II
Era solo un gioiello
Sometimes it rains inside my head
All the words run dry
Walls are breathing hands are
reaching up
To touch my thigh
No they don't have to take you away
(Medicine, Time Baby III)
Nel
petto dell’altero dio degli inganni non c’era mai
stato spazio per il
rimpianto: la tragedia era racchiusa proprio lì, nella
sicurezza di aver detto
ogni parola, compiuto qualsiasi azione, non assecondando una furia
esplosiva come
il suo intemperante fratello, ma raccogliendo una serie di ragionamenti
lucidi
e spietati, forse esasperati da analisi troppo crudeli ed egoiste, ma
mai
rinnegati. L’ira di Loki si era rivelata implacabile, dannosa
e affilata come
una bufera di neve.
L’aveva
persa poco prima che Odino annunciasse di voler indicare il suo
successore,
preferendo Thor a lui. Scelta inaccettabile, ingiusta, miope, sciocca,
che Loki
aveva subìto con lo sgomento e il rancore di chi si vede
fatto un torto. Così
era nata l’immagine del mancato re che ora lo guardava torvo
nel riflesso di
uno specchio, del dio degli inganni costretto a obbedire agli ordini di
un
Titano Folle che vagheggiava di alterare il naturale caos da cui
nasceva ogni
cosa invocando un ordine utopico e sbagliato.
L’aveva
persa.
E aveva
fatto di tutto perché ciò avvenisse.
La
sua esistenza era migliore, adesso? Aveva tutto ciò che
desiderava, che
bramava, che gli spettava? No, non
ancora e non solo perché la soddisfazione non era nella sua
natura.
Si
chiuse nella sua elegante cuccetta, riempì un calice con del
vino pregiato, ma che
nulla aveva del sapore dolciastro e avvolgente del miglior idromele di
Asgard
bevuto nei corni intarsiati. Poi, si tolse le parti metalliche della
corazza
che gli proteggevano le spalle e gli avambracci, si sfilò la
bandoliera
appesantita dai molti pugnali nascosti al suo interno. Con le labbra
che ancora
sapevano di vino, si lasciò cadere sulle coperte e chiuse
gli occhi.
Lei
ne aveva un paio simili, quasi
uguali.
Orecchini
pendenti, ma abbelliti con degli smeraldi.
Lo
assalì il ricordo di una sera lontana in cui lui e Thor si
erano seduti a bere
fuori dalla grande sala dei banchetti; avevano trafugato una delle
botti di
pregiatissima birra che Odino teneva nelle sue cantine e si erano messi
a
punzecchiarsi, come al loro solito.
“La
piccola Sigyn ogni tanto ti fissa con insistenza, fratello. Credo che
troveresti il suo letto accogliente,” aveva detto a un tratto
il primo figlio
di Odino, osservando pigramente la figura sottile della ragazza che si
allontanava svelta, dopo aver ceduto all’impulso di gettare
un’occhiata nella
loro direzione. Scuotendo la testa, Loki Laufeyson aveva risposto che
Sigyn era
la dea della fedeltà, oltre che una strega piuttosto abile
con pozioni e
intrugli vari; c’era il pericolo concreto che lo avvelenasse
al primo litigio.
Risposta faceta, detta con tono divertito, pronunciata mentre seguiva
con
troppa attenzione la cascata bionda che ormai era quasi sparita dalla
sua vista,
soffermandosi sulla vita flessuosa esaltata dall’abito
aderente e scuro, senza
rivelare che aveva ancora l’odore di lei addosso, il sapore
dei suoi baci sulle
labbra. Si era appartato con Sigyn qualche ora prima, in fretta,
approfittando
di una sala nascosta nella vicina biblioteca. L’aveva avuta
senza riuscire
nemmeno a spogliarla del tutto – non c’era tempo
per slacciare ogni nastro del
suo corsetto e liberare la pelle candida e morbida, perché
il bisogno di
entrare in lei e sentirla ansimare sotto di sé andava
soddisfatto in quel
momento, con urgenza.
Gli
orecchini glieli regalò più tardi, quella stessa
notte, quando la raggiunse in
un letto che sì, era davvero caldo e accogliente. Lei
arrossì, vedendo il
pegno. Lo indossò sulla pelle nuda, coperta solamente da un
lenzuolo candido.
“Perché,”
boccheggiò, “per quale occasione? Non posso
accettare, non sono quel tipo di
donna.”
“Una
razzia particolarmente ricca,” spiegò allora Loki
con un ghigno, compiacendosi
del perfetto contrasto che si era creato tra i capelli d’oro
di Sigyn e il
verde brillante degli orecchini. “Per farti indossare i miei
colori.”
Lei
sfiorò con i polpastrelli uno dei pendenti, senza nascondere
un lieve imbarazzo.
Poi, un’ombra le velò lo sguardo. “Ma di
nascosto.”
Abbassò
le ciglia scure, sforzandosi di celare la lieve tristezza che
quell’affermazione le faceva nascere nel petto,
perché sapeva chi lui fosse.
Insieme
avevano fatto molti discorsi razionali e consapevoli, circa la
necessità di non
divulgare una relazione senza nome, ma Sigyn, alla fine, si era
innamorata di
lui nonostante tutto – nonostante la ferocia che gli incupiva
lo sguardo e la
sete di potere che lo spingeva a ricorrere a inganni e a sotterfugi
anche lì
dove non ce ne sarebbe stato alcun bisogno – e Loki,
contrariamente a quanto
gli era capitato di fare in altre occasioni, non voleva troncare i
rapporti con
lei, non riusciva a smettere di cercarla: le sue curve armoniose e
femminili,
le labbra morbide, la dolcezza con cui gli si concedeva e lo amava
erano cose
cui non poteva rinunciare, né desiderava farlo.
