12 Hours Of Unknown || A Jason Todd's Fan Fiction

di Axel Knaves
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00:00:00 ***
Capitolo 2: *** 00:34:47 ***
Capitolo 3: *** 01:40:23 ***
Capitolo 4: *** 02:27:53 ***
Capitolo 5: *** 04:11:39 ***
Capitolo 6: *** 05:08:12 ***
Capitolo 7: *** 08:55:56 ***
Capitolo 8: *** 10:30:38 ***
Capitolo 9: *** 11:02:17 ***
Capitolo 10: *** 12:06:25 ***
Capitolo 11: *** 17573:12:43 ***
Capitolo 12: *** Speciale di Pasqua ***



Capitolo 1
*** 00:00:00 ***




~ L'incontro ~

L'aria fredda della mattina mi pungeva irrefrenabile gli occhi mentre le mie iridi nocciola erano fisse sul sole che stava sorgendo sul mare.
Il vento mi faceva vacillare sul tetto del gigantesco grattacielo ma non ci feci caso, intanto in poco tempo non ci sarei più stata.
Inspirai accettando, finalmente, che quella sarebbe stata l'ultima alba vista da Laila Black.
Cosa mia aveva portato su uno dei più alti palazzi di Gotham?
Beh, tutto.
Non c'era una cosa nella mia vita andata bene. Per quanto mi fossi impegnata, per quanto mi fossi consumata fino all'osso per crearmi una bella vita, niente era andato per il verso giusto.
C'era stato un periodo in cui la mia vita sembrava - e notate bene che "sembrava" è la parola chiave - aver preso la piega giusta: avevo un buon lavoro alla Wayne Enterprise, avevo iniziato a riallacciare i rapporti con i miei genitori e avevo addirittura un ragazzo, il quale sembrava essere quello giusto.
Il tutto era collassato il giorno in cui avevo scoperto di essere incinta.
Avevo sempre pensato che Andrew sarebbe stato felice di avere figli, parlava sempre di quanto volesse una famiglia numerosa, per cui non fui spaventata di dirglielo subito; via telefono.
Quella sera, a ritorno dal lavoro, Andrew era sparito dall'appartamento lasciandomi un semplice biglietto sul mio comodino.
"Non mi ritengo abbastanza responsabile per crescere un figlio insieme a te". Aveva scritto, gettando così via tre anni di relazione e distruggendomi il cuore.
Il dolore fu così forte da farmi abortire.
Dopo l'aborto era bastato una settimana per perdere il lavoro e l'appoggio dei miei genitori. «Non voglio essere padre di una donna così debole da neanche reggere un abbandono!» Aveva urlato mio padre nel telefono quando lo avevo chiamato, sperando in un aiuto.
Dovetti deglutire per non scoppiare a piangere mentre fissavo l'alba.
Sospirai guardando il cielo, metà scuro e metà illuminato dai raggi del sole. Era un bel giorno per morire.
Senza troppi pensieri mi misi in piedi sul parapetto e guardai in basso. Il palazzo era atrocemente alto e l'ultima parte di me, ancora volenterosa di rimanere viva, cercò di farmi andare nel panico e di avvertirmi del pericolo.
Non ci feci caso, intanto chi mai mi avrebbe voluto viva?
«Sei davvero sicura di volerlo fare?» Chiese una voce sconosciuta accanto a me, prendendomi contro piede. Dallo spavento persi l'equilibrio e dopo aver cercato di riprenderlo, muovendo le braccia a caso, mi ritrovai di nuovo sul tetto del grattacielo con un perfetto atterraggio di sedere.
Alzai lo sguardo e penetrai l'uomo con uno sguardo. Descriverlo come "brutto" sarebbe stato mentire spudoratamente poiché di brutto quell'uomo non aveva nulla.
Era alto, fatto di muscoli. Poteva benissimo tagliarmi con quei lineamenti da favola. La combo capelli neri e occhi chiari non faceva altro che enfatizzare la sua bellezza. Il ciuffo bianco risaltava in modo impressionante.
Era vestito in modo molto tranquillo: un paio di jeans gli avvolgeva le gambe mentre una maglietta attillata combatteva per contenere i pettorali definiti. Il giubbotto di pelle e la sigaretta accesa in mano erano solo un tocco di classe.
Qualcosa si mosse nelle mie viscere a quella visione ma lasciai correre senza darci peso. L'ultima volta in cui avevo seguito quella stessa sensazione mi ero ritrovata su un tetto, pronta a gettarmi giù.
«Sì». Gli risposi secca, rimettendomi in piedi. I suoi occhi non persero ogni mio minimo movimento, come se si aspettasse di essere attaccato da me. «Per cui, se vuoi scusarmi».
Non indugiando sbuffai e, per la seconda volta quella mattina, mi issai sul parapetto del grattacielo.
«Non che siano fatti miei», intervenne ancora lo sconosciuto e dovetti trattenermi dal commettere un omicidio-suicidio. Non vedeva quello che stavo facendo? Non poteva darmi, che so, cinque minuti?
«Però vedere un cadavere spappolato a terra con le viscere e le cervella in ogni direzione, mi rovina sempre l'appetito. E io amo la mia colazione». Aggiunse.
Lasciai andare un ringhio esasperato e alzai gli occhi al cielo. Se quell'uomo era stato mandato lì per fermarmi stava facendo un lavoro proprio di cacca, redatto con il deretano.
«Se non vuoi vederlo, vattene o girati». Gli intimai. «Sarei un po' impegnata, se non l'avessi notato». Aggiunsi indicando il vuoto sotto di me con fare irritato.
Lui roteò gli occhi e non diede nessun intento di voler riaprire bocca: si mise la sigaretta in bocca e aspirò del fumo.
Finalmente lo avevo messo a tacere! Potevo concludere quella mia miserabile vita senza la presenza di un irritante uomo nel mezzo!
Presi un lungo respiro ed espirai tutto l'ossigeno presente nei miei polmoni. Ero pronta, quello era il momento.
Uno... Due.. Tr-
«Ma davvero vuoi rovinarmi la colazione?! Ti ho pure dichiarato il mio immane amore per lei!»
Urlai.
Urlai a pieni polmoni.
Urlai a pieni polmoni per non lanciare giù dal palazzo quell'imbecille.
«Cosa cazzo vuoi dalla mia vita?» Gli ruggì in faccia, scendendo dal parapetto e coprendo quelle due falcate che ci dividevano.
Il volto dell'uomo rimase un attimo sorpreso poi le sue labbra piene si incresparono in un sorriso affettato. Sgranai gli occhi.
Oh, no!
Avevo fatto il suo gioco: ero scesa di mia spontanea volontà dal parapetto ed ero stata io a parlargli per prima.
Mi aveva fermato dal togliermi la vita.
«Dodici ore». Mi rispose dunque con tono sbruffone. «Voglio dodici ore della tua vita».

 


~ Angolo Autrice ~

Tanto tempo fa mi ero detto di essere uscita dal mondo delle fanfiction, che era ora di concentrarsi sui miei progetti personali.
All'epoca non sapevo ancora chi era Jason Todd.
Eccomi di ritorno nel mondo delle fanfiction dopo anni di hiatus e un'opera originale completata!
Entrata da poco nel mondo dei fan della DC, come non potevo innamorarmi in 0,00000051984 millisecondi di Jason Todd? Ovviamente, essendo nel fandom da poco tempo, il mio Jason Todd risulterà molto OCC. Chiedo venia per questo. Ma le fan fiction è il mondo dove tutto può succedere giusto?
I capitoli non saranno mai lunghi: la storia è nata dallo stress della sessione d'esame per cui non avevo il tempo effettivo per scrivere capitolo molti lunghi o arzigogolati. La storia dunque non sarà molto lunga, ma spero sarà interessante.
Dovrei pubblicare una volta a settimana, probabilmente il lunedì, ma potrebbe cambiare giorno con l'inizio del nuovo trimeste universitario.
Spero di intrattenervi con gusto!
Le recensioni sono molto gradite, soprattutto quelle costruttive!
Al prossimo capitolo,

Axel Knaves

 

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Capitolo 2
*** 00:34:47 ***




~Colazione~

Strinsi la tazza di caffè tra le mani e lascia irradiare il calore dalla ceramica ai miei palmi.
Nel mentre mi continuavo a chiedere cosa ci facessi in presenza di un facocero.
Dall'altro lato del tavola Jason, avevo scoperto chiamarsi l'uomo del tetto, stava ingurgitando la sua quinta fetta di cheesecake e la sua terza tazza di cioccolata calda.
Dal modo in cui stava mangiando sembrava non toccasse cibo da un secolo e mezzo.
«La gente sta fissando». Gli feci notare, nascondendo il viso nella mia tazza sorseggiando il caffè.
No, davvero, come ero finita ?
Quando Jason mi aveva chiesto di concedergli dodici ore della mia vita – o come le chiamavo io le ultime dodici ore della mia vita – la mia bocca aveva risposto “sì” senza neanche aspettare di sintonizzarsi con il cervello.
Okay, magari dovevo ammettere a me stessa il vero motivo per cui il mio cervello non aveva funzionato: la bellezza del ragazzo lo aveva fatto andare in totale tilt.
Odiavo l'effetto che l'uomo aveva su di me ed odiavo ancora di più non essere in grado di contenere le mie reazioni: appena un sorriso vero aveva illuminato il volto duro del giovane, le mie goti erano divenute purpuree senza il mio consenso e il mio cuore aveva iniziato a battere all'impazzata. Dannazione ai suoi denti bianchi e perfetti.
«Io sono di bell'aspetto, tu anche, comprendo perché stiano guardando da questa parte». Rispose lui riuscendo a chiudere in bocca il boccone di cibo più grande che avessi mai visto. Non sapevo se stavo guardando un uomo cibarsi o uno scoiattolo infilarsi delle nocciole in bocca.
Se gli avessi fatto un filmato e lo avessi caricato su YouTube sarei potuta diventare ricca?
«Non era quello che intendevo», sottolineai con tono piatto, per nulla impressionata dal suo mini attento di flirt. «E non sono di bell'aspetto, sono una cozza». Chiarii.
Jason fermò il boccone successivo a una spanna dalla bocca e mi guardò con un sopracciglio alzato.
«Allora devi essere la regina delle cozze».
Non so se fu più la frase o il sorriso affettato sporco di torta a farmi venire voglia di staccarmi i mie capelli neri con le mani.
Ma era serio?!

