Con quale cuore prego ancora Notre Dame

di Crudelia 2_0
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


E così scegli tu
A chi tieni di più
 
 
 
 Li sentiva dietro di sé. Doveva correre più veloce.
 Si sforzò di ignorare il dolore al fianco e accelerare, svoltare ancora un angolo, attraversare un altro vicolo- si fermò di colpo. Il terrore doveva averle fatto perdere  l'orientamento perché mai, mai, si sarebbe diretta lì, sul parvis di Notre Dame.
Attraversare la piazza era impensabile, sarebbe stata un bersaglio troppo facile, ma tornare indietro era da escludere nello stesso modo, preferiva gettarsi tra le fiamme dell'inferno piuttosto che tra le braccia dei soldati.
 Ogni secondo che passava esitando sul bordo della piazza era un secondo in più regalato alla morte certa che l'attendeva se l'avessero catturata, già le sembrava di sentire il fiato bollente dei cavalli sul collo, a scompigliarle i capelli, e il gelido metallo a stringerle polsi e caviglie.
Un urlo che pareva un richiamo la fece fremere; un ultimo, fugace sguardo alle sue spalle e prese la decisione più disperata, chiedendo un ultimo sforzo ai piedi martoriati.
Si gettò in una corsa folle verso il portone della cattedrale. Non aveva fatto neanche metà strada quando altre urla e risate degli uomini le dettero la certezza di essere stata scoperta. Accelerò ancora, quasi soffocando per la mancanza di fiato, le cosce che inziavano a bruciare e le ginocchia a dolere. Si scontrò con così tanta violenza sul legno da scorticarsi le mani, si ritrovò a metà navata senza accorgersene e fu svelta nel ripararsi nell'ombra della colonna più vicina. Si concesse il lusso di appoggiarsi alla fredda pietra e contare fino a cinque, poi riprese la corsa verso l'angolo più scuro.
Trovò una porta e la spinse.
Chiusa.
 Nel frattempo le voci avevano raggiunto l'entrata. Sentendosi sempre più un animale in trappola cercò un'altra maniglia per girarla.
 Nulla.
 Strinse i denti per soffocare l'urlo che le stava scoppiando nella gola e provò ancora un'altra porta.
Convinta di dover trovare un altro modo per salvarsi non si accorse subito che questa volta il tentativo era andato a buon fine e stava osservando una stretta scala che si perdeva nel buio.
 Azzardò uno sguardo verso i soldati, ma riuscì solo a scorgere lo scintillio di una fiaccola.
 Varcò la porta e la chiuse il più silenziosamente possibile, fu solo con la forza della disperazione che cominciò a salire i freddi gradini.
 
 
 Arrivò ad un corridoio e svoltò a sinistra seguendo niente se non l'istinto. Non sapeva quanto potesse essere saggio continuare ad inoltrarsi nella cattedrale quando doveva invece uscire e mettere quanta più distanza tra sé e quegli uomini, ma al momento continuare a correre senza meta le sembrava l'unica soluzione.
Avrebbe voluto che i suoi innumerevoli braccialetti, per quanto amati, smettessero di suonare ad ogni suo passo. Il loro tintinnio, unito al suo ansimare, sembrava un grido in quel silenzio di pietra.
Vide un'altra porta e si preparò ancora a spingerla con tutto il corpo, senza fermarsi. Tuttavia appena la chiuse cercando di fare meno rumore possibile si fermò.
Era in trappola.
 Pensava che avrebbe trovato un altro corridoio per continuare la sua fuga, ma in fondo lo sapeva che non poteva continuare così in eterno.
Nel disperato tentativo di riprendere fiato studiò l'ambiente. Una sola candela sembrava abbandonata su una scrivania ingombra di libri aperti, fogli, ampolle e strani oggetti. L'unica altra fonte di luce era data dalla grande vetrata che si affacciava ad un balcone.
La ragazza si avvicinò e, senza quasi accorgersene, si ritrovò a camminare verso la balaustra per osservarsi intorno. Era più in alto di quanto pensasse, al di sotto la piazza sembrava lontanissima, sopra lei i gargoille la osservavano con i loro gelidi occhi di pietra.
 Uno stallo.
 Né in alto, né in basso.
 Non ancora al sicuro, ma neanche spacciata.
 
 -Ehm, ehm-
 Si voltò di scatto, terrorizzata da quel colpo di tosse. Tra tutti, quell'uomo era l'ultimo che si aspettava di vedere.
Vestito semplicemente con pantaloni neri e una camiciola di lino, per un attimo faticò a riconoscere il prete che tanto la terrorizzava.
 Lo vide sollevare un sopracciglio, quasi ironicamente, mentre lei lo fissava ansimando. Arretrò finché non sentì la pietra contro la schiena.
 
Era in trappola, pensò nuovamente.
Il cuore iniziò a batterle in modo quasi malsano quando vide l'uomo avvicinarsi e sentì uscire dalle sue labbra un gemito terrorizzato.
Chiuse gli occhi in attesa di qualcosa, qualsiasi cosa, che avrebbe segnato il suo destino.
La qual cosa non venne.
Riaprì le palpebre dopo qualche istante e scoprì l'uomo accanto a lei, le mani appoggiante pesantemente all'elaborato cornicione, lo sguardo a fissare la profondità della notte.
Rimase immobile, non aveva il coraggio di muovere un solo muscolo.
 
-Splendida notte, nevvero?-, le chiese l'uomo. Il suo sussurro roco sembrò un urlo in quel silenzio.
Sobbalzò, la gitana, quando si accorse che l'uomo la stava guardando, ancora con quell'espressione inspiegabilmente beffarda a curvargli le labbra.
Fece per aprir bocca e rispondergli quando lui voltò di scatto la testa.
Non fece in tempo ad accorgersene che si sentì afferrare il polso e spingere verso il muro. Sentì il corpo dell'uomo schiacciarla e la sua mano a coprirle la bocca, per soffocare il grido già salito alle labbra.
 
-Non muoverti!-.
 Un sussurro al suo orecchio. Non avrebbe obbedito se in quel soffio non ci fosse stata un'autorità e un’emergenza simile.
 Con una velocità sorprendente lo vide allontanarsi e rientrare.
-Capitano Phoebus-, furono le ultime parole che gli sentì dire prima che chiudesse la porta.
 
 
Stette schiacciata contro quelle pietre per minuti che le parvero ore. Non sentiva nessun suono provenire dall'interno, la sua unica compagnia era il rumore dei battiti sordi del suo cuore contro le costole, quasi doloroso, e il calore quasi estivo che le pietre ancora rilasciavano sotto i suoi polpastrelli. Dopo secoli di assoluto silenzio la porta si riaprì e ne uscì l'arcidiacono. Tornò alla posizione di prima, affacciandosi al basso, come se non fosse passato più di un secondo da quando le aveva rivolto quella domanda.
La zingara si avvicinò e chinò il viso sulla piazza. Vide i soldati allontanarsi, piccoli come bambole a quella distanza, le loro voci arrivavano ovattate e confuse.
Stettero immobili entrambi finché anche l'ultimo bagliore delle torce si perse tra l'oscurità dei vicoli parigini. L'uomo si girò e, senza degnarla di uno sguardo, fece per rientrare.
Solo allora dalle labbra della donna sfuggì un sospiro di struggente sollievo. Cadde in ginocchio, ai suoi piedi, e strinse un lembo della morbida stoffa dei suoi pantaloni per fermarlo.
 Alzò gli occhi pieni di lacrime verso il suo salvatore per sussurrare, con la voce spezzata dal pianto: -Sono in debito con voi-.

