Il Signore del Drago Tonante

di yonoi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Montagna dei Tre Fratelli ***
Capitolo 2: *** I custodi del Gangkar Punsum ***
Capitolo 3: *** L’infanzia del mondo ***



Capitolo 1
*** La Montagna dei Tre Fratelli ***


Il Signore del Drago Tonante
 

 
 
Alice: “Volevo soltanto chiederle che strada devo prendere!”
Stregatto: “Beh, tutto dipende da dove vuoi andare!”
Alice: “Oh, veramente importa poco, purché io riesca…”
Stregatto: “Be’, allora importa poco che strada prendi!”



(da “Alice nel paese delle meraviglie”, W. Disney, 1951 )
 
 “L’avventura è soltanto cattiva pianificazione”
 
(Roald Amundsen)
 
1. La montagna dei Tre Fratelli
 

Parete sud del Gangkar Punsum, catena dell’Himalaya, Bhutan settentrionale.
Ore 9:30 del 15 maggio 2018.
 
Il corpo era rannicchiato sotto a una sporgenza, proprio accanto alle corde a cui si aggrappava la spedizione, in fila su una cornice di pochi centimetri.  
Il volto era nascosto dagli occhiali da sole e dal boccaglio ancora attaccato alla bombola, un paio di grossi guanti stringevano il torace nel tentativo di trattenere l’ultimo calore. Pareva che si fosse tirato sulla testa una coperta, perché l’uomo della nicchia era interamente avvolto da uno strato di brina. Visto da lontano, somigliava a un grottesco pupazzo di neve.
Contro alla roccia che formava il suo ultimo riparo, il vento che spazzava a precipizio il pendio faceva un capitombolo e prendeva a fischiare forte: crepitava sugli abiti di quella spoglia immobile, quasi per invitarla a levarsi di mezzo.
L’insepolto intralciava il percorso del vento, ma anche la spedizione: i ramponi tagliavano la strada agli alpinisti in salita, come se quel macabro abitante della parete sud volesse fare lo sgambetto di proposito.
Qualcuno infatti inciampò dando uno strattone alle corde, che vibrarono trasmettendo al resto del gruppo la medesima inquietudine.    
Senza neanche voltarsi, Rabauer incitò i suoi a proseguire:
“Abbiamo circa quattro ore a disposizione per fare vetta. Ricordate che alle due precise, ovunque vi troviate, faremo marcia indietro per rientrare al campo tre. Restate concentrati, siamo già in ritardo sulla tabella di marcia.”
Non c’era altro da aggiungere. La compagnia si era appena imbattuta in un uno degli alpinisti infortunati o dispersi nel corso di una delle spedizioni che in precedenza avevano tentato la scalata al Gangkar Punsum, la Montagna dei Tre Fratelli.
Nel 1996 il governo del Bhutan aveva deciso di vietare le escursioni oltre i seimila metri, per rispetto alla credenza secondo cui gli spiriti avevano la loro dimora sulle vette: ma ancor prima, nessuna missione era riuscita a raggiungere la cima per motivi che ancora restavano da chiarire.   
Indubbiamente, l’uomo della nicchia aveva ceduto allo sfinimento, al mal di montagna o a chissà che altro. Non era stato in grado di proseguire né di scendere a valle sulle sue gambe, e a quel punto i compagni l’avevano abbandonato.
Rabauer lo sapeva: a quelle altitudini, dove ogni passo pesava come una colata di cemento e il debito di ossigeno si faceva sentire, ognuno poteva contare soltanto su se stesso. Lasciare indietro chi non riusciva a proseguire era storia già vista e Rabauer l’aveva visto succedere di frequente durante le numerose spedizioni himalayane che contava all’attivo. L’alternativa era consumare le bombole senza riuscire, in molti casi, a rianimare gli infortunati. Ricondurli a valle lungo un tragitto impervio, che contava passaggi tecnicamente difficili e incertezze legate al clima, era sempre un’impresa in grado di mettere in crisi i rocciatori più esperti.
La stima degli insepolti sulle creste dell’Himalaya, la dimora delle nevi, ammontava a un centinaio. Molti erano disseminati lungo i sentieri più battuti e fungevano addirittura da punti di riferimento.
Per quanto riguardava il Gangkar Punsum, il problema non si poneva: le notizie relative alle ultime missioni erano più che frammentarie e nessuno era a conoscenza di eventuali incidenti. Ufficialmente, non esistevano cadaveri tra le rocce e in fondo ai dirupi dei Tre Fratelli. In seguito, era sopravvenuto il divieto di profanare la casa degli spiriti celesti e la spedizione guidata da Rabauer era stata autorizzata esclusivamente a raggiungere il campo base. Tutt’al più, a sgranchirsi le gambe con un trekking nei dintorni.
Per gli eventuali infortunati della cordata che in quel momento avanzava con l’anima tra i denti, il riposo eterno tra i ghiacci faceva parte del pacchetto tutto compreso offerto dalla Compagnia per la ridicola cifra di quattromila dollari: un prezzo stracciato in confronto a quanto richiesto dai tour operator per avventurarsi sull’Everest; un costo esorbitante considerato che la missione non era autorizzata, i clienti non fruivano di alcuna copertura assicurativa e prima di partire avevano sottoscritto una mole di documenti per sollevare la Compagnia da qualsiasi responsabilità.
Di fatto, tutti i membri della spedizione erano già dispersi ancor prima di salire sull’aereo che li aveva condotti, attraverso un pittoresco labirinto di scali e coincidenze, fino all’aeroporto internazionale del Bhutan, nella città di Paro dalle colline verdi e i templi che occhieggiavano, bianchi, lungo i crinali.
La spedizione non era assistita da nessun abitante del luogo: né sherpa, né yak.
Con Rabauer a quattr’occhi, e nelle numerose clausole che i partecipanti si erano impegnati a sottoscrivere, la Compagnia era stata esplicita: massima segretezza e nessun contatto con i locali. Solo in caso di successo, sarebbero state avviate le opportune trattative per ottenere dal governo la revoca del divieto ad accedere al Gangkar Punsum. Tramite una particolareggiata documentazione supportata da file video, la Compagnia contava di riuscire a convincere quel piccolo reame di bambini superstiziosi a mettere in piedi un business analogo a quello che già esisteva sull’Everest. 
Scopo della missione guidata da Rabauer era dimostrare che il Gangkar Punsum era accessibile e che gli spiriti, ammesso che ci fossero, non avevano nulla contrario a far salire gli escursionisti. Il Bhutan aveva solo da guadagnarci permettendo ai ricchi occidentali di andarci a spasso.
Ovviamente, ciò che il governo avrebbe ricavato dal business sarebbe stato un pugno di riso, in confronto ai profitti che la Compagnia contava di realizzare organizzando tour per ogni tipo di tasche, ma questa era un’altra faccenda. O meglio, questo era il succo dell’intera questione.
La spedizione che in quel momento affrontava la scalata utilizzando le corde che Rabauer fissava avanzando con piccozza e ramponi, era composta da tre guide e quattro clienti: un’archeologa esperta in tecniche di mummificazione, uno studioso appassionato di buddhismo e due ragazzotti con l’aria dei ricchi vagabondi.
Rabauer si voltò un istante a guardarli: prima della partenza neppure li conosceva, e quanto al loro livello di esperienza e allenamento, anche quello rientrava nel novero delle responsabilità che i singoli partecipanti si erano dovuti accollare, in cambio del privilegio di essere i primi a far vetta sui Tre Fratelli.
L’unica faccia nota era quella di Peter Moroder, un altro altoatesino che vantava parecchi ottomila nel suo curriculum. In quel momento si trovava al centro della fila che procedeva a testa bassa lungo il pendio: il suo compito era aiutare i clienti a salire, controllando al contempo la tenuta delle bombole ed eventuali piedi in fallo. Controllare le bombole era completamente inutile, dal momento che sul Gangkar Punsum non esistevano punti di rifornimento, ma dal punto di vista di Moroder quelle verifiche puntuali rappresentavano una forma di scaramanzia. Finché c’era ossigeno c’era vita, e finché c’era vita c’era anche la speranza di arrivare in cima tutti quanti e senza grane.
In retroguardia saliva l’uomo della Compagnia, la terza guida. Un tizio dall’aria lugubre il cui compito era essenzialmente quello di reggere la videocamera e riprendere le varie fasi della scalata. All’inizio Rabauer si era rivolto a quella specie di gufo sperando di ottenere qualche informazione in più: quali risorse contava il campo base e quanto era distante dalla cima vera e propria, il cosiddetto Fratello Maggiore.
Ben presto tuttavia, Rabauer si era accorto che di alpinismo e soprattutto del Gangkar Punsum l’uomo della Compagnia ne sapeva quanto i due ragazzotti in gita di piacere: praticamente zero, con l’aggravante che il gufo era cinico e disfattista per carattere e per principio.
“Non esistono altri avamposti oltre al campo base, lei dovrebbe saperlo.”
“Non ci sono punti di rifornimento lungo il tragitto, non c’è il satellitare, non è previsto l’elisoccorso.” Pareva che il gufo ci godesse un mondo a descrivere a fosche tinte una situazione che peraltro lo riguardava direttamente, essendo anche lui un componente della cordata.
Pur non essendo superstizioso, Rabauer era giunto presto alla conclusione che l’uomo della Compagnia, invece di esser d’aiuto, avrebbe portato iella all’intera spedizione.
Rabauer detto il Kaiser amava passare le serate nei rifugi ingollando grappini in grado di scaldare l’anima e il sangue, giocando sanguinose partite a scopone e imprecando come un mandriano nel caso in cui le carte fossero a suo sfavore. In parete teneva sotto un controllo ferreo ogni dettaglio, dall’equipaggiamento agli umori del cielo e della montagna. Per quanto riguardava i compagni di scalata, anche quando si trattava di clienti paganti l’ultima parola spettava sempre al Kaiser:
“Il capo cordata ha tutte le responsabilità. Quindi, sta a me decidere chi è in grado di salire e chi invece è meglio che resti a valle a prendere il sole, a far foto alle mucche e a mangiare strudel. Non voglio gente con le vertigini, nessuno che si faccia venire gli attacchi di panico e soprattutto nessuno che abbia l’intenzione di far di testa propria.”
Eppure, per qualche strana ragione che si spiegava solo col fascino della conquista, gli era toccato di finire in capo al mondo a scalare una vetta circondata dal nulla, insieme a una zavorra di gente sprovveduta o addirittura propensa a portare scalogna.
L’unico di cui si fidava era appunto Peter Moroder, un compaesano che il Kaiser aveva coinvolto non senza resistenze da parte della Compagnia:
“Sia chiaro, Rabauer: date le circostanze, la spedizione ammette un numero ristretto di partecipanti. A titolo esclusivamente dimostrativo abbiamo selezionato dei clienti, ma non stiamo organizzando una gita turistica. Il compenso del suo collega sarà lei a pagarlo, dal momento che insiste per portarselo dietro.”
“Sarà meglio portarsi dietro qualcuno che sappia come cavarsela,” s’era impuntato Rabauer. “Non mi pare si possa dire lo stesso dei vostri clienti.”
Al Kaiser era bastato dare un’occhiata alle schede dei partecipanti per far diagnosi con assoluta sicurezza: “Questi qua, al massimo, avranno scalato le montagne russe del luna park.”
La Compagnia, per bocca di un non meglio precisato responsabile delle spedizioni, aveva replicato che un loro uomo di fiducia avrebbe partecipato all’impresa. Dopo aver conosciuto il gufo, Rabauer si era convinto una volta di più che la presenza di Moroder avrebbe giocato un ruolo fondamentale: se non altro per evitare che tutto il gruppo scomparisse in un crepaccio, mentre lui era impegnato ad aprire la via in salita.
Moroder e Rabauer si conoscevano dai tempi in cui una fortunosa spedizione sulla Marmolada aveva corso il rischio di essere spazzata via da una valanga, come una fila di birilli su una pista da bowling.
Moroder guidava gli allievi della sua scuola di roccia, Rabauer s’era trovato in coda sulla cengia durante una delle sue frequenti salite in solitaria. Il ghiacciaio stendeva una passatoia da processione solenne tra i pilastri che si ergevano come isole in mezzo al mare, e quella mattina scintillava come un gioiello. La luce era così limpida che cadeva sulla spianata rompendosi in mille pezzi: accendeva bagliori azzurri sulla neve e scrocchiava sotto i passi come se il mondo fosse ancora nuovo di zecca.
A un certo punto Moroder, tendendo l’orecchio, aveva udito una vibrazione che iniziava a crescere man mano d’intensità. Aveva ordinato al gruppo di fare dietrofront e Rabauer s’era trovato a dover fare marcia indietro a sua volta. Il ghiacciaio contava numerose grotte già utilizzate durante la prima guerra mondiale come depositi di artiglieria dagli Austriaci. Dentro a una di queste, gli escursionisti erano riusciti a trovare riparo: appena in tempo per vedere quella colata turbinosa di detriti e lastroni che si abbatteva con la potenza di un fiume in piena, rompendo gli argini del ghiacciaio, spezzando in due le rocce e trascinandole a valle.
Con un lavoro certosino di ore le due guide erano riuscite a riportare alla luce tutti i quindici sbigottiti allievi della scuola, rimasti intrappolati da un muro di neve che aveva ostruito l’ingresso. Con la sensazione di essere catapultati sulle scene di un film catastrofico, Moroder e il Kaiser avevano scavato un cunicolo a mani nude. Infine, erano riusciti a condurre fuori l’intero gruppo mentre ancora gli elicotteri del soccorso giravano a vuoto. Il fruscio delle pale scalfiva appena il silenzio che era calato improvviso, dopo il boato che aveva scosso fin nelle viscere il ventre del ghiacciaio.
Dopo quell’esperienza, gli allievi rocciatori era tornati alle loro tranquille occupazioni di impiegati, ragionieri e geometri, con l’unica accortezza di organizzare le ferie al mare per il resto dei loro giorni.
Rabauer e Peter Moroder avevano tirato il collo all’ansia trascorrendo intere serate nelle stube a scolare pinte di birra, a giocare interminabili partite a carte e a ripercorrere daccapo le loro traversie. In base al tasso alcolico i racconti si arricchivano di particolari, di angosce mai rivelate, di strani presentimenti e visioni immaginifiche che avevano il solo scopo di accrescere il sollievo una volta giunti all’immancabile lieto fine. Durante quelle lunghe sedute psicoanalitiche sulle panche della stube, i due rocciatori avevano trovato il tempo e l’occasione per gettare le basi di un’amicizia di ferro.
Fu proprio durante una di quelle serate che Moroder accettò di andare a impelagarsi in quella missione balorda organizzata dalla Compagnia ai confini del mondo.
Dopo aver prosciugato il terzo boccale, Rabauer aveva riassunto il nocciolo della questione: “Il gruppo dei clienti è tutta gente inesperta, salire sulla montagna è vietato dal governo, se capita qualche incidente la galera è assicurata, se riusciremo a fare vetta nulla esclude che in galera ci finiremo lo stesso.”
Moroder aveva fatto segno alla fraulein di portare altre due birre, prima di commentare: “Le premesse sono ottime. Tu, come mai hai accettato?”
“Fascino dell’avventura o demenza senile,” aveva riso il Kaiser. “Un modo come un altro per chiudere in bellezza. A cinquantasei anni è arrivato il momento di appendere la piccozza al classico chiodo e mettere la testa a posto. Mi dedicherò a portare a passeggio i clienti dell’albergo dei miei, tranquille gite per famiglie e vecchietti fino al primo rifugio dove mangiare spätzle. Prima, però, non mi dispiacerebbe fare vetta sull’unica montagna ancora inesplorata e magari chiamarla cima Rabauer. Passare alla storia è un buon modo per fare il pienone anche in bassa stagione.”
“E io cosa ci guadagno?”
“La mia eterna riconoscenza, la metà del compenso e la garanzia che il passaggio più rognoso verrà intitolato ferrata Moroder. Posso aggiungere un piatto di spätzle insieme ai miei nonnetti. Quando sarai anche tu un nonnetto rimbambito, avrai qualcosa da raccontare ai tuoi nipoti nelle sere d’inverno. Una volta uscito di galera, naturalmente.”
Moroder aveva accettato e ora si trovava in fondo alla fila, impegnato ad aiutare uno dei clienti - a occhio e croce, il dottor Zampetti - a superare lo sgambetto dell’uomo della nicchia senza troppi timori.
Il Kaiser gli fece cenno, il collega alzò la mano per confermare che non c’erano problemi. La spedizione procedeva e fino a quel momento tutto filava liscio. Rabauer attese di essere raggiunto dal resto del gruppo, prima di attaccare l’ultimo tratto che li avrebbe condotti dritti fino alla vetta.

 
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Colle Isarco, sede locale della Compagnia, alcuni mesi prima
  