Inspirando profondamente, e cercando di non ucciderlo, decisi di non spingere oltre questo lato di Jason appena scoperto, cambiando discorso.
«Ci stanno fissando perché messi a disagio dal tuo modo di mangiare». Spiegai senza più mezzi termini.
«E allora?» Chiese lui iniziando la sesta fetta di torta, ne aveva ordinate otto. OTTO! «Dì che guardino. Faccio un lavoro notturno in cui molte energie sono sprecate, devo bilanciare». Spiegò infastidito.
Prima di avventarsi di nuovo sulla fetta però si fermò e mi fissò dubbioso negli occhi.
«A te non da fastidio, vero? Il mio modo di mangiare, intendo». Chiese e notai una piccola scintilla di panico nei suoi occhi chiari.
Sentii il mio cuore fare un piccolo balzo. Davvero gli importava di ciò che pensavo? Anche se aveva appena chiarito quanto non gli importasse cosa pensassero gli altri?
Non riuscì a trattenere un sorriso dal crescermi in faccia. Mi portai di nuovo la tazza alla bocca per cercare almeno di nascondere le guance arrossate.
«Sembri un facocero alla fame», gli risposi schietta, «ma non mi metti a disagio; solo non mangiare anche me quando finisci la torta».
Gli occhi dell'uomo divennero un attimo più scuri. Alzai un sopracciglio: qualcosa non andava nella mia risposta?
«Se volevi essere mangiata da me, dovevi solo chiedere». Disse con voce rauca.
Gli occhi mi si sbarrarono mentre un brivido mi percorse tutto il corpo prima di mandare in subbuglio il basso ventre. Il caffè che stavo bevendo mi andò di traverso e iniziai a tossire come se stessi per sputare fuori un polmone.
Jason, dopo aver messo da parte il sesto piatto vuoto, iniziò a ridere come un matto alla mia reazione.
Oh per Zeus! Continuava ad urlare il mio cervello mentre il mio corpo cercava di tornare a respirare. Ma il cuore a mille e l'improvviso aumento di temperatura nel basso ventre non aiutavano di certo. Nessuno ci aveva mai provato con me in un modo così impudente e senza veli. Nessuno aveva mai affermato di volermi mangiare e di certo non con quell'intenso sguardo predatorio.
Nessuno dei miei ex era mai stato così “spinto” con me, anche nei momenti più intimi nessuno aveva mai usato termini scurrili o avevano mai avuto uno sguardo così intenso guardandomi. E a me era sempre andato bene, non conoscendo nient'altro.
Ora, però, mi rendevo conto di quanto avessi perso e di quanto quel comportamento in un uomo mi procurasse una scarica di eccitamento mai provata prima.
«Potresti smetterla di provarci?» Gli chiesi quando riuscì a riprendere il controllo del mio corpo. «Vorrei bere il caffè, non strozzarmici!»
Jason, il quale aveva appena messo da parte il settimo piatto vuoto, scosse la testa mentre un sorriso perenne gli sembrava essere scoppiato in volto.
«Laila io sono il re del flirt». Mi disse lui. Il mio palmo ci mise meno di un secondo prima di connettersi con la mia fronte.
Un facocero rincoglionito, ecco cosa avevo davanti.
«E sai di cosa ha bisogno un re?» Continuò lui non dando peso alla mia reazione.
«Perché ho la netta sensazione di non volerlo sapere?» Cercai di fermarlo ma lui fece finta di non sentirmi.
«Una regina!» Esclamò battendo la mano sul tavolo, attirando l’attenzione degli altri clienti. «E oggi sono così fortunato ad averne davanti una!»
Per trenta buoni secondi riuscii solamente a sbattere le palpebre.
Era serio? Qualcuno mi dica che stava scherzando! Oh Poseidone! Era davvero serio…
«No Maria, io esco!» Esclamai prima di alzarmi e velocemente correre fuori dal locale. No, no, no, no non ero pronta per riuscire ad affrontare un rincoglionito ancestrale a quell’ora del mattino.
«Ehi, aspetta Laila!» Sentii la voce di Jason alle mie spalle. «Chi diamine è Maria?»
 

Angolo Autrice
Ed eccomi con il secondo capitolo! Come avevo già detto non saranno molto lunghi, ma cercherò di spiegare al meglio il rapporto che si instaurerà tra Jason e Laila.
Spero che vi sia piaciuto e al prossimo capitolo!

Axel Knaves

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Capitolo 3
*** 01:40:23 ***




~ Libri ~

 

«Non ero mai stata in giro per la città con ancora tutti i negozi chiusi». Rivelai a Jason mentre camminavamo per i marciapiedi vuoti. «Mi piace questa atmosfera calma, è un gran peccato come si perda durante il giorno».
Seppur fosse metà dicembre e Jason avesse addosso solo una giacca di pelle - sotto alla mia sciarpa di lana non comprendevo come ci riuscisse - avevamo scelto di passare un po’ di tempo in giro per la città ancora isolata. E per Gotham era una cosa particolare avere le strade vuote, visto come anche di sera popolavano di criminali.
Jason mi sorrise e annuì.
«Sì è un vero peccato», fu d'accordo lui, «infatti faccio sempre quattro passi a quest'ora, mi rilassa».
Lo guardai un attimo titubante.
«E quando dormi?»
«Mmh?»
Roteai gli occhi al cielo, per l'amor degli dei se questo uomo era difficile da aprire! Molto più semplice scartare un chupa chups.
«Prima hai detto di avere un lavoro notturno; adesso hai detto di fare sempre una passeggiata a quest'ora: quando dormi?»
Jason ridacchiò e il mio cuore fece un capitombolo a quel suono, era leggiadro ed elegante.
«Non spesso», mi rispose dopo un attimo. «Di solito riposo solo un paio d'ore in dormiveglia qua e là. Dormirò un paio di volte al mese, se va bene».
Fissai l'uomo e mi ritrovai preoccupata per la sua salute. Perché non dormiva? Avrei potuto fare qualcosa?
Jason si fermò all'improvviso e mi prese per un polso. I miei occhi si dilatarono e trattenni il respiro mentre vidi la mano libera viaggiare fino a quando il suo pollice non fu appoggiato sul lembo di pelle tra le mie sopracciglia.
«Non dovresti preoccuparti per me», mi suggerì mentre massaggiava il piccolo pezzo di pelle. Quel gesto stava mandando in tilt il mio sistema nervoso e, anche se lui non diceva nulla, sapevo di essere ormai rossa pomodoro.
«Non dovrei essere la causa delle rughe di nessuno». Aggiunse lui con un sorriso triste, distogliendo gli occhi da me. Sentii qualcosa rompersi dentro di me a quell'espressione triste e mi ritrovai a chiedermi quanto l'uomo fosse in realtà ferito, nel profondo.
Jason dovette aver sentito il mio stato d’animo poiché in pochi secondi cambiò totalmente discorso e il suo umore.
«Oh! Non sapevo avessero aperto una nuova libreria da queste parti!» Esclamò fiondandosi davanti alla vetrina piena di libri e un cartello con scritto: “Nuova apertura”.
Rimasi ferma un attimo sul marciapiede prima di sospirare e voltarmi verso l’uomo.
Non sapevo perché, però mi sentivo infastidita dal fatto che Jason fosse così restio ad aprirsi. Ero consapevole di come ci conoscessimo solo da poco più di un’ora e in realtà non sapessimo nulla l’uno dell’altra.
Eppure lui era entrato nella mia vita nel momento peggiore e aveva deciso di sprecare quelle ore della sua giornata con me, senza neanche darmi una spiegazione. Il fatto che mi avesse chiesto di fidarmi di lui, un estraneo, per riuscire a ritrovare un motivo per vivere - non ero così stupida da non aver capito perché mi avesse chiesto dodici ore della mia vita - per poi non fidarsi di me quel tanto da aprirsi su certi traumi, mi rodeva un po’ lo stomaco.
Il mio corpo e la mia mente stavano cercando un modo di legarsi a quell’uomo, non solo per darmi un motivo per non ritornare sul palazzo di quella mattina, ma anche perché sentivo come Jason fosse molto simile a me. E di certo non volevo che mai nessuno soffrisse nello stesso modo in cui stavo soffrendo io.
«Ti piace leggere?» Gli chiesi appena lo ebbi raggiunto davanti alla libreria. Se non riuscivo ad aprirlo come un uovo di pasqua sui suoi traumi almeno volevo conoscerlo un minimo.
«Sì, molto», mi rispose studiando i titoli esposti. «A te?»
Gli sorrisi e per un attimo fui spaventata della rigidità delle mie guance a quel gesto. Da quanto non sorridevo davvero? Ma soprattutto da quanto qualcuno non dava per scontato i miei hobby e mi chiedeva cosa mi piacesse fare?
«È uno dei miei hobby preferiti».
Jason si voltò e il mio cuore non potè fare a meno di perdere un battito quando vidi l’espressione di pura felicità dipinta sul viso di lui.
«Che generi preferisci?» Mi chiese ancora, cercando di contenere, orribilmente, il suo eccitamento. Ridacchiai un attimo sotto i baffi poiché in quel momento mi sembrava un bambino a Natale.
«Un po’ tutti», risposi infine, «maggiormente leggo fantasy e young adult, piccoli difetti rimasti dall’adolescenza». Gli spiegai. «Se scritti bene mi piacciono anche libri storici e horror».
Jason annuì comprendendo i miei gusti.
«Io sono più sul genere giallo...» Disse con tono dolce amaro.
Alzai un sopracciglio.
«Non ne sembri molto sicuro». Lo incalzai.
Jason si grattò la testa a disagio.
«No, no ne sono sicuro… Solo che...» Ma lasciò la frase a metà, come se si vergognasse.
«Solo che?» Chiesi, sperando in cuor mio di riuscire a farlo aprire un poco.
«Solo che mi sono avvicinato al genere grazie a mio padre...» Concluse con un sospiro. «Ed ora mentre leggo un libro giallo vengo ricordato come il nostro rapporto sia degenerato negli ultimi anni, quasi da non riuscire a rimanere da soli senza litigare».
Gli misi una mano sulla spalla e quando i suoi occhi chiari, pieni di tristezza, incrociarono i miei scuri gli sorrisi, facendogli capire che sapevo benissimo cosa stesse passando. Jason dovette aver compreso il messaggio poiché mi sorrise nello stesso modo.
«Qual è il tuo libro preferito?» Mi chiese dopo qualche minuto di silenzio.
«Mmh..» Riflettei un attimo. «Non ne sono sicura, ci sono due o tre libri senza cui non potrei vivere. Il tuo invece? Sempre un giallo?»
Sul volto di Jason comparve, per l’ennesima volta quella mattina, un sorriso affettato.
Oh dei!
«Nah, per nulla giallo». Rispose. «Il mio libro preferito è il Kamasutra».
Il mio volto si contorse in una smorfia di disperazione.
«Io ci rinuncio con te». Gli dissi prima di riprendere a camminare in una direzione a caso, l'importante era mettere più distanza possibile tra me e quell’idiota.
«Eddai Laila!» Mi richiamò lui, divertito. «Cosa ti aspettavi da me?»
Non potei fare a meno di sorridere a mia volta.
Mi era mancato sorridere.

 

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Capitolo 4
*** 02:27:53 ***



 

~Arcade~

 

