Espiazione

di Il filo di Arianna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***



Capitolo 1
*** Uno ***


Monica cammina spedita lungo la via, lo sguardo basso, le spalle infossate. È talmente concentrata sulle proprie emozioni – dolore, angoscia e qualcos’altro che nemmeno ella saprebbe definire - da non notare affatto come tutto, attorno a lei, annunci l’arrivo del Natale. La sua festa preferita, da bambina.

Appunto. Quando era piccola adorava la magia che ogni dicembre arrivava a colorare la sua esistenza. Ora non degna nemmeno di un’occhiata quelle decorazioni luminescenti poste ovunque a riempire le vetrine dei negozi, le piazze della città. Ogni cosa esistente è infatti ricoperta da luci, ogni anno sempre più elaborate, insomma, pretenziose di attirare su di sé lo sguardo dei passanti.

Quanto vorrebbe, Monica, poter guardare il cielo in questi istanti in cui la sua vita pare disgregarsi sotto lo sguardo di un fato poco compassionevole. In fondo del destino si può dire tutto, ma non che provi compassione per i piccoli abitanti di questa terra, persi nei loro affanni quotidiani. Chiunque sa quanto sia fermo, implacabile, inarrestabile.

Eppure avrebbe dovuto capirlo, immagino, che quell’uomo non avrebbe meritato una minuscolo briciola del suo amore. Già dal loro primo incontro avrebbe dovuto percepire non solo il fascino irresistibile che purtroppo l’aveva tratta in trappola - per giorni, mesi, anni; ma anche la sottile arte della menzogna che lo caratterizzava.

Come un’ingenua invece era caduta tra le sue braccia, calde, forti … da uomo. I suoi occhi l’avevano incantata, così la sua voce. Non era riuscita ad opporsi alla sua brama evidente con un netto rifiuto, neppure quando settimane dopo si era accorta di quel piccolo anello d’oro al suo anulare. Era sposato, probabilmente con figli. Due anni di occulta passione senza sapere davvero chi avessi al mio fianco.

Nell’incedere frettoloso lungo i bordi del marciapiede, Monica, con mano tremante, cerca di asciugarsi una lacrima che traditrice ha deciso di scivolare silenziosa lungo la guancia sinistra. Attorno a sé solo uomini e donne sorridenti, il grido di qualche bambino, attratto da un giocattolo più vistoso degli altri disposto magistralmente in qualche vetrina. Falsi. Finti i sorrisi. Quasi plastificati. Che vuoto, che delusione. Una felicità stereotipata, come ogni cosa ormai in questo mondo.

È stato l’ennesimo litigio – dovrei imparare dalle precedenti esperienze; tuttavia è sempre come se ogni volta il passato si annullasse ed esistesse solo l’hic et nunc: egli furioso, io un agnello al macello, reo, colpevole di chissà quale reato. E come ogni volta, dopo averla avvolta nelle sue spire, il serpente è pronto ad ucciderla; quello stesso animale che poco prima è riuscito ancora, dopo millenni di storia, a trarre in inganno l’ingenua Eva attratta da quel maledetto frutto proibito.

È mito, è parola, è racconto: insomma è già stato. Il risultato di questo incommensurabile peccato? La cacciata dell’uomo dall’Eden. Monica lo sa, ne è perfettamente consapevole, infatti questo è quanto accade a lei tutte le volte che osa una richiesta. La solita. Eppure Monica dovrebbe sapere che quel pezzente non ha nulla a che spartire con la sacralità della famosa vicenda.

Ingenua.

Ancora oggi Monica crede nelle favole, nonostante tutto. Forse è proprio questo che non riesce a farle osservare con occhi critici la situazione di cui è vittima: crede nel lieto fine, lei; crede nel principe azzurro. Quanto sono lontani i sogni dalla sua squallida realtà. Nessuna scarpetta di cristallo, nessun tappeto magico pronta a strapparla dalla gabbia in cui è stata imprigionata. Consapevole? Forse non troppo.