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Capitolo 2
*** 2 ***


C'è in me il dolore di un amore che fa male
E non m'importa se divento un criminale
 

 
Se n'era andato. Aveva strappato i pantaloni dalle sue mani quasi con disgusto ed era rientrato, senza guardarsi indietro, lasciandola lì in ginocchio a stringere il vuoto.
Esmeralda sentì il pianto iniziare a stringerle la gola e bruciarle le guance. Deglutì a vuoto e strinse palpebre e denti, costringendosi a pensare a momenti lieti.
Il vento soffiò sulla schiena portandole i capelli a nasconderle il viso. Quel soffio, fresco e bisbigliante, le riportò alla mente ricordi che quasi aveva dimenticato. Nei momenti di difficoltà era solita pensare alla madre che sicuramente, da qualche parte, la stava cercando, si immaginava il conforto dei suoi abbracci e delle sue carezze, l'affetto che solo i baci di una madre sanno dare. Ma in quel momento le venne in mente il mare. Se lo figurò, come se fosse davanti ai suoi occhi, grosso, spumeggiante e scosso dal vento; le labbra salate e i piedi sporchi di sabbia. Aveva visto il mare solo una volta nella sua vita, ma se n'era innamorata completamente, con la passione che caratterizzava il suo animo. Un amore pieno e divorante, da far male e stringere il cuore al solo pensarci. Sulla sabbia morbida le avevano insegnato le acrobazie più difficili, quelle che tanto piacevano ai bambini, e tra quei granelli aveva passato notti insonni a guardare le stelle.
Aveva pianto quando avevano lasciato quel luogo, conscia che una tale magia mai l'avrebbe ritrovata.
Ma poi era arrivata Parigi. Anni dopo si era riscoperta bambina. Parigi con il suo profumo di pane appena sfornato e lavanda, con i suoni del fiume e le urla della gente, con la sua lingua tanto musicale che pareva non esistesse la rabbia.
Parigi l'aveva fatta innamorare prima di se stesso e poi del suo capitano, e adesso, come un amante tradito, le buttava in faccia la realtà: nulla, nessuno in quel luogo l'amava.
Parigi era la capitale dominata dalla bellissima e impietosa cattedrale; l'acqua salata che tanto agognava, le onde burrascose e il sole bollente non li avrebbe trovati in quella città che aveva la pretesa di considerarsi la più bella del mondo.
Una lacrima scese fino alle sue labbra secche, la spazzò quasi con rabbia. Cancellò il mare dai suoi pensieri e decise di rientrare, pronta ad affrontare quell'uomo come una tempesta.
 
L'arcidiacono non dormiva. Chino alla sua scrivania, il calamaio in mano, gli occhi sgranati fissi sulle pagine gialle e polverose di un libro. Nessuno avrebbe mai pensato che un uomo tanto pacato avesse al suo interno il tormento di un mare in burrasca.
Claude Frollo aveva imparato a vestire la pacatezza come un abito. Era calata su di lui come la polvere sui mobili di una casa abbandonata, si era tanto stretta al suo essere da diventare una parte della sua anima.
Aveva presto imparato, infatti, che non sono le urla e le botte a spaventare uomini. Aveva imparato ad incutere timore soltanto alzando un sopracciglio.
Aveva altrettanto imparato, il curato, che il silenzio è amico dell'inquietudine. Amava quindi la musica, in un modo più che sconveniente per un uomo di chiesa com'era. Sapeva suonare il pianoforte, l'unico strumento accettato dalle ligie regole con cui era cresciuto. Far scorrere le dita sui tasti bianconeri era una delle sue più grandi forme di piacere.
Certo era che, in quel momento, non poteva mettersi a suonare.
La musica era da wscludere e i libri si stavano rivelando piuttosto scadenti come compagni.
Non gli rimanevano che i suoi pensieri che per quanto si sforzasse di soffocare tornavano sempre, prepotenti.
Erano ormai diverse notti che quei pensieri (non gli avrebbe dato un nome, assolutamente, non li avrebbe mai resi così concreti) gli rubavano il sonno e, di giorno, la concentrazione. Si rigirava tra le coperte inquieto, incapace di dormire, ma desideroso della beata incoscienza dei sogni.
Era giunto quindi ad una conclusione: doveva sfinirsi. Aveva digiunato, era andato a trovare le comunità più decentrate facendo lunghe cavalcate al galoppo senza mai fermarsi, rifiutando in modo quasi scortese le coppe d'acqua che gli venivano offerte, aveva scritto lettere, ordinato la sua scrivania per poi cambiare posto ad ogni cosa dopo un momento. Il suo subbuglio interiore stava iniziando ad intaccare anche l'esterno.
Tuttavia nulla aveva funzionato, lasciandogli così una sola alternativa.
Non gli avevano forse insegnato che per espiarsi è necessario pentirsi, punirsi? Cristo non aveva forse sofferto in croce prima che tutti i peccati fossero perdonati?
Dunque era deciso. Se soffrire era soluzione avrebbe sofferto.
Si alzò di scatto e si diresse verso la sua camera, non si diede il tempo di indugiare.
Aveva conservato una frusta in fondo al suo baule. Erano anni che non la usava, ma sentiva ancora chiaramente il suo sibilo prima dello schiocco sulla carne.
Si tolse la tonaca e la gettò noncurante sul letto, stava per ricevere la stessa sorte anche la camicia quando sentì la porta aprirsi.
Si fermò di colpo, come paralizzato, la schiena rigida e tutti i sensi all'erta.
Nessuno, mai, era entrato nei suoi appartamenti senza bussare, specialmente ad un'ora tanto insolita.
Tese le orecchie per cogliere qualsiasi suono.
Nulla.
O era forse un tintinnio, quello?
Cauto, aprì la porta.
Il cuore mancò un battito.
 
*
 
-Sono in debito con voi-.
Se già era scosso dalla sua visita, se così si poteva chiamare, quelle parole avevano fatto crollare del tutto il suo autocontrollo.
L'avrebbe presa lì, sulle dure pietre del balcone, con urgenza, per farle sentire il suo dolore. Era in debito? Bene, che lo saldasse dunque. Che soffrisse tra le sue braccia, sotto i suoi baci, i morsi bollenti.
Le gambe tremavano, crollò su una poltrona.
Sentiva le mani prudere tanta era la voglia di toccarla.
Prese un libro, tanto per accarezzare qualcosa, nella speranza che la ruvidezza delle pagine lo distogliesse dal pensare alla sua pelle di velluto. Lo aprì senza attenzione e iniziò a fissare le parole, una per una, senza cercare una logica.
La sentì rientrare. Nonostante facesse di tutto per non far rumore, riconobbe i suoi passi con la facilità con cui si riconoscono i propri familiari.
Come se la conoscesse da sempre.
La percepì, più che vederla, di fronte a lui. Si sforzò di ignorarla, dandosi ordini brevi e secchi.
Respira.
Non guardarla.
Gira una pagina.
Non alzare gli occhi.
Respira.
Non guardarla.
 