Fissai l’insegna con i neon accesi chiedendomi da quando in Downtown ci fosse ancora un Arcade aperto a quell’ora del mattino.
Erano anni che non andavo in una sala giochi, probabilmente dagli anni dell’adolescenza. Negli ultimi sette anni avevo usato tutte le mie forze e risorse per crearmi una vita in grado di riuscire a compiacere i miei genitori.
Il rapporto tre me e i miei non era mai stato dei migliori: erano quei genitori che organizzavano la vita del figlio nei più minimi dettagli dalla nascita alla morte. Quando a diciotto anni avevo deciso di studiare economia invece di medicina, come volevano loro, erano andati ad un passo dal diseredarmi.
Si erano contenuti solo dopo aver visto i miei voti: nessuno al di sotto dell’eccellente.
Quando finalmente avevo trovato lavoro alle Wayne Enterprises e un ragazzo approvato da entrambi, ero riuscita in qualche modo a sotterrare il loro odio per me.
Non che in quel momento importasse qualcosa: mio padre mi aveva già promesso di diseredarmi appena il comune gli avesse dato tutti i moduli necessari.
In poco tempo sarei rimasta completamente senza famiglia.
«Un arcade?» Chiesi a Jason senza distogliere lo sguardo dalle lettere luminose. Mi ero scordata quanto fossero belle.
Probabilmente il mio tono fu frainteso poiché Jason andò nel panico.
«Oh, no! Non dirmi che sei una di quelle donne con l’idea per cui solo i ragazzi possono essere nerd». Disse con tono disgustato.
In un attimo mi voltai verso di lui con uno sguardo di fuoco, il mio orgoglio geek ferito nel profondo.
«Se mi accusi di certe cose un’altra volta ti prendo a joystick nei denti». Lo minacciai e potei giurare di averlo visto fare un passo indietro, come spaventato dalla mia veemenza.
«Scusa», disse lui con una risata tirata, «ho frainteso il tuo tono».
Ruotai gli occhi al cielo.
«Ero persa nei miei pensieri», spiegai, «sembra essere passato un secolo dall'ultima volta in cui sono entrata in una sala giochi».
Il volto di Jason si aprì in un sorriso a trentadue denti. Una parte di me si sciolse a quella visione, un’altra, quella più razionale e terra-terra, si mise sull’attenti; non fidandosi per nulla dell’espressione dell’uomo.
«Allora è meglio sbrigarsi!» Esclamò prima di prendermi per il polso e partire a razzo verso la porta dello stabile. Dietro di lui inciampai nei miei stessi piedi più di due volte.
«Jason!» Protestai. «Calmati un attimo, deficiente! Se mi trascini ancora un po’ mi ritrovo faccia a terra! Un tuo passo sono dieci miei!» Gli feci notare ma fu come se lui non mi avesse sentito.
In quel momento odiai all’inverosimile i venti centimetri in più dell’uomo.
«No, no». Scosse la testa lui senza fermarsi o rallentare. «Abbiamo un secolo da recuperare. Prima si inizia, meglio è!»
«Ugh...» Mi lamentai.
Non volevo entrare nella sala giochi trascinata da Jason, soprattutto non volevo rischiare il collo perché il moro non si rendeva conto quanto una sua falcata fosse il triplo della mia. Guardando la schiena muscolosa dell’uomo decisi che non c’erano altre soluzioni.
Presi tutto lo slancio possibile e balzai addosso all’emergumeno di fronte a me. Jason perse un attimo l’equilibrio, vacillando in avanti, ma io ero un koala testardo. In pochi attimi le mie braccia furono strette attorno al suo collo e le mie gambe erano una tenaglia attorno alla sua vita.
Appena Jason riprese l’equilibrio e si fermò per comprendere cosa stessi facendo, il mio cervello impazzì. Il tatto e l’olfatto avevano preso il sopravvento sugli altri sensi e mi stavano per far sanguinare il naso come capitava al Genio delle Tartarughe.
Il corpo di Jason non era solo muscoloso, era compatto e tonico. Ad ogni suo movimento sentivo i suoi muscoli tendersi e contrarsi meglio di una fisarmonica; la mia mente non potè che chiedersi cosa quell’uomo mi avrebbe potuto fare in un letto con tutto quella forza.
Con la testa nascosta nell’incavo del suo collo non potei non respirare il suo profumo. Sapeva di sigarette, polvere da sparo - se vivevi a Gotham tutta la tua vita imparavi quale odore avesse la polvere da sparo e la sapevi ben distinguere da quella di un esplosivo - e lavanda. Era una combinazione strana ma elegante, soprattutto eccitante.
«Cosa stai facendo?» Mi chiese lui e notai come si fosse irrigidito comprendendo cosa avevo fatto. Era arrabbiato? Dovevo scendere?
«Non volevo entrare in un arcade trascinata da te», gli risposi decidendo di rimanere dov’ero, « e visto come non mi stavi ascoltando ho deciso di fare di testa mia».
Jason si rilassò e la sua risata fece iniziare una cucaracha al mio basso ventre mentre sentii le guance diventare scarlatte. Fortunatamente l’uomo non poteva vedermi.
«Sei fantastica, te l’hanno mai detto?» Mi chiese tornando a camminare verso l’arcade. Le sue mane callose e delicate allo stesso tempo, si appoggiarono sotto le mie cosce per sostenermi e quasi lasciai andare un gemito di piacere quando un suo pollice iniziò a creare dei piccoli cerchi sulla mia pelle.
Prima di rispondere inghiottì a vuoto, la gola d’un tratto totalmente secca.
«Non quanto mi piacerebbe». Confessai.
A pochi passi dalle porte però mi venne in mente un’altra cosa importante.
«Emh.. Jason?»
«Sì, Laila».
«Non ho soldi». Pigolai tristemente, ricordandomi di aver speso tutto per la colazione.
«Non ti preoccupare», mi disse lui, «sarà la carta del mio vecchio a offrirci questo giro».
Corrugai la fronte a quelle parole.
«Non andate d’accordo e ti ha offerto una carta di credito?» Chiesi, totalmente non convinta.
«Diciamo più che l’ho presa in prestito dal suo portafoglio». Ridacchiò lui e le mie sopracciglia volarono all’attaccatura dei capelli.
«Gliel’hai rubata?!»
«Presa in prestito», corresse lui. «Ne ha sei nel portafoglio, Laila, non se ne accorgerà. Tranquilla».
A quelle parole credetti di svenire.
Sei carte di credito? Chi cazzo era il padre di Jason? Bruce Wayne?

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Capitolo 5
*** 04:11:39 ***


~ Peluche ~

Ritornare in una sala giochi dopo tutti quegli anni era stato divertente. Ma ancora meglio era stato stracciare Jason appena ebbi ripreso la mano con Dance Mania.
Un piccolo gruppo di ragazzi delle superiori - i quali avevano ovviamente saltato la scuola - si erano fermati a vedere la nostra guerra e mi avevano pure fatto un giro di applausi appena avevo finito di stracciare il mio avversario.
Dopo un paio di inchini, comunque, Jason aveva notato la giacca della Gotham Accademy e gli aveva fatto un piccolo discorsetto su quanto fosse sbagliato saltare le lezioni. Mamma Jason alla riscossa, signori e signore!
Anche se la scena mi aveva fatto sorridere, soprattutto perché non avrei mai preso Jason per una figura paterna così  buona, nello stesso momento mi ritrovai a pensare se in quindici, sedici anni quella a sgridare un figlio sarei potuta essere io, se non avessi perso mio figlio.
Nell’ultimo mese il “cosa sarebbe successo se” era un mio compagno costante. Senza più un compagno, dei genitori e un lavoro; il mio cervello guazzava in quel limbo infinito senza interruzzioni.
Se fossi stata più forte sarei riuscita a tenere il bambino? Sarebbe stato un maschio o una femmina? Avrebbe avuto i miei occhi? Il mio sorriso?
E continuavo così fino a quando Morfeo mi stringeva fra le sue braccia, facendomi dimenticare tutto.
L'unica cosa di cui ero soddisfatta era di non essermi mai chiesta cosa sarebbe successo se Andrew fosse rimasto con me.
Dopo la dipartita dell'uomo, passato il cuore spezzato, mi resi conto quanto la relazione con lui mi avesse reso infelice. Andrew aveva bloccato ogni mio contatto con il mondo esterno facendomi concentrare solo sul lavoro e sui soldi - ora vedevo perché era andato così a genio ai miei genitori.
Mi aveva fatto perdere una gran parte delle gioie della vita e non me n'ero accorta fin quando lui non se n'era andato.
E per quanto i miei mi incolpassero della dipartita dell'uomo, io ne ero grata.
La prima notte passata sul divano, Netflix accesso e sacchetti vuoti di cibo spazzatura tutti intorno a me, senza Andrew, ero scoppiata in lacrime poiché stavo facendo qualcosa per me dopo anni passati a fare cose solo per qualcun altro.
Distolsi lo sguardo da Jason, sperando di ritornare con la testa al presente, quando i miei si incollarono al banco dei premi. La parete era coperta di peluche, da quelli orribili, a quelli coccolosi e a quelli giganti. Gettando fuori dalla finestra tutte le mie buone intenzioni il mio cervello decise di partire come suo solito.
Mio figlio sarebbe stato un raccoglitore ossessivo di peluche come me? O avrebbe avuto quel singolo peluche, un po’ sgualcito, che avrebbe amato più della sua stessa vita? Avrei dovuto imparare a cucire per metterglielo a posto?
Sarebbe stato un orsetto o un coniglio? Magari quello con una finta giacca di pelle?
Avrebbe pianto come una fontana la prima volta che l'avrebbe perso e avrei dovuto fare i salti mortali per trovarlo perché lui, o lei, voleva quel peluche?
Magari dopo aver imparato a rattopparlo, mio figlio mi avrebbe chiesto di insegnargli a cucire per poterlo fare da solo?
«Ehi, ehi», la voce di Jason mi portò alla realtà. Voltai di scatto la testa e notai l'uomo a poco più di un braccio da me; i ragazzi di prima da nessuna parte. «Ti stavi facendo un viaggio infinito e non hai neanche avuto la decenza di invitarmi!»
Sorrisi quando Jason mise un finto broncio.
«Tranquillo», gli dissi gentilmente, «non era nulla di così importante».
Jason mi studiò un attimo in viso, cercando qualcosa, poi scosse la testa con fare deluso.
«Per quanto tu sia brava a mentire, e bada, detto da me è molto», mi riprese lui, «ho visto come studiavi i peluche. Qualunque pensiero ti stava passando per la testa era importante, per te».
Abbassai un attimo gli occhi sulle scarpe, sentendomi un po’ colpevole di essere stata beccata a mentirgli. Con la coda dell'occhio tornai a fissare i peluche e, dopo essermi torturata il labbro inferiore, decisi di togliermi quel peso dal petto.
«Quale peluche pensi che un bambino apprezzerebbe di più?» Gli chiesi guardando prima lui e poi lo stand.
Notai con la coda dell'occhio come Jason si irrigidì e mi guardò con uno sguardo strano, era odio quello nelle sue iridi?
«Hai un figlio?» Mi chiese a denti stretti, le mani strette a pugni, ma cercando di trattenere la rabbia.
Scossi il capo, non capendo il perché di quel comportamento.
«No», risposi con voce debole, spaventata dal nuovo Jason, «avrei potuto averlo, ma la natura e la vita hanno deciso di togliermelo prima».
In un attimo l'odio negli occhi di Jason scomparve e venne sostituito da tristezza. Non pietà, constatai. Il corpo dell'uomo si rilassò a sua volta.
«L'hai perso».
Non era una domanda ma annuii comunque.
«Un mese fa, circa».
Rimanemmo un attimo in silenzio però la curiosità prese il sopravvento.
«Prima cosa stavi pensando?» Chiesi direttamente. «Eri rigido e per un secondo ho pensato che mi stessi per uccidere».
Jason divenne rosso alla mia osservazione, grattandosi la nuca, ovviamente in imbarazzo.
«Per un attimo ho pensato che stessi per lasciare un bambino senza una madre». Rispose lui con voce tirata e sentii una fitta al cuore.
«Ora credo che sono io quella che vuole ucciderti». Gli sibilai. Ero offesa, ero offesa all'idea di essere scambiata per quella testa di cazzo del mio ex.
«Non sono come il mio ex: mi ha lasciata appena ha saputo della mia dolce attesa. Erano anni che stavamo insieme, aveva sempre parlato di voler una famiglia numerosa. Il dolore è stato così forte da farmi avere un aborto spontaneo».
«Scusa». Disse lui e dal tono compresi che le intendesse davvero. «È stato un riflesso pensare che avessi deciso di abbandonare tuo figlio, i miei genitori naturali l’hanno fatto, in un certo senso, con me».
Mi sentii i sensi di colpa crescermi dentro a quella rivelazione: lo avevo attaccato senza sapere nulla di lui.
«Mi dispiace per quel che ti è successo». Gli dissi, sperando comprendesse i miei pensieri e non scambiasse il mio dispiacere per pietà.
«Non ti preoccupare, il mio padre adottivo mi ha tirato fuori da quella vita fortunatamente». Mi spiegò e non potei fare a meno di ridacchiare.
«Ha un figlio proprio grato», lo presi in giro, «così grato da rubargli le carte di credito».
«Non è colpa mia se ha lasciato il portafoglio incustodito sulla scrivania», fece spallucce lui. «Meglio per me, posso offrire a questa splendida donna ore e ore di intrattenimenti senza andare a danneggiare il mio conto».
Ed eccolo che ritornava con il suo sorrisetto tagliente. Ruotai gli occhi al cielo con un sorriso in volto.
«Calmati Romeo», gli dissi. «Se vuoi davvero farmi felice ne hai ancora di strada davanti!»
«È una sfida?» Mi chiese avvicinandosi così da far sfiorare i nostri petti. Dovetti alzare la testa per riuscire a guardarlo negli occhi.
«Chi lo sa». Risposi con lo stesso sorriso in volto. A questo gioco si poteva giocare in due, giusto?

