Riflessi

di Tenar80
(/viewuser.php?uid=192826)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -7 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka ***
Capitolo 2: *** -6 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka ***
Capitolo 3: *** -5 e -4 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka ***
Capitolo 4: *** - 3 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka ***
Capitolo 5: *** -2 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka. Giorno e sera. ***
Capitolo 6: *** -2 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka. Sera e notte ***
Capitolo 7: *** -1 giorno ai Campionati Mondiali di Osaka. Mattina ***
Capitolo 8: *** -1 giorno ai Campionati Mondiali di Osaka. Verso mezzogiorno ***
Capitolo 9: *** -1 giorno ai Campionati Mondiali di Osaka. Verso Mezzogiorno e poco dopo ***
Capitolo 10: *** - 1 giorno ai Campionati Mondiali di Osaka. Pomeriggio e sera. ***
Capitolo 11: *** Durante e dopo i Campionati del Mondo di Osaka ***



Capitolo 1
*** -7 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka ***


Ed eccoci qui, di nuovo, questa volta nel 2022, con la fic che (per ora) chiude la storia di Victor e Yuuri (per Otabek e Yurio c'è ancora una cosina dopo).
Di tutto il mio scorrazzare per l'universo di Yuri on Ice questa è più di tutte la storia non che volevo, ma che dovevo scrivere.
Avevo (ho) un bisogno viscerare di sentire per interposto personaggio che anche quando le basi di ciò che credevi di te stesso vanno in pezzi, ce la puoi fare. Che a volte la verità è terribile, a volte è meno brutta di quanto possa sembrare, ma può comunque essere affrontata. Perché è una cosa che accadrà, non a me, ma accadrà e forse non sarò lì o non mi vorranno lì e questa era l'unica cosa che potevo fare per empatizzare almeno un po'. Ho un enorme debito di riconoscenza nei confronti dei miei personaggi, per avermi permesso questo viaggio. A questo proposito, tanto per cambiare, vado a trattare tematiche un po' delicate sulla ricostruzione de sé. Ci ho messo tutto il mio impegno per non sminuire la cosa, se l'ho fatto, chiedo perdono, contattatemi, fermatemi. Ancora a questo proposito ci tengo a dire che la trama di Victor in particolare si basa su storie vere e italiane. C'è tutta una parte di storia che accade "dietro le quinte", ma ogni tanto appaiono dei riferimenti. Avrei potuto, ma non ho osato per una fic, chiedere lumi a chi si occupa di queste cose per la Russia, quindi mi sono basata su quanto accadrebbe (per altro nella migliore delle ipotesi) in Italia.
Essendo una storia così legata all'identità personale mi sono trovata invischiata un po' troppo in tematiche che pensavo di non voler affrontare, non essendo abbastanza addentro, come il riconoscimento dei diritti civili con tutte le conseguenze del caso. Vorrei ringraziare enormemente Thalia per aver dato il suo appoggio a questa parte della storia.
Avevo bisogno anche di sentire, suppongo, che anche le coppie migliori possono essere sul punto di fare le peggiori idiozie e salvarsi.
Avevo bisogno di sapere che nessuno è immune dal dolore, ma insieme si può andare avanti un po' meglio.
C'è qualcosa di me, qua e là, e qualcosa che so perché l'ho vissuto o l'ho visto e lo racconterò man mano. Di mio c'è sicuramente il senso di oppressione di Otabek per quel che deve alla sua famiglia e anche una certa tendenza ad andare in panico tipica di Yuuri, cercare la peggior idiozia da fare per non affrontare il problema e avere un rigurgito di buon senso all'ultimo istante.

Questa storia è per coloro che dovranno sapere.
È per tutti i dolori dietro i sorrisi.
Per tutte le verità che non sono solo da una parte sola.
Per chi vorrà leggere. Per chi vorrà spendere qualche minuto a commentare.
Come sempre è debitrice a ElinaFD a cui deve l'esistenza di tutto questo.
È per Nicola che mi ha tenuto la mano.


 

RIFLESSI





Il più solido dei fatti può soccombere o prevalere, a seconda dello stile in cui è esposto: come quel bizzarro gioiello organico dei nostri mari, che si fa più brillante quando una donna lo indossa e, indossato da un’altra, sbiadisce, si fa opaco, diventa polvere. I fatti non sono più solidi, coerenti e rotondi, e reali, di quanto non lo siano le perle. Entrambi, però, sono sensibili.

U.K. Le Guin – La mano sinistra delle tenebre.

 

 

Giappone, 2022

– 7 giorni  ai  Campionati Mondiali di Osaka

 

    Ogni volta che prendeva quel treno che lo portava dall’aeroporto verso il Giappone rurale, Otabek si sentiva del tutto libero e allo stesso tempo del tutto prigioniero. 

    Da tre anni a quella parte Giappone voleva dire estate. Voleva dire lasciarsi alle spalle il Kazakistan, suo padre e la sua interminabile lista di cose da fare, sua madre e la sua interminabile lista di preoccupazioni, suo fratello e la sua interminabile lista di guai. Il suo allenatore con l’elenco di tutto quello che non sapeva fare, il suo relatore all’università con l’elenco di tutto quello che sapeva fare e che dunque doveva fare, la federazione e da ultimo anche il ministero dello sport kazako con la lista di ciò che doveva sembrare di essere. Giappone voleva dire limitarsi ad essere se stesso. Lui, la pista di pattinaggio, il mare e Yuri.    

    E allo stesso tempo Giappone significava anche abdicare a parte della propria libertà.

    Otabek si considerava una persona intelligente. Non un genio, questo no, ma comunque capace di laurearsi con il massimo dei voti in matematica mentre procedeva con la propria carriera di pattinatore professionista. Eppure il giapponese gli riusciva del tutto incomprensibile. Scritto era una serie di buffi disegnetti che non volevano dire assolutamente nulla. Parlato era una sequenza di suoni cantilenanti da cui non riusciva a trarre alcun significato. Persino quando un giapponese gli parlava in inglese il più delle volte non capiva. Addirittura a volte faticava a capire l’inglese di Yuuri, che pure conosceva da anni. Di solito, la prima cosa che Otabek faceva appena arrivato in una città straniera, cosa che accadeva per lo più per qualche gara, era noleggiare una moto. Questo gli dava la sensazione, fittizia ma ugualmente consolante, di poter fuggire in qualsiasi momento. Di essere in qualche modo padrone del proprio destino. Ma come poteva farlo in un luogo in cui non decifrava i segnali stradali, in cui non era in grado di chiedere la più banale informazione? Andare a Hasestu significava mettersi del tutto nelle mani di Yuri, dipendere da lui anche per cercare qualcosa di commestibile o chiedere dove fosse il bagno. Questo amplificava la sensazione di entrare in un mondo altro, al quale lui non apparteneva, ma in cui gli era permesso essere ciò che altrove era impossibile. Il Giappone per Otabek era la terra del sogno. Come ogni sogno, poteva sfumare facilmente nell’incubo o nel sublime, ma mai, neppure per sbaglio, poteva essere confuso con il reale.

    Questa volta, però, era diverso. Era inizio aprile e sette giorni dopo si sarebbero tenuti a Osaka, per caso o per calcolo da parte della federazione giapponese, i mondiali. Mondiali che Otabek aveva un disperato bisogno di vincere e quasi nessuna speranza concreta di poterlo fare.

 

    Meno di due mesi prima si erano svolte le olimpiadi, a Pechino. Otabek aveva dato tutto se stesso, e parte del proprio ginocchio, per portare a casa una medaglia d’argento dietro un Yuuri a fine carriera, reduce dalla peggiore caduta che il kazako gli avesse mai visto fare, ma comunque inarrivabile. Era il meglio che potesse fare. La sua performance migliore, il suo punteggio più alto, un 331.20 che era sicuro di non poter ripetere. Aveva avuto la sensazione di essere arrivato all’apice delle proprie possibilità, qualcosa di esaltante e terribile insieme, come ogni volta che si cerca di afferrare qualcosa di effimero e irripetibile. Sul volo di rientro, mentre un giornalista blaterava di feste, interviste e strette di mano presidenziali, lui aveva pensato che forse poteva ritirarsi. Farlo in quel momento felice, senza infortuni irreparabili o viali del tramonto da percorrere nelle nebbie. Cambiare del tutto vita, concorrere per il dottorato, cercare un equilibrio un po’ meno instabile tra ciò che doveva essere e ciò che sentiva di voler essere…

    Era stata una fantasia durata tre giorni. Il quarto giorno, dopo tutti quei festeggiamenti ufficiali che si erano rivelati di una noia assoluta, aveva infine potuto dormire. Era un mercoledì qualsiasi di febbraio. Suo padre era in ufficio, suo fratello Rustam chissà dove a far danni, Aiman e Bolat a scuola. Si era svegliato tardi, come non capitava quasi mai, con la sensazione di poter indugiare su ogni cosa… E aveva trovato sua madre che piangeva in cucina.

    Così, nell’aroma intenso della carne d’agnello che sobbolliva, Otabek era stato messo a parte di tutto ciò che gli era stato tenuto nascosto mentre si preparava per le olimpiadi. 

    Con la testa appoggiata al sedile di quel treno silenzioso in modo irreale che attraversava la sua terra del sogno, il giovane ripensava al rumore ritmico della carne in cottura nella pignatta, ai vetri leggermente appannati della cucina e al volto dimesso di sua madre, che cercava di fingere che andasse tutto bene.  Yuuri gli aveva raccontato che ogni volta che stava per entrare in pista per una gara aveva la sensazione di precipitare. A lui non era mai capitato durante una competizione, ma nella cucina di casa sua, mentre in televisione passava uno speciale sugli eroi del Kazakistan alle olimpiadi, con la sua faccia sorridente in primo piano, aveva provato la stessa sensazione. E la stessa rassegnazione ad andare avanti comunque. Perché lui era il figlio maggiore, quello che doveva ripagare tutto l’impegno e il denaro speso, quello che aveva studiato e, in quel momento, aveva i soldi.

    Otabek si era ritrovato a stringere i denti e a obbligare il proprio ginocchio a fingere di essere guarito. Quel pomeriggio stesso aveva tirato giù dal letto il proprio allenatore, non meno stanco di lui dopo un’olimpiade, ed era tornato alla pista. 

 

    Il giovane sospirò e guardò l’ora. Il buio fuori dal finestrino gli diceva che era sera, ma, sballottato com’era dal fuso orario, gli sembrava di essere in un altrove indefinito. Se accanto al convoglio avesse visto passare una balena volante o una navicella aliena non si sarebbe stupito. Era l’ora di cena e entro mezz’ora sarebbe arrivato da Yuri…

    Il cellulare trillò. 

    Un messaggio di Aiman. 

    La piccola ricattatrice gli ricordava che voleva una serie di cartoni animati, sia chiaro con i sottotitoli in inglese, del tutto inadatti a una brava quindicenne kazaka di fede mussulmana. 

    Doveva fare in modo di ricordarsene.

    Come cazzo aveva fatto a essere così stupido?

    Otabek aveva l’impressione da anni di vivere più di una vita. Non era spiacevole. Anzi, gli piaceva tenere le cose separate ed essere considerato sempre solo per quello che era in quel momento. Pochissimi all’università, almeno prima che finisse su tutti i quotidiani nazionali, avevano saputo della sua carriera sportiva. Quasi nessuno dei suoi avversari si curava dei suoi studi. Quando usciva con qualcuno, in Kazakistan, parlava per lo più di moto. A casa a nessuno importava davvero del pattinaggio, della matematica, delle moto o di una qualsiasi delle cose che gli interessavano. Ogni volta che varcava una porta, entrava in un mondo diverso da cui era ovvio lasciar fuori il resto. Ma l’unica cosa che davvero nascondesse era Yuri. Grazie al cielo, con tutto quello che si trovava a fare, nessuno della sua famiglia si stupiva più di tanto che non avesse una fidanzata fissa, anche se lo zio non aveva evitato di presentargli o fargli presente questa o quella brava ragazza. Ad ogni buon conto, non c’era nulla nella sua stanza o sul suo computer che potesse far pensare a una qualche propensione per un certo pattinatore biondo. Aveva un cellulare nero su cui faceva vedere i cartoni animati ai cuginetti, se passavano di lì, e su cui mostrava con orgoglio le foto scattate durante le gare, c’era anche Yuri, ovviamente, un Yuri serio e del tutto presentabile. E aveva un secondo cellulare grigio a uso e consumo del pattinatore russo. Anche così aveva cura di cancellare tutte le foto che si scattavano e si inviavano. Quasi tutte. Non era umano vivere una relazione che doveva consumarsi in cinque, sei occasioni d’incontro durante un intero anno, quasi tutte funestate da improrogabili impegni agonistici, senza poter tornare indietro a rivivere almeno qualche momento. Anche così, quando durante un allenamento si era reso conto di aver lasciato a casa quel cellulare non si era preoccupato più di tanto. Cosa mai poteva succedere? Sua madre faceva sempre le pulizie la mattina e quindi non aveva alcun motivo di entrare nella sua camera… Sua sorella, invece, aveva pensato bene di cercarci un libro che le serviva per scuola, proprio nell’esatto istante in cui quel cellulare, abbandonato sul letto, aveva preso a trillare. Perché in quel momento, in Giappone, qualcuno aveva avuto la malauguratissima idea di girare le foto che Chris, ormai voce ufficiale della televisione svizzera, aveva scattato a Pechino dopo il galà, in un momento di scazzo totale e rilassamento post gara. E, per essere più precisi, si trattava di tre foto comparative a tema «il bacio più bello». Il tailandese e la moglie incinta nel primo scatto, Victor e Yuuri nel secondo e, inevitabilmente, lui e Yuri nel terzo.

    Quindi, e gli era andata ancora bene, davvero bene, al momento si trovava ricattato da una quindicenne abbastanza ribelle da non denunciarlo all’istante ai genitori. 

    Otabek non aveva idea di cosa sarebbe successo se in camera fosse entrato uno dei suoi fratelli, e tra il mezzo delinquente, ma decisamente omofobo Rustam o il dodicenne, tutto scuola, innocenza e studi coranici Bolat, non osava pensare chi fosse peggio. Sempre che Aiman non si tradisse. Perché la sorella era furba come una faina, maliziosa come una volpe e affascinata dal proibito, ma non esattamente un mostro di discrezione.

    Il treno stava entrando alla stazione. 

    Basta pensare. 

    Suo padre, sua sorella e il Kazakistan tutto potevano rimanere in quello scompartimento.

 

    Yuri era facile da identificare in una stazione giapponese. Era l’unico biondo.

    Entro pochi minuti Otabek se lo sarebbe trovato avvinghiato addosso come una scimmia, con i capelli biondi, che grazie al cielo non aveva tagliato troppo corti, sulla sua spalla. Avrebbe stretto quel corpo magro, subito e poi ancora e ancora. Chiusi almeno fino al mezzogiorno di domani nel bilocale di Yuri.

    Otabek scese dal treno con il proprio bagaglio sulle spalle e in viso quel sorriso che sapeva gli rendeva l’espressione del tutto idiota. Non poteva farci niente. Davanti a Yuri era un idiota sorridente.

 

    Qualcosa non andava. 

    Niente corsa incontro. Nessun abbraccio da boa costrittore. 

    Yuri si mosse verso di lui sorridente, ma calmo.

    – Ciao.

    – Ciao?

    Ciao? Da quando in qua il loro saluto era «ciao»?

    – Ehm… – iniziò Yuri. – Sai tutte quelle volte che ho detto a mio nonno di venire a trovarmi?

    Otabek lo vide. 

    Rispetto all’ultima volta che l’aveva incontrato, quattro anni e mezzo prima, aveva la barba del tutto bianca, ma era ancora un omone massiccio quello che si faceva avanti sorridendo.

    – Ben arrivato, Otabek! – gli disse, assestandogli una sonora pacca sulla spalla. – Non sai come sia felice che mio nipote abbia un amico in questo covo di pervertiti!

    – Vieni, c’è un taxi che ci aspetta – disse Yuri. – Ti ho preso una stanza dai genitori di Yuuri.

    Voglio morire.
 

*

 

    Victor, semi sdraiato sul divano, accarezzava con finta noncuranza il muso di Liza. 

    Non era mai stato tanto a disagio davanti a una telecamera.

    Eppure essere ripreso lì, nel salotto di casa sua, era troppo. 

    No, non era neppure solo questo. Era proprio l’idea del documentario in sé, essere seguiti per  dieci giorni e, a quanto pareva, notti, che era troppo. Un insinuarsi eccessivo nella loro intimità.

    Non che sia rimasta molta intimità in cui insinuarsi…

    Forse era stato quella la goccia nel vaso troppo colmo della tensione di Yuuri. 

    Eppure era così terribilmente giapponese. 

    Neppure lui, che pensava di aver visto ogni aspetto, anche quello più squallido, della celebrità, si era accorto di cosa significasse per un giapponese diventare davvero famoso. Assurgere allo status di idolo e modello di comportamento, studiato ed esposto. Non vivisezionato alla ricerca di qualsiasi torbido segreto, come poteva accadere in occidente, ma quasi… Mummificato come Lenin e fatto oggetto di culto ancora in vita?

    Bene, adesso capiva perché, in fondo, Yuuri avesse avuto un così grande terrore non di perdere, ma di vincere.

    Liza sospirò.

    Almeno lei era professionale. Dopo due anni di pubblicità, la barboncina sapeva atteggiarsi a vera star.

    – Bene così. Adesso chiacchieriamo un po’ – disse il documentarista, Kuma, che aveva quel fare da migliore amico da sempre da cui Victor aveva imparato a diffidare. – Non si preoccupi, poi rivedremo insieme il giarato per tagliare qualsiasi cosa possa essere venuto male.

    – Ok.

    – Sappiamo tutto di Victor Nikiforov atleta e allenatore, ma non sappiamo nulla delle sue origini…

    – Non c’è niente da sapere. Sono siberiano – tagliò corto. – Vicino a dove abitavo c’era una pista di pattinaggio.

    Non era su Yuuri quel maledetto documentario? 

    Per una santa volta che non voleva rubargli la scena…

    – Non vedo che interesse possa avere da dove vengo… – provò.

    Kuma, un tipo grassoccio, che nascondeva il viso fintamente arrendevole dietro gli occhiali, fece un sorriso di studiato imbarazzo.

    – Ne faremo due versioni. Una per il mercato giapponese e una per i festival internazionali occidentali. In Europa lei è ancora famoso. E… Siete una coppia che si è dichiarata in conferenza stampa, lei non rimette piede in Russia da quattro anni… È una storia che vale la pena di raccontare.

    Insomma, la vivisezione di lui e Yuuri erano la materia dei loro futuri premi.

    – Perché per il Giappone non andrebbe altrettanto bene? – provocò.

    Ovviamente conosceva la risposta.

    La mummia di Lenin non aveva relazioni di sorta, sopratutto non omosessuali. Altrettanto doveva fare un idolo giapponese. Era tanto se nella versione per il mercato interno si fosse accennato al fatto che vivevano insieme. Dopo tutto lui veniva intervistato in salotto e Yuuri fuori casa…

    Kuma non si preoccupò neppure di rispondere alla sua domanda.

    Stava cercando qualcosa nel suo zaino.

    Con sguardo trionfante, tirò fuori una cartellina, la aprì e la passò a Victor.

    – Cosa mi dice di questa fotografia?

    Il russo sobbalzò e Liza, offesa, si allontanò dal suo grembo per andare nella propria cesta.

    La foto, vecchia di almeno venticinque anni, mostrava una quindicina di bambini in posa davanti a un edificio che l’intonacatura chiara non riusciva a far sembrare allegro. Tutti portavano lo stesso grembiule stinto. I bambini portavano i capelli cortissimi, le bambine raccolti, senza fiocchi di sorta. Le uniche persone che sorridevano erano i due adulti, un donnone dall’aria marziale e un uomo dallo sguardo un po’ perso. La fotografia era stata scattata a metà pomeriggio e di solito a quell’ora il direttore era già ubriaco.

    Da dove diavolo salta fuori? Non si può dire che non sappia fare il suo mestiere.

    Victor sorrise.

    – Cosa vuole che le dica?

    Che era cresciuto in un istituto? Perché? Nessuno lì, di certo non Kuma col suo bel salvagente di lardo, aveva idea di cosa avesse significato davvero crescere in un istituto. Victor ricordava ancora con orrore la volta che ne aveva accennato a Chris. Tutte le domande morbose che l’amico aveva evitato di porre, ma che gli si erano dipinte in viso in modo fin troppo eloquente. Tutte domande a cui la risposta era «no». No, non era mai stato picchiato. No, non aveva mai sofferto davvero la fame o il freddo. No, non si era mai sentito così tanto sfortunato, perché la maggior parte dei suoi compagni di scuola se la passava peggio. Nessuno gli aveva mai spento le sigarette sul braccio o lanciato addosso bottiglie di vodka appena svuotate, tanto per citare due fatti di cui il suo primo compagno di banco aveva fatto esperienza diretta. Quindi dichiarare da dove venisse serviva solo a scatenare un immotivato moto di panico e compassione.

    – Lei qual è? – chiese Kuma.

    – Il terzo da destra.

    Il bambinetto con il ginocchio incerottato, ricordo dei suoi primi allenamenti, e i capelli rapati quasi a zero. Aveva lo sguardo che ogni tanto si trovava in qualche vecchia foto delle gare, prima di un’esibizione. Quello di quando si concentrava su ciò che lo faceva arrabbiare.

    – Si è tenuto in contatto con qualcuno degli altri bambini?

    Victor scosse il capo.

    Da quanto non pensava davvero a loro?

    Arina, con cui condivideva i dolci che in qualche modo lui riusciva a recuperare alla pista di pattinaggio. Liev, che aveva la sua età, che gli faceva copiare i compiti e tentava, con scarsi risultati, di suggerirgli le risposte durante le interrogazioni. Boris, che era il primo ad attaccar briga, ma anche il prima a correre a difenderli quando qualcun altro li prendeva in giro…

    – No, mi spiace. Prima dei quattordici anni mi sono trasferito a San Pietroburgo, sotto la tutela del mio allenatore e allora non era così facile mantenere i contatti – mentì.

    – Pensavo… Potremmo cercare di contattarli noi e magari organizzare una videochiamata… Sarebbe un bel finale.

    Ci mancava solo questo.

    – No. Non sarebbe un bel finale.

    Boris, per quel che ne sapeva, era ancora in prigione. Liev, l’ultima volta che ne aveva avuto notizia, lavorava come operaio e beveva, come tutti, lì. Arina era venuta a vederlo una volta, alle nazionali, aveva diciotto anni. Stava con un tizio, aveva detto. Uno a posto. E il livido allo zigomo se lo era fatto cadendo.

    Lui era un sopravvissuto. 

    Era quello che aveva imparato davvero quand’era bambino. A sopravvivere, cogliendo sempre l’opportunità migliore. Sempre disposto a dare qualcosa per ottenere in cambio un vantaggio.

    – Non possiamo parlare di pattinaggio? Di Yuuri? – provò.

    Quando si erano accordati aveva chiesto che non gli facessero domande dettagliate su quanto gli era successo quattro anni prima in Corea. Pensava che fosse quella la cosa più da temere.

    Kuma mise le mani avanti.

    – Non pensa che sarebbe una bello spiegare da dove viene? Un messaggio di speranza?

    Victor si mise a sedere.

    – Ma da dove crede che vengano gli altri? Pensa che la maggior parte degli atleti russi o cinesi o di qualsiasi altro fottuto stato nazionalista venga da case come questa? Crede che sia un messaggio di speranza? La prima volta che ho fatto i nazionali sono arrivato ottavo. Che fine hanno fatto gli altri sette? E quasi nessuno veniva da un passato migliore del mio. Sono stato fortunato a trovare per caso una cosa che potevo amare e che mi veniva bene. E, sia chiaro, rifarei tutto. Ma non è, in nessun caso, uno storia di speranza. 

    Sentì il cellulare vibrare. 

    Noncurante dello sguardo di disapprovazione di Kuma, guardò i messaggi.

    Il primo gli provocò una fitta allo stomaco e allo stesso tempo un mezzo sorriso sarcastico. 

    Appropriato, molto appropriato al momento. 

    Come avrebbe reagito il documentarista se gli avesse detto che era una vecchia questione di famiglia? Ma era meglio non istillargli ulteriore curiosità.

    Il secondo messaggio riguardava le analisi di Yurio.

    Victor aggrottò la fronte e sospirò.

    Il giorno dopo non ci sarebbe stata una mattinata piacevole. Per nessuno. 

    Kuma attendeva di riprendere l’intervista, mentre il russo voleva solo che se ne uscisse da casa sua. Voleva che Yuuri tornasse, si sedesse accanto a lui sul divano, gli passasse una mano sulla nuca e gli chiedesse cosa c’era che non andava. E gli dicesse cosa c’era che non andava. Ma per come andavano le cose in quel momento, con ogni probabilità Yuuri sarebbe passato direttamente dalla porta d’ingresso alla doccia e poi al letto. Nella camera degli ospiti.

 

*

    Yuuri bevve un sorso del suo cocktail. Non aveva idea di cosa fosse, Izumi aveva ordinato per lui. Era buono, però, non troppo dolce, né troppo alcolico.

    – Quindi il vostro prossimo progetto sarà sulla musica tradizionale della Nuova Guinea? – chiese.

    Doveva essere l’intervistato, ma per lo più era stato lui a porre domande alla documentarista.

    – No, il mio – rispose la donna. – Kuma rimarrà a fare la post produzione del documentario su di te, io andrò da sola, parto tra un mese esatto.

    In qualche modo, nel corso della serata, lui e Izumi erano passati dalla fredda cortesia a una forma più colloquiale. Non capitava spesso a Yuuri di sentirsi così d’istinto a suo agio con qualcuno, sopratutto se apparteneva a un mondo del tutto diverso dal suo. 

    Forse era di questo che avevo bisogno. Uscire, bere qualcosa e parlare di argomenti che non abbiano nulla a che vedere con il pattinaggio.

    – Adesso però dobbiamo parlare un po’ di pattinaggio – disse Izumi.

    Ecco…

    – Non fare caso alla telecamera, facciamo finta di chiacchierare, come prima – sorrise lei. – Com’è vivere col proprio allenatore?

    Yuuri si strinse nelle spalle. Come si faceva a rispondere in due parole? In nessun modo Victor poteva essere descritto a parole. Con una musica e una coreografia, forse.

    – Intendo dire… Non è oppressivo, alla lunga? – lo aiutò lei.

    Yuuri pensò che assomigliava un po’ a Yuko, aveva gli stessi modi schietti e il viso bello anche senza bisogno di trucco.

    – No – rispose, mentendo.

    Ripensò alla cena. A come aveva fissato con odio il proprio piatto di grani alimentari sud americani bolliti e a come Victor lo avesse obbligato a finirlo come se fosse stato un bimbetto capriccioso. A onor del vero c’era da dire che Victor nel piatto non aveva nulla di diverso e che tutto sarebbe stato più facile se uno dei due fosse stato almeno vagamente portato per la cucina. Tuttavia quella sera il giapponese aveva provato l’impulso di prendere il piatto e svuotarglielo in testa.

    – E comunque, tra poco più di una settimana non sarà più il mio allenatore – aggiunse.

    – Non sei neppure un po’ triste al pensiero di ritirarti?

    – No – questa volta Yuuri era del tutto sincero. – Sono anni che penso che ogni stagione sia l’ultima e poi c’è sempre qualche ragione che mi spinge ad andare avanti. Questa è stata… Dura. E non vedo l’ora che finisca.

    Se non ci fosse stato tutto il Giappone ad attenderlo al varco alle olimpiadi e poi a quei mondiali a due passi da casa, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Le olimpiadi… Anche un idiota avrebbe capito che non era una buona idea per Victor tornare in un villaggio olimpico, ma lui era un idiota. Aveva persino insistito. Quindi, tutto quello che era successo era colpa sua. Adesso poteva solo andare avanti, contare i giorni. 

    Sette giorni…

     Ancora sette giorni…

    … Una parte di se stesso sperava, ogni sera, che Victor si riscuotesse, che lo affrontasse e lo obbligasse a dirgli cosa stava accadendo. E allo stesso modo ogni sera, quando si permetteva di piangere per il dolore nella stanza vuota, ringraziava gli dei per il fatto che lui non se ne era accorto, che un altro giorno era passato e il mondiale era un poco più vicino…

    – E dopo? – stava intanto chiedendo Izumi. – Non hai voglia di fare qualcosa di diverso?

    – E cosa potrei fare?

    Phichit stava per diventare padre. Quello sì che era un cambiamento. Phic, nella mente di Yuuri, aveva sempre avuto qualcosa di spensierato e fanciullesco. Chissà come sarebbe stato con un figlio? Yuuri se lo immaginava come uno di quei padri sempre disposti a giocare con i propri bambini, ma allo stesso tempo in grado di incoraggiarli con un sorriso. Un buon padre, insomma. Meglio di come sarebbe stato lui. Non che la cosa fosse possibile, ovviamente.

    – Non so, il professore di storia della musica – stava rispondendo Izumi. – Documentari in Nuova Guinea?

    – Documentari in Nuova Guinea? – quello sì che era improbabile.

    Yuuri sorrise.

    – Quello che vorrei fare davvero è rimanere un po’ a casa tranquillo. Alzami tardi. Andare a correre sulla spiaggia. Giocare con i cuccioli. La nostra cagnolina partorirà dieci giorni dopo i mondiali, sai? Leggere, guardare film. Oziare per un mese di fila. Non ho mai fatto un mese intero di vacanza…

    Yuuri si accorse che gli si stavano riempiendo gli occhi di lacrime. L’ultima cosa che voleva era mettersi a piangere davanti a Izumi.

    Si immaginò mentre correva sulla spiaggia, inseguito da cinque cuccioli di barboncino. 

    Desiderava tantissimo poterlo fare…

    

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** -6 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka ***


– 6 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka

 

 

    – Yuri? Sto per buttare giù la porta e venire a prenderti.

    – Arrivo. Inizia ad andare in pista.

    Otabek si passò una mano tra i capelli. Non era un’impressione sua. Yuri lo stava tenendo a distanza.

    La sera prima aveva subito messo in chiaro che non poteva lasciare a lungo il nonno, che non parlava altra lingua se non il russo, a pascolare nell’ingresso dello stabilimento termale. Il kazako si era limitato a sussurrargli nell’orecchio che c’erano un sacco di cose che si potevano fare anche in un quarto d’ora. Una volta in camera, appena chiusa la porta, lo aveva sollevato e gettato di peso sul letto, ma la risposta era stata una smorfia, un bacio stentato e una vaga scusa sul non voler fare le cose di fretta, che di sicuro nei giorni successiva avrebbero avuto più tempo.

    Non aveva avuto niente di quello che aveva pregustato. Niente cena a due, solo una ciotola di ramen condita dall’inglese semi incomprensibile della famiglia di Yuuri. Niente notte di sesso sfrenato. E neppure risveglio a mezzogiorno, dato che Yuri gli aveva dato appuntamento al palaghiaccio alle dieci per il regolare allenamento.

