Eren, conviene che vi sbrigate a rientrare prima che Brzenska si lamenti della vostra assenza.”
Annunciò il ragazzo che si era sporto dall’apertura, anche lui con il grembiule e la divisa da cameriere e i capelli biondi un po’ scompigliati.
Floch annuì con un vago senso di colpa, ma Eren sbottò, incapace logicamente di accettare quella che per lui era un’ingiustizia:
“Era la nostra pausa, Armin, ce la siamo guadagnata dopo aver sgobbato tutta la mattina e anche il pranzo. Sono il primo a lavorare quando c’è bisogno, ma qui stiamo venendo tutti presi in giro! E non lo accetto! Voglio...”
Fece per dire altro, con gli occhi che saettavano furia e senso d’ingiustizia da tutte le parti, ma Armin lo prese per un braccio, annuendo, per poi interromperlo con diplomazia:
“Sì, sì certo Eren, però tieniti le proteste per dopo e pensiamo a tenerci il lavoro, perché abbiamo un affitto da pagare e l’università, quindi non possiamo esattamente concederci di contestare la politica aziendale dopo le feste.”
“Ciò non toglie che Eren abbia ragione, se non ci fosse lui a dire le cose come stanno staremmo tutti chini con la testa bassa” intervenne Floch con una luce vivida negli occhi, entrando, evidentemente già dimentico della pausa di cinque risicatissimi minuti per sostenere con energia la causa del suo collega.
“Taccagna e approfittatrice – sbottò Eren, lanciando nel frattempo un’occhiata a Floch – aspetti solo che finiamo questo girone infernale di lavoro e gliele farò scontare tutte.”
“Certo Eren, giusto il tempo di lasciare passare il mese di gennaio e ci pensiamo, ok? – convenne Armin, con un sorriso morbido sul volto accaldato e un leggero, impercettibile, tic all’occhio – ora, pensiamo alle venti ordinazioni in sospeso, ti va? E a Jean dalle cucine che insiste perché ci diamo una mossa a distribuire le portate visto che sono le quattro passate, che ne dici?”
Eren si allacciò meglio il grembiule per sbottare istintivamente, al solo sentire nominare quello stronzo dell’aiuto-cuoco: “Faccia da cavallo può anche andarsene a fanc... – ma si interruppe, vedendo lo sguardo spazientito di Armin, correggendosi – va bene, va bene, ci penso io. Andiamo a portare queste ordinazioni e facciamo in modo che la gente esca di qui pregandoci di tornare!”
Annuì, capace di caricarsi con energia e spirito di autoconvincimento esemplari.
Poi corse verso le cucine, litigando brevemente con Jean in uno scambio di insulti per partire infine verso la sala. Floch fece un fischio.
“Wow, Eren sa sempre come affrontare alla grande ogni situazione, anche se la vita non è stata esattamente gentile nei suoi confronti.”
Armin sospirò, sapendo bene a cosa il collega si stava riferendo, poi scrollò le spalle: “Più che altro – guardò con un’aria quasi rassegnata Floch e la sua espressione di timida contemplazione – è che Eren sa crederci tantissimo.”
 

*

 
La sera, Eren rientrò nell’appartamento più morto che vivo. Dopo essersi tolto l’apparecchio acustico, crollò sul letto della sua stanza con la faccia sul cuscino, senza nemmeno le forze di farsi una doccia. Pazienza, ci avrebbe pensato l’indomani, oltre a raccattare i libri e le robe lasciate sparse per la camera, cercare di studiare qualcosa in vista dell’esame del giorno successivo e arrancare la sera per il turno di chiusura della caffetteria che, in via del tutto eccezionale, avrebbe tenuto aperto in vista di una festa di compleanno; questo voleva dire gente che si sarebbe ubriacata come se non ci fosse stato un domani, vomito da pulire e rischio di litigarci, perché Eren sotto stress diventava una palla rabbiosa d’aggressività.
Si rigirò sul materasso, poi afferrò il cellulare e decise di posticipare la sveglia, esattamente come aveva posticipato la doccia. Anche se Armin aveva in programma di fare un gruppo di studio, Eren avrebbe potuto aggregarsi in seguito e godersi, finalmente, un attimo di tempo per ricaricare le pile in vista delle pessime giornate che lo aspettavano.

In fondo, che mai potrebbe capitare?
Autoconvicendosi di star facendo la cosa giusta con la solita ammirevole fiducia in se stesso, Eren si addormentò nel letto, mentre il telefono, al suo fianco, si spense e si riaccese improvvisamente.
 