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Capitolo 6
*** 05:08:12 ***




~Pranzo~

Dovevo ammetterlo: Jason sapeva come corteggiare una donna e farla sentire importante.
Dopo aver accettato la sua sfida, l’uomo mi aveva trascinato in lungo e in largo per la sala giochi pur di sentirmi dire: “Hai vinto”. E seppur i piedi mi facessero male, non potevo non essere contenta di Panda, il peluche a forma di panda gigante che Jason aveva vinto per me.
«Ma davvero vuoi chiamarlo Panda?» Mi chiese l’uomo dagli occhi verdi mentre fissava concentrato il pupazzo seduto al tavolo con noi.
Pochi minuti prima il mio stomaco, vuoto da quasi ventiquattro ore, aveva deciso di farsi sentire gorgogliando in modo così possente da far chiedere a Jason se fossi impossessata da qualche demone. Ovviamente avevo chiesto scusa a Panda subito dopo averlo usato come arma contro l’uomo.
Ma il bruno non se l’era presa, aveva riso e, prendendomi per il polso ancora una volta, mi aveva trascinato fuori dal locale per poi infilarsi nel caffè più vicino.
Anche se era stato il mio stomaco quello preso nell’atto di lamentarsi, il mio ordine era stato molto esiguo rispetto a quello del mio compagno. Mi stavo iniziando a chiedere se lo stesse facendo apposta per spendere più soldi possibili con la carta di credito di suo padre.
Ovviamente la mia vita non poteva andare bene al cento per cento e la cameriera aveva dovuto provarci con Jason tutto il tempo in cui era rimasta a prendere il nostro ordine. E anche se mi dava fastidio ammetterlo, un po’ ero diventata gelosa. Da parte sua Jason, sempre che avesse notato le secondi intenzioni della donna, non aveva battuto ciglio rispondendo semplicemente con gentilezza e niente più, facendomi sorridere dietro la mano.
La faccia della cameriera quando Jason aveva chiesto una sedia per Panda, ancora in grembo a me, non volendolo appoggiare affatto a terra, era stata stupenda. Avevo comunque tentato la morte il momento in cui Jason aveva spiegato la richiesta con un: “È nostro figlio”; lo sguardo d’odio e di gelosia della donna mi aveva quasi sotterrato.
«L’alternativa era Jason Junior», gli risposi, «sai… Il ciuffo e il fatto di fare davvero schifo a dare nomi alle cose».
Jason sorrise e portò di nuovo gli occhi su di me, aspettando il pranzo.
«Questo l’avevo intuito quando hai risposto: “Panda” alla domanda: “Come vuoi chiamarlo?”», disse con tono sarcastico, con il volto illuminato da un sorriso. Sbuffai irritata, ma non protestai: ero davvero un disastro a dare i nomi.
«Per cui Panda lo trovo un orribile scelta», continuò Jason, «approvo “Jason Junior” come suo nome ufficiale, di certo la bellezza l’ha presa da me».
Ed ecco il Jason che avevo iniziato a conoscere quella mattina venir fuori.
«Spero non abbia preso il tuo stesso ego oppure stasera potrebbe dormire fuori casa». Gli lanciai una frecciatina.
Jason fece il finto sconvolto: aspirando in modo melodrammatico e mettendosi pure una mano sul petto con fare teatrale.
«E tu tratteresti nostro figlio in questo modo?» Mi chiese con tono indignato. «Voglio il divorzio e la tutela di Junior!»
Scoppiai a ridere come un’idiota, gettando la testa all’indietro e quasi cadendo dalla sedia. Non sapevo come ma con Jason riuscivo a scherzare su quello, riuscivo a vedermi in un futuro per nulla cupo in cui avevo un lavoro che mi piacesse e un figlio.
Riuscivo a vedere un futuro dove avrei potuto stringere tra le braccia un pargolo, chiamarlo mio e vederlo crescere.
Jason mi stava ricordando come la vita non si ferma mai, crea sempre nuove strade per darti una seconda possibilità. Dovevi solo avere il coraggio di prenderle e percorlele.
«Mi dispiace», gli dissi asciugandomi le guance dalle lacrime, «Junior ha già decretato quanto ama molto di più stare nel mio letto rispetto al tuo».
«Ah!» Esclamò ora in tono sprezzante Jason guardando il panda. «Così ora l’allievo supera il maestro ed entra nei letti delle belle donne grazie alla sua tenerezza!»
Gli altri clienti ci stavano guardando in modo strano. Alcuni erano evidentemente preoccupati per la nostra salute mentale, altri ridacchiavano e un paio di coppie di signori anziani sorridevano addolciti.
Ma feci finta di nulla, dopo tanto tempo era bello poter essere se stessi.
«La tenerezza batte tutto Jason», gli feci notare. «Dovresti prendere tu qualche lezioni da Junior, non il contrario».
«Ahi». Si lamentò lui, stringendosi il petto con una mano. «Questa ha fatto male Laila, molto, non puoi andare in giro a distruggere l’orgoglio della gente in un modo così brutale».
«Visto quanto ne hai di troppo non ci vedo nessun problema ad arrotondare un po’ gli angoli», feci spallucce.
Jason mise un finto broncio e incrociò le braccia al petto.
«Fuori sarai pure tutta tenera-tenera, donna, ma dentro sei davvero perfida».
Ridacchiai.
«Faccio del mio meglio».
Con i piatti arrivò anche la seconda dose di sguardi gelosi della cameriera. Dopo aver posato i nostri ordini sul tavolo - e mi chiesi se fosse stata così stronza da sputarmi nella bibita per ripicca - si voltò verso Jason.
«Se vi serve qualcos’altro non aspettate a chiamami». Disse con tono da civetta.
L’istinto mi disse di prenderla a schiaffi, Jason lo fece in modo morale.
«Ho del cibo, la donna migliore che potessi chiedere e un figlio che è tutto suo padre; cosa mai potrei volere d’altro?» Chiese con un sorriso sordone in volto.
Non seppi chi diventò più rossa tra me e la cameriera. Se lei per la rabbia o io per la lusinga. Fui certa, però, che un gruppo di ragazzini un paio di tavoli da noi fecero un piccolo coro di: “Uuuhhh”.
La cameriera se ne andò imbarazzata e pestando i piedi, mentre Jason fece finta di nulla.
La mia mente ovviamente non volle collaborare così bene e si disperse in un mondo fatto di balocchi, cieli di zucchero filato e di me e Jason sposati.
«Lo mangi quello?» Mi chiese Jason, notando come ancora non mi ero messa a mangiare.
«Co–» dissi ritornando dal mondo della fantasia ma era troppo tardi: l’uomo mi aveva rubato la fetta di pizza con il pezzo di wrüstel più grande.
«JASON METTI GIÙ IL MIO TRANCIO DI PIZZA O GIURO SU ADE CHE TI TAGLIO IL PENE!»

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Capitolo 7
*** 08:55:56 ***




~ Cinema ~

Dopo averlo guardato ingurgitare un quintale di patatine fritte e tre hamburger – avevo deciso di non provare più a comprendere quanto quell’uomo potesse mangiare – Jason mi aveva quasi staccato un braccio nell’intento di trascinarmi fuori dal locale.
Quasi dimenticandosi di Jason Junior.
«Tuo figlio!» Avevo esclamato quando eravamo arrivati alla porta del diner, indignata. Jason si era fermato di scatto, mandandomi a sbattere contro la sua schiena.
«Mio figlio!» Aveva ripetuto l’uomo sconvolto, tornando sui suoi passi per prendere il mega pupazzo. «Scusami, Junior. Non volevo lasciarti».
Metà della clientela del locale si era girata verso Jason, il quale stava continuando a sussurrare scuse al panda gigantesco, ma per la prima volta in tanto tempo mi trovai a non curarmene minimamente.
Con il cuore leggero come non mai mi misi a ridere alla visione di Jason, con tutta la sua aria da bad boy, che cullava una panda gigante dicendogli frasi dolci all’orecchio.
Dopo anni in cui sia i miei genitori, sia il mio ragazzo mi avevano imposto di dover essere sempre perfetta e di avere sempre un contegno degno di una donna d’alto rango del diciannovesimo secolo, finalmente mi sentivo me stessa, mi sentivo libera.
Per una volta tutto quello che mi era capitato nella vita non sembrava il peggio; sembrava avermi portato, invece, alla libertà di cui avevo bisogno.
Per la prima volta da quando avevo perso mio figlio riuscii a collegare l’idea di quel bambino mai vissuto con un pensiero positivo: era grazie a quel bambino se finalmente mi sentivo me stessa e mi sentivo libera.
Senza quasi accorgermene le risa si trasformarono in singulti sempre più forti mentre le lacrime di felicità e commozione iniziarono a sgorgare come fiotti da una fontana. Così avvolta in quello strato di potenti emozioni non mi ero accorta di come Jason fosse corso in mia aiuto o di come mi avesse preso per le spalle e mi avesse trascinato fuori dal locale.
Non mi ero neanche accorta di come mi avesse fatto sedere in una panchina poco lontana e mi avesse messo tra le braccia il mio panda di peluche così da farmelo abbracciare mentre mi sfogavo.
«Scusami». Pigolai con voce rauca, quando finalmente ebbi ripreso un certo contegno. Jason era rimasto seduto accanto a me per tutto il tempo senza dar l’impressione di non essere a suo agio.
L’uomo di voltò verso di me con un sorriso dolce e mi scompigliò i capelli.
«Non ti scusare mai per piangere». Mi disse. «Piangere è una reazione naturale per quando siamo sopraffatti dalle nostre stesse emozioni, serve per bilanciare di nuovo noi stessi».
Gli sorrisi a mia volta.
«Belle parole, ma non sembrano farina del tuo sacco». Risposi sincera, facendolo scoppiare a ridere.
«E non lo sono», mi fece l’occhiolino. «Mi sono state dette tanto tempo fa da un fratello davvero, davvero tanto irritante».
Lentamente un leggero silenzio ci avvolse. Nascosi di nuovo la testa nella schiena di Junior mentre mi chiedevo come Jason aveva potuto farmi sentire così libera e così tanto me stessa in quelle poche ore quando io stentavo a riconoscermi allo specchio, ogni mattina.
«Forza!» Esclamò l’uomo alzandosi con un unico e fluido movimento. «Alzati». Mi ordinò, fissandomi con un sorriso a trentadue denti.
«Dove vorresti trascinarmi adesso?» Chiesi, titubante. Se una cosa di Jason l’avevo capita era: mai fidarsi.
Il suo sorriso si allargò ancora di più: «Vedrai».

«Jason?» Chiamai l’attenzione dell’uomo.
«Mmhh?» Mi rispose lui, continuando a masticare e facendo finta di niente.
«Jason...» Provai un’altra volta con tono un poco irritato.
«Mmh-mmh?»
Sentii una vena quasi partirmi dalla fronte.
«Facocero che non sei altro!» Esclamai. «Passami i pop corn, li avevi presi per dividerli!» Aggiunsi allungandomi verso il contenitore nelle mani dell’uomo, facendomi leva sul bracciolo.
Quando Jason si era fermato davanti al cinema mi ero sentita come una quindicenne al primo appuntamento, ma non avevo potuto nascondere il sorriso apparso sul mio volto.
“Ovviamente il film dovrà essere un horror”. Mi aveva detto Jason. “Così quando avrai paura mi abbraccerai e ti farai tutta piccola, piccola contro di me”.
Con un’alzata di occhi al cielo avevo accettato. Gli avrei riso in faccia a fine film quando non mi sarei mossa di mezzo centimetro: i film horror non mi facevano mai nulla.
Avevamo dovuto comprare un biglietto anche a Junior visto la stazza del peluche; non che a Jason dispiacesse spendere soldi in più con la carta del padre. Per un attimo m’immaginai come fosse stato per il padre di Jason crescerlo e mi resi conto che l’uomo probabilmente aveva già avuto un paio di aneurisma per colpa del mio compagno di giornata.
Jason aveva anche insistito a comprare i pop corn dicendo come intanto li avrebbero divisi. A quanto pareva il concetto di “dividere” mio e di Jason erano completamente opposti.
L’uomo, notando il mio attacco verso lo snack, sgranò gli occhi ed alzò il braccio sopra la sua testa portando il contenitore fuori dalla mia portata.
Lo fissai dritto negli occhi con il mio miglior cipiglio, cercando di fargli intendere quanto stesse andando vicino alla sua morte.
«Mi stai sfidando?» Gli chiesi a denti stretti.
Jason mi guardò un attimo titubante: «Si?»
Fui una iena e in attimo mi trovai seduta in grembo all’uomo, le mie ginocchia sui due lati della sua vita, un braccio alzato intento a raggiungere i pop corn. Ero a un millimetro dal prenderli quando la mano di Jason mi fermò: l’uomo aveva portato la sua mano libera sulla mia vita.
La temperatura del mio corpo aumentò in un nanosecondo comprendendo come mi ero messa e con uno spasmo involontario, mentre cercavo di tornare al mio posto, presi contro alla ciotola dei pop corn.
Sia i miei occhi che quelli di Jason saettarono in alto appena in tempo per vedere la ciotola di cartone volare via dalla mano di lui. Essa fece un piccolo capogiro prima di atterrare sulle persone sedute nella fila dietro alla nostra.
«Ma che cazzo?!» Esclamò la voce della vittima.
In un attimo mi alzai e mi rannichiai a terra, ai piedi della mia poltrona; Jason mi seguì in un decimo di secondo.
«Meglio uscire?» Gli bisbigliai, mentre le luci venivano spente per l’inizio della proiezione.
«Appena vi prendo siete morti!» Ruggì l’uomo a cui erano arrivati addosso i nostri pop corn.
«Sì, decisamente sì». Mi rispose Jason.
Più furtivamente possibile, anche se la missione era complessa con la presenza di Junior, ci fiondammo verso l’uscita cercando di nasconderci con le tenebre.
 