 
Chiuse la porta senza far rumore.
Lo vide seduto su una poltrona, un libro in mano, la fronte appoggiata ad una mano che massaggiava una tempia. Fissava le pagine con sguardo vitreo, senza interesse, come se fosse un mero pretesto per ignorarla.
Si sentì piccata da quella mancanza d'interesse.
L'aveva seguita per giorni e notti e ora neanche uno sguardo? Era abituata ad essere acclamata e applaudita, quel silenzio la feriva.
Ma aveva un debito e l'avrebbe saldato.
Gli andò di fronte, a pochi centimetri dalle sue gambe e, decisa, iniziò a slacciarsi la veste.
Lentamente, fissandolo, slacciò il primo bottone.
-Arcidiacono-
L'uomo alzò lo sguardo (finalmente!) e lo vide impallidire.
Il secondo bottone lasciò l'asola.
Si alzò di colpo, afferrandole i polsi.
-Che fai?!-, la voce strozzata.
-Non è questo che volete, il mio corpo?-, sentì pronunciare queste parole come se le avesse dette un'estranea, con le labbra curvate in un sorriso per imitare l'espressione beffarda dell'uomo. Se avesse saputo inarcare un solo sopracciglio l'avrebbe fatto.
Continuò ad aprirsi la veste, scoprendo il seno. Vide l'uomo dischiudere le labbra, ma non ne uscì nessun suono.
Incoraggiata, sentendo la presa sui polsi sempre più allentata, continuò.
-Basta!-
Si ritrovò incastrata: i polsi dietro la schiena, tra le mani bollenti dell'uomo, schiacciata al suo petto e il fiato bollente sulle labbra.
-Ma- -Smettila!-
La spinse indietro, come scottato.
Perse l'equilibrio e cadde.
Gli occhi sgranati, il seno scoperto, si ritrovò a fissarlo ancora.
Si era accasciato sulla poltrona, la testa tra le mani, sussurrando parole nella sua lingua musicale che usava per pregare.
Non osò muoversi, ascoltando quella litania sussurrata con tanta passione, tanto dolore da farla sentire quasi in colpa per il suo gesto.
-C'è una camera di là, vai a riposare-, disse l'uomo, sempre sussurrando, tanto che in un primo momento non riuscì a capire se si stesse rivolgendo a lei o ancora al suo Dio.
Non replicò, avviandosi verso l'unica porta presente. Azzardò un'ultima occhiata prima di entrare: ancora sulla poltrona, i capelli stretti tra i pugni, le nocche bianche tanta era la forza con cui stringeva.
 
 
 
Non pensava di dormire, eppure il sonno l'aveva colta regalandole ore intere di buio e silenzio. Non ricordava di aver dormito così bene da parecchio tempo, probabilmente perché al suo popolo non erano concessi materassi e cuscini di piume.
Si mise a sedere frastornata, i capelli spettinati che le ricadevano sulle spalle. Alla luce del sole, già alto, i muri di pietra non erano più così minacciosi.
Indecisa su come muoversi si osservò attorno. Sul comodino accanto al letto c'erano un grosso libro rilegato e, sorprendentemente, una mela. La prese e addentò la buccia fresca. Mentre il succo leggermente aspro le invadeva la bocca decise che non aveva da temere: se il prete avesse voluto farle del male gliene avrebbe fatto mentre dormiva, senza lasciarle la colazione.
Si alzò con energia rinnovata, mettendo in un angolo la disperazione della sera prima e quello che sembrava essere imbarazzo. Aveva agito d'impulso, guidata solo dall'istinto. Era stata avventata, se l'uomo non si fosse trattenuto? L'aveva provocato, aveva giocato. Eppure l'avevano avvertita: oggi non è ieri, tu non sei più com'eri. Non era più una bambina, ma una donna.
Attraversò lo studio e uscì nuovamente sulla balconata.
Che fare?
Se era una donna doveva trovare una soluzione. Si appoggiò al cornicione e osservò i parigini, mangiando la mela e riflettendo. Sicuramente non poteva scendere in cattedrale e uscire come niente fosse, eppure non poteva neanche rimanere lì dal momento in cui le guardie sapevano dove si trovava.
Davvero, se non fosse stato per quel prete forse in quel momento non si sarebbe goduta le carezze del sole sulle guance e il succo della mela a baciarle le labbra.
La gratitudine per l'uomo le entrò dentro a stringerle il cuore, scese verso lo stomaco e ancora più giù, in uno strano formicolio che la faceva sentire allo stesso tempo rilassata e fremente.
In ogni caso sarebbe scappata, avrebbe solo dovuto aspettare il momento giusto.
 
 
Tre cose venivamo bene ai gitani: essere delinquenti, fare baldoria e, più di tutto, essere liberi.
Il primo punto Esmeralda lo incarnava in pieno, ricercata per stregoneria e aggressione. Sebbene il terzo punto ancora le creava qualche difficoltà, fu proprio con la libertà che si prese di frugare ovunque che si apprestava a realizzare la seconda capacità innata del suo popolo.
Aveva curiosato in ogni angolo: dei numerosissimi libri si era annoiata in fretta (neanche un'immagine!), ma sull'ampia scrivania aveva trovato parecchio con cui dilettarsi. Numerose ampolle e bottigliette contenevano liquidi trasparenti o densi come fango, profumati come fiori o come le fogne. Le aveva aperte tutte, divertendosi anche a mischiarne alcune. Aveva smesso solo quando, mischiando in una piccola scodella tre liquidi diversi, si era creata una strana reazione tutta bolle, schiuma e sfrigolii che avevano corroso i malcapitati fogli vicini. Con un urletto di spavento aveva gettato la scodella a terra, incurante del buco che aveva creato nel tappeto.
Allora si era data all'esplorazione dell'unica altra stanza in cui poteva accedere. La camera da letto era illuminata da un'ampia finestra, dominata dal grande letto. L'analisi dell'armadio aveva richiesto poco tempo: era pieno di toghe, camiciole e pantaloni neri; piuttosto noioso insomma. Il baule ai piedi del letto si era rivelato impossibile da aprire, ma la frustrazione per quel piccolo inconveniente era subito passata. Lì vicino, abbandonata per terra, c'era una piccola frusta. Incuriosita la ragazza la prese tra le mani, chiedendosi per cosa mai potesse usarla, un prete. Stava toccando lievemente le piccole sfere di metallo al fondo delle corde di cuoio quando le venne un'idea che prima la fece sorridere e poi scoppiare allegramente a ridere.
 
Con un coltellino trovato sulla scrivania aveva tagliato in piccoli pezzi la frusta unendoli in modo tale che, scuotendoli, le piccole palline di metallo sbattessero tra loro. Certo, non era un suono soave come quello del suo tamburello, ma bisognava accontentarsi.
Spostò le poltrone per creare più spazio davanti al camino e iniziò a ballare in cerchio, al suono del suo nuovo strumento, immaginando i belati della sua capretta e gli applausi, le risa dei bambini e degli uomini. Iniziò a ridere, sentendosi pazza, pazza a ridere in una tale situazione, ma fortunata, così profondamente e immeritatamente fortunata ad essere viva e giovane. Avrebbe continuato a ballare e ridere all'infinito, se lo sentiva, se solo non si fosse aperta la porta.
Si fermò di colpo, gli occhi sgranati, colpevoli, il petto che si alzava e abbassava in fretta.
Frollo entrò velocemente e si fermò, le spalle alla porta. Il suo sguardo percorse la donna dalla testa ai piedi, soffermandosi forse un secondo di troppo sulle sue labbra schiuse e il seno ansante. Osservò le sue mani e corrucciò lo sguardo vedendo ciò che teneva in mano. Continuò l'analisi della stanza scrutando le poltrone nella loro posizione insolita e la scrivania, così disordinatamente violata.
Tornò a fissarla negli occhi, torvo.
-Cosa state facendo, di grazia?-
Perché, perché la sua voce così bassa squarciava sempre il silenzio come un grido?
La ragazza deglutì e prese fiato prima di rispondere, semplicemente:-Mi annoiavo-.
 
