Era solo un gioiello

di shilyss
(/viewuser.php?uid=21848)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Eterni vincoli ***
Capitolo 2: *** Era solo un gioiello ***



Capitolo 1
*** Eterni vincoli ***


 

Era solo un gioiello

 

 

 

 

I

 

Eterni vincoli

 

 

 

 

Resta soltanto tutto il rimpianto

perché ho peccato nel desiderarti tanto

ora son solo a ricordare e vorrei poterti dire

guarda che luna, guarda che mare!

(Guarda che luna, F. Buscaglione, 1959)

 

 

 

La grotta, immensa e terribile, si apriva con la sua bocca nera fatta di stalattiti che incombevano come fossero i denti aguzzi di un drago. Loki Laufeyson pensò che una volta c’era finito davvero, dentro le fauci spalancate e venefiche di un simile mostro. Jormungander era il suo nome e si trattava di una bestia spaventosa e, allo stesso tempo, affascinante. Thor era con lui e gli diede la colpa dell’increscioso incidente; per poco non morirono entrambi, ma fu divertente uscire – era sempre terribilmente divertente combattere con lui, spalla contro spalla. Una smorfia gli increspò il viso affilato. S’inoltrò oltre i denti di pietra, con un pugnale affilato in mano e una bolla di luce evocata grazie al seiðr nell’altra. In breve, si distanziò dal drappello, che lo seguiva titubante ed esitava a lasciarsi avvolgere dall’oscurità umida della grotta.

A Loki non interessava che lo seguissero. Provava un disgusto evidente per quella soldatesca prezzolata che non sapeva tenere nemmeno in mano una lancia. Gli Æsir erano un popolo di guerrieri feroci e impavidi, che imparavano a usare le armi quand’erano ancora bambini: non temevano la morte né l’oscurità, così come non lasciavano che, a influenzarli, fossero dicerie, leggende o le forme strane e mostruose assunte, talvolta, dalla natura. Allungò il passo, compiacendosi della solitudine e dell’oscurità che lo circondavano: l’unico che fosse mai stato degno di camminargli di fianco era passato dall’essere fratello a diventare un estraneo, eppure c’era qualcosa di sbagliato nel modo in cui si erano separati: Thor aveva fatto di tutto per afferrargli la manica o un lembo del mantello e tirarlo sul Bifrost spezzato anche dopo averlo combattuto e lui, invece, si era lasciato cadere, preferendo l’oblio alla sconfitta. Ma davvero era andata così?

Loki non lo ricordava[1] e, a dire il vero, non era sicuro di volerlo rammentare. Gli ultimi istanti della battaglia quasi fratricida che aveva combattuto contro Thor sul ponte che collegava i mondi erano ricordi confusi, che si mescolavano tra loro generando incubi. Aveva dimenticato parte di quello che era successo e non ci teneva a rivangarlo. Gli era rimasto addosso altro – le origini controverse, l’inganno subìto, l’ombra della grandezza di Thor che l’aveva offuscato, nascondendo la sua luce. Ecco perché la solitudine gli era cara, in quel particolare frangente della sua vita: aveva trascorso mille anni interi con un fratello che gli era stato rivale, alleato, amico, ma che, alla fine, aveva ricusato per dimostrare di splendere come e quanto lui, se non di più.

 

Alcuni dei servitori di Thanos lo chiamavano principe Loki con deferenza affettata, chinando lo sguardo, tributandogli omaggi solo in virtù della sua crudele inclinazione a tirare scherzi cattivi, a ingannare per il gusto di farlo. Temevano lui, il seiðr e l’influenza che sapeva esercitare, in virtù della sua sagacia e della lingua affilata e arguta, sui potenti, anche quelli più vicini al Titano. Lo appellavano principe Loki, ma ad Asgard quelle due parole avevano avuto un sapore diverso, più puro, e non era solo per il fatto che fuori dei Nove Regni il nome della gente che lo aveva cresciuto veniva storpiato in asgardiani, né perché una parte della mente dell’ingannatore sapeva bene che il trono degli Jotnar gli spettava per diritto di sangue[2]. Suo era il braccio che aveva impugnato Gungnir, la lancia che aveva trapassato la schiena di Laufey. Avrebbe potuto reclamarlo, quello scranno, sì. Rivendicarne il possesso, vantarsi, presso i Giganti di Ghiaccio, di come avesse ucciso il loro sovrano colpendolo a tradimento, alle spalle. La giusta vendetta toccata a colui che lo aveva lasciato morire, perché troppo debole, su un picco di ghiaccio. Nient’altro.

Il ventre di pietra della caverna proseguiva per decine di miglia[3], rivelando cripte, cunicoli e pitture rupestri conservate per un qualche colpo di fortuna dovuto alla particolare atmosfera del luogo. Gli occhi verdi e mobili dell’Ase si soffermarono sulle iscrizioni leggermente sbiadite, sulle figure abbozzate, per poi puntarsi più in basso, sui resti terreni della popolazione perduta che, si diceva, avesse posseduto il segreto delle Gemme forgiate prima del tempo e dello spazio, quando l’universo non aveva ancora un nome. Agli occhi del dio dell’inganno, però, la catacomba sotterranea non sembrava affatto il nascondiglio di un segreto antico quanto la creazione di ogni cosa; gli pareva di più l’eco pallida di un popolo che aveva avuto una rapida ascesa e poi, altrettanto velocemente, era caduto nell’oblio della memoria. Le ossa che spuntavano dalle varie cripte suggerivano un’esistenza che per alcuni era stata piacevolmente serena, per altri breve e tragica. In lontananza, l’Ase avvertì i passi rapidi del drappello giunto, finalmente, alle sue spalle. Lasciò che lo raggiungessero, diede qualche breve, secco ordine. Era qualcosa che gli si confaceva, comandare. Un onere di cui aveva accettato il peso fin da quando la barba non aveva iniziato a pungergli il viso, anche se l’epoca delle scorribande fatte con Thor per il solo gusto di andare a caccia di avversari e sconfiggerli non si era affatto sopita: così, i giochi infantili fatti con spade spuntate o di legno si erano trasformati in qualcos’altro – nella necessità di combattere e vincere sempre, ovunque. Scacciò quel pensiero e tornò a inoltrarsi, solo e altero, tra i cunicoli di pietra. Arrivò in quella che era la parte più antica della grotta; glielo suggerì l’aria rarefatta, la forma più rozza e ipnotica delle figure dipinte e incise sulle pareti, la difficoltà che iniziava a incontrare nell’avanzare tra i detriti. Si domandò se non fosse il caso di tornare indietro e concludere così l’esplorazione, ma fu trattenuto da una sensazione strisciante, dall’intuito di mago che gli faceva pizzicare i polpastrelli. Forse quello che cercava era davvero in fondo al nero corridoio che, tortuoso, si stagliava di fronte a lui. Attirato da quest’eventualità remota, ma possibile, stirò le labbra in un ghigno, alla scoperta del segreto che l’attirava nelle viscere della terra. Una lastra di pietra impediva l’ingresso: la spostò individuando il meccanismo antico che la bloccava, mentre un ghigno furbo e compiaciuto gli si disegnava sulle labbra beffarde. Senza indugio alcuno, avanzò rischiarando il buio col passo sicuro dell’esploratore, del cacciatore, del predone, persino.

Fu allora che la vide. La luce che teneva in mano aumentò d’intensità, consentendogli di ammirare una camera naturale scavata nella grotta e, soprattutto, ciò che si trovava al suo centro. All’interno di un grande cerchio, c’erano due scheletri vicini: sembrava che la morte li avesse colti nel sonno, ma non era così. Si trattava di una sepoltura rituale, come testimoniavano gli oggetti deposti accanto ai resti. Il mancato re, figlio d’un sovrano spietato come il più glaciale degli inverni e cresciuto da un pirata che aveva ricoperto d’oro la sua casa, non avrebbe dovuto posare ulteriormente lo sguardo su una simile tomba. La ragione imponeva che si voltasse per andarsene, o proseguisse senza alcun indugio. Qualcosa, invece, lo trattenne lì; cos’era? Il bisbiglio quasi impercettibile di un fantasma desideroso di raccontare la propria storia, il guizzare di un’ombra immaginata grazie ai nervi tesi e all’erta, una percezione del mondo visibile e dell’invisibile, accentuata dal seiðr, mera curiosità? Perché fermarsi? Per quale ragione chinarsi e rimuovere, con un’onda leggera d’energia – guai a toccare con le proprie dita eleganti la polvere millenaria che dimorava in quel luogo – i detriti finissimi lasciati dal tempo?[4]

L’Ase si ritrovò a osservare l’ultimo vessillo di un amore antico, perduto. Abbassò lo sguardo per valutare ognuno degli indizi che i due scheletri gli offrivano. Lui era un guerriero nel fiore degli anni, morto per via di una ferita alla testa. Piegò le labbra in una smorfia appena accennata, si tirò su, girò attorno alla piccola fossa per farsi raccontare i dettagli di quella tragica fine. Il defunto era stato un soldato, sì. Lo riconobbe dalle placche di metallo all’altezza delle giunture, da certi segni sulle ossa riconducibili a degli scontri antichi. Al suo fianco, quasi stretto contro il suo petto, c’era un altro corpo, più minuto. Una donna, decise il dio degli inganni. Giovane, dedusse dalla dentatura perfetta, morta per ultima, rimasta a vegliare i resti dell’amato fino a che quello non aveva chiuso gli occhi per sempre. Il ritrovamento non avrebbe dovuto sorprenderlo né sconvolgerlo, in effetti. Era un’usanza antica, ma certo non rara, quella di seppellire insieme due coniugi, due amanti. Loki lo aveva appreso nei libri di storia e dalla bocca dei sapienti, ma c’era un dettaglio, in quella scena d’amore e di morte, che lo costrinse a tenere gli occhi incollati sui due crani vicini. La donna indossava dei gioielli, al momento della sepoltura. Tra questi, c’erano degli orecchini con una pietra verde, incredibilmente simili a quelli che aveva visto brillare su un altro volto. Uno dimenticato da troppo tempo, forse.