    E persino quella mattina…

    Loro non erano certo da smancerie in pubblico. Però, ecco, non è che lo staff del palaghiaccio di Hasetsu, dove di solito si aggiravano Victor e Yuuri, abituati ad avvinghiarsi l’uno sull’altro come vipere in amore ad ogni occasione, fosse proprio facile da scandalizzare. E non si poteva dire nelle scorse estati si fossero trattenuti… Scosse il capo. 

    C’era qualcuno? Qualcuna?

    Bastava dirlo, cazzo. Non stavano insieme. Era quello che si erano sempre detti, no? Ma tempestarlo di messaggi provocanti e poi trattarlo in quel modo non era leale.

    Scosse il capo e si avviò verso la pista. 

    Anche Yuuri stava arrivando in quel momento, sbadigliando.

    – Ben arrivato – lo salutò il giapponese.

    Otabek cercò qualche domanda banale da porre. Yuuri era una brava persona e un pattinatore eccezionale, ma non è che brillasse proprio per scioltezza nei rapporti sociali. Lui non era quello che si diceva un tipo espansivo e messi insieme rischiavano di comunicare solo a monosillabi.

    – Cos’è questa cosa della liberatoria di cui mi hai scritto? – chiese.

    – Ci sono dei documentaristi che mi stanno seguendo. Filmano anche gli allenamenti. Devono sapere se possono riprenderti.

    Ci mancavano solo i documentaristi.

    – Devo chiedere al mio manager.

    Yuuri si limitò ad annuire.

    Anche lui non aveva una bella cera. Non che Otabek avesse mai capito cosa ci trovasse Victor in un tipo che sembrava sempre tra lo spaurito e il malaticcio, ma in quel momento Yuuri sembrava anche peggio del solito. Entrò in pista in silenzio e prese a muoversi in modo meticoloso, provando piano i movimenti. Non era il suo abituale modo di scaldarsi. Appena scendeva sul ghiaccio Yuuri di solito si trasformava, come un animale infine liberato nel proprio habitat…

    Che cosa è preso a tutti?

    Finalmente anche Yuri si fece vivo.

    Con noncuranza si piazzò al fianco di Otabek e gli mise una mano sulla spalla.

    – Il vecchiaccio non c’è ancora? – chiese.

    – No – rispose Yuuri, laconico.

    Anche questo era strano.

    – Oggi cosa fai? Ho qualche speranza di godere della tua compagnia? – sussurrò Otabek a Yuri.

    – Venite qui, tutti e tre – la voce di Victor li richiamò all’ordine. 

    Era arrivato. Fine di ogni possibile chiacchiera.

    E… Ecco… Cos’avevano tutti quanti?

    Ok, Victor aveva un aspetto migliore di quello che aveva sfoggiato durante le olimpiadi, quando aveva guardato le performance dei suoi allievi con una faccia da vampiro insonne. Adesso sembrava più che altro arrabbiato…

    Otabek, Yuuri e Yuri si misero in linea davanti all’allenatore, che era apparso a bordo pista con una cartellina in mano. Di fianco a lui c’era Yuko con il marito e il fisioterapista. Insomma, lo staff quasi al completo. E tutti avevano una terribile faccia da funerale.

    – Yurio, non puoi pattinare.

    Non era una battuta. 

    Erano tutti mortalmente seri. Yuko sembrava sul punto di piangere.

    – Eh?? – fece Yuri.

    Lui se lo aspettava meno di tutti.

    Yuuri invece era sbiancato.

    – La clavicola non è guarita – disse Victor. – E pesi cinquantacinque chili.

    Questo fece voltare di scatto Otabek.

    Cinquantacinque chili.

    La sera prima, quando lo aveva sollevato… Sì, aveva avuto l’impressione che fosse solo pelle e ossa, ma Yurio era di costituzione esile… 

    No. 

    Lo guardò meglio. Non c’era niente, proprio niente sotto la pelle, che aveva un pallore che non era il suo abituale incarnato alabastrino. Quello era il fantasma del ragazzo che aveva abbracciato l’ultima volta all’aeroporto, alla partenza dopo le olimpiadi. E non erano passati neppure due mesi.

    – Col cazzo che non pattino! – sbraitò Yurio. – Mica pattino con la clavicola!

    La smorfia, quando lo aveva buttato sul letto, quindi, era stata di dolore…

    – Yuri, tu non pattini – continuò Victor. – Per le prossime due settimane non farai assolutamente nulla e quando vorrai tornare sulla pista, dovrai pesarti. Sotto i cinquantanove non pattini.

    – Come sarebbe a dire due settimane? I mondiali?

    – Ti ho ritirato dai mondiali. Ho già sentito la federazione russa. È una cosa già decisa.

    Non c’erano oggetti contundenti che potessero essere scagliati. 

    Yurio si avventò contro il bordo pista, ma Victor era fuori portata.

    – Sei impazzito? Siete tutti impazziti? – gridò Yurio.

    L’allenatore scosse il capo.

    – No. In questo momento le tue ossa si stanno decalcificando. Puoi rompertele con qualsiasi caduta, o anche per il semplice atterraggio da un salto. I tuoi muscoli stanno mangiando loro stessi e possono rompersi per uno sforzo eccessivo. Le tue analisi del sangue sono del tutto sballate. Non c’è un singolo organo nel tuo corpo che non sia sotto stress. Io non sarò complice del tuo suicidio.

    – Sono tutte sciocchezze! Questa stupida spalla può anche fare i capricci, ma…

    – No. Sei nel pieno della tua carriera. Questa stagione è già praticamente finita. Non puoi buttare via la tua salute adesso per una singola gara. Fino a che non avrai ripreso un peso adeguato non pattini. Puoi venire qui quando vuoi. Siamo tutti qui per aiutarti. Per parlare, se lo desideri. Puoi chiamare Ivan. A qualsiasi ora del giorno o della notte.

    – Io non ce l’ho bisogno uno strizzacervelli!

    Victor si avvicinò di un passo e allungò la cartelletta, come un veterinario che debba avvicinarsi a una tigre non del tutto sedata.

    – Tieni. Qui ci sono i risultati delle tue analisi e i consigli del dietologo. E i numeri di telefono che possono esserti utili.

    La cartelletta fu istantaneamente lanciata in aria, con i fogli che presero a svolazzare sul ghiaccio.

    Uno ricadde ai piedi di Otabek. Non era in giapponese, ma in inglese. Lesse «rischio di collasso in caso di sforzo prolungato». Dovette avvicinarsi anche lui al bordo pista, per sostenersi.

    – Non me ne faccio niente di queste cazzate! – gridò Yurio, mentre usciva come una furia dalla pista.

    Otabek si chiese cosa dovesse fare. Inseguirlo a rischio della propria incolumità? Raccogliere quei maledetti fogli?

    – Lascialo sbollire – sussurrò Yuuri.

    Era evidente che non si era aspettato nulla di tutto ciò. Sembrava quasi sul punto di piangere, come Yuko. Stupidi giapponesi.

    – Ma cosa ti è saltato in mente di dirgli queste cose davanti a tutti? – gridò a Victor.

    Contro qualcuno doveva pur gridare.

    Victor aveva gli occhi chiusi e le mani strette contro la balaustra. 

    Otabek sapeva che non era proprio il tipo di allenatore da imporsi con la forza. Era evidente che aveva fatto violenza a se stesso per imbastire quella scenata. Questo, tuttavia, non lo aiutò a calmarsi.

    – Non ho agito di mia iniziativa – replicò il russo, apparentemente calmo. – Ho sentito lo psicologo che seguiva gli atleti della pista di San Pietroburgo. Secondo lui, al punto in cui è arrivato Yurio, l’unica cosa che porti un vantaggio immediato è il ricatto. Togliergli una cosa che ami più della propria vita.

    Al punto in cui è arrivato…

    Era la stessa sensazione che aveva avuto quella mattina in cucina mentre l’agnello bolliva.

    La voragine sotto i propri piedi.

    Al punto in cui è arrivato…

    – E come cazzo è possibile che il suo allenatore se ne sia accorto solo adesso? – sbraitò.

    Victor lo fissò con quel suo sguardo del tutto indifeso.

    – Non ne ho idea – sussurrò.

    Poi scosse il capo.

    – Alle olimpiadi non c’era nulla che non andasse, durante la stagione agonistica dimagrisce sempre, ma non era peggio del solito – disse poi, come se anche lui avesse bisogno di ricapitolare i fatti. – Si è fatto male, ok, ed è arrivato quinto. Ma tu hai avuto l’impressione che ci fosse qualcosa d’altro?

    Otabek ci pensò seriamente.

    Yuri era stato deluso. Ovviamente. Nessuno va alle olimpiadi per farsi travolgere in riscaldamento da un cinese pazzo per poi arrivare sotto il podio quando si aveva un argento da difendere. Ma erano eventi che bene o male un atleta metteva in conto. Yuri non aveva mai avuto un carattere fragile. Nelle gare da un punto di vista mentale era un passo davanti a tutti. E Otabek aveva avuto modo, ripetutamente e con sommo gusto, di testare la solidità del suo corpo. Che era magro e scattante. Ma aveva un peso che si aggirava sui sessanta chili, forse qualcuno in più.

    Alle olimpiadi l’unico che per cui si erano preoccupati davvero era stato Victor.

    – No – disse. – Dopo?

    – Da Pechino è andato direttamente in Russia. È stato a Mosca dieci giorni… Poi al ritorno non sembrava… Ho iniziato a preoccuparmi davvero una decina di giorni fa, perché continuava a lamentarsi della spalla. Tempo di fargli fare gli esami e siamo arrivati a oggi.

    – Quindi non hai aspettato a fare questa scenata che ci fossi io.

    – No. Ma se c’è qualcuno che lo può aiutare, in qualsiasi cosa si sia cacciato, sei tu… È sempre stato fragile da questo punto di vista, molti di noi lo sono. Ma un tracollo così improvviso deve pur avere avuto una causa scatenante.

    Otabek annuì.

    Non c’era molto che potesse aggiungere alle parole di Victor. Se aveva una certezza, era che comunque teneva a Yuri.

    Yuuri intanto stava raccogliendo i fogli sparsi per tutta la pista di pattinaggio. Non aveva detto una parola.

    – Anche tu e lui non sembrate in piena forma – azzardò il kazako.

    – Lo so. È la tensione che gli hanno messo addosso… Questa follia del documentario… Ne usciremo, in qualche modo.

    In qualche modo…

    E lui che era andato in Giappone per non pensare…

 

*

    – Hai bisogno di una pausa – disse Yuuri. – Andiamo a prendere un caffè fuori di qui. Senza telecamere intorno. Tanto nessuno ha testa per pattinare, adesso.

    Victor annuì.

    Adorava i momenti in cui Yuuri si imponeva e veniva a salvarlo. Dopo tutto avevano sempre funzionato bene grazie a quell’equilibrio mobile delle forze. Quando uno era in difficoltà, interveniva l’altro. Perché e quando esattamente il meccanismo si era inceppato? Forse era solo che non erano mai stati così sotto stress entrambi, neppure quando anche lui gareggiava ancora. In fin dei conti, aveva sempre avuto ragione Yakov. Allenare era peggio.

 

    – È per via di Yurio che ieri sera mi hai fatto quella scenata? – chiese Yuuri non appena furono seduti con una tazza di caffè davanti.

    Victor annuì.

    – Potrei aver esagerato – ammise.

    Non ricordava le parole esatte che aveva usato. Potevano essere state eccessive. Quasi sempre lo erano, in quel periodo.

    – Hai esagerato – confermò Yuuri. – Non sono un ragazzino che non sa regolarsi. Anche con lui potresti aver esagerato.

    Victor scosse il capo.

    – No. Ho improvvisato fin troppe volte con te. In questo caso non avevo nessuna intenzione di farlo. Ho sentito Yakov e Ivan.

    Yuuri non sembrava del tutto convinto. Guardava il proprio caffè come se potesse leggerci dentro chissà quale responso.

    – E era per questo che ti aggiravi per casa, questa notte – commentò.

    – Se eri sveglio anche tu potevamo quanto meno farci compagnia – buttò lì il russo.

    Il trasferimento di Yuuri nella camera degli ospiti era stato motivato dal fatto che era impossibile dormire con a fianco qualcuno che nel migliore dei casi rimaneva a rigirarsi per ore nel letto e nel peggiore, ma non improbabile, si svegliava urlando. Un atleta aveva bisogno di riposare. Yuuri aveva disputato la gara olimpica con il bacino incrinato a causa di una caduta dovuta a quelle cinque o sei notti insonni che l’avevano preceduta. Grande idea davvero quella di dividere la camera durante l’olimpiade… Dormire separati fino a che il problema non si fosse risolto era sembrata una soluzione di buon senso. Se non che era sparito subito anche il sesso. E poi le semplici coccole, il guardare un film avvinghiati sul divano, lo sfiorarsi durante la giornata. Adesso, a quanto pareva, anche il sostare nella stessa stanza.

    Yuuri si strinse nelle spalle.

    – Ti sentivo che parlavi in russo. Non volevo intromettermi.

    – Parlavo con Ivan, in che lingua avrei dovuto farlo?

    – Non era un’accusa. Solo una spiegazione.

    A volte era impossibile parlare con Yuuri. Era un muro di gomma contro cui rimbalzava tutto, creando macerie di frustrazione.

    – Non sapevo che fosse per via di Yurio – precisò Yuuri. Forse anche lui si era reso conto di essere stato eccessivo. – Pensavo lo avessi chiamato per qualcos’altro. E sono contento che tu lo faccia, ho insistito parecchio, mi pare.

    – E hai fatto bene. Sto meglio.

    Peggio di quanto fosse stato durante le olimpiadi era difficile. Ma anche con quell’ultimo terremoto che gli era capitato addosso stava recuperando. Lo psicologo aveva ragione. Ne sarebbe uscito, ma ci voleva tempo. 

    E sarebbe più facile se non mi sentissi così solo a casa mia.

    Yuuri lo guardò poco convinto.

    – Che fine hanno fatto i tuoi occhiali? – chiese Victor.

    Come aveva fatto a non accorgersene fino a quel momento?

    – Ho messo le lenti a contatto. Izumi dice che la gente è abituata a vedermi in gara, senza occhiali…

    Izumi? La documentarista. Da quando era diventata solo Izumi?

    – Ma tu le odi le lenti a contatto!

    Yuuri scosse la testa con noncuranza.

    – È solo per pochi giorni. Dopo il mondiale tutto tornerà come prima.

    Me lo auguro. Me lo auguro davvero.

    Con la mano cercò quella di Yuuri, sotto il tavolo. Gli accarezzò l’anello con i polpastrelli. Poi l’altro mosse la mano e afferrò la sua con la propria stretta salda, senza alcuna esitazione.

    Ma davanti a lui il viso di Yuuri non cambiò espressione.

    – Dobbiamo rientrare e assicurarci che siano ancora tutti vivi prima che arrivino Kuma e Izumi.

    E la mano fu lasciata andare.

 

*

 

    – Apri questa porta o la butto giù! – sbraitò Otabek.

    Aveva atteso un tempo ragionevole prima di intervenire. Ma adesso la sua pazienza era del tutto esaurita. Yuri era asserragliato in bagno come una belva ferita e altrettanto propenso a mordere o a graffiare, ma lui non ne poteva più.

    – Che cazzo vuoi?

    – Parlare.

    – Io no. Quindi esco se mi lasci andare via.

    – Per andare dove?

    – Dove ci sia gente ragionevole, che mi faccia fare questa cazzo di gara.

    – Le due cose si escludono a vicenda, mi pare.

    – Non sto male! Mi fa male una spalla. Ok. Ma io non ci rinuncio al mondiale dopo questa schifo di olimpiade! Torno in Russia.

    – Come no? Infatti Victor non ha parlato con Yakov…

    – Beh, mi troverò qualcun altro!

    Otabek voleva abbatterla davvero quella porta. A testate.

    Si obbligò a respirare.

    Non era l’approccio giusto. Doveva partire da due presupposti. Yuri stava male.  Ed era stato messo con le spalle al muro. Era furente e del tutto non razionale. Lo sarebbe stato anche lui nelle stesse condizioni. No. Lui sarebbe stato preso a ceffoni molto prima di ridursi in quello stato da suo padre, da sua madre o dal suo allenatore, probabilmente da tutti e tre assieme, e gli avrebbero ricordato che aveva delle responsabilità. Ecco, forse era quello il punto. O uno dei punti. Chi aveva Yuri che potesse prenderlo a ceffoni? Victor? In qualche modo lo aveva appena fatto. Ma prima? Chi aveva davvero Yuri che lo inchiodasse alle proprie responsabilità e si prendesse cura di lui?

    – Come cazzo hai fatto a ridurti in questo stato? – disse, sforzandosi di non urlare.

    – Non mi sono ridotto in nessuno stato. Sto bene.

    – Vorrei venire dentro a dartene tante, ma secondo i fogli che ho in mano ti romperei anche solo con un buffetto.

    – Non è così tragica.

    – No, se smetti di fare cazzate.

    – Non sto facendo cazzate.

    – Certo. Non mangi.

    – Mangio.

    – Ma davvero?

    – … Mangio. Ma poi vomito. Non so perché.

    Otabek aveva rinunciato a ogni violenza contro la porta. Si era seduto sul pavimento, con la schiena appoggiata alla porta del bagno. Immaginava Yuri speculare a lui, nella stessa posizione, solo con le ginocchia strette tra le braccia.

    Il kazako controllò sui fogli che aveva in mano.

    – Qui dice che non ci sono problemi organici allo stomaco.

    Se aveva accettato di sottoporsi a tutti quegli esami era perché, nel profondo, sapeva che aveva bisogno di aiuto. 

    – Io vomito lo stesso. Non lo faccio apposta. E allora tanto vale non mangiare.

    Di solito gli anoressici si inducevano il vomito. Ma Otabek era propenso a credergli. Non era una cosa premeditata, un’anoressia scatenata da un qualche desiderio di perfezione fisica. Era un crollo nervoso bello e buono.

    – Non ho detto che lo fai apposta – disse, sforzandosi di mantenere un tono neutro. – Quando hai iniziato a stare male? A Pechino? A Mosca? Qui?

    – Non lo so. A Mosca, credo. Qui, sopratutto.

    – Cos’è successo a Mosca?

    – Niente.

    – Niente? Perdi quanto? Sei chili e mezzo in meno di due mesi e mi dici che non è successo niente? Tuo nonno sente la necessità di venire a trovarti proprio adesso sempre per niente?

    Sentì un verso a metà tra uno sbuffo e un ringhio.

    Adesso mi dirà che non posso capire.

    Non glielo aveva mai detto, in realtà, ma lo aveva spesso lasciato intendere. Sin da quella prima volta che era stato suo ospite a Mosca. Otabek lo accettava. L’intero appartamento del nonno di Yuri stava forse nel salotto di casa sua. E il giovane aveva sempre quella faccia, tra l’affascinato e il ferito, quando lui accennava ai fratelli, ai genitori o agli zii. Come qualcuno che ascolti una bella fiaba che sa già essere falsa. E Otabek, davvero, non capiva. E non sapeva. Non aveva idea di cosa ne fosse stato dei genitori di Yuri. Se c’era un nonno dovevano per forza esserci anche dei genitori. Eppure il russo non aveva mai accennato a loro, se non una volta, quell’estate, quando Otabek aveva detto che non assomigliava per nulla al nonno e Yuri aveva risposto che lui era uguale alla propria madre. La figlia del nonno. Di cui non c’era neppure una foto in casa, mentre quelle di Yuri bambino abbondavano.

    Beh, non poteva capire. Ma neppure poteva passare le ore col sedere per terra e il suo non fidanzato asserragliato in bagno.

    – Guarda che non sei l’unico ad avere problemi – provò. – Qualsiasi cosa ti sia successa non è un buon motivo per ammazzarti.

    – Non mi sto ammazzando.

    – Sì, invece. A dimagrire in questo modo si muore. O ci si trova con dei danni permanenti. Cazzo. La vita è già abbastanza bastarda senza che uno ci debba mettere del suo. 

    – Che cazzo ne sai tu?

    – Niente. So solo che ti stai ammazzando. E che non voglio che tu lo faccia. C’è già mio padre che sta morendo.

    Otabek si bloccò nel momento in cui si accorse di aver parlato.

    Si passò una mano sulla faccia.

    Stava piangendo. Come una donnicciola.

    Sentì dei rumori dal bagno.

    La faccia di Yuri fece capolino dalla porta.

    – Che cosa hai detto? – chiese con una vocina esile che non era per niente da lui.

    Ecco. Adesso era Otabek che voleva asserragliarsi da qualche parte.

    Si fissò intensamente le proprie ginocchia.

    – Tumore all’intestino. Recidiva – disse.

    Era quello che sua madre gli aveva detto quella mattina, mentre cucinava l’agnello.

    Sentì la mano di Yuri posarsi sulla sua spalla. Otabek abbassò la testa e la sfiorò con la guancia.

    – Si può fare qualcosa? – chiese il russo.

    – Forse. Non in Kazakistan. Ma bisogna farlo subito. E costa.

    – Beh, ma hai appena vinto un argento olimpico.

    – E forse se vinco i mondiali potrei evitare che i miei si indebitino a vita. Quindi…

    Quindi?

    Quindi non voglio essere angosciato anche per te. Ti amo. Questo avrebbe detto, se non si fosse bloccato.

    Ti amo.

    Niente stupide smancerie, si erano detti, giusto quattro anni prima. Si gareggia, si fa sesso, ci si parla. E basta. Nessuna cazzata in pubblico e nessuna idiozia in privato. E adesso era seduto sul pavimento del bagno, con le lacrime agli occhi, pronto a una dichiarazione d’amore?

    –… Quindi ho bisogno, davvero bisogno di vincere questa gara. E non posso farcela se non mi aiuti.

    Yuri si sedette al suo fianco e gli prese la mano.

    – Cosa devo fare? – chiese.

    – Rimani vivo. Rimani Yuri.


 PROLISSE NOTE A PIÈ DI PAGINA CHE POTETE TRANQUILLAMENTE SALTARE.
Ho scritto quella fic più di un anno fa e, per puro caso, mi trovo a postare questo pezzo proprio quando ce ne sono altre due, bellissime, di Dragonfly92 e EfinaFD, che trattano di problemi alimentari più di petto e meglio di me.
È capito così, abbiate pietà di me.
A questo proposisto volevo comunque aggiungere qualcosa, perché, magari alcune dinamiche possono non apparire chiare, sopratutto nelle tempistiche e negli effetti.
Ci sono sport in cui bisogna per forza essere molto magri, se no le performance sono impossibili. Io ne ho praticato uno a livello agonistico per circa 10 anni, atletica mezzofondo. Questa parte di storia viene da lì, per esperienza diretta e indiretta. La differenza (la fortuna?) con il pattinaggio è che nel mio sport nessun allenatore sano di mente (spero) si mette a pesare ossessivamente gli atleti e cose così. Di certo, se pratichi questi sport a livello agonistico, il tuo fisico è già al limite, sei probabilmente sottopeso anche se hai l'ossatura di una farfalla e la percentuale di grasso corporeo è quella minima per permetterti di stare bene. Perché stai bene. Segui una dieta adeguata che anche se non è ipocalorica è comunque una rottura di scatole, perché magari devi mangiare a orari assurdi per via degli allenamenti e magari non quello che ti va in quel momento, e sei controllato ogni tot mesi. Il problema è che se l'equilibrio si rompe si rompe in un attimo, perché sei già sottopeso e sottoponi il tuo corpo al massimo sforzo possibile ogni giorno. Può essere un periodo di stress in cui c'è la tipica sensazione di stomaco chiuso, senza nessuna volontà di dimagrire o chissà che altro. Il fatto è che il tuo fisico non può permettersi neppure due o tre chili in meno. E tutto è molto rapido, tutti sono abituati a vederti magro e comunque non hai smesso di mangiare, forse lo fai solo un po' meno perché non ti va e quindi la cosa si nota relativamente poco. E ti fai malissimo, perché il corpo inizia subito a nutrirsi di se stesso e, siccome sei uno sportivo e quindi già abituato a ignorare una serie di doloretti, disagi, etc., ignori i segnali d'allarme. La buona notizia è che sei uno sportivo. Hai un allentatore che ti vede tutti i giorni e un medico che ti vede a intervalli regolari. Loro se ne accorgono di sicuro e un allenatore che fa bene il suo lavoro è una manna dal cielo. Perché può obbligarti, se necessario con il ricatto, ad accettare il fatto che il problema esista. E da lì si riparte. Ma intanto ti sei fatto del male e il danno rimane. Ora, nella mia esperienza questa cosa è piuttosto comune, anche in chi non è ossessionato dal peso. E tutta la mia squadra di atletica deve ringraziare il Cielo che ci sia capitato un allenatore per certi versi molto Victor (giovane, appena ritiratori dal circuito internazionale, con occhi bellissimi, ahimé fidanzatissimo con una donna che metteva in chiaro che per le mezzofondiste non c'era speranza) ma molto attento a questi aspetti, pronto se il caso a litigare con genitori che sottovalutavano. Nel pattinaggio ho il sospetto che le cose siano un bel po' più ambigue. Molti allenatori sono atleti che a loro volta hanno avuto problemi alimentari e alcuni commenti e alcune interviste mettono i brividi. Personalmente per me un allenatore ha il dovere morare di tutelare in primis la sicurezza e la salute del suo allievo. Non ho scusanti per chi non lo fa, proprio perché so quale sia l'ascendente che ha un allenatore su un ragazzo. A sedici, diciotto, ma anche a vent'anni l'allenatore è il tuo dio in terra. Sei abituato e condizionato a fidartene ciecamente (e qui non apro il capitolo doping...).
Scusate il pippotto, mi sembrava giusto spiegare perché Yuri sia in condizioni così disastrose se meno di due mesi prima stava bene. Probabilmente non stava così bene neppure due mesi prima, comunque, un'olimpiade genera stress e la sua non è andata benissimo. Nella serie abbiamo visto Yuri dare il proprio cibo preferito a Yuuri perché J.J. lo aveva battuto. È un particolare sciocco, ma mi è rimasto in testa. Infine, Victor può essere stato un allenatore un po' deficitario negli ultimi mesi e non aver colto dei segnali. Insomma, senza alcuna cattiva volontà, la ricetta perfetta per il disastro.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** -5 e -4 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka ***


– 5 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka

 

    – …Yuuri!

    Victor si trovò ad annaspare, con troppa poca aria nei polmoni e gli occhi che non mettevano a fuoco nulla.

    Qualcosa gli sfiorò la gamba.

    Era solo il muso di Liza, saltata sul letto a soccorrere il padrone.

    Era notte, era nella sua stanza. Non c’era nulla che non andasse. Salvo l’assenza di Yuuri.

    Rimase seduto nel letto, cercando di regolarizzare il respiro.

    Affondò le mani nel pelo ricciuto di Liza, per aggrapparsi a qualcosa di reale. 

    Non ricordava nulla dell’incubo e ormai sapeva che cercare di farlo peggiorava solo la situazione. Meglio accarezzare il cane, pensare ai cuccioli che sarebbero nati e cercare di respirare. 

    Maledizione. Aveva fatto delle gare in cui era arrivato in fondo al libero ansimando meno.

    La casa, però, era silenziosa. Forse questa volta aveva limitato i danni e non aveva svegliato Yuuri.

    La giornata era stata pesante. Doveva mettere in conto che ricapitasse, almeno a sentire Ivan.

    Si alzò.

    La tentazione di andare nella stanza di Yuuri, anche solo di affacciarsi per guardarlo dormire era fortissima. Ma il giapponese aveva il sonno talmente delicato, in quel periodo, che lo avrebbe di certo svegliato. E Otabek aveva ragione, Yuuri non aveva per nulla un bell’aspetto, né l’abituale scioltezza sul ghiaccio. Aveva bisogno di tutto il riposo e tutto l’aiuto possibile e quanto era successo quella mattina di certo non aveva giovato. In qualche modo Otabek era riuscito a far ragionare Yuri, abbastanza perché si rintanasse sugli spalti, chiuso e avviluppato nella felpa come un paguro con una conchiglia troppo grande. Né Yuuri né il kazako, però, avevano pattinato bene. Yuuri sembrava un palo di legno e Otabek era comprensibilmente distratto. In complesso era stato il peggior allenamento a cui avesse assistito da mesi, con grande gioia, supponeva, dei documentaristi che avevano potuto riprendere un buon numero di facce cupe e commenti stizzosi.

    Victor scosse il capo, indeciso su cosa fare.

    In un altro momento, in un altro posto, avrebbe optato per della birra. O della vodka. Vivere con un quasi astemio, però, limitava le tentazioni e amplificava il rischio di dover dare spiegazioni.

    Camminare in cerchio per il salotto come un animale in una gabbia troppo piccola poteva essere d’aiuto?

    Si fermò davanti alle fotografie delle loro vittorie. 

    Era quasi l’alba e la luce iniziava a filtrare. Nella penombra intravedeva, appesa alla parete, la fotografia della premiazione, in Corea. Li avevano inquadrati di sbieco, in modo che si vedesse appena la medicazione sullo zigomo. Yuuri e Yurio sorridevano e anche lui aveva un’espressione soddisfatta. Cinque minuti dopo lo scatto, appena sceso dai blocchi, era svenuto. O forse peggio. Non glielo avevano mai detto. Quando si era svegliato, in ambulanza, aveva trovato dei paramedici sollevati e uno Yuuri che sembrava essersi disidratato a furia di piangere. Il resto dell’olimpiade lo aveva visto da una deprimente stanza d’ospedale. La cosa migliore sarebbe stata chiudere lì qualsiasi esperienza olimpica, in qualsiasi veste. A quanto pareva, tutti avevano previsto quello che gli sarebbe successo, tranne lui e Yuuri. Gli incubi notturni non erano una novità assoluta, per lui, ma erano diventati una presenza fissa. E aveva avuto la splendida esperienza di un attacco di panico in piena regola. Senza alcun preavviso, mentre passeggiava con Yuuri per il villaggio olimpico… Stress post traumatico, lo chiamava Ivan. Quella cosa che si vede nei film, che capita ai reduci di guerra e che di solito non ha la bella idea di presentarsi a rapporto dopo quattro anni dai fatti. 

    «Ma per voi le stagioni agonistiche sono guerre e le olimpiadi battaglie campali. Che cosa ti aspettavi?» gli aveva detto Ivan.

    Bene, sul piano psicologico Pechino era una battaglia che lui e Yuuri avevano perso, pur portandosi a casa un vantaggio tattico. La guerra era diventata di trincea o un assedio, come quello di Stalingrado. Bisognava resistere fino ai mondiali. In qualsiasi modo. Poi, forse, gli sarebbe stato permesso  anche di ricostruire il loro rapporto dalle macerie.

    Sospirando, prese il cellulare.

    C’era una mail di Irina.

    Ecco, anche quello… 

    Forse, poteva risparmiare a Yuuri almeno gli effetti di quello.

    L’aprì.

    L’assistente sociale ci aveva parlato e entro pochi giorni avrebbero avuto i risultati del test del DNA. Poi Victor avrebbe saputo se aveva un fratello. Una famiglia.

    Nikita. Che nome assurdo. Nikita Nikiforov. Che aveva vent’anni e faceva l’operaio.