Seppe di aver fatto un errore ancor prima di finire di parlare. Vide l'uomo stringere gli occhi, improvvisamente accesi, e iniziare a camminare.  Spaventata si ritrasse il più in fretta possibile.
Nuovamente, capì di aver fatto un altro errore ancor prima che finisse di muoversi. L'uomo si fermò di colpo, una strana espressione gli passò sul viso, subito sedata.
Sospirò, si passò una mano tra i capelli e si diresse alla scrivania. Qui posò un cestino, che la ragazza ancora non aveva notato, e iniziò a sistemare ciò che lei aveva tanto superficiale toccato.
 
Esmeralda non sapeva cosa fare. Adesso si rendeva conto di essersi comportata come una bambina, ne sapeva forse qualcosa di quello che contenevano le boccette? Aveva affermato di essere in debito e poi dimostrava così la sua gratitudine?
Sentendosi umiliata dai suoi stessi pensieri si avvicinò all'uomo che nel frattempo stava osservando ogni boccetta per poi gettarla in un secchio, sospirando.
-Mi dispiace- avrebbe voluto dire altro, ma si ritrovò la gola chiusa e secca.
-Mangia- le rispose. Non l'aveva guardata, ma aveva indicato con un cenno del capo il cestino.
 
Lieta di avere qualcosa da fare, la ragazza scostò il panno scoprendo frutta, pane e, le uscì un gridolino eccitato a quella vista, una fetta di carne spennellata di miele.
Alzò la testa per ringraziarlo e si scontrò con gli occhi dell'arcidiacono. L'aveva definito brutto la prima volta che l'aveva visto, ma sicuramente non l'avrebbe fatto se avesse visto subito i suoi occhi.
Dio, che anima deve avere quest'uomo per possedere occhi del genere! Tutto il mare del mondo contengono!
Sentì i polmoni e la testa svuotarsi, dimentica di ogni pensiero.
L'uomo la fissò impassibile per qualche secondo (o qualche millennio!) per poi alzare un sopracciglio. La gitana si riscosse, sentendosi avvampare, e iniziò a mangiare. Anche perché quella stretta allo stomaco era sicuramente fame e doveva averne davvero molta perché facesse così male.
 
Passò qualche tempo in silenzio, durante il quale lei mangiava e lui finiva il suo lavoro, spostandosi poi alla finestra, dandole le spalle.
-Monsignore?-
-Si?-
-Mi stanno ancora cercando?-
-Si-
-Devo rimanere nascosta?-
-Sarebbe meglio-
-Qui?-
-Qui dovreste essere al sicuro-
-Per quanto tempo?-
-Finché le acque non si saranno calmate-
-Mi arresteranno?-
 
L'uomo si voltò, un po' spazientito da quelle domande incalzanti, ma si sentì morire sulle labbra la risposta pungente. La zingara lo stava guardando con grandi occhi lucenti, in attesa, e si stava leccando la punta di un dito per non sprecare neanche un po' del miele che le aveva portato. Deglutì. Quella vista aveva risvegliato le immagini che tormentavano i suoi sogni e che con tanta forza e impegno cercava di cancellare durante il giorno.
Si voltò di nuovo, sentendosi leggermente sudato, verso la finestra.
-Non se riesco ad evitarlo- rispose infine.
 
La ragazza si avvicinò. L'aveva visto deglutire. Era in difficoltà in sua presenza, confusa. Non era lei a dover essere spaventata? Perché allora era lui ad essere tanto schivo, evasivo?
Lo scrutò da vicino, voleva di nuovo incrociare i suoi occhi. Perché continuava ad ignorarla?
Gli tocco leggermente un braccio per attirare la sua attenzione.
-Grazie- un'altra volta le parole le erano uscite di bocca senza il suo permesso. Non vide tuttavia l'espressione dell'uomo. Anche se prima tutto quello che voleva era incrociare il suo sguardo, adesso era intenta a seguire con un dito un raggio di sole che disegnava strane figure sul petto dell'uomo. Le piaceva sentire sotto le dita la stoffa morbida e calda e, sotto di essa, il respiro sempre più veloce del prete. Arrivata al centro del petto aprì la mano, facendola aderire interamente al corpo, e iniziò una lenta carezza verso il basso. Le piaceva sentire i piccoli bottoni sotto il palmo, a intervalli regolari. Li stava contando, uno per uno, era arrivata a sette, circa a metà addome, quando si trovò, per la terza volta, con i polsi imprigionati sopra la testa  e contro il muro.
-Vuoi uccidermi, donna?!-
Adesso sentiva chiaramente il roco ansimare dell'uomo contro il collo.
Sentì le mani scendere sui gomiti, alle spalle e alla gola.
Le accarezzò le clavicole con la punta delle dita. Come riusciva in un secondo a passare dalla forza bruta del desiderio alla più tenera dolcezza d'amore?
-Non ti rendi conto di cosa mi fai?-
Aveva sostituito le dita con le labbra, una lieve carezza che stava risalendo lungo tutto il collo e poi di nuovo giù. Si costrinse a trattenere un gemito.
Le stava scostando leggermente la veste, scoprendo una spalla. Lì poggiò le labbra in un delicato e rovente bacio.
-Mi distruggerai-.
E se ne andò all'improvviso com'era venuto, lasciandola scossa contro il muro, soffocata in una morsa a metà strada tra il cuore e il basso ventre.
 
Salve!
Eccomi qui, in tempi assurdamente brevi per i miei standard, ad aggiornare!
Spero che questo capitolo vi piaccia e la storia inizi ad incuriosirvi. Se la mia Esmeralda dovesse risultare OOC non esitate a farmelo notare, provvederò a segnalarlo.
Perdonatemi le due citazioni dal musical all'interno della storia, ma non ho saputo resistere!
Detto questo vi lascio, spero in una vostra recensione, e ringrazio chiunque legga.
Un bacio,
Crudelia

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Capitolo 3
*** 3 ***



Lei
Che passa come la bellezza più profana
Lei porta il peso di un'atroce croce umana
 
 

Aveva bisogno d'aria. Correva per le scale come un pazzo, un cieco, seguendo la stretta scala a chiocciola con le mani, sbattendo contro i muri. Si sentiva bruciare. La camicia aderiva al petto sudato soffocandolo. Doveva rinfrescarsi, scappare da quel fuoco infernale che gli era nato nel petto, nello stomaco, nel basso ventre e ancora più giù, dove sentiva dolorosamente stringere i pantaloni.
Fermò la sua corsa quando colpì il parapetto di pietra del campanile.
Ansimando, guardò i parigini in basso, ignari del suo tormento. Sarebbe bastato così poco, sporgersi leggermente e sarebbe caduto fra di loro. Qualcuno avrebbe gridato vedendo il suo corpo cadere e schiantarsi al suolo scomposto, ma lui non se ne sarebbe accorto, sarebbe morto ancor prima di toccare il suolo. E sarebbe morto felice abbracciando il refrigerio che tanto agognava.
Si voltò e cadde in ginocchio. Non l'avrebbe mai fatto.
Ci teneva alla vita, nonostante tutto. O forse aveva paura dell'inferno che avrebbe accolto la sua miserabile anima di peccatore.
Si strappò il collarino e lo gettò lontano, si liberò con violenza della veste e della camicia, graffiandosi il petto per la foga di liberarsi di quel calore febbrile.
Sospirò, prendendosi la testa fra le mani. Non si accorse del gemito roco che gli stava uscendo dalle labbra.
Non sapeva dove aveva trovato la forza di staccarsi da lei, dalla sua bocca, i suoi capelli.
Aveva capito già da tempo che il suo cuore, rimasto così arido durante l'infanzia, era capace di molto amore. Troppo forse. Amava in modo assoluto. L'aveva capito con suo fratello, l'aveva amato come una madre. La sua ingratitudine l'aveva distrutto, e continuava a ferirlo ogni volta che lo vedeva.
E ora quella ragazza.
Doveva starne lontano o si sarebbe perduto. Ancora non si era dannato. Si era tirato indietro. Mentre seguiva suo fratello e il Capitano aveva scorto il proprio riflesso in una finestra: il mantello nero ad avvolgerlo, il cappuccio calato a coprirgli il viso, si intravedevano solo gli occhi, accesi di una luce accecante, febbrile. Erano gli occhi di un demone.
In quell'istante aveva capito di star commettendo una follia, chi era lui per impedire a quella fanciulla di concedersi all'uomo che credeva d'amare? Come poteva pensare di salvarla se ogni volta che la vedeva la malediva? L'avrebbe accusato di essere un assassino.
Piuttosto che il suo odio, preferiva l'indifferenza.
Era dunque tornato alla cattedrale, cercando di rifugiarsi nella sua scienza finché non se l'era trovata davanti.