Lo scalpore legato all’episodio della valanga e al salvataggio operato da Moroder e Rabauer era rimbalzato come un’eco per le valli, fin sulle prime pagine dei quotidiani nazionali. L’albergo degli anziani genitori del Kaiser aveva registrato il tutto esaurito per almeno due stagioni. La scuola di Peter Moroder aveva ingrossato le file grazie a un altro manipolo di impiegati e bancari che cercavano il brivido dell’adrenalina in quota. Dulcis in fundo, quando la Compagnia l’aveva contattato, il Kaiser aveva trovato un vecchio articolo ritagliato con cura, conservato come una prova a carico dentro a un dossier a suo nome.
L’ufficio in cui era stato convocato pareva, a una prima occhiata, più un magazzino che la sede di un tour operator. Mucchi di scatoloni erano impilati fino a un soffitto da cui pendevano un paio di lampadine, che stentavano a far luce sotto a strati di polvere. Alle pareti non era affisso nessuno dei manifesti tipici delle agenzie: sagome in chiaroscuro di vette al tramonto, mucche pezzate al pascolo e mappe dei sentieri escursionistici per i rifugi. La scrivania del responsabile era un semplice banco di scuola, che pareva piazzato là in maniera del tutto provvisoria.
Dietro al banco c’era addirittura una lavagna con tanto di gessetto appeso a una cordicella.
Il tizio incaricato di fare gli onori di casa esibiva un’aria da trafficante, accentuata da un continuo sfregarsi le mani: il che poteva essere un semplice segno di nervosismo, o il campanello d’allarme di una fregatura in vista.
Fu a quel punto che Rabauer si rese conto di non avere la più pallida idea di cosa si occupasse la Compagnia. Di più, non l’aveva mai sentita nominare malgrado conoscesse più o meno tutte le imprese che operavano in zona nel settore turistico.
Di punto in bianco, durante uno dei rari periodi di riposo trascorsi a far da guida ai clienti dell’hotel Enzian in Val di Fassa, aveva ricevuto una comunicazione che lo invitava a presentarsi il tal giorno alla tal ora a Colle Isarco sul Brennero, presso l’agenzia di quella fantomatica multinazionale che, sulla carta intestata, elencava filiali soprattutto nelle zone franche del mondo: Bahamas, isole Cayman, Panama, Singapore.
“La presente per proporle il ruolo di guida in spedizione estera che richiede elevate capacità tecniche”, recitava sintetica la missiva, “compenso da definire.” La firma era poco più di uno scarabocchio sotto alla dicitura “Il responsabile dell’ufficio spedizioni”.
“Abbiamo pensato a lei perché è indiscutibilmente il migliore sulla piazza,” aveva esordito il sedicente responsabile, sfregandosi ripetutamente le mani. “Ciò che le proponiamo, cambierà la sua vita in maniera definitiva.”
Rabauer si sforzò di fare del suo meglio per accomodare un metro e novantacinque centimetri per ottanta chili di peso sulla sedia da scolaretto che gli era stata offerta. Posta in quei termini, l’offerta assumeva i contorni velati di una minaccia.
“Si metta comodo, Rabauer,” sorrise il responsabile esibendo una chiostra di denti da caimano e un’altra poderosa sfregata di mani. “La nostra Compagnia intende proporle un’impresa a dir poco eccezionale: scalare l’unica vetta che nessun uomo è ancora riuscito a conquistare. Le offriamo di entrare a pieno titolo nella storia dell’alpinismo, ovviamente dietro lauto compenso.”
La questione del compenso era di marginale interesse per il Kaiser, che nella sua romantica visione del mondo tutto si considerava fuorché un arrampicatore prezzolato. Fu piuttosto quella strana proposta a sorprenderlo. Conosceva tutte le vette del pianeta, quanto meno di nome se proprio non le aveva scalate personalmente. A meno che la Compagnia non intendesse spedirlo sulla Luna, non esisteva cucuzzolo al mondo su cui l’uomo non avesse mai messo piede.
“Dove si troverebbe questa montagna sconosciuta?”
“Si tratta di conquistare le vetta principale del Gangkar Punsum,” azzardò il responsabile. “Sulla catena dell’Himalaya a quota 7.570 metri.”
Rabauer non cadde dalla sedia soltanto perché questa era praticamente rasoterra.
Chiunque fosse pratico dell’Himalaya sapeva che le spedizioni sul Gangkar Punsum erano vietate da più di vent’anni. L’intera faccenda cominciava a puzzare d’illegalità lontano un miglio.
Eppure, di lì a poco Rabauer si risolse a firmare non solo un accordo sulla cui validità qualsiasi studente di legge avrebbe avuto da ridire, ma una quantità di liberatorie che, via via che i fogli si ammucchiavano sul banco, assumevano sempre più i connotati di un capestro in piena regola, anzi contro ogni regola.
All’inizio aveva sollevato qualche obiezione, ma il caimano aveva sfoderato la sua migliore aria da imbonitore: “Lasci a noi le questioni politiche. A lei interessa scalare e questo è esattamente ciò che le proponiamo. Non le chiediamo semplicemente di accompagnare dei clienti, ma di aprire una nuova via che, se tutto va bene, potrà anche essere intitolata a suo nome. Se le cose andranno come devono andare, lei sarà il primo a mettere piede su quella vetta.”
“Chissà perché ho l’idea che se finirò in galera, voi non vi prenderete il disturbo di venire a levarmi le chiappe dalla graticola.”
“Questo è affar suo, Rabauer: si attenga alle indicazioni che noi le forniremo e non correrà alcun rischio.”
Dopo un’altra energica sfregata di mani il tizio aveva cavato fuori una serie di foto, mettendole sotto al naso diffidente del Kaiser: “Tanto per cominciare, ho il piacere di presentarle il Gangkar Punsum.”
Le immagini ritraevano un paesaggio di infinita suggestione, un’autentica calamita per gli occhi e per l’anima: tre picchi solenni ammantati di neve contro a un cielo di smalto, alle pendici di una foresta colma di ombre.
La struttura ricordava quella remota montagna degli Stati Uniti d’America con i volti dei Presidenti scolpiti nel granito. Alla stessa maniera, le tre cime gemelle volgevano lo sguardo verso l’osservatore, impassibili e neutre. Molto probabilmente, se qualcuno si fosse avventurato a scalarle, avrebbero chinato i loro pinnacoli per scrutare quella minuzia, prima di ributtarla a valle e a gambe all’aria con una sola scrollata dei loro mantelli.
“La Montagna dei Tre Fratelli spirituali: questo è il significato del nome Gangkar Punsum,” aveva spiegato il responsabile, guardando di sottecchi il Kaiser. “Quasi ottomila metri ancora incontaminati, al confine tra il regno del Bhutan e il Tibet.”
“Quindi, l’alternativa è tra finire in carcere nel Bhutan oppure in Cina. Buono a sapersi.”
Rabauer aveva brontolato tanto per dir qualcosa, perché tutta la sua attenzione era assorbita dallo spettacolo dei tre incappucciati.
“Secondo i locali la montagna rifiuterebbe di essere scalata, ma queste sono solo  superstizioni. A quanto ci risulta, la seconda delle tre cime è stata conquistata da una spedizione giapponese nel 1999. Un certo Suzuki ottenne il permesso di salire dal versante cinese, ma all’ultimo momento dovette ripiegare sul Liangkang Kangri, il secondo dei Tre Fratelli, per una bega di confine tra la Cina e il Bhutan.” Il caimano aveva scosso il capo, come di fronte a un battibecco tra vicini di casa particolarmente piantagrane. Col dito aveva tracciato un ideale percorso che dal secondo torrione arrivava direttamente alla cima più alta: “Secondo i giapponesi, raggiungere il Fratello Maggiore è tecnicamente possibile. Contiamo su di lei per aprire una via sicura ai nostri clienti.”
Il Kaiser ascoltava con un orecchio solo: più che seguire la lezione impartita dal responsabile dell’ufficio spedizioni illegali, non riusciva a staccare gli occhi dai Tre Fratelli avvolti nel loro manto regale di neve.
Per lui, non esisteva voce più irresistibile di quella delle altezze. Da quando era bambino e saliva protetto dalla solida retroguardia di suo padre, ogni montagna era una promessa di meraviglia, uno scrigno offerto in cambio di una paziente fatica.
Scalare esigeva una forte concentrazione: piantare i chiodi e far passare le corde, prestare attenzione a dove si mettevano i piedi, ripetere ogni volta la stessa operazione rischiava addirittura di diventare noioso. Ma una volta giunti alla meta, ci si sentiva un’aquila sulla vetta del mondo.
A ogni passo il panorama mostrava nuovi dettagli: un massiccio si trasformava in una cattedrale di guglie, un monte che da lontano pareva tutto d’un pezzo si apriva come un ventaglio. Le valli scomparivano e si spalancavano le dimore di un altro mondo: deserti abitati soltanto dalla voce del vento, dalle aquile in volo che creavano ombre improvvise sulle rocce.
I ghiacciai si stendevano come veli di spose nel giorno delle nozze. A calpestarli, si aveva l’impressione che le vette voltassero per un istante il capo, per vedere chi osava andarsene a spasso sul loro strascico.
Salire il più possibile fino a raggiungere luoghi che non sono più di questa terra, i regni delle cime che sovrastano altre cime, che emergono dal ghiaccio, dalle nuvole e dal silenzio; il senso di soggezione che coglie l’alpinista una volta giunto in vetta, al cospetto di quei pinnacoli che sembrano reggere la volta del cielo: di fronte a tutto questo la fatica scompariva e qualsiasi compenso pesava sulla bilancia quanto un dito di polvere.
Quando il Kaiser alzò gli occhi dalle immagini dei Tre Fratelli, nella voce e nell’anima aveva una sola domanda:
“Per quando è stabilita la data della partenza?”
Il trafficante specializzato in vette himalayane espresse la sua soddisfazione con un’altra vigorosa sfregata di mani.

 
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Aeroporto di New Delhi, 4 aprile 2018
 
Durante il viaggio aereo, negli scali interminabili sotto ad altoparlanti che recitavano avvisi in lingue sempre più incomprensibili, Rabauer si era dimenato tra mille dubbi: sempre più convincendosi che quell’impresa l’avrebbe condotto dritto in galera, e che le prossime cime le avrebbe viste da dietro alle sbarre di qualche infernale prigione cinese.
Per sottrarsi a quei pensieri s’era guardato intorno, scandagliando i viaggiatori che seguivano la medesima rotta: tra ricche donne in sari che trascinavano trolley seguite da bambini e odori forti di spezie, giapponesi in bermuda e bivacchi di italiani attorno a pizze al taglio, aveva frugato in cerca di qualche faccia in grado di combaciare con le schede dei clienti della Compagnia.
Esaminando quei moduli che recavano nome, cognome ed esperienze alpinistiche precedenti, si era reso conto una volta di più di avere a che fare con un’armata Brancaleone di inesperti.
All’aeroporto di Delhi, il gruppo dei passeggeri che attendeva l’imbarco al gate della Druk Air[1] si era notevolmente assottigliato. Accanto a una coppia di monaci tibetani e a una famiglia indù che banchettava a riso e masala, un gruppo di occidentali spiccava come un pugno nell’occhio. Ciò che spiccava era soprattutto il fatto che la comitiva pareva più adatta a una gita in moscone sull’Adriatico che a una spedizione sull’Himalaya.
“Sono loro, non c’è dubbio.” Rabauer cominciò ad agitarsi sulla poltroncina del gate come una lepre in trappola. Si rivolse a Moroder, che addentava un panino con würstel scovato chissà dove: “Tu cosa ne pensi? Più sprovveduti di questi, non li troveresti neanche a cercarli col lanternino.”
Moroder era impegnatissimo a evitare che corposi schizzi di senape colpissero i presenti nel raggio di due metri. “La bionda non è male,” si limitò a commentare, “quanto agli altri, vedremo.”
La bionda in questione era una tizia allampanata e dai lineamenti così sottili da sembrare senza volto. Spiccava per l’altezza vertiginosa in mezzo alla combriccola impegnata a consultare documenti di viaggio, a scambiarsi pareri e divorare pizzette che una monumentale figlia dei fiori offriva in giro, insieme a un tintinnio di braccialetti e zaffate di patchouli. Sul vassoio di tranci ai funghi e carciofini volteggiava come un rapace un tipo col pizzetto che indossava un camicione dai colori sgargianti. Ciarliero e incontenibile, faceva l’effetto di uno strano uccello esotico, un grosso pappagallo che catturava con le sue chiacchiere l’attenzione di tutti. In quel momento era intento a spiegare alla truppa usi e costumi tipici del Bhutan: come se in quel Paese di cui gli altri a malapena conoscevano l’esistenza, il pappagallo col pizzetto ci fosse nato. 
Poco in là, ostinatamente isolato dagli altri, un ragazzotto s’era tolto le scarpe e contagiava il vassoio con un fetore ammorbante di calzini sudati.  
“Ci vorranno settimane prima di riuscire ad abituarli all’altitudine, ammesso che sia possibile. Cadaveri sulla groppa non ne voglio neanche uno,” masticò amaro il Kaiser. “Quindi direi che abbiamo due possibilità: andare subito a informarci sul primo volo per l’Italia, e tanti cari saluti alla Compagnia e ai suoi clienti. Questa è la prima opzione.”
“E l’altra, quale sarebbe?” Moroder era impegnato in varie contorsioni per impedire a quattro colate di senape di raggiungere la maglietta, i calzoni, il pavimento nonché di colpire come proiettili vaganti la famigliola indù, che dopo il pasto s’era acciambellata a riposare sopra ai bagagli.
“Misericordia, fai schifo.” Gli ottanta chili del Kaiser scrollarono così forte la poltroncina che l’intera fila vibrò di oscillazioni sismiche. “L’altra possibilità è andare a presentarci all’allegra combriccola. Tanto saremo noi a dirigere la baracca. Se ci accorgeremo che in alta quota questi non reggono, non c’è nessun problema: faremo una bella passeggiata nei boschi, compreremo due bandierine tibetane per ricordo e via diritti a casa. E tanti cari saluti…”
“Piacere, Luigi Norbu Zampetti.”
Colto di sorpresa, il sandwich di Moroder terminò la sua corsa sullo zaino del Kaiser.
Rabauer si trovò di fronte un pizzetto sorridente, un paio di occhiali tondi in bilico su un becco e due grandi occhi sporgenti da uccello. Lo sguardo era così limpido ed esprimeva una tale garbata cortesia che il Kaiser rinunciò ai suoi modi da orso e persino alla sua storica diffidenza nei confronti di tutti coloro che pretendevano di calpestare la montagna senza avere mai visto un rampone.
“Piacere mio, Rabauer. Lei è uno dei clienti della Compagnia?”
L’omino si profuse in un inchino a mani giunte. Una corrente d’aria condizionata sollevò l’estremità del camicione, dando l’impressione che un ventaglio di piume gli uscisse dal sedere, componendo una ruota in onore dei presenti.
“Per servirla, Norbu Zampetti. Orientalista e studioso di buddhismo tibetano. Conosco quattordici lingue asiatiche tra cui dzongkha[2], hindi e cinese. Sono a vostra completa disposizione per farvi scoprire i segreti del Paese che andremo a visitare.”
“Proprio quello che ci serve”, sbuffò il Kaiser, ancora infastidito dall’incidente del sandwich.
Accanto a lui, Moroder sghignazzava. Accovacciato sul pavimento, era intento a ripulire gli esiti del disastro. “Piacere, Peter Moroder. Guida alpina che parla tedesco, italiano e dialetto veneto,” disse, allungando la mano all’altezza del bassoventre del suo interlocutore.
“Da quando parli in veneto?”
“Mia madre la se de Venezia.”
Rabauer riprese il filo del discorso:
“Forse è male informato, dottor Zampetti. Noi siamo appunto alpinisti e lo scopo del viaggio è scalare una montagna, non andare a visitare monumenti.”
“Ne sono ben consapevole, herr Rabauer. La mia voleva essere una semplice offerta del tutto personale e disinteressata. Ho scalato l’Everest sette volte, sette il Nanga Parbat, tre volte il K2 e ho visitato il suggestivo Santuario dell’Annapurna, che la gente del luogo considera dimora degli spiriti celesti.”
“Sicché di superstizioni lei se ne intende.”
Sul volto dello studioso passò un’ombra di disappunto. “Vede, herr Rabauer, quello che spesso noi consideriamo superstizione per altri è senso del sacro, qualcosa che ha a che fare con la storia e l’anima dei popoli.”
Il Kaiser fece marcia indietro, per non impantanarsi in argomenti sui quali era chiaramente impreparato. “Dottor Zampetti, non posso mettermi a discutere con lei di filosofia. Quello che m’interessa è conoscere il vostro livello di preparazione: il suo, e quello degli altri partecipanti. Qui si tratta di salire fin quasi a ottomila metri, e l’organismo umano, molto semplicemente, non è stato progettato per andarsene a spasso a quelle altezze.”
Zampetti gli posò sulla spalla la sua mano sottile da uccello: “Quello che a prima vista sembra impossibile, a volte richiede solo un po’ più di esercizio. Ma ancor prima si tratta di un fattore mentale: se ci mettiamo in testa che non ce la faremo, otterremo esattamente ciò che pensiamo. La paura, non la vetta, è l’ostacolo. Se lo ricordi, capo”.
Più tardi, mentre l’aereo sorvolava pianure polverose e nastri di fiumi lucenti, accanto a Moroder che digeriva il suo würstel russando scompostamente, Rabauer cercò di fare il punto della situazione. Tutti i partecipanti avevano dichiarato di avere all’attivo almeno un ottomila, con la sola eccezione della spilungona bionda e di Calzini sudati. A dispetto della taglia extralarge, Patchouli si era arrampicata sulla cordigliera delle Ande in cerca di mummie inca, era una frequentatrice abituale del Macchu Picchu e aveva tentato l’avventura dell’Everest, salvo tornare indietro a causa di una bufera.
Quando l’aveva saputo, Rabauer aveva colto la palla al balzo: 
“Vi avverto che qui le regole sono le stesse: in caso di maltempo, e comunque non oltre le due del pomeriggio, rientreremo al campo base. Riguardo a questo, non accetto discussioni. La montagna non si sfida per avere qualcosa da raccontare a casa: se vi farete sorprendere dal buio o da una tormenta, c’è il rischio che a casa vostra non ci tornerete più.”
Patchouli e Zampetti avevano annuito, spaventati a dovere. La spilungona si era limitata a guardarsi le scarpe, il giovane vagabondo aveva sbuffato tutta la sua insofferenza.
“La regola vale anche per te, ragazzo,” l’aveva ammonito Rabauer. “A proposito e se non è troppo disturbo, posso sapere come ti chiami?”
Jumping Frog, signora guida,” aveva risposto il giovane di malavoglia.
“Ti chiami Ranocchio che salta? Mi prendi per i fondelli?” e poiché il ragazzotto non dava segno di volere replicare: “Va bene, Jumping Frog. Per me ti puoi chiamare anche Cavallo pazzo, basta che non fai il pazzo nella mia spedizione.” Aveva alzato il tono, per contrastare l’altoparlante che invitava i passeggeri a procedere all’imbarco:
“Molto bene, signori. Ci ritroveremo tra qualche ora a Paro. Faremo vetta soltanto se ci saranno le condizioni. In caso contrario, vi farete ridare i soldi dalla vostra Compagnia. Detto questo, buon viaggio.”
Accartocciato sulla poltrona naturalmente troppo stretta, Rabauer ripassò per l’ennesima volta le schede dei clienti: come se a forza di leggerle potessero saltar fuori le risposte a tutti i dubbi che puntualmente lo assalivano, non appena si trovava da solo con se stesso.
“Guarda un po’, quel moccioso si è veramente registrato col nome di Jumping Frog. Vorrei proprio sapere cosa c’è scritto sul suo passaporto.”
Jumping Frog, ribattezzato Calzini sudati e la bionda spilungona, tale Leina Morgagni impiegata in un’impresa di pompe funebri: in ogni spedizione c’è sempre l’anello debole, la spina nel fianco. In questo caso, le spine piantate nel fianco del Kaiser erano addirittura due e pungevano senza tregua.
Invece di indicare le eventuali esperienze alpinistiche all’attivo, Calzini aveva elencato un curriculum accademico tra il serio e il grottesco: maturità conseguita col massimo punteggio, laurea in matematica pura con lode, attualmente iscritto a un master in vagabondaggio presso l’Università di Paperopoli.
“Ci mancava proprio il nerd con lo spirito del ribelle,” masticò amaro Rabauer.
Quanto alla Morgagni, si era limitata ad allegare un biglietto da visita dell’impresa Ars moriendi s.r.l. - servizi funerari, allestimento camere ardenti, cremazioni - con tanto di lumino votivo apposto in calce a scanso di equivoci.
“In caso di bisogno, sapremo a chi rivolgerci.” Di gente strana, sull’Himalaya il Kaiser ne aveva incontrata a bizzeffe e ormai non si stupiva più di niente. “Forse anche ai becchini interessa entrare nel business. Pacchetti di viaggio con le esequie comprese nel prezzo.”
Mancava solamente l’uomo della Compagnia, che li avrebbe raggiunti a Paro: sicuramente un altro che la montagna l’aveva vista solo in fotografia, e per di più avrebbe preteso di arrampicarsi con la videocamera in mano.
Il Kaiser cercò nuovamente di assestarsi sopra alla poltroncina, puntando le ginocchia sul sedile di fronte. Uno dei monaci tibetani già intravisti all’imbarco si voltò sorridendo: chinando appena il capo, cercò di far capire a quella specie di orso che gli stava piantando le rotule nelle reni.
Rabauer si sforzò di trovare un’altra posizione. Allungò le zampe nel corridoio: l’idea di fare lo sgambetto a una delle hostess e farsela cadere diritta tra le braccia lo rallegrò un poco.
“Quei due resteranno al campo base quant’è vero Dio.” Sentiva finalmente le palpebre pesanti e ormai prossimo il sonno. “Di più, ci resteranno anche la cercatrice di mummie e l’esperto di buddhismo tibetano. Non voglio grane, lassù. Saliremo io e Moroder, faremo vetta e la Compagnia sarà contenta. Altrimenti, tanti saluti.”
Si addormentò prima di precisare dove la Compagnia e soprattutto il caimano dell’ufficio spedizioni potevano ficcarsi la ricompensa promessa, fino all’ultimo euro.
 

 
******
 
 

[1] La Druk Air è la compagnia di bandiera del Bhutan, l’unica autorizzata ad atterrare nel territorio nazionale.
[2] La lingua dzongkha, di origine tibetana, è la lingua ufficiale del Regno del Bhutan. La denominazione deriva da kha (= lingua), mentre dzong si riferisce ai monasteri-fortezza diffusi in tutto il Bhutan come centri di diffusione del buddhismo e consolidati a partire dal XVII secolo come avamposti di difesa contro le invasioni tibetane e mongole. 