Il drappello che lo seguiva era ancora intento a cercare artefatti magici che potessero indicare dove fossero le Gemme, mentre lui era lì, a fissare il sonno eterno, ma non per questo meno dolce e lieve, della coppia forse non così sfortunata, dedusse. Inclinò il capo da un lato, cercando di ricostruire meglio gli ultimi istanti del guerriero e della sua sposa. Il loro abbraccio perenne li aveva uniti in un disegno dai contorni indefiniti: pareva, però, che lei, negli ultimi secondi passati nel buio del sepolcro, gli avesse accarezzato con le dita la guancia, avesse baciato le labbra senz’altro già fredde del suo amante per un’ultima, disperata, volta. Quali parole poteva avergli sussurrato sulla bocca chiusa? I due teschi vicini raccontavano l’esito di una passione che certo non fece accelerare i battiti del cuore del dio degli inganni. Decise che gli orecchini della donna non gli interessavano ed erano ben poca cosa, rispetto alle sepolture razziate dalla soldatesca di Thanos in quelle ultime settimane. Semplici monili di giada che era bene restassero lì, con la loro legittima proprietaria, ma un pensiero, aguzzo come una freccia, gli si conficcò nella testa.

Lei gli era stata fedele fino alla fine del tempo.

 

Si voltò per riunirsi alla sua squadra, le cui voci echeggiavano chiassose e sempre più nitide sotto le alte volte di pietra. Non desiderava che vedessero la tomba; era certo che, se l’avessero trovata, senz’altro non si sarebbero fatti scrupoli nel violarla, giocando con i resti dei misteriosi amanti, beffandosi della morte come già aveva visto loro fare in altre occasioni.

Arricciò le labbra sottili, segnate da una cicatrice antica. Gli Æsir che lo avevano cresciuto erano un popolo di predoni e di pirati. L’oro che ricopriva Asgard fino alla sommità delle sue guglie non si era trasportato da solo nel fiordo di Ásaheimr, ma era stato depredato e razziato quando Odino era giovane e, prima di lui, ai tempi di Bor il Grande. Conquistatori sagaci, dunque, senz’altro brutali, che, però, avevano sempre trattato con una sorta di doveroso rispetto i defunti. Mentre il rumore secco dei propri stivali echeggiava sotto la volta della caverna, Loki Laufeyson ripensò a certi sontuosi riti funebri visti da bambino, osservati con gli occhi asciutti e una serietà nel volto che si specchiava in quella di Thor. Per loro era impossibile, a quel tempo, capire la pietà e la tragedia che l’interruzione di una vita portava con sé. La morte era qualcosa di lontanissimo, vago, nebuloso, che certo non li riguardava né li avrebbe riguardati a lungo: erano ancora benedetti dall’illusione di essere intoccabili, invincibili, immortali come nemmeno nelle leggende di Midgard riuscivano a essere. Gli Æsir seppellivano i guerrieri caricandoli di armature e gioielli e preziosi: tesori occultati con le loro insegne per rendere il passaggio nel Regno di Hel più facile e agevole, perché l’accesso alle sale del Valhalla, forse, doveva essere persino pagato. Toccare reliquie di tal fatta era qualcosa che Odino in persona, spesso, non si era vergognato di compiere nei confronti dei suoi avversari più temibili; Loki non era così ipocrita da non ammetterlo a se stesso, eppure raggiunse il sentiero di fioca luce solare che lo avrebbe portato all’uscita con le sopracciglia aggrottate e il volto pensieroso. Quegli orecchini. Nient’altro che due pendenti di giada, ma d’un verde intenso, brillante.

 

Lei ne aveva un paio simili, quasi uguali. Li indossava una delle ultime volta in cui si erano visti, quando l’aveva fissato con quel suo sguardo altero solo all’apparenza, ma in realtà grigio, liquido e dolce, evidenziato dal trucco. Sarebbe stata l’ultima volta in cui ne avrebbe fatto sfoggio, ma questo Loki non poteva saperlo. Due trecce laterali, appuntate con grazia sul capo, lasciavano scoperto il collo sottile e i monili scintillanti, tenendo a bada la cascata d’oro dei suoi capelli.

Non era bella più di altre, Sigyn, affatto. Esile e minuta, si muoveva per lo studio svelta, cercando l’ingrediente giusto per una pozione. Di cosa avevano parlato, in quell’occasione? Di libri, di eventi politici, di una guerra imminente, di incantesimi, di loro. Di ogni cosa e nessuna.

Lui era rimasto poggiato contro lo stipite della porta, le braccia incrociate sul petto, l’aria divertita e sorniona, e lei aveva fatto di tutto per non incontrare il suo sguardo e mantenere intatto il proprio contegno, sforzandosi di mostrarsi occupata. Aveva pensato fosse bella, ma quella riflessione limpida e chiara non era nuova: aveva già attraversato la sua mente una notte lontana, quella in cui aveva lasciato che il caos lo travolgesse, in cui le sue dita di mago avevano slacciato, abili e impazienti, il corsetto dell’abito di lei, che indossava alle braccia gioielli tintinnanti ed era ancora accaldata per aver danzato con altre ragazze attorno a un falò. Ricordò la curva dolce del seno piccolo e bianco, la morbidezza della sua pelle, il profumo inebriante che si confondeva col tocco incerto delle sue dita sottili su di lui, a volte timide, altre audaci.

Canti lontani li avvolgevano con le loro melodie d’amore e di morte appassionate e lei gli aveva offerto le labbra e se stessa; Loki l’aveva avuta e gli era piaciuto sentirla vibrare a ogni suo tocco, aveva goduto nel possedere, anche se per una notte, il cuore e il corpo dell’altrimenti intoccabile Sigyn, che lo guardava da sotto le ciglia scure e non cedeva quasi mai al gusto di raccogliere le sue provocazioni argute né alla sua corte sfacciata, ma non abbastanza serrata perché il suo interesse potesse essere scambiato per una cosa seria. Così avevano creduto entrambi, e invece.

 

“Quanta preoccupazione nella tua voce, mia cara Sigyn. Si direbbe che tu non abbia fiducia nelle mie capacità,” le aveva detto, caustico e crudele. Presto sarebbe dovuto partire per una campagna militare poi rivelatasi lunga e spossante, vinta dagli Æsir solo grazie a un espediente.

A quella frase, lei finalmente si era fermata in mezzo alla stanza: era rossa in volto e stringeva tra le mani un’ampolla.

“Avere fede nelle tue capacità di guerriero non significa ignorare i pericoli cui andrai incontro.” Aveva scosso la chioma bionda, delusa che lui non capisse e fosse così cieco e orgoglioso. Frase che lei gli ripeteva spesso, nel letto in cui finivano per trascorrere ore troppo brevi strappate alle notti fredde di Asgard o a quelle, più miti e rare, di Vanheim. A volte, il suo tono era divertito e scherzoso; con i capelli biondi sciolti sulla schiena, lo fissava da sotto le ciglia lunghe e nere sorridendogli appena, la voce carezzevole come quello di una gatta, il fine lenzuolo di seta stretto sulle curve dolci del seno. Altre, invece, il suo timbro era amaro, incrinato, desolato persino. Non gli aveva mai chiesto di essere altro da ciò che era, ma, nel segreto della notte, forse, la sua volontà talvolta aveva vacillato, facendole maledire la loro attrazione che, di questo anche Loki era cosciente, come un vizio assurdo e dannoso li teneva avvinti, sì, ma in cosa?