Per due anni ha accettato una camera di ostello. Si diceva che prima o poi avrebbe guadagno la luce del sole, al suo fianco magari. La dignità che comporta la luce. Invece ad ogni incontro la stessa prevedibile storia: l’occulto, il regno degli Inferi, il buio. Monica certe volte si crede l’attuale Persefone, rapita da Ade e condotta nella prigione infernale. Forse si sbaglia, perché Ade in fondo l’ha voluta regina, Persefone, unica regina al suo fianco. Persefone è sua moglie. Monica,invece, non è altro che la sguattera della cucina, pronta a soddisfare le voglie del padrone, attratto dalla sua bellezza. È un rapporto sbagliato, viziato. Non risponde ad una logica, come quello della coppia infernale - certo non comprensibile agli uomini, ma d’altronde non si potrebbe fare altrimenti, essendo un mondo opposto, di tenebre, rispetto a quello di luce in cui i mortali vivono.

Questo suo vagare è silenzioso - perché Monica non si impone con urla schiamazzi o risate sguaiate: ella è tutta chiusa su se stessa. Non vede ciò che le sta attorno, gli occhi degli altri che distrattamente si soffermano sulla sua figura anche fisicamente respingente l’esterno. La solitudine - cercata, voluta - lenisce le sue ferite; le apre l’animo alla ricerca di un diverso. Di una dignità.

Vorrebbe guardare le stelle. Cercare risposte in loro, le risposte che da sola non riesce a trovare. Scoprire scritto il suo destino, per essere finalmente sicura della decisione da prendere. Eppure questo non è un privilegio umano: nessuno conosce ciò che il fato ha stabilito per lui. Forse gli dei, dall’alto del loro cielo, ridono divertiti della nostra banalità o stupidità, a volte. Magari scommettono sulla nostra “possibilità” di scelta, quando sanno benissimo che qualche metro sotto terra le tre Moire sono in procinto di porre fine alla nostra vita tagliando il filo rosso che tengono tra le mani.

Le stelle cerca, Monica.

E sono le stelle, per una volta, a risponderle.











Angolo autrice:
Che ne dite di questo capitolo? Vorrei davvero sapere cosa ne pensate: critiche, consigli, emozioni o idee che vi ha suscitato ...
Una storia, qualsiasi, anche se pessima, muove qualcosa dentro chi legge: vi chiedo solo di scrivermi se queste poche righe abbiano assolto il loro compito.
A presto.

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Capitolo 2
*** Due ***


“Ecchisietevòi, o incantevole dama?”

Monica ha bruscamente interrotto la sua fuga – perché stava fuggendo fino a qualche secondo fa, dannazione! – distratta da una voce che sovrasta il brusio generale che la attornia. Non è certa di quanto ha percepito, soprattutto perché, gettando qualche sguardo di qua e di là, non trova nessuno che potrebbe averla interpellata. Con quella strana richiesta, poi. Sempre che non fosse un’allucinazione giustificata dal suo, al momento, penoso stato emotivo. Sicuramente un’allucinazione: chi mai al giorno d’oggi passeggiando per strada si rivolge ai passanti appellandoli “incantevoli”? O meglio, chi mai avrebbe potuto definirla “incantevole”? Per di più, chi mai avrebbe chiamato “dama” una donna incontrata per la via? Forse qualcuno che per colazione si è cibato del dizionario, che altro!

“Ecchisietevòi, o incantevole dama?”        
                                                              
Monica è costretta nuovamente a fermarsi dopo aver compiuto appena qualche passo. Se qualche minuto prima la voce pareva più una sua personale percezione, come distante e soffusa - insomma non ben distinguibile - ora sembra quasi che provenga da qualcuno evidentemente nei pressi. Eppure Monica non scorge nessun papabile candidato alla soluzione del suo piccolo mistero, men che meno quella donna pingue che di fronte all’esposizione della più amata pasticceria del paese sta rifacendosi gli occhi. Con un evidente rivolo di bava alla bocca. Che squallore.
E poi era non era un’espressione da donna, di questo ne è sicura.

"Ecchisietevòi, o incantevole dama?”