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Capitolo 2
*** I custodi del Gangkar Punsum ***


“Quando guardo le montagne ho i sentimenti delle montagne dentro di me:
li sento, come Beethoven che sentiva i suoni nella testa
quando era sordo e compose la Nona sinfonia.
Le rocce, le pareti e le scalate sono un’opera d’arte”

(Reinhold Messner)
 
“Quando gli uomini e le montagne s’incontrano,
grandi cose accadono”
 
(William Blake)
 

2. I custodi del Gangkar Punsum

 
Regno del Bhutan. Da Paro a Jakar, tra il 4 e il 5 aprile 2018
 
All’aeroporto di Paro il gufo l’aveva raggiunto all’ufficio della dogana, dove il Kaiser si apprestava a sborsare una tassa di quaranta dollari netti per importare cinque pacchetti di sigarette.
“In tutto il Bhutan è vietato fumare,” aveva gongolato l’uomo della Compagnia. “Se lei avesse letto con attenzione le nostre istruzioni, saprebbe che questo Paese è stato il primo al mondo a vietare il tabacco nei confini nazionali. Il fumo si trova solamente di contrabbando, ma la Compagnia, ovviamente, non la paga per dedicarsi a traffici abusivi.”
In perfetta tenuta da animatore turistico, cappellino e scarpe da tennis, cartellina con le prenotazioni alberghiere e bandierina per rendersi visibile nella ressa, il gufo s’era presentato fin dall’inizio con una faccia tosta che aveva dell’incredibile: più abusiva di quella missione che il Kaiser aveva accettato su due piedi, col naso che già fiutava l’aria tersa degli ottomila, in realtà non c’era nulla.
“Mi sta dicendo che, oltre a tutto il resto, mi toccherà anche smettere di fumare?”
“Lo consideri un amichevole consiglio.”
Una volta lasciato l’aeroporto al seguito del gufo, che pareva ben istruito sul percorso da seguire e invece si perse subito, il gruppo si trovò invischiato in un labirinto di vicoli e mercati, bancarelle di spezie, file di peperoncini e sacchi di riso rosso, pubblicità della locale birra Red Panda e neppure un caffè.
“L’espresso non esiste da queste parti,” precisò il gufo con evidente soddisfazione.
Zampetti era ottimista: “Negli hotel di turismo internazionale, l’espresso di solito c’è. Male che vada, avremo l’occasione per assaggiare il tè al burro di yak.”
L’albergo riservato dalla Compagnia ai suoi clienti era una sorta di pagoda a conduzione familiare, col pavimento in stuoie e terra battuta, ovunque statuine del Buddha e una morbida fragranza di incensi. L’espresso era praticamente sconosciuto. In compenso, sotto all’insegna decorata dalle solite bandierine di buon augurio, un enorme fallo dipinto con tutti i particolari sprizzava felicità con un tale entusiasmo che Rabauer mise da parte le sue inquietudini, Calzini il suo malumore, la biondina specializzata in esequie e cremazioni passò dal colorito cadaverico al viola e tutti scoppiarono a ridere stupefatti.
“Nel Bhutan, il pene è sacro,” spiegò il dottor Zampetti. “È un simbolo di protezione molto potente, in grado di scacciare gli spiriti maligni.”
“Allora io posso ritenermi fortunato,” sghignazzò Moroder, dando di gomito al Kaiser. “Ora capisco perché ci tenevi così tanto a farmi venire. Sarò il portafortuna ufficiale della missione.”
“Sappiate che in Bhutan esiste un piccolo santuario noto come il tempio della fertilità,” spiegò Zampetti, serissimo. “Presso questo santuario, le coppie che desiderano un figlio si recano in pellegrinaggio. Il lama del monastero benedice le donne colpendole sulla testa con un fallo di legno.”
Il giorno seguente, a bordo della corriera diretta a Jakar, la compagnia constatò che l’insolito amuleto campeggiava un po’ ovunque: sui muri delle case e all’ingresso dei negozi, decorato con nastri, simboli e una quantità incredibile di dettagli.
“Presso il tempio della fertilità di cui vi ho parlato,” raccontava Zampetti, “è custodito un esemplare dal manico d’argento. Si dice sia stato portato dal Tibet da Dukpa Kunley nel quindicesimo secolo. Dukpa Kunley era un monaco un po’ fuori dagli schemi: contrariamente a quanto sostenevano i maestri del tempo, riteneva possibile raggiungere l’illuminazione attraverso un’intensa vita sessuale. Molte donne lo cercavano al fine di ottenere la sua benedizione, al punto che il lama Kunley è noto anche come il santo delle cinquemila donne.”    
“Ho deciso,” rise Moroder, “diventerò anch’io un monaco buddhista.”
Paro li aveva accolti in una nicchia di colline e di brezza. Sulle alture si arroccavano templi dai tetti arcuati, decorati da bandierine che spargevano al vento le benedizioni compassionevoli del Buddha.
Jakar, ultima tappa prima della scalata, riservò al gruppo un benvenuto assai diverso. A metà strada la corriera rischiò il naufragio sotto a un rovescio di pioggia, accompagnato da fulmini talmente furibondi da far pensare a Rabauer che tutti gli spiriti del Bhutan si fossero dati convegno, allo scopo di incenerirli ancor prima di essere in vista dei Tre Fratelli.
La pioggia percuoteva i finestrini a secchiate, il buio era praticamente notturno e la vecchia corriera - un modello che in Occidente non si vedeva più dagli anni Settanta -  caracollava sulla sterrata, tra buche trasformate in pozzanghere così fonde che l’intero carrozzone finì per arenarsi.
Le ruote posteriori giravano a vuoto sollevando creste di fango, con l’unico risultato di affondare sempre più. A quel punto, l’autista spense il motore. Comunicò il guasto su una linea crepitante di interferenze, si voltò verso i passeggeri e annunciò imperturbabile:
“Fine corsa, signori.”
“Che ha detto?” Nonostante l’inglese da strapazzo del conducente, Rabauer aveva capito perfettamente ma si rifiutava di credere alle proprie orecchie.
“Qui è proprio come in India,” osservò Calzini sudati, sbracato nell’ultima fila. “Sai quando parti, ma non quando arrivi. Om shanti om.”
Calzini sudati si calò il berretto sul viso e si dispose a dormire come se fosse nel letto di casa sua. Zampetti fornì una dotta spiegazione delle ultime parole del nerd di Paperopoli: “Om shanti om è il mantra della pace. Pace nella mente, nel corpo e in ogni cosa. Jumping Frog ha ragione: mettiamoci tranquilli e qualcosa succederà.”
Nell’oscurità che aveva invaso la carrozza, il volto di Patchouli e quello della spilungona galleggiavano pallidi come fantasmi.
I passeggeri bhutanesi si erano già organizzati per trascorrere al meglio il tempo dell’attesa. Qualcuno, sull’esempio di Calzini sudati, ne approfittò per schiacciare un pisolino. Ad altri, evidentemente, la pioggia metteva appetito: qualche nonna previdente cavò da sotto allo scialle thermos caldi di tè e sacchetti di momo[1]. Persino i bambini sonnecchiavano quieti mentre dalla portiera d’ingresso, a cui mancava un’anta, entravano mulinelli e un gelo da pieno inverno. 
Del tutto impermeabile al clima rilassato, il Kaiser perse le staffe. Si voltò qua e là imbestialito, poi decise di prendersela con l’uomo della Compagnia:
“Ma io mi domando e dico, non c’era un cazzo di treno o un maledetto volo interno per arrivare a Jakar? A Jakar c’è un aeroporto e adesso voglio sapere, pretendo di sapere perché la Compagnia ha deciso di farci attraversare tutto il Paese in corriera, come se fossimo una cazzo di gita scolastica!”
“Non si scaldi, Rabauer,” replicò il gufo, flemmatico. “Il motivo è molto semplice, noi viaggiamo in incognito e occorre essere prudenti. Lei sa che il turismo in Bhutan è ammesso a condizione che sia presente un guida autorizzata dal governo? Il nostro uomo ci attendeva all’ufficio visti di Paro. Ha riscosso quel che la Compagnia gli ha offerto, ma posso garantirle che il sottoscritto ha sudato le proverbiali sette camicie per convincerlo ad accettare. Per questo e altri motivi che persino un montanaro come lei può intuire, non conviene viaggiare dando troppo nell’occhio.”
“Lei ha pagato la guida? E chi mi garantisce che quel tizio non sia andato dritto alla polizia non appena lei ha girato il culo?”
“Che fa, Rabauer, mi cade dalle nuvole? Non faccia il finto tonto, lei tutte queste cose le sapeva benissimo già prima di partire. Piuttosto, dia un’occhiata a questo fascicolo.” Il gufo cavò dallo zaino una serie di fotocopie tenute assieme da una spirale: “Legga e mi dica cosa ne pensa.”
Il Kaiser iniziò a sfogliare, senza riuscire a capire di che diavolo si trattasse. Il dossier era composto da una serie di stampe di pessima fattura, che appiccicavano alle dita un inchiostro come fuliggine. Fotografie sfuocate mostravano strane ombre sul crinale di una montagna, che non potevano essere alberi perché sull’Himalaya, oltre una certa quota, non cresce neanche un lichene. Parevano fantasmi o più probabilmente uomini armati. La temperatura corporea di Rabauer scese a picco sotto allo zero, come se già si trovasse coi piedi nella neve e una mitraglietta puntata nella schiena.
“Cos’è, un dossier sullo yeti?”
Il gufo non era mai stato così serio: “Si tratta del reportage dell’ultima spedizione che ha tentato la scalata al Gangkar Punsum, poco prima che entrasse in vigore il divieto. Pare che gli alpinisti si siano imbattuti in un gruppo di fanatici che li ha convinti, per così dire, a rientrare al campo base.”
“Un gruppo di che cosa?” sbottò Rabauer, svegliando di soprassalto tutti i bimbi presenti e attirandosi la riprovazione delle nonne bhutanesi. “Mi sta dicendo che, oltre a tutto il resto, rischieremo di essere attaccati dagli indiani come nei film western?”
L’uomo della Compagnia continuò: “Corrono molte voci su ciò che accade nei dintorni dei Tre Fratelli. Immagino ne sia a conoscenza anche lei.”
“Immagina male. Se avessi anche solo lontanamente immaginato, mi sarei ben guardato dall’accettare questa missione del…”
“Mi ascolti, Rabauer. Molti di quelli che hanno raggiunto il campo base anche solo per scattare qualche foto, riferiscono di avere assistito a fenomeni apparentemente inspiegabili: bussole che impazziscono, mappe che fanno perdere l’orientamento come se lo stato dei luoghi cambiasse all’improvviso, strani segni nel cielo. C’è chi sostiene di aver visto dei dischi luminosi entrare e uscire dal fianco della montagna. Fin qui si tratta di deliri da visionari, di disorientamento da carenza di ossigeno, per non parlare delle superstizioni della gente del posto.
Tuttavia, i componenti dell’ultima spedizione hanno parlato di attrezzature scomparse e in seguito ritrovate in fondo a un burrone, di slavine cadute sopra alle loro tende mentre il resto del campo si conservava intatto, addirittura di suicidi sospetti: gente che fino al giorno prima sembrava avere tutte le rotelle a posto, e dalla sera al mattino è stata trovata con un cappio attorno al collo. Qui non è certo il caso di tirare in ballo gli ufo, gli spiriti o chissà che altro. 
Piuttosto, abbiamo fondati motivi per ritenere che questi fatti siano opera di un gruppo organizzato, di cui le autorità sono a conoscenza per non dire che lo appoggiano. Il Bhutan non crede al business turistico, preferisce proteggere il proprio patrimonio piuttosto che sfruttarlo. Un concetto che, a quanto pare, è ampiamente condiviso da questo signore.” Il gufo girò le pagine, trovò un primo piano perfettamente a fuoco seguito da una serie di ingrandimenti sgranati, che ritraevano verosimilmente lo stesso individuo: “Ho il piacere di presentarle il Signore del Drago,” annunciò con lo stesso tono con cui, in un tempo che pareva lontano di secoli, il caimano dell’ufficio aveva messo sotto al naso di Rabauer le foto delle tre cime.
“Lei saprà certamente che la denominazione ufficiale del Bhutan è il Paese del Drago Tonante. Pare che questo nome derivi dal fragore che provocano le tempeste quando si scagliano contro i bastioni delle montagne. Detto questo, quattro spedizioni hanno tentato di raggiungere la vetta, prima che fosse dichiarato il divieto. La prima non è neppure arrivata al campo base: non si sa come, ma non sono riusciti a trovare la montagna. L’ultima è quella che ha redatto il nostro reportage, mentre altre due sono sparite letteralmente nel nulla. Non si conosce l’identità di questo Signore del Drago, ma secondo fonti sicure - ossia in base alle ricerche eseguite dalla Compagnia – potrebbe trattarsi di uno degli alpinisti scomparsi. Uno a cui l’aria dell’Himalaya deve aver dato alla testa, altrimenti non si spiegherebbe questo.”
Il gufo voltò un’altra pagina. La foto di due mani mozzate e piantate nella neve scolorì di almeno due toni la faccia del Kaiser. 
“Invece di fare vetta, a un certo punto il nostro uomo avrebbe preso coscienza, o almeno questo è ciò che sostiene. Insieme ad altri della sua spedizione si sarebbe assunto il compito di difendere la dimora degli spiriti, il dominio della natura contro i tentativi di sfruttamento dell’Occidente, e via delirando. Si fanno chiamare i custodi.”
Il Kaiser si rese conto di non avere neppure la forza per protestare. Avrebbe voluto dire che a quel punto lui si tirava indietro, che per affrontare un plotone di guastatori la Compagnia avrebbe fatto meglio ad assumere un sicario professionista, forse più d’uno, invece di coinvolgere un povero alpinista prossimo alla pensione; che era sua intenzione rientrare in Italia a costo di farsela a piedi e sotto l’acqua, perché desiderava finire i suoi giorni non con le mani mozze ma presso l’alberghetto dei suoi in Val di Fassa, a far da guida ai turisti in giro per i rifugi, a fare il pieno di spätzle e a fotografare mucche. Quanto alla Compagnia, si sarebbero rivisti soltanto in Tribunale perché lui, Rabauer, avrebbe fatto passare l’anima dei guai a tutti quanti, a cominciare dal gufo per finire col caimano che l’aveva abbindolato facendogli firmare un contratto nullo e che dico nullo, un vero e proprio suicidio redatto per iscritto.
In mano ai suoi avvocati, l’intera vicenda avrebbe fruttato un risarcimento sufficiente a trasformare l’Enzian in un resort a cinque stelle, con annessa pista da sci, praticello per il golf e centro benessere.
Tutto questo e molto di più avrebbe voluto dire il Kaiser all’uomo della Compagnia.
Eppure sulla rabbia prevalse la curiosità, o piuttosto una sorta di fascinazione. Non riusciva a staccare gli occhi dal misterioso alpinista che invece di conquistare la montagna dei Tre Fratelli si era assunto il compito di renderla ancora più inaccessibile.
Nonostante la pessima qualità della foto, lo sguardo in primo piano catturava l’osservatore e pareva leggergli dentro. Quegli occhi penetravano in profondità come uno scandaglio e il Kaiser si ricordò di quando, da bambino, s’era convinto che le persone alla televisione potessero vederlo, come se la tivù fosse il tramite tra due mondi.
Complice una fantasia un po’ troppo visionaria, il piccolo Rabauer temeva per le sorti dell’uomo in ammollo, imprigionato del cestello della lavatrice e pronto a decollare a quaranta gradi in centrifuga. Era terrorizzato dal Caballero e Carmencita, due coni di cartone senza gambe né braccia che pubblicizzavano una marca di caffè con due spaventosi occhi sporgenti. Ma il più terrificante era l’uomo del telegiornale: ogni sera alle venti, un tale dagli occhiali cerchiati di nero sedeva alla scrivania su uno sfondo di guerre, attentati e sequestri. Dava una scorsa ai fogli che teneva davanti e poi fissava lui, lo fissava per tutto il tempo. 
A due anni quasi tre, Rabauer capiva poco e niente di quello che diceva il tizio del notiziario: ma quando si trovava al cospetto dell’uomo del telegiornale non riusciva neppure a muoversi, mentre di notte si dimenava in preda agli incubi.
La faccenda andò avanti fino a che frau Rabauer non collegò i pianti notturni del figlio col notiziario delle venti: una volta fatta la scoperta entrò in salotto, puntò in direzione dell’uomo del telegiornale e molto semplicemente lo spense.
A distanza di cinquant’anni, il Kaiser si sentiva regredito allo stadio di pupo di tre anni mentre lo sguardo del Signore del Drago lo passava da parte a parte, irradiando un carisma a cui persino quelle fotocopie scadenti rendevano giustizia: senza dubbio, quel tizio non doveva aver faticato per convincere i suoi a seguirlo, visto che lui per primo non riusciva a staccarsi da quegli occhi che foravano la pagina come un oscuro richiamo.
“Come fate a sapere per cosa lotta quest’uomo?” domandò al gufo, lasciandosi portare dalla curiosità. “Qualcuno ci ha parlato?”
“Quello non lotta, è un pazzo,” precisò l’uomo della Compagnia. “Si sente così invincibile che è arrivato al punto di farsi intervistare da una radio locale. Nel dossier abbiamo il testo integrale tradotto. Una buona lettura per ingannare il tempo, nell’attesa che finisca questa maledetta pioggia.”
Mentre il Kaiser annaspava in cerca dell’intervista, il gufo proseguiva con le sue spiegazioni: “Col tempo, il nostro uomo ha radunato attorno a sé un certo numero di locali. Non sappiamo quanti sono. Si sa solo che stazionano tra il campo base e la foresta più a valle. È chiaro che qualcuno ha interesse a finanziarli, e non credo si tratti dei quattro straccioni che tirano a campare nei villaggi vicini. Ci servono delle prove,” e a questo punto il gufo diede un colpetto significativo alla sua videocamera, “delle prove che attestino che il gruppo è numeroso e ben organizzato, e che il governo è a conoscenza delle sue attività. A quel punto ci penserà la Compagnia a trovare un accordo, a meno che il Bhutan non desideri che l’intera faccenda, mani mozze comprese, finisca in pasto alla stampa internazionale.”
Il Kaiser non rispose. Ancor prima di iniziare a scorrere l’intervista, qualcosa dentro di lui si era mosso. Una volta di più, si domandò per quale ragione fosse andato a invischiarsi in una missione non solo illegale, ma che contrastava con tutti i valori di una guida che si rispetti.
Ricordò i suoi inizi, quando già a sette anni aveva cominciato a scalare e suo padre gli aveva insegnato il rispetto per la montagna: “La montagna non si sfida, si ascolta,” diceva Rabauer senior. “Anche se sei in cordata con altre trenta persone, in parete sei solo. Di fronte a te ci sono le tue paure, le tue debolezze. Se hai orecchi per ascoltare, la montagna ti rivela a te stesso.”
Chissà cosa gli avrebbero sussurrato all’orecchio i Tre Fratelli al momento della scalata. Di nuovo provò disagio all’idea di salire per conto di una società di ricattatori professionisti, che mirava a trasformare l’ultima vetta incontaminata del mondo in un business da milioni di dollari.
Se proprio doveva scegliere tra la Compagnia e quel matto che si era arroccato sul Gangkar Punsum per difenderlo, non aveva alcun dubbio: non poteva che parteggiare per quel misterioso Signore del Drago.
Mentre il Kaiser si dibatteva tra mille turbamenti, la pioggia era cessata. L’autista comunicò che il carro attrezzi inviato da Jakar era rimasto impantanato a sua volta, sicché occorreva arrangiarsi. Con l’aiuto di un paio di cunei e soprattutto grazie alle spinte dei passeggeri - Rabauer si sentì scardinare una spalla - rombando giri a vuoto e levando chili di fango, la corriera riuscì a rimettersi in carreggiata. Sul bordo della strada si animò una piccola festa: l’autista diede fondo a una cassa di Red Panda custodita gelosamente sotto al sedile, i bambini si rincorrevano tra le pozzanghere, le nonne s’inchinavano in segno di rispetto. Moroder scattò una foto che ritraeva gli uomini nelle inedite vesti di lottatori nel fango e persino Calzini sudati sorrideva, rivolto alla spilungona che si voltò a guardare se per caso il ragazzo non stesse rivolgendosi a qualcun altro.
Il lascito della pioggia fu un tramonto infuocato, che si posò sulla strada rendendola simile a una passatoia di fiamme. Il viaggio proseguì in completo silenzio: immersi in una luce sfolgorante, i passeggeri videro le montagne aprirsi lentamente dietro ai tornanti.
 