*

 
“Levi, secondo te come potrei descrivere meglio questa cosa?”
Domandò la donna, all’improvviso.
L’interpellato deviò gli occhi dallo schermo, appoggiò un gomito sullo schienale della sedia e fissò la sua interlocutrice, anche lei davanti al computer con una matita in precario equilibrio sul labbro superiore, un’altra matita incastrata tra i capelli castani spettinati e gli occhiali scivolati fin sul naso.
“Quale cosa?”
Domandò, con voce piatta.
Hanji Zoe, scrittrice e in parte collega del succitato Levi a cui si stava rivolgendo, gesticolò un istante con le mani, nel tentativo di dare la forma a qualcosa per cui, un secondo dopo, Levi si pentì di aver chiesto informazioni più specifiche:
“È che c’è lui, sopra di lei. Ma non proprio che vuole entrare per vie normali, più tipo...”
“Oi, stop, fermati – Hanji lo guardò, per poi tornare a concentrarsi sulla matita prima che cadesse, dunque Levi inspirò brevemente – le entra con il cazzo nel culo? È questo che vuoi dire?”
Hanji lo fissò un istante. La matita le cadde dalle labbra. Poi annuì, lentamente, e altrettanto lentamente sorrise con quel misto tra beatitudine ed esaltazione che inquietavano la maggior parte degli esseri umani, poco consapevoli del carattere eccentrico della donna.
“Sì, sì esatto! Precisamente quello! – appuntò qualcosa sulla scrivania, mentre Levi la fissava inespressivo dopo aver roteato gli occhi seccato – È che forse dovrei metterci in mezzo qualcosa di più poetico. Alle donne in età da marito non è che piacciano queste cose tanto dirette.”
Levi afferrò per i bordi la tazza di the bollente, ma continuò a fissare la sua interlocutrice, mentre il leggero vapore gli ondeggiava quieto davanti al naso:
“Che mucchio di stronzate.”
Concluse alla fine, asciutto.
Hanji fece un lamento un po’ scenico: “Grazie tante, eh! Non sei tu che deve vendere squallidi romanzi rosa con aitanti stalloni dai muscoli improbabili che cavalcano ricche ereditiere annoiate – si arrestò un attimo, picchiettando un dito sulle labbra – o erano ricche ereditiere vogliose? Mmm... devo rivedere questo punto.”
Allora, Levi smise definitivamente di ascoltarla, sbottando mentre si alzava: “Con quei romanzi rosa mi ci pulisco il culo. Riprendi a scrivere il tuo cazzo di libro di fantascienza.”
Concluse, chiudendo il dizionario dei sinonimi e dei contrari che usava per tradurre, spegnendo il monitor.
Hanji fece un mezzo sorriso: sapeva che quello era il modo brutale di Levi per farle un complimento e incoraggiarla a scrivere ciò che davvero le piaceva. Almeno, dopo anni di amicizia era più o meno così che interpretava quel mix letale di carattere scostante, diretto in maniera brutale e del tutto privo di tatto tranne in casi totalmente inaspettati e, spesso, con un accompagnamento del tutto indelicato. Come quando Hanji era scoppiata a piangere davanti al finale di Band of Brothers e Levi, seduto sul divano al suo fianco, le aveva sporto un fazzoletto commentando: “Asciugati il moccio, quattrocchi.”
“Stasera magari do un’occhiata a quella parte nello spazio e vedo di lavorarci su. Posso prendermi anche una pausa dai maschioni aitanti.”
Gli fece l’occhiolino alla parola maschioni aitanti ma Levi si limitò a farle una mezza smorfia, per poi riprendere a ignorarla del tutto mentre apriva la porta che dava sul corridoio e, al fondo, alla sua stanza.
“Vai già a dormire?” domandò ancora Hanji, consapevole che l’appetito sessuale di Levi era un mistero la cui scoperta, probabilmente, avrebbe decretato il prossimo premio Nobel alla Scienza.
Dal corridoio non le arrivò alcuna risposta, eccetto una porta che si chiudeva in maniera brusca. Segno che... sì, Levi andava a dormire, e sì, essendo una cosa ovvia a quel punto non necessitava nemmeno di una risposta.
L’uomo, provando un profondo senso di sollievo all’idea di essersi già lavato da capo a piedi prima di concludere le ultime righe della traduzione, occhieggiò di sfuggita i suoi libri sulla teoria della traduzione, i vari dizionari inglese-tedesco e inglese-giapponese; poi, più accanto, qualche compendio sulla contabilità, dei faldoni ordinati per anno e una rubrica ancora cartacea con i numeri di idraulici, elettricisti e... sì, persino pompe funebri.
Perché in quei cinque fottutissimi anni tutto ciò era diventato una costante nella sua vita, più precisamente da quando Hanji si era ritrovata per le mani un intero palazzo, ereditato da un prozio morto che aveva intestato tutto all’unica nipote che si fosse degnata di ricordarsi di lui. Ancora più precisamente, dal momento in cui la suddetta ereditiera continuava a reputare gli immobili interessanti solo per essere picconati, rilevare le tubature di gas, acqua e cavi elettrici, assistendo con entusiasmo a tutti gli interventi di riparazioni, mentre progettava storie strampalate su tecnici riparatori sexy e casalinghe annoiate, dunque non esattamente un esempio di zelo burocratico o di ottica improntata sul guadagno.
Era una donna con molta fantasia, ma senso pratico rasente lo zero, ragion per cui era totalmente inadatta per gestire inquilini indisponenti, rendiconti, cattivi pagatori e disastri sostanzialmente nucleari.
Levi si era trovato progressivamente sempre più invischiato nei suoi casini, a cominciare da quando era andato a picchiare uno stronzo che aveva quasi un anno d’affitto arretrato e si lamentava pure degli spifferi del fottutissimo bagno. Incazzato, irritato dal vedere Hanji a sua volta irritata, Levi un giorno era andato a suonargli la porta, il tizio gli aveva aperto e senza dire una parola Levi gli aveva assestato un pugno dritto in faccia, per poi prenderlo impietosamente a calci:
“Comincia a pagare, figlio di puttana, o il culo congelato mentre vai a cagare sarà l’ultimo dei tuoi problemi.”
“Levi, com’è che finisci sempre per parlare di cacca?” era stato tutto quello che, visto lo spettacolo, Hanji aveva commentato. Sì, nemmeno le reazioni di quest’ultima di fronte alla violenza erano decisamente normali.
Così, più o meno da quell’occasione era stata questione di... mesi, giorni? Levi nemmeno lo sapeva con certezza, fatto stava che lui si era ritrovato ad aiutare Hanji a gestire quella specie di condominio, creando un piano di ristrutturazioni e, soprattutto, pulizie come si doveva, perché le scale facevano schifo da quanto erano luride, i mancorrenti erano talmente saturi di germi da poter prendere fuoco e i vetri erano sostanzialmente un simulatore di nebbia dalla sporcizia accumulata in anni.
In cambio della precisa gestione, Hanji gli aveva offerto di condividere un appartamento un po’ troppo spazioso per lei; se all’inizio Levi aveva rifiutato categoricamente, con il tempo, dietro insistenza dell’amica e ben poco disposto a cercare qualcosa che non fosse una topaia puzzolente, Levi aveva deciso di concederle un’occasione di prova per capire se avrebbe dovuto pensare a come seppellire il cadavere della donna o, semplicemente, pensare di comprare un letto da ficcare nella stanza assegnatagli.
Ebbene, sorprendentemente, i pensieri di Levi erano stati dirottati verso la seconda delle possibilità perché Hanji, nonostante alcuni momenti d’invadenza, sapeva essere a suo modo riservata con una sorprendente empatia, in altri casi semplicemente si estraniava nei suoi deliri creativi. Ancora più spesso, loro due soffrivano d’insonnia cronica e si ritrovavano alle tre di notte a riguardare qualche vecchissima puntata di Doctor Who, mentre Hanji agitava un cacciavite fingendo che fosse un potentissimo Cacciavite Sonico.
Quella sera, però, Levi sentiva una stanchezza micidiale addosso, gli occhi infossati che si chiudevano e la voglia di gettarsi nel letto per non riemergerne fino al mattino seguente.
Con addosso una maglietta dotata della scritta I solo killed 39 titans and all I got was this loosy T-shirt e un paio di boxer neri, il traduttore si gettò di peso sul letto, schiacciando una guancia contro il cuscino.
Dilatò impercettibilmente le narici.

C’è puzza di fottutissimi noodles, arriva dalla cucina. Se non penso io a mettere via gli avanzi, né la mocciosa, né la quattrocchi si ricordano...
Cos’è che doveva ricordarsi? Levi smise di pensarci. Ebbe un’idea, prima di capitolare definitivamente: non aveva visto la spettacolare cometa che era passata quella sera nel cielo. Hanji gli aveva quasi rotto l’osso del collo per fargli alzare la testa, ma era stato comunque troppo tardi.
Non seppe perché, ma Levi ritenne di essersi perso qualcosa d’importante.
 

*

 

 Eren si era svegliato carico di buone intenzioni, con l’idea di farsi una bella colazione energetica a base di uova strapazzate e bacon, rassettare quella sorta di prototipo di bomba atomica che era la sua stanza, per poi concludere con una doccia di almeno un’ora in modo da sentirsi in colpa per l’ecosistema.
Aveva sentito suonare una sveglia e sussultò di colpo, perché partì alla riscossa il ritornello di Fluorescent Adolescent degli Artic Monkeys – che, per carità, li amava ma non ascoltava quella canzone da secoli. Eren si mise di scatto a sedere, spalancando gli occhi nella semioscurità mentre il suo cervello gli diceva di non ricordarsi di aver salvato quel brano, ma lo mise a tacere; forse aveva cambiato sveglia la sera prima e non se l’era ricordato.
A tentoni, mentre la musica continuava, cercò il cellulare. Rise, sull’onda di una crisi isterica, perché il comodino incasinatissimo con quell’affidabile pila di libri e fumetti su cui era solito posare delicati oggetti tecnologici era sparito, mentre la musica continuava a volume sufficientemente alto da poterla sentire entrargli nel cervello.
Allungò l’altra mano e finalmente scoprì che il comodino doveva essersi trasformato in una mensola quadrata, bassa, mangiandosi anche i fumetti nel frattempo visto che era sostanzialmente vuota eccetto un libro rilegato messo simmetricamente rispetto al lato. Ma quando mai Eren metteva le cose simmetricamente ordinate?
Eren afferrò il telefono e realizzò che doveva trattarsi di una chiamata e non una sveglia. Vide anche che erano le sette del mattino, infatti era strano: andava bene ogni buon proposito, ma svegliarsi a quell’ora era da suicidio.
Rimase però interdetto quando vide che era... Mikasa a chiamarlo. Non si sentivano da più o meno dalla fine del liceo, quando sia lui che Armin avevano seguito rispettivamente l’uno sua madre ed Eren i suoi genitori, lasciando Mikasa in balia dei propri parenti, quelli Innominabili di cui non parlava mai; purtroppo, l’ultima volta che si erano visti tutti e tre non era finita esattamente benissimo.
Dopo un istante Eren rispose. Notò anche uno sfondo dello schermo con una cabina azzurra – altra roba che non si ricordava minimamente di aver cambiato.
“Mikasa?”
Domandò aggrottando appena le sopracciglia. Dette un colpo di tosse, sentendo la propria voce più bassa del solito.
Si sarebbe aspettato quantomeno un Eren! Detto con un po’ di stupore e l’aggiunta di una frase schiva, com’era tipico del carattere silenzioso di Mikasa, invece l’unica risposta che ebbe fu un gelidissimo:
“Sto andando a lavoro, Kenny è ancora sverso nell’ingresso. Ho fatto il possibile per il vomito.”
Eren tacque.
Mmmh, non esattamente la conversazione che si sarebbe aspettato, insomma.
“Kenny?” domandò dopo un istante. Non sapeva se magari aveva difettato qualcosa nelle orecchie. Ma, sorprendentemente, non aveva mai sentito così bene. Si tastò dunque le orecchie, realizzando di non aver nemmeno messo l’apparecchio acustico.
Sentì benissimo anche un sospiro spazientito dall’altra parte:
“Mi stai prendendo in giro? Sì, Kenny, nostro zio, il primo stronzo a parimerito della famiglia Ackerman. È uscito con una tipa ed è rientrato in casa giusto per vomitare sul tappeto d’ingresso del condominio. L’ho lasciato lì, sono già in ritardo.”
“Kenny – ripeté Eren, perplesso – me ne avevi accennato insieme all’altro tizio, è lui il secondo stronzo? Insomma, Mikasa, sono passati anni, dopo tutto questo tempo mi chiami per parlarmi di tuo zio annegato nel vomito? Ok spezzare il ghiaccio, ma qui c’è decisamente qualcosa che mi sfugge.”
Dall’altra parte Mikasa tacque un istante.
Dopodiché replicò: “È per i noodles, vero?”
Sembrava irritata. Lei si sentiva irritata, questa era bella. Eren scattò in piedi – strano, si sentì... basso. Annusò l’aria, concedendo:
“Sì, c’è puzza di noodles, non è questo il...”
“Lo sapevo, tipico. Sai che c’è? La prossima volta la cucina lavatela da solo! Ci sentiamo, Levi.”
A Eren parve di udire un sussurato nano malefico, ma non ne fu certo perché la chiamata era stata brutalmente chiusa.
Però aveva sentito chiaramente un Levi. L’aveva chiamato Levi? Mikasa aveva bevuto? Alle sette del mattino era tragica anche per chi soffriva d’alcolismo, ma lei gli era sempre sembrata una donna ben più che responsabile.
Eren si passò una mano tra i capelli, scostandosi un ciuffo nero da davanti agli occhi, mentre contemplava una stanza ordinata, almeno quello era un pensiero in meno all’idea di dover gestire strambe telefonare e pulire pure camera che...
Un momento.
Da quando aveva i capelli neri?
E, soprattutto, da quando aveva una stanza ordinata? Si guardò attorno. Il cuore prese a battere più veloce, sgranò gli occhi, confuso. Quelli... quelli non erano i suoi oggetti, ora che li osservava attentamente: niente poster dei Kinky Talks, il suo gruppo preferito e sconosciuto a quegli sciocchi comuni mortali ignoranti di musica, niente bersaglio per le freccette con la faccia di Jean traforata, niente ulteriori fumetti e videogiochi sparsi.
Eren si toccò la faccia. La sentì più spigolosa, i capelli più lisci, poi abbassò lo sguardo e vide una maglia mai indossata, e più sotto dei boxer neri che non ricordava di aver indossato: suvvia, che senso aveva indossare la biancheria intima a letto?
Quando qualcuno entrò spalancando di botto la porta al grido euforico di:
“Levi! Lo stalliere e la ricca ereditiera! Hanno fatto sesso, ce l’ho fatta! Contro ogni mobile in arte povera disponibile!”
“Cazzo!” Urlò Eren, irritato e spaventato dal vedere entrare all’improvviso una tipa altissima con gli occhiali e la faccia da esaltata che ribatté:
“Sì, è fantastico vero? Sono entusiasta anch’io!”
 