In una storia che non poteva essere altro che quello: sesso consumato tra una battaglia e l’altra, puntellato dal tarlo della gelosia e dal bisogno di averla, di godere della sua preda, di osservarla mentre si perdeva nel caos in cui lui – solo lui – la gettava, di sentirla tendersi dopo averla imprigionata sotto di sé, di avvertire le unghie che gli graffiavano spasmodiche le spalle, di ascoltarne i sospiri rotti, di osservare la testa buttata all’indietro, di baciare fino a farle perdere il respiro le labbra schiuse. E poi, dopo averle assaggiato la bocca, far scorrere la lingua sulla pelle chiara e tremante, liscia e perfetta, sua, finalmente, e, di nuovo, perdersi in lei e con lei, affondando nel desiderio che lo spingeva a cercarla anche quando era ragionevole che non lo facesse, ribadendo il suo possesso, braccandola dopo i banchetti e infilandosi nel suo letto nelle visite sempre più lunghe che lei faceva ad Asgard.

In quel tempo, vivevano una relazione nascosta, segreta, consumata e vissuta dietro le ombre di un braciere tremolante, soffocata nel buio di respiri spezzati, come quella prima notte folle. L’aveva vista danzare, libera e allegra, con quei bracciali tintinnanti alle braccia e alle caviglie e si era messo in testa che dovesse diventare finalmente sua, ma poi, poiché non era capace di rinunciare a niente, a nessuna cosa, era stato incapace di saziarsene, anzi.

Così era iniziata la loro storia, per poi guastarsi e di nuovo aggiustarsi, perché bastavano uno sguardo troppo lungo e una battuta perché tornassero a guardarsi di sottecchi[5].

 

“Temi per la mia vita, adesso!? Ne sono lusingato,” aveva ghignato lui, scostandosi finalmente dalla porta per braccarla, ghermirla, catturarla ancora una volta, per il solo gusto di farla infuriare. Con un gesto fluido l’aveva stretta a sé e lei si era irrigidita, perché le era impossibile non sussultare quando erano troppo vicini, anche se non dividevano più il letto – se lei si ostinava a rifiutarlo. 

Le mani di Loki, allora, avevano preso a carezzare il tessuto liscio e serico dell’abito che aderiva alle sue forme femminili e invitanti, saggiandone la morbidezza. A quel tocco, un sospiro era uscito dalle labbra di Sigyn: aveva socchiuso un momento le palpebre truccate, inebriata da quelle carezze audaci a sfacciate, per poi riprendere il controllo e fissarlo. Gli si negava, ma lo voleva, lo desiderava; doveva sforzarsi con ogni fibra del suo essere, per resistergli. Il dio degli inganni lo sentiva, lo sapeva. E gli piaceva che lei continuasse a essere sua pur non essendo più la sua amante.

“Cosa vuoi da me, Loki? Devozione, fedeltà assoluta, amore?” 

I suoi occhi brillavano carichi di sfida, ma nella sua voce troppo seria c’era una punta d’irritazione di cui l’Ase conosceva bene la natura: aveva tentato di dimenticarla per poi cercarla ancora e questo lei non riusciva a perdonarglielo, né poteva far finta che non fosse successo nulla.

L’aveva stretta a sé con un movimento felino e fluido, infilando una mano tra le sue ciocche color dell’oro per ghermirle la nuca e lei lo aveva lasciato fare, vero, per poi sollevare il mento, fiera e decisa come la regina che avrebbe meritato di essere. Era stato allora che, scostandole parte della chioma con quella carezza leggera e possessiva a un tempo, si era soffermato sul baluginio verde degli orecchini.

“Dici che mi detesti, ma indossi i miei pegni,” le aveva fatto osservare in un sussurro, indugiando con le dita sulla pelle morbida e profumata, sfiorando uno dei pendenti.

“Sono belli.” Un guizzo d’orgoglio le aveva illuminato lo sguardo grigio e liquido, carico di dolcezza. “Sono tuoi, Loki,” aveva aggiunto dopo una pausa breve, esitante. “Fai attenzione e torna da me.”

“Sono il figlio di Odino, il principe di Asgard,” era stata la sua risposta fiera, orgogliosa. “Fa parte dei miei compiti combattere per lei, dare ogni cosa per lei.”

Sigyn si era rabbuiata, tentando invano di liberarsi dalla sua stretta. “Farti catturare volutamente allo scopo di raccogliere informazioni per Padre Tutto è pericoloso, troppo pericoloso.”

Un ghigno vittorioso e soddisfatto gli aveva increspato le labbra beffarde e ironiche. Il cuore della dea della fedeltà era ancora suo. “Voglio che tu sia mia, stanotte. E lo vuoi anche tu.”

 

 

Loki Laufeyson, comandante in capo di una delle squadre di Thanos impegnate nella ricerca di indizi circa le mitiche Gemme dell’Infinito, riemerse dal buio della grotta assieme al drappello che lo aveva seguito. Lui solo si era inoltrato fino alla parte più profonda della caverna tanto simile alla bocca di uno spaventoso drago, per poi annunciare, con voce asciutta, di non aver trovato nulla di rilevante. Si trattava di una mezza verità. Qualcosa, nel buio della terra, l’aveva scovata. L’immagine della sepoltura duplice era ancora impressa nella sua mente e, in tasca, sentiva il peso dell’orecchino che aveva rubato – uno solo, l’altro era rimasto ad abbellire i resti pietosi. Un gesto indegno, compiuto per assecondare il brivido che lo aveva pervaso quando si era deciso a violare un precetto antico quanto l’Yggdrasill, sì, ma perché?

 

Raggiunse a passo spedito l’imbocco della nave che lo avrebbe riportato al quartier generale, senza voltarsi verso l’apertura dentata dell’antro, concedendo solo uno sguardo di sufficienza ai soldati che gli era toccato in sorte di comandare, offeso, una volta di più, dal fatto che non avessero valore, che non fossero alla sua altezza. Lo spettro della caduta s’insinuò nuovamente nel suo spirito fiero e irrequieto, graffiando e mordendo, ma il ricordo di quell’orribile momento si affastellò, nella sua testa, con altre immagini e voci. Si rese conto di non aver più pensato a Sigyn per un tempo lunghissimo. Estrasse dalla tasca l’orecchino trafugato, ne sfiorò con i polpastrelli la pietra lavorata con cura, pensò alle sue labbra, ritrovò, nella memoria, il suono dei bracciali tintinnanti che le adornavano le braccia sottili. Strinse le dita attorno al gioiello. Nel lungo periodo che era trascorso da quando si erano visti per l’ultima volta, era riuscito a soffocare perfettamente il ricordo di lei, nascondendolo dentro una piega nascosta della sua anima, dov’era rimasto all’ombra di pensieri, di considerazioni, di desideri persino, in attesa di riemergere all’improvviso. L’aveva sacrificata all’altare del potere, della brama di conquista che si era impadronita del suo spirito, esasperata dalla continua sfida a senso unico che aveva intrapreso per essere degno di un trono che, in verità, era sempre spettato a un altro.

Riaprì il palmo della mano con lentezza, lasciando scivolare di nuovo lo sguardo acuto e verde sulla pietra del medesimo colore, per poi increspare le labbra sottili in una smorfia carica di dispetto e non solo. Il monile non era uno dei suoi orecchini, ma quello, solo simile, di un’altra donna, che di lei aveva avuto senz’altro lo spirito determinato.

Non l’aveva dimenticata, ma persa.

 

 

Guarda che luna, guarda che mare,

da questa notte senza te dovrò restare

folle d'amore vorrei morire

mentre la luna di lassù mi sta a guardare.

(Fred Buscaglione, Guarda che luna)



[1] La storia si colloca tra il primo film di Thor e The Avengers: soprattutto le battute di Loki del primo film mi sono state utili per la caratterizzazione del personaggio che, nel dialogo con Thor nella foresta, mostra confusione circa gli eventi della sua caduta.

[2] Asgardiano è il termine con cui vengono indicati gli abitanti di Asgard nel MCU: nel corpus scaldico, invece, il loro nome è Æsir. Come sapete, io nel mio headcanon faccio una fusione tra questi due.

[3] Uso miglia perché non mi piace piedi e l’unità metrica decimale è una convenzione midgardiana.

[4] Sepolture di questo tipo – due scheletri abbracciati, una probabile coppia – esistono veramente. :P

[5] Il particolare di Sigyn esperta di pozioni che danza davanti a un fuoco è presente nella mia storia Come un vizio assurdo, di cui questa è un prequel e che è attualmente postata nella sezione The Avengers di Efp ^^.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Era solo un gioiello ***


II

 

Era solo un gioiello

 

 

 

Sometimes it rains inside my head

All the words run dry

Walls are breathing hands are reaching up

To touch my thigh

No they don't have to take you away

(Medicine, Time Baby III)

 

 

 

Nel petto dell’altero dio degli inganni non c’era mai stato spazio per il rimpianto: la tragedia era racchiusa proprio lì, nella sicurezza di aver detto ogni parola, compiuto qualsiasi azione, non assecondando una furia esplosiva come il suo intemperante fratello, ma raccogliendo una serie di ragionamenti lucidi e spietati, forse esasperati da analisi troppo crudeli ed egoiste, ma mai rinnegati. L’ira di Loki si era rivelata implacabile, dannosa e affilata come una bufera di neve.