    Che vita aveva fatto Nikita, mentre lui ne ignorava l’esistenza?

    Avrebbe potuto… Conoscere la sua voce? Il suo viso? Pagargli gli studi?

    La verità era che non aveva idea di cosa significasse avere un fratello. E adesso gli tremava la mano nell’aprire l’allegato con la foto.

    Non gli assomigliava.

    Forse Yuuri avrebbe detto di sì, perché agli occhi dei giapponesi i russi si assomigliavano un po’ tutti. Nikita aveva i capelli più scuri, che portava un po’ lunghi e ricadevano sulle guance ispide di barba. Sembrava più vecchio della sua età. Aveva tratti già adulti, la mascella squadrata, le spalle larghe, lo sguardo già disilluso. Gli ricordava suo padre, le poche volte che lo aveva visto. Lo stesso padre che aveva mollato lui in istituto, facendosi vivo giusto ogni tanto, quando era fuori di galera, ma che si era tenuto Nikita. Almeno fino a che non era riuscito a farsi ammazzare.

    Victor rimase lì, a fissare la fotografia, senza riuscire a focalizzare cosa provasse a riguardo, mentre la luce pian piano si impadroniva della stanza.

    *

    – Quindi non farai la gara perché la spalla non è a posto? – chiese il nonno di Yuri al nipote.

    Erano in un ristorante nel centro. L’obiettivo era riuscire a far mangiare Yuri e far digerire al nonno la notizia. Dal suo punto di vista, il vecchio non aveva tutti i torti. L’unica volta che lasciava la Russia per vedere il nipote gareggiare, quello si ritirava.

    Il giovane sbuffò, accennando al tutore che quella mattina l’ortopedico era riuscito a imporgli. Non che Yuri avesse davvero accettato la cosa. Ma aveva deciso che la sua priorità era diventata la gara di Otabek. Era una cosa che dava al kazako uno strano senso di calore tra lo stomaco e lo sterno e che non era certo di saper gestire. Qualcosa di profondo si era spezzato nell’animo di Yuri. Cosa, Otabek non avrebbe saputo dirlo. Era evidente, però, che lo stato in cui si trovava il pattinatore russo era un effetto di qualcosa che non era stato in grado di gestire. Aveva una clavicola non del tutto guarita, aveva cercato di ignorare la cosa, con tutto lo strascico di dolore che questo comportava. Eppure la sua priorità, adesso, era la gara del kazako. Essere messo prima del proprio dolore era qualcosa che a Otabek non era mai stato dato.

    – Non è che quel Victor ti ha ritirato solo per favorire il suo amichetto? – continuò il nonno.

    Yuri scosse il capo.

    – Vincevi di più, quando ti seguiva Yakov – borbottò il vecchio.

    – Dai mondiali dell’anno scorso fino alle olimpiadi, Yuri è stato il più forte di tutti – intervenne Otabek.

    – Sì, ma le olimpiadi contano più dei mondiali e con Yakov era arrivato secondo.

    – E quest’anno vinceva, se quel pazzo non lo buttava giù apposta proprio prima della finale.

    Era stato deliberato, Otabek ne era sicuro, anche se non c’era modo di dimostrarlo. La Cina, con le olimpiadi in casa, voleva quanti più ori possibili e Zhang Meng, il nuovo talento, aveva fatto in modo di causare una caduta al suo più pericoloso avversario proprio prima della finale. Cosa che gli si era ritorta contro, alla fine. Anche lui si era ammaccato, finendo poi terzo. E Aveva vinto Yuuri, alimentando ancora di più la sempre presente rivalità Cina-Giappone. 

    – Mi rifarò l’anno prossimo – borbottò Yuri. – Intanto andiamo a fare il tifo per Otabek.

    Portava i capelli più lunghi del solito, che teneva spioventi sulla faccia, come tendine. Anche la felpa di una taglia più grande era una protezione. Il nonno, più di chiunque altro, non doveva rendersi conto di quanto fosse magro.

    Il vecchio sbuffò.

    – Bah… Non potevano almeno usare un linguaggio comprensibile? – disse, guardando sconsolato il menù in giapponese. – Vedi di non ordinarmi del pesce crudo. Non sono una foca.

    Yuri annuì.

    – Capito. Otabek?

    Il kazako sospirò.

    – Facciamo un ramen con brodo di carne. Anche tu lo vuoi.

    Non era una domanda. Bisognava assicurarsi che Yuri mangiasse e che tenesse giù il cibo. Otabek non aveva nessuna esperienza in questo campo, ma del brodo sembrava meglio di una cotoletta fritta o del pesce crudo, su cui aveva la stessa opinione del vecchio russo.

    – Questa cucina non è adatta a un giovane normale – commentò il nonno. – Sono tutti troppo bassi e magri qui.

    – Sto bene – replicò Yuri. – Davvero. Non si sta male, una volta che ci si raccapezza con la lingua.

    – Sono tutti così… Uguali… E le ragazze? Come fai a trovarti una ragazza, se sembrano tutte delle bambine delle elementari anche quando hanno vent’anni?

    Il cameriere portò il cibo e Yuri fissò intensamente la propria ciotola nel tentativo, non troppo riuscito, di non diventare color porpora. Il vecchio, per fortuna, era impegnato a guardare con diffidenza il proprio katsudon per accorgersene.

    – Sono troppo impegnato per cercarmi una ragazza – borbottò Yuri.

    – Sciocchezze. Sono sicuro che Otabek ha già una bella fidanzata.

    Il kazako scosse il capo.

    – Mi sono laureato appena prima delle olimpiadi. Negli ultimi quattro anni non ho avuto neppure il tempo di respirare.

    E in effetti l’università in quei quattro anni era stata una scusa ideale. Da adesso in poi che cosa si sarebbe inventato?

    – Beh, ora devi recuperare il tempo perduto. Anche se ne avrai mille di spasimanti. Tu vivi in un paese civile… Ce l’hai una sorella?

    – Per mia sfortuna.

    I cartoni animati. Doveva assolutamente ricordarsi i cartoni animati per Aiman. O era un uomo morto.

    – Ha quindici anni – precisò, mentre ne mostrava una foto sul cellulare, quello ufficiale, al vecchio.

    – Col velo? Ah, giusto… Beh, perché non la presenti a Yuri? Sembra una brava ragazza seria, proprio quello di cui mio nipote ha bisogno.

    Otabek quasi si soffocò.

    – Non si faccia ingannare dalle apparenze.

    Sembrava di essere a pranzo con i suoi di nonni. Ormai pareva che non vi fosse altro argomento che la sua situazione sentimentale. Perché poi non stava bene che i fratelli minori si fidanzassero o sistemassero prima del maggiore. Figuriamoci la sorella. Beh, almeno il nonno di Yuri aveva delle giustificazioni, gli interessava davvero la felicità del nipote. I suoi parenti, invece, volevano solo riempire un tassello nell’albero genealogico.

    Yuri si alzò per andare in bagno e il nonno ne approfittò per avvicinarsi di più a Otabek.

    – Non stavo mica scherzando – disse. – Non mi sembra che mio nipote stia un gran che bene. E alla sua età ha bisogno di una brava ragazza. Invece frequenta solo pervertiti e vive in un paese di donne bambine. Tu ormai sei un uomo fatto, mentre Yuri da questo punto di vista è ancora un ragazzino. Dovresti dargli una mano.

    Otabek cercò di trovare estremamente interessante il tovagliolo.

    In definitiva il nonno pensava che Yuri avesse bisogno di scopare. E quindi era il caso che si muovesse lui a trovargli una ragazza disponibile. O magari fare alla vecchia maniera e accompagnarlo in un bordello. Erano messi bene…

    – Mi scusi – si svincolò il giovane.

    Yuri era ancora in bagno. 

    Il suo ramen era stato mangiato per metà. 

 

    Lo trovò appoggiato al lavandino, con la fronte imperlata di sudore.

    – Hai vomitato? – chiese Otabek.

    – Sto cercando di non farlo.

    – Sciacquati la faccia e vieni fuori. Tuo nonno sta cercando di organizzare il tuo matrimonio con mia sorella.

    Neppure quello riuscì a farlo sorridere.

    – Non ce la faccio.

    – A salvarti dal matrimonio con mia sorella? Una vita d’inferno, te l’assicuro.

    – Mio nonno si aspetta… Non mi va di deluderlo anch’io.

    – Anche te?

    – Lascia perdere.

    Aprì il rubinetto e si gettò l’acqua fredda sulla faccia.

    Mezzo ramen. Se davvero non aveva vomitato, era meglio di niente. Era un inizio.





 

– 4 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka

 

    – Parliamo un po’ del quadruplo Axel, questa tecnica segreta della scuola Nikiforov

    Kuma stava salendo rapidamente la graduatoria delle persone che Victor avrebbe voluto strozzare. Non che Izumi, con i suoi sguardi languidi a Yuuri fosse meno insopportabile.

    Averli a bordo pista era quasi peggio che in casa. 

    Quello era il suo territorio e si sentiva un capobranco messo in discussione.

    – Il pattinaggio non è un’arte marziale e non c’è nessuna tecnica segreta.

    – Perché allora è tanto difficile e solo lei e i suoi allievi, a parte quel canadese, siete riusciti a farlo in gara?

    – Perché siamo i migliori.

    – È difficile da spiegare ai non addetti – si inserì Yuuri, anche quel giorno con le lenti a contatto. – L’Axel prevede un mezzo giro in più ed è un salto difficile, che mette ansia a molti di noi. Quindi per farne un quadruplo ci vuole più velocità, più elevazione e più precisione che per gli altri.

    Com’era professionale Yuuri quando parlava così. E bello. Appoggiato al bordo pista, con i capelli tirati indietro e il viso serio e concentrato. Non c’era da stupirsi che tutto il Giappone lo adorasse. Il fatto, poi, che avesse trionfato in Cina, con tanto di record del mondo, nonostante gareggiasse infortunato, lo aveva reso un eroe. Era giusto di quella mattina la notizia che una rivista femminile lo aveva messo tra i tre uomini più desiderati del Giappone. Lo avevano detto in televisione mentre stavano facendo colazione, una delle rare volte che avevano tenuto l’apparecchio acceso. Victor aveva visto il terrore negli occhi del compagno. Eppure adesso era bellissimo e professionale, una vera star.

    – Ci sono atleti che si sono infortunati gravemente nel tentativo di padroneggiarlo – continuò Kuma. – Al punto da doversi ritirare dalle competizioni.

    Yuuri annuì.    

    – Sì, purtroppo – disse. – Da qualche anno il regolamento ci obbliga a differenziare i salti all’interno di un programma, quindi padroneggiarne il più possobile diventa una questione di sopravvivenza. E il quadruplo Axel è difficile. Se noi, io e Plisestky, abbiamo avuto un vantaggio è stato il fatto di avere una prova concreta, tutti i giorni, che era possibile farlo. Senza ammazzarsi.

    Victor annuì tra sé. Quello era stato in motivo principale per cui si era allenato su quel salto solo in assenza di Yuuri. La possibilità che si distruggesse nel tentativo era stata più che concreta e se Yuuri avesse assistito a una caduta rovinosa non ci avrebbe mai provato. Per lo stesso motivo aveva anche sempre evitato che Yuuri e Yurio, quando lo stavano imparando, guardassero uno i tentativi dell’altro. Considerando quello che era accaduto altrove, il fatto che il cento percento dei suoi allievi lo avesse imparato aveva del miracoloso. Ma loro erano i migliori.

    – Si dice che Zhang stia perfezionando il quintuplo Toe Loop – disse Kuma.

    Victor sentì i muscoli delle mascelle irrigidirsi e spiò la reazione di Yuuri. Durante le olimpiadi tra loro e quel ragazzino era stata guerra aperta. A considerare i risultati, almeno per quel che riguardava Yuuri, c’era da ringraziarlo, ma aveva causato un’altra piccola crepa nella resistenza psicologica del giapponese. Anche adesso si era incupito. 

    – Zhang è pazzo, no, meglio, è una vittima del sistema – disse il russo. – E entro i vent’anni avrà abbandonato il pattinaggio.

    – Perché dice questo? – chiese il documentarista.

    – Perché il corpo umano non è fatto per questi salti – disse Victor. – I quadrupli sono al limite del possibile. Il quadruplo Axel è accettare la possibilità di farsi male sul serio. I quintupli… Sono teoricamente possibili, ma per aspiranti suicidi. Ma è ovvio che con questo regolamento più salti diversi si fanno, con più rotazioni possibili e più si fanno punti. E le nazioni e gli allenatori che vogliono atleti vincenti li devono per forza spingere in questa direzione. Zhang ha diciotto anni, magari vincerà questo mondiale, magari vincerà qualcos’altro, ma entro due anni non potrà più pattinare.

    Non avrebbe dovuto dire che Zhang avrebbe potuto vincere il mondiale. Yuuri aveva subito aggrottato la fronte e lo sguardo si era fatto distante. Izumi lo aveva guardato in cagnesco. Yuuri doveva vincere quel mondiale. Sopratutto se l’avversario da battere era Zhang. Era una questione di orgoglio nazionale.

    – Zhang quindi è l’avversario che ti fa più paura? – chiese Izumi a Yuuri, con quel tono confidenziale che Victor odiava con tutto se stesso.

    – Alle olimpiadi Altin è arrivato subito dietro di me, non mi sembra da sottovalutare – rispose Yuuri.

    – Adesso anche lui è qui e si allena con voi ogni estate. Non è strano dividere gli allenamenti con due dei tuoi avversari più temibili?

    – Alcuni sono avversari, altri sono principalmente amici – replicò Yuuri. Poi si ricordò del ruolo che doveva interpretare. – In gara, sempre, penso solo alla mia performance e a rendere fieri tutti coloro che mi stanno guardando e facendo il tifo per me.

    Izumi appoggiò la propria mano su quella di Yuuri, proprio sopra il loro anello, e il giapponese non si scostò.

    – Adesso avremmo bisogno di una bella ripresa di questo mitico quadruplo Axel. Puoi farlo per noi? – chiese la donna.

    Adesso Yuuri fece un passo indietro, con evidente imbarazzo.

    Puoi farlo per me? Quante volte Victor glielo aveva chiesto, prima di una gara?

    Quella donna stava esagerando. 

    Il russo cercò di valutarla. Era sui trent’anni, sportiva, senza fronzoli, con occhioni troppo languidi e i capelli scuri portati in una coda. Insignificante. Ma questo poteva non voler dire niente. Era carina, coetanea di Yuuri e aveva la faccia tosta di civettarci sotto i suoi occhi. In quegli anni la sola presenza di Victor aveva dissuaso chiunque dall’approcciarsi a Yuuri in quel modo. E tutti siamo vulnerabili a ciò che non ci è abituale.

    – Te la senti? – chiese, cercando di mantenersi professionale.

    Yuuri continuava a non sembrare in forma. Era stanco, ovviamente. Victor ricordava fin troppo bene in che stato era arrivato al mondiale nell’ultima stagione in cui si era allenato in Russia. Ed era più giovane. E non era un anno olimpico. Alle olimpiadi in Corea ci era arrivato già rotto, per pura rabbia e forza di volontà. Con ogni probabilità non aveva davvero idea di quanto esausto si sentisse Yuuri. E quanto gli eventi del giorno prima lo avessero provato. Non era il momento migliore per quella ripresa.

    – Certo – rispose il giapponese.

    Doveva andare su tutti i teleschermi del paese. Che cosa poteva rispondere?

    – A vedervi in televisione non dà l’idea di uno sport pericoloso – commentò Kuma.

    A che gioco stavano giocando quei due? Izumi seduceva Yuuri mentre Kuma si atteggiava a  migliore amico? Grazie al Cielo almeno non provava a sedurlo!

    Victor si girò, stizzito, per guardare Yuuri.

    Bene. Giorno prima a parte, Yuuri ultimamente pattinava con una precisione che non aveva mai avuto. Come se fosse infine del tutto concentrato su quello che stava facendo. Ne risentiva l’aspetto artistico, cosa che a Victor non piaceva, ma la pulizia delle linee e dei movimenti era assoluta. 

    Tuttavia era stanco.

    Victor vide subito, dallo stacco, che non aveva abbastanza elevazione.

    Fregatene delle rotazioni… Tanto manco se ne accorgono questi. Mica sono giudici…

    Ma ovviamente Yuuri era abituato a cercare sempre di salvare le rotazioni…

    Finì sul ghiaccio disteso, a faccia in avanti.

    Quando Victor lo raggiunse, però, era già a carponi. Quindi bene?

    Aveva gli occhi pieni di lacrime.

    – Yuuri…?

    – Ce la faccio.

    – Lo so che ce la fai. Come stai?

    Victor tese le mani per aiutarlo a rialzarsi. Quasi, per come stavano andando le cose, pensò che Yuuri avrebbe fatto da solo. Invece si aggrappò alle sue braccia con entrambe le mani. Victor sentì una fitta alla schiena e un’altra alla caviglia, mentre lo aiutava a rimettersi in piedi. Non importava. Yuuri era pallidissimo, con gli occhi chiusi e due lacrime che gli bagnavano le ciglia.

    – Come stai? – sussurrò di nuovo Victor.

    Il giapponese riaprì gli occhi.

    – Ho bisogno delle tue mani tese – mormorò. – Anche quando non sembra.

    – Sono qui. Sempre.

 

*

 

    Otabek guardava Yuri con la coda dell’occhio, senza girare la testa.

    Era magrissimo davvero. Eppure bellissimo, abbandonato sul letto con addosso solo una maglietta, gli occhi chiusi e i capelli spettinati.

    Otabek avrebbe dovuto essere in palestra.

    Cazzo. Niente allenamento sul ghiaccio perché Victor e Yuuri erano impegnati con il documentario e lui non voleva entrarci neppure come ombra sullo sfondo. Almeno poteva andare in palestra. Il mondiale era sempre più vicino. 

    Niente. 

    Se ne rendeva conto Yuri che era del tutto disarmato di fronte a lui? Poteva giocare finché voleva ad atteggiarsi a quello responsabile e adulto, ma la verità era che non c’era nulla che lo difendesse da Yuri. E quindi, appena si era presentata l’opportunità di convincere il nonno che sarebbero andati entrambi in palestra senza farlo davvero, erano finiti nella sua camera, alle terme. Passando sotto lo sguardo sogghignante di Mari. Fosse lode al fatto che il vecchio non parlava giapponese!

    Non era stata la scopata che Otabek aveva pregustato durante tutto il viaggio. Aveva paura di romperlo e, dopo aver letto i referti delle analisi, non sapeva dire se fosse una paura irrazionale oppure no. Aveva paura di fargli male alla spalla. Aveva paura di approfittare di qualcuno che era quantomeno in uno stato emotivo precario. Per la prima volta, fare sesso gli aveva fatto paura e la cosa lo aveva fatto sentire del tutto nudo, con la consapevolezza di avere in mano qualcosa di fragile e prezioso che non sapeva trattare.

    «Fammi tutto quello che vuoi»

    Aveva detto così. Proprio lui che non cedeva mai l’iniziativa.

    Bene, non si poteva dire che Yuri non l’avesse preso in parola. Né che fosse stato spiacevole. Anzi.

    Yuri emise un mugolio, come un gattino prima di stiracchiarsi.

    Doveva ricordarsi di farlo bere. E farlo mangiare qualcosa. E fare in modo che lo tenesse giù.

    – Ci voleva – disse Yuri.

    – Decisamente.

    Con uno sforzo Otabek si girò per guardarlo meglio. Voleva scostargli i capelli e baciarlo, come due adolescenti innamorati.

    – Noi non stiamo insieme – disse invece Yuri.

    – Eh? 

    Non era esattamente ciò che sperava di sentirsi dire…

    – Non propriamente, non come i due pazzi.

    Lo stava mollando?

    – Non come loro – concesse Otabek. – Non sarebbe possibile con le vite che facciamo.

    – Tu vai a letto con altra gente in Kazakistan?

    Era un’accusa?

    Yuri stava guardando il soffitto. Ancora nudo dalla cintola in giù. In quella sua strana, esasperante e bellissima testa doveva essere in atto un ragionamento di qualche tipo. 

    Otabek sospirò, mentre optava per la verità.

    – Sì.

    Non erano quelli i patti? Loro erano, beh, loro, quando stavano assieme. O chattavano. Ma poi avevano anche un’altra vita, di cui non dovevano rispondere a nessuno. E che non doveva interferire con il loro rapporto.

    – Ragazzi? Ragazze? Qualcuno di fisso?

    – Ragazzi. Ragazze. Nessuno di fisso.

    Anche Otabek si mise a fissare il soffitto. Non si era mai sentito così imbarazzato.

    – Non è nulla di importante – disse, cercando le parole. – È che a volte vorrei solo scappare. Non pensare. Non ha nulla a che fare con questo. Con te.

    – Lo so che non ha a che fare con me. Però voglio che tu me ne parli.

    – Sei geloso?

    – No… Era nei patti, no? Mica stiamo insieme.

    Sul soffitto c’era una mosca. Com’era entrata?

    – A casa devo essere sempre… Qualcosa – iniziò, incerto. – All’università devo dimostrare che il pattinaggio non influenza i miei risultati sul lungo termine. In pista… Beh, devo vincere. Quante stagioni ho ancora, oltre a questa? Una? Due? A casa… Io sono quello affidabile. Soprattutto adesso, con mio padre che sta male. Ogni tanto vorrei prendere la moto e partire, non so, due giorni, senza dire niente a nessuno. Ma non si può. Quindi ci sono certi locali. Molto lontani da casa mia. Dove non dico il mio nome neppure sotto tortura. È squallido. E non me ne sento fiero. Ma sono un paio d’ore in cui non penso a niente. In cui non devo dare risposte a nessuno.

    Evitava con cura i ragazzi biondi. Quella… Cosa non doveva sovrapporsi neppure per sbaglio, neppure nell’inconscio, con Yuri. Con quello che aveva con lui. Era una questione… Fisica? Una valvola di sfogo? Perché adesso si sentiva così a disagio?

    – E le ragazze? – chiese Yuri.

    – Quando esco con i compagni dell’università. È capitato un paio di volte. Ma le ragazze sono più problematiche.

    Tendono a volerti rivedere. Accettano meno che sia una scopata e basta. Se poi sei uscito in compagnia, con gente che ti conosce, tendi a essere rintracciabile. Non che la cosa non fosse stata utile, almeno per evitare che si diffondessero certe voci. Ma dover dire a una ragazza in lacrime che era stata una botta e via era un’esperienza che non voleva ripetere. Che lo aveva fatto sentire un mostro. Che ne sapeva lui, davvero, di lei? Di cosa provasse per quel compagno del fratello che una volta aveva visto in tv? Immaginò di dire le stesse cose a Yuri e sentì quasi un conato di vomito. 

    – Prostitute? – chiese il russo.

    – Chi?

    – Le ragazze. Erano prostitute?

    Qualcosa, nel tono di Yuri, mise in allarme Otabek. Più di quanto già non fosse.

    – Ma sei matto? No! Potrei essere stato sgradevole, però.

    Di sicuro lo era stato.

    Yuri sospirò.

    Il sospirò profondo di chi è stato troppo in apnea.

    Che cazzo gli era successo in Russia?

    – Un tizio ci ha provato con me, qualche tempo fa – disse il russo.

    – Yuri, un sacco di tizi e tizie ci provano con te… Il croato, alla finale del Grand Prix di quest’anno ha rasentato lo stalking.

    Yuri fece un mezzo ghigno.

    Quel tipo era andato molto vicino al prendersi un pugno in faccia da Otabek proponendo sfacciatamente una cosa a tre.

    – Questo tizio è un mio compagno del corso di animazione che ho seguito – continuò Yuri. – È stato… Carino. 

    Lo voglio uccidere.

    – Cercava davvero di fare di tutto per piacermi… E io mi sentivo solo… Ma voleva solo portarmi a letto.

    – Non si può dire che manchi di buon gusto – borbottò Otabek.

    Doveva essere superiore a quell’istinto ad andare a cercare tutti i compagni di corso di Yuri e ammazzarli uno a uno.

    – Non ci sono finito a letto, alla fine.

    Questo non gli avrebbe salvato la vita, decise il kazako.

    – Però… Mi ha fatto sentire… Tu non mi fai mai sentire in quel modo.

    – E questo è un bene o un male?

    – Un bene… Solo che… C’è qualcosa che non va in me, di questi tempi. Ma quando sono con te va meglio.

    Certo che c’è qualcosa che non va. Ti stai ammazzando. E io non ho capito nulla di quello che mi hai detto. Solo che era importante. Ma non so perché. Ma anche questo, suppongo, è un inizio.

    – Vieni – disse Otabek, alzandosi in piedi. – Cerchiamo di farla andare meglio. È ora di merenda.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** - 3 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka ***


– 3  giorni ai Campionati Mondiali di Osaka

 

    – E quindi oggi ho il grande Victor Nikiforov tutto per me? – chiese Otabek.

    – Così pare – rispose Victor, cercando di sembrare meno sconsolato di quanto si sentisse. – Yuuri oggi riposa e visto che tu e la tua federazione mi pagate qualcosa per queste giornate, eccomi qua.

    Tenere Yuuri lontano da qualsiasi allenamento era costato più di una frase sgradevole e Victor aveva dovuto, per una santa volta, far pesare la sua autorità di allenatore. Non gli piaceva. Non gli piaceva urlare al proprio compagno che con un allenatore non si discuteva. Ci doveva essere un altro modo. Nei quattro anni precedenti aveva quasi sempre trovato un altro modo, ma non in quei giorni. La verità era che a vederlo cadere in quel modo il giorno prima si era spaventato a morte. Era abituato, entro certi limiti, al fatto che Yuuri cadesse. Sapeva come limitare i danni. Per quanto fosse umiliante trovarsi sdraiati sul ghiaccio come una pelle d’orso era di gran lunga preferibile al trovarsi accartocciati su se stessi con articolazioni piegate in modi per cui non erano fatte. Prima delle olimpiadi in Cina, però, Yuuri non si era quasi mai fatto male con una caduta. Certo, con l’età erano apparsi tutti quegli inevitabile acciacchi che avvisavano un atleta che il proprio tempo è agli sgoccioli, ma, sul fronte infortuni da caduta il giapponese era quasi un miracolato. Tuttavia… Neppure quella mattina a Pechino, mentre i paramedici lo stavano portando via dalla pista, Yuuri era stato pallido quanto il giorno prima. Ovviamente aveva insistito per continuare. Voleva a tutti i costi la ripresa del maledetto quadruplo Axel, ma, per come si reggeva a stento sui pattini, Victor non gli avrebbe fatto fare neppure un Toe Loop e aveva dovuto mandarlo dal medico quasi con la forza. Non sapeva com’era andata. Solo che Yuuri aveva accettato di riposare almeno una giornata, che avrebbe trascorso con quei maledetti documentaristi ripercorrendo i luoghi dei suoi esordi. E quindi eccolo lì a guadagnarsi il pane con Otabek. Chissà che non fosse una novità piacevole, per una volta, avere a che fare con un atleta sensato?

    – Devo imparare il quadruplo Axel.

    Avevo detto sensato?

    – Toglietelo dalla testa.

    – Senti, Victor, si vince con cinque quadrupli, lo sai anche tu. O, se è vero quello si dice di Zhang, con quattro quadrupli e un quintuplo. E io ho bisogno di vincere.

    Il russo scosse il capo.

    Si poteva mai sapere cosa avevano in testa tutti?

    – Zhang, dopo un terzo posto in patria deve vincere per forza, anche a costo di rimetterci salute e carriera. 

    – Anch’io. Non sto scherzando. Posso anche rompermi e chiudere qua, ma ho bisogno di alzare il punteggio tecnico.

    Victor soppesò la questione.

    La caratteristica principale di Otabek era sempre stata il buon senso. Anche troppo, da un certo punto di vista. Era troppo prudente per osare davvero. Per questo aveva una solida carriera piena di piazzamenti e povera di vittorie. Era sempre andata bene così. Egoisticamente, era un problema in meno per i suoi atleti. Otabek non aveva mai avuto davvero la possibilità di battere Yuuri o Yurio, se presi in una giornata buona. Alle olimpiadi aveva fatto la sua migliore gara di sempre e Yuuri per la prima volta era sceso in pista con un problema fisico serio e si era comunque preso un bel distacco.

    – Che punteggio può fare Zhang con un salto quintuplo nel libero? – chiese Otabek.

    – 224. Forse anche 225.

    Victor si era già posto il problema. Yuuri non aveva più la resistenza di un tempo. Alle olimpiadi aveva ottenuto il record di punteggio complessivo, ma aveva fatto un corto eccezionale. Anche con il quadruplo Axel non poteva andare molto oltre il 222 nel libero. Senza contare il fattore emotivo, che lo stava già distruggendo adesso.

    – Capisci che io non posso arrivare a questi punteggi con quattro quadrupli – replicò Otabek.

    C’era una nota di disperazione nella voce del kazako. Non era una questione agonistica, c’era altro.

    – Devi spostare i più difficili alla fine e farli in combinazione – ragionò Victor. – E devi migliorare il Lutz. Da fare alla fine. Possibilmente in combinazione… Vado a mettermi i pattini, vediamo se insieme riusciamo a inventarci qualcosa.

    In realtà era anche una scusa per pattinare. 

    Nessuno di loro che era ancora nella girandola orribile e vertiginosa della carriera agonistica poteva capire davvero come sarebbe stato dopo. C’erano i galà e le esibizioni, certo. Ma era un altro mondo. Per gran parte della propria vita, Victor era sceso ogni giorno sul ghiaccio sapendo di poter muoversi, lì, più velocemente dei propri problemi. Costruendo ogni giorno la certezza di poter circoscrivere, almeno temporaneamente, la propria vita a quei pochi metri quadrati dove era il migliore. Tenendo aggrappata tutta la sua personalità a quella sicurezza. Ma da quattro anni, ormai, era costretto ad annaspare nel mondo. A vivere sulla solida roccia. Ci aveva messo tutto il suo impegno. E nei momenti migliori era fiero del se stesso che era diventato. Ma in altri era consapevole di essere solo un esule. Per certi versi l’esilio vero gli pesava meno. La Russia gli mancava, ma era lontana. Il ghiaccio lo vedeva ogni giorno, ma non lo poteva più dominare. Immaginava che fosse la stessa cosa per i grandi rapaci in zoo, con le gabbie sotto il cielo. Senza poterlo raggiungere. 

    Qualche volta, però, poteva fare finta. Lasciare nello spogliatoio Yuuri. E Yurio. E Nikita. E qualsiasi altra cosa. E far finta di essere ancora Victor Nikiforov, il dio del ghiaccio.

*

    – Facciamo ancora una ripresa mentre scendi la gradinata della scuola e poi andiamo mangiare qualcosa, ti va? – chiese Izumi.

    Yuuri annuì.

    Era venuta solo lei quel giorno, con la telecamera leggera a mano, mentre Kuma iniziava a sistemare il girato precedente. 