Di
fronte al tesoro spartito con Thor e con gli altri comandanti
Æsir, si era
ritrovato senza preavviso a fissare quegli esempi squisiti
d’oreficeria nanica
ed elfica e a pensare che voleva posarli sulla pelle delicata e nuda di
Sigyn. La
notte del falò, quando l’aveva vista roteare
l’ampia gonna e ridere con le altre
ragazze, l’aveva desiderata al punto di valutare come
irrisorio il rischio che avrebbero
corso entrambi nell’andare a letto insieme. In fondo, la
bella strega dei Vanir
non sarebbe rimasta a lungo ad Asgard, ma poi le cose erano cambiate e
la
voglia di lei, anziché scemare come per ogni cosa che aveva
posseduto, si era
acuita, tingendosi di sfumature inedite. Così, la parentesi
di una notte in cui
si erano lasciati travolgere dalla musica allegra dei cantori e dalle
danze che
festeggiavano la fine di un lungo inverno, si era protratta fino a che
non
erano stati più capaci, né avevano desiderato,
porvi fine. Era come essere ebbri di vino e
voler bere ancora.
“Di
nascosto,” le confermò in un sussurro.
“Tu non vuoi essere l’amante del figlio
di Odino, ma una delle streghe predilette di Frigga,” le
ricordò. Si protese
verso Sigyn respirando il suo profumo di fiori e miele, cercando con la
punta
del naso quello di lei, per poi scendere sulla guancia serica e
sfiorarle, con
le sue, le labbra, facendo finta di ghermirle per poi negarsi,
compiacendosi
dell’irritazione di lei, che già anelava un bacio
e allora, solo allora, quando
sentì le unghie di Sigyn graffiargli appena le spalle,
concederle ciò che voleva – prendersi tutto
ciò che
bramava.
♥
Aveva
un modo d’abbandonarsi a lui, Sigyn, che era diverso da
quello delle altre
donne. Qualcosa che la rendeva preziosa più di tutte, ma questo Loki
non era mai riuscito a comprenderlo, nelle lunghe notti passate con lei
ad
Asgard, né ci riuscì del tutto anni dopo, quando
si ritrovò a rigirarsi tra le
dita un orecchino trafugato da una tomba condivisa. Il suo spirito
fiero, di
principe, non avrebbe mai rinnegato scelte perfide, ma consapevoli,
eppure
qualcosa di simile alla nostalgia gli si conficcò nel petto,
di fronte al
baluginio verde del gioiello tanto simile a quello che, in un altro
tempo,
Sigyn aveva sfoggiato per lui, unica muta prova che sanciva come gli
fosse
appartenuta.
In
molti sospettarono della loro relazione. Le battute di Thor si fecero
più
pesanti e frequenti, merito anche di quei monili di smeraldo indossati
quasi
sempre, che il dio del tuono ricordava appartenenti a un ricco bottino
spartito
in sua presenza, ma nessun’altra prova uscì mai
allo scoperto, anzi. Suo
fratello si mostrò insospettabilmente discreto, accennando
alla cosa solo
quand’erano soli: così, la storia tra lui e Sigyn
rimase un pettegolezzo, una
diceria quasi del tutto priva di fondamento e mai confermata, basata
unicamente
su rari sorrisi o sguardi intercettati a un banchetto. Alcuni,
però,
indovinarono comunque il loro segreto e si premurarono di mettere in
guardia
entrambi dai risultati potenzialmente devastanti di una simile unione.
Lo
dissero le amiche più strette di Sigyn, che intuirono il
motivo di certe sue
assenze e dell’allegria che alle volte le illuminava gli
occhi, lo ribadì a lui
stesso, con voce pacata e ferma, Frigga in persona, quando gli
ricordò che,
presto o tardi, la sua brillante discepola si sarebbe imbattuta nel
naturale
desiderio di crearsi una famiglia con l’uomo di cui
s’era innamorata. Un
discorso che Loki trovò ragionevole e sensato, in netto
contrasto con quanto auspicava
per il proprio futuro – il trono di Asgard e che Odino lo
ritenesse degno.
Promise
che non l’avrebbe fatta soffrire inutilmente,
puntualizzò di non averla mai
illusa – sua madre allora scosse il capo e sorrise mesta
– sostenne che si
sarebbe comportato come il suo rango esigeva.
Il
risultato fu che si cercarono con più disperazione.
Non
voleva esibirla. Il suo comportamento era simile a quello di taluni
draghi, che
difendevano gelosamente il loro tesoro da sguardi indiscreti, come se
anche
solo mostrare il proprio trofeo equivalesse, in qualche modo, a
condividerlo e,
quindi, a perderlo. Eppure Sigyn non poteva essere un tesoro: era
un’amante
particolarmente desiderata, una ragazza arguta e intelligente che
rideva alle
sue battute e adorava ascoltare le sue storie, specie se raccontate tra
le sue
braccia, una Vanir tenace che poteva passare notti intere a
perfezionare una
pozione, a studiare una formula o un testo.
♥
La
nave su cui Loki viaggiava attraversò cieli senza stelle e
oscurità siderali cui
nessuno aveva mai dato un nome. Era un principe vagabondo, uno spirito
inquieto
costretto, suo malgrado, a servire un Titano Folle assetato
d’ordine, che si era
messo in testa di cercare una leggenda. Il dio degli inganni si
riscosse,
ritrovandosi con la bocca leggermente impastata. Doveva essersi
assopito, alla
fine, ma il passo non abbastanza leggero di un soldato aveva fatto
scattare i
suoi sensi perennemente esasperati e all’erta, destandolo. Si
sciacquò il volto
per svegliarsi completamente, domandandosi cupo se Thanos sarebbe mai
entrato
in possesso di tutte le Gemme; era in grado di comprendere che tipo di
potere
avrebbe ottenuto, ma la portata distruttiva di un gesto tanto banale
come
quello che, presumeva, potesse essere ragionevolmente
uno schiocco di dita, sfuggiva alla sua mente arguta e brillante. Si
avvicinò
all’oblò della cabina e aggrottò la
fronte. Era il dio del caos; in quanto tale,
appoggiava tutto ciò che creava sconvolgimento e disordine,
perché proprio da un
tale fluire d’energie era nato l’universo, ma
quello che voleva compiere il
Titano era un atto dissennato, degno di una mente folle: durante uno
dei rari e
spaventosi consigli di guerra in cui era riuscito a entrare –
più o meno –
nelle grazie dello spietato
dittatore, Loki non aveva potuto nascondere un fremito di terrore di
fronte
alle farneticazioni circa l’equilibrio perfetto che Thanos
voleva imporre
infliggendo la morte con brutale casualità. Non era con
quelle leggi che si era
formato l’universo intero. Si concesse d’immaginare
la propria vita in un
simile frangente; si chiese se i tentativi di smarcarsi da
quell’esistenza
tutto sommato indegna, che senz’altro ci sarebbero stati, lo
avrebbero condotto
a una morte esemplare o meno; rifletté sulla sua condizione
di mancato re e si
domandò, con una punta d’ira, cosa avrebbe fatto
Padre Tutto per difendere
Asgard, ora che il ponte che collegava i Nove Mondi era andato
distrutto.