L’aveva persa poco prima che Odino annunciasse di voler indicare il suo successore, preferendo Thor a lui. Scelta inaccettabile, ingiusta, miope, sciocca, che Loki aveva subìto con lo sgomento e il rancore di chi si vede fatto un torto. Così era nata l’immagine del mancato re che ora lo guardava torvo nel riflesso di uno specchio, del dio degli inganni costretto a obbedire agli ordini di un Titano Folle che vagheggiava di alterare il naturale caos da cui nasceva ogni cosa invocando un ordine utopico e sbagliato.

L’aveva persa.

E aveva fatto di tutto perché ciò avvenisse.

La sua esistenza era migliore, adesso? Aveva tutto ciò che desiderava, che bramava, che gli spettava? No, non ancora e non solo perché la soddisfazione non era nella sua natura.

Si chiuse nella sua elegante cuccetta, riempì un calice con del vino pregiato, ma che nulla aveva del sapore dolciastro e avvolgente del miglior idromele di Asgard bevuto nei corni intarsiati. Poi, si tolse le parti metalliche della corazza che gli proteggevano le spalle e gli avambracci, si sfilò la bandoliera appesantita dai molti pugnali nascosti al suo interno. Con le labbra che ancora sapevano di vino, si lasciò cadere sulle coperte e chiuse gli occhi.

 

Lei ne aveva un paio simili, quasi uguali.

Orecchini pendenti, ma abbelliti con degli smeraldi.

Lo assalì il ricordo di una sera lontana in cui lui e Thor si erano seduti a bere fuori dalla grande sala dei banchetti; avevano trafugato una delle botti di pregiatissima birra che Odino teneva nelle sue cantine e si erano messi a punzecchiarsi, come al loro solito.

“La piccola Sigyn ogni tanto ti fissa con insistenza, fratello. Credo che troveresti il suo letto accogliente,” aveva detto a un tratto il primo figlio di Odino, osservando pigramente la figura sottile della ragazza che si allontanava svelta, dopo aver ceduto all’impulso di gettare un’occhiata nella loro direzione. Scuotendo la testa, Loki Laufeyson aveva risposto che Sigyn era la dea della fedeltà, oltre che una strega piuttosto abile con pozioni e intrugli vari; c’era il pericolo concreto che lo avvelenasse al primo litigio. Risposta faceta, detta con tono divertito, pronunciata mentre seguiva con troppa attenzione la cascata bionda che ormai era quasi sparita dalla sua vista, soffermandosi sulla vita flessuosa esaltata dall’abito aderente e scuro, senza rivelare che aveva ancora l’odore di lei addosso, il sapore dei suoi baci sulle labbra. Si era appartato con Sigyn qualche ora prima, in fretta, approfittando di una sala nascosta nella vicina biblioteca. L’aveva avuta senza riuscire nemmeno a spogliarla del tutto – non c’era tempo per slacciare ogni nastro del suo corsetto e liberare la pelle candida e morbida, perché il bisogno di entrare in lei e sentirla ansimare sotto di sé andava soddisfatto in quel momento, con urgenza.

 

Gli orecchini glieli regalò più tardi, quella stessa notte, quando la raggiunse in un letto che sì, era davvero caldo e accogliente. Lei arrossì, vedendo il pegno. Lo indossò sulla pelle nuda, coperta solamente da un lenzuolo candido.

“Perché,” boccheggiò, “per quale occasione? Non posso accettare, non sono quel tipo di donna.”

“Una razzia particolarmente ricca,” spiegò allora Loki con un ghigno, compiacendosi del perfetto contrasto che si era creato tra i capelli d’oro di Sigyn e il verde brillante degli orecchini. “Per farti indossare i miei colori.”

Lei sfiorò con i polpastrelli uno dei pendenti, senza nascondere un lieve imbarazzo. Poi, un’ombra le velò lo sguardo. “Ma di nascosto.”

Abbassò le ciglia scure, sforzandosi di celare la lieve tristezza che quell’affermazione le faceva nascere nel petto, perché sapeva chi lui fosse.

Insieme avevano fatto molti discorsi razionali e consapevoli, circa la necessità di non divulgare una relazione senza nome, ma Sigyn, alla fine, si era innamorata di lui nonostante tutto – nonostante la ferocia che gli incupiva lo sguardo e la sete di potere che lo spingeva a ricorrere a inganni e a sotterfugi anche lì dove non ce ne sarebbe stato alcun bisogno – e Loki, contrariamente a quanto gli era capitato di fare in altre occasioni, non voleva troncare i rapporti con lei, non riusciva a smettere di cercarla: le sue curve armoniose e femminili, le labbra morbide, la dolcezza con cui gli si concedeva e lo amava erano cose cui non poteva rinunciare, né desiderava farlo.

Di fronte al tesoro spartito con Thor e con gli altri comandanti Æsir, si era ritrovato senza preavviso a fissare quegli esempi squisiti d’oreficeria nanica ed elfica e a pensare che voleva posarli sulla pelle delicata e nuda di Sigyn. La notte del falò, quando l’aveva vista roteare l’ampia gonna e ridere con le altre ragazze, l’aveva desiderata al punto di valutare come irrisorio il rischio che avrebbero corso entrambi nell’andare a letto insieme. In fondo, la bella strega dei Vanir non sarebbe rimasta a lungo ad Asgard, ma poi le cose erano cambiate e la voglia di lei, anziché scemare come per ogni cosa che aveva posseduto, si era acuita, tingendosi di sfumature inedite. Così, la parentesi di una notte in cui si erano lasciati travolgere dalla musica allegra dei cantori e dalle danze che festeggiavano la fine di un lungo inverno, si era protratta fino a che non erano stati più capaci, né avevano desiderato, porvi fine. Era come essere ebbri di vino e voler bere ancora.

 

“Di nascosto,” le confermò in un sussurro. “Tu non vuoi essere l’amante del figlio di Odino, ma una delle streghe predilette di Frigga,” le ricordò. Si protese verso Sigyn respirando il suo profumo di fiori e miele, cercando con la punta del naso quello di lei, per poi scendere sulla guancia serica e sfiorarle, con le sue, le labbra, facendo finta di ghermirle per poi negarsi, compiacendosi dell’irritazione di lei, che già anelava un bacio e allora, solo allora, quando sentì le unghie di Sigyn graffiargli appena le spalle, concederle ciò che voleva – prendersi tutto ciò che bramava.

 

 

Aveva un modo d’abbandonarsi a lui, Sigyn, che era diverso da quello delle altre donne. Qualcosa che la rendeva preziosa più di tutte, ma questo Loki non era mai riuscito a comprenderlo, nelle lunghe notti passate con lei ad Asgard, né ci riuscì del tutto anni dopo, quando si ritrovò a rigirarsi tra le dita un orecchino trafugato da una tomba condivisa. Il suo spirito fiero, di principe, non avrebbe mai rinnegato scelte perfide, ma consapevoli, eppure qualcosa di simile alla nostalgia gli si conficcò nel petto, di fronte al baluginio verde del gioiello tanto simile a quello che, in un altro tempo, Sigyn aveva sfoggiato per lui, unica muta prova che sanciva come gli fosse appartenuta.

 

In molti sospettarono della loro relazione. Le battute di Thor si fecero più pesanti e frequenti, merito anche di quei monili di smeraldo indossati quasi sempre, che il dio del tuono ricordava appartenenti a un ricco bottino spartito in sua presenza, ma nessun’altra prova uscì mai allo scoperto, anzi. Suo fratello si mostrò insospettabilmente discreto, accennando alla cosa solo quand’erano soli: così, la storia tra lui e Sigyn rimase un pettegolezzo, una diceria quasi del tutto priva di fondamento e mai confermata, basata unicamente su rari sorrisi o sguardi intercettati a un banchetto. Alcuni, però, indovinarono comunque il loro segreto e si premurarono di mettere in guardia entrambi dai risultati potenzialmente devastanti di una simile unione. Lo dissero le amiche più strette di Sigyn, che intuirono il motivo di certe sue assenze e dell’allegria che alle volte le illuminava gli occhi, lo ribadì a lui stesso, con voce pacata e ferma, Frigga in persona, quando gli ricordò che, presto o tardi, la sua brillante discepola si sarebbe imbattuta nel naturale desiderio di crearsi una famiglia con l’uomo di cui s’era innamorata. Un discorso che Loki trovò ragionevole e sensato, in netto contrasto con quanto auspicava per il proprio futuro – il trono di Asgard e che Odino lo ritenesse degno.

Promise che non l’avrebbe fatta soffrire inutilmente, puntualizzò di non averla mai illusa – sua madre allora scosse il capo e sorrise mesta – sostenne che si sarebbe comportato come il suo rango esigeva.

Il risultato fu che si cercarono con più disperazione.