    Per certi versi quella giornata a ripercorrere i passi del se stesso adolescente aveva fatto sentire Yuuri ancora un liceale. Non era passato poi così tanto tempo. Aveva trovato quasi tutti i suoi posti preferiti così come li ricordava, anche quelli in cui non andava da quindici anni. Il punto esatto nel parco pubblico in cui si fermava a ripassare prima di entrare a scuola. La gelateria preferita di Yuko, in cui chissà perché non era più tornato da che era rientrato in Giappone. Il posto dove comprava i manga. Aveva dovuto ammettere che le sue storie preferite erano quelle romantiche, per ragazze. A parte quel momento, però, non si era mai sentito in imbarazzo. A volte, davvero, doveva fare uno sforzo per ricordarsi che Izumi non era Yuko. E lui non era più quel ragazzo e in fin dei conti quella era solo una finzione, un gioco. La verità era la sua caduta del giorno prima. Quella era la cosa che non doveva proprio capitare… La preoccupazione che si era fatta rabbia negli occhi di Victor… I mondiali sempre più vicini…

    – Dove andiamo? – chiese Izumi.

    Doveva avvisare Victor? Si erano detti qualcosa a proposito del pranzo? O si erano dati appuntamento a sera?

    Yuuri si strinse nelle spalle. Stava scappando. Ancora pochi giorni e poi avrebbe potuto permettersi di arrendersi. E scoprire se c’era ancora qualcosa che poteva essere salvato.

    – C’è un posto… La prima volta che ho vinto le nazionali, nella mia categoria, la squadra mi ha fatto una festa a sorpresa lì. Dici che potrebbe andar bene?

    – Sarebbe perfetto. Ne uscirà anche qualche ripresa – sorrise Izumi.

    Yuuri annuì. Ecco un’ottima scusa da servire a Victor. Serviva per il documentario.

    Come stava diventando bravo a trovare scuse per l’uomo a cui aveva giurato di non mentire mai… 

    Il cellulare vibrò.

    Yuuri ebbe l’istinto di ignorarlo. Per evitare di dover dare risposte, o di litigare ancora nel caso fosse stato Victor. 

    Ma non era Victor.

    Per un istante rimase immobile a guardare il viso raggrinzito del neonato che campeggiava sullo schermo.

    – Il mio migliore amico è appena diventato papà – disse, quando il suo cervello ebbe assimilato l’informazione.

    Phic era padre.

    Di una bambina di poco più di tre chili e mezzo, nata dopo solo quattro ore di travaglio, a quanto scriveva. Si intuiva l’emozione che trapelava anche da quelle poche note.

    – Questo sì che è un buon modo di ritirarsi – disse ancora.

    C’era qualcosa, dentro di lui, a cui non sapeva dare un nome. Era felice per lui. Ovviamente. Come si poteva non essere felici per Phic?

    Cercò di immaginarselo, in ospedale, più sollevato che dopo un’esibizione andate bene, mentre abbracciava per la prima volta quel rospetto insieme a Janine. 

    Il fatto era che non ci riusciva.

    Era qualcosa di troppo lontano da lui. A cui aveva rinunciato. Senza piena consapevolezza di farlo. E adesso, di colpo, non sapeva cosa provasse in merito.

    – Tra poco diventerai anche zio – si inserì Izumi.

    – Sì. Tra tre mesi. Un maschietto – disse.

    Mari si era sposata. Chi lo avrebbe mai detto solo un paio d’anni prima? A dire il vero era stata sua madre a metterci lo zampino. Ora, grazie a lui, erano una famiglia importate e bisognava ben che qualcuno desse loro dei nipotini. Aveva detto proprio così. E Yuuri aveva avuto la netta, sgradevole sensazione che quella fosse la conclusione di un discorso più lungo avvenuto tra i suoi genitori. Che suo padre pensasse che, finita la carriera agonistica, toccasse a lui mettere la testa a posto e trovarsi qualcuna. O che gli fosse trovata qualcuna. Ma sua madre avrebbe ammazzato per tenersi Victor in famiglia. Un Victor che, per fortuna, non capiva davvero tutte le sfumature del giapponese per cogliere alcuni sottotesti. In ogni caso aveva funzionato. A lui non era stato chiesto di incontrare nessuna ragazza. Invece Mari aveva preso a uscire con questa sorta di orso bonario, di professione progettista, ma goffo come un tricheco sulla cima del Fuji. Si erano sposati in quattro mesi. E entro tre lui sarebbe diventato zio.

    – Ne sei felice, immagino – disse Izumi.

    – È strano – ammise Yuuri.

    – Forse voi atleti vivete troppo focalizzati sulle gare e non vi rendete conto di quante altre opportunità offra il mondo – sorrise Izumi.

    Poi gli prese una mano.

    – Allora, questo ristorante? – chiese.

    Ma intanto le sue dita dalle unghie azzurre stavano accarezzando le sue.

    E Yuuri non aveva idea di come reagire.

    Di come volesse reagire.

    C’era tutto un mondo, fuori dal ghiaccio, che non aveva mai esplorato.

    Aveva sempre pensato che non gli interessasse. Ma adesso, mentre le opportunità andavano esaurendosi, era diverso. Forse…

    Con delicatezza, senza voler sembrare scortese, ritrasse la mano.

    – Di là – disse. – Ma dobbiamo fare in fretta. Ho il fisioterapista alle quindici.

*

    – Birra? – chiese Victor.

    Otabek annuì con gratitudine quando vide estrarre dalla borsa termica una vera birra belga. Di Victor si potevano dire molte cose, ma due fatti erano certi. Conosceva il pattinaggio meglio di chiunque altro e sapeva trattarsi bene.

    Il kazako era soddisfatto di se stesso. Non aveva certo un programma a prova di bomba, sopratutto con quel pazzo cinese suicida in giro, ma almeno aveva fatto del proprio meglio. 

    Il problema, arrivato al suo livello, era che c’erano pochissime persone più brave di lui al mondo. E di queste quasi nessuna da cui potesse imparare. Il suo quadruplo Lutz era, nel migliore dei casi, un affare incerto. Ma quanti al mondo lo sapevano fare davvero bene? Non certo il suo allenatore, che pure era stato il miglior pattinatore che il Kazakistan avesse prodotto prima di lui. Yuri saltava in modo divino, ma era del tutto incapace di spiegare come facesse. Come chiedere al falco pellegrino il segreto della picchiata. Invece tutto sommato c’era un motivo se Victor era riuscito a trasformare un pattinatore con del potenziale, ma del tutto incapace di saltare decentemente, nel due volte campione olimpico. Non che di colpo il Lutz gli venisse facile, ma almeno adesso aveva capito cosa vanificava i tre quarti dei suoi tentativi. Meglio tardi che mai…

    – Ho anche formaggio e salumi francesi – disse Victor.

    – Non è esattamente la dieta che dovrei seguire…

    – No. Infatti non sono cose che proponga a Yuuri…

    – Passami il formaggio. Questo posto è meraviglioso, per carità, ma l’unica cosa che riesca a mandar giù è la pastina in brodo.

    Victor sogghignò, mentre gli allungava una fetta di brie con lo sguardo dello spacciatore esperto.

    Avevano optato per un picnic in spiaggia. L’allusione a una scorta segreta di cibo occidentale aveva fatto breccia con facilità in Otabek.

    – A proposito di Yuuri, non ci raggiunge? – chiese.

    Il russo scosse il capo.

    – Finisce tardi con le riprese e poi ha fisioterapia.

    Quindi quella era davvero una scorta segretissima. E se era così Otabek aveva tutte le intenzioni di approfittarne biecamente. Anche senza rasentare l’anoressia, a fine stagione il cibo iniziava a diventare un pensiero fisso per i pattinatori, costretti a mesi di dieta ferrea.

    – Yurio? – chiese Victor.

    – Sta facendo da guida turistica al nonno. È un caro vecchietto, ma sta cercando di organizzare il matrimonio tra suo nipote e mia sorella…

    – Pensi che prima o poi vorrà parlare con me o con Yuko o con una persona qualsiasi dello staff?

    – Credo che potrebbe risponderti, se provassi a chiamarlo – disse Otabek.

    In realtà, viste le premesse, era fiero del modo in cui Yuri stava reagendo. Stava davvero malissimo. Qualsiasi cosa avesse. Psicosomatici o no, i sintomi fisici li sentiva tutti. Anche la sera prima, dopo cena, lo aveva trovato tremante in bagno. Questa volta aveva ammesso di aver vomitato. Forse perché non era più abituato a tre pasti in un giorno. Ma stava lottando. Con tutto se stesso. E lo stava facendo per lui. Per non farlo gareggiare preoccupato. Otabek non era ancora venuto a patti con questo. Con quel senso di tenerezza e istinto di possesso che gli stava scatenando nel petto.

    Victor, intanto sospirò.

    – Deve venire lui – disse. – È importante. Nessuno può aiutarlo se lui non accetta di averne bisogno.

    Aveva senso, pensò Otabek. Eppure non poteva essere lasciato da solo in questo. Alla cieca.

    – Hai idea di cosa…?

    L’altro sospirò di nuovo.

    – No. Però c’è una sola cosa che può metterci così in crisi fuori dalla pista di pattinaggio, e che non siamo disposti a condividere. La famiglia.

    Otabek notò che il russo stava guardando intensamente la propria bottiglia di birra. 

    Argomento sensibile. Sensibilissimo.

    – Perché non potremmo capire? – buttò lì il kazako.

    – Perché non potremmo reggere la vostra reazione – replicò Victor. – Perché non abbiamo abbastanza esperienza di amore incondizionato. Almeno a sentire Ivan.

    Otabek mugugnò. Non si era mai fidato degli psicologi. Anche se questo Ivan, a detta di Yuri, era una brava persona. Dopo tutto lo aveva scelto Yakov.

    – Suppongo che abbia ragione, invece… – continuò Victor, sempre guardando la birra.

    Otabek stava diventando esperto di conversazioni fatte fissando in nulla.

    –… Non siamo così diversi, io e Yuri – stava dicendo il russo. – Siamo abituati a dare per avere qualcosa in cambio. Io autostima e competenze tecniche in cambio di affetto. Yuri…

    – Sesso – si trovò a rispondere il kazako.

    L’unica cosa, a quanto pareva, che non avesse dato a nessun altro.

    Victor sogghignò.

    – Bravo ragazzo – mormorò.

    Poi si buttò all’indietro sulla sabbia, con le mani verso il cielo.

    – Ma non si può andare avanti per sempre in questo modo – concluse. – Alla fine non resta più niente da dare.

    Otabek fu tentato di porre una domanda diretta sulla distanza che aveva avvertito tra il russo e il giapponese, ma non era così in confidenza con Victor per farlo. 

    Fu salvato dal trillo di un cellulare. 

    Era quello di Victor.

    – Pichchit è diventato papà – annunciò il russo.

    Poi guardò perplesso lo schermo.

    – È normale che sia così grinzosa? – chiese, avvicinandogli lo smartphone.

    – È normalissima – sorrise Otabek. – Diventerà una bella bambina.

    Il russo era ancora tra il perplesso e lo schifato.

    – Diventa un essere umano, alla fine?

    – È già un essere umano.

    – Non dovrebbero nascere già con i pattini?

    – No, non credo.

    Il russo si buttò di nuovo sulla sabbia.

    – Ci credi che ci sono posti al mondo dove anche alle coppie come noi sono concesse cose così… Foto di famiglia… Con dei bambini.

    Otabek sentì torcersi qualcosa all’altezza dello stomaco.

    Coppie come noi.

    Noi non siamo come i due pazzi. Non stiamo insieme. Non come loro.

    Coppie come noi.

    Noi?

    Victor e Yuuri erano una coppia. Vivevano assieme. Andavano, immaginava il kazako, a pranzo dalla famiglia di Yuuri per le feste comandate. Si erano baciati in diretta tv. Lui…

    Non aveva mai proiettato i suoi pensieri su Yuri tanto oltre la successiva possibilità d’incontro. E quando la sua carriera fosse finita… Avrebbe lasciato il pattinaggio. C’erano un buon numero di aspetti di quel mondo che gli davano il voltastomaco. Meglio tirare su una bella riga e ricominciare da capo. Come entrava Yuri in quel futuro? Ci aveva mai pensato seriamente? Per molto tempo era stato convinto che in un futuro indefinito, a carriera agonistica conclusa, avrebbe trovato una brava ragazza kazaka che piacesse ai suoi e che non facesse troppo schifo a lui, una con un minimo di cultura, possibilmente, e sarebbe rientrato nei ranghi. Ma anche tralasciando il fatto che le brave ragazze kazake destavano sempre meno il suo interesse, come si inseriva quella cosa, tenerezza e possesso insieme, che andava crescendo dentro di lui? Yuri era del tutto incompatibile con il Kazakistan, con la sua famiglia, con l’Otabek che tutti, ad eccezione di una manciata di persone, conoscevano. Il problema era che iniziava a sospettare di essere incompatibile con l’assenza di Yuri nella propria vita…

    – Beh, non vi va così male, qui in Giappone – buttò lì, per riempire il silenzio.

    – Non è facile come sembra.

    – A me sembra piuttosto facile, rispetto a quanto sarebbe a casa mia.

    – O in Russia.

    – O in Russia – concesse Otabek.

    Non si poteva dire che Victor non avesse fatto una scelta. Il cui costo era in parte evidente e aveva comportato quello che era successo in Corea e una damnatio memoriae da parte dei media russi. Ma il kazako non si era mai chiesto quali altri costi avesse avuto. Da quel che ne sapeva Victor era tornato in patria solo una volta negli ultimi quattro anni, per testimoniare al processo doping. E Otabek non sapeva quanta gente che conosceva gli avesse tolto il saluto, fingesse che fosse morto e altre cose carine di quel genere. E poi c’erano altri costi, ancora meno ovvi. Mangiare di nascosto su una spiaggia cibo fatto arrivare chissà come e chissà a che prezzo. Svegliarsi in un posto che poteva anche essere bello e amabile, ma era comunque, irrimediabilmente, straniero. Cose da considerare, alla luce di ciò che gli stava nascendo dentro.

    – Qui non offendiamo nessuna divinità in vena di vendetta – stava spiegando Victor. – E non siamo un cattivo esempio per i bambini o la rovina della virilità. Ma siamo invisibili a livello giuridico… Com’era quella deliziosa espressione di Sara Crispino?

    – Si fa ma non si dice.

    – Ecco. Nel documentario su Yuuri, almeno nella versione giapponese, io non esisto.

    – Per questo sei qui, adesso?

    – Esatto. Nessuno ti dice niente, però siamo ancora nella terra del matrimonio combinato. Alla fine tutti si aspettato che ciascuno compia il proprio dovere nei confronti della famiglia. Siamo nella patria del dovere, come Yuuri mi ricorda ogni giorno.

    – E qual è il dovere di Yuuri, al momento?

    – Vincere questo maledetto mondiale per la gloria del Giappone. Anche a costo della vita.

*

    Mani in tasca. Spalle incurvate. Sguardo a terra.

    Anche tralasciando l’aspetto fisico, era proprio Yurio quello che stava per citofonare a casa loro.

    Quindi Otabek era riuscito a smuoverlo. Bravo ragazzo. Victor avrebbe voluto avere su Yuuri metà dell’influenza che il kazako aveva sul pattinatore russo.

    Ma Yuuri dormiva, o fingeva di farlo, Victor non avrebbe saputo dirlo. Di certo la fisioterapia non era andata benissimo. Questo rafforzava l’impressione del russo che la caduta del giorno prima non fosse stata per nulla indolore. Ma, anche per come stavano andando le cose, se ci fosse stato qualcosa di davvero grave glielo avrebbe detto, vero? Era stata l’unica cosa in assoluto che Victor aveva richiesto in forma di promessa solenne… Che Yuuri si fermasse prima di compromettere per sempre la propria salute. 

    Beh, ormai mancava una sola gara e Victor era l’ultima persona al mondo che potesse dare lezioni sullo stato fisico con cui scendere in pista per l’ultima volta. Ed era la prova vivente che con un paio di operazioni chirurgiche, molte imprecazioni e parecchie lacrime durante la riabilitazione anche le caviglie frantumate, più o meno, guarivano. Era persino in grado di camminare in quel momento, dopo aver fatto quei salti per Otabek. Yuuri era esausto. E probabilmente qualcosa gli faceva male davvero. E, per sua fortuna, aveva meno esperienza di altri a pattinare con un dolore costante. Ci sarebbe stato da raccoglierlo con il cucchiaino, dopo il mondiale, ma lui era lì per quello, no?

    Meglio che riposasse, in ogni caso.

    Victor uscì in giardino prima che Yurio potesse suonare il campanello.

 

    – Se vince Zhang ti spacco la faccia – esordì Yurio, appena lo vide.

    – Spaccala a Otabek o a Yuuri. Mica pattino al posto loro.

    – Mio nonno è convinto che tu mi abbia fermato per favorire Yuuri.

    Victor si portò una mano alle labbra.

    – Teoria interessante… Avrei dovuto pensarci davvero… Me la gioco come risposta a qualche intervista, se voglio sembrare cinico e senza scrupoli.

    – Li avrei spianati tutti. E poi mi sarei fermato. Che differenza faceva?

    – Avresti potuto spianarli tutti – concesse Victor.

    In quella stagione, prima dell’infortunio alle olimpiadi, finalmente Yurio era diventato il pattinatore che aveva sempre promesso di essere. Chissà se i suoi avversari se ne erano resi conto? Zhang sì, evidentemente, e aveva optato per una soluzione drastica e rischiosa, ma che nell’immediato aveva pagato.

    – Avresti potuto anche cadere e spaccarti in modo irrimediabile, però – continuò l’allenatore. – Con Yuuri che si ritira, tu sei la mia principale fonte di guadagno. Non potevo rischiare di perderti, ormai sono abituato al lusso.

    Yurio non poté evitare di sogghignare.

    Si sedette sulla panchina di pietra, accanto alla magnolia ornamentale che in quel momento era fiorita.

    – Questo è vero. Basta vedere la casa che vi siete comprati, scialacquatori. 

    – Quando vincerai anche tu una medaglia d’oro alle olimpiadi ne riparleremo.

    – Io voglio una fontana dorata in giardino. Con un leone di pietra.

    – Sobria e di buon gusto.

    Era bello vedere che Yurio aveva di nuovo voglia di scherzare. Era bello vedere che almeno qualcosa stava andando meglio. Sesso e amore facevano miracoli.

    – Però non capisco – disse il giovane. – Non sono del tutto scemo. Ho letto i referti. Non posso essermi conciato così in così poco tempo.

    – Hai del pregresso. Eri un po’ troppo leggero anche prima delle Olimpiadi in Corea – spiegò Victor. – Alcune cose non si recuperano. Nel caso tu voglia smettere di mangiare una terza volta devi essere consapevole che gli effetti saranno peggiori ancora. E questo, comunque, ti ha indebolito. Per sempre. Dovremo prenderne atto, nel pianificare le prossime stagioni.

    – Mi fa schifo l’idea di essere fragile.

    – Strano, di solito alla gente piace…

    Yurio lo guardò di sottecchi.

    – Non prenderlo come un complimento, ma ci sono dei momenti in cui sono contento che ci sia tu al posto di Yakov.

    – Perché sono bellissimo e estremamente professionale?

    – Perché sei scemo.

    – Va bene anche così – disse Victor, sincero.

    C’erano dei momenti in cui lui era felice che Yurio fosse lì.

    – Hai intenzione di dirmi cos’è successo? – chiese.

    Yurio si fissò le mani.

    – Lo sapessi almeno io… Ma il pattinaggio non centra. Mio nonno pensa che vivere in Giappone mi faccia male… Ma sono io che mi sento… Sbagliato…

    Il cellulare di Victor vibrò nella sua tasca.

    Non voleva interrompere Yurio proprio in quel momento. Ma quella mattina Nikita avrebbe avuto i risultati del test del DNA e li avrebbe comunicati a Irina. E considerato il fuso orario…

    – Scusa. Potrebbe essere importate – disse.

    …

    – Victor, che succede?    

    La voce di Yurio veniva da lontano, da un altro mondo.

    L’uomo sbatté le palpebre.

    Era ancora lì, nel proprio giardino, in una sera già tiepida di aprile, seduto sulla panca di pietra.

    – Che succede? – chiese ancora il giovane.

    – Niente. Non è successo niente – rispose Victor.

    Non cambiava nulla, giusto? 

    Tutto come prima?

    – Sembra che tu abbia visto un fantasma – provò Yurio.

    – Un fantasma, ecco. Pensavo di poter avere un fratello, ma non era vero.

    Si strinse le braccia al petto. Sentiva freddo. Proprio lui che stava con le finestre aperte a dicembre.

    – Eh? – chiese  Yurio.

    – Mio padre non mi ha cresciuto – sospirò Victor. – Ma sembrava che avesse avuto un altro figlio, prima di farsi ammazzare. Tale Nikita. Ma i nostri DNA non sono compatibili. Nessuna parentela.

    – E ci sei rimasto male?

    Non ne aveva idea. Non riusciva a capire cosa provasse, a parte quel freddo improvviso.

    – Magari lo trovavo insopportabile. Probabilmente lui mi avrebbe odiato.

    Era meglio così, no?

    – O magari ti avrebbe chiesto dei soldi.

    Non era un commento casuale.

    – Chi ti ha chiesto soldi, Yuri?

    – Mia madre, a Mosca, dopo le olimpiadi.

    Ah, ecco.

    – Non la vedevi da parecchio…

    – Quindici anni, una roba così… Pensava di trovare il vecchio, non me. Ma ha beccato l’unico giorno che mio nonno era via con quelli del circolo… Era fatta. E batte. E mio nonno le dà dei soldi…

    Meraviglioso.

    Davvero, non si capiva perché Yurio fosse imploso in quel modo…

    – Sei arrabbiato con tuo nonno, per il fatto di non averti detto di essere in contatto con lei?

    – No. Lo capisco perché non me lo ha detto. A cosa mi sarebbe servito? Ho sempre saputo che  si era bruciata il cervello… Però vederla è una cosa diversa… Mi brucia che lei mi somigli… Era completamente fatta, ma ha insistito perché ci facessimo una foto insieme.

    – Posso vederla?

    Yurio sbuffò, ma estrasse il cellulare.

    Erano identici, davvero. Lei doveva essere stata giovanissima quando lo aveva avuto. E si vedeva che non faceva una bella vita. Anche così era di una bellezza abbagliante. Aveva gli stessi occhi verdi del figlio, gli stessi capelli e quei tratti da bellezza angelica. La cosa che face impressione era che adesso Yurio era più magro e tirato che in quella foto vecchia di un mese e mezzo. E ci assomigliava di più.

    – Io non ce l’ho una foto con mio padre – disse Victor. – E non so niente di mia madre.

    Non era peggio. Solo che… C’erano possibilità ormai svanite per sempre.

    – Strano. Di solito sono i padri che scompaiono – commentò Yurio. – …Com’è morto?

    Victor scosse il capo.

    Non era sicuro che a Yurio facesse bene parlare di quello. O a lui.

    – Una rissa finita male. Così mi hanno detto. Era sempre dentro e fuori di galera… Non era nessuno per me.

    Yurio fece uno sbuffo poco convinto. Un altro avrebbe potuto convincerlo, ma non lui.

    – È successo quando avevo più o meno la tua età – si trovò a dire. – Ero tornato a vivere in casa di Yakov in quel periodo e era in corso il team trophy a cui io non partecipavo, quell’anno tra olimpiadi e mondiali ero arrivato in fondo un po’ al limite. Yakov era alla gara, ovviamente. Ricordo la luce che filtrava e il pulviscolo che ci danzava dentro. Sono rimasto ore a immaginare coreografie da fare sul ghiaccio, viste dentro quel raggio di sole. È il ricordo più nitido che io abbia di mio padre. Polvere in controluce.

    – Povere in controluce… – mormorò Yurio.

    Rimasero un istante in silenzio a guardare i fiori bianchi di magnolia nel crepuscolo giapponese. Una di quelle immagini eleganti e perfette che lì piacevano tanto. Loro non ci azzeccavano niente con quella perfezione.

    – Mi spiace che tu non abbia un fratello – disse Yurio.

    Victor, d’istinto, gli passò una mano sulla testa, come faceva quando era un ragazzetto, alla pista di San Pietroburgo.

    – Mica ce l’ho bisogno un altro ventenne russo e scontroso con cui litigare.


NOTE A PIÈ DI PAGINA CHE POTETE TRANQUILLAMENTE SALTARE
Ed eccoci arrivati alla fine di un capitolone che mette sul piatto un bel po' di cose.
Un certo numero di queste sono tematiche delicate e davvero, davvero, mi scuso se qualcuno sente urtata la propria sensibilità. Contattatemi, se è il caso, perchè l'ultima cosa che voglio è trattare con leggerezza certi temi. Non sono un gioco. Non lo sono neppure per me.
Una delle cose che mi ha colpito fin dall'inizio, guardando la serie è che sia Victor che Yurio sembravano venire da storie di abbandono. Dov'era la mamma di Yurio che non andava a vederlo alle gare? A una mamma morta o che lavora giorno e notte per mantenere il figlio credo che si dedichi comunque la propria gara, invece, l'unica persona che Yurio vuole ringraziare è il nonno... Ora, la stragrande maggioranza dei bambini che non crescono con i propri genitori naturali non sono orfani nel senso classico del termine. I loro genitori sono ancora da qualche parte, spesso a condurre vite sregolate. Spesso ci sono fratelli o fratellastri di cui non si sa nulla. A volte le persone che li crescono sanno qualcosa, ma, per mille motivi, alcuni molto sensati, tacciono. In Italia e in molti altri paesi (davvero non ho osato domande specifiche per la Russia) se c'è una traccia documentaria in tribunali per minori, comunità o simili, da maggiorenni si può chiedere notizie e non si è abbandonati a se stessi. Spesso gli assistenti sociali finiscono sui giornali solo quando fanno qualcosa di orribile e nelle storie spessissimo hanno ruoli ingrati. Per la maggior parte sono brave persone che cercano di fare il proprio lavoro. Tra le cose che fanno, a volte, è cercare di riannodare fili di legami spezzati, cercare di capire se c'è una motivazione alla base di una ricerca e quanto male si rischia di farsi con un eventuale incontro. Tutta la parte della trama di Nikita parte da questo presupposto. Può sembrare improbabile, sembrerà improbabile, andando avanti, ma si basa su storie vere che avevo bisogno di elaborare. Perché a volte le verità che si scoprono sono inaspettate, e destabilizzanti e inevitabilmente dolorose. Ma quando c'è questo genere di mediazione c'è comunque una rete di sicurezza. A volte capita semplicemente che la verità arrivi inaspettata e tutta di colpo, come è successo a Yurio. E allora devi fare i conti con tutto insieme e con il fatto che una parte di te viene da quella persona lì. E allora è un terremoto.
Tutto questo smuovere il profondo ha reso i miei personaggi un po' anarchici e li ha portati a buttar fuori altre istanze, sull'identità e in riconoscimento in cui forse non volevo inoltrarmi.
E, niente, se qualcosa non vi va, non vi piace, vi offende avvisatemi.

E grazie a voi che leggete, mettete la storia nelle preferite e nelle seguite, commentate. Grazie di cuore.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** -2 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka. Giorno e sera. ***


Pronti al disastro, sì?
Perché nessuno di loro è lucido. E verranno dette e fatte cose che in altri momenti sarebbero impensabili...

 



– 2 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka

 

 

    – Voglio vedere le coreografie sia del corto che del libero, senza salti – disse Victor.

    Era l’ultimo allenamento prima della partenza.

    Subito dopo pranzo si sarebbero spostati tutti in treno per Osaka dove l’indomani mattina li attendeva l’allenamento pubblico. E Otabek sarebbe tornato ad essere, beh, Otabek Altin. Con un allenatore ufficiale e una rigida immagine di quasi eroe nazionale da far rimanere tale. Ma non andava così male. Intanto la sera prima aveva di nuovo avuto Yuri tutti per sé. E poi il russo non aveva disdetto la camera, proprio accanto alla sua, mentre il nonno avrebbe dormito in un altro hotel. Per una santa volta uno dei due, almeno, non avrebbe patito della tensione pre gara e lui non avrebbe avuto quella fastidiosa tentazione di strozzarlo la sera prima della competizione per togliersi di torno un avversario. Infine, non sapeva cosa si fossero detti Yuri e Victor, ma qualcosa si stava sbloccando nel pattinatore russo. Non un miracolo, certo. Ma non sembrava più con tutti muscoli tesi e pronto alla fuga. 

    – Preferisci iniziare tu? – chiese a Yuuri.

    Il giapponese era ancora fuori dalla pista, con il cellulare in mano.

    – Inizia tu. Aspetto quelli dei documentario.

    – Vediamo di non metterci tutta la mattina – li richiamò Victor.

    Tutto quel messaggiare ostentato di Yuuri non lo metteva di buon umore. Beh, non avrebbe messo di buon umore neppure lui vedere Yuri scrivere così assorto a qualcuno. Ma di solito quando il giovane russo era così preso dal cellulare stava ammazzando orchi in un qualche videogioco.

    – Metti la mia musica, parto io – disse.

    Le note iniziarono e vide Victor aggrottare la fronte. Quell’anno per il corto aveva optato per un brano rock. Non era proprio nelle corde della scuola Nikiforov. Il che era il motivo per cui l’aveva scelto. Non era facile sopravvivere contro quell’armata d’invasione a tre. Yuri era probabilmente il migliore nei salti che si fosse mai visto, checché ne dicesse Zhang. Migliore di Victor stesso, almeno all’inizio di quella stagione. Yuuri aveva una pulizia nelle linee e un’eleganza che lo rendeva inarrivabile, sopratutto quando gli capitavano quelle giornate di grazia, piuttosto comuni negli ultimi quattro anni. E tutti e due avevano il miglior coreografo sulla piazza. Metà dei pattinatori cercava di scimmiottarli con risultati che andavano dallo scialbo al patetico. Meglio scegliere una strada del tutto diversa. Ma non è che adesso potesse aspettarsi chissà quali complimenti o consigli.

    – L’anno prossimo cosa proponi? Un pezzo tribale con solo tamburi? – sbuffò Victor.

    – Potrebbe essere un’idea.

    Il russo scosse il capo.

    – Alle olimpiadi eri più rigido di adesso e comunque ti hanno dato un punteggio mostruoso. Ogni tanto dai l’idea di divertiti a fare quello che fai, magari ti regalano un altro punto di artistico.

    – A me piace – si inserì Yuri. – Io però cambierei la posizione finale. Buttati all’indietro, così.

    Dagli spalti, Yuri gli fece vedere cos’aveva in mente.

    – Non è male, in effetti – commentò Victor.

    Solo che Otabek non era Yuri, non aveva il fisico di Yuri e rischiava sul serio di spaccarsi in due. Ma era un finale ad effetto…

    – Yuuri? – chiamò Victor.

    Mentre discutevano erano arrivati i documentaristi.

    L’uomo si stava sistemando la telecamera in fondo, in modo da riprendere tutta la pista. La donna si era avvicinata a Yuuri e gli stava parlando piano, ignorando tutti gli altri.

    – Yuuri? – chiamò ancora Victor.

    La voce stava assumendo un tono tagliente che Otabek gli aveva sentito usare ben poco e mai rivolgendosi al compagno.

    Lei gli sistemò la pettinatura, poi, finalmente, Yuuri si girò.