DOPPIO AGGIORNAMENTO PER FARMI PERDONARE DELLA MIA ASSENZA!!!!
:)

Axel Knaves

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Capitolo 8
*** 10:30:38 ***




~ Scoperte ~

 

«C’è mancato poco». Sospirò Jason appena la porta di sicurezza si fu chiusa alle nostre spalle.
Con i polmoni infiammati, mi piegai in due cercando di ispirare più ossigeno possibile. La posizione non era semplice da mantenere con un panda gigante sotto il braccio.
«Tu dici?» Gli chiesi in modo sarcastico. Avrei voluto pure guardarlo con una sopracciglia alzata, ma purtroppo il bisogno di respirare era più impellente.
Dovevo iscrivermi in palestra, avevo una resistenza e un fiato da fare schifo.
Dopo l’incidente dei pop corn avevamo tentato di uscire dalla sala senza attirare troppo l’attenzione, anche se uscire all’inizio di un film con la sala mezza piena e un peluche gigante non erano le condizioni migliori per non attirare l’attenzione.
Sfortunatamente l’uomo a cui erano arrivati in testa i nostri pop corn non era stato così cortese da lasciare andare l’accaduto. Aveva continuato ad urlare minacce di morte fino ad attirare l’attenzione degli addetti del cinema.
Purtroppo eravamo a Gotham e se qualcuno urlava all’omicidio tutti lo prendevano sul serio per cui, quando l’uomo aveva informato il buttafuori del cinema come avevamo attentato la sua vita con dei pop corn volanti, la guardia ci aveva messo pochi secondi ad individuarci nel mezzo della nostra fuga e ci aveva messo ancora meno a partire all’inseguimento.
Il fatto aveva distratto tutti dall’inizio del film e, nel mentre che correvamo per salvarci la vita, avevo notato qualche ragazzino cercare di filmare il tutto con il suo smartphone. Se il video fosse diventato famoso sarei andata a riscuotere la mia parte di guadagno.
Quella pazza corsa era durata per circa un’ora. La bravura di Jason nel nasconderci era equivalente a quella del scovare i nostri nascondigli della guardia. Così avevamo dovuto nasconderci in un’altra sala, dietro a dei poster, in uno sgabuzzino e nei cessi delle donne prima di riuscire a sgattaiolare fuori dalla porta di servizio sul retro.
Jason rise. Il bastardo non aveva neanche una goccia di sudore sulla fronte, come se tutto quello fosse stato solo un poco di stretching per lui.
«Dai, dammi Junior». Mi disse allungando le braccia. Con molta poca galanteria gli passai il pupazzo prima di piegarmi sulle mie ginocchia a prendere fiato come si dovrebbe.
«Comunque, stavo dicendo», continuò come se non gli stessi morendo accanto. «È stato divertente, su questo non puoi dire nulla».
Mi voltai verso di lui con uno sguardo perplesso.
«Credo che i nostri concetti di “divertente” siano alquanto diversi, Jason». Gli feci notare. «Nel mio non rientra il nascondersi sotto ai seggiolini di una sala piena di gente».
«Dì pure quello che ti fa più comodo», mi scartò velocemente lui con un’alzata di occhi al cielo, «ma io so quel che ho visto; e tu stavi decisamento sorridendo durante tutto il tempo».
Aprii la bocca per controbattere ma non ne uscì nulla. Jason mi aveva colto sul fatto, perché sì, durante tutto il tempo mi ero trovata a sorridere come una deficiente, cercando di trattenere le mie risate.
Serrai le labbra e scostai lo sguardo dal sorriso sbruffone dell’uomo. Maledizione a lui!
«Ci sei?» Mi chiese dopo alcuni minuti di silenzio, avvicinandosi alla mia forma ancora piegata in avanti. Annuii e mi rimisi dritta, finalmente il cuore si era calmato e l’ossigeno circolava liberamente.
«Come nuova». Gli dissi con un sorriso e lui scoppiò a ridere.
«Dovresti fare un po’ più di cardio durante la settimana». Mi prese in giro, mettendomi tra le braccia il mio pupazzo.
Mi sentì diventare rossa per un misto di imbarazzo e di rabbia; avevo anche la bocca aperta per rispondergli ma qualcuno mi batté sul tempo.
«Magari potrebbe farlo con noi». Suggerì una voce non troppo amichevole.
Sentendomi congelare persino nelle ossa ruotai lentamente il capo nella direzione della voce e sentii le ginocchia quasi cedermi: a chiudere l’unica nostra via d’uscita vi era un gruppo di scavezzacollo. Con la coda dell’occhio provai a guardare alle nostre spalle, ma come avevo già notato prima la strada era un vicolo cieco.
«E chi ha detto che questa signora voglia sprecare il suo tempo con una banda di babbuini?» Gli chiese di rimando Jason, con tono sbruffone.
Sentii i miei occhi sgranarsi così tanto da aver paura che mi cadessero. Ma cosa stava facendo? Era impazzito? Insultare un gruppo di delinquenti? Chissà per chi lavoravano! Eravamo a Gotham dannazione!
«Banda di ba–», ripeté offeso quello che sembrava il capo della banda, «senti demente siamo gli scagnozzi di Joker noi, non pensare di poter insultarci come e quando ti pare!»
Jason fece un passo verso di loro e notai come fece in modo di essere davanti a me, così da coprirmi con il suo corpo.
«Oh, sai che paura», rispose a tono con una piccola risata alla fine. «Come se temessi quel maledettissimo pagliaccio».
Se non fossi stata così presa dal panico avrei anche notato il modo in cui le parole di Jason erano diventate piene di odio nel parlare del super criminale, oppure mi sarei accorta dell’uomo atterrato alle mie spalle; probabilmente da un tetto vicino.
«Non credi sia meglio prima mettere al riparo la donna, Jay?» Chiese una voce maschile alle mie spalle.
Potrei dire di essere rimasta tranquilla a quella apparizione, dopo tutti gli anni passati a vivere a Gotham, potrei anche dire di aver avuto un ottimo contegno nel vedere Nightwing dietro di me; ma sarebbero tutte cagate.
«AAAHHH!» Urlai a pieni polmoni saltando in aria. In un attimo mi voltai verso l’uomo vestito di blu e nero, la schiena contro quella di Jason; Junior a farmi da scudo contro il vigilante.
«E te non dovresti far venire un infarto a Laila prima del dovuto». Sbuffò Jason e potei sentire i suoi occhi ruotare al cielo. «Che ci fai da queste parti?» Chiese poi a Nightwing, come se lo conoscesse da tempo.
«Sai, una piccola visita di cortesia», rispose l’altro appoggiandosi al muro, «tanto per vedere se eravate tutti vivi. Poi ti ho visto con tutto questo divertimento che non volevi condividere con nessuno». Aggiunse indicando la banda di scavezzacollo.
Jason sbuffò una seconda volta e lo vidi con la coda dell’occhio mentre si scompigliava i capelli.
«Se vuoi proprio aiutarmi, potresti portare al riparo Laila?» Chiese all’uomo in tuta attillata. «Voglio occuparmi io di questi qua, sono scagnozzi di Joker». Aggiunse e non potei non notare come con il nome di Joker sembrò comunicare un secondo messaggio a Nightwing, visto il modo in cui quest’ultimo si rizzò.
«Non fare stupidaggini». Disse semplicemente il vigilante prima di prendermi per la vita.
«Co–?» Cercai di chiedere mentre vidi Jason voltarsi di nuovo verso il gruppo di malintenzionati. «No! Aspetta! Jason!» Urlai, cercando di prendere almeno un lembo della maglietta dell’uomo, ma era troppo tardi: in un secondo mi ritrovai per aria l’unica mia sicurezza il braccio di Nightwing attorno alla mia vita.
Neanche il tempo di urlare per la mia vita e mi ritrovai con i piedi sul tetto dell’edificio a lato del cinema. Mi staccai subito dal vigilante, i primi passi furono un poco instabili ma al terzo stavo correndo al parapetto del tetto. Quello che vidi, guardando nel vicolo, mi lasciò a bocca aperta: Jason stava tenendo testa alla banda come se stesse facendo una passeggiata nel parco.
Ogni schivata, ogni pugno, ogni calcio erano movimenti che gli venivano naturali e anche quando impugnava una pistola si poteva vedere lontano un miglio come il gesto non fosse sconosciuto al suo corpo.
Finalmente il mio cervello mise insieme tutti i pezzi del puzzle che era Jason e compresi la risposta più ovvia, soprattutto poiché c’era un unico vigilante a Gotham che indossava una giacca di pelle: Jason era Cappuccio Rosso.

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Capitolo 9
*** 11:02:17 ***




~ Malintesi ~

 