*

 
C’era stato un tempo in cui Levi aveva pensato di possedere un notevole controllo sulla propria vita; certo, esistevano comunque degli imprevisti che lo costringevano a variare leggermente gli intenti prefissati, ma in un modo o nell’altro l’uomo era sempre riuscito a evitare il disastro totale e salvare la giornata.
Ecco, quella volta Levi ebbe la smentita di qualunque cosa detta di cui sopra.
Aprì gli occhi dopo aver faticato diversi istanti, come se le palpebre gli si fossero incollate sopra. Istintivamente dilatò le narici per cogliere ancora l’odore rivoltante dei residui di cibo del giorno prima, ma soprendentemente la puzza di noodles era stata sostituita a qualcosa che ricordava puzza di stanza d’adolescente fetido in abiti da universitario. Il Maligno.
Mikasa aveva tanti difetti, tra i quali essere un’universitaria, ma perlomeno non puzzava. Aprì gli occhi, sollevò le coperte e sentì un fastidio immediato, procurato da un freddo alle palle che rappresentava l’ultima ciliegina sulla torta di quella mattinata già cominciata di merda.
Si alzò a sedere, stropiacciandosi lentamente gli occhi, per poi abbassare lo sguardo e rimanere pietrificato.
Realizzò due cose, quella mattina: prima di tutto, di essere nudo. Niente maglietta comprata online, niente boxer neri, nulla. Seconda cosa e, possibilmente ancora più sconvolgente, il cazzo... non era il suo. Proprio zero, nada, errore di sistema.
Scattò in piedi, rivoltando le coperte, rigirandosi con le natiche all’aria e i gioielli di famiglia, per poi guardarsi attorno braccato: c’era caos, caos e disordine. E... polvere. Cristo Santissimo la vedeva, sopra ogni scaffale pieno di dispense, fumetti, fotocopie, libri e altri testi imprestati dalla biblioteca come ogni universitario pezzente sembrava fare d’abitudine. Per non parlare di poster di tizi sconosciuti, una foto trapassata da freccette in plastica e videogiochi vari.
Fottuto, era fottuto.
Afferrò il lenzuolo, se lo mise addosso come un mantello e aprì la finestra, prima di morire soffocato, poi pensò, guardando la porta della stanza: Hanji. Deve essere là fuori nella cucina a cercare di preparare un caffè filtrato che sa di acqua sporca, ma Dio solo sa quanto mi vada bene anche la sua brodaglia schifosa in questo momento.
Aprì la porta, incurante di essere sostanzialmente un incrocio tra un maniaco e un cos player fallito di un antico romano.
Dall’altra parte, invece, il brillante e gentile Armin Artlet fece per sorridere nel sentire Eren già in piedi e lo cominciò a salutare con un:
“Ciao, Eren, che bello ved...”
Si bloccò. Anche l’altro si arrestò, con una mano ancora sulla maniglia.
Armin guardò un po’ spiazzato Eren con i capelli come sempre disordinati, sulle spalle le lenzuola, un’aria affannata e tutte le sue nudità allegramente all’aria. Non che Armin non avesse avuto occasione di vederlo nudo in quegli anni di convivenza, ma sicuramente mai con un prototipo barbone di mantello, specie di prima mattina, in cui Eren non si alzava nemmeno se gli avessero regalato un biglietto al concerto di una delle band sconosciute che piacevano soltanto a lui.
Levi, dall’altra parte, aveva visto un tizio biondo, coi capelli che ricordavano un incrocio tra He Man e un fungo, lo sguardo fastidiosamente pacifista e le labbra che avevano detto qualcosa ma lui aveva colto appena un suono leggero. La cosa che lo inquietò è che gli ricordava Erwin, e sapeva, poteva giurarci sul suo set di panni elettrostatici, c’era un motivo più che valido per quella somiglianza, ma in quel momento i suoi neuroni si connettevano a rallentatore.
“Che hai detto? Alza la voce!” ribattè dunque, per poi guardarsi attorno. Un divano sfondato, mobili recuperati forse alla discarica, poster da hypster di eventi musicali e film pieni di denunce sociali, pareti dalla tappezzeria imbarazzante mai cambiata nel corso dei secoli. La camera universitaria era tramutata nel salotto universitario. Levi sentì un moto di disgusto salirgli alla bocca dello stomaco.
Armin sospirò, alzando la voce: “Eren! L’apparecchio acustico! Hai dimenticato di metterlo?”
Levi lo fissò, smettendo di guardare la pila di piatti sporchi con residui di cibo precotto e si girò verso il ragazzetto biondo. Aveva parlato a rallentatore ma se non altro era riuscito a capire tutto, compreso un nome mai sentito prima.
“Eren? Chi cazzo è Eren?” gli era uscita di getto quella domanda, la testa che aveva cominciato a vorticargli per quell’insieme di cose mai viste, né sperimentate.
Armin cercò di non guardare l’amico come se stesse osservando una persona con evidenti problemi mentali, ma non fu certo di esserci riuscito. Con tutto il tatto possibile disse sempre a voce alta, mettendo su un sorriso conciliante:
“Dai, non scherzare. Jaeger, Eren Jaeger. Sei tu, su, fingere una crisi d’identità non ti aiuterà denunciare Brzenska per sfruttamento sul lavoro.”
Levi lo fissò, senza battere ciglio. Deglutì un solo istante, poi lentamente annuì, due volte, cercando di riprendere il controllo di se stesso o, perlomeno, di quanto era rimasto di sé.
“Il bagno. Dov’è?” domandò asciutto.
Armin aveva conosciuto Eren sotto molte sfaccettature bizzarre, ma se non altro era sempre stato estremamente discreto e autonomo nell’espletare le proprie funzioni corporali. Però non volle questionare e indicò la porta al fondo del corridoio:
“Laggiù.”
Lo vide annuire, molto più serio del solito, e dirigersi verso il bagno.
Levi dovette impiegare un istante per calibrare piede e cervello, rendendosi conto che, oltre a non sentire un cazzo, si avvertiva sbilanciato e fastidiosamente più in alto del normale. Non ebbe tempo per pensarci. Con ancora indosso il lenzuolo spalancò la porta del bagno, la richiuse con un gesto secco e si fiondò verso lo specchio.
Rimase paralizzato, con le mani inchiodate al lavandino – che, per giunta, aveva delle incrostazioni di dentifricio risalenti probabilmente al pleistocene – ma Levi era impegnato a vedere altro per notare i residui bellici di tardo adolescenti fuori controllo.
Aprì appena la bocca, poi la richiuse.
Non vide riflessi nello specchio i propri occhi un po’ affossati nelle occhiaie, né i capelli neri che tagliava alla stessa maniera da anni: ricambiavano il suo sguardo, infatti, due occhi verdi decisamente più grandi e vitali dei propri, contornati da capelli castani spettinati e sopracciglia piene.
Si sfiorò lo zigomo maggiormente morbido, con un velato accenno di barba, e lasciò lì le dita, la testa che gli vorticava, la salivazione assente. Non aveva mai visto nulla di più bello in quegli ultimi anni, anche se faticò a sentire la propria voce quando mormorò:
“Eren. Io sono... te.