Quanta parte di potere oscuro sarebbe servita agli Æsir per
ripristinare in
tempi brevi il collegamento?
Cosa avrebbe fatto il solido Heimdall, quando i suoi occhi che quasi tutto vedevano si sarebbero
soffermati, finalmente, sull’immensa armata di Thanos?
Il
dio degli inganni non poté negarsi di stirare le labbra
sottili in un ghigno
perfido, che sfociò in una risata bassa e roca, maligna. Il
suo cuore si era
infettato col veleno del rancore. Che Asgard bruciasse, dunque, e
venisse
ridotta in cenere e rovine; a lui, ingannato e derubato da Odino,
privato di un
diritto di nascita, quasi ucciso da Laufey perché
considerato troppo debole,
tutto ciò non interessava più.
Lo
decise uscendo fuori dall’ampia cabina e attraversando a
passo marziale i
corridoi della nave. Lo ribadì mentalmente mentre scacciava
via i resti
aggrovigliati del breve sonno oscuro che l’aveva colto poco
prima: non era del
tutto certo di cosa avesse effettivamente sognato, ma
l’immagine sbiadita di
lei forse era venuta a tormentare i suoi sogni, mescolando memorie e
immaginazione, fomentando il suo orgoglio col ricordo di un trono
indimenticato
e di un prestigio smarrito che, presso Thanos, gli veniva riconosciuto,
sì, ma
solo in minima parte. Il Titano era un essere dotato di una forza
spaventosa,
ma non era un dio né un sovrano; gli era inferiore per
rango, per lignaggio;
Loki, questo, non poteva dimenticarlo. La catena di comando che li
separava era
troppo lunga, per i gusti del fiero principe di Asgard nato per
governare,
cresciuto come il figlio di un potente re.
Era
troppo tardi per liberarsi da quel giogo?
Al
suo passaggio, i membri dell’equipaggio
puntarono invariabilmente lo sguardo a terra, come era giusto
facessero.
Raggiunse la cabina di comando: nel paio d’ore trascorse a
riposare, erano
giunti almeno due messaggi; dal modo in cui erano chiuse le
comunicazioni, il
dio degli inganni dedusse che fossero di una certa urgenza.
“Avreste
dovuto avvertirmi,” puntualizzò caustico,
spostando lo sguardo affilato sugli
ufficiali presenti in cabina. Prese il primo foglio che era stato
trascritto in
codice affinché solo lui potesse leggerne il contenuto e
aggrottò la fronte,
sorpreso. Col controllo che gli era proprio e aveva imparato a
sfoggiare
durante le lunghe e spesso pericolose ambascerie condotte per conto di
Padre
Tutto, si sforzò di nascondere ogni traccia del terrore che
ghiacciò le sue
ossa già gelide di Jotunn rinnegato. La leggenda si stava
tramutando in realtà.
Thanos aveva trovato una delle Gemme, quella della Mente. Era
impossibile
persino per lui, che era esperto di magia runica e spaziale, dire quali
potessero essere i confini di un simile artefatto vecchio quanto
l’universo.
Sforzandosi di non tremare, aprì il secondo messaggio, anche
quello destinato a
lui solo: si diceva che il Tesseract, una probabile Gemma, fosse in un
pianeta
chiamato Terra. Batté le palpebre, chiamandola mentalmente
col nome con cui
l’aveva sempre conosciuta, ricordando la sabbia rossa che
aveva calpestato
quando si era deciso a far visita a suo fratello – bugia, non
erano fratelli,
non più, almeno.
Midgard.
Una delle possibili Gemme, era su Midgard.
Assaporò
il suono della lingua materna, ripensando alle canzoni di Frigga,
all’infanzia
vissuta già all’ombra della competizione e della
luce di Thor, vero, ma anche
dolorosamente lieta. Ricordò con rancore ciò che
diceva Odino circa il dovere
degli Æsir di difendere quell’inutile sasso
perché appeso all’Yggdrasill, il
frassino sacro, rammentò la pretesa arrogante di Thor di
voler difendere quel
punto oscuro dell’universo, ora fatalmente strategico. La
conquista di Thanos
si spandeva rapida, troppo. Midgard era una potenziale testa di ponte
per
Asgard,
solo che lui non era più un Ase; le sorti del Regno di Odino
non dovevano
interessargli nella maniera più assoluta, visto che Padre
Tutto lo aveva
bandito e ricusato, preferendo Thor a lui.
Diede
ordini rapidi, efficienti. L’Hliðskjálf
avrebbe dovuto essere la sua eredità,
gli spettava per merito, se non per diritto, perché per
mille lunghi anni aveva
versato il suo sangue di Jotunn per la bella Asgard dalle torri dorate.