    – Arrivo. Ma voglio provare anche i salti.

    – Niente salti – replicò Victor.

    Era a qualche passo di distanza e stringeva la balaustra come se volesse stritolarla.

    – Aspettano ancora la ripresa dell’altro giorno – protestò il giapponese.

    – È proprio per via dell’altro giorno che oggi non salti.

    Yuri e Otabek si guardarono. Era il caso di intervenire? O di fuggire il prima possibile?

    – Non fa niente – si inserì la donna. Mentre parlava appoggiò una mano sulla spalla di Yuuri. – Possiamo farla a Osaka la ripresa. O al peggio ne inseriamo una di una vecchia gara. Anche se farne una apposta qui, con la pista solo per te, per noi sarebbe meglio.

    Yuuri si tolse i copri pattini e fece per entrare in pista.

    – Solo l’Axel, per le riprese – provò a patteggiare.

    – Sono il tuo allenatore. Ho detto niente salti.

    Yuuri fece per iniziare a pattinare comunque, poi scosse il capo e si girò.

    – Sono i miei ultimi giorni da atleta. È il mio documentario. Un solo salto.

    – Sono i tuoi ultimi giorni da atleta. Se salti teso come sei è il tuo ultimo in assoluto. E anche se ti va bene è l’ultimo con questo allenatore.

    Otabek cercò con lo sguardo un posto dove rifugiarsi.

    Yuri, sugli spalti sembrava indeciso tra l’istinto a diventare tutt’uno con un sedile e quello di documentare il tutto. 

    Yuuri si fermò e si mise le mani sulle gambe.

    – Se sono teso è colpa tua – disse.

    – Vai a farti un giro, calmati e poi riprendiamo con la coreografia. Solo coreografia – ringhiò Victor.

    Senza ulteriori parole, Yuuri uscì dalla pista, si infilò i copri pattini e si avviò verso gli spogliatoi.

    Otabek vide con terrore che la documentarista sembrava intenzionata a inseguirlo.

    Fece un cenno a Yuri di bloccare Victor e si mosse per precederla.

    E adesso che cazzo diceva lui a Yuuri?

 

    Lo trovò rintanato nello spogliatoio, con ancora i pattini ai piedi e le mani sulle ginocchia.

    – Tutto bene? – provò Otabek.

    Che domanda stupida. Era ovvio che non andava bene nulla.

    – No.

    Infatti.

    – Siete stressati tutti e due – disse il kazako.

    Poi cosa avrebbe aggiunto? Non ci sono più le mezze stagioni? Si stava meglio quando si stava peggio?

    Era pessimo in questi casi.

    – No – replicò Yuuri. 

    Era a un passo dall’urlare e Otabek non ricordava gli avergli mai sentito alzare la voce.

    – Io sono stressato. È la mia ultima gara. L’ultima in assoluto, capisci? Qui in Giappone. E per una santa volta, una sola, sono io al centro dell’attenzione. È questo che gli scoccia.

    – Questo e le documentariste che ti toccano il viso.

    – Mi ha sistemato i capelli, va bene? È il suo compito. Deve riprendermi! Credi che ci sia qualcosa tra me e lei?

    Otabek sospirò.

    Quello che credeva, in tutta sincerità, era che se una persona qualsiasi si fosse messa a sussurrare e a tocchicciare Yuri sotto i suoi occhi, lui l’avrebbe uccisa. Il che probabilmente non era la cosa che Yuuri aveva bisogno di sentirsi dire. Né la cosa più corretta da fare, nell’eventualità che capitasse davvero. E non doveva essere facile essere in compagno di Victor. Che persino a quattro anni dal proprio ritiro catalizzava ancora l’attenzione generale. Che posava per le pubblicità dei croccantini per cani e per le riviste di moda. Otabek non aveva visto una singola pubblicità, neppure lì in Giappone, con Yuuri.

    Si sedette di fianco a lui.

    – Io credo che sia davvero preoccupato per te e per questa gara. L’altro ieri sei caduto. È per questo che non voleva farti saltare, già prima del documentario.

    Yuuri sospirò.

    – Lo so. Ma non ne posso più di essere trattato come un ragazzino… A volte è un incubo vivere col proprio allenatore.

    Otabek annuì.

    Sì, doveva esserlo. Un allenatore doveva imporsi, a volte. E un allenatore - convivente… 

    – Pochi giorni ancora – disse.

    – Sì. Pochi giorni ancora…

 

 

*

 

    – È stato un piacere, Yuuri, davvero – disse Celestino. – Mi piace pensare che ci sia un pochino anche del mio lavoro nel pattinatore che sei diventato. Sono infinitamente fiero di te.

    – Grazie – replicò Yuuri, inchinandosi.

    Era sempre a disagio con il proprio ex allenatore, ancora a distanza di così tanti anni aveva la sensazione di averlo un po’ tradito. O che comunque poteva fare di meglio con lui che andarsene senza dire niente. Perché era vero quello che gli aveva detto. C’era molto dei suoi insegnamenti nel pattinatore che era diventato. Victor gli aveva permesso di raggiungere i vertici mondiali, ma era stato Ciao Ciao Celestino a traghettarlo fino al professionismo. Il lavoro davvero duro lo aveva fatto lui.

    – È stata una bella chiacchierata – aggiunse l’allenatore italiano. – Mi raccomando, dopo domani non umiliare troppo il mio allievo: è il suo primo mondiale.

    – Sono sicuro che si farà valere.

    – Certo. Salutami Victor – disse Celestino, allontanandosi.

    Yuuri annuì, anche se il solo sentir nominare Victor gli causò una stilettata allo stomaco.

    Dall’allenamento di quella mattina non si erano più rivolti parola.

    Per tutte le quasi cinque ore di treno erano stati seduti uno di fronte all’altro, Yuuri con le cuffie nelle orecchie e Victor che fingeva di leggere un libro in russo. In realtà il giapponese si era accorto che non aveva quasi girato pagina. In albergo si erano parlati giusto il necessario per stabilire chi prendesse il letto vicino alla finestra e poi Yuuri era uscito per girare la parte di documentario con Celestino.

    Tutto sommato andava bene così. Non parlare. Non litigare ulteriormente. Far passare un altro giorno.

    Izumi stava finendo di caricare la telecamera sull’auto che aveva preso a noleggio.

    – Facciamo due passi? Il castello è giusto qui dietro – propose.

    – Io torno alla base – disse Kuma. – Ma ti lascio l’auto. Cammino un po’ e quando sono stanco prendo un taxi.

    – Yuuri?

    – Domani devo allenarmi…

    – Non sono neppure le otto e mezza. Per le dieci ti riporto da papino. Ci sono i giochi di luce…

    Erano quasi due ore di gelo in camera in meno. E dopo tutte quel tempo in treno sgranchirsi le gambe non era una brutta idea. E, sì, il pensiero che Victor sarebbe impazzito di gelosia, sapendolo, aveva la sua parte. In quei giorni provava un piacere infantile a irritarlo. No, non era esatto. Cercò di essere onesto con se stesso. In quei giorni si sentiva il peggiore dei compagni. E cercava ogni occasione per rafforzare quella sensazione.

    – Ok – disse.

    – Sai, sei molto più spontaneo e piacevole quando non c’è lui – disse Izumi.

    Yuuri non era in vena di conversazione, in realtà.

    Lei si era messa un profumo troppo forte. Non spiacevole, ma invasivo. Ed era più elegante del solito, con un velo di trucco. Non ricordava più così tanto Yuko. Era qualcosa di bello e sconosciuto con cui Yuuri non sapeva se volesse avere a che fare. 

    Sospirò. 

    – Siamo tesi entrambi di questi tempi – disse.

    – È sempre così duro con te? – chiese Izumi.

    Gli posò la mano sul braccio. Era un tocco delicato. Lei era più bassa di lui, gli arrivava alla spalla. Era una prospettiva strana. Si chiese come sarebbe stato girare per strada con un braccio sulla spalla di una donna e i capelli di lei sulla spalla. Si chiese…

    – In realtà no – rispose, obbligandosi all’onestà. –  Di solito è una persona molto positiva e dolce. È dalle olimpiadi che le cose non vanno.

    – Perché?

    Yuuri non voleva davvero parlarne. O forse sì. Doveva pur parlarne con qualcuno che non prendesse automaticamente le parti di Victor.

    – Un allenatore alle olimpiadi serve principalmente per dare sostegno morale. E qualche suggerimento dell’ultimo minuto. Ma sopratutto sostegno. È difficile da spiegare per chi non ci sia passato… Comunque… Victor non voleva venire, o almeno non come mio allenatore. Per giustizia nei confronti di Yuri, dato che lui sarebbe stato affidato al tecnico federale russo. Ma io ho insistito. È stato un errore, ma non ci ho pensato. Ho pensato solo alla mia solitudine e al mio bisogno di averlo accanto...

    Non ho pensato al fatto che l’hanno quasi ammazzato e che avrebbe dovuto incontrare e magari stringere la mano a quelli che avevano organizzato… Scemo di uno Yuuri.

    – E lui è stato male – continuò. – E non è facile essere di sostegno, se stai male. Inoltre in un villaggio olimpico non c'è intimità. Lui è la persona più riservata del mondo, su certi aspetti della propria vita, ma inevitabilmente tutti hanno saputo che era stato male e perché. Questo non ha aiutato. E dopo un po’, quando si è in due a essere molto sotto tensione e molto stanchi si inizia ad avere i nervi che saltano con facilità e si dicono cose sgradevoli, da entrambe le parti. E… Il litigio di questa mattina è in parte dovuto a quello che è successo là. Io ero molto stanco, ma era l’ultimo allenamento serio prima del corto, Victor voleva che provassi il quadruplo Axel. Era indispensabile per vincere e non mi era venuto un gran che bene negli allenamenti precedenti. Yuri sembrava imbattibile, non lo sapevamo che il giorno dopo sia sarebbe distrutto una spalla… Comunque, avrei dovuto insistere con Victor sul fatto che non me la sentivo, ma lui è entrato nella modalità che hai visto “sono l’allenatore e so cos’è meglio per te”… Gli ho dato retta, ho saltato e sono caduto davvero male, di schiena, e il giorno dopo ho gareggiato col bacino incrinato.

    Una parte di Yuuri dava la colpa a Victor per quello che era capitato. Perché era lui che aveva insistito per fargli provare il salto, contro il suo parere…

    – Ma adesso sei guarito? – chiese Izumi.

    Yuuri guardò fisso davanti a sé.

    – Sì. Ma adesso Victor è fin troppo preoccupato che mi faccia male di nuovo e di fatto siamo da capo. Sa cos’è meglio per me e io devo obbedire e tacere.

    Erano arrivati in vista del castello.

    Era bello davvero. Illuminato di luce blu, mentre gli alberi in fiore avevano luci bianche che partivano dall’acqua del fossato sottostante. L’effetto era fiabesco. Una realtà altra in cui Yuuri, in quel momento, avrebbe voluto immergersi.

    – Dovresti prenderti una pausa da tutto, dopo questa gara, anche da lui – disse Izumi.

    Yuuri scosse il capo.

    – Siete insieme da quanto? – continuò la donna. – Sei, sette anni, in cui avete vissuto insieme, pattinato insieme e lui ti ha sempre dato ordini. È ora che tu ti prenda le tue libertà.

    – Il problema non è mai stato quello.

    Neppure adesso lo era. Non davvero.

    – Vieni con me a girare il documentario in Nuova Guinea. È un lavoro da musicologi.

    Yuuri si girò a guardarla.

    – Eh?

    – Vieni con me. Stiamo via due mesi. Lasciamo tutto il resto qui. 

    Lasciamo tutto il resto qui… Se solo fosse bastato fuggire lo avrebbe già fatto.

    Si concesse un sorriso triste.

    – È una bella tentazione… Sai che non ricordo neppure come sia stare due mesi senza allenarsi…

    Ma ne avrebbe fatta esperienza. Anche troppo presto.

    – Vedi un po’ di mondo fuori dai palaghiaccio. Scopri se ti piacciono altre cose…

    In qualche modo se l’era trovata davanti. 

    Col suo profumo troppo forte. Con i suoi occhi così simili a quelli di Yuko. Con le sue labbra del tutto diverse, più grandi e più rosse…

    Davanti a loro c’era quella foresta bianca e irreale. 

    E un futuro che stava finendo.

    Lei era morbida e arrendevole…

    Yuuri si sentì quasi soffocare in quel bacio. 

    Che era troppo. Che era sbagliato. Ma da cui non riusciva a staccarsi.

    – Cazzo! Non è possibile! Yuuri! – gridò qualcuno con accento straniero.

    Era Yurio.

 

    Yuuri si girò di scatto, quasi lasciando cadere Izumi.

    Era davvero Yurio.

    Con tutte le oltre due milioni e mezzo di persone che c’erano in giro a Osaka proprio Yurio doveva beccare? Con Otabek, ovviamente.

     Beh, era il luogo più turistico e romantico di Osaka. Dove altro potevano andare? Idiota di  uno Yuuri!

    Adesso però aveva altri problemi. Yurio che avanzava con quel suo passo da teppista delle periferie di Mosca e tutta l’aria di volerlo far fuori.

    – Checcazzo ti prende? – gridò in inglese, col fare oltraggiato di chi si sente in diritto di pretendere una spiegazione all’istante.

    – Non sono affari tuoi, mi pare – replicò Yuuri, mettendosi tra lui e Izumi.

    – Ha ragione. Non sono affari nostri – intervenne Otabek, mettendo una mano sulla spalla sana del russo.

    – Non sono affari miei? Ci alleniamo insieme da tre anni e mezzo e non sono affari miei se sbatti via la tua vita per una troia?

    – Non ti azzardare a chiamarla così! – ringhiò Yuuri.

    Quando era troppo era troppo.

    – Non perderci tempo – disse Izumi, alle sue spalle. – Andiamo via.

    Forse era la cosa migliore.

    Andarsene nella notte?

    – Inizia ad andare, Izumi, non ce l’ha con te – replicò. 

    – No, lei è troia, ma non è colpa sua. Sei tu quello che ho sempre pensato diverso – ringhiò Yurio.

    – Diverso da chi? Da te che ti facevi slinguazzare da quel tipo che ti aspettava a fine allenamento? È un po’ che non lo vedo, che fine ha fatto?

    Aveva esagerato.

    Esagerato davvero.

    Nonostante la semi oscurità, vide lo sguardo di Yurio, come se fosse stato appena colpito. C’era lì Otabek. E aveva parlato in inglese. Che cosa stava combinando?

    – Calmati, Yuri, andiamo.

    Adesso Otabek lo stava trattenendo davvero.

    – No che non mi calmo! Sei una stupida puttana, Yuuri, e lo rimpiangerai per il resto dei tuoi giorni.

    Lo rimpiangerai per il resto dei tuoi giorni…

    – Che cosa ne sai tu… – iniziò, ma non aveva già più la forza di urlare.

    – Che cosa ne so? Niente. Ma se te ne fregasse qualcosa, del resto, avresti già chiesto a Victor che cos’ha che non va.

    – Adesso basta, andiamocene.

    La voce di Otabek era ferma, senza durezza.

    Yurio annuì. 

    Si girò, colpito di sbieco dalla luce dei lampioni, e qualcosa luccicò sulla sua guancia. Stava piangendo.

    Checcazzo ho combinato?

    Izumi si stava allontanando. Camminava a passo spedito verso gli alberi bianchi. Nella terra dell’irrealtà.

    E non era lei che Yuuri voleva inseguire.    

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** -2 giorni ai Campionati Mondiali di Osaka. Sera e notte ***


   – Andiamocene! Non sono affari nostri – disse Otabek.

    – Cazzo, ci vivo praticamente insieme! – protestò Yuri.

    Scalciava e si divincolava. Ci voleva una terapia d’urto.

    Con la coda dell’occhio Otabek controllò una cosa.

    Yuuri non stava inseguendo Izumi. Se n’era andato da un’altra parte.

    Bene?

    Prese di peso Yuri, lo appoggiò al tronco di un albero e lo baciò.

    Era sempre pericoloso in questi casi. Il kazako si ricordava ancora il calcio nelle palle in Corea. Questa volta, però, Yuri smise quasi subito di fare l’anguilla isterica e lasciò che la propria bocca venisse ispezionata a dovere dalla sua lingua. 

    Ora andava molto, molto meglio.

    – Questi sono affari tuoi – disse, quando si scostò.

    Yuri annuì, ma aveva uno sguardo strano.

    Aveva ancora tracce di lacrime sulle guance e gli occhi troppo grandi e pieni di una sofferenza che Otabek non si riusciva a spiegare.

    – Le storie finiscono. Le persone si lasciano, a volte. Non glielo puoi impedire – sussurrò.

    – Io lo conosco Yuuri – protestò il russo. – Non lo vuole fare davvero. Vuole solo provare a se stesso che non dipende così tanto da Victor. E si sentirà uno schifo dopo… Come un fazzoletto usato.

    Non stava parlando davvero di Yuuri.

    – Vieni, calmati. Andiamo a bere qualcosa.

    – Ha inseguito la troia?

    – No.

 

    Il McDonald appena fuori dal parco del castello era il posto più comodo in cui infilarsi.

    – Era questo che volevi fare con il tipo del corso, provare a te stesso che non dipendi da me? – chiese.

    Yuri si strinse nelle spalle.

    – Quando non ci vendiamo tu ti fai tipo mezzo Kazakistan. Mi faceva schifo la parte della mogliettina ansiosa.

    Ecco. Non si poteva dire che Yuri non sapesse colpire duro.

     – E ti ha fatto sentire… Un fazzoletto usato?

    Yuri guardò la propria coca cola.

    – Pure peggio, se è per quello. Non gliene fregava davvero niente di me, della mia vita, voleva solo farsi un occidentale bello. Come quella tipa, che vuole farsi Yuuri perché è l’eroe del momento… La cosa dura è capire che può andarti bene… Che hai così bisogno di attenzioni che faresti qualsiasi cosa… E allora capisci che non sei migliore di… Non importa. Ha senso quello che sto dicendo?

    – Non del tutto – ammise Otabek.

    Ma capiva che quello era, in qualche modo, il cuore del problema. E che lui non lo avrebbe mai compreso per intero. Poteva, però, provare ad arrivarci a tentoni. Perché aveva la netta sensazione che se al momento Yuri stava meglio, un cambiamento minimo e che pure poteva essere avvertito con un semplice colpo d’occhio, appena lui fosse ripartito il russo avrebbe ripreso a cercare di ammazzarsi.

    Perché era di quello che stavano parlando. Autodistruzione pura e semplice. Perché si faceva schifo. Un fazzoletto usato…

    – È terribile sentirsi patetici – provò a spiegare Yuri. – Fare qualcosa che ti fa schifo perché senti di averne bisogno. O credi di doverlo fare… Yuuri si sentirà esattamente così, alla fine.

    – Probabile – concordò Otabek. – Ma non si può impedire agli amici di fare cazzate. Al massimo si può raccogliere i cocci, dopo.

    – Speriamo che ci siano dei cocci da raccogliere… Victor ha gettato nel cesso la sua vita per Yuuri.

    Non era del tutto esatto. Ma neppure del tutto sbagliato. Otabek rabbrividì al pensiero di quale potesse essere la reazione di Victor. Tuttavia non era di quei due che voleva parlare. E non sapeva come convincere Yuri ad aprirsi davvero. Forse doveva continuare sulla strada di prima, farlo parlare di sé mentre era convinto di farlo del compagno di allenamento.

    – Quindi, secondo te, Yuuri voleva solo provare qualcosa a se stesso? Non è davvero innamorato di Izumi?

    – Naa. Ma non credo che sia stato a letto con chissà quanta gente, al contrario di Victor…

    – Il valore di una persona mica si misura sul numero di persone con cui hai scopato.

    Yuri lo guardò male.

    Ok. Sapere di riuscire sempre a guadagnarsi una scopata con facilità aveva aiutato, negli anni, a costruire la propria autostima. Ma non è che fosse un valore, anzi. Yuri era speciale anche perché era così indifferente all’effetto che faceva sugli altri il suo aspetto. Lo faceva apparire agli occhi del kazako una divinità altera di cui lui solo aveva il favore. Ma, probabilmente, lui non la vedeva così.

    – Non è bello sentirsi dipendenti da qualcuno che si è fatto mezzo mondo – ringhiò Yuri.

    E non stava più parlando del giapponese. Per niente.

    Cazzo.

    Cos’è che aveva detto Victor?

    «Siamo abituati a dare sempre qualcosa per avere qualcos’altro in cambio».

    Era questo che aveva fatto Yuri, no? Sesso in cambio di affetto.

    Solo che il sesso Yuri glielo aveva dato per intero e in esclusiva, mentre lui l’affetto l’aveva sempre subordinato a un sacco di altre cose. 

    Noi non stiamo assieme. Giusto?

    – Anch’io ti faccio sentire un fazzoletto usato?

    Yuri guardava ancora il proprio bicchiere.

    – Non lo fai apposta – concesse. – E mi piace. È questo che non riesco a sopportare. Che ucciderei per un’altra dose di te.

    Cazzo.

    E io mi comporto come un cliente abituale che sa di trovare sempre la porta aperta.

    Sono io, almeno in parte, che lo sto uccidendo?    

    *

    Che ore erano?

    Non poteva essere tardissimo…

    Il realtà, per quel che ne sapeva Victor, poteva essere un’ora qualsiasi, di un tempo indefinito.

    Era seduto per terra, incuneato tra il letto, quello di Yuuri, e la finestra. 

    Appoggiava la testa sulla felpa che lui aveva lasciato sopra le coperte.

    Non era ancora tornato. In realtà, Victor non sapeva neppure se Yuuri sarebbe tornato…

    La porta si aprì e il giapponese entrò a passo di carica nella stanza.

    – Victor? – chiamò.

    Non lo vide e il russo non aveva la forza per riscuotersi e rispondere.

    – Victor?

    Dalla sua posizione, spiò Yuuri controllare la presenza del portafoglio e della tessera magnetica della camera sul comodino e l’espressione farsi allarmata. Era bellissimo…

    – Victor?

    Adesso lo aveva visto.

    – Victor! Che diavolo ci fai lì?

    Si sarebbe arrabbiato? Il russo sentiva di non avere la forza di litigare ancora.

    Mugugnò qualcosa di incomprensibile. 

    Non era la reazione che avrebbe dovuto avere. Entro due giorni Yuuri avrebbe disputato la sua ultima gara. In patria. Sotto gli occhi di tutti. Non si meritava questo da lui.

    Yuuri aggirò i letti e venne a sedersi di fronte a lui.

    – Yurio dice che c’è qualcosa che non va. A parte me – disse. Aveva un tono dolce, che Victor aveva quasi dimenticato. – Me lo vuoi dire?

    No, non voleva. Ma non poteva neppure farsi trovare in quello stato e fare finta che andasse tutto bene.

    Era terribile scoprirsi così vulnerabili e incapaci di nascondersi.

    – Non sono quello che ho sempre creduto di essere – disse.

    – Il che senso? – chiese Yuuri.

    – Letterale. Non sono Victor Nikiforov, o non dovrei esserlo.

    – Sei impazzito?

    Victor sospirò.

    Non sapeva da dove cominciare.

    Come faceva a spiegare a Yuuri, che si vedeva ogni giorni riflesso nei suoi famigliari, quel senso di oscurità e silenzio? Il fatto che un semplice nome non aveva mai avuto davvero importanza, ma che era comunque una cosa che lui aveva e un sacco di gente invece no?

    – Non sono il figlio dell’uomo che credevo mio padre – ecco, lo aveva detto. – Lui… Mi ha portato in ospedale e mi ha riconosciuto. È anche venuta a trovarmi, un paio di volte, mi ha accompagnato a San Pietroburgo da Yakov. Poi ha avuto un altro figlio. Questo ragazzo, ha vent’anni adesso, pensava… Beh, che potessimo essere fratelli. Ha cercato di contattarmi. Abbiamo fatto delle analisi, ma non siamo parenti… Solo che… Mi ha appena chiamato l’assistente sociale che ha seguito la questione. Lui è davvero figlio di Igor Nikiforov, senza ombra di dubbio. E io a quanto pare no.

    Yuuri appoggiò una mano sul suo ginocchio e Victor la strinse. 

    Negli occhi del compagno c’erano quelle domande inespresse, quell’angoscia che lui non voleva vedere. La pietà che non aveva voluto in nessun modo scatenare.

    – Mi spiace che sia saltato fuori adesso – disse. – Dovrei essere solo in tuo allenatore. Non dovrebbe fregarmene niente, ormai.

    – Non puoi dirlo neppure per scherzo – protestò Yuuri. – È una cosa enorme. Come pensavi di tenerti tutto dentro?

    Victor si strinse nelle spalle.

    – È solo un nome. Che rimarrà tale. A livello burocratico non cambia niente.

    – Cambia per te.

    – Cambia per me – concesse Victor.

    Yuuri era troppo lontano. 

    Colpa sua, che si era incastrato nel punto più stretto e scomodo della stanza in un tentativo puerile di scomparire. I piedi di Yuuri, tuttavia, si incunearono tra le sue gambe ed entrambe le mani ora erano sulle sue ginocchia. Era più vicino di quanto fosse stato da giorni.

    – Quando è saltata fuori la storia, pensavo che questo Nikita fosse una sorta di trappola mediatica. O volesse dei soldi – raccontò. – Invece è solo un ragazzo che cerca di ricostruire la storia di un padre che è morto quando aveva sette anni… Voleva parlarmi… E io pensavo di poter avere… Invece sono ancora più solo di prima… Alcune cose hanno più senso adesso… Perché abbia voluto crescere lui e avere a che fare il meno possibile con me… Adesso mi chiedo se anche la mia data di nascita non sia stata messa a caso. Se ci sia una singola cosa vera in quello che ho sempre creduto…

    Scosse il capo.

    Non erano cose che potessero essere dette a parole. Ci sono oscurità che l’amore può attraversare, ma non può comunque illuminare. Negli ultimi anni aveva camminato sicuro, stretto all’amore di Yuuri. Adesso, però, il terreno gli mancava sotto i piedi.

    – Perché lo avrebbe fatto, riconoscerti?

    Victor si strinse nelle spalle. 

    Yuuri non aveva idea di quanta tenerezza gli suscitasse, nella sua totale ignoranza di certe cose. Il fatto che ci fossero persone così, per cui quella non era la normalità, dava speranza al mondo.

    – Ci sono dei vantaggi a essere padre e un padre solo, in alcune situazioni. Sconti di pena, non essere trasferito in carceri troppo distanti, più permessi…

    Victor sentì le mani di Yuuri irrigidirsi.

    – Ci sono dei vantaggi anche a essere il figlio riconosciuto di un delinquente – si affrettò a dire. – Sono sempre stato trattato con un occhio di riguardo. Il nome di mio padre era associato ad altri che mettevano paura. Nessuno mi ha mai torto un capello.

    Cercò una battuta scema da dire, per far sorridere il giapponese, ma non gliene venne neppure una.

    – Un allenatore non dovrebbe scaricare queste cose sulla testa di un atleta alla vigilia di una gara così importante. Mi spiace.

    – Tra allenatore e atleta non dovrebbe succedere – concesse Yuuri. – Ma in una coppia è diverso.

    Victor cercò con i polpastrelli l’anello sulla mano del compagno. Per un istante temette di non trovarlo.

    – Siamo ancora una coppia? – chiese, con un filo di voce.

    – Victor… Se andasse tutto bene con la gara… Te la sentiresti di fare il galà con me? La nostra esibizione.

    Non c’era neppure da chiedere a quale si riferisse Yuuri. 

    Stammi vicino.

    Da quando si era ritirato, Victor si era sempre rifiutato di esibirsi con Yuuri. Ormai il divario tra loro era imbarazzante o, almeno, lo era ai suoi occhi. 

    Victor sentì la musica e le parole di quella canzone riempire la stanza. Forse, non le aveva mai sentite tanto sue.

    – Non sono io quello che vogliono veder pattinare, qui.

    – Non l’ho chiesto a nessun altro che a te.

    Victor annuì.

    – Se ne sono ancora in grado… 

    – Di umiliarmi? Ne sei in grado quando vuoi.

    Victor sorrise.

    – E dopo…?

    Posso avere di nuovo il mio Yuuri?

    Ma il viso del compagno si fece serio.

    – Dopo dovrò dirti delle cose. E non so se mi vorrai ancora.

 

*

    – No, non sono teso, mamma – mentì Otabek.

    Le videochiamate a casa erano tra le cose più difficili da reggere, prima di una gara, già in circostanze normali.

    – Mi spiace che il mio amico russo si sia ritirato, ma per me è un problema in meno.

    Per sua madre Yuri, che dormiva messo di sbieco nel suo letto, era «l’amico russo». Per evitare che finisse inquadrato accidentalmente, Otabek si era rifugiato in bagno per chiamare casa. Non poteva andare avanti ancora a lungo così, cambiando se stesso ad ogni porta che si chiudeva alle spalle. Se anche lui fosse riuscito a reggere quella vita, le persone che gli erano accanto non ne erano in grado.

    – Come sta papà? – chiese.

    – Abbiamo fatto come hai detto, abbiamo sentito il tuo professore, che ha chiamato in Inghilterra. Potrebbero operarlo tra due settimane. Poi dovrebbe stare là almeno due mesi, per il primo ciclo di chemio…

    Otabek annuì.

    – Va bene. Intanto dovrebbe essere arrivato l’accredito del premio per le olimpiadi. Tu puoi stare con lui. Ci pensiamo io e la zia a badare a Aiman e Bolat per un paio di mesi, tanto per me sono quelli di scarico. Rustam, in ogni caso, fa quello che vuole.

    Sua madre non era convinta. Non aveva mai lasciato Almaty per così tanto tempo.

    – Lo zio dice che non ha senso andare in Inghilterra, tra gli infedeli, quando a Istambul ci sono tante buone cliniche che lui conosce…

    – Di’ allo zio che se tutto è comunque nelle mani di Allah tanto vale fare come dico io. Io ci metto i soldi, io decido.

    Era la prima volta che faceva valere il proprio peso economico all’interno della famiglia. Beh, che si abituassero. Era adulto e quella cosa, il pattinaggio, per cui il caro zio non aveva mai cessato di farlo oggetto di frecciatine, era quella che adesso avrebbe salvato il culo a tutti.

    Neppure sua madre era abituata a quella durezza, da parte sua.

    – È bello vederti così deciso – disse la donna.

    – Davvero?

    Non era il commento che lui si era aspettato.

    – Con la vita che fai da quando sei un ragazzino, sempre in giro per il mondo, avevamo paura che ti saresti perso… Saresti finito in qualche guaio, qualche cattiva compagnia. A un certo punto non ti avremmo più riconosciuto, non te ne sarebbe importato più niente di noi, quando saresti stato famoso…

    Non ti avremmo più riconosciuto…

    Che cosa avrebbe detto sua madre, o lo zio, del ragazzo biondo che si era addormentato nudo nel suo letto?

    – Siete la mia famiglia. Ci mancherebbe altro che non me ne importasse niente di voi – sospirò. – Ma ho anche una vita mia, che probabilmente è… Diversa da quello che sarebbe stata se non avessi praticato questo sport.