Visti tutti i casini che sarebbero successi da lì in avanti, quella fu l’ultima volta in cui Levi pensò davvero ci fosse qualcosa di bello in tutto quel gigantesco, spropositato, ammasso di colossali sfighe.

Sproloqui di una zucca

Ebbene sì, dopo eoni finalmente sono tornata a scrivere sul fandom di AOT. In realtà avevo in testa questa storia da mesi e l'ho scritta nei vari ritagli di tempo. Ora è giunta quasi alla fine e, siccome avevo bisogno di qualcosa di leggero e carico d'ironia, ho pensato: pubblichiamo! Quindi beccatevi questo racconto (sarà di 11/12 capitoli credo) che spero vi farà fare qualche risata, anche se ogni tanto ci saranno delle punte di angst perché, suvvia, altrimenti non sarei io XD Ma comunque il tutto sempre alternato a eventi un po' bizzarri, inseguimenti, e via dicendo; nonostante il filo ironico, la storia non sarà mai demenziale e, soprattutto, cercherò sempre di rendere IC al massimo ogni personaggio che vi prenderà parte.

Due ultimi punti prima di salutarvi:

1. L'idea dello scambio di corpi è superusata: negli anime, nella letteratura, nei film e via dicendo. Tanti saluti. Posto ciò, lo svolgimento di trama sarà totalmente mio personale e, spero, con imprevisti divertenti/dinamici.

2. Ogni capitolo avrà il titolo di una canzone (questo, per esempio, è degli Artic Monkeys), titolo sul quale potrete cliccare per sentire la canzone stessa e avere un po' l'idea del ritmo. Cercherò sempre in ogni capitolo di mettere un riferimento a tale suddetta canzone scelta, perché mi diverto a mettere richiami vezzosi, e perché in un certo senso il titolo richiama il contenuto del capitolo stesso.

Giunti fin qui, vi ringrazio per aver letto. Come sempre, recensioni, opinioni e quant'altro sono ben gradite. Alla prossima!

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Capitolo 2
*** Whatever People Say I Am, That's What I'm Not ***