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Verso il villaggio di Thangbi, 6 aprile 2018
 
Da Jakar, immersa in una valle dai toni grigi e azzurri, la spedizione iniziò la marcia che li avrebbe condotti ai primi contrafforti del Gangkar Punsum. Il sentiero saliva in quota attraversando un bosco fitto di pini e ombre, chiudendosi alle spalle la città dalle porte finemente intagliate, le finestre a forma di loto, le ruote di preghiera da scorrere con la mano. Oltre agli immancabili falli esultanti, i muri delle case erano decorati con draghi serpeggianti, figure mitologiche, iscrizioni dai testi sacri.
Appena fuori dall’abitato, un muretto s’inoltrava nei campi tra festoni di bandierine multicolori: in cima, piccoli vasi di terracotta occhieggiavano in file ordinate.
“È quello che ci vuole,” brontolò il Kaiser che quegli strani oggetti, nei luoghi dell’Himalaya, li aveva visti spesso. “Iniziare a salire in compagnia dei morti.”
Quella parola ebbe l’effetto di richiamare dal limbo la spilungona, che dall’inizio del viaggio non aveva ancora detto una sola parola: “I morti? Questo è un piccolo cimitero di urne?”
Le bandiere tibetane cominciarono a stormire forte, nel vento che portava l’aroma del fieno, dei peperoncini che seccavano al sole, di un gruppo di vacche e yak che pascolava poco lontano.
“Non sono solo urne.” Rabauer allontanò la mano della ragazza, che già si allungava obbedendo a un richiamo irresistibile. “Quei piccoli chorten sono fatti con le ceneri dei defunti. Mescolate all’argilla, naturalmente. Sono una sorta di offerta, di memoriale o non so che altro. Per farla breve, è meglio lasciarli dove si trovano.” Al Kaiser sembrò eccessivo aggiungere “cerchiamo di non attirare altra scalogna oltre a quella che abbiamo già.”
Di tutt’altro avviso era la ragazza della funeraria: “I morti portano serenità e consiglio. E sono così soli. Forse dovremmo adottarne uno e portarlo con noi, ci sarà di aiuto.”
QQuesti mi sembrano tutti in buona compagnia,” tagliò corto Rabauer, che di bizzarrie ne aveva già piene le tasche. Una strana atmosfera dimorava in quel luogo, come se mille occhi fossero lì a fissarli. Fosse realtà o suggestione, qualcosa di opprimente cominciava a farsi sentire. Ecco cosa succede quando si parla troppo di spiriti e simili fesserie, pensò tra sé la guida. Di seguito, annunciò:
“A questo proposito, lo dico una volta per tutte: ogni bagaglio superfluo lo lascerete al campo base. Che nessuno si sogni di salire portando del peso inutile. Non voglio vedere un solo cestino di bambù,” e qui fissò Patchouli, che aveva fatto incetta di cianfrusaglie al bazar, “né oggetti che ci possano far passare dei guai. Guai con la gente del posto, intendo,” si affrettò ad aggiungere, lanciando un’occhiata torva a Calzini sudati che per compiacere la spilungona stava già soppesando la più graziosa tra le piccole urne.      
“In quota, farete fatica a mettere un piede dietro l’altro,” proseguì, “quindi non vi conviene trascinarvi dietro della zavorra. Faremo una sosta di almeno dieci giorni nell’ultimo villaggio che troveremo prima della salita vera e propria. Al campo base, altre quattro settimane di acclimatamento per consentire al vostro organismo di abituarsi all’altitudine. Se qualcuno non è d’accordo,” e il Kaiser lanciò al gufo un’altra occhiata che non ammetteva repliche, “ebbene, questo qualcuno sappia che il mal di montagna ha fregato alpinisti più in gamba di lui.”
Più tardi, mentre la comitiva si addentrava nel bosco, il gufo affiancò Rabauer: “Alla Compagnia preme che riusciamo a far vetta nel minor tempo possibile.” Contrariamente al solito, il tono era dimesso fino quasi a un sussurro: “La prego di ricordare che la spedizione non è autorizzata, e soprattutto il contenuto di quel fascicolo. Più tempo passiamo qui…”
“La sua Compagnia, evidentemente, non ha la più pallida idea di cosa significhi scalare un ottomila,” tirò dritto Rabauer. “Quanto a lei, passerà guai peggiori, anzi l’anima dei guai se qualcuno dei clienti ci lascia le penne.”
Di lì a poco, la foresta si chiuse in una cupola oscura. Anche gli ultimi sprazzi di luce e di cielo che filtravano a stento cedettero il passo a una penombra muscosa. Il sentiero si strinse fino a ridursi a un viottolo, i cespugli s’impigliavano negli zaini con lunghe mani di rovi.
Un tappeto di pigne scrocchiava sotto ai passi, ed era l’unico rumore nel raggio di chilometri.
“Sembra di essere dalle nostre parti.” Moroder respirava a pieni polmoni: “Scommetto che alla prima radura troveremo un maso, con tanto di mulino e una birra in ghiaccio per il sottoscritto.”
“Hai già fatto fuori tutte quelle del nostro autista.” Rabauer si guardava intorno diffidente, ma non voleva darlo a vedere. “Non credere che non l’abbia notato.”
“Quelle Red Panda erano acqua fresca,” rise il collega. “Non scherziamo su queste cose, la birra è una cosa seria. Piuttosto,” osservò circospetto, “non ti pare che qui ci sia troppo silenzio? Possibile che in mezzo a tutta questa verdura non si senta neanche un uccello?”
“Di quelli, ne abbiamo visti abbastanza giù in città. Jakar è a quota 2.600, è probabile che in queste zone ci siano poche specie. Più avanti, forse avvisteremo qualche rapace.” Rabauer era consapevole di aver appena detto un’enormità: in alta montagna, anche a duemila metri almeno un gracchio c’è sempre, mentre in quella foresta tutto faceva credere che le uniche forme di vita animale fossero le tre guide e i loro clienti.
 “Sarà, ma qui c’è il bosco e non vola neanche un passero. Di più, non vola una mosca. A me pare molto strano.”
Moroder scosse il capo, infilò i pollici sotto agli spallacci e prese a camminare di buon passo.
Gli altri condividevano la medesima inquietudine. In retroguardia, l’uomo della Compagnia si guardava le spalle come se temesse di essere inseguito. Zampetti consultava una mappa spiegazzata e un vecchio cipollone, che non era un orologio ma una bussola dotata di una strana antenna.
Patchouli si guardava attorno con occhi umidi, di un celeste così acquoso che pareva sul punto di mettersi a piangere. Anche se la temperatura era scesa notevolmente, sudava a larghe macchie sotto allo zaino: sudava dalle treccine che sembravano anch’esse antenne circospette, persino dalle lentiggini che solitamente le donavano un’aria allegra e disordinata, mentre ora parevano più simili allo sfogo di una strana malattia.
Calzini sudati si sforzava di vincere il senso di soggezione che incuteva quel luogo tentando di abbordare la spilungona. 
“Come mai una ragazza carina come te lavora alle pompe funebri?”
Approccio banale, ragazzo. Puoi fare di meglio, pensò il Kaiser che tendeva l’orecchio e i nervi al minimo rumore. L’idea che il Signore del Drago in persona potesse tendergli un’imboscata dietro al prossimo cespuglio non gli sembrava poi così fantasiosa.
“Mi piace stare con loro,” osservò la spilungona, neutra. A differenza degli altri, pareva a suo agio in quell’angolo di mondo in cui non soffiava un alito, non si muoveva un ramo e più in generale non c’era alcun segno di vita.
 Probabilmente il buio e l’immobilità le erano congeniali.
“Ti riferisci ai parenti?” continuò Calzini sudati, deciso a non mollare. “Certo non dev’essere facile, quando hai appena perso qualcuno...”
“Mi riferisco ai morti,” lo interruppe Leina. “Ai morti solamente.”
Calzini rise, nervoso. “Ma non ti fa impressione lavorare con…?”
Leina era distante, immersa nei suoi pensieri. Ripercorreva le sale ammobiliate di legno lucido, i pesanti tendaggi che assorbivano i rumori, i corridoi che odoravano di gigli e cera d’api. Tutto ciò le ispirava una calma profonda.
“Io mi occupo dei trattamenti conservativi,” si limitò a dire.
“Sarebbe?” s’incuriosì Calzini
Sarebbe? gli fece eco il Kaiser, ma solo col pensiero. Più s’inoltravano in quella foresta intricata, più il sentiero si riduceva a una traccia che si distingueva a fatica. Come se non bastasse, la sera avanzava rapida come accade solo in montagna. Una foschia nebbiosa saliva dalla terra e iniziava a sfumare i contorni delle cose: ancora pochi minuti e la visibilità si sarebbe ridotta a zero.
“Faccio imbalsamazioni.”
Dietro di sé, Rabauer sentì il ragazzo inciampare.
“Per prima cosa, si tratta di aspirare il più possibile i liquidi e di sostituirli con particolari sostanze.” Il timbro solitamente piatto di Leina crebbe fino a diventare quasi allegro. Era chiaro che l’argomento l’appassionava e ci teneva a fornire una spiegazione esauriente. Risentiva l’odore delle miscele di alcool e formalina, dei coloranti che, una volta iniettati, simulavano nei corpi la naturalezza del sonno. Solamente al pensiero, il suo volto recuperò vivacità, lo sguardo si fece attento: anche se quel che vedeva non era il tavolo del suo laboratorio sbiancato dalle alogene, ma un viottolo sepolto nell’oscurità del crepuscolo.
 “… e dimmi, perché hai deciso di partecipare alla spedizione?” Calzini troncò il discorso, precipitoso. “Hai l’hobby della montagna?”
Non si interrompono le signore, maleducato, sghignazzò il Kaiser. Nemmeno lui, in realtà, aveva voglia di approfondire certi dettagli. Piuttosto, da un po’ di tempo aveva l’impressione che quel sentiero sempre più impervio, sul quale erano in cammino già da parecchie ore, girasse su se stesso riportandoli sempre nel medesimo punto. Quei due alberi che crescevano allacciati, con i tronchi legati da una spirale di edera, era sicuro di averli già incontrati più volte.   
“Mio padre è sempre stato un amante della montagna.” Dietro di lui, la voce di Leina si era di nuovo assestata su un tono monocorde. “Alla mia famiglia non piace quello che faccio. Così ho deciso…”
Svolazzando nel suo giaccone d’alta quota, Zampetti raggiunse il Kaiser con la mappa sotto un’ala e il cipollone che tintinnava in preda all’agitazione:
Capo! Capo! È da più di tre ore che stiamo girando in tondo. Questo sentiero non è segnato sulla mappa. Anzi, secondo la carta non esiste nemmeno.”
“Come sarebbe a dire che non esiste, se ci stiamo camminando sopra?”
L’intervento di Zampetti causò uno sbandamento dell’intera comitiva. Rompendo le righe, la spedizione si radunò intorno al Kaiser. La spilungona ne approfittò per scrollarsi di dosso Calzini, mentre l’uomo della Compagnia continuava a guardarsi attorno con l’aria di chi si attende un agguato da un momento all’altro.
Zampetti spiegò la mappa, mise a fuoco i fondi di bottiglia che teneva sul becco, non capì un accidente di quel che stava guardando, girò la mappa una volta e poi un’altra ancora, fino a che finalmente riuscì a raccapezzarsi: “Guarda qua, capo. Il percorso comincia appena fuori città, poi s’inoltra nel bosco”. Con la punta dell’ala, o meglio del dito, Zampetti seguì la linea tratteggiata in azzurro, che a un certo punto spariva tra le macchie grigioverdi delle aree montuose. “A questo punto il sentiero s’interrompe. Dopo, non c’è più niente.”
“Evidentemente, dottor Zampetti, la sua carta non è particolareggiata.” Il Kaiser cominciò a frugare nello zaino con tutti i nervi tirati: “Se la confronta con la mia, vedrà che il sentiero non solo è segnato, ma secondo i miei calcoli dovremmo essere a Thangbi tra meno di mezz’ora.”
Rabauer si guardò bene dal dire che stando alla sua personale tabella di marcia avrebbero dovuto trovarsi al villaggio già da due ore. Spiegò la mappa a sua volta, e vuoi per l’oscurità vuoi per la stanchezza - non aveva mai provato prima d’allora un simile sfinimento, e sì che lui ne aveva scalati, di ottomila - non riuscì a rintracciare il sentiero.
“La mia bussola non prende,” osservò Zampetti, allarmato.
“Ci credo che non prende.” Calzini approfittò della sosta imprevista per togliersi le scarpe, col rischio di soffocare l’intera foresta. “Qui non si vede un accidente.” 
“Non diciamo sciocchezze,” replicò Zampetti, risentito. “Questa è la mia speciale bussola spirituale, mica una cianfrusaglia qualsiasi.” Gettò uno sguardo sconsolato al suo marchingegno, poi cominciò a scuoterlo con l’unico risultato di fare impazzire l’ago una volta per tutte.
Rabauer non fece neppure in tempo a chiedere cosa diavolo fosse una bussola spirituale.
Un trapestio improvviso, di passi che si avvicinavano di corsa, calamitò l’attenzione di tutti: a Rabauer la mappa si accartocciò tra le mani, Calzini recuperò in fretta le scarpe, l’uomo della Compagnia sbiancò come un morto e solo la spilungona rimase indifferente, piantata tra le frasche come se ci fosse cresciuta.
Zampettando veloce, Patchouli li raggiunse: “Che fate tutti qui? Poco più in là c’è un bivio e in fondo alla discesa addirittura un villaggio. Chissà se c’è anche una doccia, ne avrei un bisogno enorme.”
Gli altri la guardarono come se avesse due teste al posto di una e su ciascuna un mucchio di treccine fulminate. Moroder la raggiunse, trafelato: “Direi piuttosto, chissà se c’è una birra in ghiaccio per il sottoscritto. Anche una Red Panda a questo punto ci starebbe a pennello.”
 
******
 

Villaggio di Thangbi, quota 2.800 metri, 6 aprile 2018
 
Gli abitanti di Thangbi, l’ultimo insediamento prima del campo base, ignoravano l’esistenza non solo della Red Panda ma della birra in genere. La doccia invece c’era, ma poiché nel minuscolo bagno il getto era collocato esattamente sopra a un viluppo di cavi elettrici, neppure Patchouli ebbe il coraggio di infilarcisi sotto.
L’hotel convenzionato era una costruzione a ridosso di un altro muro di chorten, il che suscitò una nuova inquietudine nel Kaiser, mentre la spilungona sentì aria di casa. Lo stesso edificio, in realtà, somigliava a un chorten dipinto a colori vivaci, con due sole stanzette separate da tramezze di bambù. Capre e galline entravano e uscivano a piacimento. In un cortile interno, uno yak grattava gli ultimi fili d’erba e pareva che il buio fosse una grossa gobba che ruminava lenta.
Con sollievo di tutti, Calzini preferì avvolgersi nel sacco a pelo sotto alle stelle.
“La fortuna è dalla nostra,” osservò Moroder, maligno. “Non ci toccherà dormire con le bombole dell’ossigeno attaccate.” Si voltò verso l’oscurità fitta del cortile, dal quale provenivano zaffate di selvatico: “Molto meglio avere lo yak a portata di naso. Sicuro che non ne vuoi?”
 Rabauer diede un’occhiata al piatto che l’amico teneva sulle ginocchia, un intingolo a base di peperoncini, cipolle e salsa speziata, riso rosso come contorno. Il Kaiser aveva cavato il famoso fascicolo dallo zaino e se lo rigirava con l’intento più che evidente di parlarne al collega.
“La mia gastrite ringrazia. Solo a sentirne l’odore mi sale l’acidità.” Rabauer mise da parte la propria cena, una scodella di riso semplice, e accese una sigaretta. La sua scorta di pacchetti si stava assottigliando con una rapidità preoccupante.
“Zampetti dice che l’ema datshi è il piatto nazionale, da provare assolutamente. Qui il peperoncino lo usano come verdura. Da quando hai la gastrite?”
“Da quando ti conosco, o meglio da quella volta in cui ti ho visto ingurgitare quarantacinque würstel nel giro di un mezz’ora.”
“Quella era una gara e io l’ho pure vinta.” Incuriosito, Moroder buttò un occhio alle pagine che il Kaiser continuava a sfogliare soprappensiero: “Che cos’è quella roba?”
Si allungò per guardare meglio, cadendo esattamente sulla foto delle due mani mozze: “Quello è un fotomontaggio, e fatto pure da cani. Cos’è, un catalogo di articoli per Halloween?”
“Quella specie di gufo che la Compagnia ci ha attaccato ai garretti è convinto che nei pressi del campo base ci sia qualcuno pronto a fare tutto pur di impedire la scalata ai Tre Fratelli. Non sappiamo quanti sono, ammesso che saperlo conti qualcosa.”
“Comunque, quell’affare piacerebbe a mio figlio. L’anno scorso è andato in giro a fare dolcetto o scherzetto tirandosi dietro un piede legato a una catena. Le mani, però, allo spaccio non le abbiamo trovate. Da noi, le novità arrivano sempre tardi.”
Vuoi starmi a sentire?” Rabauer alzò la voce, da un sussurro a un ringhio per non svegliare gli altri. Da dietro il tramezzo provenivano il respiro regolare di Leina e l’olezzo di Patchouli, che prendeva alla testa più del fetore di Calzini sudati. L’uomo della Compagnia era mummificato nel sacco a pelo: una porzione abbondante di ema datshi l’aveva colpito e affondato in un sonno di pietra.  
“Ti sto ascoltando, certo,” confermò Moroder, serio. “Stai dicendo che al campo base incontreremo la banda Bassotti pronta a tagliarci le mani. E tu, naturalmente, ci credi.”
“Il gufo ci crede eccome. Quanto a me, posso anche pensare che siano tutte balle. Però mi pongo il problema: che diavolo facciamo se ci troviamo davanti un gruppo di teste calde armate fino ai denti?”
“Ci toccherà chiamare il commissario Basettoni.” Moroder ingurgitò l’ultimo boccone e cominciò a stiracchiarsi insonnolito: “Andiamo, vecchio: sull’Himalaya abbiamo sentito storie di ogni genere e questa non mi pare migliore delle altre. C’è gente che sostiene di aver visto gli ufo sul Gangkar Punsum, non so se mi spiego. Scherzi dell’ipossia. A proposito,” e qui iniziò a trafficare col sacco a pelo, “non vorrai veramente trascorrere dieci giorni in questo buco dimenticato da Dio, dagli uomini e dalla birra? Gli altri mi sembrano ben acclimatati con l’altitudine.”
Rabauer non rispose. Continuava a sfogliare quel fardello di fotocopie ritornando, a intervalli, sul primo piano del Signore del Drago. Non riusciva a staccare gli occhi da quello sguardo che ogni volta lo inchiodava alla pagina.  
“Pronto? C’è nessuno in casa? ”
“Tu per cosa sei qui, Peter?”
Finalmente il Kaiser arrivò al punto: “Sai che se riusciremo a fare vetta la Compagnia metterà in piedi un business come quello dell’Everest? Tu cosa ne pensi?”
“Penso che domani avrò emorroidi così grosse che potrò appoggiarci lo zaino.” Moroder prese ad agitarsi nel sacco a pelo, ma solo perché era in preda a un attacco di prurito formidabile. Di nuovo, si fece serio: “Il campo base dell’Everest sembra un villaggio turistico per ricconi con l’hobby dell’alpinismo. Se proprio vuoi saperlo, mi dispiace pensare che i Tre Fratelli faranno la stessa fine. Dev’essere il destino dei luoghi belli della terra.”
“E quindi noialtri che ci facciamo qui?” Rabauer chiuse il fascicolo e spense la lucerna che, più che illuminare, ombreggiava la stanza. Malgrado il viluppo di cavi che penzolava dalla doccetta, nell’hotel convenzionato come del resto in tutto il villaggio la luce elettrica non esisteva.
“Questo lo saprai tu. Sei tu che hai firmato il contratto e poi sei venuto a frantumarmi le gonadi perché partecipassi. Cima Rabauer e ferrata Moroder, se non ricordo male. Passare alla storia dell’alpinismo e avere l’albergo pieno in saecula saeculorum.”
“Francamente, non so più se ne vale la pena.”
Moroder si rigirò trovando finalmente una posizione comoda: “Allora vorrà dire che una volta al campo base faremo fare una passeggiatina ai tuoi clienti, pianteremo due bandierine per ricordo e torneremo a valle come da piano B.”
“La Compagnia non me la farà passare liscia. Se proprio vuoi saperlo,” precisò il Kaiser vuotando il sacco col favore del buio, “quelli là mi preoccupano molto più dei custodi della montagna.” Rabauer accennò in direzione del gufo, che ronfava beato e imbalsamato nel sacco a pelo. “Se al ritorno trovassi l’albergo dei miei bruciato fino alle fondamenta, non ne sarei sorpreso.”
“A questo mondo, vecchio, non si dà mai niente per niente,” brontolò Moroder, già sul punto di sprofondare nel sonno. “Alla tua età, dovresti saperlo da un pezzo.”
 