    – Certo. Siamo infinitamente orgogliosi di te, tutti quanti. E devi anche cercare di divertirti ogni tanto… Tutte quelle pattinatrici carine che si esibiscono praticamente nude… Sarebbe stupido non approfittarne, no?

    – Mamma!

    – Ah, dimenticavo, Aiman dice di ricordarti quella cosa che ti ha detto… Ha accennato al fatto che hai un debole per i capelli biondi. Mi sa che lei lo sa qual è la pattinatrice che ti piace!

    – Dille che la spello viva con le lame dei pattini. Non sto scherzando.

    Chiuse la videochiamata con un sospiro esausto.

    Si sentiva a pezzi. Il ginocchio gli faceva male, come se tutto quello che sua madre gli aveva scaricato addosso avesse un peso concreto, che le sue articolazioni non avevano la forza di reggere. Ma quella era la sua famiglia. Era la sua responsabilità.

    Rimase in piedi, appoggiato allo stipite della porta del bagno. 

    In equilibrio tra due mondi.

    Dall’altra parte c’era Yuri, con un braccio che penzolava fuori dal letto e l’altro che stringeva il cuscino. 

    Anche lui era una sua responsabilità. Lo aveva corteggiato, lo aveva voluto più fortemente di qualsiasi altra cosa. Ebbene, ora era suo.

    Un fazzoletto usato.

    Si era sentita così anche quella ragazza? Faticava persino a ricordarne il nome… Sezim. Sicuramente sì. Era di certo ubriaca quella sera. Erano ubriachi entrambi, come poteva succedere solo in una festa segreta di universitari per lo più mussulmani, che quando dovevano trasgredire lo facevano in grande e per davvero. Non era una scusa. Perché lei era quasi di certo innamorata, se non di lui, almeno dell’idea di lui che si era fatta guardandola in tv. Com’è che si era giustificato, con il fratello? Era maggiorenne, non era vergine e comunque avevano preso precauzioni? 

    Bello schifo d’uomo che sai essere, Otabek Altin.

    Bene, quando si era portato a letto Yuri la prima volta lui era minorenne, era vergine, non aveva preso precauzioni e non aveva nessun fratello che potesse venire a minacciarlo. E neppure poteva dire di essere ubriaco. Il fatto che fosse un ragazzo e non non una ragazza faceva davvero la differenza?

    Al contrario di quella ragazza, Yuri non aveva alcuna rete di sicurezza. 

    Aveva il pattinaggio, un nonno che viveva lontano, qualche amico, tra cui il compagno di allenamento con cui era quasi venuto alle mani e un allenatore che probabilmente da lì a poco sarebbe stato a un passo dal suicidio. E il suo amore. Perché era di quello che si trattava.

    Era ora che guardasse in faccia alla realtà.

    Quei due mondi, la sua famiglia e Yuri, non potevano convivere. Era lui che doveva scegliere.

    Non doveva necessariamente varcare la soglia in quel momento. Almeno finché la sua carriera agonistica non fosse terminata nella prassi poteva continuare a tenere divisi i mondi. Ma dentro di sé doveva scegliere in quel momento. Yuri non poteva andare avanti così. Doveva accettare che fosse tutto per lui, o lasciarlo per sempre.

    Sospirò e tornò in bagno a recuperare il telefono lasciato sul bordo del lavabo.

    Automaticamente controllò le notifiche.

    E imprecò.

    Su istagram c’era una foto che ritraeva in modo inequivocabile Yuuri intento a baciare Izumi. Sotto c’era un commento di Zhang che neppure si preoccupò di leggere.

    Speriamo che ci siano dei cocci da raccogliere…

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** -1 giorno ai Campionati Mondiali di Osaka. Mattina ***


– 1  giorno ai Campionati Mondiali di Osaka

 

    Yuuri dormiva.

    A pancia in giù, con la testa di lato, una guancia schiacciata nel cuscino. Una mano emergeva dalle lenzuola e ogni tanto si contraeva nel sonno, come se volesse aggrapparsi al materasso.

    Victor lo osservava seduto sul proprio letto, già vestito, anche se non era ancora l’alba.

    Nonostante tutto, gli suscitava una tenerezza infinita.

    Anni prima, quando si era trasferito in Giappone da poco e cercava ancora di far convivere il grande atleta simbolo della Russia con la sua nuova vita, aveva cercato di spiegare a Chris cosa fosse Yuuri per lui.

    «Non c’era mai stato nulla di puro nella mia vita, prima».

    Bene, anche quell’idea di purezza se ne era andata per sempre.

    E tuttavia Yuuri rimaneva Yuuri. Qualcosa di prezioso e fragile e bellissimo. Da proteggere e costudire contro tutto e tutti. Anche e sopratutto dallo stesso Victor.

    Non avrebbe mai voluto svegliarlo. Avrebbe preferito congelare tutto e rimanere a guardarlo in quel modo per sempre. Forse, morire in quel momento, insieme a lui.

    Aspettò ancora un istante, per imprimersi ogni particolare nella memoria, per quando non avrebbe avuto più null’altro di lui.

    Poi allungò la mano e gli accarezzò il viso.

    Yuuri mugugnò qualcosa e girò il viso dall’altra parte. Lasciando comunque una guancia scoperta. In una qualsiasi altra mattina Victor si sarebbe goduto il momento.

    – Buongiorno – gli disse, quando finalmente Yuuri aprì gli occhi e cercò di metterlo a fuoco con gli occhi miopi.

    – Mmmm...

    – Tra meno di due ore hai l’allenamento.

    – È tra un sacco di tempo.

    La testa si infilò direttamente sotto il cuscino.

    Con un sospiro, Victor lo requisì.

    – No. Mettiti gli occhiali.

    Il giapponese sbuffò, ma li cercò a tentoni sul comodino e se li infilò, mentre Victor estraeva il proprio cellulare.

    – È questo che mi dovevi dire dopo la gara? – chiese il russo, mostrando la foto di Yuuri e Izumi.

    Il giapponese afferrò il cellulare, mentre si metteva seduto. Scosse il capo e lo restituì.

    – Anche.

    Bene. Nessuna patetica frase sul fatto che non fosse come sembrava o cose del genere. Erano adulti, no? Potevano chiudere la questione in modo civile. Potevano?

    – Quanto sei arrabbiato? – chiese Yuuri.

    – Non provo niente adesso – rispose Victor, sincero. – Mi sento solo vuoto. Ed esausto.

    Yuuri annuì.

    – Mi arrabbierò, però – aggiunse il russo. – E sarebbe preferibile per te essere lontano in quel momento.

    Yuuri annuì di nuovo.

    Sembrava… Stanco? Svuotato quanto lui? Del tutto indifferente?

    – È stato Yurio a postare la foto? – chiese.

    – Yurio? No, è stato Zhang – rispose Victor.

    Questo causò un mezzo sorriso amaro sulla labbra di Yuuri.

    – E io che pensavo di aver visto il peggio con J.J… Evidentemente spera di destabilizzarmi così.

    – La foto è falsa? È un fotomontaggio?

    Victor non ci credeva, ma una parte di lui era disposta a far finta di farlo, almeno fino al termine dei mondiali.

    – No. Ieri sera ho baciato Izumi – disse Yuuri. Con sforzo evidente alzò lo sguardo per incontrare i suoi occhi. – Non ho scuse. 

    – Ti metterai con lei?

    Yuuri scosse il capo.

    – Voleva una vacanza con me, non una storia – sospirò. – Speravo di essere una persona migliore, Victor. Ti meritavi una persona migliore, ma sono così.

    Il russo valutò l’idea di sollevare Yuuri di peso e scrollarlo fino a fargli dire in faccia il perché. Ma a cosa sarebbe servito? Lo sapeva già il perché. Si era chiuso talmente in se stesso e nei suoi guai da tagliare fuori Yuuri. Non aveva più niente da dargli e lui lo aveva capito. Ma erano dei professionisti. E il giorno dopo c’era il corto dei mondiali.

    – Non ce la faccio a venire all’allenamento, oggi – disse. Adesso ogni parola era come un bolo pieno di spine da tirare fuori dallo stomaco. Ogni singola sillaba faceva sanguinare – Ho già sentito Celestino. Ti darà un occhio lui. Gli ho detto che non provi i salti da giorni… Intanto mi faccio trasferire in un’altra stanza. Nel pomeriggio parlerò con Celestino e vedremo di sistemare al volo le ultime cose. Mi spiace.

    – Victor, io…

    Ecco, quello era il tono delle scuse. Quello che voleva a tutti i costi evitare.
    Ma Victor non voleva sapere, non voleva parlare o ascoltare. Voleva solo che Yuuri se ne andasse e lasciarsi cadere sul letto. Sarebbe arrivato il dolore. Sarebbe arrivata la rabbia. Il desiderio di sapere. La necessità di farsi ancora più male nel sentirsi urlare addosso tutto quello che aveva fatto, o non fatto, per portare Yuuri a quel punto. Ma non adesso. Non era una questione di volontà. Semplicemente non ce la faceva. Ogni parola, ogni gesto, era una fatica insopportabile.

    – Sono ancora il tuo allenatore. Per tre giorni. E sarà terribile, ma cercherò di farlo con la massima professionalità. Ma non sono più null’altro.

     

    Nel giro di dieci minuti Yuuri era pronto ad uscire. Dieci minuti in cui Victor era stato del tutto immobile a fissare la decorazione azzurra e gialla delle lenzuola del letto, senza riuscire a fissare un pensiero o una sensazione, che non fosse quello stordimento vuoto, come il risveglio da una sbronza triste.

    – Victor? – disse Yuuri.

    Stava già uscendo. Aveva la porta già aperta e un piede fuori dalla sua vita.

    – Sì?

    Yuuri si fermò un attimo sulla soglia, incerto, prima di parlare.

    – Non stare da solo. Questa mattina, non stare da solo.

 

*

    Otabek sospirò.

    Era un po’ che non gli capitava di sentirsi solo durante un allenamento ufficiale prima di una gara importante. Senza Yuri nello spogliatoio con lui. Yuuri non era ancora arrivato e, in tutta sincerità, il kazako sperava di averci a che fare il meno possibile. Gli altri erano quasi tutti degli illustri sconosciuti. La verità era che iniziava ad avere un’età per cui la maggior parte degli atleti con cui aveva condiviso gli ultimi dieci anni si erano ritirati. Anche se non era un tipo propriamente espansivo, erano facce note, che era abituato a vedere, a leggere. Con qualcuno di loro era stato anche in grado di scambiare due parole in modo civile, in alcuni casi anche piacevole. 

    Basta, era meglio così. Niente distrazioni, pensare solo alla gara. Il suo allenatore lo aspettava a bordo pista e lui doveva fargli vedere le modifiche alla coreografia che aveva studiato con Yuri e Victor. Vedere se era davvero in grado di fare quei movimenti che agli stramaledettissimi russi uscivano così semplici dopo i salti e tutto il resto.

    Fece per uscire dallo spogliatoio e proprio sulla porta apparve Zhang.

    Otabek inspirò e si obbligò a distendere le mani.

    – Ho visto che la tua fidanzatina si è ritirata – esordì il cinese. – È davvero una ragazzina se le fa ancora male la spalla per quella stupida caduta.

    – Se pensi di far squalificare me portandomi a romperti il naso nello spogliatoio ti sbagli di grosso – sibilò Otabek.

    – Far squalificare te? E perché mai dovrei? Non sei certo un avversario temibile.

    – Intanto alle olimpiadi ti ho dato tre punti – replicò il kazako. – Ricordatelo.

    Quello gli aveva fatto male. Otabek lo vide stringere i denti, proprio come se avesse appena ricevuto un pugno. Per un istante, un istante soltanto, apparve per quello che era, un ragazzo appena diciottenne, caricato di troppe aspettative.

    – Questa è un’altra faccenda – disse, dopo che ebbe recuperato il pieno controllo di sé. – Tu sei un bravo soldatino, Altin, ma non sei, non sarai mai, un campione del mondo. Ce l’hai un salto che nessun altro al mondo sa fare? Perché è con quello che si vince, non con i movimenti da accademia.

    – Si vince con i salti o con le foto pubblicate nelle notte? – ringhiò Otabek, per non far capire che adesso era lui che era stato colpito.

    – È solo una cosa che mi è stata girata. Magari a Kastsuki fa piacere far vedere che è diventato un uomo.

    Al diavolo tutto. Adesso gliela spacco, la faccia…

    – Scostati. Devo andare ad allenare i miei movimenti da accademia – ringhiò.

    Con una saggezza che quasi dispiacque a Otabek, Zangh lo lasciò passare.

 

    – No, non mi sono fatto distrarre da quello che è successo agli altri – disse Otabek al proprio allenatore.

    Possibile che non ci fosse nessuno, proprio nessuno, all’interno del mondo del pattinaggio che non avesse visto la foto di Yuuri e non ne avesse tratto le proprie conclusioni? 

    – Mi dispiace per loro, ma te l’ho detto, io questa gara devo vincerla.

    E doveva anche iniziare a pensare a come.

    Un salto che nessun altro sa fare…

    Yuuri, che stava entrando in pista proprio in quel momento, scuro in volto, avrebbe fatto il quadruplo Axel. Alle olimpiadi, maledizione a lui, lo aveva piazzato addirittura nella seconda metà del programma e si era portato a casa il record del mondo. Zhang a quanto pareva intendeva essere il primo atleta al mondo a completare in gara un salto quintuplo. E lui, con i suoi stupidi quattro quadrupli, con il Lutz ancora da ottimizzare e un ginocchio che tutto voleva fare meno pattinare, dove pensava di andare? E sì che era il migliore, il migliore davvero, tra gli esseri umani, tra quelli che non erano gli “unici al mondo a…”.

    Basta. 

    Doveva provare la propria coreografia. Piangersi addosso non era mai stato il suo modo di stare sul ghiaccio. Né mai si era illuso che fossero tutti amici. Era una guerra, no? E in guerra non sempre vince il miglior condottiero. A volte vince chi ha più resistenza o costanza e sa stringere i denti.

    A proposito di stringere i denti…

    Yuuri aveva inizia a provare il proprio corto, ma si era bloccato prima del primo salto ed era tornato ad appoggiarsi alla balaustra del bordo pista. Victor non c’era, ovviamente. A quanto pareva era stato arruolato per l’occasione il suo vecchio allenatore italiano. 

    Otabek vide che anche Zhang era arrivato in pista e stava puntando con decisione verso Yuuri.

    Se quella era una guerra, anche gli alleati potevano sbagliare, ma non dovevano in ogni caso essere lasciai soli ad affrontare il nemico.

    – Yuuri? – lo chiamò, quando fu vicino.

    Il giapponese aveva una faccia… Beh, non ci si poteva certo aspettare che fosse rilassato e sorridente.

    – Quella foto… Non l’abbiamo scattata o messa in giro noi – disse.

    Yuuri scosse il capo.

    – So che non l’avreste mai fatto.

    Zhang intanto aveva visto che non era cosa e si era rassegnato ad allenarsi.

    Bene, anche Otabek doveva farlo.

    – Otabek…? – lo chiamò Yuuri.

    – Sì?

    – Questa cosa, il pattinaggio, l’ho sempre odiata almeno quanto l’ho amata.

    – Credo che valga più o meno per tutti noi – replicò Otabek. – Nessuno ha idea, davvero, da fuori, di quanto male faccia…

    Kuma era lì anche quel giorno per riprendere gli allenamenti, un po’ meno invasivo del solito. Di certo vedeva un gruppo di persone scivolare sul ghiaccio, apparentemente senza peso, eseguire con naturalezza una serie di esercizi che sembravano di una banalità sconcertante. Nulla dava l’idea del dolore che ciascuno di loro si portava appresso, delle articolazioni a un passo dal cedere, dai muscoli tesi oltre il naturale o dei cuori spezzati.

    – Abbiamo costruito tutta la vita sull’idea che ne valesse la pena – continuò Yuuri. – Nonostante tutto e tutti. A costo di sacrificare qualsiasi cosa…

    – Ne vale la pena. Non siamo nessuno senza i pattini ai piedi. Ma qui noi possiamo… Beh, quasi qualsiasi cosa.

    Salvare la propria famiglia. Costruirsi un amore impossibile. Conquistare il proprio brandello di eternità.

    Yuuri annuì.

    – Mi prendo una pausa – disse. – Scusami con Celestino, se mi cerca. E non preoccuparti per quella foto. Sarebbe uscito comunque. È andata bene così.

    Detto questo si avviò verso l’uscita della pista.

    – Yuuri! – gli disse Otabek, inseguendolo. – Non fare cazzate, ok? Non farci preoccupare. C’è un sacco di gente che ti vuole bene.

    – Lo so. Va tutto bene. È proprio per questo che ho bisogno di fermarmi un attimo per pensare.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** -1 giorno ai Campionati Mondiali di Osaka. Verso mezzogiorno ***


    – È tornato all’allenamento?  – chiese Yuri.

    – No – replicò Otabek. – Ma ha mandato un messaggio a Celestino per dire che stava bene. Hai sentito Victor?

    Il russo scosse il capo.

    – Ho chiamato, ma non ha risposto.

    Non voleva darlo a vedere, ma era preoccupatissimo per entrambi. 

    Aveva portato il nonno a fare il giro turistico della città e poi si era precipitato a trascinare il kazako nel bar più vicino al palaghiaccio per avere notizie. Solo che Otabek non ne aveva. E gli scocciava, ma era preoccupato anche lui. E amareggiato. Victor e Yuuri erano la prova che l’amore era una cosa concreta, più tangibile della rivalità sportiva, dei problemi logistici e dei pregiudizi radicati. Il kazako non si considerava un tipo romantico. Aveva applaudito con serietà quando, a Barcellona, ormai così tanto tempo fa, avevano annunciato il proprio fidanzamento, ma non aveva pensato davvero che sarebbe durata. Non l’aveva pensato nessuno. Era stato un bel gesto, questo sì, ma che aveva considerato effimero. Poi però il tempo era passato e Victor e Yuuri avevano retto a tutto, comprese le pressioni esplicite e le aggressioni fisiche. Otabek non sapeva, in tutta sincerità, se senza vederli a ogni gara o quasi avrebbe avuto il coraggio di corteggiare Yuri o di portare avanti quella relazione per quattro anni. A pensare che forse valeva la pena che fosse qualcosa di più che una parentesi di sesso a corollario delle gare. Eppure, a quanto pareva, bastava un periodo di stanchezza, una donna qualsiasi che faceva gli occhi dolci e tutto cadeva. Persino Yuuri. Chiunque avrebbe detto che il potenziale traditore, tra i due, sarebbe stato Victor, che per anni non aveva fatto che sfarfallare da un letto all'altro… C’era da dare ragione a sua nonna. Alla fine, uscivano quasi meglio i matrimoni combinati. Tanto tutte le donne mentono e tutti gli uomini tradiscono.

    – Com’è andato l’allenamento? – chiese Yuri, per cambiare discorso.

    – Bene – mentì Otabek.

    Zhang era in forma, il maledetto. Lo aveva visto provare un quadruplo Toe Loop con un’elevazione folle. Avrebbe fatto il quintuplo in gara, di sicuro. A lui, invece, il Lutz continuava a dare problemi. Meno che negli ultimi tempi, ma era lontano dalla perfezione. Il ginocchio gli faceva male. La razionalità gli diceva che quasi di sicuro sarebbe stato da operare. Menisco,  sicuro, forse anche i legamenti erano danneggiati... Altri soldi, altro tempo da sottrarre a tutto…

    – Lo azzoppo, se vuoi – propose Yuri, che non era cascato nel suo bluff.

    – E come? Hai mangiato, piuttosto?

    – Ho pranzato con mio nonno.

    Otabek lo guardò male.

    – Non mi va. Se mangio adesso di sicuro poi sto male – protestò il russo, come un bambino.

    – Se non mangi adesso di sicuro poi stai male, perché ti do un pugno sulla tua spalla semi guarita.

    – Non lo faresti mai.

    – Non sfidarmi.

    Yuri sospirò, ma chiamò la cameriera per ordinare qualcosa.

    – Che spreco, però – disse qualche minuto dopo, mentre cercava di trovare interessante il proprio gelato. – Organizzare tutta la propria vita su una cosa che poi sparisce così… E mio nonno che mi diceva di non puntare tutto sul pattinaggio.

    – Si dice che sia meglio amare e perdere l’amore che non amare affatto.

    – E tu ci credi?

    – Non lo so, ma è una frase che suona bene.

    Non lo sapeva davvero.

    Voleva Yuri. Questo era certo. In un modo possessivo che quasi lo spaventava. Ma non avrebbe mai voluto trovarsi come Victor, solo in un paese straniero, con tutti i legami col proprio passato recisi, ad ammirare le macerie della propria vita.

*

    Victor sentiva come qualcosa di lontano, come i tuoni di un temporale ormai passato, i colpi sulla porta.

    – Aprimi! Maledizioni, aprimi!

    Ma chi?

    Chris?

    Cosa diavolo ci faceva lì Chris?

    Il commento tecnico per la televisione svizzera, ovvio. Cos’è che aveva detto quando ne avevano parlato? Che non poteva fermarsi per i suoi mille impegni di eroe nazionale/commentatore/stilista e chissà cos’altro.

    – Sto chiamando la sicurezza. E i paramedici. Vedi di essere quanto meno svenuto, perché in caso contrario dovrai dare un sacco di spiegazioni!

    Stava dicendo sul serio? Sì, probabilmente sì.

    Potevano essere… Dieci minuti buoni che stava bussando a quella porta. E c’erano cinque sue telefonate non risposte sul cellulare.

    Sarebbe stato davvero ridicolo farsi trovare dal personale del soccorso.

    Con uno sforzo immane, si alzò e si trascinò fino alla porta.

    – Ti apro – biascicò.

    Bene, Chris con la barba ancora dal giorno prima, i capelli appiccicaticci di sudore e tutta quell’aria sfatta di chi non si è ancora dato una sistemata dopo un volo intercontinentale era uno spettacolo che valeva la pena di ammirare. In un altro momento lo avrebbe apprezzato.

    – Chi ti ha detto di venire qui? – chiese.

    – Vuoi l’elenco in ordine alfabetico o cronologico? – replicò l’altro. – In entrambi i casi ci trovi dentro anche il tuo fidanzato. Ex fidanzato.

    Ex fidanzato. Beh, era il caso che si abituasse.

    – Allora? Hai preso barbiturici? Sonniferi? Dove stanno le lamette da barba? Il cappio?

    – Si può sapere perché è opinione comune che sia a un passo dal suicidio? Persino Yakov mi ha scritto di non fare cazzate.

    Ma era troppo stanco. Troppo stanco persino per farsi del male. Non era nemmeno riuscito a lasciare la stanza per andare a chiederne un'altra. Aveva strisciato fino alla porta per posizionare l'avviso di non disturbare e poi era tornato in quella sorta di catatonia. Aveva avuto mattinate simili, in passato, in momenti cupi, con serata e che non riusciva o non voleva ricordare... Ma adesso, era tutto irreale e ciò che riconosceva meno era se stesso e le proprie reazioni.

    Chris, intanto, sogghignava per le sue parole.

    – Perché il tuo ego può sopravvivere a tutto, ma non a delle corna in pubblica piazza.

    – Grazie tante, eh. Non stai partendo bene, come spalla su cui piangere.

    – No? Ma se sono arrivato qui tutto trafelato, sul mio cavallo bianco, nella speranza di trovarti emotivamente instabile e pronto a cadere nelle mie braccia.

    Victor ebbe la tentazione di reagire in modo letterale e lasciarsi cadere a peso morto su Chris, ma intanto era riuscito a fare un mezzo sorriso. Un punto per lo svizzero.

    Chris si era tolto lo zaino e si era seduto su uno dei letti sfatti come se fosse il padrone di casa.

    – Sei ubriaco? – chiese.

    – No.

    Iniziava a sentirsi ridicolo nell’ammettere che non aveva fatto neppure una delle cose stupide che la gente si aspettava da lui in quel frangente.

    – Ok, allora apriamo il frigobar o ordiniamo qualcosa e cerchiamo di capire quello che è successo.

    – Non c’è molto da capire. Il mio ego non può reggere a delle corna in pubblica piazza, lo hai già spiegato bene.

    – Sì, come no? Alle olimpiadi eravate la coppia più innamorata del mondo e di colpo, ops, lui se ne va con… Con chi, a proposito?

    – Izumi. La documentarista che sta girando un film su di lui.

    Eravamo davvero la coppia più innamorata del mondo? Lo siamo mai stati?

    – Che è… La dea del sesso? Elena di Troia? Devo conoscerla assolutamente questa donna che in meno di un mese diventa più appetibile di te agli occhi di Yuuri.

    Niente, Chris era un cretino impenitente. Ma dio solo sapeva quanto Victor ne avesse bisogno in quel momento. Intanto gli aveva dato retta anche sull’altro suggerimento. Nel frigobar c’era un whiskey. Per quanto assurdo fosse, i giapponesi sapevano fare del buon whiskey. Però era poco. Lo versò in due bicchieri che guardò con astio.

    – Deve piacerti il modello giapponesina con gli occhi languidi.

    – Santarellina fuori e puttana dentro?

    – Evidentemente.

    – Ma in ogni caso non siete due adolescenti che stanno insieme da quindici giorni. Che cos’ha da offrire?

    Victor si strinse nelle spalle.

    – Una relazione ufficializzabile. Famiglia. Alla lunga dei bambini. Cose così.

    Prese il proprio bicchiere e lo svuotò d’un sorso.

    – Ok, piano… Devi rimanermi lucido per un po’… E comunque no. Quelle sono le cose che desideri tu, non lui.

    – Eh?

    – Ok, non dei bambini, magari. Ma il matrimonio in grande stile? E chi è dei due che ha sempre voluto rimarcare il proprio status di fidanzato ufficiale? Non mi sembra che a Yuuri ne sia mai fregato gran che, finché poteva averti tutto per lui.

    – Le cose cambiano. Ha gli occhi di tutto il Giappone puntati addosso, il suo migliore amico è diventato papà e persino sua sorella si è sistemata… A un certo punto inizi a chiederti se tu non ti stia perdendo qualcosa di importante…

    Chris scosse il capo.

    – Questi sono sempre ragionamenti tuoi. Magari c’è qualcosina di vero, eh… Sono domande che ci facciamo tutti, a un certo punto… Ma per buttare via una relazione di anni in un mese devi essere proprio sicuro di essere portato all’altare. C’è un matrimonio in vista? L’ha messa incinta?

    Sull’ultima domanda Victor iniziò a tossire, soffocato dalla sua stessa saliva.

    – Dillo che sei tu il mio suicidio, che sei qui per ammazzarmi – disse, quando ebbe ripreso a respirare.

    – Sta per sposarla? L’ha messa incinta? – replicò serafico Chris.

    – No! E mi auguro proprio di no! A quanto mi ha detto non pensa neppure di mettercisi insieme…

    – Bene, quindi possiamo dire che questa Izumi è capitata.

    – Capitata? È capitato così, che la sua lingua cadesse dentro la bocca di lei?

    – Beh, a me è capitato un sacco di volte. A volte la bocca era la tua e non ti è propriamente dispiaciuto.

    – Grazie al Cielo, Yuuri non è te.

    – Uff… In ogni caso, se non è una la donna della sua vita ed è capitata, allora Yuuri stava scappando. Cosa gli hai fatto? Lo hai picchiato? Violentato? Un gioco erotico finito male?

    – …

    – No, ok, ho esagerato, non svenirmi. L’hai tradito?

    – No!

    – Sicuro?

    – Smettila, Chris, non sei divertente.

    – Quindi?

    Victor prese un respiro.

    – Sono stato… Pessimo, negli ultimi tempi. Pessimo come allenatore, alle olimpiadi abbiamo rasentato il disastro… E poi mi sono successe altre cose, da cui ho tagliato fuori Yuuri. Credo di aver passato le ultime settimane a comunicare a monosillabi. O a dargli ordini.

    Chris si fece serio e si passò una mano sulla guancia ispida di barba.

    – Non posso parlare per le ultime settimane, ma alle olimpiadi c’ero. E sì, come allenatore sei stato pessimo. Ma nessuno, tanto meno Yuuri, te ne ha fatto una colpa. Stavi male. Se ti fossi preso un virus di qualche tipo il risultato sarebbe stato lo stesso. Gli atleti non vorrebbero doverlo ammettere, ma anche gli allenatori sono esseri umani.

    – Se mi fossi beccato un virus sarebbe stato diverso. Per me, almeno.

    – Per te – concesse Chris. – Ma il succo non cambia. È stato… Ok, è stato terribile vederti avere un attacco di panico in pubblico e per un pavone come te dev’essere stato devastante. Ma Yuuri non ti ha certo tradito perché non l’hai seguito in qualche allenamento o non l’hai lasciato riposare a dovere.

    – No?

    – No.

    – Neppure se si fosse finalmente accorto che io sono questa persona qui… Una zavorra, per lui? Ormai è lui l’eroe nazionale e io non ho più nulla da dargli.

    – Sei geloso del fatto che con i due ori olimpici abbia fatto qualcosa che a te non è riuscito?

    – No… Ma è strano essere io quello sulla riva a guardare

    Chris gli riempì di nuovo il bicchiere e Victor bevve in modo automatico.

    – Aranciata? – protestò.

    – Ubriaco non ti posso reggere, adesso – si giustificò Chris.

    – Ammettiamo che tu sia stato insopportabile, dalle olimpiadi in poi – continuò lo svizzero. – Ci sono almeno due cose che non mi tornano.

    – E sarebbero?

    – Ricordo distintamente di aver fatto da giudice a una gara di baci, a fine olimpiadi, e di aver dato la vittoria a te e Yuuri perché eravate davvero la coppia più innamorata del mondo. E la sera del libero lui ha dedicato la vittoria al suo allenatore e tu sprizzavi d’orgoglio. Eravate stravolti tutti e due, alla fine, ma a nessuno è venuto in mente che poteste essere in crisi come coppia.

    Era vero? Victor faticava a fissare i ricordi e a fidarsene. 

    Era stato orgogliosissimo, davvero, di Yuuri. Negli ultimi anni aveva centellinato le gare, per allungare il più possibile la propria carriera. Non era abituato a gareggiare con un infortunio serio, imbottito di antidolorifici. E aveva pattinato meravigliosamente. Era stata la sua performance migliore, con quel quadruplo Axel alla fine, come nessuno al mondo, probabilmente, avrebbe mai fatto. E i giorni successivi erano stati belli. Lui aveva iniziato a stare meglio. Chiunque avrebbe detto che il peggio era passato…

    – La seconda cosa?

    – Quante storie serie, durate più di due settimane, hai avuto prima di Yuuri e quante volte sei stato lasciato?

    Victor si strinse nelle spalle. Prima di Yuuri tendeva ad avere scopate, non storie. Oppure, prima che diventassero storie, se ne andava. 

    Chris sbuffò.

    – Va bene, immagina. Hai in piena coscienza baciato un’altra in pubblico, in qualche modo volevi farti beccare. Volevi fare del male al tuo compagno, questo è certo. Vieni mollato. E la prima cosa che fai è preoccuparti che il tuo ex, che ti ha appena mollato, che hai voluto ferire nel modo peggiore che ti sia venuto in mente, venga soccorso? Facendo due calcoli Yuuri non è arrivato neppure nella hall prima di scrivermi. È stata la prima cosa in assoluto che ha fatto appena fuori da questa stanza. Non sta scappando da te, ma da se stesso.