Karma is a bitch, kiddo



Eren guardò un istante la donna con gli occhiali, sentendo istintivamente il bisogno di coprire le proprie parti intime, solo per poi ricordarsi di essere più che vestito.
Lei gli batté una pacca sulla spalla esclamando divertita: “Levi! Da quando fai il vergognoso con me? Abbiamo visto cose l’uno dell’altra che nemmeno nei peggiori incubi di Lovecraft!”
Gli fece l’occhiolino, per poi tornare a sorridergli tutta entusiasta, anche se aveva delle evidenti occhiaie di chi la notte aveva fatto tutto meno che dormire.
Eren si schiarì la voce, cercando di recuperare il ricordo di dove avesse già sentito quel nome, poi domandò, passandosi una mano dietro il collo:
“Ehm, sì, posso chiederle chi è lei?”
Sorrise, ma il sorriso di spense quando la donna si bloccò, fissandolo perplessa, spenta di ogni precedente spensieratezza.
“Levi? – domandò, per poi mettergli una mano sulla fronte, preoccupata – Che ti è successo? Stai male, hai la febbre? Da quando mi dai del lei? E sei... educato!”
“Sono normale vorrà dire!” ribatté Eren, considerando che per sua madre dare del lei era giusto il modulo propedeutico alle maniere civili da mantenere con gli estranei, insegnate a forza di paiolate sul sedere.
Hanji non sentì traccia di temperatura corporea anomala. Ascoltò l’ultima risposta di Levi, beccandosi tutta la formalità del caso, indietreggiò di un passo e si portò la mano sotto il mento, scrutando l’uomo che aveva davanti a sé. Non vide alcuna traccia di cambiamento: stessi occhi metallici infossati, capelli neri dritti come spaghetti, altezza minima per non essere considerato un bambino in età prescolare... Levi, sì, quello era decisamente Levi. Poi il fatto che parlasse come una persona dotata di normali funzionalità sociali era un altro discorso.
“Mh, sì, ok Levi, mi piace la tua insolita fiducia nel mondo di prima mattina.”
Gli diede qualche colpetto sulla testa, trovandolo così adorabile.
Eren fece una smorfia ma, stranamente, data la sua vena impulsiva, comprese che doveva esserci qualcosa di terribilmente sbagliato in tutta quella faccenda, donna strana compresa, la quale pareva proprio essere convinta che lui fosse un altro. E, capelli neri a parte che gli sembrava di aver scorto, lui effettivamente si sentiva un altro.
Uno specchio. Aveva bisogno di uno specchio. E di capire che stesse succedendo.
Ma prima che potesse accennare qualcosa, la tipa eccentrica annunciò con fare allegro:
“Bene, dato che sei tornato ai tuoi soliti silenzi da parla-e-ti-ammazzo, che ho sempre ignorato, ne approfitto per dirti che il caffè è solo da far scaldare, io vado a recuperare ore di sonno – si portò una mano alle labbra morbide e aggiunse, trasformando il volto in un qualcosa a metà tra la minaccia e l’entusiasmo – e... non scordarti di stasera.”
Eren sgranò gli occhi, sempre più confuso:
“Stasera?”
Hanji rise, battendogli una mano sulla spalla: “Ah, da quando sei anche simpatico? Dai, l’altra volta ti sei divertito, è per beneficienza!”
Gli scombinò appena i capelli per poi andarsene canticchiando felice. Eren si stropicciò il volto, ringhiò qualche parola di rabbia e sconforto, infine si sedette sul letto di peso, contemplando brevemente la maglietta che aveva addosso con la scritta I solo killed 39 titans and all I got was this loosy T-shirt e rifletté che se non altro il proprietario doveva essere una persona divertente. O... ironica.
“Proprietario...”
Mormorò.
Di scatto afferrò il cellulare dimenticato sul letto, ringraziando che non ci fosse un blocco-schermo; scorse una playlist messa in pausa che realizzò essere l’album degli Arctic Monkeys,Whatever People Say I Am, That's What I'm Not, così senza pensarci due volte mise play. Sentire le note di The view from the afternoon gli infuse un maggior senso di calma, così nel mentre con maggiore lucidità attivò la fotocamera.
Beh, poteva essere un inizio, no? L’idea di andare in bagno e fare... qualcosa con un corpo non suo lo turbava parecchio, quindi prima di farsi troppi problemi forse poteva semplicemente guardarsi attraverso la fotocamera interna e realizzare di essere semplicemente se stesso – ecco, magari la signora con gli occhiali esclusa, ma poteva arginare a dopo il problema che la riguardava.
Sorrise, sicuro e fiero di sé, con la musica che andava ad alto volume, per poi guardarsi sullo schermo del cellulare e... sgranò gli occhi, rimanendo con la bocca aperta.
Chi era quello? E perché sembrava comunque così insofferente, nonostante lo stupore?
Gli occhi più piccoli, azzurro metallico, capelli persino troppo ordinati nonostante glieli avessero sostanzialmente shakerati, sguardo infastidito e a tratti vagamente apatico... non seppe perché, ma all’improvviso Eren ritenne di essere diventato precisamente l’altro stronzo della famiglia Ackerman. E non si trattava dello zio riverso sulle scale all’ingresso.
“Levi.”
Mormorò, prendendo consapevolezza di qualcosa di trascendentale.
Nel farlo, per sbaglio premette sull’autoscatto. E ritrasse un fotogramma realmente imbarazzante, a metà tra lo stupito e il coma cerebrale. Non seppe come ci fosse riuscito perché, al di là del caos nella sua testa, in un pensiero fugace ritenne che quello stronzo sopracitato fosse persino un bell’uomo. Ma Eren, appunto, riusciva in imprese che ad altri erano impossibili.
Nemmeno pensò a cancellare la foto, né guardò le altre. Sconvolto, riuscì solo a mettere in pausa la musica, smanioso al tempo stesso di chiarire la situazione per via del carattere impaziente.
Si alzò in piedi, annuendo con convinzione. Aveva rimandato anche troppo a lungo, si trovava in una condizione ai confini del paranormale e probabilmente stava ancora sognando ma... necessitava di fare pipì. E, sogno o meno, avrebbe urinato.
Anche se si trattava, faceva comunque stento a crederlo, di utilizzare un apparato riproduttivo e urinario non suo. Poteva riuscirci. Doveva.
Aprì la porta della camera e andò alla ricerca del bagno. Di riflesso, portò un dito dietro l’orecchio, quasi un tocco veloce, trovando forse persino più incredibile l’idea di essere senza apparecchio acustico: sentiva la porta aprirsi come se lui si fosse trovato fin dentro il legno e i cardini oliati, udì il ronzio del frigo nella grande cucina con il tavolo e, oltre, un divano angolare, udì il rumore della vita al di fuori. Eren si sentì, allora, veramente spaesato, sommerso da qualcosa di magnifico.
Aprì una porta con persin troppo entusiasmo e scorse quello che sembrava uno studio, almeno a giudicare dalle due scrivanie e dalle carte, quindi andò oltre nel corridoio: beccò uno sgabuzzino con ciascun oggetto impilato e sistemato in una maniera organizzativa impressionante, infine riuscì a trovare il bagno. Lo aprì, ci si chiuse dentro e per un istante dimenticò lo specchio: la finestra infatti era aperta. Dava su un cortiletto interno dove giocavano dei bambini intenti ad andare sul triciclo, chiacchieravano e ridevano girando in tondo. Lui li sentì, sentì la loro risata mischiarsi al fruscio leggero del vento che accarezzava gli alberi e sollevava un sacchetto, portandolo con sé per qualche metro.
Si toccò ancora le orecchie, quella volta entrambe. Avvertì gli occhi lucidi. Era un sogno, giusto?
Si voltò, scorgendo il profilo di un uomo allo specchio. Non si riconobbe in esso, ma distinse i tratti dell’uomo a cui aveva fatto l’autoscatto. Lo guardava, con le mani sulle orecchie e gli occhi sconvolti, velati di quelle che erano lacrime in procinto di uscire.