 

Non voleva esibirla. Il suo comportamento era simile a quello di taluni draghi, che difendevano gelosamente il loro tesoro da sguardi indiscreti, come se anche solo mostrare il proprio trofeo equivalesse, in qualche modo, a condividerlo e, quindi, a perderlo. Eppure Sigyn non poteva essere un tesoro: era un’amante particolarmente desiderata, una ragazza arguta e intelligente che rideva alle sue battute e adorava ascoltare le sue storie, specie se raccontate tra le sue braccia, una Vanir tenace che poteva passare notti intere a perfezionare una pozione, a studiare una formula o un testo.

 

 

 

La nave su cui Loki viaggiava attraversò cieli senza stelle e oscurità siderali cui nessuno aveva mai dato un nome. Era un principe vagabondo, uno spirito inquieto costretto, suo malgrado, a servire un Titano Folle assetato d’ordine, che si era messo in testa di cercare una leggenda. Il dio degli inganni si riscosse, ritrovandosi con la bocca leggermente impastata. Doveva essersi assopito, alla fine, ma il passo non abbastanza leggero di un soldato aveva fatto scattare i suoi sensi perennemente esasperati e all’erta, destandolo. Si sciacquò il volto per svegliarsi completamente, domandandosi cupo se Thanos sarebbe mai entrato in possesso di tutte le Gemme; era in grado di comprendere che tipo di potere avrebbe ottenuto, ma la portata distruttiva di un gesto tanto banale come quello che, presumeva, potesse essere ragionevolmente uno schiocco di dita, sfuggiva alla sua mente arguta e brillante. Si avvicinò all’oblò della cabina e aggrottò la fronte. Era il dio del caos; in quanto tale, appoggiava tutto ciò che creava sconvolgimento e disordine, perché proprio da un tale fluire d’energie era nato l’universo, ma quello che voleva compiere il Titano era un atto dissennato, degno di una mente folle: durante uno dei rari e spaventosi consigli di guerra in cui era riuscito a entrare – più o meno – nelle grazie dello spietato dittatore, Loki non aveva potuto nascondere un fremito di terrore di fronte alle farneticazioni circa l’equilibrio perfetto che Thanos voleva imporre infliggendo la morte con brutale casualità. Non era con quelle leggi che si era formato l’universo intero. Si concesse d’immaginare la propria vita in un simile frangente; si chiese se i tentativi di smarcarsi da quell’esistenza tutto sommato indegna, che senz’altro ci sarebbero stati, lo avrebbero condotto a una morte esemplare o meno; rifletté sulla sua condizione di mancato re e si domandò, con una punta d’ira, cosa avrebbe fatto Padre Tutto per difendere Asgard, ora che il ponte che collegava i Nove Mondi era andato distrutto. Quanta parte di potere oscuro sarebbe servita agli Æsir per ripristinare in tempi brevi il collegamento?[1] Cosa avrebbe fatto il solido Heimdall, quando i suoi occhi che quasi tutto vedevano si sarebbero soffermati, finalmente, sull’immensa armata di Thanos?

Il dio degli inganni non poté negarsi di stirare le labbra sottili in un ghigno perfido, che sfociò in una risata bassa e roca, maligna. Il suo cuore si era infettato col veleno del rancore. Che Asgard bruciasse, dunque, e venisse ridotta in cenere e rovine; a lui, ingannato e derubato da Odino, privato di un diritto di nascita, quasi ucciso da Laufey perché considerato troppo debole, tutto ciò non interessava più. Lo decise uscendo fuori dall’ampia cabina e attraversando a passo marziale i corridoi della nave. Lo ribadì mentalmente mentre scacciava via i resti aggrovigliati del breve sonno oscuro che l’aveva colto poco prima: non era del tutto certo di cosa avesse effettivamente sognato, ma l’immagine sbiadita di lei forse era venuta a tormentare i suoi sogni, mescolando memorie e immaginazione, fomentando il suo orgoglio col ricordo di un trono indimenticato e di un prestigio smarrito che, presso Thanos, gli veniva riconosciuto, sì, ma solo in minima parte. Il Titano era un essere dotato di una forza spaventosa, ma non era un dio né un sovrano; gli era inferiore per rango, per lignaggio; Loki, questo, non poteva dimenticarlo. La catena di comando che li separava era troppo lunga, per i gusti del fiero principe di Asgard nato per governare, cresciuto come il figlio di un potente re.

Era troppo tardi per liberarsi da quel giogo?

 

 Al suo passaggio, i membri dell’equipaggio puntarono invariabilmente lo sguardo a terra, come era giusto facessero. Raggiunse la cabina di comando: nel paio d’ore trascorse a riposare, erano giunti almeno due messaggi; dal modo in cui erano chiuse le comunicazioni, il dio degli inganni dedusse che fossero di una certa urgenza.

“Avreste dovuto avvertirmi,” puntualizzò caustico, spostando lo sguardo affilato sugli ufficiali presenti in cabina. Prese il primo foglio che era stato trascritto in codice affinché solo lui potesse leggerne il contenuto e aggrottò la fronte, sorpreso. Col controllo che gli era proprio e aveva imparato a sfoggiare durante le lunghe e spesso pericolose ambascerie condotte per conto di Padre Tutto, si sforzò di nascondere ogni traccia del terrore che ghiacciò le sue ossa già gelide di Jotunn rinnegato. La leggenda si stava tramutando in realtà. Thanos aveva trovato una delle Gemme, quella della Mente. Era impossibile persino per lui, che era esperto di magia runica e spaziale, dire quali potessero essere i confini di un simile artefatto vecchio quanto l’universo. Sforzandosi di non tremare, aprì il secondo messaggio, anche quello destinato a lui solo: si diceva che il Tesseract, una probabile Gemma, fosse in un pianeta chiamato Terra. Batté le palpebre, chiamandola mentalmente col nome con cui l’aveva sempre conosciuta, ricordando la sabbia rossa che aveva calpestato quando si era deciso a far visita a suo fratello – bugia, non erano fratelli, non più, almeno.

Midgard. Una delle possibili Gemme, era su Midgard.

Assaporò il suono della lingua materna, ripensando alle canzoni di Frigga, all’infanzia vissuta già all’ombra della competizione e della luce di Thor, vero, ma anche dolorosamente lieta. Ricordò con rancore ciò che diceva Odino circa il dovere degli Æsir di difendere quell’inutile sasso perché appeso all’Yggdrasill, il frassino sacro, rammentò la pretesa arrogante di Thor di voler difendere quel punto oscuro dell’universo, ora fatalmente strategico. La conquista di Thanos si spandeva rapida, troppo. Midgard era una potenziale testa di ponte per Asgard[2], solo che lui non era più un Ase; le sorti del Regno di Odino non dovevano interessargli nella maniera più assoluta, visto che Padre Tutto lo aveva bandito e ricusato, preferendo Thor a lui.

Diede ordini rapidi, efficienti. L’Hliðskjálf avrebbe dovuto essere la sua eredità, gli spettava per merito, se non per diritto, perché per mille lunghi anni aveva versato il suo sangue di Jotunn per la bella Asgard dalle torri dorate. La terra che s’innalzava sui magnifici e imponenti fiordi dove non era nato, ma cresciuto, gli sarebbe appartenuta per sempre in maniera dolorosa, né avrebbe potuto essere cancellata dal suo petto. Significava qualcosa di troppo profondo, perché un’ascendenza non accettata e persino il tradimento occultassero l’innegabile interesse che provava verso la patria degli Æsir, soprattutto ora che il rancore del principe offeso si mescolava alla gelida consapevolezza dei piani di Thanos per l’universo intero. E Midgard era troppo, troppo vicina ad Asgard, a Vanheim, a lei.

 

L’aveva sognata perché, prima di addormentarsi, si era crogiolato nel ricordo di ciò che era stato e ora non era più, smarrendosi nella riflessione di quella luminosa fedeltà che Sigyn gli avrebbe donato con la stessa sollecitudine dell’amante di cui il giorno prima aveva trovato i resti. Quella donna, probabilmente, si era convinta a lasciarsi morire accanto all’uomo che aveva sempre amato, perché incapace di immaginare la sua vita senza. Il termine amore gli fece piegare le labbra in una smorfia beffarda, poiché era uno di quelli che lui e Sigyn non si erano scambiati mai, nemmeno quando si ritrovavano, ansanti e spossati, l’uno tra le braccia dell’altra. Del resto, le parole avevano un peso e un significato che la Lingua d’Argento di Asgard conosceva troppo bene, per decidersi di pagarne il prezzo.

L’aveva sognata per colpa di quel maledetto orecchino tanto simile al paio che le aveva donato lui, sfoggiato con fierezza da Sigyn fin quando non aveva scoperto cosa era stato capace di farle. Sì, lei gli sarebbe stata fedele per tutta la vita, se solo lui glielo avesse concesso.