    Non stare solo.

    Era quella l’ultima cosa che gli aveva detto, uscendo. Non «addio». Non «ti odio». Non «è finita».

    Non stare solo.

    Si prese la testa tra le mani.

    Cos’è che stava succedendo a Yuuri e di cui non si era accorto?

    – È sotto pressione in un modo terribile – disse. – Un cinese non può vincere i mondiali in Giappone. Solo che se Zhang piazza davvero un quintuplo, ci vuole una performance come quella delle olimpiadi per batterlo e io e Yuuri sappiano che quella è una cosa che si fa una volta nella vita. Il resto del mondo no. Quelli che hanno tappezzato la città con i suoi poster e girano con le magliette con su la sua faccia non lo sanno… È stanco da non reggersi in piedi eppure si sveglia appena in casa si muove una foglia… Izumi ha avuto senza dubbio più pazienza di me con lui, lo è stata ad ascoltare, mentre io mi sono chiuso in me stesso nel tentativo idiota di non fargli pesare i miei problemi…

    – Lascia stare Izumi. Rimani concentrato su Yuuri.

    – È la sua ultima gara, l’ultima in assoluto… Noi la conosciamo quella sensazione di stare per buttarsi dentro un baratro buio che ti prende a fine carriera, no? Il terrore di non valere niente se non in gara…

    – Uhm… 

    – Cosa ne pensi, Chris?

    – Che è tutto vero. Che tra te che ti vergogni di essere un comune essere umano e lui che non può mostrare di esserlo siete una mistura esplosiva. Ma mi manca ancora la miccia accesa.

    – Izumi.

    – Smettila con Izumi. Non è lei il problema, qui. Te lo dice uno incline al tradimento… C'è altro... Non ci si incasina così la vita prima di un Mondiale, prima del proprio ultimo Mondiale, se non si è nel panico...

    – Yuuri è sempre il panico prima delle gare... In tutti questi anni è migliorato, ma non ne è mai uscito del tutto. Se litighiamo è sempre prima di una gara,,,

    – Sì, ma ammetterai che questo è un po' oltre... Vediamo... Hai in mente quella sensazione che hai quando sei sicuro che una gara importante andrà malissimo?

    – Sì.

    Chris fece una faccia poco convinta.

    – Fammi un esempio concreto di una volta che ti è capitato e aveva più di vent’anni.

    – Il libero in Corea.

    Chris fece un sorriso storto e si passò una mano sugli occhi.

    – E poi ti stupivi che tutti gli avversari ti odiassero?

    – Perché? – protestò Victor.

    – Hai preso il bronzo in Corea, maledetto pazzo. Praticamente non hai saltato, ok, ma hai pattinato benissimo. Mia nonna, ti prego di ascoltare bene, mia nonna mi ha sgridato perché ho pattinato peggio di uno tutto rotto. E lei non sa nulla di punteggi, parlava di pura estetica.

    Victor si portò una mano alla bocca in una di quelle espressioni che di solito lo tiravano fuori dalle situazioni imbarazzanti.

    – Gli europei del 2012 te li ricordi? – chiese ancora Chris.

    Victor stava per scuotere il capo. Le gare tendevano a mescolarsi tra loro, nella sua testa, a meno di non avere delle foto che lo aiutassero a fissare i ricordi. Aveva vinto, giusto? Nel 2012 aveva vinto tutto quello che si poteva vincere… Però…

    – Il tuo ginocchio! – esclamò.

    Chris aveva fatto una caduta terrificante, una di quelle cose che nessun pattinatore vorrebbe mai veder succedere, tanto meno a un amico. Era stato portato via in barella e operato d’urgenza. Era un miracolo che poi avesse recuperato così bene.

    – Appunto – disse lui. – E io lo sapevo di non essere in forma, che il ginocchio era lì lì per cedere. Ma che cosa dovevo fare? Tutti si aspettavano così tanto da me. Per una santa volta avevo dei programmi che potevano battere i tuoi, te l’avevo quasi fatta al Grand Prix… Max sarebbe venuto a vedermi, per la prima volta. E io lo sapevo che sarebbe stato un disastro. Avrei anche potuto ammazzarmi. Ti giuro che l’avevo messo in conto. E non volevo che lui lo vedesse, perché non c’è nulla di peggio che vedere la persona che ami che si massacra in quel modo… E qual era il sistema più rapido e sicuro per allontanarlo?

    – Tradirlo e farsi beccare – sussurrò Victor con un filo di voce.

    – Attenzione, non è che fosse un piano consapevole. Era più “un’ultima botta prima di morire” come spirito, ma sotto sotto c’era quello. E lui comunque era carino e mi ci sono divertito… Victor? Niente attacchi di panico… Sei andato benissimo fino ad ora…

    Il russo scosse il capo. Si rese conto che aveva agguantato uno dei cuscini e lo stava torturando.

    Rivide Yuuri a terra, dopo quel tentativo di quadruplo Axel. Pallidissimo. Non era solo dolore. Era spaventato a morte. 

    Eppure non c’era niente di grave, giusto? Solo un’incrinatura al bacino ormai guarita. Ed era l’unica cosa che lui gli avesse chiesto come promessa solenne. Fermarsi prima di procurarsi un danno irreparabile…

    Ma un cinese, quel cinese, che aveva abbattuto Yuri in quel modo, non poteva vincere in Giappone.

    Cazzo.

    Una volta, come battuta, aveva definito Yuuri un samurai vestito da ballerina. Ai suoi occhi occidentali, aveva l’impostazione etica dei samurai di certi film, che si ammazzano piuttosto che tradire una promessa. Per questo aveva l’incrollabile certezza che Yuuri non gli avrebbe mai nascosto un infortunio, anche se non lo accompagnava quasi mai alle visite lì in Giappone, se non su espressa richiesta, come sostegno morale, dato che il gergo medico locale continuava a farsi beffe di lui. Ma ci sono lealtà superiori, superiori persino all’amore. Un cinese non poteva vincere in Giappone, in diretta e in prima serata. Il samurai non si ritira da un duello d’onore solo perché è ferito. E, ancora prima di immolarsi in sacrificio per la patria, quella contrapposizione di lealtà inconciliabili ne avrebbe dilaniato l’animo. Se sapeva di doversi fare male sul serio, Yuuri lo avrebbe allontanato. A qualunque costo.

    Idiota di un Victor!

    Senza dire altro, si precipitò a cercare la valigia di Yuuri.

    Tutti i professionisti vanno sempre in trasferta con gli ultimi referti medici, in caso di infortunio non si sa mai in che ospedale si finisce e bisogna avere la documentazione a portata di mano…

    C’era una cartelletta intera di lastre alla schiena.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** -1 giorno ai Campionati Mondiali di Osaka. Verso Mezzogiorno e poco dopo ***


   Yuuri si era rifugiato in bagno. Era dentro da ore.

    Se c’era una cosa che negli ultimi mesi aveva imparato, era a fare gli esercizi di respirazione per obbligare corpo e mente a calmarsi.

    A non piangere. 

    A non impazzire.

    C’è un sacco di gente che ti vuole bene.

    Era vero. E stavano cercando tutti di contattarlo. Sullo schermo del cellulare continuavano ad apparire notifiche di messaggi. I più fastidiosi erano quelli di Izumi.

    «Dobbiamo parlare. Si può sapere perché sei scappato così?»

    Quello più commuovente, a modo suo, era quello di Yurio. 

    «Se dopo questa non batti Zhang ti stacco la testa a morsi. O la stacco a lui».

    La sera prima gli gridava dietro in piazza e adesso era pronto a uccidere il cinese per lui, se ne avesse avuto l’opportunità. Poi c’erano Phic, Ken e altri cinque o sei pattinatori. Gli amici con cui ogni tanto lui e Victor uscivano, conosciuti a un corso sul cinema che avevano frequentato insieme. Tamura e altri della federazione giapponese. Il fisioterapista della squadra. Tre delle juniores che seguiva Yuko. Lei e Minako dopo aver cercato invano di parlare con lui avevano deciso di venire a Osaka la sera stessa e non il sabato per il libero, come da accordi. C’erano le chiamate di sua madre. C’era un messaggio di Mari.

    «Certo che a tradire non sei proprio capace. Fino a che non nasce il bambino puoi stare da me. Tanto poi ti perdona».

    Il che, detto da lei che era stata single fino all’anno prima, risultava piuttosto ridicolo. La maternità, a quanto pareva, l’autorizzava di colpo a darsi arie da donna vissuta.

    Nell’insieme erano una massa di persone.

    Tutto il Giappone lo stava guardando, in quei giorni, ma erano quelle le persone che gli volevano bene.

    Nessuno lo stava giudicando, quasi tutti gli chiedevano come stesse e cosa fosse capitato davvero, ma era ovvio che li aveva delusi.

    Perché è questo che ho fatto, no? Ho iniziato a deluderli adesso, in modo che la botta del mondiale sia meno dura.

    Perché il mondiale sarebbe stato un disastro, qualsiasi cosa facesse. Prendere dieci o quindici punti da Zhang era la migliore delle ipotesi. Alla peggiore non voleva neppure pensare, non davvero.

    Si rese conto che fino a quel momento aveva sperato, no, aveva coltivato la certezza che Victor a un certo punto sarebbe intervenuto. Lo avrebbe salvato. Gli avrebbe detto cosa fare.

    Non l’aveva fatto.

    E lui aveva buttato via il suo rapporto con lui quasi per ripicca. La cosa più preziosa che avesse. Per cosa?

    Una parte di Yuuri era convinta che quella mattina avrebbe pattinato con più leggerezza. Perché tanto, ormai, per quello che gli importava di se stesso…

    Ma era un esempio. Era quello che significava essere famoso, in Giappone. 

    Da quattro anni, ormai, andava nelle scuole a incontrare i ragazzi e a parlare di pattinaggio, incontrava le squadre giovanili di tutto il Giappone. Andava tra i meno fortunati, ragazzi delle zone terremotate o pazienti dei reparti pediatrici. E gli piaceva. A lui che odiava con tutto se stesso fare discorsi in pubblico, parlare ai ragazzini piaceva. Molti erano spontanei, altri timidi com’era stato lui. Moltissimi gli dicevano che da grandi volevano diventare come lui. Anche quelli a cui non importava nulla del pattinaggio. E non era perché aveva vinto le Olimpiadi o girato il mondo. Perché era rimasto una persona semplice e educata, buffa diceva qualcuno, anche se aveva vinto le olimpiadi e girato il mondo. Piaceva con i suoi occhiali che non si aspettavano dopo averlo visto solo in tv, le sue tute senza pretese, il suo fare del tutto ordinario. Era bello, dicevano, scoprire di poter essere speciali pur rimanendo a tutti gli effetti così normali. Tutti quei ragazzini dicevano che da lì in poi avrebbero seguito le sue gare. Quasi tutti avrebbero guardato quel mondiale, la sua ultima gara. Se non altro, ed era l’unica consolazione, non avrebbero mai saputo niente di quella foto e di cosa significava. Con grande irritazione di Victor, la loro relazione rimaneva un affare privato. Tamura si era già affrettato a rassicurarlo che nulla sarebbe arrivato ai media. Gli Idol giapponesi devono rimanere agli occhi del pubblico creature perfette, dalla condotta ineccepibile, preferibilmente senza legami sentimentali. 

    Che esempio sarebbe stato per quei ragazzi il giorno seguente? Che esempio voleva essere?

    Non gliene fregava niente di salvare se stesso, ma tutti loro meritavano uno Yuuri migliore.

    Uno Yuuri che nessuno, ormai, sarebbe venuto a salvare.

    Quindi doveva salvarsi da solo, almeno un pochino, salvare almeno lo Yuuri di quei ragazzi. Quello non era lui. Era una sorta di eroe che per qualche motivo a lui ignoto aveva preso in prestito la sua faccia. E gli eroi non tradiscono e non soccombono. In qualche modo Yuuri doveva traghettare l'eroe di quei ragazzi, che non era lui, verso una possibile salvezza o quanto meno a un finale che non fosse patetico o imbarazzante.

    Yuko provò a chiamarlo di nuovo.

    Voleva spiegazioni, di sicuro. E lui non voleva darle. Anche perché non ne aveva, almeno non esprimibili a parole.

    Voleva un abbraccio da Victor. E un bacio. 

    Che cosa stupida.

    Chissà se Chris era già da lui? Quando gli aveva parlato era appena sceso dall’aereo, doveva ancora ritirare il bagaglio.

    «Come sta?» scrisse.

    Era patetico.

    Si sentiva come se fosse stato cacciato via senza motivo. Come se fosse stato lui a essere stato tradito.

    «Quando puoi, vieni fuori da palazzetto. Così parliamo».

    Cosa significava? In che stato lo aveva trovato?

    Alle dieci di sera Victor aveva scoperto che l’uomo che aveva sempre creduto suo padre non lo era. Alle due aveva scoperto che il suo compagno baciava un’altra. Alle sei era di nuovo single. Dopo una storia per cui, di fatto, aveva dovuto rinunciare al proprio paese. 

    Bello stronzo che sono.

     Victor era forte. Doveva esserlo per forza, per quello che era diventato, considerato da dove era partito. Ma quegli ultimi due mesi erano stati troppo, anche per lui. Lo aveva visto cedere, eppure continuare a lottare per reagire. Fino a quella mattina.

    Vederlo in quello stato, mentre usciva dalla stanza, sapendo che la colpa era sua, era stata la cosa peggiore di tutte.

 

    La luce, fuori dal palaghiaccio, era abbagliante.

    Eppure il cielo era parzialmente nuvoloso, come spesso accadeva ad Aprile, con le nubi che andavano e venivano sopra al sole. Ma a tratti i raggi arrivavano e colpivano all’improvviso, insostenibili.

    C’era moltissima gente, come ovunque a Osaka. Il nuovo palaghiccio era accanto a uno dei più grandi centri commerciali della città. 

    Yuuri si sentì sommergere da tutte quelle persone. Nella sua tuta scura, nessuno faceva caso a lui.

    Cercò di individuare la testa riccia di Chris alzandosi sulle punte dei piedi.

    Vide invece una capigliatura bionda, tanto chiara da sembrare quasi bianca.

    – Victor! – gridò, anche se era impossibile.

    Eppure quella testa si girò nella sua direzione e Yuuri vide lo sguardo dell’altro prima spaesato, poi attento e infine deciso, quando lo ebbe individuato.

    Poi lo vide correre, scostando i passanti senza gentilezza. E anche Yuuri si mise a correre, senza pensare a cosa dirgli o a cosa fare

    Gli si gettò addosso, aggrappandosi al suo petto, in lacrime.

    L’altro rimase un istante del tutto immobile.

    – Posso abbracciarti? – chiese Victor, piano.

    – Con delicatezza… Victor, cosa devo fare?

    – Baciami e poi andrà tutto meglio.

    Yuuri non ne era del tutto certo, ma rimaneva un buon consiglio.

 

*    

 

    – Cosa devo fare? – chiese di nuovo Yuuri.

    Aveva davanti una tazza di the il cui contenuto era stato diluito dalle sue lacrime e si era raffreddato mentre lui parlava. 

    Aveva l’impressione di non aver parlato così tanto, di certo non a Victor, dal loro rientro in Giappone, dopo le Olimpiadi.

    Non era riuscito a dare un ordine coerente ai fatti, a dividerli dalle impressioni o dal dolore. Ma aveva tirato fuori tutto, anche le cose peggiori o più meschine. L’idea che il proprio infortunio fosse colpa di Victor, perché non aveva saputo valutare il suo stato fisico ed aveva insistito per fargli provare il salto anche se non se la sentiva. Il fastidio che gli aveva dato, dopo quella caduta, ogni ordine ricevuto. Tutti i sotterfugi che aveva usato per evitare che chiunque se ne accorgesse e la speranza che Victor lo affrontasse, gli dimostrasse quanto ci tenesse, mentre invece si chiudeva sempre più in se stesso. La sensazione che, una volta infranta quell’unica promessa che gli era stata chiesta, non vi fosse più nulla da salvare, nessun perdono possibile. La certezza di star precipitando, sempre di più, senza che nessuna mano gli venisse tesa. Se non forse Izumi, che gli aveva offerto l’occasione per mettersi una maschera e fingere di essere un’altra persona. Forse, aveva ammesso, non gli era mai piaciuta lei, era rimasto affascinato dallo Yuuri che la donna credeva di vedere. Aveva, almeno in parte, ceduto alla tentazione di fingere di esserlo, per non pensare e rendere il trascorrere del tempo più tollerabile.

    Sapeva quanto le sue parole facevano più male.

    Victor aveva ascoltato in silenzio, senza intervenire o ribattere, con la propria tazza in mano, ma Yuuri aveva spiato le dita contrarsi o il viso irrigidirsi. Quando aveva detto la cosa peggiore di tutte, non aveva osato guardarlo. Quella mattina, mentre osservava la foto sul cellulare aveva pensato che, forse, era la cosa migliore. Così, se fosse accaduto il peggio, sarebbe stato ovvio a tutti che la scelta era stata soltanto sua. E dopo, Victor non sarebbe stato obbligato ad assisterlo, perché in fondo un po’ Yuuri sapeva quanto fosse duro stare vicino a qualcuno che stava male e non voleva che anche il russo fosse obbligato a a passarci. Victor, ascoltando, aveva preso a tremare e Yuuri era sicuro, anche senza alzare lo sguardo, che c’erano lacrime che scivolavano fuori dai suoi occhi chiarissimi.
     Sapeva perfettamente che quella che stava offrendo era una versione parziale e sfalsata dell’accaduto. Che feriva, a volte persino più di quella maledetta foto. Ma era la sua versione. Era il suo dolore, ed era reale.

    – Che cosa devo fare adesso? – chiese, di nuovo.

    – Prendere la testa di Izumi e portarmela come trofeo da appendere in salotto, in mezzo alle foto delle nostre vittorie – rispose Victor, con naturalezza.

    – Seriamente.

    – Seriamente – replicò Victor, puntandogli un dito al centro della fronte. 

    Poi scosse la testa, in un movimento plateale, come un cane che si toglie dell’acqua di dosso.

    – In questo momento sono troppo… Troppo – sospirò, nell’impossibilità di spiegarsi. – Ma mi arrabbierò. Credo di aver diritto a un po’ di rabbia, dopo tutto.

    – Penso che tu ne abbia diritto. A più di un po’ – ammise Yuuri.

    – Quindi è meglio se Izumi non mi incroci, neppure per sbaglio.

    – Non è stata colpa sua.

    Victor lo incenerì con lo sguardo.

    – È stata principalmente colpa mia – aggiunse Yuuri.

    – Sì, ma per qualche ragione preferisco non appendere la tua testa in salotto. Mi piace ancora dove sta.

    – Lei pensava… 

    – Lei pensava che non fossimo così tanto una coppia, perché era l’idea che davamo ed è l’idea che in ogni caso abbiamo dato sempre qui in Giappone. Quindi poteva provarci con te e esporti al suo fianco come si fa con un gioiello costoso. Perché tanto non c'era nulla che le dimostrasse davvero che eri un uomo impegnato.

    Il tono di Victor era duro.

    Questo per lui era un punto importante. A Yuuri delle parole non era mai importato molto. Ma arrossiva e gli faceva piacere ogni volta che all’estero Victor parlava di lui come “del mio compagno”. Lui lo faceva molto meno e mai in Giappone, se non tra amici stretti. Dopo quanto avvenuto quattro anni prima in Corea, Yuuri limitava al minimo le effusioni in pubblico. Se ci pensava, spesso si diceva che era per proteggere Victor. Ma forse era per proteggere se stesso. Dalla paura irrazionale di essere aggredito di nuovo. E non era giusto. Anche delle cose piccole come le parole o un bacio non dato, finiscono per acquisire un peso che può schiacciare.

    – Vuoi fare qualcosa in merito? – chiese.

    – Sì. Voglio un qualche riconoscimento esterno a quello che siamo, anche se qui non ha valore legale. Ho bisogno di appartenere a qualcuno, ora che non ho più neppure cognome che sia davvero mio.

    Yuuri si trovò a trattenere il fiato.

    Perché era l’ultima cosa che si era aspettato, dopo quel risveglio.

    E di colpo dava tutta un’altra prospettiva a quello che sarebbe accaduto dopo quel maledetto mondiale. Qualsiasi cosa capitasse, c’era ancora un futuro che desiderava raggiungere. Qualcosa che, dopo tutto quello che avevano passato per aver reso pubblica la loro relazione, aveva iniziato a fingere di non desiderare.

    – Mi stai chiedendo di sposarti?

    Victor fece una smorfia, come se non gli fosse davvero venuto in mente che era di quello che stavano parlando.

    – Suppongo di sì, in qualche modo – disse, sorridendo all’improvviso. – Penso che sia il caso. Nulla di eccessivo, o che ti crei disagio, ma che metta in chiaro che esistiamo come “noi”.  Forse ti darà problemi, a livello di immagine, ma è una cosa di cui ho bisogno.

   Yuuri si accorse di star stringendo così forte la propria tazza da avere le nocche delle dita bianche. Alzò lo sguardo, incontrando il viso inaspettatamente ansioso di Victor...
    Idiota di uno Yuuri.
    Era ovvio che fosse ansioso. Perché con tutto quello che era successo, Victor non era sicuro della risposta. Ed era assurdo.

  – Anch'io ne ho bisogno – disse. – E, forse, avevo bisogno che fossi tu a chiederlo.

   Victor scosse di nuovo il capo. Poi considerò il proprio compagno. Yuuri stava ancora annuendo e era sicuro di essere arrossito, incapace di dominare il subbuglio di emozioni che gli era esploso dentro. L'unicoa cosa a cui riusciva a pensare davvero era che Victor, ancora una volta, aveva reagito alla situazione in modo opposto a come si era aspettato. Ed era il modo giusto. Poi il russo si mise a ridere e Yuuri rimase a guardarlo chiedendosi cosa ancora gli fosse sfuggito. 

    – Mi immaginavo una cosa diversa alla voce “richiesta di matrimonio” – spiegò Victor. – Non due idioti con le lacrime agli occhi e in mano delle tazze di the.

    Anche Yuuri sorrise. Aveva le guance completamente rigate di lacrime.    

    – Forse dovrei ringraziarlo, Zhang, per quella foto – disse.

    Ci sono cose che non sai neppure di desiderare davvero, finché non diventano possibili.

    – Mandiamogli un bel mazzo di fiori – propose Victor, serissimo.

    – Hai altre richieste da fare? – chiese Yuuri.

    Se farsi perdonare comportava quel genere di reazioni, allora, forse, valeva la pena di far arrabbiare Victor, di tanto in tanto…

    Il russo sospirò.

    – A dire il vero sì – disse. – Mi piacerebbe una casa in Europa, in un qualche posto dove il nostro matrimonio abbia senso, passarci anche solo qualche settimana all’anno, poter uscire di casa e non sentirmi ancora così irrimediabilmente straniero.

    Yuuri annuì.

    Negli ultimi quattro anni si erano concentrati sulla sua carriera. Avevano lasciato il Giappone quasi solo per le competizioni e le esibizioni, con una breve vacanza a maggio, quando andava bene. C’erano aspetti che non aveva considerato, particolari a cui non aveva dato importanza, ma che sicuramente a Victor pesavano. 

    – In un posto in cui riesca a spiccicar parola, magari – provò a patteggiare.

    Di certo Victor pensava alla Francia. Adorava la Francia, con la sua lingua del tutto incomprensibile e l’inglese non pervenuto.

    – Ci si può lavorare – concesse il russo. Poi si fece serio. – E ci sono delle cose che devo fare e che non voglio fare da solo…

    – Non voglio che tu ti chiuda mai più intorno ai tuoi problemi… Quando succede non solo non mi dici niente, ma inizia a trattarmi come se fossi un ragazzino alla sua prima gara. Un bambino capriccioso a cui dare ordini.

    Victor annuì.

    – Lo so… – si guardò le mani, incerto.

    Per un certo tempo Yuuri pensò che non avrebbe detto niente, ma poi il russo alzò lo sguardo.

    – È perché ho paura. Una parte di me pensa che nel momento in cui ti renderai davvero conto di quello che sono scapperai orripilato.

    – Perché? – chiese Yuuri. – Lo so che è difficile da spiegare, per te, ma io posso provare a capire, se mi dai un’opportunità.

    Victor annuì.

    – È tutto molto banale, alla fine… Il posto in cui sono cresciuto, la maggior parte della gente che viene da lì prende brutte strada. È una cosa risaputa. E inevitabile... Quando sono andato da Yakov avevo già qualche precedente per piccoli furti, perché era quello che facevano i miei amici e io non volevo essere lasciato indietro. Andavamo nella scuola più vicina e i compagni di classe erano invitati a starci il più lontano possibile. Quando mi sono trasferito a San Pietroburgo tutto lo staff della pista, che sapevano da dove venivo, mi guardava come un potenziale delinquente, persino Yakov per un po’ ha tenuto l’argenteria sotto chiave… Ci sono stati genitori di altri ragazzi che, scoprendolo, hanno impedito ai figli di frequentarmi. Non mi vergogno di quello che sono, della mia storia, ma ho imparato che a volte la gente scappa, quando ne sa troppo di me.

    Aveva parlato senza quasi guardarlo negli occhi, come se si vergognasse anche di quelle parole. In un altro momento Yuuri si sarebbe arrabbiato. Perché era come dire che anche lui era così superficiale da giudicarlo per la sua infanzia. Ma era qualcosa che gli era stato inculcato, era entrato a far parte di lui troppo in profondità per poterlo controllare.

    – Io non scappo – disse. – Torno persino dopo che mi hai cacciato via per aver baciato un’altra.

    Questo lo fece sorridere.

    – A tuo rischio e pericolo – disse Victor, accentuando il sorriso,  poi prese un sospiro e tornò serio. – Devo andare in Russia. E non sarà facile per me. Ho imparato che non sempre posso far affidamento su me stesso. Ma ci sono persone che non vedo da tantissimo tempo e che voglio incontrare… All’inizio di settembre la Siberia a suo modo è quasi bella.

    – Sarà bello accompagnarti.

    Lo pensava davvero. Infrangere finalmente quel muro che c’era sempre stato tra loro.

    – Bene. Anche questa sera dovrai fare una cosa con me. Vorrei dire che saremo entrambi nudi, ma temo invece che comporterà dei vestiti, un computer e, per te, lo stare ad ascoltare dei discorsi incomprensibili.

    Yuuri annuì.

    – Ci sono cose di te che non potrò mai capire – disse. – Ma posso comunque starti vicino.

    – Lo so. Mi spiace non avertelo permesso.

    Yuuri sospirò.

    Era bellissimo pensare al futuro. A quel futuro. Ma in qualche modo doveva ancora raggiungerlo.

    – C’è ancora il mondiale – disse.

    – C’è ancora il mondiale – ammise Victor.

   A nessuno dei due piaceva pensarci, ora meno che mai. Avevano evitato di parlarne fino a quel momento, come se ometterlo bastasse ad annullarlo. 

    – Cosa devo fare? – chiese di nuovo Yuuri.

    Il russo scosse il capo.

    – Lo sai cosa devi fare.

    – Qui tutti sia aspettano che io…

    – Che tu ti faccia mummificare ancora in vita per diventare oggetto di venerazione come certi monaci buddisti suicidi.

    Yuuri fece una smorfia, ma Victor aveva reso l’idea.

    – È il finale che Kuma e Izumi sognano – aggiunse il russo, con un tocco di malignità. – E forse quella foto l’ha scattata Kuma, per rendere il finale del suo film ancora più avvincente.

    Anche questo probabilmente era vero.

    – E quindi?

    Victor più di chiunque altro, Yuuri ne era certo, capiva le aspettative e i doveri che pesavano su di lui.

    Il russo sospirò.

    – Devi essere un esempio. E fare quello che è giusto. E evitare che alla fine io decida di volere la tua testa impagliata in salotto – poi, inaspettatamente sorrise. – Fai il contrario di quello che si aspettano tutti. Funziona sempre.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** - 1 giorno ai Campionati Mondiali di Osaka. Pomeriggio e sera. ***


   – Eccovi, vi sto cercando da mezz’ora!

    Otabek e Yuri si girarono all’unisono. 

    Erano ancora seduti al tavolo del bar, dove il kazako era rimasto per un tempo indefinito ad ammirare lo spettacolo di Yuri che mangiava una coppa di gelato.

    Adesso, però, Minami, l’altro pattinatore giapponese in gara al mondiale, un amico di Yuuri, reclamava la loro attenzione.

    – Cosa succede? – chiese Yuri.

    – Sono io che lo voglio sapere da voi. Yuuri parla alla stampa tra un quarto d’ora.

    – Yuuri parla alla stampa? – domandò il russo, perplesso.

    Era un ossimoro. Bisognava trascinarlo a forza, Yuuri, davanti ai giornalisti. Alla lunga il suo modo di fare impacciato era diventato quasi un marchio di fabbrica che tutto il Giappone adorava, alcuni credevano perfino che fosse studiato. Per lui, però, era una sofferenza autentica e costante. L’unica volta che aveva chiesto di parlare alla stampa era stato in Corea, dopo che li avevano quasi ammazzati.

    – Suicidio rituale in pubblica piazza? – mormorò Yuri.

    Minami scosse il capo.

    – Speravo che voi aveste notizie. Non sono riuscito ad avvicinarlo, questa mattina, e non ha risposto ai miei messaggi.

    – Non ha fatto l’allenamento e in realtà è da giorni che non si allena a dovere – ragionò Otabek. – Potrebbe riguardare la gara.

    Yuri scosse il capo.

    – È abbastanza abituale per lui sembrare più morto che vivo nei giorni precedenti a una competizione e poi fare una meraviglia.

    – Andiamo.

 

    Yuuri era già nell’area stampa fuori dal palazzetto, una sorta di palco sotto il quale si stavano già accalcando i giornalisti e stava parlando con Tamura. C’era anche Victor. Otabek non se l’era aspettato. Anche se era comunque il suo allenatore. Se ne stava in un angolo, serio, e non c’era modo di capire cosa gli passasse per la testa.

    – Hanno fatto pace – gli sussurrò Yuri all’orecchio.

    – Dici? 

    Otabek non ne era affatto convinto.

    – Guarda cos’ha in mano Yuuri.

    Mentre parlava al tecnico della nazionale, il pattinatore giapponese stava torturando un portafazzoletti di peluche a forma di cagnolino.

    Suo malgrado, Otabek sentì che il suo viso si apriva in uno di quei sorrisi idioti. 

    – Sì, devono aver fatto pace.

    I giornalisti erano arrivati. Si erano posizionati proprio ai piedi del palco, ostruendo in parte la visuale di Otabek. Scorse comunque Yuuri annuire, prima di avvicinarsi ai microfoni, e la mano di Victor posarsi sulla sua spalla. Qualsiasi cosa stesse accadendo, la stavano affrontando insieme.