“Merda. Cavoli. Wow.” Disse in sequenza, senza chiudere occhio.
Passò almeno dieci minuti a guardarsi o, se non altro, a guardare il tizio nel quale sembrava essere piombato quella strana mattina. Sollevò la maglietta, contemplò tastando i leggeri addominali – beh, i propri da Eren erano più definiti, anche se non aveva lo Sguardo da Stronzo Brevettato – si girò di schiena dando più di un’occhiata alle natiche – mmh, ecco, forse quelle erano decisamente più belle – e si toccò con le dita la mascella, sollevando il mento per guardarsi sotto ogni prospettiva.
Annuì, umettandosi le labbra, per poi sentire la vescica ricordargli che forse era il caso di espletare i propri bisogni, anziché perdere tempo a elogiare un corpo che non era il proprio.
Eren dette un colpo di tosse, sollevò l’asse del water splendente e si guardò i boxer.
“Ok, si può fare. Che vuoi che sia Eren? Sai fare grandi cose se solo ti ci metti.”
Annuì, autoconvincendosi.
Si portò le dita alle mutande, lanciò un’occhiata fugace allo specchio, per poi tornare a fissare le proprie mani e il modo in cui abbassarono l’elastico per scoprire quel tanto che serviva... l’erezione.
Wow, perfetto, fantastico. Giusto quello che ci voleva.
Si umettò le labbra. Insomma, non era la prima volta che vedeva un cazzo, oltre al proprio. Aveva avuto delle... esperienze. Un paio. Sì, almeno un paio. Nessun amore della vita, sua madre non aveva mai neppure conosciuto un aspirante fidanzato da quando le aveva confessato di avere giusto qualche tendenza verso la sponda maschile, ma specie in un frangente tanto delicato non doveva eccitarsi da stupido adolescente per un pene come un altro, per quanto notevole e su un corpo ancora più notevole.
Fece per ripetersi nella testa qualcosa di macabro per farsela passare, con l’arte del canemortocanemortocanemorto bisbigliato in maniera quasi ritualistica tra le labbra, quando una signora gli urlò da oltre la finestra: “Pervertito! Non si sta con la finestra aperta! I bambini potrebbero rimanere traumatizzati!”
Anche se, per inciso, quella finestra non scendeva oltre metà torace. Ma Eren sgranò gli occhi, come se fosse stato colto sul fatto, arrossì vistosamente e corse a chiudere l’imposta, rischiando di inciampare nei boxer che, muovendosi, erano scesi fin sotto le natiche.
“Merda!”
Esclamò, per poi sedersi sul bordo della vasca. Quella si preannunciava una lunga giornata, o un lungo sogno, anche se Eren era sempre meno convinto che fosse tale.
Alla fine riuscì a fare quello che doveva, toccando un cazzo che non era il suo, con tanto di scrollata e asciugata sommaria con la carta igienica – fu difficile, molto difficile non eccitarsi ancora e perdere del tempo a masturbarsi – infine si dette una sistemata, per poi bere velocemente qualcosa e rendersi conto, una volta ritornato in cucina, che nel frigo non c’era assolutamente nulla da mangiare. Il deserto più totale. Forse i noodles erano il segno fatale che bisognava fare la spesa.
In quel momento non è che Eren avesse chissà quale disponibilità mentale per mettersi a fare acquisti per dei perfetti estranei, ma aveva fame e, forse, uscire a prendere qualcosa poteva essere un buon compromesso per capirci qualcosa di più, magari in alternativa addirittura svegliarsi davvero.
Ritornò nella camera di Levi, se aveva ben afferrato il discorso, si guardò un istante attorno per poi notare una ciotola di legno nella quale erano state messe delle chiavi. Le afferrò, ipotizzando che fossero quelle di casa, seppur confidando nella presenza della signora strana che dormiva e forse poteva aprirgli, infine cercò un paio di pantaloni dismessi per raccattare il portafoglio, sempre con la speranza che tale Levi non fosse esattamente un pezzente.
Oltrepassò qualche scaffale per poi aprire un grande armadio ad ante scorrevoli dove, al seguito di una rapida ricerca tra scaffali con maglie ordinatamente piegate, vide un ripiano vuoto eccetto per una maglia e, sotto, un paio di pantaloni.
“Cioè, davvero piega e mette via i vestiti del giorno dopo?”
Eren scosse la testa, considerando che il suo massimo era ‘appallottolali e lanciali dove capitano’. Sollevò la maglia e vide che sopra il pantalone era stato messo un portafoglio. Sollevato, lo prese, si mise i pantaloni, indossò la felpa sopra la T-shirt e prima di mettere via l’oggetto delle sue ricerche lo aprì, scorgendo la carta d’identità.
Levi Ackerman.
Sì, ne ebbe la conferma: era decisamente l’altro stronzo della famiglia Ackerman.
Ed era pure più vecchio di lui. Nove anni. Eren sentì una fitta al petto. Non gli avrebbe mai dato così tanti anni di più.
Senza nemmeno controllare i soldi, Eren mise il portafoglio e le chiavi in tasca, afferrò la prima giacca che ebbe a tiro e, uscendo, scoprì che quella non doveva essere la sua giacca. Levi Ackerman, oltre a essere maturo, bello e straordinariamente asociale, era effettivamente basso: le maniche, infatti, gli arrivavano a corprire persino parte delle dita.
Si trovò nell’atrio di quello che sembrava un blocco di appartemanti in piena regola, con di fianco le scale e di fronte il portone d’uscita; fu allora che si ricordò dello zio abbandonato sulle scale: non per un vero e proprio lampo di memoria, quanto perché effettivamente Eren vide un tizio riverso sulle scale intento a russare con, accanto, una pozza di vomito.
Eren socchiuse un istante gli occhi. Perfetto, ora gli era passata la fame.
Sentì l’uomo mormorare qualcosa, come se avesse avuto un radar nel sentirlo arrivare, poi lo vide tirarsi su, biascicare con la bocca, occhieggiare con indifferenza il vomito e infine fissarlo, con lo sguardo ancora addormentato ma gli occhi dal profilo leggermente cadente piantati addosso in una maniera tale da incutere una certa soggezione. Nonostante fosse un tizio dalla barba lasciata crescere, e miracolosamente senza residui di vomito, le rughe da disadattato, il naso adunco, i capelli sporchi schiacciati da un lato e, accanto, come già menzionato un residuo delle sostanze eiettate solo fino a poche ore fa.
“Alla buon’ora, nanerottolo!”
Fu tutto quello che una persona del genere riuscì a dire non appena vide quello che, evidentemente, doveva essere il parimerito sul podio degli stronzi Ackerman.
Eren strinse i pugni. Nuovamente perfetto, ora gli era passata pure ogni voglia di essere gentile.
“Alla buon’ora nulla! Fai schifo, ridurti così alla tua età! Ringrazia che qualcuno si sia degnato di raccattarti prima che ti denunciassero!”
Quello che Eren non sapeva di tutta la faccenda, era che c’era un motivo ben specifico per cui non solo tale zio era stronzo, ma anche per cui avesse occhi capaci di incutere comunque tanta soggezione.
Lo realizzò a sue spese, infatti, quando dovette rientrare in casa a tamponarsi il naso per un pugno ricevuto in pieno volto. Avrebbe anche ribattuto, entrando nella sua modalità rabbia-cieca-non-capisco-più-nulla, non fosse stato che Kenny, dopo essersi messo in guardia e aver evocato nomi di spie russe inesitenti assieme a nomi femminili di donne che lo avevano abbandonato, aveva vomitato una seconda volta e si era accasciato al suolo, sostenendo di essere troppo vecchio per raddrizzare il comportamento di un, testuali parole:
“Fottutissimo nanerottolo moccioso.”
Eren capì, comprese perfettamente, perché Mikasa non aveva mai voluto parlare degli unici parenti che le erano rimasti.