 

 

Avere un’amante non voleva dire solo compiacersi nel farle indossare sulla nuda pelle un gioiello splendente e poi smarrire se stessi, facendo l’amore in un letto fino a ritrovarsi avvinghiati ed esausti. Significava anche trascorrere lunghi periodi di tempo senza potersi parlare, né toccare. Voleva dire sedere lontani ai banchetti e sorridere con finto disinteresse se qualcuno osava chiederle di ballare o, semplicemente, faceva un apprezzamento sul corpo flessuoso di donna di Sigyn. Seguire con sguardo rabbioso le curve che conosceva a memoria con le labbra, mentre il velluto del suo abito si avvicinava al petto di un uomo che non era lui. Osservare e far finta di nulla, dunque, per poi cercarla e unirsi a lei nelle tenebre, di nascosto, sfogando il rancore e il desiderio soffocati per ore e giorni e settimane intere per una risata male interpretata, per un contrattempo che li aveva tenuti lontani per troppo tempo. Voleva dire tardare a un appuntamento, non poterla avvertire e così trovare, la sera appresso, la porta della sua stanza sbarrata. Lasciarla per poi tornare da lei, provare a dimenticarsi e poi cercarsi con più urgenza.

 

Sigyn non aveva mai preteso che lui cambiasse, mutando la sua natura. Si era innamorata del feroce dio dell’inganno e lo sapeva, ne era cosciente. Lo seguiva in certi ragionamenti arguti, che Thor avrebbe definito come assurdi e, pur non accettando il suo modo di fare spesso freddamente crudele, coglieva spesso l’intenzione celata nei suoi piani. Lei gli rivelava quel suo guizzo furbo e Loki le sorrideva e si ritrovava ad ammirarla, come quando sfilava dal suo corpo ogni indumento, per poi rimanere a fissarla alla luce fioca e calda delle candele.

 Sì, Sigyn aveva scelto di essere la sua amante e conosceva i moti oscuri che gli graffiavano il petto, anche se non aveva idea di quanto insondabile e profondo fosse quel buio, ma non sopportava l’idea di essere vittima dei suoi inganni: pretendeva franchezza. Ogni tanto, il suo sguardo grigio e liquido si rabbuiava e gli ricordava che non erano promessi, né fidanzati. Non si illudeva di niente ed era disposta a vivere senza futuro, eternamente nel presente, purché lui la scegliesse ogni volta. Per questo, forse, l’avrebbe capito, se fosse rimasta ad Asgard abbastanza a lungo da vedere come anche lui, il dio delle beffe, alla fine era stato ingannato da quel baro d’Odino, che l’aveva costretto a giocare per tutta la vita una partita truccata. Ma, a quel tempo, era già riuscito a perderla.

 

 

Mentre la nave su cui viaggiava mutava rotta per raggiungere il più velocemente possibile quella di Thanos, Loki non si concesse il lusso di rimpiangere la sua dolce amante dai capelli d’oro con cui, alla fine, aveva trascorso tante di quelle notti da far saltare ogni copertura possibile. Non faceva parte della sua natura fiera. Loki non si pentiva di niente: né di essersi lasciato cadere dal Bifrost infranto, né di aver trafitto Laufey con la lancia di Odino né, a maggior ragione, di aver rivelato il passaggio segreto usato dagli Jotnar per rovinare l’incoronazione del suo arrogante fratello. I suoi piani erano mutevoli e variavano di minuto in minuto in base all’esigenza del momento, ai guizzi geniali che attraversavano la sua mente sagace, ma ogni sua scelta, anche quella considerata più becera e crudele, faceva parte di un disegno, era il frutto di lunghi ragionamenti. Ecco perché, pur avendola persa, il suo cuore avvelenato dal rancore non sanguinava a quel ricordo.

 Ormai l’incontro con Thanos era imminente; si ritrovò a giocare distrattamente con il gioiello trafugato nella sepoltura e ne sfiorò la pietra verde, seguì con il polpastrello la fine lavorazione del castone.

Lei gli sarebbe stata fedele fino alla fine. Che cosa sciocca e priva di senso e folle. In fondo, rifletté, mentre l’ombra cupa dell’immensa nave di Thanos si stagliava nel buio siderale, non era nemmeno detto che l’avesse pianto. Si concesse d’immaginarla nel suo studio invaso da pozioni, libri, paioli di rame. Ipotizzò che le avessero raccontato della sua tremenda caduta dal Bifrost mentre s’affaccendava nella preparazione di un unguento, se la figurò nel momento esatto in cui, dignitosa e regale, soffocava il dolore con grazia, concedendosi solo nella solitudine delle sue stanze di abbandonarsi allo strazio per la sua perdita. Era stata in lutto per lui? Aveva nascosto nel suo cuore il dolore segreto per la tragica fine del figlio di Odino bandito? Oppure, dopo un iniziale smarrimento, come tutti, era stata in grado di cancellare il dolore, tornando a vivere, donando ad altri i sorrisi e le carezze che prima aveva riservato a lui solo?

 

L’ultima volta che l’aveva vista, Sigyn non indossava nessuno dei suoi doni. Doveva aver deciso di togliere quei pegni così vincolanti per dimostrargli che anche lei era libera. Aveva capito di averla persa in quel momento esatto e ne avrebbe avuta la conferma ore dopo, quando sarebbe finalmente riuscito a strapparle un bacio salato e furioso insieme, diverso da tutti quelli che si erano scambiati fino ad allora.

Si leccò appena le labbra, come se fosse possibile rievocare il sapore e la dolcezza di quelle di lei dopo tutto quel tempo, ora che, esiliato, era così lontano da Asgard e dai Nove Regni e dal suo posto accanto all’Hliðskjálf, il trono di Odino. L’aveva persa e quella netta consapevolezza lo stordì, cogliendolo quasi di sorpresa. Le aveva spezzato il cuore, perché i desideri corrodono, bruciano, tolgono lucidità, spezzano le vene, distolgono dagli obiettivi necessari e importanti. La nave su cui viaggiava iniziò le manovre necessarie per ricongiungersi all’ammiraglia di Thanos.

 

 

L’ultima volta che l’aveva vista, Sigyn non sfoggiava il suo pegno color smeraldo, no. Si festeggiava la vittoria di una guerra sanguinosa e lunga, combattuta su Nidavellir, vinta anche grazie a un’abile missione diplomatica condotta da lui. Ovunque si cantavano canzoni allegre, i guerrieri si ubriacavano vuotando un corno d’idromele dopo l’altro. Anche Loki tracannò il suo, gustando il sapore del vino speziato che gli scivolava nella gola. Poi, la notò.

Si rese conto che gli era mancata in maniera feroce. Si stupì quando la vide avanzare decisa nella sua direzione, ma lasciò che le sue braccia sottili e colme di bracciali tintinnanti gli cingessero il collo, che lo guardasse da sotto le palpebre tinte con la polvere scura del bistro[3]. Le sue curve flessuose, fasciate nel velluto, aderirono contro la sua corazza di pelle intrecciata, il profumo delle belle ciocche bionde gli arrivò fino alle narici. Fece scivolare una mano sulla vita di Sigyn, carezzandole appena la schiena. La sentì sussultare. In quell’unico e ultimo ballo fatto nella sala gremita, di fronte a tutta Asgard e a metà dei suoi alleati, capì che l’aveva persa.

Irrimediabilmente, totalmente, per sempre, forse.

Le rivolse un ghigno sghembo, laterale, perfido. Gli occhi di Sigyn erano tristi. Loki strinse il corno che teneva in una mano fino a farsi sbiancare le nocche e, allo stesso tempo, la guidò con delicatezza in quella danza che sanciva la loro rottura. Sorrise, mentre la luna, bianca e immobile, si specchiava nel fiordo che s’affacciava oltre i balconi di Asgard. Ma rottura di cosa? Non avrebbero dovuti esserci vincoli, tra di loro: questi erano i patti e lei li conosceva, si era decisa ad accettarli da tempo. Lui era il dio dell’inganno dallo spirito fiero e indomito, capace di mutare persino una sconfitta in un’occasione propizia. Era libero, tanto che nessuna catena poteva legarlo ad alcunché e così sarebbe stato per sempre, a prescindere da quello che avrebbero filato le Norne invidiose.

 

Le aveva spezzato il cuore perché si era trovato nella condizione di poterlo e volerlo fare. Si era fatto catturare dai suoi avversarsi e aveva sentito il fiato di Hela sul proprio collo, sopravvivendo per un colpo di fortuna, nient’altro, ma quella guerra Asgard l’aveva vinta soprattutto grazie al buon esito di una trattativa, discussa e definita nel letto di una regina orgogliosa e avvenente. Quella lo aveva sfidato, dicendo che non sarebbe riuscito nell’impresa di convincerla a stipulare l’alleanza necessaria agli Æsir. Loki avrebbe potuto usare altri mezzi o sotterfugi, ma alla fine si era limitato a sedurla nel modo più banale e plateale di tutti, cedendo all’istinto di sbattersela per piegarla al volere di Asgard. Se l’era scopata perché era vivo, per l’idromele che gli appannava lo sguardo, perché gli andava di farlo, per il gusto di sottrarla a Thor, che pareva essersene invaghito, persino. Per esorcizzare la morte, per tutte le ragioni e nessuna. Bugia.