******
 

Il mattino seguente, il gruppo fu destato da urla terrorizzate che provenivano da dietro al tramezzo. Moroder fece capolino dal sacco a pelo con un paio di occhiaie da cattiva digestione e la testa gonfia di sonno, il gufo non si accorse di nulla e continuò a ronfare, Zampetti svolazzò rapido dietro al Kaiser per vedere cosa accadeva nella zona riservata al gentil sesso.
Una grossa bestia gibbosa, una sorta di incrocio tra un bue a pelo lungo e una capra, si aggirava indifferente a tutto quel trambusto, evidentemente in cerca di qualcosa da brucare: aveva occhi dolci, brevi corna ritorte e un muso a froge larghe, fatte apposta per infilarsi negli zaini alla ricerca di qualcosa di appetitoso. Superato un primo momento di smarrimento, prese coraggio e frugò nel bagaglio di Patchouli. Cavò fuori il famoso cestino di bambù e si mise a sgranocchiarlo di buona lena.
“Una zavorra in meno,” commentò il Kaiser sbalordito sulla soglia. “Qualunque cosa sia quell’affare, lo nomino seduta stante mascotte ufficiale della spedizione.”
“È un takin,” osservò Zampetti, aggiustandosi gli occhiali sul becco. “Sono stato diverse volte in Bhutan, ma non ne avevo ancora mai visto uno.”
 “Un tacchino?” domandò Patchouli con l’ultimo filo di voce che ancora le restava, le treccine a mezz’aria. Le grida di spavento erano tutte sue: la spilungona si limitava ad assistere alla scena come se fosse al cinema, seduta di fronte a un film particolarmente noioso.
Un ragazzo del posto arrivò trafelato, armato di una verga sottile da pastore. Riuscì a condurre fuori quella bizzarra creatura a patto di concederle il cestino come merenda. 
 “Il takin è l’animale simbolo del Bhutan, una specie in via di estinzione. Francamente, non sapevo che fosse addomesticabile.” Zampetti seguì con lo sguardo il giovane pastore, che sulla piazzetta di fronte all’hotel era intento a radunare un normalissimo gregge di capre. “Le origini del takin ci riportano di nuovo al lama Kunley, il santo delle cinquemila donne.”
“Quello che le benediceva con un colpo di verga in testa?” intervenne Moroder, ben sveglio ma ancora lievemente confuso.
“Si dice che quando Drukpa Kunley giunse in Bhutan per donare gli insegnamenti del Buddha, la popolazione gli offrì un banchetto. Il santo lama consumò un’intera vacca e una capra, lasciando solo le ossa. Infine, posò la testa di capra sui resti della vacca, schioccò le dita e ordinò alla bestia di alzarsi e andare a pascolare sulle montagne. Una strana leggenda.”
“Qui è tutto molto strano” brontolò il Kaiser, che da un rapido sopralluogo nel minuscolo hotel si era accorto che non c’era più traccia dei proprietari. La sera precedente, una coppia di anziani dai sorrisi sdentati li aveva accolti, aveva preparato per loro l’ema datshi, posto una statuina del viaggiatore sull’altare del Buddha, preparato i giacigli sgombrando sacchi di riso e fascine di legna dal pavimento. Cerimoniosi e schivi, ogni volta che s’imbattevano in uno di loro sorridevano, chinando il capo in segno di rispetto per gli ospiti.
Ora però dei due anziani e dei loro variopinti abiti tradizionali non c’era neanche l’ombra. Rabauer aveva sbirciato nella minuscola cucina a legna, nel cortile dello yak, persino nel pollaio. Infine, aveva stanato fuori dal sacco a pelo il gufo ancora immerso nel suo sonno di piombo:
“Dove sono finiti i vecchietti di ieri?”
“Quali vecchietti?” L’uomo della Compagnia si guardò intorno intontito.
“I due dell’albergo. A parte noi, qui non c’è più nessuno.”
Il gufo era schizzato fuori dal sacco a pelo come se l’avesse destato il Signore del Drago in persona. In breve recuperò lo zaino, arrotolò coperta e materassino, infilò giacca e calzoni e sulla zucca un berrettone di lana: nel giro di pochi minuti, era già pronto a darsela a gambe.
Al Kaiser scocciava ammetterlo, ma di fatto condivideva lo stesso presentimento.
Magari i due vecchietti erano semplicemente andati alla pagoda: appena fuori dal paese, la sera prima si erano imbattuti in un gruppo di monaci che potava i bambù davanti a una capanna. Un paio di bimbetti con la testa rasata e il saio rosso e giallo giocavano a rincorrersi tra le ramaglie, altri più grandicelli tiravano calci a un pallone di stracci.
Magari, invece, i due nonni sono andati a Jakar ad avvisare la polizia, o addirittura i famosi custodi. Direi che a questo punto non c’è tempo da perdere.
Rabauer riunì i clienti e li informò dell’improvviso cambiamento di programma: “Se siete tutti in forma e il takin vi ha svegliato a dovere, propongo di partire subito in direzione del campo base. Ci vorranno un paio di giorni e le soste vi permetteranno di abituarvi all’altitudine.”
Salvo dover scappare a gambe levate più o meno come adesso.
“Pretendo che il minimo malessere, vostro o di altri, mi venga segnalato immediatamente,” proseguì il Kaiser, “Ricordate che quando saremo al campo base potremo contare soltanto su noi stessi. A parte noi, lassù non ci sarà nessuno.”
O almeno speriamo.
Uscendo dal paese non incontrarono anima viva: né i vecchietti di ritorno dalla pagoda, né il pastore di capre e takin e neppure uno degli abitanti delle piccole case decorate con falli infiocchettati. Persino le galline che avevano visto scorrazzare fin dentro all’hotel erano letteralmente scomparse.
Intorno, non si muoveva un alito di vento.
Il muretto di chorten guidò la comitiva fino a un bivio. Da lì partiva il sentiero che li avrebbe condotti attraverso altipiani, pendici e contrafforti fino al Gangkar Punsum.
“I morti ci accompagnano”, notò la spilungona.
“Questo sì che è un buon segno,” brontolò il Kaiser in preda a sentimenti contrastanti. Non l’avrebbe mai ammesso ma di fatto desiderava più che mai incontrare il Signore del Drago, l’alpinista dissidente che era diventato, quanto meno per lui, la vera meta del viaggio.   
 
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Verso il campo base del Gangkar Punsum, 7 aprile 2018
 
Quasi improvvisamente, la foresta s’era tirata indietro e aveva ceduto il passo a una gola in cui camminava soltanto il vento. Intorno a loro, il mondo s’era mutato in un mare di roccia: qua e là una vegetazione brulla, cespugli che s’impigliavano ovunque senza riuscire a raggiungere il sole.
Bastioni forati dai nidi dei rapaci incombevano sopra agli escursionisti e parevano appoggiarsi alle loro spalle.
Più oltre incominciava il dominio delle nevi, preannunciato da qualche deposito accumulato in molti inverni, che resisteva nei punti più freddi e immersi nel buio.
In quella regione immobile, dove solo di rado si udiva uno scricchiolio, forse un uccello o solo un arbusto nel vento, tutto faceva credere che da tempo non si fosse avventurato nessuno. Non uno yak, non un takin, non un essere umano.
Un sentiero vero e proprio non esisteva: si poteva soltanto percorrere quella gola che a tratti si apriva in un crocevia di passaggi stretti tra i contrafforti, scarpate e vicoli ciechi che non portavano da nessuna parte. 
Rabauer si fermò per l’ennesima volta, mappa alla mano, nel tentativo di rintracciare il percorso: all’uscita da Thangbi avevano seguito la direzione segnalata da un bivio, ma le indicazioni sulla carta non tenevano conto della natura di labirinto del luogo. Il Kaiser ricordava che i primi esploratori avevano dovuto rinunciare alla scalata perché non erano riusciti a trovare la montagna. Adesso quella faccenda non gli sembrava più così strana.
Da un certo punto in poi, si erano affidati alle bussole: quella tecnologica del Kaiser e il cipollone vecchia maniera di Zampetti. Questo, in particolare, era stato modificato in modo da captare, secondo lo studioso, eventuali segni di attività paranormale.
La bussola spirituale dell’ineffabile dottor Zampetti, così detta per la sua supposta capacità di intercettare gli spiriti, aveva suscitato gli sghignazzi di tutti contribuendo ad alleviare la tensione.
C’era nervosismo nel gruppo. Man mano che avanzavano avevano l’impressione di sprofondare in un tunnel, un sotterraneo in grado di evocare pensieri opprimenti e ogni sorta di paure.
Questo accadeva soprattutto di notte, quando la gola si riempiva di scricchiolii e colpi di vento, di rumori di passi anche se poi là fuori, nello spazio attorno alle tende, non c’era nessuno.
In varie occasioni gli uomini avevano perlustrato i dintorni armati di torce, senza scoprire nulla. L’ago della bussola spirituale di Zampetti girava all’impazzata, ma Rabauer aveva preferito tagliar corto come al solito:
“Sarà un altro tacchino in cerca di cibo,” aveva concluso, prima di ordinare al gruppo di infilarsi nei sacchi a pelo senza farsi turbare da cose che non esistono.
In quelle notti inquiete, tuttavia, strane angosce assalivano le guide e i loro clienti.
Rabauer continuava a sfogliare il dossier, nel tentativo di appisolarsi con la lettura di ciò che ormai conosceva a memoria. Puntualmente, l’insonnia veniva a visitarlo con lo sguardo enigmatico del Signore del Drago e le parole dell’intervista che quel tizio aveva rilasciato a una radio di Thangbi. Già era inquietante il fatto che a Thangbi, in quel villaggio fuori dal tempo e dall’allacciamento elettrico, ci fosse addirittura una stazione radio. Ma ciò che era sconcertante era soprattutto il contenuto dell’intervista.
Ogni volta che il Kaiser tornava a rileggerla, aveva l’impressione di trovarsi a penzolare sull’orlo di un precipizio.
“La dimora dei Tre Fratelli non vuole essere scalata,” affermava il Signore del Drago. “Secondo una tradizione antichissima, solo ai puri sarebbe concesso di salire sulla montagna: alle anime dei defunti e ai pochi che custodiscono in sé l’infanzia del mondo. Tutti gli altri vengono immancabilmente respinti.”
Il Kaiser ripensò alle due missioni scomparse. Chissà se quelli avevano ottenuto il permesso di salire quanto meno sotto forma di puri spiriti. Quanto all’infanzia, forse quel bambinone entusiasta di Zampetti aveva qualche possibilità.
“Cos’è l’infanzia del mondo?” proseguiva il Signore del Drago, “non è certo il denaro, la volontà di sfruttamento, il desiderio di dare il proprio nome a una vetta.”
Probabilmente quel tizio era davvero un pazzo visionario, ma su questo punto il Kaiser non poteva dargli torto: anche suo padre, in fondo, era sempre stato dello stesso parere.
“Noi non siamo i semplici custodi della montagna. Siamo i custodi del terrore che si nasconde dentro a ognuno di voi.”
Il terrore?
“Il terrore, sì… non sono io ad infonderlo, siete voi a scoprirlo quando trovate finalmente il coraggio di guardare dentro a voi stessi. Quando vedete il marcio e non riuscite a sopportarne la vista. È così che la montagna vi respinge, vi scaccia, vi seppellisce. Voi perdete la sicurezza, la strada, l’orientamento. E se questo non basta, allora arriviamo noi.”
Il Kaiser doveva ammetterlo: ultimamente la notte non gli portava consiglio, ma sensi di colpa in grado di tener sveglio un morto. Molte cose che credeva di avere sepolto per sempre nella memoria, dentro a qualche cassetto per non sentirle pungere, avevano cominciato a riaffiorare da quando si trovava in quella maledetta foresta.
I pensieri che il Kaiser rigirava nel sacco a pelo come sullo spiedo riguardavano la sua ex moglie, il divorzio provocato dal suo amore irriducibile per la montagna. Erano anni che non vedeva più i figli. Non che prima li vedesse più spesso: a ogni compleanno, saggio di pattinaggio o gara di sci dei bambini, lui si trovava puntualmente in cordata dall’altra parte del mondo. Aveva perso primi giorni di scuola e prime comunioni, esami di terza media e di maturità, era mancato a tutti gli appuntamenti con la famiglia e infine aveva perso per strada anche il suo matrimonio. Il Kaiser aveva dedicato la sua vita alla montagna e ora aspirava all’ultima meta per un alpinista, dare il proprio nome a una cima. Non gli sarebbe rimasto nient’altro, dopo che tutto il resto aveva fatto naufragio. Anche il Gangkar Punsum, anzi l’intero Bhutan, quell’isola ancora intatta di spirito e natura, sarebbe naufragato in mano alla Compagnia e ai suoi concorrenti. Pure quello, in fondo, sarebbe stato un tradimento, l’ultimo.
Il Kaiser non era l’unico a trascorrere notti insonni. 
Spiando dalla tenda, la spilungona bionda vedeva scaturire piccole fiamme azzurre che ardevano senza fuoco e presto si spegnevano per riapparire altrove. Da quella combustione emanava un aroma dolciastro che Leina Morgagni era in grado di riconoscere senza alcun dubbio.
“Sarà qualche carcassa mangiata dai rapaci,” le aveva detto Patchouli. “Oppure, può trattarsi di semplice suggestione. Qui c’è troppo silenzio.”
A Leina, però, quell’odore putrido ricordava ben altre cose. A forza di guardare, una notte le parve di scorgere un corpo umano, composto tra i decori funebri dei fuochi e sul sudario di muschio di un tronco caduto, come se fosse nella camera ardente dell’Ars moriendi.  
Lo riconobbe subito per via della giovinezza, i capelli ravviati più e più volte, il volto restituito a una parvenza di vita dai trattamenti: si trattava di uno degli ultimi clienti della funeraria, quello con cui Leina aveva vissuto un lungo mese di follia ossessiva.
In quel periodo, Leina Morgagni aveva messo a punto una miscela in grado di favorire una resa migliore rispetto alle tecniche normalmente utilizzate.
Il suo giovane cliente era stato il primo a beneficiarne.
Dopo il trattamento, il corpo di lui era risultato più armonioso e splendido di quando era vivo.
Al pensiero di riconsegnarlo per le esequie, Leina aveva cominciato a soffrirne.
L’idea di separarsene era diventata ormai insopportabile, quando una temporanea assenza del titolare le offrì quell’occasione che, come è noto, fa l’uomo ladro. Con una tranquillità che non ritrovò mai più, convocò i familiari per riferire che il trattamento non aveva sortito alcun esito e il corpo aveva cominciato a deteriorarsi, sicché era opportuno rinunciare ad esporlo. Consegnò per le esequie una bara piena di terra e all’ora di chiusura caricò un involto in macchina e lo portò a casa sua.
La sua gioia finì insieme con gli effetti della nuova miscela.
Grande fu lo sconcerto di Leina Morgagni nel constatare che quell’intruglio aveva inizialmente donato luminosità ai lineamenti del suo spasimante trapassato: ma a differenza delle miscele consuete, non era stata in grado di contrastare in modo efficace i processi naturali.
Sotto la pelle di colui che pareva immerso in un sonno profondo, ribolliva un’attività che di lì a poco iniziò a manifestarsi con macchie ed esalazioni sempre più ripugnanti. In capo a tre settimane, il piccolo appartamento si riempì di un fetore che suscitò dapprima lo sconcerto, poi il timore e infine l’allarme dei vicini.
La signorina della funeraria si era barricata in casa senza dare altro segno di sé: una volta sfondata la porta, i vigili del fuoco la trovarono distesa accanto al defunto, ridotto a una poltiglia ma col volto ancora terso come alabastro. Accanto a quel relitto, Leina Morgagni galleggiava nella sua bava dopo aver ingerito una quantità di sonniferi in grado di seppellire l’intera funeraria, attiva da tre secoli e cinquanta generazioni.
Dopo essere passata attraverso la strettoia delle inevitabili conseguenze - la perdita del lavoro, un processo in Tribunale e il disprezzo di mezzo mondo - Leina aveva esperito un ultimo tentativo per riconquistare l’affetto dei suoi. Suo padre era stato alpinista da sempre: da bambina le aveva fatto scoprire la montagna nei tempi favolosi delle vacanze scolastiche, abituandola a salite sempre più impegnative mentre il resto della famiglia bivaccava a fondo valle.
Conquisterò l’unica vetta su cui nessun uomo ha mai messo piede, si era detta Leina entrando, volantino pubblicitario alla mano, nella succursale della Compagnia a pochi metri da casa. Era la prima volta che trovava il coraggio di mettere il naso fuori dopo tutta la tempesta che le era passata sopra. Mio padre capirà che non sono più quella di prima, che posso tornare a essere la sua piccola aquila delle vette.
Si sentiva spezzata, Leina Morgagni, e da quel viaggio si attendeva una riparazione.
La vicinanza di Calzini sudati e i suoi maldestri tentativi di abbordaggio non l’avevano entusiasmata: quel tizio puzzava più di qualsiasi cadavere e nulla in lui evocava quella compostezza serena che da sempre l’affascinava. Ma per lo meno era un’anima viva con cui parlare.
Forse tu puoi ripararmi e io riparerò te, pensava Leina durante le lunghe ore di cammino tra le rocce, con Calzini che si ostinava a tenerle la mano. In qualche modo intuiva che anche quel ragazzotto inselvatichito aveva i suoi cocci da rimettere insieme.
Nel gruppo, Calzini sudati era il più taciturno: in realtà aveva iniziato a parlare spedito, con tutti i congiuntivi infilati al posto giusto, ancor prima di imparare a reggersi sulle gambe. A otto anni arrancava sotto al peso di occhiali grossi come binocoli ma in compenso era in grado di risolvere equazioni e problemi di algebra mentre i suoi compagni della scuola elementare recitavano in coro due per due quattro, quattro per quattro sedici e inciampavano puntualmente sulla tabellina del nove. A dieci anni aveva già superato quattro interventi oculistici e l’esame di terza media, a tredici la maturità presso una scuola per bambini dotati nella più cupa brughiera d’Inghilterra, dove malgrado la padronanza della lingua non era riuscito a farsi neppure un amico. Nella sua stanzetta del college, viveva tra tornei di matematica sul web, libri universitari che gli bastava scorrere per sapere a memoria e lunghe passeggiate solitarie sulle colline.
Fu durante uno di quei pomeriggi all’aria aperta che s’imbatté in Jumping Frog sulla riva di un lago di canne fitte: in una pozza d’acqua, un girino isolato dal resto della nidiata agitava una coda trasparente e piccole onde di fango.
A Calzini piacevano quelle creature che di solito fanno schifo un po’ a tutti.
Trovava divertenti i pipistrelli arruffati che al crepuscolo entravano attratti dalle lampade e prendevano a vorticare come pazzi. Provava una particolare simpatia per i bruchi che passeggiavano sazi tra i cavoli dell’orto e a un certo punto sparivano, per ritornare sotto forma di farfalle candide.
Amava soprattutto le creature in trasformazione: perché anche lui, che all’anagrafe era registrato come Lucia Conti, si sentiva una crisalide goffa destinata a sbocciare in qualcosa di diverso. 
Aveva cominciato a firmarsi Luca da quando era piccolo, con la maestra che si premurava ogni volta di aggiungere una i là dove mancava - l’unica correzione che ebbe mai in vita sua - mentre i suoi genitori non davano importanza a quella stramberia infantile. Non ebbero da ridire neppure quando la figlia si tagliò le treccine con le forbici da cucito della nonna, pensando si trattasse di una semplice protesta contro la noia delle lezioni di ricamo e uncinetto.
Il carattere introverso del futuro Calzini e la sua intelligenza fuori dall’ordinario lo relegavano in un mondo a parte, al riparo dalla curiosità dei suoi, semplici operai che di fronte a quella figlia così dotata si sentivano in soggezione. La stessa soggezione la provavano gli insegnanti e persino i bulli scolastici lo lasciavano in pace, sebbene Calzini fosse quattrocchi e secchione, con un fisico esile che non era né carne né pesce. Era più che evidente che a casa come a scuola, Calzini era un corpo estraneo.
 Al college, i compagni erano dotati di quozienti di intelligenza da fantascienza ed erano troppo impegnati a esplorare nuovi linguaggi matematici, a riempire lavagne di equazioni e integrali per fare caso a lui, uno dei tanti.   
Pareva che soltanto la natura si fosse presa la briga di tenergli compagnia: i passeri al mattino si posavano sul suo davanzale per beccare le briciole, i pipistrelli venivano a visitarlo nelle sere d’estate, Jumping Frog cresceva nel sottovaso in cui Calzini aveva creato per lui un ambiente adatto, con l’acqua del lago e qualche sassolino dietro cui andare a nascondersi.  
I guai arrivarono il giorno in cui Calzini infilò in mezzo ai libri di una compagna un biglietto che fu prontamente intercettato dalla persona sbagliata: la sera stessa vennero nella sua stanza in quattro e Calzini riuscì a restituire indietro almeno la metà dei cazzotti che prese, come e meglio dell’uomo che avrebbe tanto desiderato essere. In compenso, l’amico Jumping Frog subì una fine indecorosa giù per lo scarico, proprio nel tempo in cui la coda era quasi scomparsa e la piccola rana, fedele al proprio nome, aveva già imparato a saltare.
Da quel momento in poi, Calzini tagliò gli ultimi esili ponti che lo tenevano in contatto con il resto del mondo: completò gli ultimi esami e discusse la tesi da solo, senza fotografie, parenti e festeggiamenti. A casa spedì due righe insieme alla pergamena, starò via per un po’. Il giorno del suo diciottesimo compleanno partì con lo zaino in spalla per il suo master in vagabondaggio e vita nella natura.
Un anno dopo, insegnava matematica in un villaggio vietnamita sperduto tra i bagliori accecanti della risaie, dove si arava ancora coi bufali e si faceva scuola in mezzo ai pantani, con le sanguisughe che si appiccicavano alle gambe. I profili delle montagne che affioravano all’orizzonte lo avevano spinto verso i reami delle altezze. Aveva trascorso un altro anno nel Nepal intrecciando canestri ai piedi dell’Himalaya, osservando le carovane di escursionisti percorrere i sentieri diretti all’Everest.  
Rientrato in patria solamente per ripartire, aveva prosciugato il conto corrente destinandolo in parte ai suoi bambini vietnamiti. Con i soldi rimasti si era iscritto alla spedizione, attirato dal fascino della montagna inviolata.
Ora però, non era più così certo di stare facendo la cosa giusta: aveva l’impressione di essere finito in un ingranaggio che puzzava di svendita, quattrini e sfruttamento.
Ma non si trattava soltanto di questo.
Al posto dei fuochi fatui di Leina Morgagni, nel fruscio del vento che percorreva la gola a gran velocità risentiva le risate della compagna a cui aveva scritto il famoso biglietto, e di seguito gli sghignazzi di tutto il college. Ma quando si avventurava fuori dalla sua tenda per inseguire quelle voci, non trovava nessuno. Più di una volta rischiò di smarrirsi lontano dall’accampamento: puntualmente le risate cessavano con uno scroscio, identico a quello che aveva accompagnato l’ultimo salto di Jumping Frog in fondo allo scarico. 
Solo Moroder riusciva a prender sonno senza essere tormentato dai propri scheletri nell’armadio. Da bravo valligiano, credeva solamente a quello che vedeva: se l’avesse destato il Signore del Drago in persona, gli avrebbe domandato qual era la via più breve per salire al Gangkar Punsum, oltre a fargli notare che quel fotomontaggio delle due mani mozze era fatto da cani e non c’era da sperare che qualcuno ci cascasse.
A differenza di Moroder che russava pacifico come uno yak, il gufo sfogliava un’immaginaria margheritona mentale dove al posto del m’ama non m’ama sbocciavano ogni sorta di angosce. Più che altro era convinto che le prossime mani che avrebbero fatto capolino nella neve sarebbe state le sue.
Nell’insonnia del campo, Zampetti si aggirava con la sua bussola spirituale alla mano, tentando di intercettare segnali di un altro mondo e restando puntualmente con un pugno di mosche. L’ago roteava come fosse sul punto di entrare in orbita: eppure, a parte il vento non si udiva nessuna voce, nessun barlume faceva capolino in quel buio da sepoltura, così fitto da far dubitare di essere ancora al mondo.
Patchouli era afflitta da dolori di ogni genere - alla schiena, alle gambe, al collo e allo spirito - e sinceramente temeva di non riuscire a fare vetta senza lasciarci le penne.
Quando la montagna non vuole essere scalata, te lo fa capire ed è molto meglio ascoltarla, le avevano insegnato i nativi delle Ande. Patchouli aveva fatto esperienza diretta della saggezza indios quando, tra i nevai della Cordigliera, la sua équipe aveva rinvenuto mummie di giovinette e bambini in abiti principeschi, inviati dagli antichi popoli inca in veste di messaggeri nelle dimore degli dei: prima di quel fortunoso ritrovamento, i ricercatori si erano persi quattro volte lungo i crinali, uno di loro era franato dentro a un burrone e l’avevano recuperato a stento e per i capelli, tutti avevano rischiato di morire assiderati e addirittura un fulmine li aveva mancati di poco.
Di fronte al successo di quell’impresa, Patchouli o meglio la dottoressa Elena Cohen, esperta di fama mondiale in materia di mummie, era giunta alla conclusione che anche se la montagna qualche volta rifiuta di essere scalata, tentare vale sempre la pena.
Ora però, mentre di giorno arrancava sotto a una cappa che appiccicava alla fronte i capelli e le idee, incominciava ad avere qualche dubbio. Lo zaino pesava sempre di più, come se ci fosse qualcuno accovacciato sopra, qualcuno che evidentemente era più ciccione di lei. Ogni passo le costava una fatica enorme e il fatto che lei era grossa e quindi le toccava sudare più degli altri - la solita storia che si sentiva ripetere fin da ragazza - stavolta non c’entrava, non c’entrava per nulla.
Era come se si trattasse di vincere una forza contraria.
Dopo anni di studi, aveva raccolto sufficienti informazioni per sapere che sul Gangkar Punsum si trovavano le grotte dei lama santi: là i monaci si sottoponevano alla pratica che li avrebbe condotti alla mummificazione da vivi, segno del loro passaggio dall’esistenza materiale al nirvana.
Aveva deciso di partecipare alla spedizione con l’intento di effettuare un sopralluogo e magari giungere a qualche clamoroso ritrovamento. Dopo il netto rifiuto opposto dal governo del Bhutan al suo progetto, si trovava a sperimentare l’inedita sensazione di essere respinta anche dalla montagna.
Di giorno camminava opponendosi a quella strana forza di resistenza, di notte non riusciva a prendere sonno per il male alle ossa, e come tutti gli altri non aveva il coraggio di rivelare le sue angosce per il timore di esser presa per visionaria.
Accadde infine qualcosa che consentì a guide e clienti di lasciarsi alle spalle incubi, rimpianti e tutti i dubbi: una mattina, poche ore dopo aver lasciato l’ultimo bivacco, quella catena di bastioni simili a una muraglia si aprì, lasciando intravedere un orizzonte di vette immacolate e immerse nel più completo silenzio.
A oriente i Tre Fratelli, avvolti nei loro manti tinti di rosa e cenere nella prima luce del giorno, scrutavano quelle minuzie che erano arrivate fin lassù in fila indiana e ora si stringevano attorno alle guide.
“Ci siamo”, disse Rabauer. Lo disse in un sussurro, perché malgrado avesse più di trent’anni di montagna alle spalle, ogni volta quello spettacolo riusciva a emozionarlo. Tutti gli altri, persino il gufo, erano talmente impressionati da non riuscire a parlare.
Dritto verso di loro, un gruppo di bandierine segnalava il prossimo arrivo al campo base, a quota 4.970 metri.
 