Perché, perché, oh Dio perché mi fai questo?

Era riuscito a resistere alla tentazione e questa gli capitava tra le mani. Aveva pregato perché fosse sua, aveva rinunciato e ora gli veniva consegnata come un dono divino. O forse, riuscito a superare la prima prova, doveva affrontarne una seconda, più difficile?

Perché?! Oh, Signore, salvami!
 
 
 

Era rimasta contro il muro fin quando le gambe, tremanti, non l'avevano retta. Era allora scivolata lungo la pietra fino a trovarsi seduta a terra, le ginocchia al petto.
Si sentiva scossa, spaventata. Solo la sera prima Phoebus, lo stesso Phoebus che diceva di amarla, aveva tentato di abusare di lei. Era convinta di amarlo eppure, all'ultimo momento, quando la veste aveva rivelato i seni e il suo amuleto, si era tirata indietro. Certo non pensava che il soldato pretendesse i suoi servizi anche con la forza, se non fosse stato per quel colpo chissà come sarebbe finita. Diverso era stato con l'arcidiacono. C'era qualcosa nel modo in cui la toccava, un calore bruciante, che le lasciava una scia sulla pelle. Le sue labbra, poi!
Anche solo ripensandoci sentiva un formicolio al basso ventre.
Non sapeva spiegarsene il motivo. Forse era il suo portamento, elegante e mai eccessivo, o i suoi occhi che esprimevano un dolore che lei non riusciva neanche ad immaginare ogni volta che la guardava. E infine la sua voce. Roca, sempre bassa, si infrangeva su di lei come le onde sugli scogli.  Parlava poco più che sussurrando e le aveva rivolto così poche parole che non capiva come quel timbro le fosse entrato dentro, ma sentiva lì, nel petto, una corda che vibrava quando parlava. 
Decisamente, era la sua voce.
Tuttavia, quello che era successo rendeva ancora più impellente trovare una via di fuga.
Uscì nuovamente sul balcone. Iniziava a sentirsi come un animale in gabbia a cui è offerto solo uno spiraglio d'aria e, per questo, torna sempre nello stesso punto.
Alzò lo sguardo verso il cielo, il sole le fece lacrimare gli occhi anche attraverso le palpebre chiuse.
Cosa avrebbe dato per essere un uccello, avere le ali. Sarebbe salita sul tetto della cattedrale, sulla torre più alta, e avrebbe spiccato il volo verso la Corte dei Miracoli e oltre, avrebbe seguito la Senna fino a tuffarsi nel mare e- spalancò gli occhi all'improvviso.
Aveva capito, la soluzione non era salire, ma scendere! Corse al parapetto e si affacciò, creò con la mente un percorso, cercando appigli tra le statue e ornamenti. Non sarebbe stato facile, una discesa lunga, difficile e pericolosa. Un solo passo falso e sarebbe morta. Ma valeva la pena tentare. Avrebbe aspettato la notte, con l'aiuto del buio nessuno l'avrebbe vista.
Con quella speranza nel cuore si sedette, si mise comodamente appoggiata alla parete e iniziò ad aspettare.
 
 

Un brivido di freddo le corse per la schiena. Si raddrizzò di scatto e tutti i muscoli della schiena e del collo protestarono con una scossa dolorosa.
Si era addormentata.
A fatica, sforzando le gambe irrigidite da tante ore d'immobilità, si tirò in piedi.
Era notte, ma non da molto. Stroppicciandosi gli occhi entrò dentro.
-Buongiorno-.
La voce la fece sobbalzare. Si voltò di scatto per vedere da dove proveniva, i muscoli già pronti a scattare.
L'arcidiacono era seduto alla scrivania. Leggeva, un libro in una mano e nell'altra una coppa di vino. Un sorriso ironico sulle labbra, non la guardava.
Esmeralda si sentiva il cuore in gola, riusciva sempre a spaventarla. Si passò la lingua sulle labbra secche e fece per rispondere quando gli occhi dell'uomo si incatenarono ai suoi facendole di nuovo perdere le parole.
Se possibile, il sorriso si intensificò.
-Devo chiedervi di stare più attenta- disse alzandosi -Potete uscire, chiaramente, ma non dovete farvi vedere-, si era avvicinato alla porta, l'aveva chiusa e tirato una pesante tenda. Di colpo nella stanza era piombata l'oscurità, rotta solo dalle numerose candele sulla scrivania.
L'uomo si avvicinò e si posizionò di fronte a lei, appoggiandosi alla scrivania, le gambe allungate e le braccia incrociate sul petto.
La fissò intensamente. Il sorriso era scomparso, al suo posto era calata un'ombra sugli occhi.
-Avete fame?- le chiese.
Esmeralda annuì, deglutendo. Non si era accorta di avere fame, al momento il suo problema era il freddo.
L'uomo le indicò con un cenno un cestino affianco a lui. Non glielo porse: se lo voleva, doveva avvicinarsi.
Cercando un coraggio che in realtà non aveva la ragazza si avvicinò.
Era davvero un gesto poco carino, si ritrovò a pensare. Erano  molto vicini, aprendo il cestino aveva sfiorando la coscia del prete. L'aveva sentito fremere.
Bene, se l'era cercata.                       
Deliberatamente, fingendo di ruotare il cesto, gli toccò di nuovo la gamba, premurandosi di farlo il più lentamente possibile.
Lo vide scattare in piedi come scottato, riprese il libro e si sedette pesantemente su una poltrona vicino al camino.
Questa volta toccò a Esmeralda sorridere.
Sentiva lo stomaco chiuso in una morsa, tuttavia sforzò la bocca asciutta ad aprirsi e parlare:-Dovrò rimanere a lungo?- Nascosta, prigioniera, voleva aggiungere, ma ingoiò le parole.
Non vide la reazione dell’uomo perché si stava fingendo interessata alla sua cena, ma la sferzata d’ironia la colse impreparata.
-Ma allora parli! La tua bella voce che canta non l’avevo immaginata-
Se possibile, lo stomaco le sparì in un grumo doloroso.
-Io…-  Deglutì. –Io non ho paura di voi!- Disse voltandosi a fronteggiare l’uomo.
Inaspettatamente, Frollo cominciò a ridere. Esmeralda lo guardò con gli occhi  sgranati. Aveva sentito molti uomini ridere, soprattutto alla Corte e specialmente ubriachi, ma mai nessuno in quel modo. Non c’era allegria nella risata del curato, solo un’immensa amarezza.
La risata sfumò lentamente lasciando un’ombra di sorriso sulle labbra. Incrociò gli occhi della ragazza che sussultò come se l’avesse colpita.
-Ma davvero?- Chiese con tono strascicato.
Era solo una zingara e non sapeva nulla dei giochi di potere, ma vederlo in quel modo le fece capire come avesse fatto ad arrivare così in alto nella gerarchia ecclesiastica. Dai suoi gesti traspariva nobiltà, sicurezza di sé.
Era intimorita, spaventata. Terrorizzata. Ma sentì la rabbia diffondersi in tutto il corpo.
Strinse i pugni, sentendo le unghie conficcarsi nei palmi.
–So cosa volete da me, solo il mio corpo! Ma non lo avrete, no, non lo avrà nessuno. Tanto meno voi, voi che pregate tanto e poi guardate tutti dall’alto al basso!- Stava ansimando. L’ansia le stringeva lo stomaco e faceva aumentare il battito del cuore, che sentiva doloroso nelle tempie.
Si aspettava di vederselo venire contro, forse l’avrebbe colpita, sicuramente l’avrebbe fatta sua.  Ma l’uomo la sorprese. Non aveva mai distolto gli occhi dai suoi, man mano era calato un vero su quelle iridi.