Per dimostrare a se stesso di essere libero, il solo padrone del proprio destino trionfante, di futuro re; Sigyn non era un vincolo e non le spettava niente. Non era, non doveva, non avrebbe mai potuto essere l’unica. Era solo l’amante dai capelli d’oro e dai dolci occhi grigi che aveva tenuto tra le braccia durante le notti sempre troppo brevi, che si era portato a letto tante volte da perderne il conto.

Una parentesi destinata a finire, perché il dio del caos, per paradosso, doveva avere il controllo su ogni cosa, anche sul fremito di rancore e desiderio che gli pungeva il cuore e il petto quando Sigyn, che non avrebbe mai potuto possedere totalmente e davvero – troppo fedele, troppo devota alla sua arte – gli sfuggiva. Era un punto debole, una variante incontrollabile, un legame pericoloso che eludeva ogni definizione.

Così, la vittoria aveva avuto il sapore amaro di un desiderio insoddisfatto, il retrogusto di una rappresaglia che gli si era ritorta contro. Aveva abbandonato immediatamente il letto sfatto dell’altra pensando agli occhi grigi di Sigyn, alle sue forme flessuose, al sapore dei suoi baci. Era bravo sopra ogni altra cosa a distruggere ciò che gli era caro e, dato che la soddisfazione non era nella sua natura, non poteva accettare d’essere stato sconfitto dalla ragazza che aveva visto danzare davanti a un falò e, per scherzo, fissandolo, aveva girato la gonna, sollevandola fino a scoprire le caviglie sottili.

Per questo aveva fatto in modo che lei lo sapesse, lo scoprisse.

Il prezzo da pagare per essere degni dell’Hliðskjálf e governare un popolo di pirati e predoni era anche non farsi mordere il cuore dal desiderio per un’amante. Il primo e il solo pensiero doveva essere la gloria, nient’altro, perché era nato per essere re, non per rotolarsi con una ragazza qualunque nel letto. E se non era in grado di coniugare il desiderio con il ruolo che gli spettava di diritto, meglio troncare ogni rapporto nel peggiore e più ingiusto dei modi.

In fondo, un giorno, Sigyn avrebbe inevitabilmente voluto qualcosa di più, che lui non sarebbe stato disposto a concederle: allora, meglio spezzare immediatamente qualunque cosa ci fosse tra loro, prima che il risentimento avvelenasse lo sguardo di entrambi, s’infilasse nel loro letto guastando le notti passate a cercarsi, velando di un odio represso le loro carezze urgenti.

 

Mentre ballavano, Sigyn gli accarezzò i capelli scuri con nostalgia, appoggiò la testa sul suo petto: era un addio fatto senza grida, recriminazioni, ira e, per questo, ancora più doloroso, straziante. Aveva avuto il tempo di elaborare il colpo che era stato capace di infliggerle, dedusse, perché la voce del modo spavaldo e meschino con cui aveva ottenuto l’accordo doveva averla raggiunta ormai da settimane.

Sigyn forse aveva pianto tanto da consumarsi gli occhi, ma non gli avrebbe mai dato il privilegio di vederla in un simile stato. Stettero così, abbracciati, senza dirsi una sola parola, per un tempo che al dio dell’inganno parve infinito. A un tratto, lei parlò.

“Perché lo hai fatto? Non ti bastava quello che avevamo?” gli chiese, incurante degli sguardi curiosi attorno a loro, forse persino della lacrima che, Loki ne era certo, le stava bagnando le ciglia e lei, fiera, tratteneva a stento.

La mano con cui la teneva avvinta a sé risalì la schiena di Sigyn fino ad arrivare alla nuca e si perse nelle ciocche d’oro, in un’altra carezza lenta. Era la replica di un gesto identico compiuto in una notte lontana, perduta, fatto prima della guerra che li aveva divisi.

“La soddisfazione non è nella mia natura, temo,” le confessò e si rese conto di cosa le aveva fatto, si erano fatti, ma, poiché il suo petto era carico d’orgoglio, non rimpianse il suo gesto crudele nemmeno in quell’istante, anche se la desiderava ancora come la prima volta.

“Non ti bastavo?” domandò Sigyn e la sua voce finalmente si incrinò, tanto che si sciolse dall’abbraccio e lasciò la sala, incapace di restare, di attendere una menzogna o una scusa peggiori persino del gesto indegno di cui si era macchiato.

 

“Non c’era alcun vincolo, tra noi, Sigyn.”

Glielo gridò più tardi, bussando con forza alla sua porta dolorosamente chiusa, glielo disse quando lei, esasperata, lo lasciò entrare in un momento di debolezza, lo ribadì con forza mentre la stringeva a sé rubando un bacio dalle sue labbra salate, lo asserì con ingiusta insistenza mentre la faceva sua per l’ultima, disperata volta. Com’era stato facile e doloroso insieme, far l’amore con lei sapendo di averla già persa, che gli affondi febbrili dei suoi fianchi e i sospiri strozzati di Sigyn erano i sigilli che avrebbero chiuso la loro relazione. Anche se si inarcava sotto di lui cedendo inevitabilmente al piacere d’averlo, di aversi, cercava di fuggire le sue labbra, non rispondeva ai suoi baci, perché era innamorata di lui, ma non poteva perdonarlo, lo detestava dal profondo del suo cuore, ma le mancava la sua pelle, il suo profumo, forse persino il suo sorriso ironico e beffardo. Ecco perché, nonostante avesse gli occhi bagnati di pianto e lo avesse persino maledetto, era finita, ancora una volta, tra le sue braccia.

“Non c’era alcun vincolo, tra noi, Sigyn.” Non era un tentativo di giustificarsi. Provarci sarebbe stato indegno, non adatto al suo rango. Era ancora sudato e col fiato corto e lei era stata sua fino a pochi istanti prima.

Sigyn gli dava le spalle. Osservò la sua figura snella che si era rannicchiata sotto le coperte, ammirò la massa sciolta e sparpagliata dei suoi capelli sul cuscino e pensò che fosse bella e fragile e forte e che gli sarebbe stata fedele fino alla fine del tempo, fino al Ragnarok e persino oltre, se solo…

“Non c’era alcun vincolo.”

Sentendolo pronunciare quella frase, lei si strinse con più forza il lenzuolo al petto – doveva odiarsi, intuì.

“Se non c’era alcun vincolo, tra di noi, allora dimmi, principe Loki, figlio di Odino: perché hai sentito il bisogno di spezzarlo?”

Detto questo, gli chiese d’andare via e non tornare mai più con voce rotta, spezzata dal pianto. Le obbedì senza proferire parola.

Ecco com’era stato il loro addio.

 

 

 

Lo scettro ricordava, nella forma, una delle belle lance forgiate dagli Elfi o dai Nani fabbricanti di gioielli. Un’arma terribile e bellissima, che finiva con due punte affilate fatte per infilzare e strappare la carne. In mezzo alle lame, scintillava una pietra bluastra, carica d’una magia mai vista altrove. Un potere enorme, che lo attraeva con la sua luce, con la sua forza. Loki Laufeyson – perché questo era il suo nome, quello vero, non il frutto della menzogna perpetrata per anni ai suoi danni – ne valutò il peso, la robustezza. Assieme a quell’artefatto di pregevole fattura e dall’immensa capacità distruttiva, il Titano gli aveva concesso l’onore di comandare un’armata spaventosamente grande di Chitauri. Un popolo guerriero celebre per la sua abilità nei combattimenti, con cui Loki aveva già avuto a che fare, nella sua breve e intensa carriera presso Thanos. Quest’ultimo era stato laconico e secco. Il destino di quel sasso che l’Ase si ostinava a chiamare Midgard non gli interessava nel modo più assoluto: il dio dell’inganno avrebbe potuto conquistarlo e distruggerlo fino al nucleo o governarlo come signore assoluto. A Thanos non importava, purché lo scettro venisse poi restituito e il Tesseract recuperato e consegnato. Un guizzo furbo aveva illuminato, per un solo momento, lo sguardo quasi trasparente di Loki: l’idea di entrare in possesso di un potere tanto grande era allettante e stuzzicava i suoi appetiti di mago.

La reliquia rubata di Asgard si apprestava a colpire la casa perduta e ricusata nel suo punto più dolorosamente debole – quell’inutile punto nell’universo – vendicandosi, così, di una vita trascorsa all’ombra di un fratello amato e ammirato, certo, ma con cui era entrato in una competizione che s’aggrovigliava su se stessa e aveva già fatto tremare vistosamente lo scranno d’oro di Odino, ma non solo. Era stato messo a repentaglio persino l’equilibrio intero dell’Yggdrasill, il frassino sacro cui erano appesi i Nove Mondi. Cosa avrebbe fatto Thor, il protettore di Midgard, colui che aveva giurato di proteggerla con Mjollnir in pugno da ogni pericolo, se l’avesse visto raderla al suolo per diletto?