******

 

[1] I momo sono ravioli di carne o verdura e spezie tipici della cucina tibetana e nepalese, diffusi anche nelle regioni himalayane dell’India e nel Bhutan.

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Capitolo 3
*** L’infanzia del mondo ***


“Scalare non serve a conquistare le montagne:
esse restano immobili.
Siamo noi che dopo un’avventura
non siamo più gli stessi”
 
(Royal Robbins)
 

3. L’infanzia del mondo
 

Parete sud del Gangkar Punsum, ore 9:50 del 15 maggio 2018.
 
Rabauer piantò l’ultimo chiodo di ancoraggio. Sostò per controllare un banco di nubi in rapido e preoccupante avvicinamento e di seguito il gruppo che, superato l’intralcio dell’uomo della nicchia, iniziava l’attacco al Fratello Maggiore - la cima più alta e ancora senza nome del Gangkar Punsum - aggrappandosi faticosamente alle corde.
Ai piedi dei Tre Fratelli, quasi 1.500 metri più sotto, l’avamposto denominato campo tre affiorava a intervalli, avvolto dalla foschia e dal nevischio dell’ultima notte. Le cupole delle tende azzurre e arancioni emergevano simili a isolotti tra i flutti. Tutt’intorno, Il ghiacciaio Moroder era una lunga navata panoramica su cui si affacciavano altissimi seracchi. Parevano cascate e getti di fontane immobilizzate nell’atto di ricadere verso il basso.
Ce n’era addirittura uno che ricordava una gigantesca figura in preghiera:
“È il Quarto Fratello, il Buddha che protegge i viandanti,” aveva detto Zampetti tra un colpo di tosse e l’altro.
A quota 6.900 ogni passo costava una fatica immensa e almeno trentacinque inspirazioni al minuto, contro le dodici-sedici sufficienti al livello del mare. I clienti procedevano con le bombole in flusso e Moroder che vigilava come un falco, pronto a cogliere eventuali segnali di sbandamento contro i quali, in realtà, c’era poco da fare: ormai il campo base se l’erano lasciato alle spalle e anche là un pronto soccorso vero e proprio non esisteva. Quello che poteva essere necessario, compresse di cortisone, antipertensivi e analgesici, era già stato distribuito ai clienti.
All’arrivo al campo base, un semplice piazzale con un tendone e le solite file di bandierine, il gufo aveva cavato dallo zaino confezioni di pillole, fiale e persino supposte corredate da foglietti illustrativi in tre lingue: dzongkha, cinese e hindi. “Queste le mette a disposizione una casa convenzionata con la nostra Compagnia. Se l’affare prende piede, avremo anche i bugiardini in inglese,” aveva assicurato di fronte all’espressione perplessa del Kaiser.
“Vorrà dire che ce li faremo tradurre da Zampetti,” aveva commentato a mezza voce Rabauer, che per fortuna aveva sufficiente esperienza per non dover dipendere da un bugiardino in cinese. “Sempre che a riempirsi d’acqua la scatola cranica non sia il nostro consulente linguistico.”
Di seguito, a voce alta, aveva fornito le opportune istruzioni alla truppa:  
“Edema cerebrale. O polmonare, a scelta. Uno degli accidenti che si verificano più spesso a causa della rarefazione dell’aria. A quota cinquemila la concentrazione di ossigeno è esattamente la metà di quella presente al livello del mare. La vetta del Fratello Maggiore si trova oltre i settemila, e mentre tenterete di raggiungerla il vostro circolo inizierà a pompare come un ciclista al Giro d’Italia. I capillari cominceranno a dilatarsi e farete la fine degli annegati: insieme all’ossigeno, imbarcherete acqua. Polmoni e cervello diventeranno come i sacchetti coi pesciolini rossi del luna park.” 
Sguardi preoccupati avevano seguito attentamente il discorso.
Calzini aveva già cominciato a tossire, forse per suggestione.
“Per evitare simili inconvenienti, ci fermeremo qui per quattro settimane.” Il gufo smaniava dentro all’amaca che, insieme a due seggiole da campeggio e a un altare del Buddha, componeva lo scarso arredamento del luogo. Il Kaiser finse di non vederlo: “Durante questo periodo faremo delle escursioni di acclimatamento, per adattare l’organismo in maniera graduale. Tanto per cominciare riposerete, mentre io e Moroder faremo dei sopralluoghi. Io ne so quanto voi di quel che ci attende là sopra. Dovete darci il tempo di studiare la situazione.”
Al campo base, oltre al piccolo altare decorato da coroncine di fiori secchi avevano trovato la fornitura di bombole prevista dal contratto. Le istruzioni per l’uso erano scritte in dzongkha e in un altro alfabeto arricciato che, secondo il parere unanime di Zampetti e Calzini, era nepalese. “Queste ce le fornisce un’altra società interessata al business” aveva detto il gufo, strofinandosi le mani in un modo che al Kaiser aveva ricordato il caimano dell’ufficio spedizioni. “Come vedete, la Compagnia ha pensato proprio a tutto.”
I giorni seguenti, Moroder e Rabauer si spinsero fino alla parete sud, il punto ritenuto più accessibile per la salita. In breve, si decise il programma: una prima escursione portò i clienti fino all’ingresso al ghiacciaio, con rientro al campo base senza particolari incidenti, a parte la tosse sempre più insistente di Calzini che fu doverosamente imbottito di farmaci. Alcuni giorni dopo, seconda escursione di acclimatamento fino al medesimo punto, con pernottamento su una spianata che il Kaiser denominò campo due. Seguì la salita fino all’ultimo avamposto, il campo tre quasi a ridosso della parete sud. Là piantarono le tende e trascorsero l’ultima notte.
La sera precedente il giorno stabilito per l’attacco alla vetta, la montagna dei Tre Fratelli offrì lo spettacolo di un tramonto incendiario: avvolte in oro liquido, le cime risaltavano contro a un cielo di porpora e a una luna che galleggiava vicinissima. Al campo tre, già immerso nella foschia, la neve era azzurra e sembrava di camminare in riva al mare.
“Il tempo è favorevole. Ora o mai più,” aveva detto il Kaiser, cercando di concentrarsi sul lato pratico per non dare a vedere che era impressionato. Stretti vicino a lui, i componenti della piccola spedizione si sentivano come gocce sulla fragile foglia del mondo.
“Orario previsto per la levata, un quarto a mezzanotte. Equipaggiamento completo di bombole e torce, anche queste gentilmente offerte dalla nostra Compagnia.” Rabauer si voltò a guardare il gufo e per la prima volta gli concesse un sorriso. “A mezzanotte in punto cominceremo a salire. Il rientro è previsto a partire dalle due del pomeriggio precise. Vi ricordo che a quell’ora, ovunque vi troverete, fosse anche a un metro dalla vetta, si tornerà indietro. Dubbi, perplessità?” 
Norbu Zampetti si limitò a cavare dallo zaino l’ennesima fila di bandierine: “Queste me le ha consegnate il mio lama. Se arriveremo a piantarle sulla vetta, la nostra impresa andrà a beneficio di tutti gli esseri senzienti.”
Al Kaiser quel gomitolo di rettangoli colorati ricordava una corda di panni stesi, tuttavia non disse nulla.
“Posso portarle, vero, capo?” insistette Zampetti. “Questa non è zavorra.”
Di nuovo, il Kaiser sorrise.
A mezzanotte pareva che l’intera via Lattea si fosse data convegno col suo sciame di corpi celesti per assistere alla partenza. Le stelle più vicine si affacciavano dagli speroni della montagna, le più lontane facevano capolino. Qualcuna, a forza di sporgersi, perdeva l’equilibrio e cadeva tracciando una scia di pulviscolo. Le piccole torce fissate attorno i cappucci cominciarono l’arrampicata in fila indiana.
L’alba li sorprese a picco su un dirupo. In quel dirupo, Norbu Zampetti per un pelo non c’era caduto dentro: la roccia su cui aveva messo il piede subito dopo Patchouli a un tratto s’era stancata d’essere calpestata e aveva deciso di franare verso valle, in cerca di luoghi un po’meno frequentati.
Recuperato a forza di braccia da Moroder mentre si teneva sull’orlo dello strapiombo, Zampetti aveva smarrito di colpo tutto il suo zen e si era sfogato all’indirizzo della robusta figlia dei fiori:
“Maledetta grassona, neppure l’Himalaya riesce a reggerne il peso.”
“È lei che è allucinato e viaggia con la testa per aria”, s’era difesa Patchouli. “A quanto pare, ha perso la sua occasione per vedere gli spiriti da vicino.”
Rabauer, che si trovava a piantar chiodi qualche metro più avanti, era tornato indietro: “Silenzio o vi spedisco tutti giù nel burrone. Compreso lei e la sua videocamera del cazzo,” aveva precisato all’indirizzo del gufo, intento a riprendere diligentemente la scena.
Più tardi, dopo aver superato l’uomo della nicchia, un altro incidente aveva visto protagonista proprio il gufo, che a un tratto s’era piegato disegnando un perfetto angolo retto e aveva sputato una bava schiumosa e sanguinolenta. Era da un po’ che Moroder lo stava tenendo d’occhio: più o meno da quando l’uomo della Compagnia aveva cominciato a ondeggiare come un astronauta in assenza di gravità. Respirava con sempre maggior fame d’aria e più di una volta aveva rischiato di mettere il piede in fallo tirandosi dietro gli altri.
“Hey, lassù, ferma!” L’eco della voce di Moroder era rimbalzata sui torrioni più vicini, causando addirittura il distacco di un crostone per il contraccolpo. Rabauer s’era visto costretto a ridiscendere per la seconda volta.
Aveva cavato dallo zaino le pasticche della Compagnia, che il gufo aveva ingoiato mentre continuava a tossire e a sputare quella fanghiglia sanguinolenta. Dietro alle lenti protettive, gli occhi a momenti gli sfuggivano dalla testa.
“Mi ero dimenticato di mettervi al corrente della seconda regola,” aveva tuonato il Kaiser, rivolgendosi al gruppo che si approssimava alla spicciolata. “Se uno di voi sta male, si rientra tutti al campo tre.”
Moroder aveva misurato con lo sguardo il tratto che mancava ancora alla vetta: “Ormai quasi ci siamo, tornare indietro sarebbe uno spreco di ossigeno. Non abbiamo riserve sufficienti per tentare un’altra scalata, oltre al fatto che se rinunciamo non avrai nulla da raccontare ai tuoi nonnetti dell’Enzian.” Dopo un breve silenzio, si era offerto: “Scendo io a valle con lui.”
“Non dire fesserie.” Il Kaiser aveva accennato al gufo che penzolava appeso alla corda come uno straccio: “Se quello ti va in coma a metà strada, tu che cazzo puoi fare?”
“Un bel niente. Più o meno lo stesso che potete fare tutti voi messi assieme.”
L’uomo della Compagnia tentò di intromettersi, con quel poco di fiato che ancora gli restava e la paura moltiplicata dal malessere: “Io devo occuparmi delle riprese… Se mancano le riprese non avremo nessuna prova. La Compagnia mi brucerà la casa fino alle fondamenta e sto ancora pagando il mutuo.”
“Proprio come immaginavo. Ci penserò io, al ritorno, a far passare l’anima dei guai ai tuoi boss. E un’altra anima la passerà lei adesso, se rifiuta di scendere.” Di fronte al pallore spettrale del gufo, il Kaiser si rabbonì: “Consegni a me la videocamera. Provvederò io alle riprese.”
Moroder lo salutò con una pacca sulle spalle: “In gamba, vecchio, e ricorda: cima Rabauer e ferrata Moroder.”
“Ti ho già intitolato il ghiacciaio.”
“Non mi basta. Lo sai, sono un avido.”
Il Kaiser restò immobile a fissare l’amico mentre aiutava il gufo nella discesa. L’uomo della Compagnia avanzava mettendo i piedi a caso, aggrappandosi alla guida senza quasi riuscire a reggersi sulle gambe. Moroder divenne sempre più piccolo, una macchia in giacca a vento arancione contro la roccia innevata, finché scomparve dietro a una sporgenza.
Erano le 9:50 ora locale. Il Kaiser diede il segnale di riprendere il cammino verso la vetta.
 
******

 
Vetta del Gangkar Punsum, quota 7.570 metri, ora locale 14:10
 
Rabauer fissò l’ultimo chiodo, quindi ridiscese per controllare l’attraversamento di un passaggio particolarmente difficile. Ormai il tempo era scaduto e come da programma avrebbe dovuto comunicare ai clienti che era giunto il momento di fare dietro front. Già a metà del percorso, un orizzonte di nubi bigie e sovraccariche aveva cominciato a levarsi dal fondovalle, praticamente inseguendoli. Portato da un vento che fischiava assordante, quel banco temporalesco saliva senza bisogno di ramponi e piccozza: entro pochi minuti la visibilità si sarebbe ridotta al minimo, eppure mancavano solo pochi metri alla cima. Mai come quella volta il richiamo della vetta si faceva sentire.
Il Kaiser afferrò la mano di Patchouli che malgrado le mole, le rimostranze di Zampetti e gli attacchi di tosse saliva con destrezza, misurando le forze. La aiutò a superare l’ultimo dislivello, dopo di che furono in vetta.
La spilungona era a un passo dal collasso ma non mollava: aveva sentito dire che per i tibetani percorrere lunghe e faticose distanze per raggiungere i luoghi sacri purifica la mente dalle azioni passate, e più il viaggio è difficile più la purificazione è profonda. Per questo continuava a salire a testa bassa senza avvisare nessuno dei suoi malesseri.
Forse per via delle quattro operazioni subite in passato, che evidentemente facevano a pugni con l’altitudine, Calzini aveva l’impressione di vederci sempre meno: tuttavia, dava la colpa alle lenti appannate e a quel cumulo di nubi che li inseguiva, simile a un gigantesco molosso alle calcagna.
La vetta era un trampolino con vista sull’infinito. Non appena fu in cima, Zampetti cavò la sua fila di bandierine e la piantò contemporaneamente allo schianto di un tuono possente, che scosse l’intera vetta come fosse la voce del Fratello Maggiore.
Patchouli scattò una foto al panorama che si apriva dinanzi a loro: guglie e altipiani coperti di neve, anelli di foschia attorno alle cime. All’orizzonte, il cielo era ancora completamente terso.
“Questa è per mia figlia.” Patchouli chinò il capo sulla macchina fotografica. “Sono anni che rifiuta di parlarmi. Chissà se un giorno riuscirò a portarla fin qui. Lei non ci crederà,” continuò, rivolgendosi a Rabauer, “ma questo me lo ha suggerito la montagna mentre salivo. Qforse faremo pace e tornerà a parlarmi. Questo mi ha suggerito la montagna mentre salivo, qualcosa di più importante delle grotte dei lama santi.”
Il Kaiser le posò una mano sulla spalla. Lo splendore del luogo lo soggiogava: “Io invece vorrei che questa vetta restasse incontaminata. Il Fratello Maggiore ci ha permesso di salire senza scaraventarci in fondo a qualche burrone. Direi che dovremmo offrirgli in cambio un bel dono.”
“Che cosa?” ansimò Calzini, strofinandosi forte le lenti.
Questo, ad esempio.” Il Kaiser afferrò la videocamera e la lanciò nello strapiombo che si apriva a capofitto sotto di loro. L’altezza era tale che l’apparecchio cadde senza rumore.
“Scattate pure tutte le foto che volete, piantate le vostre bandiere. Per quel che mi riguarda, questa spedizione non è mai avvenuta. E ora vi ricordo che siamo già in ritardo sulla tabella di marcia, là sotto c’è una bufera in avvicinamento sicché vi consiglio caldamente di cominciare a scendere.”
 