La
terra che s’innalzava sui magnifici e imponenti fiordi dove
non era nato, ma
cresciuto, gli sarebbe appartenuta per sempre in maniera dolorosa,
né avrebbe
potuto essere cancellata dal suo petto. Significava qualcosa di troppo
profondo, perché un’ascendenza non accettata e
persino il tradimento occultassero
l’innegabile interesse che provava verso la patria degli
Æsir, soprattutto ora
che il rancore del principe offeso si mescolava alla gelida
consapevolezza dei
piani di Thanos per l’universo intero. E Midgard era troppo,
troppo vicina ad
Asgard, a Vanheim, a lei.
L’aveva
sognata perché, prima di addormentarsi, si era crogiolato
nel ricordo di ciò
che era stato e ora non era più, smarrendosi nella
riflessione di quella
luminosa fedeltà che Sigyn gli avrebbe donato con la stessa
sollecitudine
dell’amante di cui il giorno prima aveva trovato i resti.
Quella donna,
probabilmente, si era convinta a lasciarsi morire accanto
all’uomo che aveva
sempre amato, perché incapace di immaginare la sua vita
senza. Il termine amore gli fece
piegare le labbra in una
smorfia beffarda, poiché era uno di quelli che lui e Sigyn
non si erano
scambiati mai, nemmeno quando si ritrovavano, ansanti e spossati,
l’uno tra le
braccia dell’altra. Del resto, le parole avevano un peso e un
significato che
la Lingua d’Argento di Asgard conosceva troppo bene, per
decidersi di pagarne
il prezzo.
L’aveva
sognata per colpa di quel maledetto orecchino tanto simile al paio che
le aveva
donato lui, sfoggiato con fierezza da Sigyn fin quando non aveva
scoperto cosa era
stato capace di farle. Sì, lei gli sarebbe stata fedele per
tutta la vita, se
solo lui glielo avesse concesso.
♥
Avere
un’amante non voleva dire solo compiacersi nel farle
indossare sulla nuda pelle
un gioiello splendente e poi smarrire se stessi, facendo
l’amore in un letto
fino a ritrovarsi avvinghiati ed esausti. Significava anche trascorrere
lunghi
periodi di tempo senza potersi parlare, né toccare. Voleva
dire sedere lontani
ai banchetti e sorridere con finto disinteresse se qualcuno osava
chiederle di
ballare o, semplicemente, faceva un apprezzamento sul corpo flessuoso
di donna
di Sigyn. Seguire con sguardo rabbioso le curve che conosceva a memoria
con le
labbra, mentre il velluto del suo abito si avvicinava al petto di un
uomo che
non era lui. Osservare e far finta di nulla, dunque, per poi cercarla e
unirsi
a lei nelle tenebre, di nascosto, sfogando il rancore e il desiderio
soffocati
per ore e giorni e settimane intere per una risata male interpretata,
per un
contrattempo che li aveva tenuti lontani per troppo tempo. Voleva dire
tardare
a un appuntamento, non poterla avvertire e così trovare, la
sera appresso, la
porta della sua stanza sbarrata. Lasciarla per poi tornare da lei,
provare a
dimenticarsi e poi cercarsi con più urgenza.
Sigyn
non aveva mai preteso che lui cambiasse, mutando la sua natura. Si era
innamorata del feroce dio dell’inganno e lo sapeva, ne era
cosciente. Lo
seguiva in certi ragionamenti arguti, che Thor avrebbe definito come
assurdi e,
pur non accettando il suo modo di fare spesso freddamente crudele,
coglieva spesso
l’intenzione celata nei suoi piani. Lei gli rivelava quel suo
guizzo furbo e Loki
le sorrideva e si ritrovava ad ammirarla, come quando sfilava dal suo
corpo
ogni indumento, per poi rimanere a fissarla alla luce fioca e calda
delle
candele.
Sì,
Sigyn aveva scelto di essere la sua amante
e conosceva i moti oscuri che gli graffiavano il petto, anche se non
aveva idea
di quanto insondabile e profondo fosse quel buio, ma non sopportava
l’idea di
essere vittima dei suoi inganni: pretendeva franchezza. Ogni tanto, il
suo
sguardo grigio e liquido si rabbuiava e gli ricordava che non erano
promessi,
né fidanzati. Non si illudeva di niente ed era disposta a
vivere senza futuro,
eternamente nel presente, purché lui la scegliesse ogni
volta. Per questo,
forse, l’avrebbe capito, se fosse rimasta ad Asgard
abbastanza a lungo da
vedere come anche lui, il dio delle beffe, alla fine era stato
ingannato da
quel baro d’Odino, che l’aveva costretto a giocare
per tutta la vita una
partita truccata. Ma, a quel tempo, era già riuscito a
perderla.
♥
Mentre
la nave su cui viaggiava mutava rotta per raggiungere il più
velocemente
possibile quella di Thanos, Loki non si concesse il lusso di
rimpiangere la sua
dolce amante dai capelli d’oro con cui, alla fine, aveva
trascorso tante di
quelle notti da far saltare ogni copertura possibile. Non faceva parte
della
sua natura fiera. Loki non si pentiva di niente: né di
essersi lasciato cadere
dal Bifrost infranto, né di aver trafitto Laufey con la
lancia di Odino né, a
maggior ragione, di aver rivelato il passaggio segreto usato dagli
Jotnar per
rovinare l’incoronazione del suo arrogante fratello. I suoi
piani erano
mutevoli e variavano di minuto in minuto in base all’esigenza
del momento, ai
guizzi geniali che attraversavano la sua mente sagace, ma ogni sua
scelta,
anche quella considerata più becera e crudele, faceva parte
di un disegno, era
il frutto di lunghi ragionamenti. Ecco perché, pur avendola
persa, il suo cuore
avvelenato dal rancore non sanguinava a quel ricordo.
Ormai
l’incontro con Thanos era imminente; si
ritrovò a giocare distrattamente con il gioiello trafugato
nella sepoltura e ne
sfiorò la pietra verde, seguì con il polpastrello
la fine lavorazione del castone.