Il mare. Il mare diventa nero quando c’è tempesta.

Il pensiero fu intercorro dallo schiocco del libro chiuso di scatto.
-Bene.- Disse Frollo alzandosi dalla poltrona. –Bene.-  Ripeté. Le si avvicinò fin quasi a sfiorarla. Esmeralda provò a indietreggiare, ma si ritrovò a sbattere contro la scrivania. Fu sicura che avrebbe concluso quello che aveva lasciato in sospeso quella mattina.
Chiuse le palpebre, aspettando. Invece sentì sulle labbra il fiato bollente dell’uomo. Schiuse gli occhi  per trovarsi nuovamente incatenata alla iridi dell’uomo.
-Se volete andarvene fate pure, sono sicuro che qualcuno dei vostri trucchetti da strega funzioneranno sulle guardie che ci sono ad ogni porta.- Le sibilò contro.
-Non ci sono guardie.- Sussurrò talmente piano che faticò a percepire la sua stessa voce. Vide l’uomo stringere gli occhi dalla labbra e di nuovo ebbe la sensazione che quel suo sconsiderato atto di ribellione venisse punito.
Di nuovo, si sbagliò.
L’arcidiacono si fece ancora più vicino, appoggiando le mani sul legno scuro della scrivania. Ora i loro petti era separati da pochi, irrisori, millimetri.
-Se pensi di conoscere la mia cattedrale meglio di me accomodati, gitana, esci. O scala le pareti se pensi che sia la soluzione. Vedremo bene se balli ancora, appesa alla forca.-
Deglutì. Forse erano vere le voci che lo definivano uno stregone perché altrimenti non avrebbe saputo le sue intenzioni.
-Come lo sapete?- Trovò ancora la forza di chiedere. Le parole lasciarono le sue labbra secche in un sussurro doloroso. Le aveva parlato come ad una signora fino a quel momento, ma aveva smesso. Come prima di schiacciarla al muro, prima di perdere del tutto il controllo gli avvertimenti erano chiari.
La guardò ancora per secondi che parvero anni. Alzò una mano e la avvicinò al volto di Esmeralda. La ragazza sentì sulla guancia il calore delle dita, segno della loro vicinanza, ma la carezza non arrivò mai.
L’uomo si era allontanato, sistemando pieghe invisibili nella tonaca e dandole la schiena.
Sospirò pesantemente e poggiò le mani sul camino, fissando il fondo privo di cenere. Stringeva il cornicione tanto forte da avere le nocche bianche, le spalle incurvate schiacciate da un peso troppo grosso.
Un ennesimo sospiro lasciò le sue labbra e, come sempre, Esmeralda rabbrividì ad udirlo.
-Vedo due modi perché possiate andarvene.- Iniziò con tono stanco. –Vi potete vestire da uomo, tagliare i vostri bei capelli e lasciare la cattedrale come un novizio, oppure aspettare che l’attenzione di tutti sia su un evento così importante cosicché la vostra fuga passi in secondo piano.-
Il silenzio strisciò tra loro come nebbia. Quando capì che il discorso dell’uomo era in realtà una scelta, Esmeralda si decise a romperlo.
-Non voglio tagliarmi i capelli.- Suonò infantile anche alle sue orecchie. Un po’ se ne vergognò.
L’uomo prese fiato lentamente, sembrava volesse trattenersi dal dire qualcosa. Infine espirò, drizzando la schiena.     
-Bene, aspetteremo il matrimonio del capitano.- Disse voltandosi. La guardò ancora con uno strano sguardo, come se avesse voluto che non scegliesse quella possibilità, che se ne andasse il prima possibile.
Non disse niente, fece un cenno con la testa per congedarsi.
 
 
 

Vedremo bene se balli ancora, appesa alla forca.

Quelle parole continuavano a rimbombargli in testa, ancora dopo giorni. Voleva allontanarla. Ci era riuscito?
No.
Ironico. Per quanto in passato avesse cercato di avvicinarla l’aveva sempre guardato con odio, ora, quando l’unica cosa che voleva era mettere più distanza fra sé e la ragazza, lei sceglieva la possibilità più remota.
Pensava, sperava, avrebbe scelto di andarsene subito. In fondo i capelli gli sembravano un buon prezzo per la libertà. Ma, ancora, la aveva fatto la scelta meno indicata: potevano passare anche mesi prima che il Capitano si sposasse. Come poteva pensare che non fosse un’incarnazione del demonio se non faceva altro che indurlo in tentazione?
Avrebbe dovuto cacciarla, esiliarla dai suoi appartamenti (dal suo letto!) e liberarla per le strade di Parigi. Che fossero le guardie o il suo Capitano a combattere le fiamme dell’inferno, non lui. Non lui che aveva il cuore incatenato a Notre Dame, catene che stringevano ogni volta che lo sguardo si posava sulle forme in fiore di Esmeralda. Sospirò, sentendo la carne bruciare al solo pensiero.  
Non poteva, non l’avrebbe mai fatto. Non era abbastanza forte per privarsi anche solo della consapevolezza di averla sotto lo stesso tetto.
 