*

Levi Ackerman era un uomo determinato, capace di passare sopra ogni ostacolo con la violenza diretta di uno schiacciasassi al fine di realizzare lo scopo prefissato. Ma in quel caso la situazione era un po’ diversa: si trovava ad avere a che fare con un moccioso, in una casa di mocciosi che puzzava di mocciosi convinti di essere cresciuti solo perché andavano all’università. Peggio ancora: lui era proprio nel corpo di un moccioso, non sessualmente parlando, ma proprio a livello anatomico e la sola idea avrebbe fatto svalvolare chiunque. Levi però aveva uno spirito pratico, quanto più possibile razionale e non amava perdere tempo in patetiche sceneggiate totalmente inutili a togliersi da quella pessima situazione.
In primis, svolse i  propri bisogni corporali, seppur con un certo disagio psicologico all’idea di toccare robe private di un perfetto sconosciuto che gli sembrava comunque sano, nonostante puzzasse vagamente di fritto e di cucina. Già solo per quello aveva attivato la doccia per strigliare la pelle come di dovere: se proprio avesse dovuto passare ancora del tempo in quel corpo, che almeno fosse pulito. Si tolse i vestiti, gettò tutto a lavare, pensando che quel bagno doveva proprio essere lavato da cima a fondo, e dopo aver controllato che non ci fossero pantegane nella doccia pulita a un livello accettabile, Levi fece per entrare prima di scorgere il riflesso allo specchio del bagno.
Era uno semplice specchio da lavandino schizzato di dentifricio, ma gli dette l’occasione per vedersi di nuovo e guardare il fisico che, appunto, non era il proprio. Aveva una bella corporatura, alta, slanciata, con la muscolatura asciutta e tonica di un giovane attivo, scarsa peluria, capelli castani che stavano crescendo fino alle spalle e capaci di scombinarsi nei modi più improbabili.
Bene. Si disse Levi inarcando appena un sopracciglio pieno. Almeno non sono capitato nel corpo di un cesso a pedali, è già qualcosa.
Poi andò sotto il getto bollente dell’acqua e senza perdersi in troppi convenevoli cominciò a lavarsi, ignorando il principio d’erezione più per una questione di orgoglio e senso pratico, visto che era una gran bella erezione – poteva scordarselo infatti, il dannato moccioso, che gli facesse il piacere di masturbarsi dopo essersi quasi eccitato vedendosi da solo – per concentrarsi invece sul da fare. Riprendere possesso della propria identità era la base, nel frattempo avrebbe dovuto pensare a una soluzione su come affrontare la faccenda in qualunque fottutissimo posto si trovasse. Doveva contattare Hanji e dirle di alzare il culo per coordinare un’azione di recupero, poi vagliò l’ipotesi di parlare con il ragazzo funghetto ma, non conoscendolo, non sapeva quanto avrebbe impiegato a ritenerlo fuori di testa.
Inoltre, c’era un fattore altrettanto rilevante: non sentiva un cazzo.
Aveva delle percezioni acustiche, ma ogni suono gli sembrava fastidiosamente ovattato; si ritrovò a domandarsi se il proprietario del corpo avesse problemi d’udito sin dalla nascita o in seguito a qualche trauma.
Chi se ne fotte, ho altre priorità.
Sbottò, insaponandosi, convincendosi della totale indifferenza, perché non avrebbe avuto più nulla a che fare con quel tipo: una volta trovato il modo di ritornare nel proprio corpo, o svegliarsi da quello che sembrava l’incubo più vivido mai vissuto, non sarebbe tornato a incrociarsi con il moccioso.
Quando Levi fu in accappatoio, capelli asciutti e puliti, si sentì d’umore notevolmente migliore, la testa svuotata pronta per trovare una soluzione rapida e andarsene da quel posto dissestato ai livelli di una favela. Uscì dal bagno, si guardò un istante attorno, infine percorse il breve tratto di corridoio per giungere sino alla camera. Poteva mai andare liscio e senza intoppi? No, ovviamente, perché...
“Eren!”
Appunto.
“Che c’è?” sbottò, con voce piatta e lo sguardo evidentemente seccato.
Vide che il ragazzo funghetto lo osservava un po’ perplesso, poi spostò lo sguardo e notò al suo fianco un tizio alto dalla faccia allungata, l’espressione presuntuosa che già gli faceva venire voglia di prenderlo a cartellate sui denti.
“Il gruppo di studio, per l’esame...”
Disse qualcos’altro ma Levi non capì. Rifletté solo sul fatto che quel ragazzino dagli occhi grandi aveva un volto consciuto, gli ricordava qualcuno, ma si trattò per lo più di un pensiero fugace perché infatti Levi concentrò tutte le sue già scarse risorse sociali per cercare di capirci qualcosa. A maggior ragione, ogni interesse per quella peculiare somiglianza venne del tutto archiviato quando emerse il ricordo che, effettivamente, il tizio gli aveva detto qualcosa di un apparecchio acustico.
“Frena, frena, frena. Ho un apparecchio per sentire, giusto? Dimmi dov’è perché mi sto rompendo il cazzo di vederti muovere le labbra.”
Armin aprì la bocca, ma Jean – che era arrivato lì con tutte le intenzioni di passare quel benedetto esame, visto che già la sua situazione universitaria era piuttosto critica, gli ci mancavano solo le turbe mentali di Eren – s’intromise esclamando:
“Eren, datti una svegliata! Non solo sei stato chiuso in bagno per qualcosa come un’ora, adesso trovi pure scuse: se vuoi farmi perdere la pazienza ci sei già riuscito!”
Levi non aveva capito esattamente quello che aveva detto quel tizio troppo alto, ma sapeva di per certo che era qualcosa di fastidioso e vicino all’insulto, dunque si limitò a dirgli:
“Con te faccio i conti dopo. Lamentati ancora e aggiungiamo un quadro nuovo in casa, perché per allora ti avrò appeso al muro.”
Detto ciò entrò in camera alla ricerca del dannatissimo apparecchio acustico. Armin e Jean rimasero immobili, persino quest’ultimo non seppe cosa ribattere; dopo qualche istante si guardarono e Jean finalmente domandò:
“Quello... quello era Eren?”
Di solito quest’ultimo si sarebbe limitato a urargli contro in una rabbia cieca insulti classici ai quali entrambi sapevano a memoria cosa ribattere, ma in quel caso il suddetto Eren era stato talmente lapidario da averlo proprio messo a tacere.
Armin scosse la testa, scrollando le spalle: “Sembrerebbe, anche se... è strano forte. Cioè, più strano del solito.”
Quando Levi riuscì finalmente a infilarsi il dispositivo, dopo un fischio acuto iniziale riuscì a regolare il tutto un po’ a caso e a raggiungere gli altri che erano rimasti fermi a guardarlo. Sentiva più dei boati, ma immaginò che fosse sempre meglio di nulla.
“Beh? Non avevate tutta questa fretta di studiare? Cominciate, io devo prima capire un paio di cose.”
“Tipo?” replicò Jean allargando le braccia, infastidito.
Levi lo sentì e, in fondo, non seppe se esserne davvero contento, perché appunto almeno significava che l’apparecchio stava facendo il suo dovere.
“Cioè informazioni basiche. Fate finta che io abbia avuto una momentanea crisi di memoria, ok?”
Jean fece per replicare a tono, ma Armin lo bloccò, inserendosi in mezzo:
“Ehi, ehi, calma. Sediamoci a tavola e parliamo un istante. Tu Jean comincia a prendere i libri e a stendere un programma di studio, va bene?”
Il ragazzo alto borbottò qualcosa, poi si decise e andò al tavolo, tirando fuori il materiale.
Armin si sedette di fronte a Eren, che aveva appoggiato il gomito sullo schienale, accavallato una gamba e lo guardava con un’espressione vagamente infastidita. Decisamente, quello pur essendo il proprio migliore amico sembrava un’altra persona.
“Eren... che succede, mi vuoi spiegare?”
Levi valutò l’ipotesi di dirgli tutto ma optò per escludere la possibilità: si trovava in un contesto delicato, poi c’era tutta la faccenda con Erwin e quella sera... doveva assolutamente tornare indietro. Non sapeva se poteva fidarsi del testa bionda, o se era tutta una macchinazione di quelli che Erwin stava seguendo da più anni, ma per il momento doveva cercare di trovare delle spiegazioni e, contestualmente, una via d’uscita.
“Hai un computer?” domandò. Immaginò che il moccioso dovesse avere un cellulare, ma prima di chiamare Hanji doveva verificare un paio d’informazioni.
Armin annuì: “Sì, è lo stesso portatile dal quale guardiamo film e con cui scrocchi sempre la connessione – ma, prima che lui potesse chiedergli altro, Armin aggiunse – prima però mi devi far capire se c’è qualche problema, Eren, perché, davvero, non sembri nemmeno più tu.”
Levi lo fissò, fissò gli occhi azzurri piantati su di lui, lanciò un’occhiata a Jean che si era messo a mandare un vocale per chiedere le domande fatte dal professore agli ultimi esami, infine replicò, convinto che forse in fin dei conti meritasse almeno una spiegazione, anche se di un qualcosa che nemmeno lui stesso capiva:
“Non qui, fammi capire un paio di cose, poi ti spiego.”
Armin occhieggiò a sua volta Jean, poi annuì: “Ti prendo il portatile.”
Dopo qualche minuto gli mise davanti il laptop e osservò Eren accedere a internet, aprendo Google Maps per domandare:
“Dove siamo? Città?”
Armin aprì un istante la bocca, poi la richiuse. Allora si preoccupò davvero, perché Eren non aveva affatto l’aria di uno che scherzava. Eppure... non sembrava affetto da amnesia.
“Halle, Germania.”
Bene, perfetto, già l’America è grande, dovevo necessariamente finire nella stramaledettissima Europa?
Solo per muoversi da Francoforte a New York ci volevano più di sette ore di volo. E non aveva nemmeno i documenti per sperare di arrivarci senza intoppi, considerando che lui non era decisamente chi diceva di essere.
Se solo Levi avesse avuto un buon rapporto con i cellulari avrebbe potuto sperare di ricordare a memoria il numero di cellulare di Hanji, o addirittura il proprio. Ripensò a Erwin che gli suggeriva di comprarsi un cercapersone e lo mandò mentalmente a fare in culo.
Assottigliò gli occhi, infine domandò al ragazzo biondo, mentre l’altro era preso a completare l’elenco.
“Si può accedere a Facebook?” inquisì, quasi con sospetto.
Odiava i social, ma l’unica speranza era che Hanji non fosse ancora andata a dormire e gli rispondesse. Poteva contattarla e spiegarle la situazione. Sì, gli sembrava decisamente una buona idea, la quattrocchi doveva credergli.
Armin si mostrò perplesso, ma si degnò di rispondergli perché proprio la situazione stava degenerando:
“Sì. Insomma, dovrebbero essere memorizzati i tuoi dati, lo usi solo tu da quel computer. A che ti serve? Devi contattare qualcuno?”
Almeno il ragazzetto biondo è sveglio. Rifletté Levi.
Annuì senza dargli troppe spiegazioni, poi accedette alla pagina del moccioso in cui si era evidentemente incarnato.
Il nome Eren Jaeger gli comparve non appena cliccò sul profilo e sospirò quando vide una foto pressoché sgranata, scattata assieme al funghetto e a un tizio dai capelli rasati. Una foto profilo davvero merdosa, di uno che aveva tutta l’aria di aver preso la prima immagine a caso giusto per non lasciare vuoto il riquadro.
Bene. Non è un hipster che fa i selfies anche quando va al cesso. Già mi sei più tollerabile, moccioso.
Scorse giusto la foto di copertina di quello che sembrava un gruppo musicale dal nome americano, i Kinky Talks, mai sentito prima. Vide che proprio due giorni prima il ragazzo aveva condiviso una canzone da youtube appartenente allo stesso gruppo, senza commenti e con giusto qualche like da gente che, evidentemente, doveva condividere gli stessi patetici gusti per gruppi sconosciuti.
Cercò il contatto di Hanji. La trovò sotto il nome fittizio di Hanji Seldon e le chiese l’amicizia, scrivendole un messaggio breve ma significativo:

Quattrocchi, sono Levi. Nel corpo di un moccioso di nome Eren Jaeger. Fammi mettere in contatto con chiunque ci sia al mio posto, se il moccioso stesso o se io sono in stato catatonico, e avvisa Erwin. Non farmi uscire, per nessun motivo. Dobbiamo risolvere la situazione.

Attese un istante, per poi aggiungere.

Se non mi credi fammi domande che solo io potrei conoscere. O falle a chiunque abbia preso il mio posto.


Rimase in silenzio qualche istante, ma logicamente non ci fu replica. Erano le undici di mattina, dalle loro parti dovevano essere circa le cinque di notte; nemmeno Hanji era una grande amante dei social, ma magari poteva avere improvvisamente voglia di condividere qualcosa e, di conseguenza, rispondere all’emergenza.