Lei gli sarebbe
stata fedele fino alla fine. Che cosa
sciocca e priva di senso e folle. In fondo, rifletté, mentre
l’ombra cupa
dell’immensa nave di Thanos si stagliava nel buio siderale,
non era nemmeno
detto che l’avesse pianto. Si concesse
d’immaginarla nel suo studio invaso da
pozioni, libri, paioli di rame. Ipotizzò che le avessero
raccontato della sua
tremenda caduta dal Bifrost mentre s’affaccendava nella
preparazione di un
unguento, se la figurò nel momento esatto in cui, dignitosa
e regale, soffocava
il dolore con grazia, concedendosi solo nella solitudine delle sue
stanze di
abbandonarsi allo strazio per la sua perdita. Era stata in lutto per
lui? Aveva
nascosto nel suo cuore il dolore segreto per la tragica fine del figlio
di
Odino bandito? Oppure, dopo un iniziale smarrimento, come tutti, era
stata in
grado di cancellare il dolore, tornando a vivere, donando ad altri i
sorrisi e
le carezze che prima aveva riservato a lui solo?
L’ultima
volta che l’aveva vista, Sigyn non indossava nessuno dei suoi
doni. Doveva aver
deciso di togliere quei pegni così vincolanti per
dimostrargli che anche lei
era libera. Aveva capito di averla persa in quel momento esatto e ne
avrebbe
avuta la conferma ore dopo, quando sarebbe finalmente riuscito a
strapparle un
bacio salato e furioso insieme, diverso da tutti quelli che si erano
scambiati
fino ad allora.
Si
leccò appena le labbra, come se fosse possibile rievocare il
sapore e la
dolcezza di quelle di lei dopo tutto quel tempo, ora che, esiliato, era così lontano da
Asgard e dai Nove Regni e dal suo
posto accanto all’Hliðskjálf, il trono di
Odino. L’aveva persa e quella netta
consapevolezza lo stordì, cogliendolo quasi di sorpresa. Le
aveva spezzato il
cuore, perché i desideri corrodono, bruciano, tolgono
lucidità, spezzano le
vene, distolgono dagli obiettivi necessari e importanti. La nave su cui
viaggiava iniziò le manovre necessarie per ricongiungersi
all’ammiraglia di
Thanos.
♥
L’ultima
volta che l’aveva vista, Sigyn non sfoggiava il suo pegno
color smeraldo, no. Si
festeggiava la vittoria di una guerra sanguinosa e lunga, combattuta su
Nidavellir, vinta anche grazie a un’abile missione
diplomatica condotta da lui.
Ovunque si cantavano canzoni allegre, i guerrieri si ubriacavano
vuotando un
corno d’idromele dopo l’altro. Anche Loki
tracannò il suo, gustando il sapore
del vino speziato che gli scivolava nella gola. Poi, la
notò.
Si
rese conto che gli era mancata in maniera feroce. Si stupì
quando la vide
avanzare decisa nella sua direzione, ma lasciò che le sue
braccia sottili e
colme di bracciali tintinnanti gli cingessero il collo, che lo
guardasse da
sotto le palpebre tinte con la polvere scura del bistro.
Le sue curve flessuose, fasciate nel velluto, aderirono contro la sua
corazza
di pelle intrecciata, il profumo delle belle ciocche bionde gli
arrivò fino
alle narici. Fece scivolare una mano sulla vita di Sigyn, carezzandole
appena
la schiena. La sentì sussultare. In quell’unico e
ultimo ballo fatto nella sala
gremita, di fronte a tutta Asgard e a metà dei suoi alleati,
capì che l’aveva
persa.
Irrimediabilmente,
totalmente, per
sempre, forse.
Le
rivolse un ghigno sghembo, laterale, perfido. Gli occhi di Sigyn erano
tristi. Loki
strinse il corno che teneva in una mano fino a farsi sbiancare le
nocche e,
allo stesso tempo, la guidò con delicatezza in quella danza
che sanciva la loro
rottura. Sorrise, mentre la luna, bianca e immobile, si specchiava nel
fiordo
che s’affacciava oltre i balconi di Asgard. Ma rottura di
cosa? Non avrebbero
dovuti esserci vincoli, tra di loro: questi erano i patti e lei li
conosceva,
si era decisa ad accettarli da tempo. Lui era il dio
dell’inganno dallo spirito
fiero e indomito, capace di mutare persino una sconfitta in
un’occasione
propizia. Era libero, tanto che nessuna catena poteva legarlo ad
alcunché e
così sarebbe stato per sempre, a prescindere da quello che
avrebbero filato le
Norne invidiose.
Le
aveva spezzato il cuore perché si era trovato nella
condizione di poterlo e
volerlo fare. Si era fatto catturare dai suoi avversarsi e aveva
sentito il
fiato di Hela sul proprio collo, sopravvivendo per un colpo di fortuna,
nient’altro, ma quella guerra Asgard l’aveva vinta
soprattutto grazie al buon
esito di una trattativa, discussa e definita nel letto di una regina
orgogliosa
e avvenente. Quella lo aveva sfidato, dicendo che non sarebbe riuscito
nell’impresa di convincerla a stipulare l’alleanza
necessaria agli Æsir. Loki avrebbe
potuto usare altri mezzi o sotterfugi, ma alla fine si era limitato a
sedurla
nel modo più banale e plateale di tutti, cedendo
all’istinto di sbattersela per
piegarla al volere di Asgard. Se l’era scopata
perché era vivo, per l’idromele
che gli appannava lo sguardo, perché gli andava di farlo,
per il gusto di
sottrarla a Thor, che pareva essersene invaghito, persino. Per
esorcizzare la
morte, per tutte le ragioni e nessuna. Bugia.
Per
dimostrare a se stesso di essere libero, il solo padrone del proprio
destino
trionfante, di futuro re; Sigyn non
era un vincolo e non le spettava niente. Non era, non doveva, non
avrebbe mai
potuto essere l’unica. Era solo l’amante dai
capelli d’oro e dai dolci occhi
grigi che aveva tenuto tra le braccia durante le notti sempre troppo
brevi, che
si era portato a letto tante volte da perderne il conto.
