Nephilim: Qui est caelum

di hey_youngblood
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 
“Okay. Ormai è tutto pronto. Ricordati il piano. Al mio tre-“
“Accendo la miccia e scappo.” Concluse l’altro al posto suo. “Sarà la ventesima volta che me lo ripeti, ho capito. Non sono stupido.” Il biondo strinse le braccia al petto, mentre metteva su un espressione offesa. Yuri ormai aveva sedici anni, e tutti continuavano a trattarlo come se fosse un bambino.
L’altro finì di nascondere il marchingegno tra le travi del pavimento e si alzò, avvicinandosi a Yuri con un’espressione di affetto. “So che non sei stupido. Ma a volte tendi a perdere il controllo e a fare come ti pare, e non ce lo possiamo permettere stavolta.” Si avvicinò a Yuri lentamente e gli mise una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, in un momento di dolcezza. Yuri lo guardò sgranando di poco gli occhi, sorpreso da quel gesto, ma non si tirò indietro.
Yuri aveva sempre ammirato e seguito le orme di Otabek, da quando Adrian, il fratello di quest’ultimo, lo aveva salvato anni prima dalla vita di strada e lo aveva portato nella loro comunità, dove vivevano lontano dagli umani e in pace con il mondo. Adrian aveva visto in lui qualcosa che lo accomunava agli altri membri della comunità, e lo aveva portato lì per proteggerlo dagli umani. A quanto pare, vi era una specie di guerra in corso e quella comunità era uno dei posti più sicuri dove crescere, per uno come lui. Otabek, di soli quattro anni più grande, si era preso cura di lui come un fratello maggiore ed un amico, e Yuri gliene era infinitamente grato. Almeno fino a quando non era stato catturato qualche mese prima, quando durante una missione andata male gli agenti lo avevano sedato e rinchiuso in una di quelle strutture dove facevano esperimenti su quelli come loro.
Otabek si rese conto di ciò che stava facendo e della reazione dell’altro, quindi fece ricadere la mano e tornò al piano. “Devi essere molto veloce, perché la bomba conterà solo fino a 15 secondi prima di esplodere, e tu dovrai necessariamente essere fuori dall’edificio per quel tempo.” Yuri lo ascoltava con completa attenzione, ne andava della propria vita e di quella dell’altro, quindi doveva essere tutto perfetto per quando il momento sarebbe arrivato. “Una volta fuori, corri fino alla porta Est della città, e aspettami dietro le vecchie mura. Da lì avrai una visione perfetta dell’edificio e saprai in anticipo se ho fallito nella mia parte del piano o no. Se entro 10 minuti non mi vedi arrivare, vattene. Torna alla comunità, e non guardarti indietro-“
“Io non ti lascio da solo!” sbottò l’altro scuotendo energicamente la testa. Non di nuovo, avrebbe voluto aggiungere. Otabek lo guardò con affetto, era felice che Yuri provasse quel tipo di sentimenti per lui, ma non poteva permettere che, nel caso di una malriuscita del piano, gli umani prendessero entrambi. Otabek aveva pianificato tutto in modo che, nel caso andasse a finire male, sarebbe stato lui quello catturato, e non Yuri. Yuri era troppo giovane, e doveva ancora sviluppare completamente le ali. I suoi poteri avevano già cominciato a manifestarsi sporadicamente, e non era ancora in grado di controllarli. No, Otabek si sarebbe sacrificato per lui. “Non ci pensare neanche, io non me ne vado finché non ti vedo arrivare. Se dobbiamo essere catturati, verremo catturati insieme.” Continuò il biondo.
Otabek si intenerì davanti a quella confessione, ma ne fu anche molto terrorizzato. Non era ciò che sarebbe dovuto succedere. Yuri sarebbe dovuto tornare alla comunità per avvertirli della sua cattura, e avrebbe dovuto restare al sicuro finché Adrian e gli altri non avessero trovato un piano per liberarlo. “No. Te lo proibisco. Ti proibisco di aspettarmi più del tempo stabilito.”
“Ma-“ provò l’altro.
“No. Niente ma, ti sto parlando come capo tuo e di questa missione. Se non te ne vai entro il tempo stabilito, verrai escluso dalla comunità. Ho già riferito questa condizione ad Adrian, quindi vedi di non infrangerla.” Otabek non aveva realmente avvertito il fratello di quella condizione, ma si ritrovò alle strette dopo la constatazione del biondo, e quindi decise di giocare sulla cosa a cui quest’ultimo più teneva: la comunità. Era stata una mossa scaltra, la sua, ma anche l’unica possibile per la salvaguardia del ragazzo a cui teneva di più al mondo.
Yuri si zittì all’istante, e si allontanò di qualche passo, destabilizzato dal tono risoluto dell’amico. Alla fine annuì, seppur contrariato, e lasciò che l’altro si allontanò verso la propria postazione. “Otabek” lo richiamò prima che questo scomparisse totalmente nel buio. Otabek, che stava per uscire dalla porta laterale dell’edificio, si fermò e si girò verso Yuri, la cui posizione era illuminata parzialmente da un fascio di luce di luna proveniente da dei finestroni posti in alto.
“Che c’è, Yuri?” Otabek vide il biondo lasciare la propria posizione e raggiungerlo a corsa, e confuso lo osservò mentre velocemente gli si avvicinava. Yuri corse verso l’amico e gli si gettò addosso, gli afferrò il viso con entrambe le mani e posò le proprie labbra sulle sue. Otabek rimase in un primo momento sconvolto, prima di ricambiare quel bacio improvviso. Afferrò entrambi i fianchi del biondo e fece scontrare le lingue in un istinto d’urgenza. Il bacio si fece disperato, poi Yuri si staccò di malavoglia e osservò l’altro negli occhi. Entrambi ansimavano per la poca aria che si erano permessi di prendere durante quell’attacco di disperata passione. “Volevo renderti consapevole, nel caso uno di noi non ce la facesse, di nuovo.” Poi si scostò dal tocco di Otabek e tornò rapidamente nella sua posizione.
Otabek, ancora parzialmente stordito, cercò di riprendersi il più velocemente possibile e indeciso uscì dall’edificio. Avrebbe voluto annullare tutto il piano, e tornare con Yuri alla comunità prima che qualcuno li scoprisse. Avrebbe voluto avere la possibilità di non perdere così tanto in una sera, in caso di malriuscita. Avrebbe voluto rinchiudersi con Yuri in una stanza, e dimostrargli tutto quell’amore che provava per lui e che, ora, sapeva che Yuri ricambiava. Ma era troppo tardi, Yuri avrebbe dovuto accendere la miccia in pochi minuti, e lui avrebbe fatto qualsiasi cosa fosse in suo potere per tornare da lui entro il tempo prestabilito.
 
Yuri accese la miccia e, come da piano, uscì dall’edificio nella metà del tempo del countdown. Corse fino alla porta Est della città e, mentre cercava di riprendere fiato, vide l’edificio accendersi nella notte e crollare davanti ai suoi occhi. Si nascose dietro le mura, mentre regolarizzava il respiro e sperava con tutte le sue forze che Otabek arrivasse in tempo. Yuri aveva voluto fargli sapere che lui lo considerava più di un amico, che il loro legame era più forte di un semplice amore fraterno. Yuri sentiva passione, desiderio, incertezza, paura, caos e non poteva permettere che una probabile nuova divisione gli impedisse di confessare i propri sentimenti. Aveva già rischiato troppo una volta.
Sette minuti dopo l’esplosione, sentì qualcuno correre trafelato verso la sua direzione e si affacciò oltre le mura, verso il passaggio che costituiva la porta Est della città. Riconobbe nel buio Otabek correre verso di lui. Anche l’altro lo aveva riconosciuto e con un gesto d’urgenza gli fece un cenno che doveva significare “nasconditi!”, ma Yuri non lo capì, e ormai, pensò Otabek, era troppo tardi, perché aveva due agenti alle calcagna che con molta probabilità avevano notato il cenno che aveva fatto, e magari avevano anche visto Yuri. Yuri doveva scappare se non voleva essere catturato, e Otabek lo stesso.
“Corri!” gli gridò allora Otabek, e Yuri uscì completamente dal nascondiglio e cominciò a correre il più veloce possibile. Otabek gli arrivò di fianco e lo superò di poco, in modo da poter indicargli la strada da percorrere. Otabek aveva perlustrato quei sentieri, perché dopo aver oltrepassato le mura della città, ci si ritrovava persi tra i boschi, migliaia di volte, e li aveva imparati a memoria, così adesso lui e Yuri potevano avere un qualche tipo di vantaggio su quei due agenti di città che magari in quei boschi ci erano passati distrattamente al massimo un paio di volte nella vita.
Girò improvvisamente a destra e Yuri lo seguì, rimasto indietro di pochi passi, poi continuarono a correre sentendo i passi dei due agenti sempre più lontani. Arrivarono ad un ponte in pietra che era lì da forse un millennio, e Otabek, dopo aver constatato che i due agenti non li avevano più alle costole, aprì le ali e spiccò in volo. La luce della luna rifletteva la sua immagine in modo tetro sulla superficie del fiume sotto di loro.
“Yuri, puoi farcela!” gridò. Yuri lo osservò stendere le ali e alzarsi in volo, ma anche se ci provò con tutte le sue forze, non riuscì a fare lo stesso. Non gli erano ancora sviluppate del tutto e, comunque, non erano ancora abbastanza forti per sostenerlo in volo.
“Non ce la faccio! Non ce la faccio!” Quando sentì in lontananza delle voci e dei passi avvicinarsi rapidamente, andò nel panico. Osservò l’acqua scura sotto di sé, e ipotizzò che fosse abbastanza alta per cui, buttandosi da quell’altezza, non si sarebbe ucciso. Si mise in piedi in bilico sulla ringhiera in pietra e, mentre le voci ed i passi si avvicinavano, chiuse gli occhi e iniziò a contare.
Otabek lo osservava e, quando capì cosa il biondo aveva intenzione di fare, planò a tutta velocità su di lui e lo spinse indietro, facendo cadere entrambi al centro della pavimentazione in pietra del ponte.
“Perché lo hai fatto?!” sbottò Yuri dopo essersi ripreso dallo shock. “Ce l’avrei fatta! Saremmo riusciti a scappare, perché mi hai fermato?”Otabek sospirò mentre sentiva che gli agenti si erano moltiplicati e ormai li stavano accerchiando. Yuri non sarebbe riuscito a scappare, a meno che non fosse riuscito ad aprire le ali e spiccare il volo, ma sapeva lui stesso che non ci sarebbe riuscito. Era ancora troppo giovane perché le ali gli si fossero sviluppate completamente, e la situazione di pochi minuti prima glielo aveva confermato.
“Perché l’altezza dell’acqua in questo punto è di a malapena un metro. Ti saresti ucciso.” Mormorò prima che due agenti lo afferrassero e lo incatenassero. Yuri osservò mentre almeno cinque agenti portavano via l’amico, prima che quelli restanti lo accerchiassero. Un bruciore su una spalla lo fece scuotere, prima di sentirsi sempre più stanco. La vista cominciò a traballare, poi a non mettere più a fuoco, a girare, per poi diventare tutto nero.

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Ehilà! 
Sto provando ancora a scrivere una fanfiction, e spero con tutto il cuore che riuscirò a portarla a termine. Ho molte idee, alcuni capitoli sono già pronti ma volevo vedere l'interessamento per questa storia prima. 
Volevo avvertirvi che il rating che ho messo (arancione) non è quello definitivo, in quanto potrebbe cambiare in rosso o giallo. 
Alcune info di background non erano mie, e dato che la mente originale di queste idee non mi risponde, ho deciso di apportare qualche modifica a nomi e storie dei personaggi, in modo che non avessi problemi.
Spero in tante recensioni, costruttive e non, che sono sempre apprezzate, e in un interesse generale abbastanza discreto per la storia.
Che dire, alla prossima! 
Un bacio, 
Carlotta.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo Primo
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La PTEA Co. aveva sede in Atlantis, una città che dava nome al luogo in cui era locata: una piccola isola del Mediterraneo vicino a Malta, invisibile dai satelliti e, soprattutto, dai servizi segreti della maggior parte dei paesi del mondo. I cittadini di Atlantis possedevano due carte d’identità: la prima, per girare e farsi riconoscere in città, delineava i caratteri reali delle persone e identificava la città natale come Atlantis; l’altra, rispondeva ai criteri mondiali, e identificava i cittadini dell’isola come cittadini di Malta. Questa soluzione era stata presa dal governo, in modo che Atlantis rimanesse sconosciuta alle persone, per motivi strettamente riservati. I cittadini avevano l’obbligo di contribuire a mantenere segreta l’esistenza dell’isola, in modo da così “vivere in pace e tranquillità dai problemi del mondo”. O almeno così diceva il governatore Joyce, così come anche tutti gli uomini influenti della città.
La sede della PTEA Co. costituiva un edificio di una decina di piani completamente a vetri. Il riflesso della luce solare dava all’edificio un colorito azzurro, riflettente il colore del cielo. L’insegna enorme al neon copriva parte delle finestre dell’ultimo piano e di notte si illuminava di un bianco freddo, con una linea interna azzurra. Era visibile da chilometri. Davanti vi era un enorme cortile composto da enormi piastrelle arancio pastello, qualche panchina, alcuni alberi da frutto che inondavano del proprio verde l’area a loro circostante, e piccoli giardini con delle aiuole.
Yuuri se ne stava seduto su una panchina, colpito in pieno dalla luce del sole, mentre osservava affascinato la facciata dell’edificio e beveva un caffè d’asporto preso ad un bar lì vicino. Non poteva credere che da quel giorno avrebbe potuto finalmente lavorare con suo padre e studiare quella specie “superiore” che erano i Nephilim. Suo padre gli aveva detto che alcuni di loro si erano proposti volontariamente agli studi e esperimenti della compagnia, e venivano trattati meglio di quanto vengono trattate le persone normali.
I Nephilim erano una specie che il governo aveva scoperto qualche anno dopo la nascita di Yuuri, qualcosa tipo quindici anni prima, e da lì alcuni scienziati tra i migliori al mondo avevano iniziato a studiarne la fisionomia e la psicologia, per vedere in che modo essi differivano dalla popolazione umana. I Nephilim, infatti, erano fisicamente identici agli umani, se non per la presenza di ali, che scaturivano dalle scapole dell’individuo a volontà dello stesso, e quelli che altri definiscono “poteri”, qualcosa che queste persone hanno in più rispetto agli umani. Ma il padre di Yuuri non si era scomposto su questo e aveva promesso di rivelare al figlio tutte le scoperte in tale ambito solo dopo che fosse subentrato nella società.
Yuuri prese l’ultimo sorso di caffè, si sistemò il nodo della cravatta leggermente storto ed entrò nell’enorme atrio, dove uomini con valigette o vestiti in giacca e cravatta andavano di fretta su o giù per le scale. Si avvicinò al bancone, dove almeno una decina di ragazze di età compresa tra i venti e i trent’anni rispondeva al telefono e impilava documenti. Una di loro si accorse di Yuuri. “Scusi, ha bisogno di qualcosa?” gli sorrise caldamente, mentre Yuuri le si avvicinava.
“Sono Yuuri Katsuki, oggi è il mio primo giorno, sono qui per ritirare il mio badge.”
La donna sgranò di poco gli occhi quando Yuuri pronunciò il proprio cognome, consapevole che suo padre era il leader dell’intera società. Le due donne sedute accanto a lei smisero di fare per un momento ciò che stavano facendo e lo osservarono stupite. “Katsuki? Come in Toshiya Katsuki, il leader della società?”
Yuuri annuì divertito. “Si, sono suo figlio.” Le tre dipendenti continuarono a fissarlo con sempre più stupore, incapaci di spiccicare parola, mentre un’altra donna, probabilmente più risoluta, si fece spazio tra loro e si rivolse a lui. “Certo signor Katsuki, siamo stati informati del suo arrivo. Se vuole seguirmi, le darò tutte le informazione necessarie per iniziare.”
“Grazie.” Mormorò Yuuri, poi osservò per l’ultima volta le tre donne che ora stavano alternando lo sguardo da lui alla collega. “Arrivederci.” E seguì quest’ultima, che lo stava aspettando qualche passo più in là, ormai fuori dalla postazione.
“Katsuki Yuuri, piacere di conoscerla, io sono Selene Shepard e sarò la sua enciclopedia, per quanto me ne possa avvalere. Se ha delle domande, me le porga pure in qualsiasi momento.” Selene camminava velocemente in quelli che dovevano essere tacchi a spillo di dodici centimetri.
Indossava un completo blu, la cui giacca le stava alla perfezione e la gonna le arrivava alle ginocchia. La camicia bianca risaltava, ed il cartellino indicava la data di nascita: 13 ottobre 2158. Aveva ventiquattro anni – uno in più di Yuuri - ma l’ordine con cui si vestiva e la crocchia perfetta in cui aveva sistemato i capelli castani le riferivano qualche anno in più, per non parlare della risolutezza e la calma con cui si rivolgeva alle persone.
Gli porse un cartellino elettronico rivestito di una copertura in plastica, attaccato ad un gancio e un nastro blu oltremare. Yuuri lo afferrò ed osservò come la propria foto, la propria data di nascita e persino il proprio nome risultassero di qualcun altro. “Questo è il suo badge, dovrà passarlo negli appositi apparecchi ogni volta che entra e esce dall’edificio, inoltre, vi sono alcune aree dell’edificio che necessitano la scansione, sempre per l’entrata e per l’uscita, perché non aperte a tutti.”
Yuuri si infilò il nastro attorno al collo e infilò il badge sotto il bottone della giacca, dopo avergli dato un’ultima occhiata. Selene si fermò e chiamò l’ascensore e Yuuri la ringraziò mentalmente perché stava già iniziando a sentire il fiatone e non sarebbe riuscito a starle dietro ancora per molto. Quando l’ascensore arrivò, Selene si scansò per farlo entrare per primo, poi entrò anche lei e digitò il numero 7.
“Ho visto che ha fatto colpo sulle mie colleghe, quando è arrivato” Selene fece un sorriso divertito, guardando verso Yuuri in modo da scorgere la sua reazione. Yuuri diventò immediatamente rosso a quella constatazione, e si agitò un poco sotto gli occhiali.
“Ah, no. C-credo fossero solamente stupite per il f-fatto che fossi il figlio del c-capo.” Rispose timidamente, nascondendo il viso in una spalla. La donna ridacchiò alla sua reazione infantile. “Io credo che lei piaccia loro, almeno a Silvia, non l’ho mai vista comportarsi così da quando ha iniziato a lavorare con me.”
“E-e da quanto l-lavora con lei?”
“Da gennaio, abbiamo fatto i test a dicembre, in modo da avere dei nuovi impiegati per l’inizio dell’anno. Molti vecchi impiegati sono andati in pensione, in quanto dipendenti della società dalla sua nascita. In più, il capo, suo padre,” Selene gli rivolse un’occhiata solo per assicurarsi che Yuuri la stesse ancora ascoltando “voleva gente giovane e più competente, in modo da migliorare alcuni aspetti della società.” Yuuri annuì mentre la porta dell’ascensore si apriva.
“Ora avrà un breve colloquio con suo padre.” Selene gli diede una leggera gomitata. Yuuri la guardò e vide la donna rivolgergli uno sguardo complice. “Ha richiesto personalmente di darvi il benvenuto.” Poi sorrise e lo superò di nuovo di qualche passo, in modo da indicargli la strada. Arrivati alla fine del corridoio, si fermò e si girò verso di lui. “Una volta finito il colloquio, mi troverà qui e la accompagnerò dal Professor Vasilyev, che è colui che lei aiuterà nelle ricerche.” Bussò ed aprì.
Fece un cenno a Yuuri per farlo entrare e questo obbedì, ritrovandosi in un caldo abbraccio paterno ancora prima di entrare completamente nell’ufficio. “Grazie Selene, puoi chiudere la porta?”
“Certo, signore.” La donna uscì e chiuse la porta dietro di sé.
“Quanto sono felice di vederti qui.” Suo padre si staccò dall’abbraccio e gli poggiò una mano sulla schiena, spingendolo a sedersi, mentre lui prendeva posto dietro la scrivania. Yuuri notò che era una gran bella scrivania in mogano scuro che doveva essere costata troppo. “Ho aspettato questo giorno per anni, e non riesco a credere che sia ormai arrivato.”
“Sono felice anc-“
“Hai avuto una buona accoglienza? Selene si è comportata bene con te? Ti ha dato il badge e tutte le informazioni che ti servivano?” Yuuri osservò dietro il padre le pareti completamente a vetri semi oscurati all’interno, da cui si aveva una panoramica magnifica su tutta la città.
“Si, cert-“
“Benissimo!” esultò Toshiya alzandosi dalla sedia e riavvicinandosi al figlio, lo fece alzare e gli mise un braccio sopra le spalle. “D’ora in poi avrai accesso libero a tutte le informazioni per cui hai tanto studiato. Sei emozionato?”
“Tantis-“
“Bene!” lo accompagnò verso la porta “Allora ci vediamo dopo.” Gli fece l’occhiolino e lo buttò letteralmente fuori dal proprio ufficio. Yuuri ci mise qualche secondo per riprendere l’equilibrio ed evitare di cadere rovinosamente davanti a Selene, che stava seduta su una sedia appoggiata al muro che non aveva mai notato prima.
“Com’è andata?” chiese cordiale. Yuuri, ancora sconcertato per il troppo eccitamento del padre, annuì distrattamente.
“Breve ma intenso… credo.” L’altra ridacchiò divertita.
 
La sua prima lezione con il Professor Vasilyev si rivelò essere più noiosa del previsto. Dopo una breve presentazione, nella quale il professore si era annotato il suo nome e quello degli altri due apprendisti su un taccuino, Vasilyev aveva allungato una cartella di plastica strapiena di fogli ad ognuno dei tre, e gli aveva intimato di tornare solamente la settimana successiva, dopo aver studiato e memorizzato tutte le informazioni contenutesi all’interno.
 
La vera prima lezione a cui Yuuri assistette, si svolse il giovedì successivo, dieci giorni precisi dal suo primo incontro con l’insegnante. Ci aveva messo più del dovuto a studiare tutti i documenti, ma solo perché di biologia, anatomia e psicologia aveva solo nozioni di base, e quindi aveva dovuto comprare qualche libro interi concetti e cercare su internet la definizione di certi vocaboli. Era stato un lavoro lungo, e Yuuri non aveva avuto il tempo di fare altro.
Quando quella mattina si era presentato all’ingresso, Selene non mancò di fargli notare, così come anche Phichit, uno degli altri due apprendisti di Vasilyev - con cui aveva preso un caffè e avuto una chiacchierata dopo il breve incontro con il professore il loro primo giorno, scoprendolo molto simpatico e affabile -, in che condizioni pietose si trovava quella mattina: con le occhiate ben visibili sotto gli occhi e la pelle cadaverica, per non parlare dei vestiti indossati alla ben’e meglio e i capelli in disordine.
Vasilyev si era presentato con quindici minuti di ritardo ai suoi allievi e con risolutezza si rivolse loro “Avete imparato a memoria i documenti?” I tre ragazzi annuirono. Vasilyev lanciò ad ognuno di loro un camice. “Bene, adesso bruciateli. Non voglio che nessuno venga a sapere delle informazioni su quei documenti. Sono stato chiaro?” i tre ragazzi annuirono ancora. “Quando avete fatto domanda per questo apprendistato, avete firmato un documento di segretezza che vi obbliga a non divulgare nessuna informazione di cui verrete a conoscenza in queste stanze, e ci aspettiamo che non siate abbastanza stupidi da farlo in ogni caso. Ogni informazione è strettamente confidenziale, per cui parenti, amici, perfino i colleghi dell’accoglienza o i vostri superiori dovranno restare all’oscuro delle nuove scoperte o di quelle vecchie. Ogni mese verrà fatto un verbale dei progressi fatti, un resoconto che consegnerò io personalmente a chi di diritto, vi verrà chiesto di dare il vostro contributo riguardo alle informazioni da scrivere, per il resto, voglio il silenzio completo.”
Vasilyev osservò attentamente gli apprendisti negli occhi,uno ad uno, per poi sospirare. “Bene, indossate il camice e andiamo.”
 