Erano passati tre giorni, o almeno così Esmeralda supponeva. Il tempo scorreva in modo strano tra quelle mura, scandito dalle campane e dalle preghiere.
Aspettava, sentendosi in gabbia. Passava le giornate sul balcone, ben attenta a non farsi vedere, beandosi del calore del sole e ascoltando le voci dei parigini che salivano fin lassù. Tuttavia, le parole dell’uomo le avevano lasciato un’angoscia persistente. Il pensiero che l’avrebbero uccisa se solo fossero riusciti a prenderla le schiacciava lo stomaco a intervalli irregolari; a volte si svegliava nel cuore della notte sentendosi mancare il fiato, convinta di avere un cappio intorno al collo.  In quei momenti si consolava canticchiando a labbra chiuse e coccolando l’amuleto di sua madre.
Quel giorno, però, era come circondata da una bolla di serenità. Supponeva fosse domenica, le campane l’avevano svegliata suonando a festa, e per tutto il giorno la piazza era stata invasa da voci felici, musiche e canti. Non osava più affacciarsi, ma se si concentrava abbastanza poteva vedere la sua famiglia intrattenere bambini e adulti. Pensava alla sua capretta, a come avrebbe voluta stringerla, la sua piccola amica.
Pensava spesso a Djiali, specialmente da quando era riuscita ad avvicinare un gatto. Immaginava fosse nella cattedrale per cacciare i topi, come tutti i gatti di Parigi. L’aveva portato a fidarsi offrendogli piccoli bocconi di carne e lievi carezze. Si era riconosciuta nell’animale, sola e spaventata.
Ci era voluto comunque poco per fare amicizia con il piccolo felino: dopo la razione di cibo e coccole riusciva a farlo giocare con un laccetto della sua gonna. Non le importavano i graffi che si accumulavano sulle mani, erano ben sopportati in cambio di qualche sorriso. Aveva comunque deciso che il suo unico attuale amico si meritava di meglio. Era tornata a frugare nei cassetti della camera da letto. Quasi abbandonato a se stesso aveva trovato un fazzoletto bianco e profumato, in un angolo erano elegantemente ricamate tre lettere azzurre.
Esmeralda l’aveva diviso in strisce sottili per poi legarle insieme, facendo attenzione a non rovinare il piccolo ricamo. Stava facendo saltare il gattino da una parte all’altra al suo inseguimento quando lo vide appiattire le orecchie e scappare in un turbinio grigio.
Fissò l’angolo in cui era scomparso prima di sentire un rumore e alzare lo sguardo. L’arcidiacono si era appena affacciato alla porta, guardandola con il suo sguardo attento. La ragazza ricambiò l’occhiata, studiandolo. Non era rilassato, non con quei cerchi blu sotto gli occhi, ma non era neppure arrabbiato.
Sembrava rassegnato, triste.
-Vi annoiavate?- Le chiese in tono quasi gentile, alzando appena gli angoli della bocca.
Esmeralda sorrise, ricordando la risposta che aveva dato poco tempo prima. –Ho fatto amicizia con un gatto, lo stavo facendo giocare,. Si alzò per avvicinarsi all’uomo. –Vedete, ho trovato questo.-
Gli si fermò di fronte, ad un passo di distanza, guardando il fazzoletto che teneva tra le mani. Fu l’uomo a coprire lo spazio che li separava. Tese la mano a sfiorare il fazzoletto, accarezzando con l’indice le piccole lettere.
-Era di mia madre.- Sussurrò con una delicatezza che la ragazza non gli credeva possibile. –L’avevo dimenticato.-
Parlava tra sé, ma quelle parole bisbigliate ebbero su Esmeralda l’effetto di uno schiaffo. Si sentì improvvisamente meschina per aver violato un oggetto tanto prezioso.
-Mi dispiace.- Balbettò con gli occhi pieni di lacrime. –Io…- Non riuscì a finire, le si ruppe la voce in gole.
-Non è importante, non ricordavo neppure di averlo.- Asserì l’uomo con tono più presente.
-Io…- Ripetè, incapace di andare oltre. Non immaginava come avrebbe reagito se qualcuno avesse osato rovinare il talismano di sua madre, la piccola scarpina. Si sarebbe disperata, non avrebbe avuto la calma dell’uomo. Solo al pensierosi sentiva morire.
Sentì due dita sotto il mento e incrociò lo sguardo dell’uomo. Aveva le sopracciglia corrugate, come se non capisse.
-Non piangete.- Bisbigliò asciugandole una lacrima con un pollice. –Non sopporto vedervi così.- Di nuovo, sembrava parlasse a se stesso, ma Esmeralda si sentì scaldare da quelle parole.
Nessuno mai le aveva parlato con quell’accoratezza e il dolore che l’uomo aveva inciso su ogni ruga del volto la colpì particolarmente, alla luce accecante del tardo pomeriggio.
Di slancio, Esmeralda si alzò sulle punte per gettarsi tra le braccia dell’uomo. Gli strinse il collo sentendo il cuore accelerare sotto la tunica e il calore del suo petto avvolgerla.
 
 



Note
Due mesi. È imperdonabile, ma il capitolo si era bloccato a metà e non voleva più saperne, Ringrazio comunque chi è arrivato fin qui, chi ha messo la storia tra le seguite e le preferite. Se volete lasciare un commento è più che gradito, qualsiasi esso sia.
Se ve lo state chiedendo, smetterò mai di citare il musical? La risposta è no, se mi è possibile.
 
Crudelia   

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Capitolo 4
*** 4 ***



È con imperdonabile ritardi che aggiormo. Ingiustificato, anche, perchè sono davvero affezionata a questa storia.
In ogni caso, spero che apprezzerete il capitolo, anche se breve, e vi prometto che sarò quanto più possibile puntuale d'ora in avanti.
Un abbraccio,
Crudelia

 




È un volo che afferrerei e stringerei,
ma sale su l’inferno a stringere me.
 
 
 
In molti modi veniva definito l'arcidiacono Claude Frollo: studioso, acculturato, uomo di fede. Stregone, a volte.
Mai, mai era stato definito codardo.
Forse per mancanza di coraggio proprio dagli stessi che tanto prontamente lo criticavano, forse per mancanza di occasioni in cui sfoggiare quel termine.
In quel momento, comunque, era proprio così che si sentiva il curato. Un codardo.
Aveva affrontato molto nella sua vita, non era fuggito nemmeno di fronte all'orrore che aveva provato la prima volta che i suoi occhi si erano posati sul profilo irregolare di Quasimodo, ma quella ragazza. Quella ragazza lo convinceva ogni volta di più che fra i guizzi dei suoi capelli ci fosse il diavolo, le fiamme dell'inferno agli angoli della sua bocca e le urla dei dannati nei trilli della sua risata.
Come poteva pensare di abbracciarlo, premere su di lui le candide forme innocenti e cingergli il collo con le braccia abbronzate?
Chiuse gli occhi e serrò i denti tanto forte da sentirli vibrare. Fece un passo indietro obbligando le mani tremanti dal desiderio di rimanere sui suoi fianchi solo il tempo necessario per scostarla da sé.
-Esmeralda, non-, una smorfia di dolore gli contorse il viso. Pronunciare il suo nome, quale errore!
-Signore,- c'era incredulità vera nel suo tono. -Voi-
La mano che aveva allungato verso la sua guancia venne afferrata di colpo, forte, con violenza, uccidendo sul nascere sia le parole che la carezza.
Si ritrasse come se lei l'avesse colpito, arpionando con le dita la veste all'altezza del petto che doleva. Poggiò una mano alla parete incapace di respirare e di reggersi in piedi sotto i tremiti che sconquassavano le ginocchia. Vide i suoi occhi iniettati di preoccupazione e, come l'ascia che cade sul condannato, quello sguardo ebbe il potere di inchiodarlo a terra, le ginocchia contro la dura pietra.
-Oh, signore.- La vide avvicinarsi con le braccia tese, il sole brillare nei suoi capelli neri come la notte.
-Vattene.- Una supplica, nient'altro che una preghiera.
La vide abbassare lentamente le braccia, tentennare ancora.
-Vattene!- Un ringhio rabbioso che non conteneva in alcun modo la sua sofferenza.
La ragazza fece due passi esitanti indietro, poi si voltò e iniziò a correre.
Solo quando l'eco dei suoi passi si fu spento e il suo profumo portato via dal vento Frollo si concesse di cedere. Le mani si schiantarono al suolo troppo deboli per sopportare il peso del suo tormento.
-Dio.- Una preghiera strappata tra i denti poi, consapevole della sua solitudine, lacrime roventi scesero lungo le guance scarne, incapaci di lenire il battito soffocato del suo cuore.
 
 
 
Esmeralda non capiva.
Avrebbe voluto, ma non ne era capace.
Era cresciuta senza regole e senza morale, senza qualcuno che le spiegasse la vita. Aveva sempre creduto che le leggi zingare fossero le uniche: vagare e cambiare casa se un luogo ha smesso di soddisfarti, ballare e cantare per guadagnarsi un pasto ogni giorno. La strada come unica madre, la propria mano come unica compagna.
Quell'uomo era un enigma, estranea ad ogni sua convinzione e abitudine.
Ogni gesto che lei faceva, così giovane e spontaneo, risultava essere quello sbagliato: come poteva un abbraccio, nato per essere consolatorio e segno di empatia, creare distacco e sofferenza?
Esmeralda guardava la fiamma di una candela guizzare e non capiva, leggermente imbronciata.
Voleva aiutare e aveva fallito.
Era tutto così difficile, crescere era difficile.
Fece un sospiro, tanto strano sulle sue labbra di ciliegia nate per sorridere, e chiuse gli occhi.
Forse, il sonno l'avrebbe aiutata.
 