Una
parentesi destinata a finire, perché il dio del caos, per
paradosso, doveva
avere il controllo su ogni cosa, anche sul fremito di rancore e
desiderio che
gli pungeva il cuore e il petto quando Sigyn, che non avrebbe mai
potuto
possedere totalmente e davvero – troppo fedele, troppo devota
alla sua arte –
gli sfuggiva. Era un punto debole, una variante incontrollabile, un
legame
pericoloso che eludeva ogni definizione.
Così,
la vittoria aveva avuto il sapore amaro di un desiderio insoddisfatto,
il
retrogusto di una rappresaglia che gli si era ritorta contro. Aveva
abbandonato
immediatamente il letto sfatto dell’altra pensando agli occhi
grigi di Sigyn,
alle sue forme flessuose, al sapore dei suoi baci. Era bravo sopra ogni
altra
cosa a distruggere ciò che gli era caro e, dato che la
soddisfazione non era
nella sua natura, non poteva accettare d’essere stato
sconfitto dalla ragazza
che aveva visto danzare davanti a un falò e, per scherzo,
fissandolo, aveva
girato la gonna, sollevandola fino a scoprire le caviglie sottili.
Per
questo aveva fatto in modo che lei lo sapesse, lo scoprisse.
Il
prezzo da pagare per essere degni
dell’Hliðskjálf e governare un popolo di
pirati e predoni era anche non farsi mordere il cuore dal desiderio per
un’amante. Il primo e il solo pensiero doveva essere la
gloria, nient’altro,
perché era nato per essere re, non per rotolarsi con una
ragazza qualunque nel
letto. E se non era in grado di coniugare il desiderio con il ruolo che
gli
spettava di diritto, meglio troncare ogni rapporto nel peggiore e
più ingiusto
dei modi.
In
fondo, un giorno, Sigyn avrebbe inevitabilmente voluto qualcosa di
più, che lui
non sarebbe stato disposto a concederle: allora, meglio spezzare
immediatamente
qualunque cosa ci fosse tra loro, prima che il risentimento avvelenasse
lo
sguardo di entrambi, s’infilasse nel loro letto guastando le
notti passate a
cercarsi, velando di un odio represso le loro carezze urgenti.
Mentre
ballavano, Sigyn gli accarezzò i capelli scuri con
nostalgia, appoggiò la testa
sul suo petto: era un addio fatto senza grida, recriminazioni, ira e,
per
questo, ancora più doloroso, straziante. Aveva avuto il
tempo di elaborare il
colpo che era stato capace di infliggerle, dedusse, perché
la voce del modo
spavaldo e meschino con cui aveva ottenuto l’accordo doveva
averla raggiunta ormai
da settimane.
Sigyn
forse aveva pianto tanto da consumarsi gli occhi, ma non gli avrebbe
mai dato
il privilegio di vederla in un simile stato. Stettero così,
abbracciati, senza
dirsi una sola parola, per un tempo che al dio dell’inganno
parve infinito. A
un tratto, lei parlò.
“Perché
lo hai fatto? Non ti bastava quello che avevamo?” gli chiese,
incurante degli
sguardi curiosi attorno a loro, forse persino della lacrima che, Loki
ne era certo,
le stava bagnando le ciglia e lei, fiera, tratteneva a stento.
La
mano con cui la teneva avvinta a sé risalì la
schiena di Sigyn fino ad arrivare
alla nuca e si perse nelle ciocche d’oro, in
un’altra carezza lenta. Era la
replica di un gesto identico compiuto in una notte lontana, perduta,
fatto prima
della guerra che li aveva divisi.
“La
soddisfazione non è nella mia natura, temo,” le
confessò e si rese conto di
cosa le aveva fatto, si erano fatti,
ma, poiché il suo petto era carico d’orgoglio, non
rimpianse il suo gesto
crudele nemmeno in quell’istante, anche se la desiderava
ancora come la prima
volta.
“Non
ti bastavo?” domandò Sigyn e la sua voce
finalmente si incrinò, tanto che si
sciolse dall’abbraccio e lasciò la sala, incapace
di restare, di attendere una
menzogna o una scusa peggiori persino del gesto indegno di cui si era
macchiato.
“Non
c’era alcun vincolo, tra noi, Sigyn.”
Glielo
gridò più tardi, bussando con forza alla sua
porta dolorosamente chiusa, glielo
disse quando lei, esasperata, lo lasciò entrare in un
momento di debolezza, lo
ribadì con forza mentre la stringeva a sé rubando
un bacio dalle sue labbra
salate, lo asserì con ingiusta insistenza mentre la faceva
sua per l’ultima,
disperata volta. Com’era stato facile e doloroso insieme, far l’amore con lei sapendo di
averla già persa, che gli affondi
febbrili dei suoi fianchi e i sospiri strozzati di Sigyn erano i
sigilli che
avrebbero chiuso la loro relazione. Anche se si inarcava sotto di lui
cedendo
inevitabilmente al piacere d’averlo, di aversi,
cercava di fuggire le sue labbra, non rispondeva ai suoi baci,
perché era
innamorata di lui, ma non poteva perdonarlo, lo detestava dal profondo
del suo
cuore, ma le mancava la sua pelle, il suo profumo, forse persino il suo
sorriso
ironico e beffardo. Ecco perché, nonostante avesse gli occhi
bagnati di pianto
e lo avesse persino maledetto, era finita, ancora una volta, tra le sue
braccia.
“Non
c’era alcun vincolo, tra noi, Sigyn.” Non era un
tentativo di giustificarsi.
Provarci sarebbe stato indegno, non adatto al suo rango. Era ancora
sudato e
col fiato corto e lei era stata sua fino a pochi istanti prima.
Sigyn
gli dava le spalle. Osservò la sua figura snella che si era
rannicchiata sotto
le coperte, ammirò la massa sciolta e sparpagliata dei suoi
capelli sul cuscino
e pensò che fosse bella e fragile e forte e che gli sarebbe
stata fedele fino
alla fine del tempo, fino al Ragnarok e persino oltre, se
solo…
“Non
c’era alcun vincolo.”