Vasilyev attraversò parecchi corridoi, a cui si poteva accedere solo se il proprio badge lo permetteva, e scese qualche rampa di scale. Yuuri sentì l’aria farsi sempre più umida, e capì di doversi trovare almeno un paio di metri nel sottosuolo. Vasilyev si addentrò in una stanza, dopo aver passato il badge nella macchina al lato della serratura, e tenne la porta aperta perché gli apprendisti potessero entrare. Yuuri sentì l’aria là dentro cambiare, e ipotizzò che ci fosse un’areazione in grado di cambiare l’aria, sostituendola con quella fresca,  24ore su 24. Si ritrovarono in una stanza buia, simile a quella da cui si osserva gli interrogatori nelle serie tv, su una parete un enorme vetro che dava una vista su un’altra stanza, molto più illuminata, simile a quella di un ospedale, di un bianco freddo. Al centro vide delle enormi catene che trattenevano un ragazzo poco più giovane di lui, quasi completamente nudo, a parte per i boxer bianchi.
Yuuri rimase scandalizzato da quell’immagine, e si sconvolse ancora di più quando, nella stanza successiva, un ragazzino ancora più piccolo del primo, forse sui quindici/sedici anni, biondo e magrissimo, era incatenato solo per un braccio al muro, mentre il resto del corpo restava inerme su un letto adiacente la parete.
Entrambi avevano delle ferite sul corpo, in corrispondenza delle catene che stringevano sulla pelle, e l’unica cosa che Yuuri riuscì a pensare fu che suo padre gli aveva mentito. Fu grato che anche gli altri due apprendisti fossero sconvolti a quella vista, si sentì vagamente meglio quando realizzò che non era stato l’unico a cui non avevano riferito estrema verità sulla questione.
“I due esemplari di Nephilim che avete appena visto sono stati presi sotto la nostra custodia solo da poco, quindi sono ancora instabili e potenzialmente pericolosi.”
Presi sotto la nostra custodia era diventato l’equivalente di rinchiusi e incatenati, perché non sembrava che quelle persone avessero salvato quei poveri ragazzi, quanto piuttosto imprigionato.
“Voi lavorerete su un esemplare che è sotto la nostra custodia da qualche mese ormai, e su cui le medicine hanno fatto il loro effetto, stabilizzandolo. Ora è più che innocuo.” Vasilyev mostrò ai tre apprendisti una terza stanza, e una terza stanza oltre ad un terzo vetro, che ospitava uomo incatenato per entrambe le braccia, seduto con la schiena contro il muro e le gambe lasciate distese di fronte a sé. Respirava ritmicamente, la testa ricoperta di capelli argentei si alzava e abbassava tranquillamente. Yuuri capì che un’altra parola che aveva preso un altro significato era stabilizzato, equivalente ormai di sedato – o drogato, chissà cosa gli iniettavano quelle persone.
Vasilyev si fermò, chiuse la porta da cui erano entrati e iniziò la lezione. “Quello che avete davanti è un esemplare ormai maturo della specie Nephilim – questo significa che la struttura delle ali e i suoi ‘poteri’ sono già completamente sviluppati da tempo.” I tre ragazzi cominciarono a prendere appunti mentre Vasilyev parlava più a ricordare a sé stesso certi dettagli, e non a riferirli ad altri.
“Nome: Victor Nikiforov. Data di nascita: 25 dicembre 2155. Altezza: 1,80 m. Peso: 85 kg. Tipo di sangue: A positivo, con qualche differenza. Non fate domande, capirete più avanti. Limitatevi a scrivere per il momento. Capelli: argentei. Occhi: azzurri. Segni particolari: tre macchie scure circolari sulla nuca. Poteri: lettura delle emozioni umane e controllo dell’aria.”
Vasilyev si fermò un secondo, probabilmente per riprendere fiato, data la velocità con cui aveva dato le informazioni. “Lo abbiamo osservato per anni prima di ottenere prove lecite per prenderlo sotto la nostra custodia.” Yuuri stava realmente iniziando ad odiare quel modo di dire. “Quell’uomo era un genio nel comportarsi come un umano, ma anche i geni sbagliano prima o poi. L’occasione è stata quando, una notte, ha spiccato il volo dal tetto del palazzo in cui abitava. Il giorno dopo ci siamo presentati nel suo ufficio e lo abbiamo condotto qui. Ha ucciso un paio di noi prima di essere sedato. E’ successo il 4 aprile di quest’anno. Lavorava come avvocato e consulente legale in uno dei migliori studi legali in città, la Kira & Co. Sicuramente la conoscerete.”
Il professore schioccò le dita contro il vetro per un paio di volte, ma l’uomo al di là non si scosse di una virgola e continuò a dormire. Yuuri si rese conto di aver trattenuto il fiato durante quel gesto. “Queste sono tutte le informazioni che dovete sapere su di lui. Anzi, probabilmente ve ne ho date anche troppe. NON fatemi altre domande. Le risposte verranno a voi nel tempo che passerete qui e se ciò non succedesse, cancellatele dalle vostre menti per sempre. Non siamo stati messi qui per chiarire i vostri dubbi. Ma per insegnarvi ciò che dovrete fare una volta diventati miei eguali. Sono stato chiaro?” continuò.
I tre annuirono sistematicamente la testa, quindi soddisfatto, Vasilyev si girò ed aprì un’altra porta. “Bene, iniziamo con il vero lavoro che farete oggi.”

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Inizio col dire che avrei dovuto pubblicare Sabato e ciò non è successo perchè ho passato l'intero fine settimana a studiare, ritrovandomi il tempo per pubblicare solo all'una di notte, tipo, quindi ho voluto aspettare e farvi una sorpresa che - forse - vi tirerà su il morale dall'inizio di questa settimana,
In secondo luogo, nonostante la mia buona volontà di pubblicare una volta a settimana - più o meno -, mancherò il prossimo appuntamento.
Non avendo tempo di scrivere da qui a lunedì prossimo, non potrò aggiornare, e perciò il capitolo, che avrebbe dovuto uscire a fine questa settimana o inizio prossima, non uscirà. O meglio, uscirà, ma più tardi, e quindi si parla di fine maggio/inizio giugno.
Spero che non perdiate interesse nella storia per questo e volevo ringraziare le quattro persone che hanno recensito il prologo: So che vi aspettavate un incontro spettacolare tra Yuuri e Victor, ma mi dispiace deludervi che non sarà niente di entusiasmante, e che dovrete aspettare ancora un po'. 
Detto questo,
spero in consigli/commenti/critiche e scleri deliranti ahahah
Vedo che la storia ha già acquistato un po' di seguito, ma si mira sempre più in alto! Quindi fatemi realmente sapere cosa ne pensate, perchè, ripeto o dico per la prima volta: questa fanfiction è un mio esercizio personale di aspirante scrittrice, e qualsiasi opinione è ben apprezzata, su, letteralmente, qualsiasi cosa: struttura della storia, delle frasi, vocabolario, ortografia, grammatica, contenuti, temi, ispirazioni ecc...
Detto questo, ci sentiamo"presto",
Carlotta.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo Secondo
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Yuri tentava vanamente di restare sveglio dopo l’ennesima iniezione, cercando di sollevare la testa e di tenere gli occhi aperti il più a lungo possibile. E ci riuscì, per qualche minuto, poi la nuova dose di sedativo iniziò a fare effetto e il suo corpo già debole non voleva saperne dei suoi capricci mentre si rilassava completamente sotto il peso della gravità. La vista gli si annebbiò di nuovo e in pochi secondi si ritrovò nel buio totale.
Si svegliò e, ritrovandosi sdraiato a terra, si alzò sgranchendosi le gambe e stirando le braccia. Era così bello essere finalmente liberi e avere la forza di stare in piedi, che per qualche attimo non si rese conto di dove si trovava. Si fermò impaurito, ritrovandosi in uno spazio infinito – non vi era all’orizzonte niente di concreto, come pareti che gli facessero ipotizzare di trovarsi all’interno di qualcosa, o figure di alberi che gli facessero domandare in che paesaggio naturale fosse finito. Ma, ora che ci pensava bene, non vi era nemmeno una linea d’orizzonte, tutto era semplicemente, completamente nero.
Andò nel panico, iniziò a dimenarsi e a correre sperando incessantemente di sbattere contro qualcosa o sentire le voci di qualcuno, ma non trovò niente. Perché non vi era niente. Quel luogo era il niente. L’unica cosa di cui era certo è che stava camminando su qualcosa di solido e perfettamente liscio, qualcosa di concreto, per il resto non poteva immaginare nient’altro.
Si lasciò cadere a sedere con le lacrime agli occhi, a metà tra la paura di non sapere in che razza di illusione fosse finito, in quanto tempo sarebbe riuscito ad uscirne, e la rabbia di essere passato da una realtà così effimera che ormai poteva sperare di presiedere per pochi minuti, prima di ricadere nell’incoscienza più totale, e una realtà che non era realtà. Una non realtà in cui tutto era nero, ma nella quale riusciva a vedere ogni dettaglio di sé stesso perfettamente – i colori dei vestiti che indossava, il colore perlaceo della sua pelle, il biondo dei suoi capelli ormai troppo lunghi -, in quanto unica cosa presente.
“Dove cazzo sono finito?” pensò portandosi le ginocchia al petto e accoccolare la testa tra le braccia. “Che cosa mi hanno fatto? Le altre volte non era così!” Le altre volte non era così… Le altre volte non era così!
Yuri alzò di scatto la testa ed osservò davanti a sé, sperando che la nuova illuminazione potesse fargli comparire qualcosa davanti, forse. “Questa non è un’illusione causata dal sedativo!” gridò, come se il nero potesse dissolversi in nuvole di fumo e lasciar trasparire la realtà in cui si trovava. I sedativi lo avevano fatto sognare parecchio, la sua mente aveva concepito figure leggendarie che non aveva mai incontrato e situazioni fantastiche che non erano mai successe, ma c’era sempre qualcosa. Ma lì non c’era niente! Non poteva essere stato il sedativo a causare quel niente. “Ma allora, dove mi trovo?”
Un’altra consapevolezza lo colpì in pieno, mentre il panico tornava a farsi sentire comprimendogli i polmoni e facendogli accelerare il battito cardiaco fino a fargli credere di svenire. “No!” Gridò al niente davanti, intorno, sopra e sotto di sé. “No!” scosse la testa, riprese a correre in una direzione indefinita – vi erano direzioni là dentro? Si potevano considerare tali? – e fece si e no pochi metri mentre le lacrime gli inondavano il volto, prima di lasciarsi cadere al suolo e sfogare il suo pianto. “Non posso essere morto!” piagnucolò battendo un pugno al suolo indefinito sotto di sé. “No!”
All’improvviso attorno a sé tutto parve inondarsi di luce intensa e Yuri osservò mentre quel buio totale si colorava di un bianco accecante che lo costrinse a chiudere per qualche secondo gli occhi. “No!” ripeté.
Tutto prese a brillare, una volta Yuri riaprì gli occhi, e pareti bianche, un pavimento a mattonelle beige, e le sagome di pensili e un frigorifero gli si pararono davanti agli occhi. Sono vivo? Quel luogo gli ricordava in modo quasi straordinario la casa dove era cresciuto, dopo che Adrian lo aveva salvato dalla strada. Si girò a quella che lui considerava destra e ci trovò la porta di legno aranciato che si aspettava di trovare. Quella porta dava su un corridoio su cui si affacciavano in ordine la camera di Adrian, quella di Otabek –nonché sua- e quella della madre, che era sempre impegnata con gli anziani della comunità e si vedeva troppo poco. Fu inondato dal profumo di curry e dalla leggera umidità del vapore acqueo che invadeva la casa dalla pentola d’acqua bollente in cui cuoceva il riso. Yuri adorava quell’odore.
Era tutto così familiare, che per un attimo credé che quella fosse la morte: vivere per sempre in un ricordo felice, in un ambiente amichevole, conosciuto, - casa – insieme ai ricordi delle persone a cui si è voluto bene e si è amato.
Il rumore di passi che si avvicinavano lo fecero risvegliare dai suoi pensieri, quindi Yuri si sbrigò ad appiattirsi contro il muro, in modo da non essere notato prima del dovuto. Otabek entrò nella stanza a passi svelti e si diresse subito alla pentola, senza degnare la stanza né tantomeno lui di un’occhiata. Si scostò un attimo dal muro per avvicinarsi.
“Beka, ma cos-” si fermò, quasi paralizzato, poi si acquattò di nuovo contro il muro in silenzio. Quelle parole le aveva sussurrate e, nell’ipotetico caso che Otabek le avesse sentite, comunque non si girò dalla sua parte, ma verso la porta da cui era appena entrato. Un altro Yuri, entrò nella stanza e Otabek guardò lui.
Yuri era sconvolto, non aveva più certezze, tutto ciò a cui aveva creduto fino a quel momento andò in frantumi. Dove sono? L’altro Yuri aveva i capelli leggermente più corti dei suoi, la pelle di un colorito più roseo, il corpo leggermente più in carne.
“Non dovresti sempre dare ragione a tuo fratello!” borbottò sedendosi sul bancone. Guardava in basso, Yuri poteva vedere le tre macchioline circolari sulla sua nuca, mentre quella specie di alter ego abbassava la testa.
“Ma lui ha ragione stavolta, Yuri” ribatté calmo l’altro, continuando a girare il mestolo nell’acqua del riso.
“Dovresti stare dalla mia parte ogni tanto.” L’altro sé chiuse i pugni che teneva sul bancone, cercando di non alzare la voce.
“Ma io sono dalla tua parte, Yuri! E’ solo che in questo caso non hai ragione, e Adrian sta comunque solo cercando di proteggere la comunità e te, soprattutto. I modi in cui lo fa possono essere discutibili, ma se pensa che sia il modo migliore per tenerci al sicuro, allora chi siamo noi per discutere? Non possiamo sapere quanta responsabilità porta il compito che è stato assegnato a mio fratello.” Otabek si girò verso l’altro Yuri e il vero Yuri si tirò istintivamente ancora più al ridosso del muro.
Yuri pensò che forse era in un vero e proprio ricordo che si trovava, ma poi l’altro Yuri abbracciò Otabek, gli sussurrò qualcosa all’orecchio che lo fece sorridere e poi se ne andò, e Yuri si rese conto che una scena del genere non era mai successa veramente. Dove sono?
Otabek riprese a cucinare con il sorriso sulle labbra, canticchiò qualche nota –come faceva sempre- di quella canzone che sua madre gli cantava quando, da piccolo, non riusciva a dormire. Quella donna , che si era presa cura anche di Yuri, gli aveva riservato lo stesso trattamento materno che riservava ai figli, e Yuri poteva dire di non aver avuto altra casa, altra famiglia, che quella.
“Beka, che sta succedendo?” Otabek fece un salto e per poco non fece cadere il mestolo. Aveva smesso di canticchiare e si era girato verso la parte della stanza dove si trovava Yuri. Yuri si staccò dal muro, rivelando la sua presenza e l’altro sgranò gli occhi, pieno di sorpresa.
“Yuri che ci fai qui? Credevo che-” Iniziò. Aveva negli occhi quello sguardo confuso di chi non si sa spiegare come qualcosa possa essere accaduto.
“Beh, credevi male.” Rispose l’altro, si avvicinò a passi lenti ma decisi e incrociò le braccia al petto con aria arrabbiata. “Chi è quel tizio? Ma soprattutto, perché è identico a me?
“Beh, fino a questo momento credevo che fossi tu, ma a quanto pare mi sbagliavo…” La sua espressione si contorse in una leggera smorfia pensosa, la fronte si aggrottò lievemente e con una mano tornò a girare l’acqua.
“Certo che ti sbagliavi! Io sono qui.”
“Non ti aspettavo,” Otabek fissò il pavimento con occhi vitrei mentre cercava una soluzione logica a quella situazione “strano.”
“A me la parte strana sembra un’altra” ribatté Yuri, che si stava infuriando, mentre dentro di lui montava l’idea che Otabek lo avesse rimpiazzato con qualcun altro, magari migliore di lui, che però aveva la sua stessa faccia. “Tipo il fatto che ci sia una sorta di mio clone e che tu lo trattavi come se fosse me.”
“Perché credevo che fossi tu, quindi non condannarmi. So come sei quando ti metti sulla difensiva.” Rispose l’altro, calmo ma serio, mentre lo rimproverava sottilmente. “E comunque non è per questo che sono confuso.”
“E allora perché lo sei!” sbottò Yuri, quasi fumante di rabbia, oltre alla sensazione di tradimento che sentiva sgorgare dalle vene e che gli faceva chiudere lo stomaco, adesso si aggiungeva anche l’irritazione di non capire minimamente di cosa l’altro stesse parlando. “Magari ti sembra strano che io sia qui invece che in una prigione dove degli scienziati maniaci mi hanno rinchiuso?”
Otabek si grattò distrattamente la testa per poi far ricadere la mano sul fianco. Yuri osservò quel gesto familiare e sentì un po’ la rabbia scendere, ma tentò comunque di tenere un certo comportamento difensivo. “No, non è neanche questo.” Rispose l’altro.
“E allora cos’è!” Yuri gettò le braccia in aria, esasperato per quella conversazione senza senso che aveva l’aria di non arrivare da nessuna parte. Si avvicinò al bancone e batté le mani sul piano in marmo, facendo risvegliare Otabek dalla sua sorta di trance. Alzò gli occhi verso di lui, aveva i capelli umidi che gli ricadevano sulla fronte e gli nascondevano sporadicamente gli occhi castani.
“Mi sa che ho capito il tuo potere, Yuri.”
Yuri strabuzzò gli occhi, ma poi si rese conto che Otabek era con lui quando per la prima volta si era manifestato il fuoco, e che era stato grazie a lui che l’intera casa non era andata a fuoco. “Si, è il fuoco. Ne abbiamo già fatta esperienza, mi pare.” Aveva detto quelle parole con sarcasmo e un sorriso divertito si formò agli angoli delle sue labbra mentre riportava alla mente l’evento.
Otabek scosse la testa, corrucciandosi al ricordo. “No, Yuri. L’altro tuo potere, ricordi? Quello che i sedativi non possono bloccare.”
Yuri ricordava le lezioni di Adrian e degli anziani che gli spiegavano la fisionomia della loro specie, ma non aveva fatto molta attenzione, perché era piccolo, e di sicuro parecchio annoiato o irritato per qualcosa. Yuri era certo che c’era stato un motivo valido per la sua disattenzione durante quelle spiegazioni. “E quindi sarebbe?” chiese.
“Cammino nelle illusioni?” Rimettendo insieme i pezzi era arrivato a quella conclusione e gli parve fosse particolarmente logico, pensando a ciò che ci era successo da quando si era svegliato al buio. Spiegherebbe anche il perché sia stato rinchiuso nel buio per un po’ prima di apparire in quella realtà: le illusioni si devono formare prima che tu ci entri dentro. Si, aveva abbastanza senso adesso.
“No, Yuri.” Otabek era serio, ma aveva negli occhi una scintilla di eccitazione, che Yuri interpretò come entusiasmo nel vedere che lui stava crescendo e che stava diventando un vero e proprio Nephilim, come del resto lo era lui stesso. “Invadi i sogni.”
 
Sentì un tonfo che fece tremare tutta la stanza, come il rombo di un tuono. E subito dopo tutto iniziò a cambiare: la stanza vacillò, alcuni oggetti svanirono, la terra tremò. Yuri si osservò attorno mentre Otabek gli si avvicinava e lo prendeva per le spalle. Yuri era terrorizzato. “Beka, che sta succedendo?” Provò a pronunciare quella domanda con la voce più ferma possibile, ma uscì solo una flebile supplica dalle sue labbra e Otabek se ne accorse.
“Mi sto svegliando, tranquillo.” Rispose abbracciandolo, mentre l’altro era irrigidito dalla paura.  “E’ che, a quanto pare, ci danno i sedativi in orari diversi e l’effetto del mio è quasi finito.”
Una scossa più grande li vece vacillare e cadere a terra. Otabek si inginocchiò il più vicino possibile a Yuri e si poggiò le mani sulle cosce, mentre osservava il biondo rialzarsi. Yuri si mise a sedere piegando le gambe davanti a sé e osservò l’amico. “Tra quanto ci rivedremo?”
Otabek gli tirò una ciocca di capelli, ora disordinati, dietro l’orecchio e con un sorriso triste puntò il proprio sguardo in quello di Yuri. “La prossima volta che il tuo potere si manifesterà, credo.” Un lampo violetto si frappose tra di loro e in meno di un secondo Otabek scomparve.
Yuri ricadde nel buio da cui era arrivato, solo che non aveva più così tanta paura di quel niente. Aveva visto Otabek, era stato reale, era stato lì. Ripensò a quando vi si era svegliato, a quello sfogo infantile in cui –comprensibilmente- si era abbandonato, e giurò che nessuno, neppure Otabek, avrebbe saputo dell’accaduto. Non voleva che il suo amico pensasse che fosse ancora un bambino impaurito, e decise di nascondere profondamente –se proprio non riusciva a dimenticarsi- dell’episodio. Doveva stare molto attento, perché Otabek era bravo ad usare il suo dono e, conoscendo Yuri meglio di chiunque altro, sapeva perfettamente dove nascondeva le sue paure e i suoi pensieri più profondi. Nonostante tutto, fino a quel momento si era sempre tirato indietro davanti a lui e aveva sempre preferito che fosse Yuri in persona a rivelargli parte di sé.
Non si sentiva stanco –almeno fino a quel momento-, ma all’improvviso sentì il peso del corpo farlo crollare a terra senza rimedio e cadde rovinosamente sul suolo nero che era quella sorta di realtà di passaggio in cui si trovava. Chiuse gli occhi inconsciamente, ormai non più in grado di tenerli aperti, e si addormentò così come vi si era svegliato.
Yuri si rigirò nel letto mentre il braccio a cui vi era la manetta d’acciaio si lamentava della poca quantità di sangue arrivatagli provocando a Yuri un leggero formicolio. Non si svegliò, e ci volle poco perché cadesse in un altro sogno, uno suo stavolta.
 
Otabek, d’altra parte, si svegliò quasi sobbalzando, poi si ricordò del luogo in cui si trovava: le catene che gli pesavano ai polsi, il muro freddo che gli congelava la schiena e le gambe, il collo che reclamava un luogo comodo su cui poggiare. Non vedeva nessuno passare davanti al vetro, né sentiva la presenza di nessuno nei paraggi, ma sapeva che di lì a poco non ci sarebbe voluto molto perché la sua stanza si riempisse di infermieri, scienziati e apprendisti.
Doveva essere interessante da un punto di vista scientifico osservare come un uomo reagiva ad un sedativo, o come individuare il punto corretto per impiantare l’ago della siringa, ma sono tutte cose che si apprezzano se non si è la cavia diretta di tali esperimenti. E neanche tutti sono in grado di farlo, alla fin fine. Otabek credeva che ci volesse sempre una certa lacuna di umanità nel fare un lavoro del genere, seppur questo avesse i suoi lati positivi sul piano del progresso scientifico e conoscitivo dell’uomo. Ma non riusciva a comprendere come fosse possibile che un essere umano fosse capace di sottometterne in tal modo un altro, e trattarlo peggio di un animale. Bisognava essere al limite dello psicopatico per fare qualcosa del genere. Come potevano mancare di così tanta compassione, pietà, rispetto, da infliggere una tale pena –a negare completamente ogni sorta di libertà data-  a qualcuno? Come potevano, individui considerati umani, mancare di ogni forma di umanità?
Mentre cercava di abituarsi alla luce fredda e intensa della stanza, la mente di Otabek sembrò realizzare solo in quel momento di ciò che fosse realmente successo, solo qualche minuto prima, con Yuri e il sogno. All’improvviso un forte mal di testa lo colpì, contorcendogli il viso il una smorfia di dolore.
“Cazzo.” Esclamò, “Grazie a dio era uno di quelli innocui.”