******
 

Parete sud del Gangkar Punsum, quota 6.300, ora locale 16:15
 
In breve, la tormenta fu sopra di loro. Procedevano in fila tenendosi alle corde e cercando di mantenere stabilità contro il vento che li strattonava verso il basso.
A quota seimila, neppure la pioggia era in grado di resistere: in breve s’irrigidì in una sferza di ghiaccio, costringendoli a proseguire sempre più lentamente con le bombole che ormai già segnavano il limite. A un certo punto Rabauer si voltò a controllare: dietro a Zampetti e Patchouli, due sagome che barcollavano tra le raffiche, non vide nessuno. Attese di esser raggiunto dallo studioso, continuando nel frattempo a scandagliare il sentiero nel tentativo di individuare gli altri componenti della cordata. Per vincere il rombo del vento, fu costretto a gridare:
Jumping Frog e la Morgagni, dove sono finiti?”
Zampetti si voltò a scrutare a sua volta in quella bolgia di nevischio e di oscurità. Dietro alla giacca a motivi floreali di Patchouli, in parte già coperta da uno strato a presa rapida di bianco, non c’era nessuno.
“Non lo so, capo!” gridò a sua volta, per contrastare la potenza del vento. “Erano dietro di noi all’inizio della discesa, poi li ho persi di vista. Credevo che ci seguissero.”
In bilico sulla cengia, il Kaiser oltrepassò le due figure imbacuccate: “Voi due, andate avanti! Seguite il percorso delle corde e arriverete giù al campo tre. Zampetti, faccia da guida: non vi fermate per nessuna ragione, mi ha capito bene? Io torno indietro a cercarli.”
Lo studioso e Patchouli si rimisero in marcia, procedendo lentamente a ridosso della parete.   
La nebbia ingoiò il Kaiser, che a sua volta riprese a salire a capo chino.
Molti metri più su, all’altezza della sporgenza che ospitava il corpo dell’uomo della nicchia, Leina Morgagni aveva ceduto allo sfinimento e s’era riparata sotto alla piccola tettoia.
Calzini aveva dato fondo alle sue capacità di persuasione per convincerla a proseguire.
“Vorrà dire che aspetteremo che passi la tormenta” aveva detto, dopo aver constatato che i suoi sforzi non approdavano a nulla. Anche lui in realtà si sentiva stremato e l’idea di un po’ di riposo gli era sembrata oro. Prese posto vicino alla spilungona, con le bombole già prossime all’esaurimento e le dita delle mani che ormai non si muovevano né si sentivano più. Quelle dei piedi dovevano essere da qualche parte negli scarponi, ma da un pezzo non davano segni di vita. Vedeva sempre meno, e si rendeva conto che il fatto non dipendeva dalle lenti annebbiate e neppure dalla tormenta.
“Voglio chiamare mio padre,” aveva detto a un certo punto Leina, cavando dalla tasca un telefono cellulare. “Deve sapere che la sua piccola aquila è riuscita a salire sul Fratello Maggiore.”
A Calzini parve evidente che Leina sragionava: dopo pochi minuti di sosta nella neve, il bordo del suo cappuccio era coperto di ghiaccioli, le gambe erano avvolte da un lenzuolo di gelo e i movimenti ridotti a un tremito scomposto.
“Devo telefonare,” ripeté la ragazza della funeraria, ormai completamente fuori dal mondo. “Prima, però, voglio levarmi di dosso questi stracci, d’un tratto sento un gran caldo.” Cominciò a trafficare con la cerniera della giacca. Calzini ricordava gli avvisi di Rabauer: uno dei più bizzarri effetti dell’ipossia era proprio la tentazione di strapparsi via gli abiti, con l’unico risultato di accelerare la morte per assideramento. Del resto, quella era esattamente la fine che li attendeva se si fossero attardati più del dovuto nel bel mezzo di una tormenta.
“Andiamo, tirati su. Non possiamo restare, gli altri sono già avanti e rischiamo di perderci.” Calzini si mise il braccio di Leina sulle spalle e tentò di rimetterla in piedi. “Appoggiati a me, coraggio”. Più alta di lui di un palmo, la spilungona pesava come se Calzini si fosse tirato sulle spalle l’intera montagna. Ma soprattutto, Leina non voleva saperne. Continuava a digitare sul telefono a caso, poi si mise in ascolto di un’immaginaria telefonata intercontinentale.
“Pronto, papà? Sono Lea.” In quelle condizioni, neppure un satellitare sarebbe riuscito a connettersi alla linea. Calzini era allibito. Tutt’a un tratto capì che Leina stava morendo e che quelle sarebbero state le sue ultime parole. Complice la tormenta che deviava le voci facendole provenire come da un’immensa distanza, decise di stare al gioco e rispose:
“Ti sento, tesoro. Come sta la mia piccola aquila delle vette?”
“Papà, ce l’ho fatta. Abbiamo conquistato l’unica montagna su cui nessuno ha mai messo piede. Adesso torno a casa.”
“Ti aspetto, figlia mia. Faremo una bella festa,” rispose Calzini che a quel punto, ormai, non ci vedeva più. Sentiva grosse gocce di muco, o forse erano lacrime, scendergli sulla faccia e subito congelarsi.
“Ho riparato a tutto, vero, papà?” disse ancora Leina.
“Senza dubbio, figlia mia,” rispose Calzini. La sera prima della scalata, davanti al tramonto incendiario sui Tre Fratelli, si erano confidati cose mai dette prima.
“Per questo sono qui,” aveva detto Leina, “sono spezzata anch’io. Forse tu puoi ripararmi, e io riparerò te. O forse solo la montagna può farlo.”
“La montagna ci mette di fronte a noi stessi,” le aveva fatto eco Calzini, soprappensiero. “Ma allarga anche gli orizzonti e ci rende più forti.”
Mentre quella telefonata surreale faceva il suo corso, Rabauer arrancava a visibilità zero e con le forze agli sgoccioli. Gli sembrava di avere un cubo di cemento attaccato ai ramponi e la stanchezza iniziava a renderlo disattento. Qualsiasi ombra assumeva le sembianze dei due dispersi: gli pareva di vederli raggomitolati su una sporgenza, caduti nella scarpata sotto ai suoi piedi, ma quando si avvicinava trovava solo roccia, pieghe e nidi di ombre.
Si fermò per cercare di raccogliere le idee: la temperatura doveva essere crollata parecchio sotto allo zero, ma lui non avvertiva neanche più i brividi. Più di tutto lo opprimeva un senso di sonnolenza che rendeva difficile tenere gli occhi aperti. Fu a quel punto che smarrì l’equilibrio, mettendo il piede su un ciglio che in realtà non esisteva: cadde senza neppure accorgersene, ruzzolando per un numero imprecisato di metri prima di impattare contro un banco di neve che tirava a campare in fondo a un canalone.
Sul Gangkar Punsum avvolto dalla tempesta era scesa la notte.
 

Campo tre, quota 5.400 circa, ore 21:45
 
Dopo diverse ore, Norbu Zampetti e Patchouli arrivarono a quel che restava del campo tre. Li accolse una visione talmente devastante da farli dubitare che si trattasse dello stesso bivacco che avevano lasciato la notte prima: le tende erano divelte e ovunque si vedevano solo stracci di tela, paletti e brandelli sepolti nella neve. Qua e là, oggetti sparsi: un fornellino da campeggio, le spoglie di un sacco a pelo e un piccolo chorten, che Calzini o Leina si erano intascati molto probabilmente al villaggio di Thangbi.
La bandierina col logo della Compagnia, che il gufo si era ostinato a piantare contro il parere del Kaiser - vogliamo proprio buttare l’esca ai collezionisti di mani mozze? - era svanita nel nulla.
Chi è stato?” Zampetti era sbiancato e si sarebbe messo le mani nei capelli: non poté fare neppure questo, non solo perché era imbacuccato da vari strati di sciarpa, ma anche perché sotto al cappuccio era calvo come una palla da biliardo.
“Chi vuoi che sia stato, lo yeti? È stata la bufera, razza di allucinato.”
Patchouli scrutò il cielo e di seguito il profilo del Gangkar Punsum avvolto da una vivida fosforescenza, segno evidente che in quota la tempesta era ancora in corso.
All’ex campo tre, invece, si limitava a volteggiare qualche fiocco portato fin là, a zonzo, dal vento. Zampetti diede voce al pensiero di entrambi: “Chissà come se la stanno cavando gli altri, lassù.”
“Pensiamo piuttosto a come possiamo cavarcela noi,” tagliò corto Patchouli. “Rabauer sa il fatto suo. Dovremo camminare tutta la notte per arrivare al campo base, ammesso che ci arriviamo.”
 Raccolsero qua e là dei pezzi di tenda per abbozzare un riparo in caso di necessità e si misero in marcia. Scendendo lungo il ghiacciaio e di seguito nella gola tra i contrafforti, procedevano concentrati e a testa bassa. Di tanto in tanto, uno dei due si accertava delle condizioni dell’altro:
“Come va, dottoressa?”
“Mi sta seguendo, Zampetti?”
Dopo un paio d’ore, accorciarono le distanze:
“Tutto sotto controllo, Elena?”
“Naturalmente, Norbu. Tra un po’ dovremmo esserci.”
A un certo punto Patchouli si fermò ricacciando in gola un singhiozzo, annaspò nel tentativo di trattenersi e scoppiò in un pianto dirotto. Arrancando in fretta e furia per starle dietro, Zampetti incappò in un lastrone e fu costretto a battere l’aria per non cadere lungo disteso. Pareva un grosso uccello infagottato e goffo, con le ali imprigionate nelle maniche del giaccone.
A Patchouli sfuggì un sorriso.
“Non perdiamoci d’animo e soprattutto non perdiamo l’equilibrio,” barcollò Zampetti, sorridendo a sua volta. “Ormai manca poco e quando saremo giù chiameremo i soccorsi. Se non ho visto male, al campo base dovrebbe esserci una specie di trasmettitore radio. In qualche modo proveremo a farlo funzionare.”
In quel preciso momento, Moroder scrutava l’orizzonte e scalpitava.
Insieme al gufo che riposava sull’amaca, era sfuggito alla tormenta per un soffio, riuscendo ad arrivare al campo tre poco prima che quel vortice cominciasse a rovesciare tonnellate di neve. Si erano concessi un breve riposo sotto alle tende. Nonostante l’abbassamento di quota il gufo non accennava a migliorare, sicché di lì a poco si erano rimessi in marcia e avevano raggiuto il campo base a notte inoltrata. Dopo aver dato fondo alle scorte di farmaci, l’uomo della Compagnia aveva recuperato un colorito un po’ meno cadaverico e un respiro quasi normale.
Durante la discesa avevano visto la bufera dirigersi in quota e ora la preoccupazione di Moroder cresceva, insieme a una sensazione snervante d’impotenza. Chissà se il Kaiser era riuscito a fare vetta. Soprattutto, chissà se erano riusciti a rientrare tutti quanti e senza difficoltà al campo tre. Moroder ripensava alla faccia spremuta di Calzini sudati e a quella ancora più esangue della spilungona bionda: già in cordata quei due non gli erano piaciuti per nulla e ora si rimproverava di non aver condiviso i suoi dubbi con Rabauer. Malesseri, piedi in fallo, infine quella tempesta che aveva spiegato le vele in direzione dei Tre Fratelli: stropicciandosi le mani, la faccia e mille pensieri, Moroder continuava a fare la spola tra l’amaca del gufo e l’ingresso del tendone, senza avere la minima idea di cosa fare.
Dopo la mezzanotte aveva ceduto al sonno sopra a una delle seggiole da campeggio, vegliato dalla lampada e dal sorriso indecifrabile della statua del Buddha. In alta montagna aveva imparato a dormire come gli animali selvatici, col corpo acciambellato e le orecchie puntate al minimo fruscio.
Quando la porta del tendone si aprì, facendo entrare un mulinello di gelo insieme a Zampetti e a Patchouli, si levò in piedi allarmato.
 

Parete sud del Gangkar Punsum, probabile quota 6.200, ora locale 21:30
 
Di sotto alla sporgenza dell’uomo della nicchia i corpi assiderati erano ormai tre.
Rabauer si trovava sulla buona strada per diventare a sua volta una statua di ghiaccio in fondo a un canalone, venti metri più a valle. La caduta era stata attutita dalla neve e per sua fortuna il Kaiser non aveva battuto contro a qualche sporgenza, o almeno così gli pareva. Non aveva neppure perduto conoscenza, sicché dopo un primo momento di confusione aveva provveduto all’inventario delle proprie parti anatomiche: gambe ancora attaccate e in allineamento corretto, senza pericolose estroflessioni sintomo di frattura al di là di ogni ragionevole dubbio. Braccio sinistro in asse. In corrispondenza del destro, un dolore bruciante ardeva fino alla spalla. 
Rotto, maledizione. Cercò di levarsi in piedi senza riuscirci. Un’altra stilettata tra il collo e la scapola, mentre il fondoschiena pareva inchiodato al terreno. Quando provò a muoversi, dalle parti basse partì una fitta che gli fece girare un’aureola di stelle luccicanti sopra alla testa.
Frattura di bacino. Non potrebbe andar meglio. Si stupì della sua stessa lucidità, che di fatto era panico allo stato più puro. Attese, nella speranza di riprendere fiato e soprattutto di riuscire a inventarsi qualcosa. Di nuovo provò a levarsi e di nuovo il dolore gli piombò addosso implacabile. Ormai era chiaro che non sarebbe riuscito a raggiungere il campo tre neppure strisciando, anche perché aveva perso l’orientamento e non aveva idea di dove si trovava. Era altrettanto chiaro che per i due dispersi non c’era più niente da fare: a meno che non fossero riusciti a ripararsi e di seguito a scendere, non appena la tormenta era diminuita d’intensità.
A conti fatti, l’unico a essere spacciato senza ombra di dubbio era lui.
“La montagna non è per gli esaltati,” gli aveva sempre ripetuto suo padre. “Riuscire a fare vetta non è una prova di forza: più spesso è il risultato di una pianificazione attenta. Tempistica, prudenza, rispetto delle regole. Al cospetto della montagna, saremo sempre troppo piccoli per poter essere considerati degli eroi.”
A conti fatti, il Kaiser si rendeva conto degli errori commessi: sapeva che in alta quota le condizioni meteo sono spesso soggette a improvvisi cambiamenti e nonostante ciò, spinto dal desiderio della cima Rabauer, aveva sottovalutato l’intera situazione come poteva farlo soltanto un principiante. La spedizione aveva iniziato la discesa in ritardo e tutto il resto era andato di conseguenza: bilancio definitivo, due dispersi e un morto quasi accertato.
Il canalone in cui era andato a parare terminava in una fossa di neve soffice. Svettando contro un cielo finalmente limpido e quieto, i Tre Fratelli si levavano dagli occhi gli ultimi stracci di nubi, asciugavano le rocce al vento notturno e parevano osservarlo senza curiosità.       
Fate qualcosa, maledetti, pensò tra sé Rabauer. Cacciate fuori i vostri spiriti, gli alieni e i dischi volanti, ma non lasciatemi crepare qui come un imbecille. Non ci tengo a fare da segnale stradale per tutti gli stronzi che la Compagnia porterà a spasso nei prossimi anni, a suon di milioni di dollari.
A un tratto ebbe l’impressione che il Fratello Maggiore chinasse su di lui la sua ombra e avesse addirittura un volto conosciuto. Bene, sto dando i numeri, pensò, mentre tentava di rintracciare nella memoria quei lineamenti severi, quello sguardo che lo trafiggeva da parte a parte.
Accanto alla prima sagoma ne spuntò subito un’altra e in breve la spianata si animò di presenze. Parevano uscite da dietro ai massi che sporgevano simili a gobbe di yak, o dalla stessa neve che all’improvviso avesse assunto sembianze umane. A proposito di yak, forse la carenza di ossigeno cominciava a provocargli delle strane visioni: proprio davanti a lui avanzava uno di quei possenti animali dalle corna ricurve, il pelo raggrumato in ghiaccioli e sul basto un carico pesante di vettovaglie.
Il fascicolo. I custodi. Il Signore del Drago.
Non fece neppure in tempo a pensare alle mani mozze che si sentì sollevare di peso.
Pochi minuti dopo, scivolava su una rudimentale slitta di tela e canne. Non fece domande, del resto quelle figure uscite dalla neve parlavano una lingua che lui non conosceva e che forse neanche Zampetti sarebbe riuscito a districare con precisione. Preferì abbandonarsi al tepore che emanava dalla quantità di panni che l’uomo dallo sguardo trafiggente gli aveva buttato addosso, mentre intorno a lui altri individui, bhutanesi o cinesi - al Kaiser gli orientali sembravano tutti uguali - erano intenti ad assicurare la slitta a uno degli yak.  
Marcirò in qualche infernale prigione cinese ma almeno sarò vivo, pensò trasognato.
Cercò dentro di sé il terrore di cui aveva parlato il Signore del Drago nell’intervista, ma trovò solo un grande senso di sfinimento. Si affidò al fruscio della slitta che procedeva rapida come su una rotaia, diretta chissà dove.
 

Campo base, ora locale 4:30 del 16 maggio 2018
 
Capo, sei ancora in tempo per ripensarci. Secondo noi, faresti meglio a restare.
Zampetti continuava a gironzolare intorno a Moroder, che dopo aver terminato di stipare lo zaino forzava cinghie e cerniere nel tentativo di chiuderlo. Si era caricato due bombole aggiuntive, coperte e tutte le rimanenze dei farmaci, esclusa una piccola scorta da riservare al gufo. Aveva già indossato la giacca e la torcia e si preparava a partire senza nessun riferimento preciso. Una cosa era certa: se i tre compagni che ancora mancavano all’appello non erano riusciti a rientrare al campo base, doveva essere accaduto qualcosa di grave.
Il fatto che uno dei tre fosse una guida esperta come Rabauer rendeva l’intero quadro ancora più allarmante. Ti troverò, vecchio, pensava tra sé Moroder, a costo di passare al setaccio ogni sasso di quella maledetta montagna.
Zampetti sembrò leggergli nel pensiero:
“Ammesso che tu riesca a trovarli, cosa potrai fare da solo?” insistette.
“Lei continui ad occuparsi di quella baracca,” replicò Moroder asciutto, accennando all’apparecchio per le trasmissioni radio. “So io cosa devo fare.”
“È una follia e lo sai bene. Da più di un’ora è ricominciata la tempesta,” s’intromise Patchouli. Per un lungo istante lasciò che la potenza del vento, che scuoteva il tendone e pareva sul punto di scaraventarlo chissà dove, parlasse per lei. “Se qui è così, lassù sarà un inferno. L’unico risultato che riuscirai a ottenere è che alla fine i dispersi ammonteranno a quattro.”
“Lei, Peace and love, non s’impicci. Piuttosto, mi stia a sentire.” Moroder si aggiustò gli spallacci sulle spalle. Il peso era tale che persino un gigante come lui barcollava. “Domani, ossia al massimo tra due ore, lei e il suo collega scenderete fino a Thangbi e avviserete la polizia, lo stregone, il capo villaggio, insomma qualcuno. A Thangbi pare ci sia una stazione radio. Lo so, sembra impossibile,” insistette di fronte allo stupore dei due clienti. “Abbiamo bisogno di aiuto e anche in fretta. Zampetti, veda se nel frattempo riesce a far funzionare quella reliquia.”
 Lo studioso si rimise subito all’opera, suscitando una tempesta di crepitii dall’apparecchio.
Per il momento, tutto ciò che riuscì a intercettare fu il frastuono del vento.
“Buona fortuna, gente,” sospirò Moroder, sollevando l’anta di plexiglass che fungeva da precario ingresso alla tenda. Una ventata improvvisa rovesciò quasi il gufo dal suo giaciglio sull’amaca.
“Solo un momento, capo.” Zampetti cavò dall’altare del Buddha la corona di fiori secchi e la fissò allo zaino dell’alpinista. “Che la benedizione del Risvegliato ti accompagni durante il viaggio.”
“Grazie, dottor Zampetti.” Moroder gli strinse forte la mano. “Mi raccomando, con quell’arnese.”
Poi si voltò e scomparve nel buio della tormenta.   
 