JASON’S POV

Se c’era un giorno sempre no nella mia vita, era l’anniversario della mia morte.
Era un giorno che mi portava sempre troppi ricordi e troppo poco alcol. Era un giorno in cui era meglio starmi a cinque braccia di distanza e a bocca chiusa.
Laila Black era stata la prima vera eccezione a quella regola. Forse era stato il fatto che odiavo vedere dei civili morire o forse erano stati gli occhi della donna molto simili ai miei; qualunque fosse il motivo quella mattina avevo salvato una vita, decidendo di avere compagnia nel giorno peggiore dell’anno.
Ed ora era proprio quella compagnia a trattenermi dall’uccidere gli scavezzacolli di Joker. Asciugandomi la fronte con il dorso della mano, non potei fare a meno di sorridere a vedere tutti quei criminali a terra agonizzanti. Se non fosse stato per le due iridi femminili, state fisse sulla mia schiena, dall’alto del palazzo, per tutto il tempo li avrei sicuramente uccisi.
Eppure qualcosa dentro di me aveva fermato tutti quegli istinti, non volendo mostrare quel lato di me a Laila. E già così il mio cervello non poteva non chiedersi se il mio lato violento l’avesse spaventata per sempre.
Guardando verso l’alto non vidi più la forma della donna affacciato ma potevo tranquillamente sentire la sua voce e quella di Dick. Una punta di gelosia mi nacque dentro all’idea di mio “fratello” provarci con Laila. Se solo ci avesse provato avrebbe provato l'ebbrezza del volo. Dal tetto di un grattacielo. Dopo averlo spinto giù.
Scuotendo la testa, cercando di convincermi che Dick non fosse così stupido - okay lo era e lo sapevamo tutti in famiglia - mi issai sulle scale antincendio dell’edificio e iniziai la scalata per raggiungerli.
«… Ovvio che Jason sia Cappuccio Rosso?» Stava chiedendo Laila, gesticolando con le mani per aria, mentre finalmente mi issavo al di là del parapetto. Jason Junior era appoggiato su un muretto di fianco a loro. «Quanti vigilanti hai visto andare in giro con una giacca di pelle? E non provare a rispondere Superboy, potrei darti un pugno in faccia».
«Okay, okay», le rispose Dick, mettendo distanza tra lui e Laila. «Non posso controbattere su questo punto; ma Superboy indossava un chiodo».
Le mani di Laila ricaddero lungo i suoi fianchi e potei tranquillamente immaginare l’espressione della donna in quel momento.
«Ma sei stupido o lo fai? No spiegami, ti supplico». Chiese con tono rassegnato. Scoppiai a ridere alla scena, attirando l’attenzione dei due adulti.
«E tu cosa ridi?» Abbaiò la mora nella mia direzione. «Se parliamo di stupidi tu sei il primo della lista!» Aggiunse e iniziò ad avvicinarsi a passo di marcia.
La risata mi morì in gola a vedere la sua espressione scocciata. Okay. Cosa avevo? Cosa avevo fatto per farla arrabbiare così? Era vero non le avevo detto la mia seconda identità, ma quello non si poteva contare come una colpa. Per il resto mi sembrava di non aver fatto nulla di così drastico.
Laila mi piantò un indice nel petto guardandomi negli occhi. I suoi sembravano due incendi.
«Pensi che essere Cappuccio Rosso ti dia il diritto di farmi volare via con Nightwing, per tenermi al sicuro?» Mi chiese. Ad ogni parola il suo indice colpiva il mio petto. «Sai che infarto mi hai fatto prendere? Sai quanto ero spaventata e preoccupata? Ho pensato che stessi per morire!»
Cercai di rimanere immobile, falla sfogare, ma alla vista delle sue lacrime non riuscì a trattenere l’insano istinto di consolarla e farla sentire al sicuro. Le presi il volto tra le mani e le asciugai le strisce umide sulle sue guance prima di stringerla al mio petto.
Laila mi abbracciò a sua volta e per i minuti seguenti rimanemmo in quella posizione mentre la donna continuava a piangere sulla mia spalla.
Quando si staccò, i suoi occhi rossi e paffuti mi fecero nascere un piccolo sorriso in volto. Come era possibile avere così tanti e intensi sentimenti per qualcuno appena conosciuto?
«Meglio?» Le chiese accarezzandole i capelli.
Lei annuì e tirò su con il naso.
«Il labbro fa male?»
La sua risposta arrivò quando issai di dolore nel momento esatto in cui il suo dito arrivò in contatto con il mio labbro aperto. Ah, ecco cos’era quella strana sensazione di bruciore al labbro: era decisamente spaccato.
«Ho subito di peggio». La tranquillizzai ma lei sbuffò irritata.
«Non è una risposta che tranquillizza quella». Mi fece notare lei e sogghignai quando la vidi comunque tranquillizzarsi.
«Whoa», disse la voce di Tim ed alzando appena gli occhi vidi il ragazzo atterrare sul tetto nei panni di Red Robin; dietro di lui Damian nei panni di Robin. «C’era una rimpatriata e nessuno ci ha avvisato?»
Alzai gli occhi al cielo.
Perfetto! Proprio quello che mancava!
«Una faccia nuova». Aggiunse Tim appena vide Laila, la quale si era girata per guardare i nuovi arrivati. Potei tranquillamente vedere i suoi occhi scivolare fuori dalle orbite da quanto erano spalancati. «Piacere Red Robin».
Laila aprì e chiuse la bocca un paio di volte prima di trovare di nuovo la voce: «Laila Black».
«Un’altra conquista Jason?» Chiese impudentemente Damian. La mia mascella si irrigidì insieme a Laila. Oh no! No, no, no, no! NO!
«Robin taci!» Gli sibilai minaccioso, cercando di fermare tutto quello che stava avvenendo. Notai anche Dick e Tim paralizzati, mentre il corpo di Laila aveva iniziato a tremare leggermente.
«Quale numero è questa settimana? La quinta? Settima? È così difficile tenerne il conto». Non si fermò l’adolescente. L’istinto di massacrarlo di pugni era tanto, ma le spalle tremanti della donna erano la cosa che mi preoccupavano di più.
Sapevo già fin da quella mattina come l’autostima della donna non fosse delle migliori e dopo aver sentito cosa avevano fatto i suoi genitori e il suo ex ragazzo comprendevo la totale assenza di fiducia negli altri. Avevo un’immensa paura di comprendere quanto le parole di Damian avessero colpito nel profondo la donna.
«Laila...» Cercai di richiamare la sua attenzione ma appena la mia mano si fu appoggiata sulla sua spalla, lei si ritrasse con un movimento violento.
«NON MI TOCCARE!» Urlò senza neanche girarsi. Rimasi impietrito, il fiato bloccato in gola.
«Quindi sono solo una di tante?» Chiese con tono strozzato e riuscì ad assaporare le lacrime nel suo tono, aprii la bocca per negare ma lei non me ne diede il tempo. «C’è qualche cosa di vero di tutto quello che abbiamo fatto oggi?»
«Laila...» Cercai di parlare ma mi interruppe ancora.
«Lo sapevo», disse in tono flebile, «era troppo bello per essere vero».
Non fui abbastanza veloce: Laila partì in una corsa fulminea verso la porta delle scale e in un attimo era sparita per la tromba delle scale.
«LAILA!» Urlai ma ormai non c’era più nulle da fare.
Ci furono alcuni attimi di silenzio prima che il mio corpo decidesse di fiondarsi su Damian per rompergli le ginocchia. Fortunatamente Dick si mise in mezzo, trattenendomi.
«Jason!» Esclamò il circense, cercando di calmarmi. Purtroppo c’era solo rosso nel mio campo visivo.
«Brutto figlio del demonio!» Urlai contro al ragazzino. «È colpa tua, solo colpa tua! Non ti rendi neanche conto del danno che hai fatto! Se le succede qualcosa è solo colpa tua!»
Notai come Damian si irrigidì al mio tono di voce elevato e cercò di farsi piccolo, come per sparire. Sapevo come gli desse fastidio quando le persone urlavano, come gli facesse affiorare alcuni traumi passati, ma in quel momento non me ne importava. Il mio unico pensiero era Laila.
Fu Tim a far calmare tutti.
«Cosa ci facevi, oggi, con Laila?» Chiese con tono sospettoso. In un attimo mi bloccai, la mia sete di sangue per il piccolo Wayne dimenticata; Dick sospirò sollevato.
«La conosci?» Chiesi voltandomi verso l’uomo vestito di rosso, forse con una punta di gelosia di troppo nella voce.
«Ci ho parlato un paio di volte durante una pausa caffè», spiegò lui calmando la mia gelosia, «lavora alla Wayne Enterprises… Anche se ammetto di non averla vista nelle ultime settimane».
«È stata licenziata». Spiegai con tono duro, togliendomi di dosso le mani di Dick.
«Come prego?»
«È dovuta rimanere in ospedale per un paio di settimane, a causa dell’aborto spontaneo subito», risposi e notai come tutti i presenti si trovassero a disagio all’argomento. «Il suo capo l’ha licenziata mentre era ancora in ospedale, via telefono».
Tim, senza dire una parola, tirò fuori da una tasca un cellulare e iniziò a premere lo schermo in modo violento. Ero certo di non essere l’unico a pensare che l’ex capo di Laila stava per trovarsi non solo senza lavoro, ma anche senza più una reputazione sul campo lavorativo.
«Dove l’hai incontrata, comunque?» Chiese allora Dick. «Sappiamo quanto questo giorno sia particolare per te, è quasi impossibile pensare che tu abbia deciso di passarlo con lei così, tanto per».
Sospirai. Se solo Dick avesse saputo come io stesso non avessi ancora una risposta a quella domanda.
C’era stato qualcosa negli occhi di Laila. Qualcosa che mi aveva urlato di tenerla con me, stretta, proteggerla, farla sentire una dea, anche nel giorno peggiore dell’anno.
«L’ho fermata dal gettarsi giù da un grattacielo». Risposi con tono dolorante. A pensare a quella mattina, dopo aver conosciuto la donna faceva male. Come poteva un’anima così viva essere stata spinta a provare una cosa così orrenda. «E quando mi ha chiesto cosa volevo dalla sua vita, le ho risposto: “Dodici ore”. Stavo cercando di farle vedere cosa c’era ancora di buono in questo mondo. Stavo cercando un motivo per farla restare. Non volevo che qualcuno morisse proprio oggi, sotto i miei occhi».
Ci furono un paio di minuti di silenzio in cui gli altri tre presenti dovettero elaborare le informazioni appena ricevute. Nel mentre mi avvicinai a Jason Junior, ormai dimenticato.
Lo guardai e non potei fare a meno di pensare a Laila e a tutto quello che era successo in quelle poche ore. Avevo cercato di darle un qualsiasi motivo per rimanere con i vivi; in un modo strano volevo ora essere io il motivo per cui avrebbe deciso di continuare a vivere.
«Pensate...» Interruppe il silenzio Damian con voce strozzata. «Pensate che potrebbe provarci di nuovo dopo ciò che ho detto?»
Mi si sbarrarono gli occhi.  Oh no!
Rivissi il momento della fuga di Laila nella mia mente e una sensazione alla base dello stomaco mi disse che Damian, per una volta, aveva ragione.
«Merda!» Esclamai prima di correre verso il cornicione e gettarmi all’inseguimento di un donna che poteva essere ovunque.

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Capitolo 10
*** 12:06:25 ***




~ Salvataggio ~

 