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Dopo una settimana infernale, sono riuscita a finire questo capitolo. Inutile dire che ero sotto l'influenza di un intenso studio di filosofia, credo si capisca perfettamente da buona parte del capitolo -soprattutto la prima-. 
Il passaggio dove Yuri decide di non rivelare a nessuno del suo attimo di debolezza è caratterizzato da motivazioni leggermente infantili, ma ci tenevo a rappresentarlo così perchè, comunque, il ragazzo ha ancora sedici anni, e volevo rendere il suo personaggio abbastanza realistico. Ci tenevo a farvelo notare, perchè molte persone hanno pareri diversi sull'argomento, e non voglio finire come quegli autori che mettono paroloni in bocca a quindicenni, i quali sono ancora incapaci di sostenerli. Non voglio sminuire nessuno con questa mia considerazione, tantomeno generalizzare, io stessa non sono molto più grande di Yuri e mi ostino a credere  di poter scrivere qualcosa di decente, ma mi rendo conto che alcuni miei ragionamenti sono piuttosto infantili, con evidente causa nell'età, ma questo è un lungo discorso su cui non voglio dilungarmi. Per riassumere, volevo dire di non condannare Yuri se magari ha pensato in modo infantile, perchè è caratteristico della sua -nostra- età.
Comunicazione importante: scrivendo questo capitolo ho capito che certe volte posso sembrare molto fredda nel descrivere certi eventi che, magari, richiedono molta passione, e che, da sola, non riesco ad accorgermene perfettamente. Quindi, sto cercando un beta che legga un anteprima del capitolo e mi aiuti a vedere ciò che io non vedo. Richiedo pochi requisiti, ma per me molto importanti, che sono: una buona conoscenza grammaticale e stilistica dell'italiano, e un parere piuttosto obbiettivo. Se qualcuno crede di possedere queste qualità e avere la voglia, nonché il tempo, di farlo, si faccia avanti e lo prenderò a braccetto, perchè sono troppo inesperta per potere insegnare realmente qualcosa a qualcuno e prenderlo sotto la mia ala. (Volevo fare un gioco di parole che però è finito male lol)
Detto questo, spero che la struttura della storia si stia lentamente rivelando, perchè ho parecchi progetti da applicarle. 
Vedo che la storia ha un buon seguito, e sono sempre felice di rispondere a domande o sentire le vostre opinioni e fare delle piccole discussioni nelle quali ci confrontiamo a riguardo, perciò se avete dubbi o trovate incongruenze -o se volete solamente sclerare un po'-, io sono sempre disponibile.
In questo capitolo abbiamo scoperto il potere di Yuri, così come Otabek e Yuri stesso, che ne pensate? Vi aspettavate un simile potere? Quale credete sia quello di Otabek?
Mi piacerebbe sentire le vostre ipotesi, perchè sono curiosissima.
Un bacio, 
Carlotta.

Ps. Non ci dovrebbero essere problemi nella pubblicazione del prossimo capitolo, perciò a presto!

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo Terzo
-

 
 
Erano ormai giorni che Vasilyev portava i suoi tre studenti nella terza stanza, quella dove, dall’altra parte di un vetro, era tenuto in custodia Victor Nikiforov, e ce li teneva per ore.
“Osservate il suo comportamento, e se per caso notate qualcosa di strano o atteggiamenti particolarmente violenti del soggetto, chiamatemi subito.” Poi se ne andava chissà dove a fare chissà cosa e li lasciava lì ore intere ad osservare un uomo tenuto in custodia in condizioni disumane, che a malapena riusciva stare sveglio a causa dei farmaci che gli somministravano.
Vasilyev aveva specificato ai suoi studenti più di una volta che non aveva tempo per loro o per le loro domande e, di solito, dopo il giornaliero discorso introduttivo in cui spiegava o consegnava qualcosa su cui poi i tre dovevano lavorare, si limitava a lasciarli al loro destino e andare a fare altro. “Dovete stare cinque ore al giorno qui, quindi una volta finite queste, potete andare a casa senza venire a cercarmi, tanto i vostri orari di entrata e uscita vengono segnati automaticamente ogni volta che passate il badge alla macchinetta presente all’ingresso.”
“Se avessi saputo che questo apprendistato sarebbe stato così entusiasmante, avrei accettato più volentieri il lavoro nel locale burlesque all’angolo della mia via. Lì di sicuro non c’è da annoiarsi.”
Phichit era diventato sempre più espansivo nell’ultima settimana, e lentamente Yuuri aveva imparato ad apprezzare la sua personalità attiva ed energica. Yuuri, al contrario, parlava poco e distrattamente rispondeva alle eventuali domande che il compagno di sventure poteva fargli. Il terzo apprendista, un ragazzo francese di cui non riusciva proprio a ricordarsi il nome, era ancora più taciturno di lui e arrivava in orario e se ne andava ancora più in orario, sempre attento a non iniziare uno scambio di battute con gli altri due.
Anche quel giorno se n’era andato alle quattro, puntuale come un orologio, mentre gli altri due restarono ancora un po’, aspettando sempre più miracolosamente una svolta. Quel giorno anche Vasilyev se n’era andato in anticipo, senza preoccuparsi di specificare a loro il perché – ma del resto, né a Yuuri né a Phichit interessava più di tanto addentrarsi nella vita privata del vecchio professore – inoltre i due ragazzi non riuscivano proprio a vedere la parte istruttiva della situazione.
Dopo un quarto d’ora, anche Phichit decise di abbandonarlo. “Come, te ne vai di già?” chiese all’altro “Di solito resti almeno fino alle cinque.”
“E’ anche vero che di solito Vasilyev non se ne va a casa alle tre.” Si congedò con un occhiolino scherzoso e si chiuse la porta alle spalle dopo essere uscito. Yuuri ormai era completamente solo, quindi decise di rivedere un po’ l’ultima di una serie di cartelle piene di documenti che Vasilyev affibbiava loro da imparare a memoria. Mentre osservava un disegno accurato del corpo di un Nephilim, si convinse sempre di più che questa specie fosse quasi in tutto e per tutto uguale a quella umana, che non ci fosse motivo per rinchiudere alcuni di loro in strutture come quella, per sedarli o per incatenarli. Ogni giorno che passava gli sembrava sempre più ingiusto che delle persone fossero trattate in quel modo e sottoposti ad esperimenti magari anche per anni.
Rimise il disegno in mezzo agli altri fogli e con uno sbadiglio prese a rigirarsi il badge tra le mani distrattamente, mentre altrettanto distrattamente sperava di non dover incontrare suo padre alla fine del suo turno. Quei colloqui serali, seppur sporadici, Yuuri non li sopportava proprio e ogni volta non vedeva l’ora di andarsene. Doveva stare ogni volta quindici minuti buoni ad ascoltare suo padre che inveiva contro l’abominio che sono i Nephilim, cercando una riconferma della sua teoria da parte del figlio, il quale annuiva fintamente interessato quando l’uomo lo osservava. Quel gesto bastava a farlo continuare per altri infiniti minuti, fino a quando Yuuri, sempre verso la stessa ora, lo interrompeva inventandosi di avere un impegno per essere finalmente lasciato libero di andarsene.
Odiava quegli appuntamenti soprattutto per il fatto che il padre non lo lasciava formulare neanche mezza frase, prima di interromperlo e continuare a monologare di qualcosa che al figlio importava quanto la consapevolezza di sapere il numero preciso di granelli di sabbia che formavano il deserto.
Yuuri giocò ancora qualche minuto con il proprio badge, prima di perdersi con lo sguardo nella stanza illuminata davanti a sé. Il Nephilim continuava a respirare ritmicamente, addormentato da ore; forse da giorni o addirittura mesi. Probabilmente quegli scienziati lo avevano indotto in un coma farmaceutico, era quindi questo che intendeva Vasilyev per stabilizzato. Strinse la matita che teneva in mano fino a spezzarla, facendolo riprendere da quella rabbia insormontabile che provava ogni volta che pensava a quelle povere persone tenute in custodia dall’altra parte di un vetro.
Osservò di nuovo il badge. L’unica cosa buona di suo padre era stato permettere al figlio di addentrarsi in qualsiasi area dell’edificio senza problemi, grazie all’aggiornamento fatto al suo badge.
Il badge! Rifletté Yuuri; aveva un badge che aveva accesso a qualsiasi area dell’edificio e se ne stava lì seduto ad osservare un vetro. Poteva fare qualcosa, poteva liberare tutti i soggetti trattenuti contro la loro volontà in quel posto, poteva farli scappare e mandare al diavolo tutti quegli esperimenti a cui lui non aveva ancora mai presenziato e tantomeno osservato i risultati.
Si alzò dallo sgabello su cui era seduto da ore e si sgranchì le gambe per evitare di cadere. Si accostò alle due porte che collegavano la stanza ai corridoi e, solo dopo aver constatato di sentire solo silenzio, si avvicinò alla terza porta dove era tenuto il Nephilim. Passò il badge nella macchinetta adiacente la serratura e la porta si aprì con un debole bip. Prese un respiro profondo ed entrò. La rabbia ormai era stata sostituita dalla paura che quell’uomo, che aveva ucciso due dei nostri prima di essere sedato, potesse all’improvviso aprire gli occhi e attaccarlo. La porta si richiuse dietro Yuuri, mentre lentamente si avvicinava all’uomo quasi completamente nudo che era seduto, con l’aria sfinita, appoggiato al muro.
Si inginocchiò davanti a lui e delicatamente gli alzò la testa. In tutti i giorni che avevano passato ad osservarlo, non gli era mai capitato di poter scorgere i lineamenti del suo viso. Ora che poteva farlo, non poté fare a meno di notare la bellezza di quel viso, nella forma degli occhi ora chiusi, nella curva del naso, nella linea della mascella e degli zigomi, nella pienezza delle labbra leggermente rosee, nella sfumatura pallida della pelle color della luna. Si ritrovò a carezzare con i polpastrelli quel viso angelico che non si credeva potesse aver ucciso qualcuno.
“Sei la prima persona che prova bellezza osservandomi da quando sono rinchiuso qui dentro.” Quelle parole uscirono in un sussurro dalle labbra che aveva sfiorato un momento prima. Yuuri lasciò la presa sul suo viso e scattò indietro d’istinto. Victor, ormai sveglio, lo osservava con occhi socchiusi, mentre sentiva la sonnolenza causata dal sedativo cercare di riportarlo nel sonno. “Ti prego, non avere paura di me.” Chiese supplichevole.
“Come-come hai fatto a capire ciò che provavo? Stavi dormendo!” sbottò il moro, diventando sempre più rosso mentre si accorgeva che aveva fatto quella domanda con il tono infantile che usava quando, da bambino, era contrariato per qualcosa. Improvvisamente ricordò gli appunti che aveva preso da Vasilyev durante la loro vera prima lezione, e si sentì uno stupido. Victor Nikiforov. Poteri: lettura delle emozioni umane e controllo dell’aria.
“Ho smesso di dormire nell’esatto momento in cui ho sentito il bip di quella porta. Credevo fosse arrivata l’ora per un’altra iniezione, ma poi ho sentito che in te non c’era altro che curiosità, un pizzico di paura, e un alone di rabbia che si è dissolto in pochi secondi.” Victor rispose biascicando parole lente e Yuuri si rese conto di quanto sedativo dovesse avere in circolo nel corpo.
Quando lo vide chiudere di nuovo gli occhi per un tempo prolungato, si avvicinò rapidamente a lui e cercò di svegliarlo di nuovo. “Ti prego, non addormentarti.” Supplicò nello stesso modo con cui prima l’altro gli aveva chiesto di non avere paura di lui. Victor riuscì ad aprire nuovamente gli occhi, e Yuuri sospirò di sollievo nel vederlo ancora sveglio. “Ho bisogno di farti alcune domande sulla tua natura e su ciò che ti è successo, ho bisogno di risposte concrete che non siano passate dai filtri di quelli scienziati ossessionati dall’idea che la vostra specie voglia conquistare il mondo. Credi di potercela fare?”
Gli occhi di Victor si aprirono un po’ di più nel capire che quello strano umano con comportamenti a volte infantili, ma interiormente puro e buono, fosse dalla sua parte. Sentì che dentro di lui vi era solamente un profondo altruismo e si decise a fidarsi di lui. “Vorrei essere in grado di dirti tutto ciò che vuoi, ma sono così stanco.” Biascicò. Yuuri riprese quel viso stordito tra le mani e gli colpì una guancia delicatamente con un palmo.
“Ti prego, non addormentarti.” Ripetè quella supplica.
Victor sentiva il calore provocato dal contatto con quel corpo dove scorreva sangue caldo, ma non riusciva che a farsi cullare proprio da quel calore, che lo stava portando a riaddormentarsi ancora. Nonostante ciò, lottava con tutto sé stesso per non ricadere il quel sonno profondo che ormai costituiva interamente la sua vita. “Prima,” riuscì a biascicare, seppur tenendo gli occhi chiusi “ho bisogno che tu diminuisca il dosaggio delle iniezioni, in modo che io riesca a restare sveglio almeno per qualche ora.”
“C-certo. Lo farò!” Yuuri sentì tra le proprie mani il respiro di Victor tornare ad un ritmo tranquillo, mentre il suo viso scivolava di nuovo verso il basso. Yuuri si trattenne ad osservare ancora per qualche secondo quel viso bellissimo, prima di uscire in fretta dalla stanza, poi dall’edificio, e tornare a casa.
Come accidenti avrebbe fatto a diminuire il dosaggio dei sedativi che venivano somministrati? Non riusciva a mettere mani neanche su dei risultati di un esperimento, figuriamoci sulle fialette o sulle siringhe contenenti chissà quale droga.
 
Esattamente cinque giorni dopo, Vasilyev constatò a sé stesso che ormai i ragazzi avevano imparato ad osservare approfonditamente un uomo che dorme, quindi stabilì che fosse arrivato il momento di passare alla fase successiva nel loro apprendistato. Quella mattina, dopo il solito discorso introduttivo, li condusse nel laboratorio  e gli insegnò come dosare i sedativi in modo da avere gli effetti desiderati.
“Una concentrazione del 60% ha una durata effettiva di sette ore; una del 40% ha durata effettiva di cinque ore; una del 20% ha una durata effettiva di tre ore.” Spiegò il professore “Non diamo mai ai soggetti una soluzione con una concentrazione più alta del 65%, perché nelle loro condizioni, soprattutto se sono sotto la nostra custodia da più di qualche settimana, non reggerebbero la dose. Una concentrazione del 65% viene usata, per esempio, quando i soggetti si dimostrano violenti o non collaborativi, all’inizio del percorso, e quindi vanno stabilizzati. Sul soggetto che avete osservato durante le ultime due settimane, la dose giornaliera prevede una concentrazione del 30%, il che significa quattro ore di incoscienza, seguite da quattro di reattività, e poi ancora da quattro di incoscienza. Sono stato chiaro?”
I tre apprendisti annuirono.
“Bene. Nei prossimi giorni vi voglio qui ad imparare creare soluzioni che partono da una concentrazione dell’1%, fino ad una del 70%. Voglio le vostre relazioni dettagliate sulla mia scrivania alla fine di ogni giornata, e che riferiscano i progressi da voi fatti.” Vasilyev consegnò dei fogli con su scritti gli ingredienti per preparare le soluzioni, poi li lasciò e seguì altri due scienziati in un’altra stanza.
“Giuro su dio che quell’uomo è la persona più antipatica che abbia mai conosciuto!” borbottò Phichit in un orecchio all’amico, che intanto cercava di dosare delle gocce in una fialetta. “Probabilmente ci metteremmo di meno se lui fosse qui a controllarci costantemente, e non dovremmo perdere tutto questo tempo inutile a giocare al piccolo chimico.”
“Probabilmente crede che sia il modo migliore per imparare.” I due ragazzi si voltarono verso il terzo apprendista, quello di cui Yuuri non ricordava il nome e che non si intratteneva mai con loro, sorpresi del suo intervento nella conversazione.
“Se però le nostre relazioni sono sbagliate, allora ci terrà qui per giorni interi finché i risultati non saranno completamente giusti, e perderemmo solo altro tempo in questo modo.” Ribatté Phichit. Yuuri ascoltava distrattamente, mentre in silenzio aggiungeva gli ingredienti alla soluzione.
“Mi sembra un metodo giusto.” Concluse il terzo. “Del resto, se sbagliamo una dose, il soggetto potrebbe anche morire, e da come sono messi non se lo possono permettere.”
Yuuri smise di fare ciò che stava facendo per dare al ragazzo francese tutta la sua attenzione. “Che cosa intendi per come sono messi?”
“Non è ovvio?” ridacchiò l’altro, mentre continuava con il suo esperimento. “Non hanno molti soggetti a disposizione, e non è facile catturarne altri data la loro meravigliosa capacità di confondersi con gli umani.” Scosse leggermente la propria fialetta e la ripose, prima di prenderne un’altra. Yuuri era  felice che qualcun altro, come lui, usasse i termini appropriati alla situazione. Catturati era più azzeccato di presi sotto la nostra custodia, pensò. “Non si possono permettere di perdere quei pochi che hanno, perché potrebbero volerci mesi prima di trovarne altri.”
 
Dopo le consuete cinque ore, i tre ragazzi erano ad un punto morto, seppure avessero lavorato costantemente durante tutto l’arco di tempo. Yuuri era arrivato alla dose di concentrazione 8%, Phichit a quella del 7% e il ragazzo francese a quella dell’11%, ma avevano ancora troppo lavoro da fare.
Come al solito il ragazzo francese fu il primo ad andarsene e a consegnare la relazione a Vasilyev, mentre gli altri due si trattennero ancora qualche decina di minuti cercando di avanzare con i propri esperimenti.
Phichit, dopo altre due soluzioni, si arrese e  verso le cinque abbandonò Yuuri, che avanzò di altre tre soluzioni, prima di lasciare anche lui il laboratorio.
Consegnata la relazione a Vasilyev, decise di fare un salto veloce dal Nephilim che insieme agli altri due aveva osservato per giorni. Aprì di nuovo la porta dopo essersi assicurato che nessuno fosse in giro, ed entrò.
Victor alzò lentamente la testa per salutarlo, per poi appoggiarla al muro dietro di sé. “Ehilà, Mr bellezza, sei riuscito a farmi abbassare il dosaggio?” biascicò mentre tentava disperatamente di tenere gli occhi aperti, un lieve sorriso divertito gli apparve sulle labbra. A Yuuri si spezzò il cuore.
Si sentiva sempre terribilmente in colpa ogni volta che osservava l’altro. Avrebbe voluto essere più veloce nel portare a termine il compito che Victor gli aveva assegnato, avrebbe voluto liberarlo e vederlo finalmente nel completo delle sue facoltà. “Non ancora, ma ci sto lavorando. Oggi abbiamo iniziato a imparare a fare le soluzioni, se le nostre relazioni sono giuste, entro una settimana dovremmo, forse, poterci avvicinare a te e farle personalmente. Da quel momento, potrò diminuire la concentrazione di sedativo che ti iniettano.”
Victor fece un lieve mugugno per confermare all’altro che aveva capito, poi aprì gli occhi azzurri lievemente offuscati e lo guardò. “Ti prego, non avere compassione per me. Mi fai sentire ancora peggio di quanto già non mi senta.”
“Non volevo offenderti. Mi dispiace se l’ho fatto.”
Victor richiuse gli occhi e mugugnò ancora qualcosa, prima di addormentarsi di nuovo. Yuuri gli scostò una ciocca di capelli argentei dal viso e si trattenne di nuovo qualche secondo di troppo ad osservare quella pelle che sembrava porcellana. Dio, se era bello.
Si alzò e in silenzio uscì dall’edificio, diretto verso casa.


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Stavolta non ho scusanti, sono stata un'idiota. Avrei dovuto pubblicare mercoledì, ma nell'ansia per un'interrogazione importante e nella fretta di partire per il mare, mi sono completamente dimenticata di pubblicare. Essendo tornata oggi dopo cinque giorni senza internet e senza computer, mi sono affrettata a pubblicare subito, perchè ve lo devo. Il capitolo era già pronto e revisionato (da Yoon_Min, che ringrazio molto, perchè come beta è eccezionale) lunedì scorso, ma, ripeto, sono stata un'idiota.
Comunque, ecco a voi il nuovo capitolo. Cosa ne pensate del primo incontro della Victuuri? Voglio sapere tutto: se ve lo aspettavate diverso, se vi ha deluso, se vi ha "entusiasmato"... Qualsiasi cosa!
Non vedevo l'ora di poter finalmente arrivare a questo punto con voi, sono così felice!
Susu, voglio sapere cosa ne pensate, perchè io sono emozionatissima.
Vi chiedo ancora scusa per questo ritardo ingiustificato e spero di sentire le vostre opinioni.
Un bacio,
Carlotta