Sentendolo
pronunciare quella frase, lei si strinse con più forza il
lenzuolo al petto –
doveva odiarsi, intuì.
“Se
non c’era alcun vincolo, tra di noi, allora dimmi, principe
Loki, figlio di
Odino: perché hai sentito il bisogno di spezzarlo?”
Detto
questo, gli chiese d’andare via e non tornare mai
più con voce rotta, spezzata
dal pianto. Le obbedì senza proferire parola.
Ecco
com’era stato il loro addio.
♥
Lo
scettro ricordava, nella forma, una delle belle lance forgiate dagli
Elfi o dai
Nani fabbricanti di gioielli. Un’arma terribile e bellissima,
che finiva con
due punte affilate fatte per infilzare e strappare la carne. In mezzo
alle lame,
scintillava una pietra bluastra, carica d’una magia mai vista
altrove. Un
potere enorme, che lo attraeva con la sua luce, con la sua forza. Loki
Laufeyson – perché questo era il suo nome, quello
vero, non il frutto della
menzogna perpetrata per anni ai suoi danni – ne
valutò il peso, la robustezza.
Assieme a quell’artefatto di pregevole fattura e
dall’immensa capacità
distruttiva, il Titano gli aveva concesso l’onore di
comandare un’armata
spaventosamente grande di Chitauri. Un popolo guerriero celebre per la
sua
abilità nei combattimenti, con cui Loki aveva già
avuto a che fare, nella sua
breve e intensa carriera presso Thanos. Quest’ultimo era
stato laconico e
secco. Il destino di quel sasso che l’Ase si ostinava a
chiamare Midgard non
gli interessava nel modo più assoluto: il dio
dell’inganno avrebbe potuto
conquistarlo e distruggerlo fino al nucleo o governarlo come signore
assoluto.
A Thanos non importava, purché lo scettro venisse poi
restituito e il Tesseract
recuperato e consegnato. Un guizzo furbo aveva illuminato, per un solo
momento,
lo sguardo quasi trasparente di Loki: l’idea di entrare in
possesso di un
potere tanto grande era allettante e stuzzicava i suoi appetiti di mago.
La
reliquia rubata di Asgard si apprestava a colpire la casa perduta e
ricusata
nel suo punto più dolorosamente debole –
quell’inutile punto nell’universo –
vendicandosi, così, di una vita trascorsa
all’ombra di un fratello amato e
ammirato, certo, ma con cui era entrato in una competizione che
s’aggrovigliava
su se stessa e aveva già fatto tremare vistosamente lo
scranno d’oro di Odino,
ma non solo. Era stato messo a repentaglio persino
l’equilibrio intero dell’Yggdrasill,
il frassino sacro cui erano appesi i Nove Mondi. Cosa avrebbe fatto
Thor, il
protettore di Midgard, colui che aveva giurato di proteggerla con
Mjollnir in
pugno da ogni pericolo, se l’avesse visto raderla al suolo
per diletto?
Ghignò
al pensiero, perché il suo cinismo si era accentuato durante
la sua permanenza tra
le fila di Thanos. Con l’arma magnifica e terribile in pugno,
si avviò a
compiere il suo destino. L’orecchino trafugato gli batteva
contro una tasca
interna della corazza, all’altezza del petto.
Aggrottò la fronte sentendo quel
gioiello testimone di un amore eterno che lui, invece, aveva rinnegato.
Che
fine avevano fatto i magnifici orecchini che aveva donato a Sigyn?
Forse lei si
era limitata a chiuderli per sempre in uno scrigno, oppure li aveva
regalati o
gettati via. Una decisione comprensibile, rifletté, ma
s’accigliò, perché gli
Æsir erano un popolo di pirati innamorati dell’oro
e dei gioielli e quel pegno
era troppo bello per finire sul fondo di un fiordo.
Le
aveva spezzato il cuore e ogni decisione che lei aveva preso in quei
lunghi
anni di separazione era legittima e giusta; del resto, votare
l’anima a una
sola persona era una follia capace di condurre solo a una morte
prematura, a
una tomba condivisa, nient’altro.
La
vita senza di lei era stata la storia di un principe esiliato nella
vastità
dell’universo, che aveva scoperto di essere stato ingannato
dal proprio padre.
E allora, anziché vivere come Odino aveva auspicato facesse,
all’ombra di
Asgard e del suo re, al servizio di una patria bugiarda e
irriconoscente,
meglio razziare e predare pianeti per conto di Thanos. Lontano dal
trono di
Padre Tutto e della saggia Frigga, del fulgido bagliore di Thor, non
aveva più
punti deboli o forse li possedeva ancora tutti, conficcati come pugnali
nel suo
petto. Tra questi, era rimasta anche lei.
Strano,
che la consapevolezza di aver perduto l’amore della dea della
fedeltà gli
graffiasse ancora il cuore, aprendo una voragine nel suo petto, eppure
si rese
conto che era così, anche se non avrebbe mai rimpianto
nulla, nessuna scelta,
neanche una decisione, nemmeno quell’ultima notte strappata
tra un bacio salato
e un sospiro, irrecuperabile se non nei ricordi o con l’uso
del seiðr.
Il
sapore delle sue labbra era soltanto un ricordo perduto, che gli orrori
della
guerra e il sangue con cui si era sporcato le mani avevano del tutto
cancellato. Prima di lasciare, con un sospiro, che il potere della
Gemma
rinchiusa nello scettro facesse il suo dovere corrompendolo,
però, non poté
fare a meno di pensare che gli sarebbe piaciuto conoscere il futuro che
avrebbe
avuto, se la sua scelta fosse stata diversa. Non era un pari, alla
corte viziata
di Thanos, ma un servo che avrebbe dovuto, un giorno o
l’altro, svincolarsi
dalla sua ombra e tornare a essere libero, senza legami. Questa era la
sua vita
lontano da Asgard, da Frigga, da lei.