Mi odiai. Mi odiai per non riuscire a smettere di piangere.
Perché non riuscivo mai a smettere di piangere su uomini inutili. Prima mio padre, quella volta in cui mi aveva fatto intendere come non fossi una figlia per lui. Poi Andrew quando mi aveva abbandonato, in cui mi ero resa conto come per lui non ero mai stata nulla se non un oggetto.
Ed ora Jason.
Per qualche motivo questa volta era peggio delle altre. Queste lacrime erano più pesanti e più intrinseche di amarezza, che mai.
Quell’uomo, uno sconosciuto fino a poche ore prima, mi aveva mostrato cosa avevo perso della vita cercando di stare a dietro alle aspettative inumane dei miei genitori e di Andrew. Mi aveva mostrato come il mondo non fosse fatto solo di ciò che gli altri pensavano di te; ma fatto di persone una così differente dall’altra da sembrare magia. Mi aveva fatto conoscere un mondo pieno di risate e divertimento, ormai creduto scomparso completamente per me.
Ed io ero caduta nella sua trappola: affezionandomi a lui in un modo spaventoso e quasi impossibile per due persone in mezza giornata.
Mi ero pure illusa di come lui stava provando lo stesso tumulto di emozioni verso di me.
Tutto era stato nella mia mente, a quanto pareva.
Jason mi aveva solamente usato per i suoi porci comodi.
Eppure non riuscivo a smettere di piangere e le lacrime, che si congelavano a causa del vento serale, continuavano a cadere nel vuoto sotto di me.
Eccomi lì, di nuovo su quel dannato parapetto. Di nuovo pronta a fare una delle cose più aberranti su questa terra.
Ma cosa avrei potuto fare? Quando anche il mio ultimo appiglio alla mia miserabile vita mi aveva pugnalato alle spalle?
Cosa era rimasto per me da questo lato? Almeno dall’altro avrei avuto mio figlio.
Mi asciugai ancora una volta le lacrime con la manica del cappotto.
Gotham di sera, vista dall’alto, era uno spettacolo bellissimo. Le luci accese dei palazzi venivano rispecchiate nell’acqua insieme alle ombre degli stabili fino al punto in cui non riuscivi più a distinguere dove la terra finisse ed iniziasse il mare.
Un poco mi sarebbe mancata quella visione.
E per quanto lo stessi odiando, mi sarebbe mancato anche Jason. Seppur con doppi fini, era stata l’unica persona che mia aveva davvero fatto vivere.
Ma ormai non importava più nulla alla mia mente stanca. Volevo solo smettere di provare tutto questo rammarico e tutto questo dolore.
Sospirai.
Eccomi alla fin–
«Laila!»
L’urlo di Jason mi fece sgranare gli occhi e saltare il cuore in gola.
Lentamente mi girai e vidi l’uomo avvicinarsi a me, il volto rosso e sudato, il petto si alzava e abbassava velocemente per colpa del respiro veloce.
«Vattene!» Urlai, sentendo una seconda ondata di lacrime che cercavano di uscire dagli occhi.
«No!» Mi rispose lui con tono deciso. «Non ho fatto tutta questa strada per andarmene da solo!»
Perché quell’uomo riusciva sempre a dire le parole giuste per farmi sentire amata e voluta? Era così che conquistava tutte?
«Perché sei qua?!» Gli urlai ancora addosso, sfogando tutta la mia frustrazione. «Perché non sei da qualche parte a non so… Scoparti un’altra qualsiasi donna
Se non fossi stata così arrabbiata avrei sicuramente notato come gli occhi di Jason, pieni di preoccupazione, ora contenevano un’altra emozione: disperazione.
«Laila», disse lentamente lui, avvicinandosi ancora più lentamente, quasi da non accorgersene. «Sono qua perché quello che ha detto Damian non è vero». Spiegò, quasi supplicandomi.
«Damian?» Chiesi, un attimo titubante. Non mi sembrava di aver incontrato e parlato con un Damian… In più… Perché mi sembrava un nome così famigliare?
«Robin!» Si corresse, il tono pieno di panico, e parlando più velocemente del solito. «Quello che ha detto Robin! Nessun Damian
Oh! Pensai. Credo mi abbia appena rivelato il vero nome di Robin per sbaglio.
Mi morsi la lingua cercando di non ridere alla reazione di Jason.
«Non è vero? Quello che ha detto Robin?» Chiesi io di rimando, tornando all’argomento vero e proprio. Ero pur sempre in piedi sul parapetto di un grattacielo.
«No», scosse la testa lui. «Non è per nulla vero. Sì, ogni tanto ho avuto delle compagne negli anni, ma non sono mai stato troppo un Don Giovanni». Spiegò. «Inoltre non sarei qua se non fossi tu su quel parapetto. Non so cosa hai usato, se stregoneria o un qualche siero chimico, non mi importa, ma dalla prima volta in cui ti ho fissato negli occhi ho saputo una cosa: tu devi far parte della mia vita».
Le lacrime iniziarono a scendere più copiose che mai. Maledizione a lui, al suo sorriso perfetto, ai suoi occhi pieni di malizia e al suo carisma.
«Jason cosa vuoi da me?» Gli chiesi allora stanca, ormai l’uomo era a pochi passi da me ma non avevo ancora dato segno di voler scendere sul tetto, al sicuro. «Cosa vuoi dalla mia vita?»
«Tutto il tempo che ti resta». Mi rispose serio, senza dubbi. «Non ti prometto che non ci saranno problemi o che non ti capiterà mai nulla – sai della mia seconda identità e hai conosciuto alcune persone con cui, si può dire, lavoro – ma ti posso promettere che farò di tutto per esserci sempre».
«Se non volessi?» Chiesi allora, in quel momento l’idea della morte sembrava molto più facile di quella della vita. Eppure il mio cervello non riusciva a dare il giusto imput al mio corpo, stava infatti urlando di scendere e trovare rifugio nelle braccia di Jason.
Ero in guerra con me stessa e tutto per colpa di quell’uomo dal ciuffo bianco.
Jason, ormai a portata di braccio, mi prese per il polso e notai come quella semplice presa lo fece rilassare. L’uomo poi mi fissò dritto negli occhi come per essere sicuro che mi tatuassi la sua risposta nell’anima.
«Salterei per prenderti».
Non ce la feci più, la mia mente e il mio corpo avevano subito troppi danni in così poco tempo: collassarono sotto il peso di tutte quelle emozioni. In uno strano susseguirsi di flash scesi dal parapetto e mi feci avvolgere dalle forti braccia di lui.
Mentre continuavo a piangere come se non ci fosse un domani contro il petto di lui, la sua voce nell’orecchio continuava a ricordarmi come lui ci sarebbe sempre stato da ora in avanti, mi sentii davvero apprezzata per la prima volta nella mia vita.
Non per essere un automa, come volevano i miei genitori, ma per essere me. Mi sentii apprezzata per essere Laila Black, con tutte le sue imperfezioni.

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Capitolo 11
*** 17573:12:43 ***




~ Epilogo ~

 

Era da quella mattina che avevo la mascella rigida e non ne voleva sapere di rilassarsi. Sentivo i denti compressi l'uno contro l'altro, i muscoli della mandibola tirarsi il più possibile.
Come risultato la testa mi aveva iniziato a dolermi e il collo era di una rigidità innaturale.
«Se continui a essere così rigida ti si stirerà un muscolo prima ancora di arrivare a destinazione». Disse una voce profonda alle mie spalle.
Guardai allo specchio e, come già sospettavo, trovai Bruce Wayne sulla soglia; solo metà corpo nella stanza. Potevo comunque vedere il frac nero che aveva sfoggiato per la giornata.
«Bruce!» Esclamai, sorridendo e piena di gioia. «Cosa ci fai qui? Non dovresti essere con i tuoi figli a… Non so… Tenere buono Jason?» Chiesi mentre mi alzavo titubante, cercando di non ammaccare la gonna bianca prima del tempo, per chiudere la distanza tra noi.
Bruce rise nell'abbraccio leggero prima di staccarsi, chiudendo la porta alle sue spalle.
«Abbiamo quasi tutti perso le speranze a tenere calmo Jason», mi rispose divertito, «sta diventando un po’ isterico a star fermo davanti all'altare in tua attesa».
Arrossii vividamente e mi dovetti grattare il naso per cercare di nasconderlo.
«Così brutta la situazione?» Investigai.
«Per primo, ovviamente, ha rinunciato Damian», spiegò, «senza una parola si è andato a sedere accanto ad Alfred e a tenere compagnia ad Emily. Poi è stato il turno di Duke e Tim, i due si sono guardati e sono corsi via. Cas non si è provata nemmeno ad avvicinare. “Io sono qua solo per guardare”, ha detto. Infine io ho abbandonato il compito di calmare lo sposo a Dick per venire da te».
Non potei non sorridere alla confusione creata dalla mia famiglia nel prato della magione Wayne.
«E come mai ha deciso di farmi visita?» Chiesi, ipotizzando la risposta.
«Prima per vedere che tutto andasse bene, secondo per chiederti se sei sicura di voler sposare Jason; sei sempre in tempo per scappare». Aggiunse ridendo e la risata contagiò anche me.
«Tranquillo, Bruce», gli dissi, «credo che la famiglia Wayne sarà bloccata con me ancora per un bel po’ di decadi».
Erano passati ormai due anni dal giorno in cui incontrai Jason. All’epoca non lo sapevo ma quell’incontro avrebbe cambiato la mia vita per sempre.
Oltre ad iniziare davvero a vivere, grazie a Tim avevo avuto non solo un nuovo lavoro alle Wayne Enterprises - per dispiacere di Jason - ma addirittura il posto di lavoro del mio ex-capo; licenziato dal giorno alla notte. Avevo cercato di capire cosa era successo ma nessuno dei Wayne voleva darmi una risposta, mi rispondevano con un semplice: “Non era la persona giusta per il lavoro”.
Solo una sera in cui Jason era particolarmente stanco ero riuscita a scoprire come fosse stato Tim l’artefice di tutto.
Essere in una relazione con Jason aveva significato conoscere anche Bruce Wayne. Non Bruce Wayne il playboy con una strana passione per l'adozione, conosciuto dai media; ma quello vero, quello che amava andare in giro con un mantello nero e un’assistente vestito di colori sgargianti.
Dopo aver ascoltato la mia storia Bruce era stato così gentile da far erigere una piccola lapide nella magione per il mio figlio mai nato, così da potermi dare un posto dove poter andargli a parlare quando mai ne sentissi il bisogno.
Un’altra sera impressa nella mia memoria era la sera in cui avevo invitato a cena i miei genitori nel ristorante più lussuoso e più snob di tutta Gotham. In realtà non li avrei mai voluti invitare, era stata tutta un’idea di Bruce e Jason.
Dopo aver sentito come ero stata cresciuta, il padre e il secondo figlio avevano iniziato a lavorare insieme – cosa quasi impossibile ed estremamente pericolosa a detta di Alfred e degli altri figli di Bruce – per distruggerli pubblicamente. C’eravamo così trovati a cena insieme: io, i miei genitori, Bruce e i figli di quest’ultimo con l’aggiunta di Steph e Babs.
Dire che la famiglia Wayne avesse trattato i miei genitori come loro avevano trattato me per anni era un eufemismo. I miei genitori mi avevano diseredato il giorno successivo ma non me ne era importato più nulla: avevo una vera famiglia ora.
Il tempo sembrava proprio volato in quei due anni. Io e Jason avevamo impiegato sei mesi prima di iniziare ad uscire ufficialmente e sei mesi ancora per andare a vivere insieme.
E se la falsa morte – la sera in cui Jason mi aveva raccontato la storia mi aveva dovuto trattenere dall’andare ad uccidere Joker con le mie stesse mani – di Jason Todd mi aveva salvato da una marea di paparazzi; la doppia personalità di Jason, Cappuccio Rosso, mi aveva portato a fare amicizia con certi criminali, quali Ivy, Catwoman ed Harley Queen, per tutto il tempo passato in loro compagnia.
Ci erano voluti due rapimenti, cinque minacce di morte e un test di gravidanza positivo per far decidere a Jason di fare il grande passo: Emily era nata un mese e mezzo prima ed era la cosa più importante della nostra vita.
Bruce aveva impiegato qualche giorno a processare l’informazione di essere diventato nonno. Alfred aveva minacciato di offendersi a vita se avessi solo pensato di far fare la baby sitter a qualcun altro.
A parte gli zii particolari, Emily era una bambina forte e vivace. Il lato positivo di vivere nella magione Wayne – Jason aveva decretato fosse il posto più sicuro in cui poter crescere Emily – era di avere un intero esercito pronto a calmare la piccola quando piangeva.

Mi  morsi il labbro mentre ero davanti alle ultime porte che mi separavano dalla cerimonia di matrimonio. Alla mia destra avevo Babs – seppur sulla sedia a rotelle avevo voluto che fosse lei ad accompagnarmi all’altare: in quei due anni era divenuta come una sorella, non c’era nessuno di più adatto – ed alle mie spalle, ad aiutarmi con lo strascico, c’era Steph.
«Oh cielo!» Esclamò Steph. «Non dirmi che i dubbi ti sono venuti ora!»
La mia testa scattò verso di lei e per poco non le lanciai il bouquet addosso.
«NO, STEPH!» Urlai. «Non avevo dubbi il giorno in cui ho accettato di legarmi a lui a vita – anche se devo dire l’idea di essere sposata da Superman è strana – e non ho dubbi ora...»
«Ma...» Continuò per me Babs, stringendomi una mano.
«Se sono venuti a lui i dubbi?» Conclusi con tono flebile.
«Oh, Laila!» Esclamò addolcita Steph mentre Babs mi sorrideva.
«Non ti preoccupare», mi cercò di tranquillizzare Babs, «non credo Jason sia mai stato così sicuro di qualcosa quanto questo matrimonio. Non c’è molta gente in grado di sopportarlo, anche lui sa che sarebbe da idioti abbandonarti oggi».
«E di certo ha più neuroni di quel Anderson? O era Annibal? Arthur?» Cercò di ricordare Steph e iniziai a ridere al ricordo di quel pomeriggio in cui, durante un’uscita al parco giochi con l’intera famiglia Wayne, dopo il mio diseredamento, avevamo incrociato Andrew.
L’uomo aveva avuto la brillante idea di avvicinarsi, seppur in compagnia di una donna molto attraente, cercando di chiedermi un’altra possibilità. Non sapeva della presenza delle nove persone con cui ero in giro e soprattutto non sapeva che uno di essi fosse il mio ragazzo.
Andrew aveva passato un brutto quarto d’ora ed era scappato a gambe levate.
«Grazie», dissi alle due donne.
Prima che una delle due potesse dire qualcosa le porte si aprirono e alle nostre orecchie arrivarono le note della marcia nuziale.
Con un grosso respiro mi misi il più dritta possibile e feci il primo passo verso il mio matrimonio.