Ps. Credo che si stia iniziando a capire un po' la struttura della storia, ma lascio a voi il responso.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo Quarto
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Quando Otabek aveva rivelato a Yuri quale fosse il suo potere aveva fatto molta attenzione alle parole da usare. No, Yuri. Invadi i sogni. Con questo intendeva precisare che Yuri invadeva i suoi sogni, più di quelli di chiunque altro, e riusciva a farlo anche non usando il proprio potere, solo recentemente scoperto.
Otabek sognava Yuri ormai da mesi, e fu solo un caso che quest’ultimo fosse finito in uno di quei sogni più innocui –per così dire. Nonostante quel bacio che il ragazzo gli aveva rivolto settimane addietro, il moro non era ancora pronto a mostrargli la propria mente, e intendeva lasciare all’altro tutta la privacy della propria.  Il Nephilim non sapeva neanche fino a che punto si fosse evoluta la loro relazione, perché non avevano avuto più tempo a disposizione da passare insieme –l’unico incontro avvenuto dopo la loro cattura era stato la settimana prima, proprio in uno dei suoi sogni e non si erano soffermati sull’argomento, per mancanza di tempo e perché la loro attenzione era rivolta ad altro. Sta di fatto che Otabek sentiva che i propri sentimenti non erano minimamente diminuiti, in quanto perdurassero già da parecchio tempo prima che il biondo gli dimostrasse la propria reciprocità. Anzi, si poteva perfettamente constatare che tali sentimenti fossero in lui quasi aumentati, in quanto non faceva altro che pensare alle condizioni di Yuri, preoccupandosi ancora di più da quando aveva scoperto il dono che questo portava.
Al momento, però, Otabek non era in grado di controllare il suo corpo, figuriamoci la propria mente, e questa era libera di dare completo sfogo di immaginazione durante le ore di sonno –che continuavano ad essere più di quelle necessarie – causando sogni e pensieri che neanche con tutta la propria forza di volontà sarebbe stato in grado di affievolire, figuriamoci annullare del tutto.
In quei giorni Otabek continuava a pensare che il dono di Yuri fosse speciale, e non solo perchè nella comunità in cui aveva vissuto tutta la vita di Nephilim aventi quel dono ne avesse visti così pochi da essere contati sulle dita di una mano, ma anche perché il dono di entrare nei sogni è potente ma al contempo molto pericoloso se non si usa la dovuta prudenza. Otabek aveva passato molto tempo sui libri a studiare gli effetti, le conseguenze e le proprietà che i doni portano con sé e aveva constatato che, seppur una camminata nei sogni di qualcuno sia desiderabile da molte persone, la verità comporta molto più di questo.
Yuri non aveva studiato quanto lui e raramente stava attento alle lezione impartitegli dagli anziani riguardo alla natura dei Nephilim, perciò ignorava quale fosse il reale potere datogli da Madre Natura. Come aveva già sperimentato da sé, un viandante può non solo osservare, ma anche avere un ruolo attivo in tutto e per tutto nella mente altrui. Questo implica che Yuri può cambiare a proprio piacimento qualsiasi cosa riguardante il sogno in cui entra, da piccoli dettagli, come cambiare il colore di un oggetto presente, a rivoltare gli eventi del sogno, far apparire persone e animali e mostri fantastici, praticamente sbizzarrire tutta la propria fantasia costruendola nella mente di qualcuno.
Può addolcire i sogni ma anche creare incubi, proprio per questo bisogna stare attenti, perché più si cambia i sogni di qualcuno e più la mente che li forma tende ad attaccarsi al viandante, cercando di inglobarlo e annetterlo a sé. Se non si è abbastanza forti si può rimanere intrappolati nella mente di qualcuno per sempre, senza via di scampo, mentre il corpo cade in un coma pressoché eterno da cui non può risvegliarsi.
Bisogna avere una grande forza mentale per essere capaci portatori di questo dono e i ragazzi che lo sviluppano vengono addestrati duramente dagli anziani –almeno nella sua comunità era così – in modo da essere capaci di scappare da una mente altrui anche nelle situazioni più disperate. Dato che Yuri non aveva avuto tale addestramento, lo portava ad essere instabile e pericoloso più per sé stesso che per gli altri, e Otabek aveva paura di perderlo per sempre.
La dose di sedativo era la stessa di sempre e dubitava che ormai qualcuno potesse abbassarla, perciò si lasciò cullare dentro l’ennesimo sonno senza riposo mentre tutto il proprio corpo si rilassava sul duro e freddo pavimento della cella.
Si sorprese e non poco quando si ritrovò in una camera da letto. Da quanto tempo non vedeva un letto o un ambiente calorosamente familiare. Dio solo sapeva quanto quella cella lo stava consumando, a causa della sua glacialità scientifica, e cambiando, in quanto non riconosceva più un ambiente, che ora si trovava davanti, come normale.
Era libero, e colse l’occasione per sgranchirsi un po’ allungando le braccia e la schiena. Si massaggiò i polsi, dove stringevano le catene vi erano lividi bluastri e graffi causati dal metallo, con un po’ di sangue rappreso sulla pelle. Era ancora in boxer e poteva osservare le macchie violacee che stanziavano sulle caviglie, simili, se non identiche, a quelle che portava sui polsi. Ritrasse le dita dei piedi a quella vista, facendole scrocchiare, poi distolse lo sguardo –sperando che quelle macchie non lasciassero cicatrici, in quanto di quell’esperienza non voleva ricordare nulla in futuro,  sempre se ci fosse un futuro oltre quell’esperienza – e si osservò meglio intorno.
Una stanza diversa da quella in cui aveva vissuto alla comunità, molto più elegante e regale.  Le pareti erano dipinte di un grigio scuro e, da quella lontananza, ricordavano per consistenza il velluto. Una finestra era coperta da tende pesanti, lunghe fino a terra, color porpora e Otabek non poté far a meno di pensare a quanto quel colore gli ricordasse il sangue rappreso che sostava sulla sua pelle. Un letto a baldacchino, probabilmente matrimoniale, si ergeva al centro della stanza, tra due comodini in legno scuro su cui due lampade rendevano soffusa l’atmosfera. Le tende del baldacchino –come quelle della finestra – , di qualche tessuto prezioso e morbido, erano aperte e lasciavano intravedere le coperte intonate che nascondevano solo in parte due cuscini color crema con l’aiuto di lenzuola dello stesso colore delle pareti. Il pavimento era ricoperto di moquette, anch’essa rosso sangue, che gli faceva il solletico ai piedi mentre lentamente si dirigeva verso il letto. Ovviamente quel colore voleva alludere a qualcosa, la sua mente riproponeva una parte di realtà su cui non aveva posto troppa attenzione da sveglio. 
Quando si sedette poté constatare in prima persona la morbidezza di quel materasso e la dolcezza con cui le coperte lo abbracciavano, sentì tutta la tensione sparire mentre tentava di ricordarsi quanto cattiva potesse diventare la mente di una persona che ha perso tutto.
Da quella prospettiva notò che, dietro a quella che era stata la sua posizione quando era arrivato, vi era una porta in legno, verniciata da poco –Otabek poteva sentirne l’odore familiare e lieve, nonostante la distanza – color crema. Pensò a cosa volesse intendere la sua mente con quell’accostamento di colori, ma certamente non poteva che fare minime ipotesi, in quanto non aveva mai studiato psicologia, o comunque qualcosa che le assomigliasse.
Con uno scricchiolio lieve la porta si aprì, rivelando un corridoio inondato di luce al suo esterno e la figura di un uomo –o meglio, un ragazzo – che entrava in quel vortice di rosso sangue ed eleganza. La figura chiuse la porta dietro di sé e si avvicinò rivelando i propri lineamenti, seppur Otabek già li avesse identificati.
“Yuri,” esclamò confuso “cosa ci fai qui?”
Yuri sorrise consapevole, mentre si osservava intorno. “Direi che è venuta fuori piuttosto bene, non trovi?” accarezzò le tende e ne sentì la morbidezza. Otabek lo osservava cercando di capire se quello fosse lo Yuri reale –entrato di nuovo nei suoi sogni – o solo l’altro Yuri, quello che i suoi sogni li invadeva da tempo, ma che di reale possedeva si e no solamente il carattere irascibile.  
“Ci sono state alcune variazioni di colori, lo ammetto.” Yuri continuava a parlare come se stesse ragionando tra sé e sé, più che parlare con l’altro. “Ho combattuto perché fosse tutto color crema, ma non c’è stato niente da fare.” Si voltò verso Otabek, piantando i propri occhi acquamarina in quelli castani del moro. “La tua mente è troppo forte per me.”
“Yuri, che ci fai qui?” ripeté Otabek, finalmente rendendosi conto che quello che aveva davanti agli occhi era lo Yuri reale. D’altra parte, l’altro Yuri aveva le fattezze più a bambino di quelle dello Yuri reale: i capelli leggermente più corti, la statura più esile e meno formata, la statura leggermente più bassa.  Del resto, erano settimane che non vedeva concretamente Yuri, e continuava ad aggrapparsi –nei propri sogni, almeno – al ricordo che aveva dell’ultima volta che si erano visti, ossia quando li avevano catturati.
Yuri scoppiò a ridere, una risata infantile e pura, senza presa in giro. “L’ho creato io! Ti piace?” allargò le braccia e girò su sé stesso, fiero di ciò che era riuscito a creare. Otabek rimase senza fiato. Com’era possibile che fosse riuscito a creare un sogno quando aveva scoperto il suo dono solo una settimana prima? Non aveva esperienza ne conoscenza di quel dono, tantomeno le capacità, data la sua condizione reale –sotto l’effetto di tutti quei sedativi che gli somministravano. Otabek era cosciente che i sedativi non toccassero le potenzialità di quel potere, come del resto non toccassero quelle del proprio –e, in generale, le potenzialità di nessun potere di quel genere –, ma sapeva anche che per camminare nei sogni era necessaria una grande preparazione fisica, oltre che mentale, e che il corpo di Yuri non era abbastanza in forma per far in modo che lui ci riuscisse. Camminare nei sogni porta via parecchia energia al corpo, e se Yuri non stava attento avrebbe potuto morire. Otabek era preoccupatissimo.
Yuri si accorse dell’espressione che l’amico aveva impressa sul volto, e subito s’incupì. “Non ti piace?” Si avvicinò al letto e vi si sedette, non molto lontano da Otabek. Cercò di afferrargli la mano, che questo aveva poggiata sul letto, ma l’altro si allontanò.
“Yuri, non dovresti sforzarti così tanto. E’ pericoloso!” esclamò. Yuri si ritrasse, sorpreso da quel cambiamento repentino di emozioni dell’amico, che si alzò dal letto e cominciò a camminare per la stanza, avanti e indietro, avanti e indietro, cercando di trovare un modo in cui Yuri potesse tornare nel suo corpo senza che questo comportasse effetti duraturi.
“Che c’è che non va?” chiese Yuri sdraiandosi sul letto. Incrociò le mani sul cuscino e vi poggiò le testa, per avere una visuale chiara dei movimenti dell’altro. “Credevo ti sarebbe piaciuto. C’ho lavorato parecchio!”
Otabek si fermò e lo fissò, la preoccupazione chiaramente visibile dai suoi occhi e la rabbia che gli faceva stringere i pugni. “E’ proprio questo il problema!” gridò. Yuri sussultò sul materasso, perché non aveva mai visto il suo amico così arrabbiato, soprattutto con lui. Non riusciva a comprendere neanche il motivo di tale rabbia, e questo lo mandava in bestia.
“Non lo so, qualche ora magari.” Rispose scuotendo le spalle. “Ancora non capisco perché tu sia così arrabbiato. Pensavo di farti un piacere.”
“Un piacere? Un piacere!” replicò l’altro, muovendosi sguaiatamente per la stanza, cercando di dare sfogo alla propria rabbia. “Al diavolo tutta la preparazione che questo dono richiede, tutte le regole stabilite per la sicurezza dei portatori e la stessa vita! Entriamo nella mente degli altri da completi inesperti e incoscienti dei rischi che corriamo per fare piacere ad un amico! Un piacere! Ti sembra che mi abbia fatto piacere?”
Otabek stava gridando e parlando troppo velocemente, metà delle cose che diceva arrivavano alla mente di Yuri un secondo troppo tardi e il ragazzo finiva per perdere la frase successiva che l’amico diceva.
“A quanto pare no.” Rispose atono, mentre la rabbia cominciava a montare dentro il suo corpo. Si era dato così tanto da fare per costruire un sogno in cui avrebbero potuto finalmente stare insieme e in pace per un po’ e Otabek non riusciva a pensare ad altro se non alla sua inesperienza. Beh, se era riuscito a creare qualcosa del genere, non doveva essere definito poi così inesperto. Non era mica cosa da tutti i giorni riuscire a creare una perfetta location –con qualche intoppo, lo ammetteva –  per un incontro romantico, neanche per i portatori di tale dono. Ne era sicuro. Eppure Otabek vedeva solo i lati negativi e ignorava il vero intento di Yuri. Che ingrato!
“Certo che no! Sei un incosciente!” continuava a gridare l’altro. Puntò il dito contro Yuri, il quale si sentì offeso profondamente dalle parole dell’amico. “Camminare nei sogni non è qualcosa che si può fare tutti i giorni! E’ un potere difficile, potente e davvero molto rischioso! Non si entra ed esce dalle menti delle persone pensando di non correre rischi! E tu stai rischiando parecchio con questo giochetto!”
“Non è un giochetto!” replicò Yuri. “E se non capisci perché l’ho fatto allora vaffanculo!” si alzò anche lui dal letto e spintonò l’amico per farlo spostare, ma la corporatura di Otabek era tale che una sua spinta non lo spostò neanche di un centimetro, e Yuri finì per sbattere contro il suo petto.
“Levati!” gridò indietreggiando. “Sei un ingrato! Volevo fare qualcosa di carino per te, in più volevo vederti, e pensavo che anche tu volessi vedere me, ma a quanto pare mi sbagliavo! Quindi togliti di mezzo!”
Otabek finalmente si calmò, capendo la vera ragione che aveva spinto Yuri a fare qualcosa completamente al di fuori della propria portata. Lui. Lo aveva fatto per lui. Invece di scansarsi, racchiuse l’altro tra le sue braccia e lo strinse forte. Yuri si dimenò all’inizio, ma poi dovette cedere al calore di quell’abbraccio, gli mancava da morire.
Quando Otabek si allontanò, nei suoi occhi vi era solamente un sentimento di puro affetto mentre guardava Yuri. Osservava i suoi lineamenti per imprimerseli bene nella mente, in modo da non dimenticarsi nemmeno un dettaglio di quel viso che amava ormai da troppo tempo.
“Certo che voglio vederti, Yuri.” Ora la sua voce era più calma, quasi un sussurro e dolcemente cullava le orecchie di Yuri, che stava cominciando a perdere confidenza con quella realtà. “E’ solo che voglio vederti nella realtà, quando saremo liberi e nessuno di noi due rischierà di morire per farlo.”
Otabek gli carezzò una guancia e Yuri sentì quel contatto familiare riscaldargli la pelle, mentre anche il più grande cominciava a sfocarsi davanti ai suoi occhi, diventando niente più che una proiezione. Il minore chiuse per un attimo gli occhi, ammaliato da quella voce che lo faceva sentire al sicuro, e quando li riaprì, solo il nero lo attorniava. Sospirò.
Otabek sentì Yuri perdere consistenza mentre ancora lo teneva fra le sue braccia, e quando scomparve si maledì mentalmente di aver rovinato quel momento in cui dovevano esistere solo loro due, ignorando completamente tutti i problemi e la situazione in cui si trovava, ignorando tutto.  Yuri però doveva iniziare a rendersi conto che il dono che portava non consisteva in un gioco.
Bastava poco perché potesse perdersi e rimanere intrappolato nella mente di qualcun altro, senza potere o volontà propria, per non parlare del corpo, che, lasciato solo, non era in grado di sopravvivere e finiva in uno status di mezzo, una specie di limbo, dal quale non sarebbe riuscito ad uscire se non con il ritorno del portatore, sempre che questo non fosse stato troppo debole. In tal caso si sarebbe lasciato morire, abbandonando il portatore del dono, al momento assente ma presente inconsciamente nella mente di qualcun altro, ad un’esistenza a metà.
Otabek si passò le mani sul viso una volta sedutosi sul letto. Non avrebbe dovuto reagire in quel modo, ma la paura di poter perdere Yuri gli aveva fatto perdere qualsiasi controllo che aveva su sé stesso. Non accettava che il minore potesse lasciare questo mondo prima che lui riuscisse a vederlo per un ultima volta, non lo avrebbe permesso.
Lasciò che la schiena colpisse il materasso, e nella morbidezza di quelle coperte, esausto, cadde in un sonno privo di sogni.

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La nostra eroina (ma quale eroina?) ce l'ha fatta!
So che è passato un mese dall'ultimo aggiornamento e chiedo venia. Giugno non è stato un buon mese, perchè ho dovuto lottare con la mia professoressa di italiano per farmi passare (avevo il 5,60 di media con tutte le altre materie sopra, alcune pure con il nove, e voleva rimandarmi) e fino all'uscita dei quadri (che è avvenuta il 19) sono stata in ansia. Si sa, l'ansia non fa bene all'ispirazione, che aveva deciso di andarsene in vacanza, fermandomi dal buttare giù anche una misera riga.
Comunque, nonostante tutto, sono riuscita a stilare questo scritto e non potrei essere più grata a Yoon_Min , perchè, nonostante i suoi enormi impegni, è riuscita a fare un'ottimo lavoro nella revisione (ed è riuscita a mettere in ordine ciò che la mia mente contorta ha buttato giù, quindi un punto in più).
Passiamo al capitolo: voglio sapere cosa vi aspettavate sarebbe successo appena avete letto della descrizione della camera, perchè ammetto che la fine del capitolo sarebbe dovuta essere più hot, ma poi boh, questo è venuto fuori, perciò sarà tutto rimandato a tempo indefinito. 
Come al solito vi ringrazio delle recensioni costruttive lasciate all'ultimo capitolo e spero in tanta partecipazione anche a questo.
Informazione importante: il 12 luglio parto per il mare, dove resterò abbandonata a me stessa fino a inizio settembre, senza wifi, perciò questo potrebbe essere l'ultimo capitolo che riesco a pubblicare durante l'estate. Potrebbe, e ripeto potrebbe, uscire un nuovo capitolo settimana prossima, se riesco a scriverlo in tempo per farlo revisionare. Se non ci riuscissi, vi auguro Buone Vacanze!
Un bacio,
Carlotta.

Ps. ho recentemente pubblicato una One-Shot Victuuri per un concorso in cui mi diletto a scrivere in uno stile che non padroneggio, se qualcuna volesse regalarmi la propria opinione in merito, vi lascio il link: Candles.
Se qualcuna di voi è appassionata di Dramione, invece, come lo sono io, vi lascio il link del primo capitolo di un nuovo progetto che riprenderò, molto probabilmente, a settembre: Predestinated
(adesso che ho fatto abbastanza pubblicità a me stessa, sparisco)

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo Quinto
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Quel giorno di metà ottobre Yuuri si alzò di presto e di buon umore. Era lunedì 13 ottobre e la temperatura aveva già cominciato a calare, costringendo gli abitanti di Atlantis ad indossare abiti leggermente più pesanti. Il vento, che non cessava neanche un secondo durante l’inverno e che d’estate sembrava abbandonare l’isola, aveva già iniziato ad accompagnare con tranquillità i propri concittadini. Le foglie degli alberi avevano già cominciato a cadere, ricoprendo le strade di vividi colori autunnali.
Yuuri si preparò un caffè e lo bevve tranquillamente leggendo il giornale. Niente di particolare catturò la sua attenzione, perciò lo richiuse e in silenzio iniziò a prepararsi. Erano passati quindici giorni da quando Vasyliev aveva dato ai suoi apprendisti il compito di preparare le soluzioni per i sedativi e, seppure questi l’avessero terminato nell’arco di una settimana, vi erano stati alcuni problemi con le relazioni, perciò il professore ordinò a tutti e tre di ricominciare da capo. Venerdì Yuuri, Pichit e Aurélien –finalmente era riuscito a ricordarsi il nome del ragazzo francese che condivideva con loro quell’avventura – avevano consegnato le loro relazioni finali e Yuuri non vedeva l’ora di sapere il risultato.
In cuor suo, in realtà, bramava di poter finalmente mettere mano alle dosi giornaliere ed essere quello che le avrebbe somministrate ai soggetti, in modo tale da poter avere mano libera sulla soluzione da iniettare.
Erano ormai due settimane che non parlava con Victor, perché si era messo in testa di dover tornare da lui solamente una volta che fosse riuscito ad attuare il piano. Victor, d’altra parte, restava cosciente per poche ore al giorno e in quei momenti, quando Yuuri lo osservava dall’altro lato del vetro, vedeva il Nephilim lottare vanamente con tutte le sue forze per restare sveglio, per poi soccombere sempre sotto la forza di quella droga che gli percorreva il corpo. Ogni volta che succedeva il ragazzo doveva distogliere lo sguardo, affinché non si sentisse troppo in colpa. Sto facendo il meglio che posso, ti prego resisti.
Una volta arrivato alla sede della PTEA Co., Yuuri entrò nell’atrio e in poche falcate superò il banco dell’accoglienza, dove sedeva Selene, intenta nel mettere in ordine una pila di documenti. La salutò da lontano e si diresse verso l’ascensore, che lo avrebbe portato ai laboratori, quando si ricordò di un fatto importante. 13 ottobre 2158. Aveva ventiquattro anni – uno in più di Yuuri. Si maledì mentalmente mentre ritornava sui suoi passi, verso il banco accoglienza.
Selene lo attendeva con un sorriso smagliante mentre, in un attimo di tranquillità, era intenta a scrivere qualcosa al computer. Quando lo vide tornare indietro, lo guardò con espressione interrogativa. “Tutto bene?”
“S-si, v-volevo solo augur-rarti buon compleanno” rispose Yuuri in imbarazzo. Perché era sempre così nervoso quando doveva parlare con le donne?
Selene, seduta dall’altra parte del bancone, rimase per un attimo spiazzata. “Oh, grazie!” rispose, mentre puntava gli occhi sul ragazzo di fronte a se. “Ma come fai a saperlo?”
Yuuri indicò il petto della ragazzo e questa si osservò addosso in tutta fretta. “Il cart-tellino. L-l’ho notato il pr-rimo giorno.”
“Ma certo!” esclamò battendosi scherzosamente una mano sulla fronte. “Ma come ho fatto a non pensarci prima! Comunque grazie. Quando potrò ricambiare?” il sorriso tornò sul viso della ragazza.
“29 Novembre” Yuuri abbassò lo sguardo.
“Perfetto! Non fare niente di potenzialmente fatale entro quel giorno.” La ragazza rise e Yuuri si congedò con un sorriso imbarazzato, dirigendosi di nuovo verso l’ascensore.
Una volta lasciati i propri effetti personali in una stanza usata come spogliatoio, nella quale li aveva riposti in un armadietto libero, raggiunse Pichit e Aurélien nell’anticamera dove, il primo giorno, avevano conosciuto il professore. Li salutò con un cenno della mano e in silenzio i tre aspettarono l’arrivo di Vasyliev. Erano arrivati tutti leggermente prima dell’orario d’entrata –probabilmente per il nervosismo causato dall’attesa di sapere i risultati delle loro relazioni –, quindi dovettero aspettare un po’ prima che qualcuno si presentasse ad accoglierli.
Quel qualcuno, per loro sfortuna, non fu Vasyliev, ma un altro scienziato che Yuuri aveva visto qualche volta nell’atto di fare ricerche o di osservare i soggetti. Era un uomo sulla cinquantina, molto alto e con l’espressione amichevole, ma non aveva mai provato ad intavolarci una conversazione.
“Mi dispiace ragazzi, ma oggi il professor Vasyliev non c’è e, dato che voi tre siete affidati a lui, non possiamo starvi dietro noialtri. Potete andare a casa.”
“Possiamo sapere il motivo dell’assenza del nostro tutor?” chiese, irritato, Aurélien allo scienziato mentre questo stava già riaprendo la porta per i laboratori.
L’uomo si fermò e osservò il ragazzo francese con un’espressione gentile. “Il professore è malato, ma non preoccupatevi, ha avvisato che tornerà domani. Prendetevi questo come un giorno libero, la vostra presenza non è richiesta qui oggi.” E se ne andò di fretta, fermando Aurélien, che era già in procinto di fargli un’altra domanda.
“Accidenti!” esclamò questo con evidente irritazione sul viso. Salutò gli altri due per poi andarsene di tutta fretta borbottando qualcosa di incomprensibile.
Yuuri si ritrovò deluso e triste mentre cercava di scacciare l’immagine di Victor dalla sua testa, convenendo che non fosse il momento per i sensi di colpa. Al contrario, Phichit era molto allegro e, mentre si dirigevano di nuovo verso gli spogliatoi, esultò per la fortuna che avevano avuto. “Ora tornerò a casa e, dopo settimane intere di studio, mi rilasserò guardando un film. Oppure potrei uscire a prendere un bicchiere, che ne dici? Bisogna festeggiare!”
Yuuri declinò subito l’offerta. “Scusa Phichit, ma oggi non sono dell’umore, un’altra volta?”
“Certo!” rispose l’altro “A domani allora.” Lo salutò mentre usciva dallo spogliatoio e tornava a casa.
Yuuri non poteva credere che, dopo tutto quel lavoro, dovesse aspettare ancora un altro giorno per potersi mettere all’azione. Che spreco di tempo! In silenzio tornò nella hall dell’edificio, visibilmente affranto dalla situazione. Mentre usciva dall’ascensore, si imbatté di nuovo in Selene, la quale era in procinto di consegnare dei fogli ad un impiegato dei piani alti, che lo fermò.
“Yuuri!” lo chiamò “Te ne vai di già?”
Ora che la vedeva per intero, poté constatare che la ragazza che aveva di fronte fosse impeccabile come sempre. Annuì tristemente. “Vasyliev è malato, quindi ci hanno d-detto di to-tornare domani.”
“Oh, che peccato.”
“Già.” Yuuri riprese la sua camminata verso l’uscita, ma Selene lo fermò posandogli una mano sul braccio.
“Comunque, prima mi sono dimenticata di dirti che stasera io e alcuni miei amici andiamo a festeggiare il mio compleanno in un bar qui vicino, il Neon Lights, lo hai mai sentito?”
Yuuri scosse la testa. “Non mi sembra, no.”
“Oh, strano. Comunque, se vuoi unirti a noi sei libero di farlo. Alle 21, puntuale.” Selene entrò nell’ascensore, che si chiuse prima che Yuuri potesse declinare, perciò si allontanò in silenzio e tornò a casa con la prospettiva di dover uscire e socializzare quella sera.