Valutò con acuto distacco che, con tutta
probabilità, in caso di fuga il Titano
lo avrebbe ucciso, magari infliggendogli una morte esemplare come
potevano
essere la decapitazione, l’impiccagione o, meglio ancora, lo
strangolamento. Si
allentò il colletto della corazza, a quel pensiero, come se
un presagio oscuro
fosse calato improvvisamente sulle sue spalle fiere e altere, di
principe.
È
destino che gli dèi di Asgard debbano morire, come tutti:
così dice la Voluspa.
La fine di Loki sarebbe avvenuta senz’altro in luogo lontano,
remoto, distante
anni luce dalle guglie alte e svettanti che si specchiavano in un
fiordo.
Purché fosse una morte degna del suo lignaggio,
rifletté, il resto non aveva
poi così importanza. A lui e a Sigyn non sarebbe capitato di
dormire un sonno
eterno l’uno accanto all’altra, come era toccato in
sorte agli amanti fortunati
trovati il giorno prima e questa, in fondo, era una consolazione,
eppure, allo
stesso tempo, non lo era, perché c’era qualcosa di
perfetto, nel riposo senza
tempo della coppia lontana.
Sigyn
non avrebbe sfiorato mai le sue
labbra già fredde.
No,
il rimpianto non albergava nello spirito fiero del dio degli inganni,
ma la
soddisfazione non era nella sua natura perché voleva tutto,
ogni cosa, anche
ciò che aveva perduto.
Solo
che i desideri corrodono, bruciano, tolgono lucidità.
Non
sapeva rinunciare a niente e non voleva farlo nemmeno con lei,
perché il
ricordo del tempo passato insieme, sbiadendo i suoi contorni, non aveva
assunto
i toni tenui della nostalgia, ma quelli del rancore e del desiderio che
non si
era ancora affievolito. La sua vita non era migliorata, senza Sigyn.
Eppure, saperla
lontana era una consolazione,
nonché
il frutto di una scelta comunque sostenuta per sempre a testa alta,
perché il
drago, in fondo, protegge i suoi tesori dall’altrui cupidigia
e anche dalla propria.
Gettò
via l’orecchino – era
solo un gioiello,
del resto – ma pensò che, qualora gli fosse
capitata l’occasione, avrebbe
cercato il vero paio per non consolarsi con un monile solo somigliante.
Un
giorno qualcos’altro sarebbe rimasto, a Sigyn, di lui
– di loro – ma questa
è un’altra storia.
Fine
Note Autore:
Cari
Lettori,
Grazie
infinite per essere arrivati fino a qui. Questa storia è un
prequel della
minilong “Come un vizio assurdo,” da me postata nel
fandom The Avengers.
Partecipa anche al contest “With or
without you – con o senza
te.”
Obiettivo dello stesso era presentare, tramite il punto di vista di un
solo
personaggio, una storia che rispondesse alla domanda “meglio
con te o senza di
te?” e che analizzasse la vita, appunto la vita nella
fattispecie di Loki con e
senza Sigyn. La vicenda, come avrete notato, è ambientata tra il primo Thor e The Avengers,
quindi la
caratterizzazione del dio degli inganni risente molto degli svolgimenti
degli
altri due film. Attraverso un gioiello, Loki rivive i tratti salienti
della sua
relazione con Sigyn, destinata a finire. Ai momenti dolci, si
contrappone un
presente inquietante vissuto all’ombra di Thanos. Sebbene
Loki non si penta
delle azioni commesse – non sarebbe il villain che
conosciamo, altrimenti – il
pensiero di Sigyn è tornato prepotente nella sua testa
suggerendogli che, se
avesse un’altra probabilità, forse…
La
storia partecipa anche al contest Ave atque Vale –
Salute e Addio: Lo
scopo, in questo caso, era raccontare la fine di un amore e
così Loki ha
l’occasione di rielaborare, attraverso il fortunoso e casuale
ritrovamento di
un paio d’orecchini, la sua storia d’amore con la
dea della fedeltà, conclusasi
tragicamente con una separazione amara e dolce assieme. Attraverso il
ricordo,
rivive i momenti dolci e, soprattutto, l’epilogo di questa
storia. Ecco
l’addio, ecco il vale. Come spesso accade
nella vita reale, il commiato
è spezzato dalle lacrime. Note di stile: talune ripetizioni
sono efficaci ai
fini della lettura, mentre per quanto concerne alcune mie scelte
stilistiche
(trattino – non chiuso alla fine come spesso usato da
Mazzucco nelle edizioni
Einaudi e virgola dopo “e”) sono da intendersi come
precise scelte stilistiche
e non come refusi.
Credo
di aver messo in nota tutte le varie spiegazioni ♥, qui
aggiungo solo questo:
nel testo sono presenti vari riferimenti ai titoli di altre mie storie,
tra
cui: Sapevano di vino le tue labbra,
Come
un vizio assurdo, Fino alla fine del tempo e Ha i capelli d’oro degli Æsir.
Ve le
consiglio, qualora non le aveste già
La
storia finisce in modo amaro, molto amaro ma in fondo noi sappiamo come
andrà a
finire. Per quanto concerne la scena finale in cui Sigyn cede alla
passione
nonostante la delusione e nonostante sia finita, sappiate che
è stata una mia
scelta precisa frutto di lunghissimi ragionamenti e riflessioni ed
esperienze: trascorrere
una notte insieme all’amore della propria vita in un momento
simile, nonostante
il dolore, è qualcosa di terribilmente umano, ma anche un
modo a volte
necessario per chiudere mentalmente una relazione (e Sigyn apre la
porta perché
Loki è un villain, ma non le farebbe mai del male, come
spesso si sente in
simili casi).
Se la
storia vi è piaciuta, sappiate che potete lasciare un
commento o inserirla nelle liste di Efp.
Basta un
clic o un pensiero anche brevissimo per far felice un’Autrice!
A
presto e grazie per essere arrivati fino a qui,
Shilyss
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