Nonostante l’evidente spaesamento della ragazza, la voce continua, incessante, a richiamare l’attenzione di Monica che stupita, ora, si perde ad osservare quei contorni sempre più indefiniti di una realtà che ancora per poco la tratterrà a sé. Sembra quasi che in quel richiamo risieda la chiave del misterioso arcano che sta accadendo sotto il suo sguardo meravigliato. Alla sua sinistra ora non c’è più la donna su cui si era soffermata poco fa, nemmeno l’insegna luminosa della pasticceria che attira clienti più dei fiori per le api. Una nebbiolina strana e innaturale e quasi … magica avvolge Monica trasportandola in un’altra dimensione, altra rispetto alla nostra dannata realtà: quella dei sogni. Di fronte a lei un qualcosa, impossibile da spiegare a parole, luminosissimo, quasi quanto una stella, ma di forma stranissima. A Monica pare che rappresenti un uomo a cavallo. Può mai una stella avere la forma di un cavallo con il suo fantino? Beh, nel mondo dei sogni tutto è possibile. Quindi è già pronta la ragazza quando scorge quella strana figura voltarsi nella sua direzione e rivolgerle la fatidica domanda, illuminandosi un poco di più, ad intermittenza, per ogni parola pronunciata:

“Ecchisietevòi, o incantevole dama?”

Monica ha lo sguardo ancora fisso sui contorni sempre più definiti di quell’oggetto luminescente. Polvere di stelle direbbe senza esitazione, se dovesse descrivere il materiale di cui è costituito quello che a tutti gli effetti le pare un cavaliere in groppa al suo fedele destriero. Abiti buffi indossa. Ora che Monica si è avvicinata di qualche passo a quella figura - unici protagonisti, loro due, del mondo onirico, in cui si trovano immersi – riesce a distinguere con precisione le sue fattezze, i suoi contorni, nonostante la luminescenza rimanga: è un vecchio, con la barba bianca sul petto e le mani fisse sul pomo della sella, montata su un cavallo che sembrerebbe più grande del normale. Di fronte a questa visione, Monica non si sarebbe aspettata quello sguardo fiero, luccicante e determinato – la stessa determinazione e forza trovata nelle parole rivoltele - che invece scorge nell’incrociare gli occhi dell’anziano.

 “Ecchisietevòi, o incantevole dama?”

Il vecchio continua a ripetere con voce cantilenante quella domanda, come incurante di tutto ciò che non siano quelle quattro parole; come se il suo destino fosse ripetere all’infinito quella specie di formula magica qualunque sia il soggetto a cui venga rivolta, qualunque il luogo dell’incontro. Monica, ancora spaesata e stupita dall’eccezionalità della situazione, non presta attenzione al contenuto dell’espressione, i suoi occhi sono fissi sull’armatura scintillante, la gualdrappa riccamente decorata, la spada nel fodero. Sembrerebbe un guerriero vestito di tutto punto, pronto alla battaglia. Per combattere chi?

Monica corre allegra nel prato, alle spalle del suo fedele compagno di giochi. Un sorriso impresso a fuoco sulle sue labbra; una risata trattenuta in gola per non sprecare il fiato necessario alla folle corsa. Minnie è veloce, le sue zampe volano sull’erba. Monica non vuole essere da meno, benché le sue gambe non riescano a tenere il ritmo della giovane pastore tedesco lanciata all’inseguimento di quella meravigliosa farfalla blu che, con leggiadria, qualche minuto prima ha catturato l’attenzione di entrambe.

Monica percepisce la sua mente invasa – come a causa di una forza sconosciuta - da quel ricordo, uno fra i più belli della sua infanzia; perciò lo custodisce gelosamente, ancora oggi, da adulta, in un anfratto nascosto del suo cuore, della sua anima. Se dovesse dare una definizione al concetto di gioia, senza esitazione sceglierebbe quell’immagine immortalata molti anni prima in un pomeriggio di inizio estate. Ora Monica non comprende il motivo per cui il suo cervello si sia soffermato, in quest’atmosfera di sogno, su questa memoria del passato,  sa solo che quell’antica spensieratezza come una medicina benefica ha preso a circolare nei vasi sanguigni del suo organismo, raggiungendo, al ritmo imposto dal cuore, anche la periferia del suo corpo.

“Ecchisietevòi, o incantevole dama?”