Sollevò lo sguardo verso il ragazzo di fronte a sé che gli disse:
“Tu non hai mai conosciuto questa Hanji Seldon. È successo qualcosa questa notte?”
“Oi, non far sembrare tutta questa faccenda più strana di quanto già sia – espirò, infine disse, risoluto – senti, vieni un attimo fuori.”
Senza aspettare risposta si alzò in piedi e, prima che potesse andare inconsapevolmente verso lo sgabuzzino, Armin lo prese per un braccio, conducendolo invece verso la più appropriata porta d’uscita sul corridoio, socchiudendo la porta.
Lo fissò negli occhi, esortandolo:
“Vuoi dirmi che sta succedendo?”
Fanculo, o la va, o la spacca. Si disse Levi, per rispondere, cercando di non sembrare schizofrenico:
“Non sono quello che tu chiami Eren. Il mio nome è Levi e non so perché cazzo mi trovo qui.”
Ok, forse doveva giusto lavorare un po’ sulla presentazione.
Armin non mosse muscolo facciale. Gli occhi grandi erano immobili, la bocca corrucciata in una smorfia leggera. Aveva quell’espressione da conato di vomito imminente perché stava pensando, giusto?
“Dunque – disse dopo un istante il ragazzo dai capelli biondi, deglutendo come per guadagnare tempo – tu mi staresti dicendo di non essere Eren. Sei consapevole, vero, che questo è il corpo di Eren? Insomma è il suo.”
“Certo che lo so! Riesco ancora a guardarmi in faccia e realizzare che questa non è la mia fottutissima faccia.” Ribatté Levi.
Armin non sembrò scomporsi dall’attacco di rabbia; Eren diceva poche parolacce, ma quanto a rabbia e scoppi furenti non lo batteva nessuno.
“Ammetto che mi trovo giusto un istante in confusione. Insomma, sei strano, però sei sempre stato strano... con affetto, eh. In ogni caso, ecco, il volto, tutto, è tuo, cioè, di Eren, anche se la personalità è piuttosto sospetta.”
“Più sospetta di un universitario che non condivide foto di quando si ubriaca a merda o fuma canne? Avanti, qui siamo al limite della psicopatia!” ironizzò tagliente Levi, pensando al profilo facebook più anonimo della storia. Lui ci accedeva con una rarità imbarazzante, ma almeno condivideva roba interessante. Tipo... boh, aveva mai condiviso davvero qualcosa? E, ora che ci pensava, non cambiava foto profilo da almeno quattro anni.
Armin accennò una risata: “Beh, sì, Eren è più un tipo diretto, diciamo... – si morse un labbro, accorgendosi di star parlando di lui come se chi aveva davanti fosse realmente un altro tizio – senti, cerchiamo una prova tangibile, poi entriamo dentro e agiamo in base a come valutiamo la situazione. Posso farti qualche... domanda?”
“Bravo ragazzo fungo, stavo per proporti la stessa cosa.”
“Armin. Mi chiamo Armin.” Replicò l’altro, un po’ a disagio.
“Va bene, Armin 
quel nome gli disse qualcosa e, in un attimo, credette di sapere cosa, però si tenne per sé l'idea per non peggiorare la già precaria situazione Ora vediamo di muoverci, perché mi sto gelando il culo e devo trovare in fretta una soluzione.”
Armin, che già cominciava a dubitare dell’effettiva personalità manifestata dal presunto sostituto di Eren, per quanto paradossale, elaborò in fretta un interrogativo, una cosa che avrebbe potuto dire soltanto il migliore amico:
“Chi vorresti picchiare fino a veder riconosciuti i tuoi diritti a lavoro?”
Gli venne quasi da ridere, ma si trattenne.
Levi inarcò un sopracciglio. Che domanda del cazzo era quella? Che diritti potrebbe avere mai uno studente lavoratore, eccetto una mansione a ore sottopagata e vicina alla schiavità?
“Kenny. Picchierei Kenny.”
Replicò asciutto. Gli sembrava comunque una risposta plausibile.
Armin aprì un istante la bocca, per poi convenire:
“Ok, non so chi sia questo Kenny, ma suppongo che tu abbia comunque le tue buone ragioni. In ogni caso... no, avresti detto senza esitazione Brzenska. Però... ecco, potresti pure star mentendo. Anche se non sei tipo da scherzi di questo genere, a meno che non sia tutto per indispettire Jean – prima che l’altro potesse ribattere, però, aggiunse – facciamo al contrario. Qualcosa che solo tu in quanto... Levi sai e che non potrebbe sapere Eren.”
“E come fai a capire se non è una cosa che mi sono inventato sul momento?”
Ottimo, mi complico anche la vita da solo con osservazioni del cazzo.
“Una verità scientifica, inconfutabile. Sono piuttosto informato in generale, dammi un tuo campo di specializzazione e vediamo di trovare una quadra. Può andare?”
Levi si sentì quasi commosso. Con Hanji sarebbero passati direttamente alla vivisezione.
“Ho una certa conoscenza di astronomia.”
“Ottimo, per esempio possiamo conversare del Quintetto di Stephan: tre galassie su cinque sono più recenti, due molto più vecchie, affascinante no?”
“Cazzate. Una sola è più giovane, quella che in foto vedresti coi colori tendenti all’azzurro.”
Armin sospirò, annuendo:
“Ok, non sei Eren.”
Levi annuì: “Perfetto. Grazie Stephan per aver dimostrato pseudo-scientificamente che non sono il moccioso con l’aspetto del moccioso.”
Armin, allora, abbandonò tutta la sua compostezza per portarsi una mano tra i capelli. No, quello davanti a sé non poteva essere Eren. Per quanto l’amico fosse curioso e tutto sommato propenso a investigare su ciò che non conosceva, difficilmente nel corso di una notte si sarebbe messo a studiare le galassie e i fenomeni astronomici solo per... immedesimarsi in qualcun altro.
Il che era un bel casino comunque. Dov’era Eren? Nel corpo del tizio che diceva di chiamarsi Levi? Poi... perché? E come farlo tornare indietro?
“Oi, respira – Armin sussultò, spostando gli occhi su Levi che aggiunse – guarda che, anche se non sembra, quello messo peggio qui sono io. Ho contattato una persona di cui mi fido, perché non so se da sola riesca a capire che qualcosa non va. Dipende dalle giornate.”
“Hanji Seldon?” interrogò Armin.
Levi annuì e il ragazzo rifletté: “Non capisco la fenomenologia, ma già stabilire un punto di contatto è importante. Se Eren è nel tuo corpo, cosa molto probabile, magari dovete incontrarvi, per quanto non sia una cosa immediatamente fattibile, se abiti dalle parti di New York. Tutto questo è successo di notte?”
“Sì. Sono andato a letto stanco e mi sono svegliato Eren, pensa un po’” Spiegò Levi, con ironia asciutta.
Ma Armin non si scompose e continuò a ragionare: “Quindi potrebbe essere legato al sonno. Facciamo così, per il momento resta al gioco: attendiamo che Hanji ti contatti e vediamo di interagire con Eren. Dopodiché ci muoveremo di conseguenza.”
Levi lo fissò, con le braccia incrociate. Gli sembrava un buon piano, non che avesse molte alternative.
Si guardarono, poi rientrarono dentro. Lanciò un’occhiata a Facebook: ancora nessuna risposta da parte della sua merdosissima salvatrice, fantastico. Poi sentì Armin parlare con Jean riguardo la possibilità di accorciare il tempo di studio e si ricordò che nell’impersonificare un fottutissimo studente universitario avrebbe dovuto almeno fingere di studiare.
Impassibile, fece per sedersi anche se con addosso la voglia di disintegrare quel posto, e giusto in quel momento arrivò la notifica.
Pensò in un attimo di vana speranza che si trattasse di Hanji, invece... qualcuno aveva messo un like alla canzone sfigata di un gruppo sfigato.
“Tra disagiati ci si riconosce.” Commentò, roteando gli occhi.
Cliccò sulla notifica per togliersela di torno, quando vide il nome di chi aveva espresso il suo gradimento per una roba simile.
Per poco non si strozzò con la sua stessa saliva, perdendo per un istante l’aria scazzata che, dal di fuori, rendeva Eren terribilmente meno Eren.
Non era possibile.

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Sproloqui di una zucca

Ed eccoci finalmente con il secondo capitolo. Purtroppo sono state settimane intense tra Romics e trasloco di studio imminente (non che ve ne freghi magari qualcosa XD però diciamo che se non altro non sono rimasta con le mani in mano), quindi ho approfittato dell'attimo di calma per correggere questa parte come meritava e postarla.
Con il prossimo capitolo, che non vedo già l'ora di pubblicare, finalmente in qualche forma Levi ed Eren entreranno in contatto fra di loro - anche se, ehm, in un certo senso sono entrati già molto in contatto XD - e soprattutto si scoprirà cosa dovrà succedere in questa fantomatica serata che vede coinvolti Hanji ed Erwin! Ce la faranno i nostri eroi?
Ammetto che mi ha divertito tantissimo vedere i protagonisti di AOT usare i social e le tecnologie, detto ciò spero che il capitolo vi sia piaciuto, vi abbia fatto sorridere e anche trasmesso qualcosa, perché sia Levi che soprattutto Eren hanno un bel po' di cose del loro passato/vita che emergeranno.
Grazie di tutto e alla prossima!


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