Ghignò al pensiero, perché il suo cinismo si era accentuato durante la sua permanenza tra le fila di Thanos. Con l’arma magnifica e terribile in pugno, si avviò a compiere il suo destino. L’orecchino trafugato gli batteva contro una tasca interna della corazza, all’altezza del petto. Aggrottò la fronte sentendo quel gioiello testimone di un amore eterno che lui, invece, aveva rinnegato.

 

Che fine avevano fatto i magnifici orecchini che aveva donato a Sigyn? Forse lei si era limitata a chiuderli per sempre in uno scrigno, oppure li aveva regalati o gettati via. Una decisione comprensibile, rifletté, ma s’accigliò, perché gli Æsir erano un popolo di pirati innamorati dell’oro e dei gioielli e quel pegno era troppo bello per finire sul fondo di un fiordo.

Le aveva spezzato il cuore e ogni decisione che lei aveva preso in quei lunghi anni di separazione era legittima e giusta; del resto, votare l’anima a una sola persona era una follia capace di condurre solo a una morte prematura, a una tomba condivisa, nient’altro.

La vita senza di lei era stata la storia di un principe esiliato nella vastità dell’universo, che aveva scoperto di essere stato ingannato dal proprio padre. E allora, anziché vivere come Odino aveva auspicato facesse, all’ombra di Asgard e del suo re, al servizio di una patria bugiarda e irriconoscente, meglio razziare e predare pianeti per conto di Thanos. Lontano dal trono di Padre Tutto e della saggia Frigga, del fulgido bagliore di Thor, non aveva più punti deboli o forse li possedeva ancora tutti, conficcati come pugnali nel suo petto. Tra questi, era rimasta anche lei.

 

Strano, che la consapevolezza di aver perduto l’amore della dea della fedeltà gli graffiasse ancora il cuore, aprendo una voragine nel suo petto, eppure si rese conto che era così, anche se non avrebbe mai rimpianto nulla, nessuna scelta, neanche una decisione, nemmeno quell’ultima notte strappata tra un bacio salato e un sospiro, irrecuperabile se non nei ricordi o con l’uso del seiðr.

Il sapore delle sue labbra era soltanto un ricordo perduto, che gli orrori della guerra e il sangue con cui si era sporcato le mani avevano del tutto cancellato. Prima di lasciare, con un sospiro, che il potere della Gemma rinchiusa nello scettro facesse il suo dovere corrompendolo, però, non poté fare a meno di pensare che gli sarebbe piaciuto conoscere il futuro che avrebbe avuto, se la sua scelta fosse stata diversa. Non era un pari, alla corte viziata di Thanos, ma un servo che avrebbe dovuto, un giorno o l’altro, svincolarsi dalla sua ombra e tornare a essere libero, senza legami. Questa era la sua vita lontano da Asgard, da Frigga, da lei. Valutò con acuto distacco che, con tutta probabilità, in caso di fuga il Titano lo avrebbe ucciso, magari infliggendogli una morte esemplare come potevano essere la decapitazione, l’impiccagione o, meglio ancora, lo strangolamento. Si allentò il colletto della corazza, a quel pensiero, come se un presagio oscuro fosse calato improvvisamente sulle sue spalle fiere e altere, di principe.

 

È destino che gli dèi di Asgard debbano morire, come tutti: così dice la Voluspa. La fine di Loki sarebbe avvenuta senz’altro in luogo lontano, remoto, distante anni luce dalle guglie alte e svettanti che si specchiavano in un fiordo. Purché fosse una morte degna del suo lignaggio, rifletté, il resto non aveva poi così importanza. A lui e a Sigyn non sarebbe capitato di dormire un sonno eterno l’uno accanto all’altra, come era toccato in sorte agli amanti fortunati trovati il giorno prima e questa, in fondo, era una consolazione, eppure, allo stesso tempo, non lo era, perché c’era qualcosa di perfetto, nel riposo senza tempo della coppia lontana.

Sigyn non avrebbe sfiorato mai le sue labbra già fredde.

No, il rimpianto non albergava nello spirito fiero del dio degli inganni, ma la soddisfazione non era nella sua natura perché voleva tutto, ogni cosa, anche ciò che aveva perduto.

Solo che i desideri corrodono, bruciano, tolgono lucidità.

Non sapeva rinunciare a niente e non voleva farlo nemmeno con lei, perché il ricordo del tempo passato insieme, sbiadendo i suoi contorni, non aveva assunto i toni tenui della nostalgia, ma quelli del rancore e del desiderio che non si era ancora affievolito. La sua vita non era migliorata, senza Sigyn. Eppure, saperla lontana era una consolazione, nonché il frutto di una scelta comunque sostenuta per sempre a testa alta, perché il drago, in fondo, protegge i suoi tesori dall’altrui cupidigia e anche dalla propria.

Gettò via l’orecchino – era solo un gioiello, del resto – ma pensò che, qualora gli fosse capitata l’occasione, avrebbe cercato il vero paio per non consolarsi con un monile solo somigliante.

Un giorno qualcos’altro sarebbe rimasto, a Sigyn, di lui – di loro – ma questa è un’altra storia.

 

 

Fine

 

Note Autore:

 

Cari Lettori,

 

Grazie infinite per essere arrivati fino a qui. Questa storia è un prequel della minilong “Come un vizio assurdo,” da me postata nel fandom The Avengers. Partecipa anche al contest “With or without youcon o senza te.” Obiettivo dello stesso era presentare, tramite il punto di vista di un solo personaggio, una storia che rispondesse alla domanda “meglio con te o senza di te?” e che analizzasse la vita, appunto la vita nella fattispecie di Loki con e senza Sigyn. La vicenda, come avrete notato, è ambientata tra il primo Thor e The Avengers, quindi la caratterizzazione del dio degli inganni risente molto degli svolgimenti degli altri due film. Attraverso un gioiello, Loki rivive i tratti salienti della sua relazione con Sigyn, destinata a finire. Ai momenti dolci, si contrappone un presente inquietante vissuto all’ombra di Thanos. Sebbene Loki non si penta delle azioni commesse – non sarebbe il villain che conosciamo, altrimenti – il pensiero di Sigyn è tornato prepotente nella sua testa suggerendogli che, se avesse un’altra probabilità, forse…

La storia partecipa anche al contest Ave atque Vale – Salute e Addio: Lo scopo, in questo caso, era raccontare la fine di un amore e così Loki ha l’occasione di rielaborare, attraverso il fortunoso e casuale ritrovamento di un paio d’orecchini, la sua storia d’amore con la dea della fedeltà, conclusasi tragicamente con una separazione amara e dolce assieme. Attraverso il ricordo, rivive i momenti dolci e, soprattutto, l’epilogo di questa storia. Ecco l’addio, ecco il vale. Come spesso accade nella vita reale, il commiato è spezzato dalle lacrime. Note di stile: talune ripetizioni sono efficaci ai fini della lettura, mentre per quanto concerne alcune mie scelte stilistiche (trattino – non chiuso alla fine come spesso usato da Mazzucco nelle edizioni Einaudi e virgola dopo “e”) sono da intendersi come precise scelte stilistiche e non come refusi.

Credo di aver messo in nota tutte le varie spiegazioni ♥, qui aggiungo solo questo: nel testo sono presenti vari riferimenti ai titoli di altre mie storie, tra cui: Sapevano di vino le tue labbra, Come un vizio assurdo, Fino alla fine del tempo e Ha i capelli d’oro degli Æsir. Ve le consiglio, qualora non le aveste già

 

La storia finisce in modo amaro, molto amaro ma in fondo noi sappiamo come andrà a finire. Per quanto concerne la scena finale in cui Sigyn cede alla passione nonostante la delusione e nonostante sia finita, sappiate che è stata una mia scelta precisa frutto di lunghissimi ragionamenti e riflessioni ed esperienze: trascorrere una notte insieme all’amore della propria vita in un momento simile, nonostante il dolore, è qualcosa di terribilmente umano, ma anche un modo a volte necessario per chiudere mentalmente una relazione (e Sigyn apre la porta perché Loki è un villain, ma non le farebbe mai del male, come spesso si sente in simili casi).

Se la storia vi è piaciuta, sappiate che potete lasciare un commento o inserirla nelle liste di Efp. Basta un clic o un pensiero anche brevissimo per far felice un’Autrice!

A presto e grazie per essere arrivati fino a qui,

 

Shilyss



[1] Questa, come molte altre frasi, viene da The Avengers.

[2] La “testa di ponte” è una terminologia tecnica che indica una zona che collega un’altra di rilevanza strategica.

[3] Il bistro è una polvere antichissima che si usava un tempo per truccare gli occhi. L’effetto è più polveroso del kajal, che non ho usato per la sua chiara matrice che tutto è fuorché vichinga.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3838300