Un groviglio di emozioni le sta facendo perdere il controllo, guadagnato con fatica solo qualche ora prima. Sente una furia distruttiva pervaderle ogni singola cellula del suo corpo. Vorrebbe spaccare tutto quanto si trova sul suo cammino così da espellere questo maledetto morbo che le sconvolge la vita. Eppure Monica ha le mani legate, non riesce. All’istante una folgorazione: una tela disposta malamente sul cavalletto, un pennello nella sinistra – perché Monica è mancina. Dipinge il suo dolore, la sua rabbia, la sua frustrazione. Dipinge. Con l’acqua perché la sua esistenza non ha più alcun colore per lei. Finché si ricorda di quel blu intenso, il colore della felicità, e come guidata da una mano invisibile, la tela si riempie di tratti più o meno nervosi, più o meno logici. Dipinge il mare, Monica. La furia delle onde. La grandezza della distesa d’acqua. Si svuota man mano una pennellata si aggiunge alla tela. Un corpo all’apparenza vuoto, in realtà ricco di quell’identità che nella solitudine della sua vita stava per smarrire.

Monica riemerge dall’acqua, purificata in parte dal peccato commesso. Una sorta di battesimo si direbbe, come se questo ricordo, l’acqua, abbia cancellato la sua colpa. Rinascere a nuova vita. Un’Eva perdonata, accolta nuovamente nel giardino. Un serpente sconfitto dall’affermazione di un’identità non definita dal circostante, ma formata all’origine.  L’anziano ancora di fronte a lei la scruta con occhi intensi. Ora Monica, riascoltando quelle insensate parole nell’intimo della sua anima, finalmente comprende il significato di questo bislacco mondo onirico.

Chi sono io? Qual è la mia identità?

Monica non saprebbe rispondere. Sa però che per troppo tempo ha cercato di definirsi nelle azioni e nel rapporto con gli altri, perdendosi. Capisce che il serpente è riuscito a trarre in inganno ancora una volta – è storia è mito è racconto – la nuova Eva perché come le precedenti ha cercato il significato di se stessa fuori da sé, in una relazione fosca, nel buio della contingenza. Non ha accettato il dato, non ha cercato la definizione negli strumenti che le sono stati consegnati. Così ha creduto alle sue parole, alle sue promesse, al suo amore. Per nobilitarsi, per essere qualcosa per qualcuno. Non ha scorto il veleno nascosto nelle spire del serpente. Monica ha permesso per troppo tempo che un rapporto viziato la definisse come donna, come persona. Forse è giunto il momento di conquistarsi una dignità lontano dal serpente, una dignità di donna in se stessa, prima di definirsi in relazione.

Monica non sa chi sia, ma forse, per la prima volta nella sua vita, non vede l’ora di scoprirlo
.










Angolo Autrice:
Il percorso di Monica continua: le stelle hanno risposto al suo disperato grido di aiuto.
Rinnovo la richiesta che ho posto in conclusione allo scorso capitolo: scrivetemi quali emozioni o riflessioni questa lettura vi ha suscitato, sarebbe una conquista sapere che questo testo vi ha dato qualcosa di più oltre che un semplice passatempo.

A proposito del capitolo, non so quanto sia evidente, tuttavia, alle sue spalle, come elemento fondante e costruttore, si trova la storia di Italo Calvino: "Il Cavaliere Inesistente". Essendo questo un romanzo fantastico costruito per la ricerca del sé, ho creduto che si sposasse a pennello con la vicenda di Monica. In particolare i riferimenti si limitano al primo capitolo.

 

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Capitolo 3
*** Tre ***


Piove.

Di una pioggia fitta che confonde la vista, ma, stranamente, non inzuppa i vestiti. Monica non riesce a vedere ad una palmo dal suo naso. Non scorge più il vecchio in sella al suo cavallo, nemmeno il suo bagliore. È sola. Per qualche strana ragione sa di esserlo, in questo mondo al di là di ogni spazio e di ogni tempo, forse sospeso tra le due forme a priori della sensibilità, le due necessarie condizioni attraverso cui conosciamo gli oggetti.

Ascolta.

Il rumore della pioggia che cade su un pavimento composto di nuvole. E’ quasi impercettibile. Sembra che ogni singola goccia affondi in quella superficie compatta su cui poggiano improvvisamente i piedi della donna. Ne è avvolta. Come se fluttuasse, nemmeno lei saprebbe dove.

Ascolta, ascolta.