 
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“Sai, ho notato come ti guarda quando ti vede passare davanti al bancone della hall. Arrossisce e abbassa lo sguardo. E’ così tenera! Sono proprio certa che tu le piaccia.”
Yuuri era arrivato al locale puntuale come un orologio e, una volta entrato, Selene gli aveva fatto un cenno con la mano per farlo avvicinare. Lei e i suoi amici –sei o sette tra ragazze e ragazzi – erano seduti su degli sgabelli e ordinavano direttamente dal bancone del bar.
Il locale si era presentato agli suoi occhi come molto buio, solamente alcune insegne piene di ghirigori annunciava ai clienti il bancone del bar, la cassa e i bagni. Vi era una piccola pista da ballo, ma la maggior parte delle persone se ne stava seduta a dei tavoli, su dei divanetti raso muro di un acceso velluto rosso. La musica era quasi assordante ma, una volta abituatisi, Yuuri poté capire perfettamente le parole che pronunciava Selene.
“M-ma non c-ci siamo m-mai par-rlati.” Rispose Yuuri. Ancora non riusciva a comprendere come poteva piacere a qualcuno con cui aveva scambiato si e no tre parole e l’unica “relazione” che aveva era vederlo tutti i giorni all’orario di entrata e uscita di lavoro.
Selene lo guardò con un’espressione intenerita, poi con un movimento della testa gli indica il proprio gruppo di amici: tra loro vi è anche Silvia, che sorseggia in disparte un drink in un bicchiere a forma di cono capovolto. “Rimediamo subito, ti va?”
Yuuri trattenne il respiro per un attimo, com’era possibile che non si fosse accorto di lei prima? Selene sorrise e gli si avvicinò. “E’ stata lei a chiedermi di invitarti, stasera. Voleva davvero avere l’occasione per conoscerti meglio.” Poi fece l’inaspettato: invitò Silvia ad unirsi a loro.
All’inizio il ruolo di Selene come mediatrice fu di vitale importanza ma, quando vide che i due cominciavano a chiacchierare senza bisogno del suo aiuto, decise che la sua presenza fosse superflua e si tolse di torno.
I due, rimasti ormai soli, parlarono per un po’ del più e del meno e, in poco tempo, Yuuri smise di balbettare, dimostrando alla ragazza di sentirsi a proprio agio. Parlarono del lavoro –per quanto il ragazzo potesse parlarne – all’inizio, poi passarono all’argomento Hobby & Tempo Libero –non avevano troppe cose in comune, ma la ragazza era simpatica e non mancava occasione per dire qualcosa di divertente che lo facesse ridere, senza metterlo in imbarazzo.
Nel mentre, continuavano a bere drink sempre diversi, che ordinavano insieme osservando dal menù. “Certo che i nomi di questi drink sono proprio strani, non credi?” aveva esortato lei, spostando il menù verso Yuuri, in modo che potesse leggere cosa vi era scritto. “Che cosa dovrebbe essere un Las Vegas Beach?” rise. Quindi decisero di ordinare i drink con i nomi più strani che riuscivano a trovare sul menù e assaggiarli tutti.
Quando Yuuri ordinò un Pop Punk Juice, iniziò a sentire la testa girare ma, sotto l’esortazione della ragazza, che doveva aver passato il proprio limite circa due drink prima, lo scolò tutto d’un fiato.
“Ti piace ballare?” gli gridò Silvia all’orecchio, dopo essersi sporta verso di lui per assicurarsi che sentisse le sue parole sopra il trambusto della musica. Selene era già in pista, che ora si era riempita di gente, con altri due amici e si stavano scatenando su una canzone che Yuuri non conosceva.
“Credo di non aver bevuto abbastanza per farlo.” Entrambi risero a quella constatazione, poi Silvia lo prese per un braccio e lo trascinò sulla pista. Fortunatamente, Yuuri riuscì ad afferrare un drink abbandonato sul bancone, di un verde pallido con un ombrellino colorato che poggiava sul bicchiere cilindrico, e lo scolò nel tragitto che impiegarono i due ragazzi per raggiungere gli altri.
 
Quando anche quell’ultimo drink fece effetto, cominciò a scatenarsi sulla pista da ballo e, con Silvia che lo assecondava nei movimenti, si divertì tantissimo. Quando il DJ cambiò l’ennesima canzone, Yuuri si guardò attorno e vide Selene fargli l’occhiolino, mentre, circondata dai suoi amici, ballava senza sentire la stanchezza.
Le luci lampeggianti della pista da ballo non facevano altro che aumentare l’effetto di allegra confusione che l’alcol gli aveva iniettato nel corpo e il ragazzo danzava allegramente sulla melodia di un’altra canzone che non conosceva.
Ad un certo punto, non riusciva a capire quanto tempo fosse passato da quando avevano iniziato a scatenarsi, Silvia lo prese per mano e lo trascinò fuori da quell’ammasso di gente, in cerca d’aria. Quando entrambi si furono allontanati dalla pista da ballo,  Yuuri si scoprì avere il fiatone. “Che succede?”
Silvia lo guardò per un attimo prima di fiondarsi sulle sue labbra. Yuuri, inizialmente spiazzato da quel gesto improvviso, finì per lasciarle libero accesso alla propria bocca e a farsi guidare da lei fin verso il bagno. Dopo che Silvia si accertò che non vi fosse nessuno, bloccò la porta e, senza perdere altro tempo, si gettò di nuovo su di lui.
Yuuri, poco lucido per via dell’alcol, le poggiava delicatamente le mani sui fianchi, mentre sentiva quelle di lei muoversi sul proprio corpo. Il moro indossava una camicia blu su un paio di pantaloni neri di cotone. Quando aveva deciso quell’outfit, ipotizzava che la serata non sarebbe stata troppo elegante e non voleva di certo attirare l’attenzione, perciò aveva optato per qualcosa di ordinario. D’altro canto, Silvia indossava una stretta gonna nera che terminava poco sopra il ginocchio, un top bianco e un fiocco rosa acceso tra i lunghi ricci castani. Il ragazzo si chiese come potesse, in quelle condizioni, riuscire ancora a camminare sugli alti tacchi a spillo che portava ai piedi.
Mentre teneva ancora le proprie labbra sulle sue, sentì le dita di Silvia affannarsi sui bottoni della camicia e, senza farci caso, continuò a baciarla. Silvia riuscì nel suo intento dopo alcuni minuti e si riservò un secondo per osservare il fisico non proprio scolpito del ragazzo che aveva davanti. Quando posò di nuovo le labbra sulle sue, Yuuri sentì le mani della ragazza percorrergli il petto, le spalle, la schiena, mentre la pelle ormai nuda era esposta al fresco dell’abitacolo.
Silvia si staccò ancora dalle sue labbra e posò le proprie labbra tumide sul suo collo, scese fino alla clavicola riscaldando la pelle con una scia di baci umidi, percorse lo sterno, la linea degli addominali appena accennati, fino ad arrivare a baciare la leggera peluria appena al di sotto dell’ombelico.
Yuuri chiuse gli occhi mentre la ragazza gli sganciava con movimenti veloci la cintura, gli sbottonava i pantaloni e gli abbassava i boxer. Quando non sentì più alcun contatto, il ragazzo aprì gli occhi e, confuso, guardò verso la riccia, che lo osservava in attesa di un consenso. Quando lo ebbe avuto, non perse tempo e con un movimento fluido prese il suo membro in bocca.
Lui inarcò la schiena contro il muro a quel contatto, serrò istintivamente gli occhi e portò la testa all’indietro, mentre il respiro gli si spezzava e gemiti gutturali gli uscivano dalla bocca. Fu in quel momento –mentre una ragazza lo vezzeggiava con lentezza e abilità utilizzando la propria lingua – che Yuuri perse coscienza di sé.
Inconsciamente si ritrovò ad immaginare due occhi azzurri, al posto di quelli castani della ragazza, che lo osservavano dal basso, lucidi, eccitati che non catturavano completamente l’attenzione dalla pelle perlacea che sembrava risplendere di luce propria. Yuuri afferrò i capelli argentei, morbidissimi, tra le dita, cercando più contatto con quella bocca che lo stava mandando in estasi. Un gemito fuoriuscì dalle sue labbra mentre, affannato, arrivava all’apice.
Quando riaprì gli occhi e scoprì che davanti non aveva l’oggetto del suo piccolo sogno, si sentì così in colpa verso Silvia, che in tutta fretta si rivestì e se ne andò, lasciandola in quel bagno da sola, accaldata e in disordine, dopo averle mormorato uno “scusa” mentre usciva.
 
Quando arrivò a casa, la carenza di fiato, causata dalla lunga corsa intrapresa una volta uscito dal locale e terminata solamente una volta entrato in casa, lo fece piegare in due in cerca di ossigeno. L’effetto dell’alcol non era ancora svanito, ma ora che si trovava a casa non aveva più niente di cui preoccuparsi. Certo, se tralasciava il sogno fatto non più di mezz’ora prima.
Andò in bagno e, una volta davanti allo specchi          o, quasi scoppiò a piangere. Che cosa gli stava accadendo? Che cosa aveva fatto? Abbassò lo sguardo per non vedere più la propria immagine riflessa, poi si sciacquò il viso con dell’acqua gelata cercando di riprendersi. Si lavò i denti ed uscì dal bagno evitando di proposito di guardare lo specchio, si diresse verso la camera da letto e silenziosamente, con una lentezza estenuante, mentre nella sua mente miriadi di pensieri vorticavano senza sosta, si svestì e si lasciò cadere sul letto, addormentandosi solo dopo alcuni minuti.
Ho appena immaginato che Victor Nikiforov –il Nephilim che ho studiato durante le ultime settimane e che sto tentando di  liberare – mi abbia portato all’orgasmo?


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Salve a tutti! 
Come promesso -e grazie al grandissimo impegno di Yoon_Min che, nonostante gli impegni, è riuscita a lavorare perfettamente sul capitolo- sono tornata con il nuovo capitolo.
Ringrazio tutti quelli che recensiscono sempre e che mi invogliano a scrivere sempre e ad impegnarmi ogni giorno di più per portare avanti questa fanfic. Nuove voci sono sempre ben accolte, comunque.
Lo so che tutte voi vi sareste aspettate magari un altro incontro dei Victuuri, ma ho deciso di allentare un po' tutto e lasciare che quel povero cristo di Yuuri, diviso tra studio e apprendistato, si rilassasse almeno per una serata. Ops.
Che ne pensate degli avvenimenti del capitolo? Voglio sentire tante voci sull'argomento, susu, avete tanto tempo per rifletterci ed espormele.
Detto questo, ahimé! Credo che questo sia proprio l'ultimo capitolo dell'estate, ma ci rivediamo a settembre tutti belli carichi per ricominciare. Vi aspetto in tanti!
Auguro a tutti delle buone vacanze.
Un  bacio,
Carlotta.


Ps. Vi lascio ancora una volta i link dei miei altri progetti, se riuscite e avete voglia, lasciatemi i vostri commenti e pensieri anche lì: Candles (OS Victuuri) e Predestinated (nuova fanfic Dramione).

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Sono pessima, assolutamente pessima. Terribile. 
Non mi merito niente, dopo essere scomparsa per quasi due anni. Eppure, sembra che abbia smesse di scrivere qualche mese fa, mentre d'altra parte ci siamo salutate che stavo per entrare in Quinta Superiore, mentre ora ho quasi finito il primo anno di Università.
Ma le spiegazioni di tutto ciò ve le lascio a dopo il capitolo, che spero mi faccia in parte perdonare per questa assenza di per sé imperdonabile.
Buona lettura.


Capitolo Sesto
-



 
Quando, dopo il weekend, il lunedì mattina Yuuri si ritrovò di nuovo davanti all’immenso edificio che portava la firma di suo padre, non poté fare a meno di fermarsi un momento, prima di entrare, per osservarlo. In quell’edificio si svolgevano azioni disumane, eppure, dall’esterno, nessuno avrebbe potuto capirlo. Ci si aspetta, di solito, che un’organizzazione internazionale segreta resti di per sé appartata dal resto del mondo, per evitare anche un minimo cenno di attenzione da parte di chiunque ne sia inconsapevole. Tuttavia, la PTEA & Co. svettava tra gli edifici più alti della città, proprio all’incrocio di una tra le vie principali. Probabilmente il miglior travestimento è proprio quello di stare in mezzo agli altri.
Strinse i pugni mentre pensava a quanto il suo essere continuava ad ostinarsi contrario a tutte le pratiche che, nei giorni infrasettimanali, gli avevano fatto osservare e imparare. La sua mente ritornò subito al Nephilim che, poche notti prima, gli aveva assillato la testa. Sospirò nel ricordarne gli occhi azzurri; le pupille estremamente dilatate, mentre, con le guance leggermente rosee, lo fissava dal basso, facendolo godere infinitamente. Quando, inconsciamente, emise un lieve sospiro, ritornò alla realtà. Si pressò leggermente una guancia col palmo della mano e la scoprì bollente – sicuramente era arrossito! Scosse la testa, non poteva crederci che l’immagine di quella creatura per metà celestiale lo stesse assillando in quel modo, lo facesse reagire in quel modo, nonostante fosse solamente un sogno… o meglio, un’allucinazione.
Sperava che in quel giorno, come nei seguenti, non avrebbe dovuto avvicinarsi troppo a lui. Doveva cercare di calmarsi e dimenticare tutto, o poco ci avrebbe messo il biondo a percepirne le emozioni. Come avrebbe reagito? Sarebbe stato disgustato, stranito, sorpreso? Il cuore di Yuuri batteva all’impazzata mentre raggiungeva lo spogliatoio per cambiarsi. Meno ci avrebbe pensato, meno avrebbe dovuto far finta che nulla fosse successo. Anche perché, effettivamente, non era successo assolutamente nulla all’infuori della sua testa.
Quand’era passato davanti al bancone dell’accettazione, pochi minuti prima, ed aveva visto Silvia chiacchierare con un uomo in giacca e cravatta, probabilmente intenta a fornirgli qualche indicazione importante, aveva virato velocemente verso l’ascensore: non riusciva a guardarla in faccia dopo ciò che era successo; soprattutto, non riusciva a trovare una scusa per come aveva reagito a quello che era successo.
Dopo essere entrato in laboratorio, vide che Phichit era già seduto davanti al bancone con dei documenti davanti. Una ruga gli solcava la fronte mentre leggeva tra quei fogli pieni di segni rossi. Salutò Yuuri senza alzare la testa, per poi sbuffare sonoramente. “Per quante correzioni mi ha fatto quell’uomo, mi sa che devo rifare tutto!” lanciò i fogli che teneva in mano lontano da sé, sul bancone, rischiando di farli cadere.
Yuuri sorrise. “Vasilyev ha restituito i compiti sui dosaggi?” Phichit annuì frustrato, poi gli indicò con un dito l’armadietto e Yuuri si affrettò a recuperarlo. Si rimise a sedere di fronte all’amico, tirò un sospiro profondo prima di aprire il fascicolo. Non sapeva se necessitava di vedere quei fogli pieni di segni rossi, o senza neanche uno. Rifletté qualche minuto in silenzio, sotto lo sguardo spazientito di Phichit.
Non avrebbe potuto riavvicinarsi a lui in questo stato, non in quel momento; d’altra parte, però, gli tornò alla mente la difficoltà con cui il Nephilim a malapena riusciva a rimanere sveglio per pochi minuti, prima di ricadere sotto l’effetto dei farmaci, e una stretta allo stomaco gli fece venire la nausea. Doveva agire il più in fretta possibile, decise.
“Hai intenzione di aprire quell’affare o no?” gli intimò Phichit. Yuuri tornò con i piedi per terra, poi alzò la copertina del fascicolo. Vide con la coda dell’occhio l’amico avvicinarsi cautamente dall’altro lato del tavolo, mentre osservava il primo, il secondo, il terzo, poi tutto il resto dei fogli interamente intonsi: nessun segno rosso. Ce l’aveva fatta! Avrebbe potuto aiutare Victor e trovare un modo per farlo uscire di lì al più presto e –
“Che cavolo ti ridi tu?!” gli fece notare Phichit, ancora più scocciato di prima. Yuuri lo guardò, e l’amico non poté che distogliere lo sguardo dal suo: sapeva meglio di chiunque altro che non poteva prendersela con Yuuri, quando aveva visto la precisione e la concentrazione con cui aveva lavorato su quegli esperimenti. Perciò sbuffò, non potendo fare altro, cercando di sbollire quel senso di fastidio che non riusciva a scrollarsi di dosso. Non era di certo un bell’inizio settimana.
Yuuri si rese conto di aver impresso sul viso un piccolo sorriso solamente quando l’amico lo aveva rimproverato, perciò tentò in ogni modo di nascondere quella piccola felicità che provava, almeno per far un piacere a Phichit. Mentre richiudeva il proprio fascicolo e lo spostava al lato del tavolo, entrò il ragazzo francese e si sistemò vicino a loro, dopo aver preso anche lui il proprio fascicolo dall’armadietto.
Quando, finalmente, Vasilyev arrivò, intimò a Phichit e all’altro ragazzo di proporgli una relazione decente alla fine della giornata. “O starete qui finché non avrete azzeccato tutti i dosaggi!” Poi con un dito indicò a Yuuri di avvicinarsi, e gli lanciò un paio di guanti in lattice. Yuuri li afferrò al volo, dopo aver rischiato di farli cadere, poi seguì il professore. Mentre camminavano tra le celle illuminate che imprigionavano gli Aviani, si fermarono davanti a quella del ragazzino biondo che avevano osservato il primo giorno.
Vasilyev gli mise in mano un fascicolo e gli fece cenno di aprirlo. “Nome: Yuri Plisetsky. Data di nascita: 1° marzo 2176.” Lesse mentalmente. Fece un calcolo veloce e gli si strinse lo stomaco: aveva solo sedici anni. “Altezza: 1,63 cm. Peso: 50 kg. Tipo di sangue: B, con qualche differenza. Capelli: biondi. Occhi: verdi. Segni particolari: una macchia circolare sulla nuca. Potere: controllo del fuoco e viandante.” Il corpo del piccolo Nephilim lo aveva già visto in precedenza, durante il giro che il professore aveva fatto fare ai propri nuovi allievi qualche settimana prima. Era evidente che quel ragazzo non fosse ancora maggiorenne, lui stesso gli aveva dato non più di sedici anni la prima volta che lo aveva visto; in ogni caso, scoprire realmente di aver avuto ragione non gli procurava il senso di soddisfazione che avrebbe dovuto, se non altro perché rendeva tutta quella situazione ancora più terribile.
Quando si rese conto che Vasilyev lo stava ancora fissando, fisse un’espressione confusa per nascondere quella estremamente sprezzante che, era sicuro, gli aveva aleggiato sul volto per almeno qualche secondo. “Che cosa indica il termine ‘viandante’?” chiese al professore, corrugando lievemente la fronte, fingendo incomprensione.
Vasilyev sorrise, poi batte con le nocche sulla vetrata che li separava dal corpo mingherlino di quel ragazzino incosciente. Yuuri fermò lo sguardo sulla sua figura, osservandolo mentre, ammanettato alla testiera del letto, rimaneva incosciente tra le lenzuola leggere. “Significa che questo ragazzino può camminare nei sogni.”
“In che senso?” chiese Yuuri, non avendo ancora compreso appieno che cosa significasse l’espressione ‘camminare’ nei sogni. Continuò ad osservare il petto di quel ragazzo alzarsi ed abbassarsi ritmicamente, non potendo evitare di stringere le dita attorno al fascicolo che teneva in mano, fino a farle sbiancare. Grazie a dio, Vasilyev non notò quel suo gesto istintivo.
“Significa che questo corpicino, all’apparenza innocuo, può entrarti nella testa, sconvolgerti il subconscio, creare incubi ed illusioni.” Sospirò. “In pratica, se fosse alla sua massima potenza, avrebbe in sua balìa tutti noi.”
Yuuri annuì e, dopo un po’ di tempo in cui né lui né il professore avevano spiccicato parola, si decise a chiedergli che cosa ci facevano lì. Decisamente era affascinato dal sapere come funzionava quel dono, ma ne era anche consciamente spaventato. Nonostante questo, però, continuava a pensare che non dovesse trovarsi rinchiuso lì. Vasilyev sorrise ancora; Yuuri sentì il suo cambiamento d’espressione, ma si rifiutò di guardare quel volto che godeva nel fare del male ad un ragazzo così giovane. “Oggi metterai in pratica le tue doti con i dosaggi, Katsuki. Seguimi.”
 
Passò la mattinata rispondendo alle domande di Vasilyev e facendo i dovuti dosaggi al ragazzo. Lo guardò per tutto il tempo con un’espressione di scuse, nonostante il ragazzo non potesse rendersene conto, privo di sensi qual era.  Finito con lui passarono alla cella successiva, dove, proprio come Victor, un altro ragazzo giaceva seduto sul freddo pavimento, con i polsi rinchiusi in manette sopra la sua testa: anche lui l’avevano visto durante il giro di Vasilyev, ma solo adesso poteva conoscerne i tratti. Passò in rassegna anche le sue credenziali:
Otabek Altin. Nato il 31 ottobre 2172.  Aveva vent’anni. Alto 1,68 cm. Peso di 60 kg.  Occhi marroni, capelli neri. Aveva la carnagione leggermente olivastra, decisamente diversa dagli altri due Nephilim che aveva incontrato Yuuri. Come segni particolari, possedeva una decina di macchie circolari scure sulla nuca – come, d’altra parte, erano presenti sugli altri due. Magari era un segno distintivo – mentre i suoi poteri risultavano essere il controllo sull’acqua e la lettura del pensiero.
Anche con lui Yuuri aveva dovuto fare la stessa cosa che col biondo: Vasilyev gli poneva domande sulla quantità dei dosaggi, poi glieli faceva applicare. Una volta finito, Yuuri credette di dover andare anche nella cella di Victor, e si scoprì in agitazione, mentre il cuore gli aveva iniziato a battere all’impazzata. Non voleva essere lui quello ad infilargli l’ago nella pelle candida, né tantomeno il sedativo nel sistema sanguigno. Cercò di calmarsi per evitare di far sospettare il professore, ma questo non lo stava più degnando di uno sguardo.
Al contrario di quanto aveva ipotizzato – sospirò di sollievo –, però, Vasilyev lo riportò dagli altri, spiegando che il dosaggio dell’ultimo Nephilim rimasto era già stato fatto per quella mattina. Quando finalmente si congedò, Yuuri rilasciò un sospiro di sollievo e si risedette al bancone, vicino a Phichit. Questo lo osservò di sottecchi mentre con un contagocce versava un liquido bluastro in una provetta.
“Ti sei divertito?” gli fece. Quando vide il volto stanchissimo di Yuuri, però, cambiò tono. “E’ successo qualcosa?” chiese preoccupato. Yuuri scosse la testa, poi gli rispose che aveva solamente rivisto gli altri due soggetti, oltre a quello che gli avevano fatto osservare il primo giorno, per poi constatare che erano entrambi troppo giovani.
“Quanti anni hanno?” con gli occhi concentrati sulla provetta, l’amico tentava di versarci all’interno la misura giusta di una polverina bianca.
“Uno venti, l’altro sedici.” Rispose Yuuri.
“Stai scherzando.” Non era una domanda. Phichit staccò gli occhi dalla provetta per posarli sull’espressione dell’amico: era tremendamente seria, teneva gli occhi fissi sul pavimento. Phichit sbatté l’attrezzo di metallo che teneva in mano sul bancone candido, indignatissimo. “E’ sempre peggio.” Sussurrò a Yuuri, in modo da non essere sentito dal ragazzo francese, impegnato anche lui nel misurare ingredienti, a pochi metri di distanza da loro. Yuuri annuì, facendo capire all’amico che la pensava allo stesso modo, tuttavia non alzò lo sguardo da terra.
 