«Puoi baciare la sposa», disse Superman il quale aveva fluttuato ad una spanna da terra per tutto il tempo del matrimonio. Avevo fatto davvero molta fatica a non fissare lo spazio vuoto per tutta la cerimonia.
Con un gesto impaziente Jason mi prese per la vita. In un attimo mi ritrovai spalmata contro il suo petto mentre le sue labbra si posarono sulle mie in modo possessivo.
Seppur gli invitati fossero pochi, per la maggior parte supereroi, si levarono potente urla facendomi chiedere se fossimo in realtà in uno stadio. Quando ci staccammo, rimanemmo abbracciati, fronte contro fronte, entrambi con un sorriso sornione in volte.
«Signora Todd, lo sa, vero?» Mi chiese lui in un sussurro.
«So cosa, signor Todd?» Risposi, un attimo dubbiosa.
«Sono felice che quella mattina tu abbia deciso di salire su quel tetto», mi rispose e sentii le lacrime pizzicarmi gli occhi. «Oppure non avrei mai avuto la possibilità di salvare e conoscere la donna perfetta».
«Se un idiota», tirai su con il naso, cercando di non distruggere le ore di lavoro di Steph piangendo. «Il mio idiota». Aggiunsi e lo baciai.
Finalmente andava tutto bene.
 

†Angolo Autrice†
Ed eccoci alla fine di questa corta fanfiction, grazie a tutti quelli che mi hanno seguito fino alla fine <3.
So di essere stata lenta con alcuni aggiornamenti, la vita da universitaria mi ha tirato via più tempo di quel che pensavo e alcune volte mi dimenticavo completamente di pubblicare <.<". Lo so, sono stupida XD
Grazie ancora di cuore a tutti!!!
E se questa storia vi è piaciuta tenete un occhio sul mio profilo per la mia prossima storia!!!

Axel Knaves

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Capitolo 12
*** Speciale di Pasqua ***




~ Easter’s Key ~

 

«È davvero un’usanza di casa Wayne?» Chiesi ad Alfred, un attimo scettica.
«Sì, Miss». Confermò il maggiordomo. Eravamo entrambi in cucina, lui ai fornelli e io a pelare le verdure; stavamo preparando la cena per tutti mentre la famiglia Wayne stava avendo un addestramento di gruppo nella Batcaverna.
«È stato il nonno di Bruce a iniziar questa tradizione quando suo padre era ancora un bambino, da allora ogni anno vi è una caccia alle uova nella magione. Bruce ha voluto continuare questa tradizione anche dopo la morte dei suoi genitori, ma invece di avere una caccia alle uova all’interno della magione dona una grossa somma ad ogni scuola di Gotham così che possano far partecipare ogni bambino e ragazzo». Spiegò, non togliendo gli occhi dalla pentola in cui stava cuocendo la carne.
«Da quando il signorino Dick ha iniziato a vivere con noi», aggiunse, «è tornata anche la caccia alle uova nella magione».
«E tutti partecipano?» Chiesi, ancora titubante, non riuscendo proprio a immaginarmi Cas o Damian alla ricerca di uova di plastica colorate per tutta la casa.
«Ovviamente», mi rispose l’uomo. «Seppur nata come una tradizione molto semplice, i figli di Bruce hanno iniziato a considerarla come una competizione tra di loro in cui mettere in mostra le proprie doti e decretare chi sia il migliore».
«Ah!» Esclamai, finalmente comprendendo come mai tutti in casa Wayne fossero così in fermento per quella caccia alle uova. «Ora comprendo molto meglio la situazione. Però non capisco perché debba partecipare pure io… Non sono addestrata come gli altri».
Alfred sorrise alla mia affermazione.
«Non si preoccupi Miss Laila», mi disse, «seppur senza allenamento si divertirà molto, ne sono sicuro».
Alzai le spalle, anche se non convinta totalmente.
Erano ormai sei mesi da quando Jason mi aveva chiesto di diventare ufficialmente la sua ragazza e quasi un anno da quando ci eravamo conosciuti. Poiché conduceva una vita da vigilante la maggior parte delle volte ci davamo appuntamento sul tetto del mio palazzo e passavamo insieme qualche ora prima che lui partisse alla ricerca di criminali.
In una di queste sere Jason era arrivato e mi aveva chiesto aiuto per creare una strategia per la “Caccia Alle Uova Della Famiglia Wayne”. All’inizio avevo pensato fosse uno scherzo, immaginandomi tutta la famiglia Wayne, nei loro costumi, alla ricerca di piccole uova di pasqua; però quando Jason era rimasto serio e mi aveva mostrato un vero schema su chi fermare prima dall’arrivare alle uova, avevo compreso come la situazione fosse reale.
La caccia era risultata molto semplice: le uova erano di quattro colori diversi: giallo, blu, rosso e oro. Quelle gialle, blu e rosse, oltre al cioccolato al proprio interno, valevano in ordine: cinque, dieci e quindici punti. L’uovo d’oro, messi da parte i cento dollari al proprio interno, aveva due valori: da solo valeva mille punti; se invece si avevano altre uova nel proprio cesto raddoppiava il loro valore.
Vinceva chi raccoglieva più punti.
Dopo un paio di sere in cui avevo cercato di aiutare Jason con la sua strategia di attacco, l’uomo dagli occhi penetranti aveva deciso che sarei stata una dei partecipanti.
Ora, dopo la spiegazione di Alfred, mi sentivo molto coscienziosa della mia mancanza di addestramento.


«DAMIAN WAYNE TORNA IMMEDIATAMENTE QUI!» Urlai lanciando il  mio cesto di vimini verso la sagoma del ragazzino ormai in lontananza.
Sbuffando mi lasciai cadere a terra in mezzo al corridoio.
La caccia alle uovo era iniziata circa un’ora prima e in poco tempo sarebbe finita; il mio cestino di vimini era rimasto vuoto per tutto il tempo.
Seppur tutti mi avessero rassicurato su come ci sarebbero andati piano con me, mi avevano apertamente mentito: da un’ora a questa parte era come se le famiglia Wayne si fosse schierata contro di me, anche il mio stesso ragazzo!
Ogni volta in cui vedevo un uovo o ero in procinto di raccoglierne uno, qualcuno appariva dal nulla e me lo soffiava da sotto al naso. Non volevo ammetterlo ma la voglia di piangere e ritirarmi dalla caccia, per non arrivare alla fine con il cesto vuoto, era tanta.
C’è ancora l’uovo d’oro. Mi dissi per rimanere combattiva. Forse non avrei vinto, ma con quello avrei di certo fatto bella figura.
Sospirando mi alzai e raccolsi il cesto lanciato poco prima. L’avrei comunque fatta pagare a tutti quanti, quello era certo.
Continuando a camminare per i corridoi della magione mi fermai solo alla successiva porta aperta. L’unica vera regola di quella caccia, oltre ai punti delle rispettive uova, era quella per cui le uova si trovavano solo nelle stanze con le porte aperte; le stanze con le porte chiuse non contenevano nulla.
Entrando completamente nella stanza, riconobbi subito il posto: era la vecchia stanza da letto di Jason. Seppur lui non vivesse più nella magione, Bruce non aveva mai disfatto la sua stanza ed Alfred la puliva con regolarità. Jason me l’aveva mostrata per la prima volta sei mesi prima, dopo avermi presentato a Bruce e ai suoi fratelli come sua ragazza ufficiale.
E proprio lì, ora, vi era custodito l’uovo d’oro: senza trappole o difese, l’uovo era delicatamente appoggiato sul cuscino del letto. Ci misi un attimo a comprendere cosa ebbi davanti, ma quando il mio cervello riuscì ad elaborare le informazione mi guardai alle spalle.
Convenendo come tutto il corridoio sembrasse disabitato, mi lanciai sull’oggetto di plastica prima che qualcuno me lo soffiasse da sotto al naso.
«YES!» Urlai appena le mie dita si strinsero attorno ad esso e lo iniziai a scuotere dalla felicità.
L’uovo d’oro era mio!!
Ero così presa dalla gioia, quasi da non accorgermi dello strano rumore creato dal contenuto dell’uovo: troppo metallico per essere solo cento dollari.
«Ma che–?» Mi chiesi ad alta voce prima di aprirlo.
All’interno dell’uovo non c’erano, come sospettato, cento dollari ma un piccolo mazzo di chiavi con attaccato un pon-pon rosso.
«Cosa–?»
«È il mio regalo di pasqua». Mi rispose la voce di Jason alle mie spalle.
Spaventata dall'apparizione improvvisa del mio ragazzo, mi voltai di scatto e gli lanciai contro le chiavi. Fortunatamente aveva degli ottimi riflessi e riuscì a prenderle prima dell’impatto con il suo volto.
«Oh, per Zeus!» Esclamai non appena mi resi conto di quello appena successo. «Mi dispiace tantissimo Jason, mi hai spaventato e ho reagito d’istinto!» Continuai a scusarmi avvicinandomi a lui.
L’uomo dai capelli neri si mise a ridere e mi accolse con un piccolo bacio a stampo, prima di abbracciarmi.
«Tranquilla Laila, va tutto bene», mi disse tra le risate, «ormai sono abituato alle tue reazioni».
A quel commento gli diedi un calcio ad uno stinco.
«Non riportare mai più a galla quell’incidente». Lo minacciai, ricordandomi di quella sera in cui Jason era entrato dalla finestra della mia cucina e gli avevo tirato addosso la padella, ancora bollente e con ancora dentro le verdure saltate, dallo spavento.
«Comunque», cambiai discorso quando lo sentii ridere con ancora più vivacità, «cosa sono quelle chiavi?»
Jason mi lasciò andare dall’abbraccio e mi mise davanti al naso il mazzo di chiavi.
«Se le accetterai, le chiavi di casa nostra».
In un unico istante sentii le ginocchia molli e la testa girarmi.
«Eh?!» Esclamai, non riuscendo a comprendere bene cosa stesse succedendo.
«Nell’ultimo anno, e specialmente negli ultimi sei mesi, il tempo per noi è stato pochissimo», spiegò. «Tra i tuoi impegni in ufficio e la mia vita da vigilante non ci vediamo mai quanto vogliamo e sprechiamo ancora più tempo a distanza poiché dobbiamo tornare alle nostre rispettive case. Per questo ti sto regalando queste chiavi.
«Lo so, è una decisione importante e forse anche un po’ azzardata dopo solo sei mesi di relazione… Però non voglio aspettare altro tempo: voglio un posto in cui ci possiamo incontrare e dove possiamo passare il nostro tempo libero insieme. Voglio un posto in cui costruire i nostri ricordi. Un posto in cui la mattina mi sveglio e tu sei al mio fianco».
Con il labbro tremante, mi tamponai le guance umide dalle lacrime e annuii con tutta l’energia che avevo in corpo. Ero felice di quella relazione. Ero felice di stare con quell’uomo. Ero felice di come tutto stesse sbocciando nella mia vita.
«Le accetto», singhiozzai, «le accetto molto volentieri».
Jason mi sorrise e mi strinse a lui in una morsa d'acciaio.
«Non so come ci riesci Laila», mi sussurrò all’orecchio, «ma ogni giorni mi rendi più felice di quello precedente, voglio stare al tuo fianco per sempre».
«Anche io», gli risposi. «Anche io, Jason».
 

BUONA PASQUA A TUTTI!!!
Axel Knaves

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