Molto tempo dopo, tra il campo base e il villaggio di Thangbi
 
Aprì gli occhi con la strana sensazione di aver sognato a lungo, per giorni o addirittura per settimane. Si sentiva indolenzito ma forse era per via dell’amaca, che ammucchiava le ossa come se fossero state gettate alla rinfusa in fondo a un sacco. Cercò di rimettersi in piedi: al solito, era più facile entrare in un’amaca che provare a uscirne, e avere un gesso al braccio rendeva tutto più complicato.
Più che ingessato, il braccio era stato steccato con materiali di fortuna ma con una perizia da primaio di ortopedia: da quando gliel’avevano immobilizzato in quella mezza corteccia di bambù, il dolore era finalmente cessato, la mano aveva cominciato a sgonfiarsi e ad assumere un colore diverso dal paonazzo.
Il pannello di plexiglass si mosse per la spinta di un filo di brezza. Per un lunghissimo istante il Kaiser restò in attesa, pensando che qualcuno - Moroder, per esempio - fosse lì per entrare. Un altro refolo si fece strada insieme a un raggio di sole, ma oltre quel barlume non si vide nessuno.  
L’amaca lo tratteneva nella sua rete sciogliendogli le membra, e solo a fatica riuscì a tirarsi fuori per dare un’occhiata in giro.
Cercò di riprendere le fila del tempo trascorso. Notò che il Buddha era stato sfrattato dal suo altare per fare posto a un rudere di apparecchiatura radio che risaliva minimo a trent’anni prima, quando le spedizioni sul Gangkar Punsum erano ancora felicemente permesse.
Un messaggio lasciato accanto all’apparecchio attirò la sua attenzione: “Per herr Moroder: Zampetti e Cohen partiti per Thangbi come da indicazioni. L’uomo della Compagnia sparito per conto suo. Aiuti in arrivo.”
Un’eco di elicotteri più vicini o lontani sembrò riaffiorare, ma il Kaiser non avrebbe saputo dire se si trattava di ricordi risalenti a molti anni prima, al tempo dell’incidente sulla Marmolada. Le immagini più recenti che riuscì a ritrovare riguardavano un luogo umido e immerso in una tiepida oscurità, un tunnel o più probabilmente una grotta nel ventre della montagna.
Molti volti si erano susseguiti attorno al suo giaciglio di panni grezzi, tessuti con il pelo ruvido degli yak. I suoi ricordi erano un susseguirsi di stranezze: il più assurdo di tutti era l’immagine di un ragazzino intento a fasciargli il braccio e a porre impacchi d’erbe sul gigantesco ematoma che impreziosiva il suo fondoschiena. Forse era una specie di nano, pensò Rabauer, annaspando nel tentativo di dare un senso a quelle visioni frammentarie.
Rievocò quelle mani abili e sapienti, che lo sfioravano appena mentre avvolgevano le bende: non c’era dubbio, si trattava di un ragazzetto che gli parlava nella sua lingua simile a una cantilena, mentre agli altri che di volta in volta spuntavano dall’ombra, tutti uomini adulti, si rivolgeva impartendo degli ordini veri e propri.
E anche questa era un’altra stranezza.
Poi c’era quell’uomo dallo sguardo penetrante, che gli pareva di aver già visto senza sapere dove: gli aveva ricomposto la frattura del braccio con un solo strattone, mentre due di quelle ombre che si materializzavano a tratti lo tenevano fermo e lui, Rabauer, urlava come un pazzo per il dolore. Una volta immobilizzata, la frattura aveva cominciato a saldarsi e ora al Kaiser pareva di riuscire già a muovere il braccio nella valva di bambù. La lesione al bacino era guarita durante un lungo periodo di sogni inquieti. Nel dormiveglia si susseguivano le immagini del Primo Fratello che lo scrutava da sotto al suo cappuccio di neve, della giacca arancio di Moroder che si allontanava col gufo, di Zampetti trasformato in uccello che si posava di ramo in ramo nella foresta, una macchia di colori che vorticava nel buio. Aveva ripreso a camminare sorretto e forse anche sorvegliato dall’uomo del fascicolo. Man mano che la sua mente aveva cominciato a snebbiarsi, era riuscito a ricondurre il volto di quell’uomo alla foto che il gufo gli aveva messo sotto al naso durante il temporalesco viaggio verso Jakar.
Dopo averlo perseguitato per giorni con la sua aria da visionario e le parole dell’intervista, il difensore della montagna era diventato il suo assistente, una via di mezzo tra un personal trainer e un secondino: e questo era davvero il massimo dell’assurdo. Di rado l’uomo incrociava il suo sguardo mentre lo aiutava a mettere un piede davanti all’altro, apparentemente più interessato a farlo deambulare in maniera corretta e a conservare il proprio anonimato.
“Che mi dice del terrore?” aveva provato a domandare Rabauer, appena era riuscito a disporre del fiato sufficiente per poter camminare e parlare al tempo stesso. “È lei il custode dei Tre Fratelli?” Esattamente come appariva nella foto, il tizio era un europeo dal volto spigoloso e dal carattere prevedibilmente taciturno. Parlerà pure qualche lingua che non sia il cinese mandarino, aveva pensato il Kaiser. Riformulò la domanda in un miscuglio di tedesco e italiano, strafalcioni anglosassoni e qualche parola del dialetto sherpa che gli era rimasta appiccicata alla testa durante le sue numerose missioni himalayane.
Il presunto Signore del Drago non aveva risposto, o più precisamente aveva fatto finta di non sentire. Quando Rabauer aveva frugato nello zaino in cerca del dossier, si era limitato a sorridergli da lontano. Nello zaino c’era di tutto fuorché quel maledetto fascicolo. Esasperato, il Kaiser aveva rovesciato l’intero contenuto sparpagliando ogni sorta di zavorra, dai blister del gufo alle mappe, ma il dossier sembrava essersi volatilizzato.
L’avranno preso loro, pensò in preda a un attacco di vigliaccheria pura. L’aveva letto e sfogliato tante di quelle volte che non gli fu difficile ripercorrerlo da capo a fondo, in cerca di contenuti compromettenti. Tutto era compromettente in quelle fotocopie messe insieme dalla Compagnia allo scopo di ricattare un Paese estero. È scritto in italiano, non riusciranno a leggerlo, constatò con sollievo. Però ci sono le foto di quei tizi armati fino ai denti, si ricordò d’un tratto, e quelle si capiscono anche senza vocabolario.
Cercò di figurarsi le possibili conseguenze. Di armi, in realtà, in quel tunnel non gli era sembrato di vederne neanche una: ovviamente i custodi potevano avere un intero arsenale nascosto da qualche parte, ma siccome i giorni passavano e gli uomini ombra parevano più intenzionati a curarlo che a tagliargli le mani, il Kaiser si rilassò e decise di accettare le cose così come capitavano. Om shanti om, avrebbe detto la buonanima di Calzini.
A proposito di Calzini, chissà se i custodi erano riusciti a recuperare anche gli altri dispersi. Forse Leina e Jumping Frog si trovavano in una delle gallerie laterali che, a quanto pareva, formavano una vera e propria città sotterranea nel ventre dei Tre Fratelli.
Durante le sue passeggiate in compagnia del Signore del Drago, il Kaiser aveva cominciato a guardarsi attorno con maggiore attenzione. In effetti, dalla grotta si diramavano altri passaggi: gli ingressi erano celati da arazzi che raffiguravano creature dotate di un numero incredibile di braccia e di gambe. Quelle sì erano armate, e dal numero di arnesi che brandivano e dai cipigli, era chiaro che possedevano un’indole particolarmente suscettibile.
Saranno gli spiriti della montagna, ragionò tra sé il Kaiser, i padroni di casa. Alcune nicchie ospitavano quelle che da lontano parevano antiche statue del Buddha, rivestite di drappi marciti dall’umidità: quando ebbe l’occasione di vederle da vicino, dovette constatare che non si trattava di immagini scolpite, bensì di mummie sedute a gambe incrociate.
Le grotte dei lama santi, pensò allora Rabauer. Euindi, qsistono veramente.
Quando Patchouli gliene aveva parlato, non le aveva dato troppo credito. Quella studiosa con le treccine svolazzanti, che a ogni passo levava zaffate di essenze indiane e tintinnii di braccialetti come se anche lei possedesse decine di braccia, non le era sembrata più credibile di Zampetti, l’esperto di buddhismo, falli dipinti e bussole capaci di intercettare gli spiriti.
Chissà se quei due erano riusciti a scendere a valle tutti interi.
Milioni di domande agitavano un vespaio nella testa del Kaiser. Provò a porne qualcuna ai suoi arcani interlocutori e di nuovo non ottenne nessuna risposta. La sua parlantina fu evidentemente interpretata come sicuro segno di guarigione, fatto sta che di lì a poco i custodi lo caricarono di nuovo sopra alla slitta e lo scodellarono al campo base.
Il tutto doveva essere avvenuto mentre il Kaiser dormiva, perché del tragitto non rammentava proprio niente e l’ultimo ricordo, peraltro traballante, riguardava un infuso d’erbe che gli era stato offerto dal misterioso ragazzino.
La mia gastrite, era stato il suo ultimo pensiero mentre quel liquido incandescente iniziava a perforargli lo stomaco. Dopo di che si era ritrovato sotto al tendone, coricato sull’amaca accanto al Buddha che stavolta e per fortuna era una semplice statua, circondata da bastoncini di incensi.
Aveva completamente smarrito la nozione del tempo.  
Nel tentativo di orientarsi, si alzò a frugare in giro ma non trovò nient’altro che quel biglietto indirizzato a herr Moroder. Lo lesse mille volte, mentre i suoi neuroni frastornati si rimettevano in moto. Quindi Zampetti e Patchouli erano riusciti a raggiungere il campo base e anche il gufo era riuscito a cavarsela, salvo poi scomparire chissà dove.
Moroder, però, non è sceso a Thangbi con gli altri. Dove si trova, adesso?
Il Kaiser recuperò lo zaino e uscì sul piazzale.
Un cielo senza nubi, di un perfetto nitore, lo avvolse nella piena luce del mezzogiorno.
Per un attimo gli parve di rivedere Peter che gli veniva incontro, con la giacca arancione e il naso pelato dal sole, una Red Panda in mano e nell’altra un panino al würstel. Ma di fronte a lui c’era solo la montagna che svettava poderosa sopra al ghiacciaio, con le cime che lo fissavano come tre punti di domanda.
Ritrovò in breve il sentiero tra i contrafforti e cominciò a scendere, inseguito dai suoi pensieri e dalle tante domande senza risposta. Aiuti in arrivo, era scritto nel messaggio. Forse i soccorritori sono riusciti a localizzarlo e adesso Peter si trova in qualche clinica giù a Jakar. Quel rumore di pale che ho sentito mentre mi trovavo nella grotta, non era solo un ricordo.
Eppure il gufo, a suo tempo, l’aveva detto: da queste parti non esiste l’elisoccorso.
La conclusione più logica era quella a cui il Kaiser si rifiutava di credere: Peter è morto sulla montagna, come quegli altri due. Non lo rivedrò più.
Ogni volta, riprendeva daccapo i suoi ragionamenti in cerca di un barlume sottile di speranza, qualche possibilità che prima gli era sfuggita.
Infine, dovette arrendersi.
Abbi cura di lui, mormorò in direzione del Gangkar Punsum, mentre l’ultimo pinnacolo spariva alle sue spalle, inabissandosi tra le rocce nere dei contrafforti. Abbi cura di lui, così come io ho avuto cura di te e della tua volontà di restare inaccessibile.
A Thangbi giunse sfinito. Non se la sentì di alloggiare presso l’hotel convenzionato per via dei troppi ricordi. Bussò alla porta del tempio buddhista e di nuovo, come allora, sul sagrato c’erano i monaci intenti a potare i bambù e i bambini col saio rosso e giallo che giocavano a rincorrersi. I più grandicelli inseguivano ancora il pallone di stracci. Uno di questi si fermò un istante a fissarlo e il Kaiser restò di sasso: quel ragazzino era rapato e minuto esattamente come gli altri, aveva gli stessi occhi di velluto scurissimo, eppure il suo sorriso gli era familiare.
Il piccolo si avvicinò, gli rivolse qualche parola. Il suo tono era grave come quello di un adulto, la lingua una cantilena melodiosa, ma ovviamente il Kaiser non riuscì a comprendere nulla. Di più, ebbe l’impressione che a mormorare fosse il vento docile tra i bambù.
Sotto ai colpi di falcetto dei bonzi, le siepi assumevano quelle forme simboliche che, in un tempo ormai lontanissimo, Norbu Zampetti gli aveva illustrato: il nodo dell’infinito rappresentava l’intreccio indissolubile tra la saggezza e la compassione. Il loto era la purezza originaria, la meta a cui fare ritorno.
“Eccola là, l’infanzia del mondo,” pensò con amarezza il Kaiser.
Sopraggiunse uno degli addetti alla potatura, chiaramente un occidentale dagli zigomi alti e lo sguardo penetrante. Anche quegli occhi Rabauer era certo di averli già visti da qualche altra parte. Mentre tentava di riordinare le idee, confuso tra la stanchezza e i molti eventi che si erano susseguiti di recente, il monaco gli parlò in perfetto inglese:
“Il venerabile Kunley Rimpoche è lieto di vedere che ora stai bene” dichiarò sorridendo. “Questo è il significato delle parole che ti ha rivolto.”
“Il venerabile…?” Il Kaiser trasecolò. “Chi è quel ragazzino?”
“È la diciassettesima reincarnazione del santo lama Kunley, che diffuse in Bhutan la dottrina del Buddha. È noto anche come il Signore del Drago Tonante, colui che domina gli spiriti della montagna sacra e conosce i segreti della guarigione del corpo e dell’anima.”
D’un tratto Rabauer ricordò con precisione dove aveva incontrato il monaco occidentale, quegli occhi capaci di scrutare nelle profondità. La grotta dei custodi. Il piccolo guaritore. Il tizio che mi ha aiutato a rimettermi sulle gambe. Il dossier della Compagnia, il terrore e le mani mozze.
Un colpo di gong attirò l’attenzione dei bonzi, richiamandoli all’interno della pagoda. Gli scolari smisero di saltare dentro ai mucchi di frasche, gli adolescenti raccolsero di buon grado il pallone e tutti insieme si avviarono alla spicciolata.
“È l’ora della meditazione serale. Se cerchi ospitalità, che tu sia il benvenuto.”
“Non posso trattenermi,” mormorò il Kaiser, turbato. Desiderava solo smarrirsi tra le voci e gli incubi della foresta.
“Tra poco sarà notte,” osservò il monaco occidentale, volgendo lo sguardo alla boscaglia che già iniziava ad avvolgere il villaggio di ombre. “Soffrirai il freddo e correrai il rischio di perderti.”
“Credetemi, non ha più alcuna importanza.”
Sulla porta del monastero, si salutarono. Il piccolo Signore del Drago s’inchinò a mani giunte e pronunciò ancora qualche parola. L’altro si premurò di tradurre:
“Il venerabile Kunley Rimpoche, nel quale vive lo spirito del Fratello Maggiore, ti ringrazia per avere risparmiato la montagna e non averla consegnata all’avidità degli uomini.”
“In compenso, la montagna non ha risparmiato me”, replicò il Kaiser, scosso. Non sapeva se provava più rabbia oppure disperazione. Avrebbe voluto bruciare il tempio, il villaggio, la foresta e tutto il Bhutan. “Era meglio se mi lasciavate lassù, insieme ai miei compagni. Neppure io possiedo l’infanzia del mondo. Di qualsiasi cosa si tratti, di certo Peter Moroder, Leina e Jumping Frog la possedevano più di me.”
Senza aggiungere altro, si avviò zoppicando lungo il sentiero, e fu a quel punto che accadde l’inspiegabile.
Il Kaiser avvertì un fruscio di passi alle sue spalle e a un tratto il venerabile ragazzino gli stava di fronte: probabilmente, voleva dirgli ancora qualcosa in quella lingua che suonava come un canto.
“È inutile, non capisco. Qualunque cosa tu voglia dirmi, mi rifiuto di capire.”
Ma il giovane lama si ostinava a tirarlo per il giaccone, finché il Kaiser si arrese, si chinò verso di lui e un abbraccio lo avvolse. In quel momento, la rabbia e il dolore lo abbandonarono di colpo mentre la chiara voce del Signore del Drago risuonava nella sua testa e fino all’ultimo giorno della sua vita Rabauer detto il Kaiser continuò a raccontare quel fatto a tutti i vecchietti dell’Enzian, senza badare al fatto che quelli lo considerassero più rimbambito di loro.
“La montagna assicura ai tuoi compagni, ai due amici che le sono stati affidati, una rinascita fortunata.”
 La voce gli parlava nella sua stessa lingua. Sto sognando, pensò Rabauer mentre si crogiolava in quel tepore che gli ridonava le forze. Sto sognando, quindi tanto vale essere educati e rispondere:
“Gli amici che ho perduto erano tre, non due.”
“Il terzo, quello che ha rischiato per venire in tuo soccorso, ti attende a Jakar. Aspetta che tu vada ad assisterlo, come noi abbiamo fatto con te.”
“Come posso credere a una cosa del genere?” barcollò il Kaiser, che in realtà si sentiva fin troppo sveglio per pensare a un’allucinazione.
“Le nostre vite sono così fragili che neppure il potente spirito del Fratello Maggiore, a volte, riesce a salvarle,” fece eco nella sua testa Kunley Rimpoche.
Quando, di lì a poco, si rimise in cammino, il Kaiser impiegò tutto il tempo a chiedersi se avesse realmente sognato. Riuscì quasi a convincersene, mentre continuava ad avanzare in quella  vegetazione fitta, senza voli di uccelli e senza segni di vita, dove dimoravano gli incubi che tanto avevano inquietato la spedizione durante il viaggio d’andata. Procedeva senza consultare la mappa, desideroso solo di perdersi.
Quando incappò in una tenda montata nel bel mezzo di una radura, non credette ai suoi occhi e pensò si trattasse di un altro miraggio.
“Le nostre, le abbiamo lasciate tutte su al campo tre,” si ritrovò a pensare. “Questa sarà di altra gente, altri idioti che vengono a immischiarsi da queste parti.” Eppure, nei dintorni non c’era un’anima e per di più Rabauer era sicuro che quella tela chiassosa, di un colore arancione che spiccava nel buio come un pugno nell’occhio, appartenesse proprio all’unico imbecille di sua conoscenza che avesse una passione smodata per quel colore. “Chissà quante ce ne sono, uguali identiche alla sua”, rifletté ancora il Kaiser. Non si stupì neppure quando trovò, nei dintorni di quel bivacco apparentemente deserto, due Red Panda al fresco tra le pietre di un torrente.
“Alla tua salute, vecchio,” disse una voce ironica, ben nota, alle sue spalle.
Rabauer era così assetato che mentre scolava le lattine una di seguito all’altra, non vi fece neppure caso. Devo essere già sbronzo, pensò, proprio lui che era capace di scolarsi un’intera stube e poi affrontare i tornanti verso l’Enzian senza sbandare di un millimetro. Confidando nell’impunità dell’ubriachezza, si degnò di rispondere:
“Alla tua, caro collega. Pensare che il freddo non lo hai mai potuto soffrire e adesso invece ti toccherà per sempre. D’altra parte, sei sempre stato un alpinista del cazzo.”
“Parla quello che sulla ferrata Moroder ha messo il piede in fallo.”
A sentire quel nome, il Kaiser si voltò di scatto.
“Peter, amico mio”, mormorò. Intorno a lui c’era soltanto la notte.
Fu a quel punto che quella voce infantile e a un tempo antichissima tornò a risuonare nella sua testa: “Il tuo amico si trova a Jakar, proprio come ti ho detto. Ora è fuori pericolo, ma i suoi pensieri hanno vagato a lungo da queste parti. La foresta li ha accolti ma io ho impedito loro di andare troppo lontano e di perdersi. Colui che era partito per venirti a cercare si è svegliato da poco e ora chiede di te.”
 Di nuovo quell’abbraccio, il tepore di quel fanciullo che irradiava una forza millenaria. Ogni volta che nella sua vecchiaia Rabauer tornò a narrare quel fatto all’Enzian, tra gli sbadigli dei turisti che lo sentivano farneticare per l’ennesima volta, puntualmente tornava a ripetere: “Vi giuro che con me, quella notte, non c’era proprio nessuno.”
Invece si sbagliava, perché proprio in quel momento il Fratello Maggiore, l’unica vetta al mondo ancora inviolata, stringeva a sé quel suo corpaccione da orso attraverso le esili mani di un ragazzino. Il lama Kunley Rimpoche, colui che dominava i sentieri della foresta e proteggeva il Gangkar Punsum, lo ringraziò di nuovo per avere risparmiato la montagna.
“Sei tu che hai salvato me,” disse il Kaiser alla notte, che da ogni parte lo circondava con milioni di stelle.
 “Conserva dentro di te l’infanzia del mondo,” gli disse il Signore del Drago, prima di lasciarlo andare per la sua strada. “Che la benedizione del Buddha e dei Tre Fratelli ti accompagni per sempre.”
In lontananza, entro il recinto dei loro contrafforti, gli altri due Fratelli chinarono appena il capo, ponendo il loro sigillo a quelle parole.
 

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