Quella sera, quando ormai tutti – in primis Vasilyev, come al solito – se n’erano andati, Yuuri si fermò davanti alla cella di Victor. Non era riuscito a fare altrimenti, seppur non volesse avvicinarsi, si ritrovava comunque pervaso da un’immensa voglia di vederlo. Poggiando un palmo sul vetro divisorio, ripercorse con i polpastrelli i lineamenti del Nephilim che, incosciente, teneva la testa appoggiata al muro dietro di sé.
Così reale. Yuuri sospirò. Possibile che la sua testa avesse già memorizzato in modo così dettagliato i lineamenti di quel volto tanto da riproporglielo identico a com’era in realtà? Si avvicinò al vetro, poggiandosi la fronte e tentando di respirare a fondo. Sentiva la pelle bollente, un calore che gli proveniva dal profondo del suo essere e che tentava di manifestarsi attraverso il rossore sulle sue guance e il calore che lo portava a cercare superfici fresche per mimetizzare. Riaprì gli occhi, allontanandosi dal vetro, dopo essersi lievemente calmato. Quando riportò gli occhi sul Nephilim, si scioccò nel vederlo sveglio, con gli occhi fissi su di lui. Non poté ritrarre lo sguardo, perciò si perse in quegli occhi color del ghiaccio per un tempo che gli sembrò lunghissimo. Poi, la voglia di avvicinarglisi diventò più forte, quasi insopportabile, tanto da fargli mancare il respiro.
Dimenticò tutto ciò che si era ripetuto da un paio di giorni a quella parte. Sul non volersi avvicinare, sul non voler farsi scoprire da quell’essere etereo. Agì quasi automaticamente quando afferrò il suo badge e lo passò davanti al lettore, per poi entrare. Gli occhi del Nephilim non lo avevano lasciato andare neanche per un secondo, e Yuuri sentiva il suo sguardo solleticargli la pelle mentre entrava.
E adesso che doveva fare? Era immobile, dritto vicino alla porta, e l’unica cosa che riusciva a concepire nella sua testa era l’immagine dell’uomo seduto davanti a sé, con gli occhi stanchi, seppur svegli, le labbra leggermente aperte lo riportarono inevitabilmente nella memoria di quella dannata sera. Cercò di non pensarci, ma Victor sembrava guardarlo come se sapesse già tutto, e non lo stesse giudicando. “Mr bellezza” sussurrò attraverso le labbra semi-aperte. Il cuore di Yuuri iniziò a battere all’impazzata.
“Vieni da me” supplicò il biondo, il tono supplichevole, implorante, fece stringere il suo cuore, mentre si ritrovava ammaliato dal tono di voce dell’altro. La sua mente sembrava non riuscire più a controllare le azioni del proprio corpo, e si spense completamente quando, avvicinandosi alla creatura incatenata, sentì ancora più forte quel calore propagarsi dall’interno del proprio corpo. Si sentiva in preda alla vergogna nel non riuscire a controllare ciò che provava in quel momento.
Si accucciò in silenzio all’altezza del suo bacino, non staccando mai il proprio sguardo da quello del Nephilim. Non sapeva che cosa i suoi occhi stessero dicendo in quel momento, ma la consapevolezza che, nonostante i sedativi, veniva letto dentro dall’uomo che aveva davanti, gli negò ogni forma di conversazione verbale. Non riusciva a spicciare parola, in primis perché non riusciva a mettere insieme poche parole da dirgli, poi perché si sentiva nudo davanti a lui, e ogni parola che avrebbe potuto rilasciare pareva estremamente superflua.
Victor lo osservò, in preda al rossore sulle guance, e allungò leggermente il viso verso di lui. Yuuri spalancò un po’ gli occhi sorpresa, ma anche tremendamente curioso. “Vieni da me” ripeté flebilmente, ed il moro perse completamente il lume della ragione. Sentendo quel calore incendiarsi nel proprio corpo, si fiondò sulle labbra del mezzo-angelo, facendole scontrare con le proprie violentemente. Sentì quelle labbra morbide muoversi sulle sue, e non poté fare a meno di posargli le mani sulla nuca, cercando un contatto più intimo.
Quello non era lui. Yuuri non avrebbe mai agito così di propria spontanea volontà, nel pieno della lucidità; ma era proprio per questo che non riuscì a fermarsi quando sentì la propria lingua intrecciarsi con quella di Victor. Nella ricerca di un contatto sempre più intimo, gli si sedette sul bacino, le proprie gambe ai lati dei fianchi candidi del maggiore. Sentiva il proprio cuore battere ad una velocità a cui non aveva mai battuto prima, come se volesse uscirgli dal petto.
Si baciarono a lungo, in preda ad una sensazione estatica, e solo per riprendere fiato Yuuri si staccò dal biondo, dopo molto tempo. Lo osservò da vicino: quei capelli morbidi spettinati da lui, inconsapevolmente, quando aveva portato le mani ad afferrarglieli cercando più contatto; le iridi azzurre quasi scomparse a causa della dilatazione delle pupille; le labbra arrossate, in netto contrato con le guance candide. Victor lo osservò a sua volta; impazzì alla vista di quella creatura così dannatamente ingenua che si trovava sul proprio corpo; sull’effetto che lui stesso gli faceva, portandolo ad agire in modo completamente contrastante dal suo solito. Le guance arrossate, il respiro spezzato: non sapeva quando quell’attrazione aveva iniziato a filtrarsi all’interno di lui, ma non riusciva a negarsi il piacere di quella visione. Voleva di più.
“Vieni da me” ripeté ancora una volta, e quel gemito, così dannatamente sensuale, fece rabbrividire Yuuri. Riportò le proprie labbra su quelle di Victor, e niente più sembrava avere importanza, né dove si trovavano, né la possibilità di essere visti; solo il bisogno di sentire quel corpo ancora più vicino divenne una priorità.
Yuuri agganciò le proprie dita tra i capelli argentei del Nephilim, tirandoli leggermente, mentre, col bacino si tirava più vicino, per far scontrare il proprio petto contro il suo. Un gemito gutturale risuonò nella stanza, facendogli capire che quel gesto era stato tremendamente apprezzato dall’altro.
Quando disciolse le proprie dita dai suoi capelli, fece discendere i polpastrelli in maniera impacciata lungo la nuca, poi le clavicole ed il petto del biondo. Sentiva la sua pelle fredda contro le sue dita lunghe, così nettamente in contrasto con la propria, decisamente bollente. Lo sentì irrigidire quando spinse la propria lingua ancora più in profondità nella bocca del maggiore, mentre sentiva sotto il proprio bacino una pressione che prima non c’era. Un gemito oltraggioso gli lasciò le labbra, ma non sentiva vergogna. Aveva perso ogni freno.
“Yuuri!” ansimò Victor quando l’altro aveva lasciato abbandonato la sua bocca per poter concentrare le labbra alla base del suo collo, dove lasciò baci febbricitanti, bagnati, che lo fecero sprofondare nell’estasi. Nonostante quella magnifica sensazione, la cui mancanza lo aveva trovato bisognoso per troppo tempo, Victor decise di fermarsi. “Yuuri” lo chiamò ancora, facendo sì che questo interrompesse ciò di seviziarlo per riportare i propri occhi scuri nei suoi. Mugugnò qualcosa, per fargli capire di continuare, mentre ancora ansimava. “Liberami, Yuuri.” Implorò in un ansito supplichevole.
Vide gli occhi di Yuuri riacquistare un po’ di lucidità, per poi annuire lentamente, lo sguardo intrecciato al suo. “Lo farò, Victor.” Pronunciò con tono altrettanto disperato, per poi riunire ancora le labbra con le sue, in un bacio preda del bisogno.



 
Ehilà! Io lo so che sono una persona orribile, perciò cercherò di schivare i pomodori che avete tutto il diritto di lanciarmi per questa lunghissima assenza. 
Comunque, in breve, il 2018 non è stato il mio anno. Ricordo perfettamente che nella seconda parte del 2017 ho continuato a scrivere, ho ritrovato persino le bozze di una minilong Victuuri che stavo preparando per un concorso, pensate! Ammetto che, tornata dal mare, nel 2017, mi mancava l'ispirazione per questa storia, e ciò è andato avanti finché non ho smesso completamente di scrivere per concentrarmi esclusivamente sugli studi e la maturità. Vicende personali, poi, mi hanno fatto passare un anno tremendo, sono stata giù di morale per mesi, finché non ho cambiato completamente ambiente e mi sono ripresa. Perciò eccomi qui, terribilmente dispiaciuta, sperando che non tutti abbiano abbandonato la storia o la sezione. 
Scusatemi ancora tantissimo. 
Riguardo alla storia, vi lascio una sola piccola domanda e poi me ne vado: secondo voi, quanto c'entra il potere di Victor con il cambiamento repentino di Yuuri? Lascio a voi le riflessioni.
Se poi volete leggere altro su cui mi sto cimentando al momento, vi lascio il link della mia minilong sui BTS  MIKROKOSMOS e quello di una fanfic un po' strana BTS x Harry Potter Predestined . 
Un bacio, 
Carlotta.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Capitolo Settimo
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Otabek si risvegliò ancora, accecato dall’intensità della luce lattea che inondava la sua cella notte e giorno. Strinse gli occhi più volte, cercando di farli abituare, poi si osservò intorno. La cella era, come sempre, tremendamente vuota, se tralasciava lui stesso e le catene che lo tenevano ancorato alla parete dietro di sé. Dall’altra parte del vetro la luce era spenta, nessuno osservava quella sua patetica figura, ogni giorno più debole e stanca. Doveva essere notte, pensò. Solamente nelle ore notturne quell’edificio risultava quasi vuoto, mentre, viceversa, durante il giorno osservava, quando sveglio, le stesse persone che, in camice bianco, facevano avanti e indietro tra i laboratori, che entravano nella sua cella, che controllavano i segni vitali, che preparavano i dosaggi per poi iniettarglieli nel flusso sanguigno – la solita routine.
L’unica cosa interessante accadutagli quella settimana – poteva riconoscerle passare dalla mancanza della solita quantità di personale durante il weekend – era stata quando, al posto dei soliti infermieri a fargli l’iniezione, si era presentato davanti a lui quello che tutti chiamavano il professore – un uomo anziano, dall’espressione arcigna, che portava i capelli mossi e grigiastri legati in una coda bassa sulla schiena, l’accento sensibilmente russo – con al suo seguito un ragazzo giovane, più degli altri che aveva notato lavorassero lì.
Aveva le guance piene, i capelli scuri lievemente spettinati, gli occhiali storti sul naso, la corporatura minuta gli dava un’aria innocua, mentre, con mani tremanti, preparava la dose e con una siringa gliela iniettava sotto pelle. Non tanto il suo aspetto, quanto ciò che gli aveva sentito pensare, servì a colpire la sua attenzione: Mi dispiace. Aveva proprio formulato quei pensieri, mentre lo drogava personalmente per la prima volta, a fianco del vecchio; nessuno dei due si era accorto del fatto che lui, il prigioniero, fosse cosciente e Otabek, dal canto suo, aveva fatto in modo che non se ne accorgessero, mantenendo i propri occhi chiusi, cercando di restare inerte per tutto il tempo, seppur avesse sentito il proprio corpo fremere a quell’affermazione.
Mi dispiace. Quelle parole l’avevano perseguitato per giorni – tutt’ora non gli permettevano di concentrarsi su altro – mentre si chiedeva se avesse potuto sentire male. Se, anche solo fortuitamente, il siero avesse iniziato a provocargli allucinazioni – dopotutto, l’enorme quantità a cui sottoponevano giornalmente il suo corpo non poteva non provocare nessun danno. D’altra parte, però, il momento in cui aveva sentito quelle parole era stato anche l’istante in cui l’influenza del siero aveva dovuto essere al minimo, o altrimenti non si sarebbero affrettati a procedere con un’altra iniezione. Mi dispiace. E l’aveva osservato mentre, sotto quella bomba che gli somministravano, riperdeva conoscenza. Erano bastati pochi attimi per far reagire Otabek che, dalla situazione disperata in cui si trovava, finalmente – finalmente – aveva trovato qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa di terribilmente pericoloso da fare, in quel luogo desolato – una speranza.
Doveva essersi bevuto il cervello; non si sarebbe sorpreso se un attaccamento di quel tipo verso un ragazzo non troppo più grande di lui, che si era mostrato gentile ai suoi occhi – o meglio, alla sua mente –, fosse derivato solamente dall’estremo sconforto che lo pervadeva. A peggiorare la situazione, stava il fatto che faticava a tener nascosta la cosa a Yuri: che si trattasse di quella stramaledetta sensazione che provava oppure di quella figura che, di tanto in tanto, gli balenava nella mente. Era certo di non provare assolutamente niente per quel ragazzo, non aveva nessun dubbio che i propri sentimenti fossero concentrati tutti su un unico soggetto.
D’altra parte, però, non aveva idea di come avrebbe reagito l’altro se fosse venuto a conoscenza del fatto che i propri pensieri non fossero dedicati, seppur in maniera totalmente differente, solamente a lui. Prima di addormentarsi, pregava mentalmente due cose: la prima, che Yuri non decidesse di fare un salto nella sua mente proprio in quei giorni, e la seconda, che la sua mente non gli giocasse il brutto scherzo di raffigurare tra i personaggi di un qualche suo sogno proprio quell’assistente? aspirante? apprendista? – insomma, ciò che quel ragazzo doveva essere.
Erano passati ormai giorni da quando quel giovane si era mostrato ai suoi occhi, e da quel momento aveva inconsciamente sperato di rivederlo. Ogni qualvolta che sentiva il suono elettrico della porta che si apriva, si affrettava a serrare gli occhi, a cercar di sentire i pensieri di chi entrava. Il problema di quel suo potere, è che non poteva leggere i pensieri di chiunque: molti erano i modi per contrastarlo, per chiudere la propria mente e renderla impenetrabile, come altrettanti modi esistevano per aprirla con la forza, una tortura per chi subiva quei trattamenti. Nelle condizioni in cui si trovava al momento, così tremendamente indebolito dal siero che gli iniettavano almeno un paio di volte al giorno, non era capace di entrare nella testa di nessuno, a meno che questo non avesse voluto che lui sentisse ciò che stava pensando. Questo significava che quel ragazzo sapeva che lui poteva sentirlo, che aveva fatto in modo di essere sentito. Se un assistente? aspirante? apprendista? era informato sul suo potere, probabilmente anche tutto le altre persone con cui veniva in contatto ogni giorno sapevano. Forse era questo ciò che quel ragazzo aveva cercato di fargli sapere. In alternativa, poteva essere stato mandato come infiltrato dalla propria comunità, ma non lo considerava minimamente possibile: il gruppo in cui aveva vissuto fin da piccolo non era grandissimo, una colonia di non più di tremila individui, inutile dire che si conoscessero tutti a memoria.
L’unica possibilità, riguardo questa ipotesi, era che fosse stato mandato da un’altra comunità di Aviani, con cui la propria aveva contatti e che condivideva gli stessi obiettivi: nonostante fosse a conoscenza della rete tra le comunità di Aviani, le quali si impegnavano ad aiutarsi reciprocamente contro un comune nemico e nel preservare quelli come loro, senza lotte di supremazia o altro, l’ipotesi sembrava ancora poco probabile. Anche per il fatto che nessuno rischierebbe la propria vita entrando in una struttura come quella, non se non era coperto dai propri. Aveva visto le azioni, seppur casualmente, di altre comunità, e poteva confermare che non era quello il modo d’agire a loro comune.
Sospirò, poi scosse lievemente la testa, che sentiva pesante sul collo, mentre cercava di far sparire quei pensieri. La verità era che stava scivolando lentamente nell’avvilimento più totale. Si era chiesto molte volte per quanto tempo quegli umani avessero deciso di tenerli rinchiusi in quel modo, e non aveva mai voluto formulare a parole la risposta. Mentre il tempo avanzava, capiva che, probabilmente, non sarebbe mai uscito vivo da lì. Ovviamente loro non lo avrebbero lasciato andare volontariamente, ed era terribilmente scontato, considerando tutto ciò che si stavano permettendo di fare. Non si tratta in un modo simile una persona che può uscire e raccontare. Tuttavia, le speranze che aveva mantenuto intatte su un aiuto dall’esterno si andavano affievolendo giorno dopo giorno; non si sarebbe sconvolto se, alla fin fine, avesse scoperto che quel ragazzo non era realmente un’opzione a cui aggrapparsi. In ogni caso, sentiva di essere all’inizio di un percorso in cui avrebbe perso sé stesso, e questo lo spaventava tremendamente. Pensava a Yuri, e la paura lo attanagliava.

 
Ω

Quando ricadde tra le braccia di Morfeo, una delle due misere speranze che aveva si dissolse in una nuvola di fumo: risvegliatosi nella casa che abitava nella comunità, sorprendentemente vuota, vide il sedicenne seduto sul bancone della cucina, le gambe che penzolavano e battevano ritmicamente sulla parete di esso. Lo stava osservando: l’espressione corrucciata, gli occhi stretti in due fessure lo fissavano, gli bruciavano sulla pelle, il labbro inferiore stretto tra i denti – gesto tipico che faceva sempre quando rifletteva in silenzio.
Yuri aveva paura, una delle ultime volte che gli era entrato in sogno, il maggiore non l’aveva accolto nel migliore dei modi, perciò nelle successive aveva cercato di non fargli capire che fosse presente, passando tutto il tempo nascosto nell’oscurità, o chiudendosi in una stanza. Era rimasto sollevato quando aveva scoperto che Otabek sognava spesso d’essere a casa loro, nella comunità, ed il fatto d’essere stato presente, d’aver vissuto lì, gli permetteva di chiudersi nella sua vecchia stanza, facendo finta d’essere l’altro Yuri. Ma adesso era apparso davanti a lui, e non sapeva bene se il ragazzo fosse o meno arrabbiato. D’altra parte, la sua espressione non lo portava a pensare in quel modo: sembrava solo terribilmente stanco.
Otabek si voltò di lato, cercando di non fargli capire che quello sguardo gli stava facendo affrettare il battito del cuore. Magari riusciva a guardargli dentro; magari l’aveva già fatto, a sua insaputa, durante un sonno senza sogni. Impossibile! Pensò che Yuri non era ancora così esperto da poter vagare nei sogni altrui senza che questi se ne rendessero conto; era una capacità che si acquisiva con l’esperienza, con l’età, con l’esercizio – tutte cose per cui Yuri non aveva avuto l’opportunità da libero: era troppo giovane, estremamente inesperto, mai pratico del suo potere. Poteva considerarsi ancora relativamente salvo, vero?
“C’è qualcosa che non mi torna, Otabek” disse il biondo, interrompendo quel silenzio pieno di tensione che si ostinava tra loro da chissà quanti minuti, dividendoli come tramite una barriera. Otabek deglutì, poi mormorò un “Ah, si?” mentre cercava di tenersi occupato. Decise di preparare del caffè, perciò si apprestò a radunare tutto l’occorrente sul bancone: il contenitore dove ne tenevano in polvere, la moca, il misuratore.  Tutto ciò gli permise di trovare una scusa per non incontrare lo sguardo del più piccolo, poi ringraziò mentalmente di essere lui quello in grado di leggere nel pensiero, e non l’altro.
“Negli ultimi tempi è più semplice usare i miei poteri.” Continuò il sedicenne, ostinandosi a battere ritmicamente le suole delle scarpe a ritmo regolare contro la parete del bancone. Otabek strinse istintivamente le dita attorno al misuratore, mentre tentava di dosare la giusta quantità di caffè da mettere nella moca. “Riesco anche a restare sveglio più a lungo. E’ cambiato qualcosa per quanto riguarda i dosaggi, non mi illudo di essere diventato più forte, soprattutto considerando le condizioni in cui ci tengono rinchiusi.”
“Credi che qualcuno lo stia facendo di proposito e non per sbaglio?” replicò il più grande, mentre si attingeva a stringere la moca e a metterla sul fuoco. Sentì Yuri battere una mano sul bancone mentre accendeva il fornello con l’aiuto di un fiammifero: le condutture del gas non funzionavano bene di quei tempi.
Yuri annuì con aria convinta. Si sentiva più energico quando si svegliava nella cella, ma non era stato un evento isolato, erano giorni che riusciva a tenersi sveglio per qualche ora, prima di risentire l’effetto schiacciante del sedativo riportarlo nel mondo dei sogni. Ogni giorno che passava, poi, si sentiva meno debole, tanto da fargli desiderare di usare i propri poteri, per tentare di capire quanta forza realmente possedeva, al di là delle proprie speculazioni. “Ne sono sicuro,” rispose “Qualcuno in quella prigione è dalla nostra parte, sta tentando di aiutarci!” esultò, speranzoso.
Otabek prese due tazze dall’armadietto e le dispose sul bancone, mentre aspettava che la moca cominciasse a fumare, invadendo la stanza di quel familiare odore di caffè che lo portava a ricordare i giorni in cui veramente si trovava lì, con sua madre, suo fratello e Yuri, e vivevano liberi. Le parole del minore lo avevano spaventato, perché niente era peggio che sperare in qualcosa che avrebbe potuto anche non accadere mai; si trattava di un’infondata ipotesi sul probabile sbaglio di un incapace assistente dai lineamenti gentili ed i pensieri ingenui. Lui lo sapeva bene, ed il suo cuore batteva all’impazzata mentre cercava di far tornare Yuri, ma più che altro sé stesso, con i piedi per terra. Quel mi dispiace non significava niente di concreto, e tutta quella situazione poteva trattarsi solamente di una triste coincidenza.
“Non farti speranze, Yuri. Non siamo in grado di stabilire niente con certezza.” Versò il caffè nelle due tazze, poi ne allungò una al minore, che vi aggiunse vari cucchiaini di zucchero prima di portarsela alle labbra e berne un sorso. Sapeva che non amava il sapore di quel liquido, ma ormai lo beveva per abitudine, ed addolcirlo al limite della sopportazione lo aiutava ad ingerirlo senza troppi problemi.
Dopo averne preso un sorso, Yuri poggiò la tazza accanto a sé sul bancone. Otabek lo osservò mentre soffiava leggermente, con le labbra vicine al bordo della tazza, cercando di raffreddare in fretta il liquido appena versato. Il biondo teneva gli occhi abbassati, fissi sulla tazza sul cui bordo faceva scivolare ora il proprio indice. Stava riflettendo. “Ma se invece fosse così; se realmente qualcuno stesse agendo in modo che entro poco tempo potremmo realmente scappare-“
“Cosa?” sbottò Otabek, piantando il proprio pugno contro il bancone della cucina. Si voltò verso Yuri, che lasciò ricadere le gambe, inerti, senza più batterle ritmicamente. “Credi seriamente che qualcuno di quei mostri stia cercando di aiutare proprio noi? Pensaci bene Yuri, noi siamo il nemico dal loro punto di vista.” Emise un sospiro dall’esasperazione “Un nemico, okay? Non esseri inferiori, non animali, non povere creature indifese, tantomeno simili a loro. Un nemico. Nessuno educato a pensare questo potrà mai provare altro se non paura, rabbia o disprezzo nei nostri confronti.”
Yuri si zittì; ovviamente Otabek aveva ragione, e detestava che fosse così. Aveva passato le ultime settimane quasi del tutto incosciente, rinchiuso in una prigione molto probabilmente sotterranea, mentre veniva esaminato da medici e scienziati, quando là fuori si stava combattendo una guerra vera e propria. Non era giusto! Un po’ rimproverava a Otabek di averlo fermato dal saltare, la notte in cui li avevano catturati. Probabilmente ce l’avrebbe fatta, si sentiva decisamente forte e in grado di spiccare il volo – e se fosse stato seriamente il caso, in quel momento non si sarebbero ritrovati lì, rinchiusi in un sogno come unico momento per stare insieme, ma liberi, o morti. Tutto, in quel frangente, gli sembrava migliore della corrente condizione precaria.
Teneva lo sguardo fisso sul pavimento, cercando di riflettere, e sentì il maggiore sospirare ancora. Si avvicinò a lui in silenzio, poi il calore delle sue mani, così grandi, leggermente callose, lo avvolse, costringendolo ad alzare lo sguardo. Otabek poggiò la propria fronte sulla sua, e Yuri perse un battito nel notarlo così vicino. Gli mancava così tanto. E non si riferiva solamente a quei pochi momenti che avevano passato insieme in quel modo, ma tutto gli mancava di lui: scherzare insieme, essere rimproverato per la sua palese mancanza di voglia per studiare, per la sua impulsività. La libertà aveva un sapore più dolce ora che non poteva gustarsela tutti i giorni.
Otabek sentì il proprio respiro confondersi con quello del ragazzo che aveva davanti, e si risolse nel comprendere che lui, in quel momento, lo desiderava. Avrebbe voluto stringerlo a sé, venire avvolto dal profumo del suo corpo, sentirne il calore sotto le proprie dita. L’unica cosa che lo fermava era il fatto che tutto ciò – il loro incontro, la loro conversazione, tutto ciò che stavano vivendo e provando in quel momento – fosse solamente un sogno. Un sogno terribilmente cosciente, ma pur sempre un frutto della sua mente. Si trattenne dallo spingersi troppo in là, spaventato che Yuri potesse distrarsi e rischiare chissà quale pericolo all’interno del proprio inconscio, ed invece che ambire a catturargli quelle labbra rosee, decisamente in contrasto con la sua pelle candida, gli lasciò un piccolo, austero bacio tra i capelli.
“Mi dispiace.” Yuri lo sentì mormorare, rimanendo spiazzato. “E’ che non voglio che tu ti faccia troppe illusioni, per poi rimanerne deluso.” Sentì le dita del maggiore accarezzargli con cura i capelli, passarci attraverso, e si sentì subito più rilassato. Era sollevato che Otabek non ce l’avesse con lui, e glielo volle dimostrare avvolgendo le proprie braccia attorno alla sua vita. Sentì il maggiore irrigidirsi a quel contatto più stretto, e sorrise contro il suo petto. “Ho bisogno che tu resti forte psicologicamente, è l’unico modo per continuare a resistere.”
Yuri strusciò il naso sul suo petto, mentre annuiva leggermente con la testa. Otabek lo strinse ancora di più a sé, in cerca di ancora più contatto. Si sorprendeva della velocità con cui quella relazione mai iniziata realmente fosse progredita. I due avevano passato anni e anni insieme, vivendo nella stessa casa, e mai avevano avuto quel tipo d’intimità. Lui non era il tipo che si dava a tante smancerie, figuriamoci poi il ragazzo che aveva davanti, che cercava di dimostrare d’essere qualsiasi cosa, tranne che umano*. Eppure eccoli che si tengono stretti in silenzio, nella devastante dolcezza d’un sogno.