 
 
Fu svegliata da un colpo e qualcosa di sferragliante, scattò a sedere prima ancora di aprire gli occhi.
-Cosa significa scomparsi, Capitano?-
-Monsignore, vi prego. Abbiamo cercato in tutti i sobborghi, le porte della città sembrano deserte.-
Sotto il rombo furioso del suo cuore Esmeralda si concesse un sospiro. Lieve, inudibile, solo un poco di sollievo per non essere ancora stata scoperta. Tuttavia le parola rabbiose che giungevano dalla porta chiusa le svegliarono un sapore amaro in fondo alla gola.
-Se soltanto potessimo cercare ancora...-
-Cosa pensate, Capitano, che nasconda l'intera Corte dei Miracoli nella mia stanza?-
Non aveva gridato, ma il sarcasmo pungente della frase fece stringere lo stomaco anche alla ragazza. Come un animale braccato frugò la stanza con lo sguardo in cerca di un nascondiglio, le gambe tese e i piedi pronti a scattare.
-Non volevo offendervi, Maestro, ma la zingara si è rifugiata nella Cattedrale.-
-La casa del Signore non verrà violata perché voi e i vostri uomini siete troppo inetti per seguire una gitana.- Un fruscio seguì quelle parole. Alla Esmeralda non venne difficile figurarselo mentre si alzava elegantemente dalla sedia, il portamento fiero e lo sguardo altero. Quasi si spaventò per la familiarità con cui riconosceva i suoi movimenti e toni.
-Signor Arcodiacono, stiamo facendo tutto il possibile, ma gli zingari continuano a nascondere la loro regina, quella... Similar.-
-Insomma, Capitano, sono scomparsi o continuano a nasconderla?-
Il silenzio che seguì risuonò dei rintocchi delle campane, otto battiti che si susseguirono con fragorosa lentezza mentre Esmeralda, nascosta dietro la porta, iniziava a capire. Dunque era stato qualcuno del suo popola a salvarla dalla violenza che il Capitano aveva mascherato sotto la forma dell'amore. Quando lei era fuggita, inseguita dai soldati, doveva essersi nascosto e tornato alla Corte. Ora, comunque, parevano scomparsi.
Se si fosse trattato di un'altra donna avrebbero continuato il loro pellegrinaggio alla ricerca di un'altra città in cui chiedere asilo, ma erano davvero così facile che si dimenticassero di lei, la bambina che avevano visto crescere e amato?
Esmeralda temeva di sì. In fondo gli zingari erano tanti e lei solo una ragazza.
Il discorso riprese, esitante, interrompendo i suoi pensieri.
-Spesso intervengono, deviando le nostre ricerche.-
-Mi state dicendo che si fanno beffe di voi.-
Di nuovo fruscii e silenzio interrotto da passi.
-Devo confessarvi di essere molto deluso, Capitano.-
-Me ne rincresce, signore.-
-Tuttavia, non è abbastanza. Una banda di miserabili straccioni non può turbare la quiete così al buon popolo di Parigi.- Una pausa prolungata, un silenzio pieno di riflessioni.
-A voi Febo di Chateaupers, capitano degli arcieri del re, io do l’ordine di
bloccare quella melma.-
-Sarà fatto Monsignor Arcidiacono, se necessario scateno un massacro in nome di Dio farò pulizia.-
Ancora rumore sferragliante, passi pesanti che si allontanavano, poi nulla.
Esmeralda aspettò molto tempo prima di allungare le dita sottili e tremanti e aprire la porta. Una parte di lei quasi credeva di essere rimasta sola, invece si scontrò con la figura dell'arcidiacono china sulla scrivania, le mani appoggiate su fogli stropicciati e la testa arresa.
Fece un passo in avanti e lui alzò di scatto gli occhi su di lei.
Occhi violenti, arrabbiati.
Stringere la mascella e drizzare le spalle fu un solo, fluido gesto.
Senza degnarla di uno sguardo ancora iniziò a dirigersi verso la porta. Fu lei a fermarlo, la voce più supplicante di quanto avrebbe voluto.
-Monsignore.- L'urgenza la fece camminare nella sua direzione, portandosi vicina alle spalle che raggiungeva a malapena. -Vi sto mettendo in pericolo.- Non seppe nemmeno lei se era una domanda oppure una constatazione.
L'uomo le gettò un'occhiata da sopra la spalla, senza voltarsi. -Non è me che metti in pericolo.- Tornò a camminare svelto fino a raggiungere la porta. Solo quando stava per varcarla aggiunse le parole che fecero sprofondare il cuore do Esmeralda in un abisso.
-È la mia anima che si sta perdendo.-
Esmeralda rimase sola al centro della stanza anche dopo molto che l'ultimo eco della porta sbattuta si perse tra le fredde pietre della cattedrale.
 
 

Non le era stato espressamente vietato di uscire. Essere più cauta, sì, evitare di essere vista all’esterno, ma non muoversi all’interno della cattedrale non le era stato escluso.
Aveva spinto la porta con ansia crescente, trovandosi davanti agli occhi il corridoio che aveva percorso durante la sua fuga. Con il cuore in gola, aveva iniziato ad avanzare lentamente, spiando ogni angolo e ombra creata dal sole morente che entrava dalle finestre lunghe  e strette.
Le parve di viaggiare senza meta per molto tempo, seguendo corridoi tutti uguali e spiando quadri dalle molteplici facce sofferenti e adoranti. Tuttavia i raggi arancioni si erano appena inclinati, allungando solo di qualche centimetro la sua ombra nera e sottile.
Fu la musica a guidarla.
Dapprincipio pensò fosse solo immaginazione, ma più saliva, avanzando per corridoi sempre più stretti e spogli e scalini ripidi, capiva che il suono ricco e profondo era prodotto da qualcuno di estremamente capace.
Le note più profonde le vibravano nello stomaco, la musica tanto sofferta da farle inumidire gli occhi e stringere la gola.
Forse perché non aveva mai sofferto come ora in vita sua, forse perché mai era stata prigioniera, forse perché mai aveva vissuto emozioni che le scuotevano il cuore fino a fargli raggiungere il limite, ma sentì subito di comprendere il dolore dentro le noti sfruscianti attraverso l’aria.
Ben attenta a non farsi udire raggiunse un ampio spazio di pietra intervallato da colonne. La luce del tramonto penetrava attraverso un grande rosone rendendo l’atmosfera misteriosa, la pietra dipinta dai colori tremolanti.
Nascosta dietro una colonna Esmeralda si sporse leggermente, curiosa di sapere chi fosse l’artefice di quella musica. Vide soltanto una schiena fasciata di nero prima di ritrarsi, il cuore che batteva furioso nella gola.
Una parte di lei era consapevole di non doversi trovare in quel luogo, che aveva spinto la pesante porta di legno solo per seguire l'arcidiacono. Per dirgli cosa non sapeva, ma era stanca di essere ignorata se non per vedersi rivolgere occhiate sofferte e aspre.
La musica continuava nel riverbero dell'ultimo sole, tra i suoi capelli fiammeggianti e il cuore in tumulto. Appoggiò le spalle alla fresca pietra e sbirciò ancora una volta.
Ciò che vide la lasciò senza fiato.

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