Monica si lascia cullare dalla ritmicità del suono che costituisce la sua unica realtà. Si perde nel contemplare la pioggia, simbolo di quella purificazione sperata, desiderata. Eppure non ne è sfiorata, quella compie il suo destino senza preoccuparsi del nuovo abitante giunto a sconvolgere il suo mondo di necessità.

A Monica pare di essere avvolta in un bozzolo di cotone. Le sembra di essere quel piccolo fagiolo che da bambina avvolse in una tenera bambagia sperando che in poco tempo attecchisse, germogliasse, desse frutto. Anche io vorrei morire per germogliare a nuova vita. Oggi, da adulta, non ricorda il risultato di quel timido esperimento infantile, eppure desidera sperare che tutto fosse andato per il meglio. Forse così potrebbe infiammarsi di una timida speranza. Monica desidera questa timida speranza a sconfiggere le tenebre, l’occulto che per anni l’hanno avvolta.

Piove.

Dannata pioggia che non le concede di bagnarsi, di lavare via il suo peccato. Quella favola bella - o meglio, Monica aveva sperato che divenisse tale - in realtà non era stata altro che occulto, inferno: nulla a che spartire con la purezza, la bontà, dell’ideale di bellezza. Si era illusa. Per una volta nella vita aveva creduto che avrebbe potuto godere un estratto di paradiso anche su questa terra. Non aveva affatto capito che in quel modo l’avrebbe soltanto perso. È mito, è storia, è racconto.

In questi istanti Monica prova la frustrazione dell’impotenza. Desidera con tutta se stessa quel perdono non ancora concessole dalla natura, purtroppo poco incline a salvare le sue creature dai propri errori. La colpa le scurisce l’anima. Un pennello imbevuto di tinte fosche a rovinare la luce abbagliante della sua tela.

 Allunga un braccio, sperando che questo possa infrangersi nel flusso continuo dell’acqua che scorre: gocce di ugual misura che attendono in ordinata fila il loro inesorabile infrangersi. Per rinascere a nuova vita. Tuttavia una di queste - mentre le altre hanno deviato il loro corso, come a rispondere ad una legge millenaria, per non sfiorare il braccio della donna - unica nota di una musica inafferrabile, inconoscibile per le orecchie umane, che “trema, si spegne, risorge, trema”, per non spegnersi più, la sfiora. Sfiora e quindi bagna la sua pelle completamente asciutta. Improvvisamente, alla prima sorella ribellatasi al suo fatale destino se ne aggregano altre, prima qualcuna soltanto, poi sempre più, così che la pioggia tutta, in breve inonda i vestiti, il corpo, l’anima di Monica.

Un pennello con setole nuove ridipinge di acqua di mare, trasparente e pura, la tela, cancellando i segni di un destino che pareva irreversibile. 

“E piove su le tue ciglia nere,
sì che par tu pianga,
ma di piacere”

Quel piacere che nasce solo dalla consapevolezza di essere finalmente perdonati. Monica perdona se stessa, la sua colpa, il suo peccato. Riscrive, in quest’atmosfera protetta, quell’antico mito: la nuova Eva ha avuto il coraggio di chiedere, penitente, la remissione dei propri errori. Il serpente l’ha ingannata, eppure ella è stata capace di vincere quel maledetto inganno. È un nuovo mito, una nuova storia, un nuovo racconto: la riconquista dell’Eden.

E Monica, questa volta, non si vergogna del pianto liberatorio che le sgorga dall’intimo di sé.





Angolo autrice:
Ecco a voi il penultimo capitolo. Sono consapevole della sua brevità, tuttavia spero di essere riuscita, nonostante la sua lunghezza, a trasmettere le traboccanti emozioni che ho provato nel scriverlo. Il nostro percorso alla ricerca di sé sta giungendo alla conclusione: mi auguro che fin qui il viaggio di Monica abbia stimolato in voi qualche riflessione. Se vorrete condividerla con me, sarete sempre i benvenuti.
A presto.
P.S. Sotto le righe di questo capitolo non possiamo non intravedere la lezione di "Oceano Mare" di Alessandro Baricco, oltre che quella magistrale di Gabriele d'Annunzio con la sua "Pioggia nel pineto"

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