 
 
*col significato di “capace d’umanità” e non in contrapposizione al termine aviano o nephilim.
Sono tornata, come al solito in ritardo.  Non capisco come mai, ma la mia vita in questo momento è un casino. Spero arrivi agosto in fretta e senza gravi danni, perchè sono sinceramente esausta.
Per quanto riguarda il capitolo, chiedo venia. Ero partita con l'idea di add some spice e cambiare perfino il rating della storia, per poi ritrovarmi a costruire un momento fluff pieno di riflessioni allucinate sulla libertà e varie altre cose. A mia discolpa, mentre facevo la bozza del capitolo, ho pensato che no, non potevo far vivere a questa dolcissima coppia un momento così importante in un sogno, non la loro prima volta almeno, perciò ci sarà da aspettare un po', mi sa. 
Finalmente le due storie parallele si stanno iniziando ad intrecciare, spero quindi di riuscire a svilupparle bene nei prossimi capitoli. In ogni caso, Otabek ha solo sentimenti per il suo Yuri e per nessun altro, perciò tutti tranquilli.
Come novità, ho aggiunto sulla mia pagina profilo i link ai miei account twitter e instagram, nel caso voleste chiacchierare un po' e ricevere avvisi riguardanti le mie storie, perciò vi aspetto lì. 
Ringrazio infinitamente coloro che negli ultimi tempi hanno aggiunto la storia tra le preferite e le seguite: fatemi sentire il vostro supporto senza essere timidi, tanto qui siamo tutti sulla stessa barca.

Infine, un po' di pubblicità non fa mai male:
Predestined 
La mia long che ha per protagonisti i BTS e ambientata nel mondo magico ha estremamente bisogno d'affetto e supporto, perciò siete tutti accolti a braccia aperte se volete lasciarmi i vostri pensieri e le vostre opinioni, o seguirmi in un viaggio del genere.
MIKROKOSMOS 
Una minilong sempre sui BTS ispirata dalla canzone Mikrokosmos, del nuovo album (inutile dire che conterrà parecchio fluff). 

Appena in tempo 
Una oneshoot senza pretese, missing moment rosso di Predestined (non dovete per forza aver letto la storia principale per leggere questa), sulla coppia Jikook perchè si, come si può non amare i Jikook e in generale la maknae line.

Detto questo, mi dileguo.
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Carlotta

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Capitolo Ottavo
-
 
 
Yuuri si risvegliò nel proprio letto, madido di sudore. Aveva il respiro affannato, e con fatica si tirò su dal materasso. Un mal di testa lo colpì così violentemente, appena aprì gli occhi, che non poté fare a meno che portarsi le mani alla fronte, premendole contro la pelle calda, in cerca di un po’ di conforto. Aveva freddo, sentiva tutto il proprio corpo fremere a contatto con la differenza di temperatura che invadeva la stanza. Le immagini di ciò che aveva fatto la sera prima invasero prepotentemente la sua mente, facendogli rivivere davanti agli occhi la scena.
Si rivide mentre, incapace di controllare il proprio corpo o di formulare un pensiero coerente, si avvicinava lentamente all’Aviano. Ricordò lo sguardo di Victor che lo invogliava a stabilire un contatto, che lo pregava silenziosamente di toccarlo. Era cosciente quando si era accovacciato accanto a lui, quando ne aveva osservato quel profilo etereo. Perfettamente inciso nella sua memoria stava ciò che era successo dopo, nel momento in cui si era ritrovato a cingere i fianchi della creatura angelica davanti a lui tra le proprie cosce, mentre gli circondava il viso candido con le proprie mani, nell’istante in cui le loro labbra avevano compiuto quell’atto sacrilego, capace di condannarlo davanti agli occhi di tutti.
Rilasciò un gemito frustrato. Non riusciva a credere d’aver compiuto di proprio impeto un’azione del genere. Scalciò di lato le coperte, alzandosi e dirigendosi in bagno per farsi una doccia. Mentre aspettava che l’acqua si riscaldasse, si lavò il viso nel lavandino. La sua immagine riflessa nello specchio lo fissava stralunata: le guance arrossate, i capelli spettinati, l’espressione per certi versi impaurita. Le sue labbra, leggermente gonfie e arrossate, un piccolo taglietto proprio al centro del labbro inferiore. Victor gli afferrò il labbro inferiore tra i denti, succhiando leggermente. Quel gesto lo fece fremere vergognosamente. Scosse la testa, voltando lo sguardo dallo specchio e cominciando a spogliarsi. Non poteva essere vero: non avrebbe mai avuto il coraggio di comportarsi in maniera così… oscena davanti a qualcuno, non nella vita reale.
Restò sotto il getto d’acqua finché non si sentì calmo. Era passato del tempo da quando era entrato nella doccia, ed i polpastrelli delle dita, completamente raggrinziti, glielo dimostravano. La pelle chiara, leggermente olivastra, era diventata d’un rosso acceso e l’intensità del vapore che pervadeva la stanza gli creava problemi a respirare. Uscì, virando verso la cucina per farsi un caffè. Il mal di testa lo infastidiva terribilmente, perciò inghiottì un’aspirina, per poi continuare a sorseggiare la bevanda calda. Mentre soffiava leggermente sulla tazza, sussultò. Victor gli stava tempestando la base del collo di piccoli baci umidi, lasciando qua e là piccoli morsi, soffiando poi sopra la sua pelle febbricitante, facendogli tremare ogni singolo muscolo del corpo. Per poco non rovesciò il caffè sul pavimento, limitandosi però a far cadere sulle proprie dita qualche goccia bollente, bruciandosi. Riappoggiò la tazza sul bancone, ancora praticamente piena, per poi accendere il rubinetto e mettere le proprie dita sotto l’acqua gelata. Doveva assolutamente smetterla di pensarci.
Quando smise di sentire dolore, chiuse la manopola del rubinetto. Con le mani strinse il bordo del lavello, mentre tentava di calmarsi. Tutto sembrava così irreale, come se fosse accaduto in un sogno, ma non era così. Si ricordava perfettamente com’era scappato, nel momento in cui era riuscito a riacquistare un po’ di lucidità per riprendere il controllo del proprio corpo. Altrettanto bene sapeva il percorso che aveva fatto uscendo dalla cella, dal laboratorio, dall’edificio fino alle strade percorse a passo svelto sul tragitto di casa. In ogni caso, era stata la potenza delle sensazioni che aveva provato, probabilmente per la prima volta nella sua vita, a rendergli tutto così illusorio. I contorni delle immagini, la figura di Victor, tutto davanti a lui era apparso lievemente fuori fuoco, un po’ soffuso, quando la cella dove avevano compiuto l’atto era perfettamente illuminata.
Sospirò frustrato. Svuotò la tazza nel lavandino per poi sciacquarla e rimetterla al suo posto. Lasciò cadere il proprio corpo sul divano, privo della maggior parte delle proprie energie. Si strofinò la faccia, cercando di chiarire tutto il turbinio d’emozioni che aveva in testa, poi poggiò la schiena contro il tessuto morbido, rilassando il collo e fissando il proprio sguardo sul soffitto. Chiuse gli occhi. Quel lento modo di seviziarlo lo stava mandando in estasi. Quel contatto frenetico contro la propria pelle, il contrasto di quelle labbra gelide gli faceva desiderare di più. Mosse inconsciamente il bacino verso quello dell’uomo che sovrastava, e la consapevolezza di non essere l’unico a provare quell’immenso desiderio gli faceva perdere la testa. Inarcò leggermente la schiena, volgendo il viso in alto. Rilasciò un gemito di puro piacere.
Il cuore gli batteva all’impazzata, il respiro era così affettato che gli sembrò di non ricevere più aria. Si accasciò in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia. Non riusciva a comprendere cosa gli fosse accaduto. Non rinnegava ciò che aveva provato prima e durante l’amplesso, ma ciò che gli rifuggiva era la mancanza della propria coscienza. Tutto era annebbiato, e non capiva come, nel ricordo di ciò che aveva compiuto, mancasse totalmente la presenza dei propri pensieri, come se la sua mente avesse avuto un black-out temporaneo che aveva spento tutto per quel periodo di tempo.
Alla domanda “cosa stavo pensando?”, che pure si era rivolto varie volte, non trovò la benché minima risposta, perché l’unica risposta era che avesse annullato sé stesso a vantaggio di quelle sensazioni travolgenti, cosa che non era nel suo codice genetico. Yuuri era quel tipo di persona che pensava troppo e agiva troppo poco, che rimuginava più e più volte sulle cose prima di compierle, senza avere comunque la certezza di ciò che avrebbe fatto poi. Non aveva risposta a quella domanda perché l’unica risposta credibile era che fosse stato sotto l’effetto di un qualche incantesimo – e la credibilità subito svaniva, appena formulata interamente.
Poi si ricordò, fu un pensiero casuale, frettoloso, che aleggiò nella sua testa solo per un attimo, prima di svanire. Yuuri lo riprese dall’oblio e lo riportò al centro del proprio pensiero. Nome: Victor Nikiforov. Poteri: lettura delle emozioni umane e controllo dell’aria. Yuuri rimase sconvolto: non credeva che il Nephilim l’avesse sottoposto ai suoi poteri e, d’altra parte, che significato potevano mai avere le parole lettura delle emozioni, se non quello che aveva concepito e sostenuto fino a quel momento? Gli scienziati che lavoravano alla PTEA & Co. non erano degli incompetenti, perciò non si sarebbero mai fatti scappare un dettaglio così importante, tralasciando il fatto che quel lieve errore poteva comportare un cambiamento radicale della situazione. Possibile che Victor Nikiforov non fosse solo in grado di leggere le emozioni, ma anche di manipolarle?
Probabilmente Vasilyev e gli altri lo consideravano tanto pericoloso perché, appunto, era capace, in un certo senso, di controllare le persone intorno a lui. E lui s’era avvicinato, l’aveva cercato d’aiutare, per poi essere ricambiato in quel modo? Usato tramite la simpatia che provava per lui?
Un’ondata di nausea lo colpì, tanto che dovette correre in bagno e rimettere quel poco che ancora il suo stomaco non aveva digerito dalla sera prima nello scarico del water. Non poteva credere d’essere stato considerato in maniera così infima, quando da parte sua provava un sincero moto di compassione nei suoi confronti. Si sentiva esausto, devastato, completamente a pezzi. Se anche non poteva negare d’aver desiderato quell’uomo, d’aver provato bellezza la prima volta che l’aveva visto, d’aver sognato quel viso etereo seviziarlo in modo osceno, d’aver sentito il suo corpo rispondere contro il proprio, adesso tutto era sparito.
Se aveva ragione, e non trovava altre ipotesi possibili per spiegare l’accaduto, allora non era la persona che si era aspettato. E se l’avesse avvicinato proprio perché aveva percepito che Yuuri aveva avuto una mezza-intenzione d’aiutarlo? Sarebbe stato questo il motivo che l’aveva portato ad abusare di lui? Gli faceva schifo.
Se era ancora intenzionato nel voler liberare lui e gli altri Aviani catturati, era, d’altro canto, sempre più convinto del non volerglisi mai più riavvicinare. Si sentiva sporco, senza valore, rimpiazzabile in fretta e senza danno. Gli venne da piangere, e lasciò le lacrime sgorgare sul viso mentre, accasciato sul pavimento del bagno, singhiozzava senza ritegno. Come aveva potuto essere così ingenuo? Così stupido! Gli si era mostrato senza difese, perché era stato ammaliato dalla sua bellezza, dalla sua parvenza d’angelo, e ciò lo aveva portato a considerarlo senza riserve come tale, buono. Che imbecille, avrebbe dovuto ricordarsi che la kalokagathia era un ideale dell’arte greca e non una condizione della realtà d’ogni epoca. Non voleva più averci niente a che fare.
Si ridestò dalla condizione patetica in cui si trovava solamente quando sentì il campanello del proprio appartamento risuonare nel silenzio dell’abitacolo. Si costrinse a smettere di piangere e a tirarsi su, si sciacquò velocemente la faccia, poi si diresse strisciando i piedi verso la porta. Dallo spioncino riconobbe la figura di Phichit, che lo osservava senza vederlo dall’altra parte della parete. Aprì la porta per ritrovarselo davanti, ed osservandolo il sorriso dell’amico si spense di colpo.
“Hai un aspetto terribile.” Sentenziò. Yuuri lo fece entrare in silenzio e, mentre l’amico si sistemava sul divano, tirando fuori da un sacchetto di plastica bianco, di cui Yuuri non si era accorto fino a quel momento, due contenitori di plastica che riportavano il logo del ristorante cinese dietro l’angolo.
“Che cosa ti porta qui di sabato pomeriggio, Phichit?” richiuse la porta, poi osservò l’amico spacchettare un paio di bacchette e staccandole trattenendone una tra i denti. Si sedette sulla poltrona, perché in quel momento preferiva non sentire il calore del corpo di nessun altro. Aveva le difese a terra, si sentiva nudo, attaccabile.
Phichit lo guardò mentre spacchettava anche lui le proprie bacchette ed afferrava uno dei due contenitori contenenti il cibo. Solo quando l’amico lo vide mescolare lentamente il pollo con le bacchette, si decise ad ingoiare il primo boccone. Aveva ancora un sentore di nausea, ma erano quasi ventiquattrore piene che non ingurgitava niente di solido, ed aveva paura che si sarebbe sentito anche peggio se non avesse tentato di mettere qualcosa in bocca in quel momento.
“Ho un piano per liberare gli Aviani dalla struttura.” Disse l’altro, ancora a bocca piena e Yuuri per poco non si strozzò.

 
Ω
 
Victor si sveglio, fortuitamente, nel bel mezzo del giorno. Vedeva gli impiegati della struttura che lo teneva prigioniero affrettarsi nelle proprie mansioni, alcuni con dei documenti tra le braccia, altri pronti per fare le iniezioni. Dall’altra parte del vetro le persone stavano vivendo la vita di tutti i giorni, a discapito suo, e probabilmente di altri come lui, costretti a dar via la propria per una causa che li vedeva i nemici. Da quando era iniziata quella guerra sotterranea, aveva sentito umani chiamare la loro specie con diversi appellativi: mostri, alieni, invasori. In realtà, la questione era più semplice di così.
Victor, come tutti i propri antenati o i propri simili, era nato e aveva vissuto l’intera vita sulla Terra. Non provenivano da chissà quale pianeta lontano, con l’intento di dominare il pianeta, o migliorarlo. L’universo non li aveva creati che in modo analogo a quello usato per le creature che ora dichiaravano loro guerra: nati da umani, vivevano come umani. Avevano un’etica, una morale e dovevano guadagnarsi da vivere esattamente come tutti gli altri.
Molti Nephilim erano nascosti tra gli umani, senza che nessuno se ne rendesse conto; altri, invece, preferivano la tranquillità delle colonie, o comunità, dove potevano tranquillamente mostrare i propri poteri, la propria natura agli altri, senza essere giudicati né rinchiusi perché diversi. Tuttavia, la verità era che la loro specie non era altro che un progresso di quella umana: qualcosa di diverso s’era a un certo punto dell’evoluzione integrato al DNA originale, e ne aveva modificato alcune caratteristiche, ne aveva migliorato alcune qualità. Non erano diversi dagli umani, ne erano i diretti discendenti.
Se lui stesso era stato catturato, il motivo risiedeva nella sua incapacità di trattenersi: amava volare, sentire la carezza dell’aria sulla pelle, mentre la levigava a suo volere. Come, d’altra parte, adorava poter leggere e manipolare le emozioni delle persone che aveva intorno. Doveva essere stato troppo incauto, mentre viveva quella vita, perché un giorno due uomini in giacca e cravatta gli si erano presentati davanti, cercando d’arrestarlo. Se era riuscito a fuggire da quei due uomini, non era riuscito a fare altrettanto con le telecamere di sicurezza. Appena quei due corpi furono ritrovati, era ormai chiaro a chiunque stesse lavorando sul caso che Victor non fosse come loro.
Partì una caccia all’uomo e, seppur fosse riuscito a svanire dal proprio paese, non sarebbe stato in grado di farlo per sempre. La rete globale di strutture anti-Aviani – come gli umani chiamavano la loro specie – presentava ramificazioni in ogni paese del mondo e, ovunque avesse avuto intenzione d’andare, non avrebbe mai più potuto vivere in mezzo agli umani. Perciò aveva deciso di andare in un posto isolato, lontano da qualsiasi sorta di contatto umano, ma non fu sufficiente. Dopo poche settimane, fu sorpreso e catturato da una squadra speciale mentre, solo nella sua grotta nelle montagne della Patagonia, tentava di dormire.
Ed ora era rinchiuso lì, da mesi, sostenuto solamente dalle misere porzioni di cibo che il personale si preoccupava di dargli e dalle catene che lo tenevano ancorato alla parete dietro di lui. Nessuna simpatia, affetto o supporto aveva percepito dal momento in cui si trovava là dentro, e non riusciva ancora a capacitarsi d’essere sopravvissuto così a lungo senza contatto umano o qualcosa da fare. La sua paura più grande risiedeva nel fatto di perdere la ragione, perché quello era l’effetto che la sua condizione provocava: col passare del tempo aveva sentito mormorii riguardanti altri esemplari che, in mancanza di lucidità, avevano compiuto atti estremi, come uccidere degli addetti o sé stessi.
Nei giorni seguenti a questi avvenimenti, osservava la cura con cui nuovi apparecchi di sicurezza venivano azionati o posizionati in determinati punti. Avevano paura, e facevano bene, ma non per le motivazioni che credevano: i Nephilim non erano malvagi, ma erano pur sempre troppo umani, e reagivano alle situazioni come tali. Erano loro a farli diventare dei mostri.
Poi aveva visto quel ragazzo: impacciato, completamente ignaro di ciò che facevano a quelli come loro. L’aveva osservato, ne aveva percepito le emozioni. Tutto di lui lo portava a pensare che fosse totalmente diverso dagli altri impiegati della struttura. Aveva percepito quel tiepido calore di amore per il mondo e ne era rimasto inebriato.
Negli ultimi tempi era diventato quasi impossibile credere che al mondo esistessero ancora persone del genere, che non avevano preso una parte nella guerra, ma dopo averlo incontrato aveva rivisto una speranza che credeva morta e sepolta. Quel ragazzo imbranato e dall’aspetto innocuo aveva provato bellezza, e gli aveva permesso di bere ogni singola goccia di quell’emozione, a cui si era aggrappato con tutte le proprie forze.
“Yuuri” si ritrovò a mormorare, poggiando la testa contro la parete e chiudendo gli occhi. Riportava alla mente quel contatto, così tremendamente vicino, febbricitante, che aveva avuto col moro qualche giorno prima.
L’aveva scorto mentre, appoggiato al vetro, rifletteva. Gli era apparso tormentato, dibattuto con sé stesso, ne aveva captato l’essenza lieve di vergogna, la voglia di avvicinarsi e la necessità di stare alla larga da lui. Victor ricordò d’aver percepito un brivido scuotergli il corpo: voleva sapere, ma, più di tutto, non voleva lasciare che si allontanasse da sé.
Aveva bisogno di lui, non soltanto perché rappresentava la prima luce, la prima speranza di poter uscire vivo da lì, ma perché ne era rimasto ammaliato. Non aveva incontrato una persona così ingenua, così buona, in anni e sentiva un sentimento crescere dentro di lui. Qualcosa di totalmente nuovo e potente.
Perciò l’aveva fatto, perciò s’era permesso di avvicinarlo a sé con l’aiuto dei propri poteri, per quanto fievoli potessero essere. Certo, era stato possibile soprattutto perché Yuuri già provava ciò che poi lui si era preoccupato d’amplificare; non avrebbe potuto lavorare altro che in quel modo, nelle condizioni in cui era. Sapeva che aveva agito male e che, probabilmente, aveva perfino esagerato: non era in grado di controllare il suo potere se non al pieno delle proprie facoltà, ma non rimpiangeva niente di ciò che era successo. Lui lo desiderava, e aveva scoperto che anche l’altro lo desiderava allo stesso modo.
Tuttavia, erano giorni che non lo vedeva, che non ne sentiva la presenza vicino o dentro la propria cella. Dal momento in cui si era alzato e se ne era corso fuori, non l’aveva più visto, se non attraverso il vetro che lo divideva dal resto del mondo. Lo aveva osservato passare alcune volte, facendo avanti e indietro con dei documenti tra le mani, ma mai si era fermato ad osservarlo, mai gli aveva prestato la benché minima attenzione, non aveva percepito niente in quei pochi secondi che ne aveva visto la figura passargli davanti.
Era preoccupato, tremendamente turbato dalla probabilità che il ragazzo potesse aver capito, averlo scoperto. Non aveva mai usato il proprio potere su persone come lui, anche perché di solito era attratto da altro, e non aveva idea di come avrebbe potuto reagire: sapeva solo che l’avrebbe presa male, ma non intuiva quanto.
Sospirò, combattuto. Temeva terribilmente che quell’atteggiamento fosse la conseguenza logica della consapevolezza del suo far male, e si ritrovò a chiedersi se proprio lui, che non aveva voluto che farlo avvicinare, l’avesse portato inconsciamente ad agire in modo opposto. Una morsa allo stomaco lo rese pienamente cosciente.


 
Ehilà! Non ve lo aspettavate che avrei aggiornato così presto, eh?
Oggi sono qui col nuovo capitolo per farvi una sorpresa: è il compleanno della storia! Ho pubblicato il primo capitolo esattamente due anni fa, e dato che è un'occasione più unica che rara, ci tenevo a fare qualcosa per festeggiare. La prima idea era un banner o una copertina, ma non sapendo disegnare ho lasciato perdere (se qualcuna ha voglia di farlo, in ogni caso, mi renderebbe molto felice).
Quindi eccoci qua, la mia amata Victuuri torna oggi da noi terribilmente tormentata. Il mio povero Yuuri è distrutto, e ha fatto più male a me scriverlo di quanto potrà mai fare a chiunque altro.
Inoltre, finalmente abbiamo un POV Victor, che ancora non aveva mai messo parola su niente dall'inizio della storia. In qualche modo dovevo dargli occasione di scolparsi almeno ai nostri occhi, se non a quelli di Yuuri. E grazie a questo espediente ho potuto anche dare qualche informazione in più riguardo la specie Aviana o Nephilim.
Sono cosciente che gli ultimi due capitoli siano stati parecchio lenti, ma mi servivano per dare profondità ai personaggi, perciò perdonatemiiiii

Ho, ancora, una notizia da darvi, ma preferisco aspettare il prossimo capitolo e lasciarmi un po' di suspence. Spero che festeggiate con me la mia bambina che cresce, lasciandomi qualche recensione: i temi di questa volta saranno le vostre impressioni generali sulla storia, come s'è andata ad evolvere nel corso del tempo, e ovviamente voglio sentire la vostra sul capitolo, perchè non posso essere l'unica devastata qui. Mi piacerebbe sentire tutti, o comunque molti di voi, anche se sono due righe.
Detto questo, vi lascio alla pubblicità:
 
Predestined 
La mia long che ha per protagonisti i BTS e ambientata nel mondo magico ha estremamente bisogno d'affetto e supporto.
MIKROKOSMOS 
Una minilong sempre sui BTS ispirata dalla canzone Mikrokosmos, del nuovo album (inutile dire che conterrà parecchio fluff). 

Appena in tempo 
Una oneshot senza pretese, missing moment rosso di Predestined (non dovete per forza aver letto la storia principale per leggere questa), sulla coppia Jikook perchè si, come si può non amare i Jikook e in generale la maknae line.
Vi mando un bacio e vi aspetto in tanti.
Spread the love 
Carlotta

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Capitolo Nono
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Phichit doveva seriamente aver perso la testa. Non solo il suo piano era ridicolo e potenzialmente pericoloso, anzi, estremamente pericoloso, ma riusciva persino ad essere con alta probabilità fallimentare. L’amico rischiava di farsi terribilmente male, se non addirittura perdere la vita, per qualcosa che non avrebbe mai potuto andare a segno.

“Ho un piano per liberare gli Aviani dalla struttura” gli aveva detto. Per poco non rischiò di uccidersi col poco cibo che aveva messo in bocca nell’udire quell’affermazione in modo così improvviso. Allungò una mano sul basso tavolino per afferrare il bicchiere e portarselo alla bocca. Appena inghiottì un po’ d’acqua si sentì meglio, e poté concentrarsi su ciò che Phichit gli aveva detto.

Yuuri si trovava ora nella cella dell’aviano numero 2, Otabek Altin. Si teneva a distanza mentre, con estrema lentezza, cercava di concentrarsi nella preparazione del liquido da iniettargli nelle vene. Rifletteva sulla quantità di sedativo da dover aggiungere quella volta, cercando di ricordarsi che percentuale gli fosse stata somministrata da Phichit la volta prima. Sospirò frustrato, quando non riuscì a riportarlo alla mente con certezza. Eppure gliel’aveva detto, ma con tutto ciò che si ritrovava a pensare, non riusciva a mettere a fuoco quella precisa informazione.

“Te l’ho detto, potrebbe essere un ottimo piano, se va tutto nel modo giusto.” Ripeté Phichit infastidito, dopo che Yuuri gli aveva chiesto più e più volte se ci aveva pensato bene, se potesse realmente funzionare, se gli avrebbe tratto salva la vita – e non si era riferito solamente a loro due, ma era stato spinto inconsciamente a pensare anche alla salute degli aviani stessi, e soprattutto di uno di loro.
“Stai ipotizzando che ci siano troppe variabili che possono rovinare tutto?”

“Potresti essere un po’ più delicato?” sbottò l’aviano semi-cosciente a cui aveva appena infilato l’ago nella carne. Yuuri tornò con i piedi per terra, rendendosi conto solo in quel momento di essere stato fin troppo affrettato con l’utensile. Mormorò delle scuse, mentre riprendeva da dove aveva lasciato. Fissò i propri occhi sulla siringa che teneva tra le mani, e spinse lentamente lo stantuffo, osservando il liquido al suo interno diminuire, perdersi nel sistema sanguigno del moro.

“Potresti darmi un minimo di fiducia?” replicò il moro, visibilmente irritato. Capiva la preoccupazione di Yuuri, anche perché c’erano molte vite di mezzo, oltre alle loro, e capiva la sua paura che qualcosa potesse andare storto. Tuttavia, erano coscienti entrambi che il piano non sarebbe stato semplice, d’altra parte si trattava di scontrarsi contro una delle associazioni più segrete e potenti del pianeta, e fare tutto di nascosto.
Se avesse potuto, Phichit si sarebbe già ribellato da un pezzo, liberando quelle persone dalla prigione nella quale le tenevano rinchiuse, distruggendo i macchinari, probabilmente uccidendo persino coloro che potevano essere in grado, nel caso, di ripristinare tutto; ma aveva coscienza e almeno un po’ d’amor proprio, perciò sapeva che la questione si sarebbe risolta facilmente. Ma Yuuri non era come lui, e ne era consapevole.

Otabek osservò quell’apprendista fargli l’iniezione con la testa per aria e non sapeva se esserne incuriosito o infastidito, anche per il fatto che ne stava andando della sua vita, perciò avrebbe dovuto essere particolarmente attento, se non voleva perdere una cavia da laboratorio. Eppure eccolo davanti a lui che pensava ai fatti suoi. Puntò il proprio sguardo sul suo viso, cercando di carpirne qualche informazione. Stavolta non sembrava intenzionato a rivelargli i suoi pensieri, perciò non poteva agire in altro modo.
Quell’apprendista gli sembrava turbato, perso nei meandri di qualche pensiero più grande di lui, da cui non riusciva a trovare l’uscita. Passarono alcuni minuti in silenzio, così, senza che quel ragazzo se ne accorgesse. Gli slegò l’elastico che gli aveva legato all’avambraccio superiore e si allontanò per tornare al carrello dove teneva tutto l’occorrente che gli serviva al suo compito. Otabek sospirò.
“Ho sentito.” Sentenziò nella sua mente, cercando di far arrivare il messaggio a quella dell’unica altra anima presente nella stanza. Ebbe la conferma del suo successo, quando vide il moro far cadere malamente, preso dallo spavento, la siringa sul piano in metallo.

Yuuri non era come lui, aveva bisogno di rassicurazioni e non riusciva a vivere nella menzogna, perciò non poteva che stringergli il cuore la consapevolezza d’averlo dovuto mettere in mezzo in quella situazione, senza tralasciare il fatto, poi, che per lui non era solo una questione d’etica, ma che stava andando contro proprio alla sua stessa famiglia. Non doveva essere facile per lui.
“Tutto ciò che dovrai fare tu è continuare la tua solita routine quotidiana.” Tentò di rassicurarlo. “Diminuire il sedativo, fare i dosaggi quando sono necessari, andare a lavoro ed interagire con Vasilyev e gli altri come hai sempre fatto. Al resto ci penso io.”
“E quale sarebbe il resto?”

“Ho sentito ciò che hai pensato l’ultima volta.” Ripeté Otabek, facendo luce sulla situazione. Vide l’apprendista rilassarsi leggermente, rimanendo però nella sua postura tirata. Gli dava le spalle e a testa china osservava il carrello su cui era poggiato.
Yuuri era sorpreso. Non si era reso minimamente conto che l’aviano fosse cosciente, la quella volta che gli aveva fatto l’iniezione insieme a Vasilyev. Si ricordava perfettamente cosa aveva pensato, cosa aveva estremamente voluto far sapere all’altro, mentre gli infilzava la carne del braccio con la dose di sedativo. Mi dispiace.
“Ci credi davvero?” sentì la voce dell’altro nella sua mente. Deglutì mentre cercava di tenere occupate le mani, in modo da non far insospettire nessuno, sia di quelli che passavano oltre il vetro, sia di coloro che ne osservavano i movimenti dalle telecamere poste ad ogni angolo. Quel pensiero lo fece finire in uno stato d’ansia, seppur non si rendesse totalmente conto del motivo.
“Credi davvero in ciò che hai pensato?” ripeté ancora la voce nella sua testa, stavolta con tono più insistente, evidentemente spazientito nel non ottenere nessuna sua risposta. Yuuri si affrettò ad annuire, scuotendo il capo leggermente, per poi apprestarsi a riordinare gli utensili e le sostanze presenti sul carrello.

“Mancherò da lavoro per un po’, alcuni giorni. Non dovrei far insospettire nessuno.” Lo avvisò e Yuuri gli domandò con lo sguardo le sue intenzioni, mostrate all’altro attraverso un velo di preoccupazione. Phichit gli rispose che non avrebbe dovuto stare in allerta, che non rischiava nessun pericolo. Era cosciente di mentire, ma gli sembrava la soluzione migliore.
L’altro gli intimò di continuare con un gesto delle bacchette, con cui poi raccolse un altro boccone di cibo per portarselo alla bocca. Seppur si sentisse ancora lo stomaco sotto sopra, quell’assaggio di cibo che aveva inghiottito gli aveva fatto venire fame, perciò si ritrovò a mangiare quel pollo come se fosse l’ultima cosa concessagli prima di morire.
“Cercherò dei gruppi di Aviani, gli chiederò di aiutarmi.” Affermò. Sapeva quanto sembrasse insensato ciò che stava dicendo, ma nei fatti la situazione era quella: da soli non sarebbero andati da nessuna parte. Con quell’unica verità a riecheggiargli nella mente aveva cercato metodi alternativi per risolvere la questione, per poi ritrovarsi con la consapevolezza che gli unici alleati che poteva trovare – quelli più probabili, s’intende – erano proprio coloro che gli umani li detestavano a morte, e per buoni motivi.

Otabek era ancora sospettoso ma, ora che poteva osservare realmente quel ragazzo, vedendolo in quello stato, decise di dargli fiducia. Era palese a chiunque lo guardasse che non era una persona che avrebbe fatto del male agli altri, e la sua espressione turbata e persa gli faceva capire che doveva essere anche parecchio sensibile, se non riusciva a mantenere un comportamento professionale a causa di chissà che cosa.
“Ti credo” pronunciò lentamente. Quelle parole riecheggiarono infinite volte nella mente del moro, che diede segno d’averle sentite rilassando leggermente la schiena. Infilò il cappuccio alla siringa, riponendola nella confezione monouso in plastica, in modo da gettarla una volta uscito da lì.
“Che cosa hai intenzione di fare?” gli venne ancora chiesto. Una domanda che Yuuri aveva rifiutato categoricamente di porsi riguardo parecchie cose che erano accadute nella sua vita ultimamente. Al momento, cercava solamente di ignorare il più possibile i problemi – o quelli che lui considerava tali – in modo da poter continuare a vivere la sua vita.

“E’ ridicolo!” sbottò Yuuri, si alzò dal divano così velocemente, mosso dalla paura, che sbatté la gamba contro il tavolino, facendolo tremare. Una bottiglietta d’acqua aperta si rovesciò sul pavimento, bagnando il tappeto scuro, ma il moro non se ne curò. “Non ti lascerò rischiare la vita per un piano così ridicolo. Devi aver perso seriamente la testa se pensi che si fideranno di te istintivamente.”
“Non lo penso, infatti.” Borbottò l’altro, afferrando dei tovagliolini di carta con sopra stampato il logo del ristorante dove aveva comprato la cena, per poi sparpagliarli sul pavimento, cercando di limitare il danno. Afferrò la bottiglia e la tappò, poi la ripose sul tavolo. “In ogni caso, il resto non ti serve saperlo.”

“Stiamo avendo contatti con alcuni gruppi di Aviani, del tipo in cui facevi parte anche tu.” Sospirò, accertandosi che i contenitori degli ingredienti per il siero fossero ben chiusi. Si stava rendendo conto d’essere tremendamente lento nello svolgere le proprie mansioni, e percepì il momento in cui avrebbe dovuto chiudere la conversazione sempre più vicino. “Ma non mi è permesso conoscere altro.”
“Fammi sapere come si sviluppa la situazione.” Gli intimò l’altro, e Yuuri si ritrovò ad annuire con la testa. “Ho deciso di fidarmi di te perché sembri un uomo di parola e perché non ho altra scelta, perciò non mi giocare brutti scherzi. Sono consapevole del fatto che state abbassando le dosi dei sedativi nei dosaggi e tu non hai neanche idea della portata dei miei poteri, perciò non sottovalutarmi.”
Yuuri non lo sottovalutava, nei documenti che gli avevano dato aveva letto di alcuni incidenti che erano capitati. Alcuni aviani avevano perso la testa durante la loro prigionia e, in qualche modo, erano riusciti ad utilizzare i propri poteri, quelli collegati alla mente, certo, ma anche gli elementi. I danni subiti erano stati ingenti e vi erano stati anche dei morti, senza considerare che i soggetti non erano neanche alla loro massima potenza. Era terrificante. “Lo so.”

“Non puoi tenermi fuori ed usarmi solo come palo. Ci sono di mezzo più di tutti!” Il viso di Yuuri si colorò di un rosso intenso mentre sentiva la rabbia montargli dentro. Il corpo gli si era irrigidito e la tensione, l’ansia, la paura lo stavano facendo sentire debole.
“Non ti sto tenendo fuori, anzi, lo sto facendo per il tuo bene.” Gli riproverò l’amico con voce calma, ma severa. Non si era mai comportato in quel modo con lui, e Yuuri rimase sorpreso da quel suo tono. La loro relazione si fondava sulla fiducia e sui loro aspetti simili, tra cui la voglia di vivere in pace, perciò avevano sempre cercato di evitare litigi o prese di posizioni che avrebbero potuto dividerli. Ma ora la situazione era cambiata.
“Lascia fare a me, okay?” continuò, dopo aver constatato che Yuuri non avrebbe più battibeccato, seppur sull’espressione dell’amico potesse notare quanto fosse contrario alla cosa. “Ti chiamo nel caso abbia bisogno del tuo aiuto, non preoccuparti.” Lo osservò con sguardo speranzoso mentre aspettava la sua risposta.
Il moro ci rifletté ancora qualche minuto, facendo calare il silenzio nella stanza. Non era convinto, aveva paura che Phichit stesse sopravvalutando i rischi che avrebbe corso e non riusciva ad essere d’accordo con un tale piano suicida. Tuttavia, era tremendamente cosciente di quanto testardo fosse l’amico, e se si metteva in testa qualcosa, non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea facilmente. Sospirò, sentendosi stanco. “Va bene, ma mi devi dire esattamente tutto ciò che succede, va bene?”

Otabek stava iniziando a sentire l’effetto del sedativo. Le palpebre diventarono pesanti e faticava a tenersi sveglio, ogni muscolo del suo corpo si stava rilassando e lentamente stava ricadendo nel sonno. Yuuri, nel non sentirne più la voce nella propria testa, si voltò ad osservarlo, sospirando tristemente. Finì in fretta di rimettere in ordine, poi iniziò a spingere il carrello verso la porta.
“Aspetta!” Quando sentì la sua voce, si immobilizzò sul colpo. Era affannata, come se stesse lottando contro qualcosa. Yuuri strinse le mani sui bordi del piano in metallo, facendo diventare le dita bianche dalla forza che stava impiegando. “Fammi un favore, non farne assolutamente parola a Yuri!”
“Va bene.” Rispose, poi fece passare il proprio badge sul lettore che si trovava vicino alla porta. Spinse il carrello fuori dalla stanza e, senza guardarsi indietro, uscì da lì.
 

 
Ω
 

Phichit quella mattina si era svegliato presto, aveva fatto una telefonata alla PTEA & Co. dicendo di non poter presenziare sul luogo di lavoro perché bloccato a letto dall’influenza – scusa abbastanza credibile dato il continuo mutamento di temperature delle ultime settimane – e si era diretto in macchina verso una di quelle che venivano chiamate comunemente “comunità”. Esse erano gruppi di individui che vivevano in pace tra loro e col mondo, lontano dalla vita caotica delle città. Era comprensibile che molte persone, ad Atlantis e nel mondo, vecchi e giovani, desiderassero vivere una vita diversa, più tranquilla e più legata alla terra, perciò le autorità non si facevano mai troppe domande sulla questione “da che cosa sono composte quelle comunità”. Anche perché ve ne erano di miste, come composte da solamente umani o solamente aviani, ma questa era un’informazione che non circolava sui giornali e tra i piani alti, o vi sarebbero stati presi provvedimenti.
La sera prima aveva fatto un salto al locale Burlesque che si trovava all’angolo della strada, vicino casa sua, sapendo che il proprietario intratteneva rapporti più o meno illegali con la comunità più vicina, la più grande presente sull’isola. Era riuscito a convincerlo a dargli quelle informazioni solamente dopo averlo rassicurato sul fatto che no, non aveva intenzione di denunciare lui o la comunità all’agenzia per cui lavorava e si, avrebbe fatto di tutto pur di saperne la posizione. La conversazione si era chiusa con un sospiro da parte dell’uomo di mezza età, che lo intimava di stare attento e gli ricordava che per quel favore che gli aveva chiesto in cambio si sarebbe fatto sentire al momento opportuno. Phichit era uscito dal suo ufficio e poi dal locale con un sorriso a trentadue denti, non potendo minimamente sapere in cosa s’era andato a cacciare, nonostante tutte le volte che la gente gli aveva ripetuto la pericolosità della sua idea.
Aveva guidato fin fuori dalla capitale, osservando il diradarsi degli edifici a cui era abituato e l’accentuarsi degli alberi e della natura incontaminata. Il tragitto era durato poche ore e Phichit ringraziò il navigatore di averlo portato a destinazione sano e salvo. Non di rado quel coso gli aveva dato di matto o lo aveva fatto entrare in strade a sfondo chiuso; per non parlare poi di quando non riconosceva le strade e gli consigliava di fare inversione ad U in strade provinciali a due corsie separate dallo spartitraffico. Un gioiellino, insomma.
Il proprietario del locale lo aveva informato che si sarebbe trovato di fronte ad un edificio abbandonato, riutilizzato abusivamente da un gruppo di Aviani che si occupava di fare da tramite tra il mondo esterno e la comunità vera e propria, consentendo a questa d’avere determinati servizi a prezzi estremamente ridotti o come frutto di un baratto. Phichit osservò l’edificio davanti a cui aveva parcheggiato la macchina con sguardo apprensivo: sembrava completamente disabitato, come se nessuno vi avesse messo piede da anni, ma la verità era un’altra e lui doveva entrarci.
Fece un sospiro per poi sorpassare una porta in metallo, leggermente arrugginita, che gli sembrava dovesse portare verso l’interno della parte principale dell’edificio. Aveva paura, il cuore gli batteva a mille mentre sorpassava le ante e veniva inglobato dal buio.
“C’è nessuno?” chiamò, sperando in una risposta. La temperatura all’interno calava drasticamente, in quanto il calore del sole non riusciva a penetrarci. Ovviamente non ottenne risposta, perciò si strinse nella felpa leggera che aveva indossato e camminò a tentoni, con l’ausilio della sola luce del telefono ad illuminargli la strada. Fece alcuni passi sul pavimento chiaro, quando davanti a sé trovò la strada occupata.
Aveva camminato a testa bassa, per non rischiare di inciampare in probabili ostacoli sul suo cammino, perciò la prima cosa che vide furono le scarpe: un paio di scarpe eleganti in pelle nera, di quelle che vengono indossate dagli impiegati ai piani alti. Si immobilizzò sul posto, piantando le punte dei piedi per terra, cercando di non finire contro il corpo che aveva davanti. Il cuore rischiava di uscirgli dal petto dalla paura: solamente in quel momento si era fermato a pensare che, forse, era caduta in una trappola. Che il proprietario, pieno di sospetti, avrebbe potuto dargli un indirizzo sbagliato, magari quello di un edificio realmente abbandonato, per poi denunciarlo alle autorità. Dio, era stato uno stupido a credergli in quel modo, senza neanche farsi delle domande.
Mosse il polso lentamente, risalendo la figura che, in silenzio, gli sostava davanti. La luce illuminò prima i jeans scuri, leggermente usurati, poi si fermò sulla cintura nera all’altezza dei fianchi, per poi rivelare una maglietta grigia leggermente aderente che copriva un addome muscoloso. Una catena che ciondolava dal collo rifletté nella sua direzione, quando venne illuminata dalla torcia del telefono, poi quel viso. Un viso così familiare che quasi non fece cadere il telefono dalla sorpresa.
La carnagione olivastra della pelle, tesa in un atteggiamento difensivo, gli occhi castani che lo scrutavano quasi divertiti, ma anche tremendamente severi, i capelli corvini che gli ricadevano sulle spalle. Lo osservava in silenzio, con le labbra serrate in una smorfia divertita. Quell’espressione stonava con i lineamenti che gli erano tremendamente conosciuti, dato che li aveva osservati ogni giorno dall’altra parte del vetro della cella della PTEA & Co. Non ci poteva credere, era proprio…
“Che c’è, ti sei perso, bambolino?”
Fece un cenno della testa nella sua direzione, puntando gli occhi leggermente al di sopra delle spalle di Phichit. Questo era così sconvolto che non riusciva ad emettere un suono, e si ritrovava immobile in mezzo al buio, fissando il ragazzo di fronte a sé con un’espressione imbambolata e spaventato a morte. La mente non era ancora riuscita a riprendersi, quando sentì qualcosa colpirgli la nuca. Un dolore allucinante lo pervase dal collo in su, facendogli perdere i sensi e cadere sulle mattonelle fredde del pavimento.




 
Chiedo venia per aver aggiornato solo adesso, nonostante avessi i 2/3 del capitolo già pronti lunedì. E' un periodo un po' strano per me, devo prendere alcune decisioni importanti e prepararmi per la sessione estiva e per l'esame della patente e sono stanchissima. Fermamente convinta di essere carente in vitamina B, cercherò nei prossimi giorni di rimettermi in sesto, in ogni caso non vedo l'ora di poter andare al mare e lasciarmi gli esami alle spalle, non ne posso davvero più. 
In mia difesa, volevo pubblicare ieri nel primo pomeriggio, ma puntualmente - e dico proprio PUNTUALMENTE - perché fino a dieci minuti prima funzionava - la wi-fi ha avuto dei problemi e sono stata senza internet fino a sera. 
Passando al capitolo, finalmente Phichit diventa un personaggio importante della storia, anche se non proprio per ragioni pacifiche. Ci sono delucidazioni sulla conversazione tra lui e Yuuri, mentre la storia riprende, finalmente, una dimensione più dinamica. Da ora in poi sarà un susseguirsi di azioni fino alla fine, perciò preparatevi ahahah.
A proposito di questo, vi informo che la storia non durerà ancora a lungo, magari altri 3-4-5 capitoli, ma non credo molto di più, in ogni caso, potrei avere una o due sorpresine per voi. 
Fatemi sapere che ci siete ancora, lasciando recensioni, anche piccole (per arrivare a una trentina di parole ci vuole realmente poco) ed inserite la storia tra le preferite/seguite, così che io possa vedere chi ancora legge ed è interessato.
E niente... oggi niente pubblicità perché il computer bisticcia con sé stesso e ci mette la vita a caricarmi le pagine, in ogni caso potete trovare i link nei capitoli precedenti o le altre storie passando dal mio profilo, perciò non preoccupatevi.
Ultima cosa, in questi giorni mi sono finalmente decisa a vedere la serie di Takumi-kun (film) e l'ho divorata e amata alla pazzia, e ho qualche idea magari sulla coppia Arata-Shingyoji, perciò fatemi sapere se, nel caso, mi seguireste anche lì oppure no. Nessun problema se non siete interessate, è solo per sapere dato che sul sito non vi è neanche una sezione dedicata; male male mi butto su altri progetti (due dei quali ve li rivelerò nelle note dei prossimi capitoli, perciò stay tuned).
Un bacio,

Carlotta

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