    Yuuri era più pallido e teso che prima di una gara. Non c’era da stupirsene. Si era radunata una folla enorme e c’erano rappresentanti di tutti i principali media giapponesi e moltissimi giornalisti internazionali. Con quei due ori olimpici era diventato tra gli atleti più popolari dell’Asia.

    – Vi ringrazio di essere qui – esordì Yuuri. – So che moltissimi di voi, sia a Osaka, che in tutto il Giappone e perfino all’estero, sono pronti a fare il tifo per me. Non c’è una gara a cui io abbia desiderato maggiormente partecipare e fare bene. Nessun atleta ha sogno più grande di vincere il Campionato del Mondo nella propria patria. Rendere orgogliose di lui tutte le persone che lo hanno sostenuto. Purtroppo è una gara che non posso disputare. Ho tre vertebre lesionate e un impatto col ghiaccio potrebbe avere degli esiti irreversibili.

    Un mormorio percorse la folla.

    – Lo sapevi? – sussurrò Otabek.

    Yuri scosse il capo.

    – Non lo sapeva neppure Victor – mormorò, aveva il volto improvvisamente terreo. – Siamo stati tutti talmente impegnati a stare male da non renderci conto del dolore degli altri.

    – Ho pensato molto a cosa fare e a quale fosse il mio dovere – continuò Yuuri. – Ho un dovere nei confronti delle aspettative che ci sono su di me e nei confronti dei sogni per cui ho lottato. Ma ho anche pensato a tutte le promesse che ho fatto e che è mio dovere mantenere. A tutte le persone che mi hanno sostenuto e che in futuro dovrò ripagare, dovrò essere io a sostenerle, al meglio delle mie possibilità. Ho pensato a tutti i bambini che ho incontrato in questi anni. Ho promesso di tornare e di pattinare con loro. Ho un dovere nei confronti del futuro. Quello che io posso dare al mio paese non si esaurisce nei prossimi due giorni. Ho sempre detto a quei bambini che bisogna lottare per i propri sogni, nonostante le lacrime, il dolore e i sacrifici. Ma i sogni servono a costruire il futuro. Se invece bisogna sacrificare il proprio futuro a una realizzazione immediata, allora è solo egoismo.

    Di fianco a Otabek, Minami iniziò ad applaudire. D’istinto il kazako lo imitò e in un istante il rumore degli applausi avvolse tutti, come un abbraccio.

    – La mia carriera termina qui – concluse Yuuri. – E mai avrei pensato, quando ho messo i pattini la prima volta, che mi avrebbe dato così tanto. So che domani ci sarà una competizione meravigliosa e invito tutti coloro che avrebbero tifato per me di rivolgere il proprio sostegno agli altri atleti, ognuno di loro se lo merita. So che le parole non bastano, ma voglio cogliere l’occasione per ringraziare tutte le persone che mi sono state vicine, la mia famiglia, i miei amici, il mio compagno di allenamento, tutto lo staff della mia squadra e  quello della nazionale. E Victor, il mio compagno.

    Bastardo, pensò Otabek.

    Era riuscito a farlo piangere.

    Tutte le donne mentono e tutti gli uomini tradiscono. Forse c’è del vero. Ma c’è anche qualcos’altro, che ci mette in gioco e ci fa diventare persone migliori.

    – Vieni con me – disse, prendendo Yuri per il polso.

    – Eh?

    – C’è troppa gente qui.

 

    Un vicoletto di Osaka non era davvero il posto che Otabek avrebbe scelto. Persino la prima volta in assoluto che avevano parlato davvero aveva scelto il più bel punto panoramico di Barcellona e il tramonto. Ma quello era il Giappone, che non gli dava alcuna libertà di movimento.

    – Che cosa succede? – chiese Yuri.

    Il kazako prese un respiro.

    – Noi non possiamo essere come loro – iniziò. – Non posso portarti a casa mia e presentarti come il mio ragazzo per gli stessi motivi per cui tu non puoi farlo con tuo nonno. Abbiamo dei doveri nei loro confronti. Ma abbiamo dei doveri anche nei confronti di noi stessi. Io ti amo e non posso più far finta che non sia così. Che sia solo sesso. E quindi, se ti va, sono tuo, in modo esclusivo, per tutto il tempo che mi vorrai.

    Yuri sembrava del tutto paralizzato.

    – E questo cosa vuol dire, in concreto? – chiese.

    – Che smetto di farmi mezzo Kazakistan per concentrami solo sull’unica persona che mi interessa. Che è un bel po’ più importante di un fazzoletto, per me. E che tra un anno, due al massimo mi ritirerò. E se mio padre starà meglio e se riuscirò a portare avanti la collaborazione con l’università inglese a un certo punto potrò lavorare virtualmente ovunque. Anche in posti abbastanza lontani da casa e dove a nessuno importa, che so io, se sto con un ragazzo russo. Neppure se per ipotesi ci dovessi vivere insieme.

    Otabek aveva iniziato a parlare in fretta, ma poi aveva iniziato a rallentare per non perdersi il cambio di espressione di Yuri. Il distendersi dei muscoli, gli occhi farsi tondi, più grandi, l’espressione infantile e sognante. Come sempre quando accadeva, era durato un istante. Poi Yuri si era richiuso nel suo broncio ringhioso e lo aveva guardato fisso.

    – Quindi adesso stiamo insieme? – aveva soffiato.

    – Se ti va. Se ti può interessare la prospettiva.

    Da gran bastardo che era, Yuri finse di considerare l’opzione. O forse non fingeva. C’erano delle difficoltà intrinseche. Ad esempio quel “virtualmente ovunque” tendeva a escludere il Giappone. Al netto della lingua e del sistema universitario, Otabek sapeva che non sarebbe mai riuscito a vivere stabilmente in quel paese di matti fissati con gli inchini e le alghe.

    – Penso che mi vada. Che mi possa interessare la prospettiva, ammesso che sia fattibile – disse infine. – Senza smancerie in pubblico – aggiunse, in fretta.

    – Senza smancerie in pubblico.

    – Senza dichiarazioni davanti ai giornalisti.

    – Manco morto.

    – Però penso che mi piacerebbe dirlo, a qualcuno, che stiamo insieme – sorrise Yuri. – Quando esco con della gente, qua, che non siano Yuuko o i due pazzi, continuano a presentarmi persone…

    Otabek finse una faccia allarmata. Che poi era una finzione solo parziale. Yuri usciva? Con chi? Perché non glielo raccontava mai?

    – Devono smettere subito! Io lo dirò a mia sorella, credo, magari anche al mio allenatore, così la smette di essere geloso di Victor, quando vengo qui “a perfezionarmi”.

    – Bene.

    – Bene… Pensi che questo vicolo sia abbastanza privato per qualche smanceria?

    Yuri si guardò intorno.

    – Sì, direi di sì.

*

    Victor aveva la mano che tremava leggermente, mentre schiacciava il comando per far partire la videchiamata dal proprio portatile.

    Yuuri se ne accorse e gli strinse con più forza l’altra mano.

    Per un istante lo schermo rimase nero, poi apparve il viso del ragazzo che aveva visto in foto. 

    Per l’occasione si era sbarbato e sembrava più giovane che in quello scatto. Aveva occhi spauriti quanto i suoi e una mano femminile posata sulla spalla.

    – Ciao – disse Nikita, in russo.

    Sembrava sul punto di sentirsi male. Victor era sicuro di avere più o meno la stessa espressione.

    – Ciao – rispose.

    E adesso?

    – Io… Non ti ho cercato per chiederti qualcosa – si affrettò a dire Nikita.

    – Lo so.

    – E comunque non lo siamo, fratelli.

    – Legalmente lo siamo – disse Victor.

    Non era un affare da poco. Erano stati riconosciuti dallo stesso uomo, quindi per la legge erano fratelli. Se gli fosse successo qualcosa, sarebbe stato quel ragazzo, non Yuuri, a ereditare tutti i suoi averi. Un motivo in più per sposarsi, sperando che la legislazione cambiasse anche in Giappone. Non che Yuuri avesse bisogno dei suoi soldi, ormai…

    – Mi sono informato, è una cosa che si può risolvere – disse Nikita.

    Anche questo era vero, e forse quel ragazzo non voleva alcun legame imbarazzante con quello che agli occhi della maggior parte dei russi era un traditore.

    – Vuoi farlo? – chiese Victor.

    Nikita scosse il capo.

    – Pensavo che avrebbe potuto interessare a te.

    – Smettere di essere Victor Nikiforov sarebbe piuttosto strano, a questo punto… E poi è stato comunque mio padre, a modo suo.

    Nikita annuì.

    – Era una persona di cuore, a modo suo… Sai qual è uno degli ultimi ricordi che ho di lui? Abbiamo guardato insieme il primo mondiale che hai vinto. Io avevo sette anni. Quando sei salito su podio mi ha detto: «vedi? Devi sempre essere orgoglioso di chiamarti Nikiforov». Era quasi commosso e io non capivo il perché.

    E un mese dopo si faceva ammazzare…

    – Dev’essere stata dura, per te.

    Nikita scosse il capo.

    – No. Mia mamma è una bravissima persona. E lui… Si era tirato fuori dai brutti giri, più o meno. Di certo ha fatto del suo meglio con me.

    – Anche con me – ammise Victor.

    Adesso, molte cose erano più chiare. Di sicuro, Victor per quell’uomo era stato un’opportunità, un’arma da usare per ottenere qualcosa ogni volta che finiva sotto processo. Nessuno, tuttavia, lo obbligava ad andarlo a trovare ogni volta che usciva di galera o a mandargli un pensiero per il compleanno. Ora lo capiva di più, l’imbarazzo di quelle visite, quei “non mi somigli”, qui maldestri consigli su come farsi valere. Igor Nikiforov aveva recitato un parte, forse senza troppa convinzione e di malavoglia, eppure abbastanza bene da impedire a Victor di essere classificato come figlio di nessuno. Nella gerarchia dell’istituto, questo lo metteva al di sopra dei ragazzi di padre ignoto e di quelli il cui padre non si era mai visto. Era una cosa che lo aveva protetto, perché nessuno si sognava di maltrattare il figlio di uno che di professione spaccava le ossa agli altri. Quando era nato, il regime comunista stava cadendo, nessuno si occupava degli orfani, l’occidente non aveva idea delle condizioni di certi istituti e in Russia c’era troppa povertà perché ce ne si occupasse davvero. Adesso, i figli di nessuno venivano adottati, allora potevano essere lasciati morire senza cattiveria, solo per mancanza di risorse. Ma per il figlio di un uomo pericoloso le risorse si trovano, nei limiti della disponibilità del posto in cui era cresciuto, a Victor non era mai mancato niente e nessuno si era mai sognato di mettergli le mani addosso. 

    L’ultimo ricordo che Victor aveva di lui risaliva a quando aveva tredici anni e mezzo. Lo aveva dovuto accompagnare lui, insieme al suo vecchio dirigente, a San Pietroburgo, da Yakov, perché c’erano delle carte da firmare. Victor ricordava in modo confuso una contrattazione, nel salotto di Yakov, con tanto di avvocati. Alla fine Yakov aveva avuto la delega per la tutela e suo padre e quel porco del dirigente dei soldi. Victor aveva desiderato tantissimo quel trasferimento e aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per renderlo possibile, tuttavia la sua impressione in quel momento era stata quella di essere venduto, come uno schiavo antico, a un uomo brusco di cui non sapeva nulla.

    «Fai quello che devi fare e prenditi la tua vita», gli aveva detto Igor Nikiforov, prima di andarsene per sempre.

    Lui non lo aveva degnato di risposta. In quel momento lo odiava con tutto se stesso. Ma in realtà quell’uomo che sapeva di non essere nessuno gli aveva appena regalato un futuro. Ed è quello che fanno i padri.

    – Mi sarebbe piaciuto conoscerti prima, quando vivevo in Russia – aggiunse Victor.

    – Sì, sarebbe piaciuto anche a me.

    – E non lo conoscevi neppure adesso, se non era per me – si introdusse una voce femminile.

    Sullo schermo apparve un viso femminile, una bella ragazza castana, con due lucenti occhi azzurri e un sorriso smagliante.

    – A proposito, sono Klara, la sua fidanzata e una tua grande ammiratrice! – disse.

    – Ecco, sì, ti presento Klara – aggiunse Nikita, imbarazzato.

    Victor stava per dire qualcosa, ma la testa di Yuuri si infilò a sorpresa davanti alla sua.

    – Io sono Yuuri, il fidanzato! – disse, in inglese.

    Victor trattenne il fiato, in attesa della loro reazione, ma sorrisero entrambi di cuore.

    – Naturalmente! – esclamò Klara. – Non riesco a crederci che sto parlando con voi!

    – È una patita del pattinaggio – spiegò Nikita.

    In qualche modo erano passati tutti a un inglese traballante, ma più o meno comprensibile.

    – Appena ho saputo il cognome di Nikita ho chiesto se eravate parenti – spiegò Klara. – Per un po’ è stata solo una battuta, ma poi abbiamo iniziato a porci davvero il problema.

    – Ecco, sì, è colpa sua… – sorrise Nikita. – Ma la verità è che non farei un sacco di cose se non fosse per lei.

    – Siete una bella coppia – disse Victor.

    Lo pensava davvero. Si era immaginato… Beh, le cose peggiori su quel ragazzo. Che fosse alcolizzato o drogato o delinquente come suo padre. Invece sembravano, per quel poco che poteva trasparire, proprio due cari ragazzi. 

    – Ci sposeremo… Appena possibile – disse Nikita.

    – Appena lui si sarà diplomato – aggiunse Klara.

    Nikita sospirò.

    – Lei è maestra e ha insistito perché riprendessi gli studi, alle serali… Ha fatto bene, eh, mi piace, ma io non mi vergognavo di quello che sono.

    – E perché avresti dovuto? – disse Victor, poi si passò una mano nei capelli. – Io non ci sono riuscito a diplomarmi. Potresti essere il primo Nikiforov a farlo.

    Questo regalò un sorriso d’orgoglio al ragazzo.

    – Anche noi ci sposeremo – si intromise Yuuri.

    – Davvero? Quando? – chiese Klara.

    – Siete le prime persone a cui lo diciamo, non… – iniziò Victor.

    – L’ultima settimana di agosto – disse Yuuri, come se fosse un fatto assodato.

    – Davvero? – Victor era sicuro di dover essere informato.

    – Certo. La prima settimana di agosto ci sono già sette juniores prenotati per il campus. Fino al venti si ferma Otabek e viene qui anche per pattinare, ogni tanto. Mio nipote nasce a fine giugno e dobbiamo vedere come vanno le cose. Prima ci sarà la riabilitazione dopo il mio intervento… L’ultima di agosto è il momento migliore, tanto avevamo già stabilito che sarebbe stata Yuko ad accompagnare gli juniores alle tappe del JGP, così la prima di settembre andiamo in Russia, come dicevi tu. Poi potremmo andare direttamente a Mosca per accompagnare Yuri alla presentazione dei programmi. Prima o poi devi tornare sul bordo di una pista in Russia.

    Yuuri ci aveva pensato. Ci aveva pensato sul serio. Non voleva farlo solo per accontentarlo, in modo passivo, come Victor aveva temuto. 

    – L’ultima settimana di agosto, quindi – disse. Iniziava a sentirsi un po’ sopraffatto. 

    – E poi verrete in Russia.

    – Sì. È tantissimo tempo che non torno a Salechard. Vorrei far vedere a Yuuri dove sono cresciuto… Potremmo vederci di persona.

    – Sarebbe bellissimo – disse Nikita.

    – Le mie amiche moriranno di invidia – approvò Klara. – Non credere a quello che si legge in giro. Qui un sacco di gente ti adora ancora.

    – Bene allora. È deciso – disse Victor.

    Si accorse di star stringendo la mano di Yuuri con troppa forza. Allentò la presa, trasformandola in una carezza.

    Ci sono cose che bisogna fare in prima persona. Ci sono fantasmi che non puoi chiedere ad altri di affrontare per te. Ma essere in due rende le cose diverse. Nessuna conquista ha senso davvero se non viene condivisa.

 



Eccoci qua. Questo è il penultimo capitolo. Quindi il penultimo capitolo per Yuuri e Victor e, dal momento che non ho nel cassetto altre storie su di loro, ho già il magone, dato che ormai è un anno e mezzo che abitano stabilmente nella mia testa. Rimando al prossimo capitolo i ringraziamenti più seri e i saluti. Già adesso, però, ci tengo a ringraziare tutti, ma proprio tutti i lettori, quelli che non si sono persi neppure un capitoletto, quelli che si sono aggiunti dopo, quelli che leggono ogni tanto. Tutti voi avete regalato a me e ai miei personaggi una frazione  unica e irripetibile della vostra vita. È una cosa estremamente preziosa di cui sono immensamente grata.

PS: non perdetevi il gran finale settimana prossima e poi il piccolo extra Otayuri che seguirà.
    

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Durante e dopo i Campionati del Mondo di Osaka ***


   Otabek alzò lo sguardo verso il tabellone come un imputato in attesa di sentenza.

    Del resto era morte o vita.

    223.75

    Che con il corto da 113.25 faceva 337 tondi. Meno di un punto dal record stabilito da Yuuri alle olimpiadi. 

    Senti gli occhi riempirsi di lacrime e si sentì un idiota. Non era proprio da lui piangere dopo un’esibizione. Non era mai neppure arrivato in fondo così stremato, quella sensazione di aver dato tutto quello che poteva dare e anche qualcosa di più. E che forse non sarebbe bastato.

    – Sei stato bravissimo – gli disse l’allenatore, passandogli una mano intorno alle spalle.

    – Zhang può battermi.

    Era questa la cosa che faceva male. Non c’era un singolo muscolo del suo corpo che non tremasse per lo sfinimento, il ginocchio probabilmente non lo avrebbe retto, quando avesse provato ad alzarsi, e quel maledetto cinese aveva piazzato un corto da 114.50.

    Scosse la testa, anche nel tentativo di nascondere alle telecamere il fatto che stava piangendo.

    Zhang stava finendo di scaldarsi e lui doveva andare nell’area riservata ai primi in classifica.

    – Guarda che devi essere contento. Meglio di così proprio non potevi fare – gli disse ancora l’allenatore.

    Otabek annuì.

    Era vero. Con quattro quadrupli di più non si poteva fare. E era proprio questa la cosa crudele. Per quanto si impegnasse, c’era sempre qualcuno che avesse più talento o risorse sul suo cammino.

 

    Il cinese cominciò. 

    Maledizione a lui, quant’era bravo. Aveva un talento immenso. L’eleganza nei movimenti di Yuuri e l’elevazione nei salti di Yuri. La coreografia, studiata su una danza tradizionale cinese, al kazako non piaceva molto, ma quelli erano gusti. Non lo avrebbe ammesso neppure sotto tortura, ma a lui piacevano quei movimenti da balletto classico che Victor coreografava sempre per Yuri.

    Eccoci

    Zhang si stava preparando per saltare. Il quintuplo che nessuno aveva mai fatto.

    Partenza perfetta…

    Non lo controlla…

    Otabek si alzò in piedi, nonostante le proteste del ginocchio.

    L’impatto sul ghiaccio fu terribile.

    La musica continuò, mentre il ragazzo non si rialzava.

    Aveva picchiato la testa?

    Di certo era ricaduto sopra la propria gamba destra, col pattino incastrato sotto il corpo. 

    C’era del sangue che andava a sporcare il ghiaccio.

    Ci volle un istante, prima che andassero a soccorrerlo.

    Dov’era il suo allenatore?

    A bordo pista, con un’espressione più furente che preoccupata.

    Poteva esserci Yuuri al suo posto, se avesse gareggiato… Oppure Yuri.

    Al pensiero di Yuri che cadeva in quel modo sul ghiaccio sentì quasi un conato di vomito.

    Lo hai detto bene, Yuuri. Tutto questo ha senso se serve a costruire un futuro. Non se il futuro viene sacrificato a un risultato.

    Lo stavano portando via. Sembrava che avesse ripreso conoscenza. Ma la gamba destra?

    E poi si rese conto che la gara era finita. 

    Era il campione del mondo.

 

    – Alla fine diranno che ho vinto solo perché i miei avversari non c’erano o si sono suicidati in pista – si lamentò col proprio allenatore.

    Avrebbe dovuto essere felice. Godersi il momento. Fare il giro di pista con la bandiera del Kazakistan sulle spalle. Era quello che aveva sempre desiderato. Era il culmine della sua carriera. Con ogni probabilità non avrebbe mai potuto fare di meglio. Sarebbe stato suo diritto godersi il momento. Ma con Zhang portato via in quel modo, senza ancora notizie precise su cosa si fosse fatto, non se la sentiva.

    – Lo diranno – ammise l’allenatore. – Ma tra un anno, o tra dieci, rimarranno solo gli elenchi dei vincitori e ci sarà il tuo nome. Il campione del mondo… Oh, se davvero non sei soddisfatto, vedi di vincere anche l’anno prossimo. Così nessuno potrà dirti niente.

    Otabek fece una smorfia a metà tra un ringhio e un sorriso, ma poi vinse il sorriso, perché a bordo pista stava arrivando Yuri, tutto trafelato, con la bandiera in mano. Più indietro c’erano anche Yuuri e Victor. Anche il giapponese avrebbe voluto correre, ma il suo compagno lo aveva trattenuto. Erano due giorni che Victor trattava Yuuri come se fosse di vetro.

    – Cretino, prendi la bandiera e fai il tuo giro! – gli gridò Yuri.

    – Non mi sembra il caso…

    – Non ti sembra il caso? Tua madre e i tuoi diecimila parenti ti stanno guardando! Credi che a loro importi qualcosa di Zhang?

    Era vero. Sicuramente lo stavano guardando tutti insieme, magari avevano anche messo dei maxischermi. Il Kazakistan non vinceva molti campionati del mondo. Alla fine era per loro che lo aveva fatto, no? Anche per se stesso, ma principalmente per loro. Che se lo godessero fino in fondo.

    – Otabek… – lo fermò Yuri, mentre stava per partire.

    – Sì?

    – L’anno prossimo ce la giochiamo noi due. Se pattini così sarà un casino cercare di batterti… Non vedo l’ora.

    Per la prima volta, Otabek si rese conto che Yuri ancora a un totale di 337 non era mai arrivato.

    Allora forse non sono così mediocre. Un po’ mio lo è, questo primo posto.

    – Non pensare che ti userò riguardo solo perché ora stiamo insieme. L’anno prossimo ti spiano – replicò.

    Ebbe la soddisfazione di vedere Yuri arrossire e il proprio allenatore sgranare gli occhi. Quanto a lui, per evitare di far vedere quanto fosse imbarazzato, si decise a partire per quel maledetto giro di pista.

    Era il campione del mondo. Ed era il fidanzato di Yuri.

    Non c’era proprio nulla di male se si godeva un po’ il momento anche lui.

 

*

    – Quindi non potrai più pattinare? – chiese Yurio.

    – Non ho detto questo – replicò Yuuri.

    Erano ancora a Osaka. Dopo il galà avevano accompagnato il nonno di Yurio all’aeroporto.  Anche Chris era già ripartito, mentre Otabek sarebbe rientrato in patria il giorno dopo e ne avevano approfittato per una cena tutti e quattro assieme, in un ristorante italiano, che accontentava tutti. C’erano delle cose che Yuuri doveva dire e tutto sommato era meglio iniziare da loro che dalla propria famiglia. 

    – Solo che forse non dovrò più saltare, dipende da come andrà l’operazione – spiegò.

    – Che è quasi come non pattinare più – disse Yurio.

    Il giapponese aveva l’impressione che potesse mettersi a piangere per lui. Yurio non era proprio in grado di filtrare le proprie emozioni. Era per quello che alla fine tutti gli volevano bene.

    – Non è vero – puntualizzò. – Il pattinaggio non è solo saltare, anzi, i salti li ho sempre odiati.

    Era sincero. Yurio adorava saltare, lui no. Era una cosa che doveva fare, che si era impegnato lui solo sapeva quanto per imparare a fare, ma che non aveva mai amato davvero. Quello che amava era poter esprimere se stesso sul ghiaccio, in unisono con la musica. 

    – Hai fatto il libero delle Olimpiadi sapendo di avere la schiena in quello stato? – chiese Otabek.

    Yuuri scosse il capo.

    – Mi sono infortunato il giorno prima. Poi il medico federale ha detto di non essersene accorto subito, dalla prima lastraa. Mi ha chiamato appena tornati in Giappone.

    Non sapeva cosa pensare in proposito. Era quasi sicuro che l’omissione fosse stata deliberata e una parte di lui era grata al medico per quel silenzio. Sarebbe stato terribile dover scendere in pista alle Olimpiadi con quel peso, mentendo a Victor, e d’altro canto ritirarsi in quel momento sarebbe stato impensabile. Ovviamente Victor la vedeva in modo diverso e forse era meglio che lui e il medico non si incrociassero a breve.

    – Hai già fissato la data dell’operazione? – si informò Otabek.

    Yuuri scosse di nuovo il capo.

    – Mercoledì ha le visite pre ricovero – si inserì Victor.

    Inutile dire che aveva preso in mano la cosa. Del resto, fosse stato per lui, avrebbe rimandato il più possibile. Era la prima volta che finiva sotto i ferri e aveva una paura dannata. E c’era una percentuale di rischio, bassissima, ma c’era, che qualcosa andasse storto e potesse rimanere paralizzato.

    – Tuo padre? – chiese al kazako.

    Si era sentito così solo con il proprio dolore, Yuuri, che non si era reso conto di quanto alla deriva fossero gli altri. 

    Non dobbiamo mai fidarci dei sorrisi o delle scrollate di spalle. Ognuno, in questo percorso chiamato vita, ha il suo peso da portare. Ed è solo egoismo ritenere che il proprio macigno sia più pensante solo perché sono le nostre spalle a sostenerlo.

    A vederli da fuori erano quattro uomini con tutte le fortune. Erano o erano stati atleti vincenti, erano ancora famosi, giravano il mondo per fare pubblicità o esibizioni per cui venivano ricoperti d’oro. Erano innamorati. Finalmente anche Otabek si concedeva, in un locale pubblico, di passare una mano sulla spalla di Yurio. Erano l’immagine del successo e della felicità. Ma erano esseri umani. Ciascuno con le proprie voragini dentro, i propri fantasmi da affrontare nella notte, le proprie incognite sul domani.

    – Venerdì, se riesco, lo imbarco per l’Inghilterra – disse il kazako. – Non sarà facile… E anche il mio ginocchio temo dovrà vedere un chirurgo. Ho già fissato una visita giovedì.

    Il pensiero della settimana che lo attendeva, con un viaggio intercontinentale e tutta la fatica di quella stagione sulle spalle, sembrò per un attimo sopraffarlo. 

    Yurio gli strinse la mano.

    – Andrà tutto bene – disse.

    Otabek sembrò pensarci un attimo, poi prese la mano del ragazzo e se la portò alle labbra.

    – Sì – disse.

    Yurio fece una faccia imbarazzata, ma poi sorrise.

    – Come l’ha presa il tuo allenatore? – chiese.

    – Ci credi che non l’aveva mai sospettato? – rispose Otabek. – Non lo rivelerà a nessuno… Ma è bello poterlo dire almeno a qualcuno.

    – Sì – ammise Yurio.

    Yuuri li guardò con affetto. Si compensavano bene ed erano abbastanza cauti da evitarsi tutti i problemi che si erano tirati addosso lui e Victor. Non avevano comunque scelto una strada facile, per un kazako e un russo costruirsi un futuro insieme sarebbe stato… Beh, peggio che per un russo e un giapponese. Ma Yurio non se n’era ancora reso conto davvero e Otabek, sperò Yuuri, aveva abbastanza buon senso per tutti.

    – Avete notizie di Zhang? – chiese Otabek.

    Victor sospirò.

    – Frattura al femore e ginocchio da buttare, senza contare tutta un’altra serie di cose tra cui il trauma cranico – disse.

    – Recupererà? – chiese Otabek.

    – A livello agonistico no – disse Victor, con decisione. – È stato odioso, ma è stato una vittima. Per quello che ne so il suo allenatore non è neppure andato a trovarlo in ospedale. Ormai è un giocattolo rotto che non serve più. E con questo ritengo chiusa la questione sul provare a fare un quintuplo con chiunque intenda allenarsi con me.

    Il tono di Victor fece sorridere Yuuri, anche se le cose che diceva erano vere e serissime. Il suo compagno, però, quando entrava nei panni dell’allenatore si trasformava ogni volta di più in Yakov. Il che non era un male assoluto. Era quello di cui i ragazzini e le ragazzine che seguiva Yuko e gli juniores che venivano per i campus avevano bisogno e si aspettavano. Qualcuno di autorevole. Per lui, però, la cosa era ridicola, vista come compagno, e parecchio fastidiosa, vista da atleta. Bene, adesso che era fuori dall’agonismo avrebbe potuto sogghignare molto di lui. 

    Chissà se anch’io riuscirà a diventare autorevole?

    – Vittima o no, non si meritava niente di meglio – protestò Yurio.

    – Perché? Per una spallata in allenamento e una foto di troppo? – replicò Victor. – La cattiveria è altra. Non è l’ansia di un adolescente costretto a vincere o a distruggersi nel tentativo, spinto troppo oltre dalle persone che avrebbero dovuto difenderlo.

    Nessuno replicò. 

    Yuuri aveva l’impressione che Victor conoscesse il peggio del mondo dello sport assai più di quanto fosse ovvio o lasciasse trasparire.

    – Propongo un brindisi – disse Yuuri, alzando il proprio bicchiere. – Alle vittorie e ai matrimoni.

    Yurio sgranò gli occhi.

    – Chi si sposa?

    – Noi – risposero in coro Victor e Yuuri.

    – Era ora – disse Otabek.

    – Dove? Quando? Io elegante non mi vesto per voi – borbottò Yurio.

    – In realtà pensavamo a una cosa strettamente privata – spiegò Victor. – Le nostre vite sono una continua esibizione. Questa cosa è solo per noi.

    Yurio fece una smorfia. C’era rimasto male sul serio.

    Era bello, però, vedere con quanta naturalezza tutti prendessero la notizia.

    – Alle vittorie e ai matrimoni, dunque – disse Otabek.

    – Alle vittorie e ai matrimoni.

    Stavano per alzare i bicchieri, quando il cellulare del kazako vibrò.

    Otabek esitò.

    – Guarda, potrebbe essere importante – gli disse Yurio.

    Il kazako annuì e prese il cellulare.

    Lo videro tutti impallidire.

    – Cazzo! I cartoni animati per mia sorella! Quella mi ammazza!


 

EPILOGO

 

    Giappone, monte Fuji, metà agosto 2022

 

 

    – Ma quanto manca?

    – Zitto tu, che sei il più giovane.

    – Ricordami di chi è stata la brillante idea?

    – Di Victor.

    – Se ne avessi la forza lo ammazzerei.

    – Grazie, sto già agonizzando di mio… Yuuri, tutto bene?

    – Mi porti in spalla?

    – Scordatelo.

    – E voi sareste gli atleti professionisti?

    – Ex atleti.

    – Taci, Yuko, non puoi capire.

    – Basta. Io mi fermo qui. 

    – Non siamo in cima.

    – Non puoi sempre vincere, Victor. Siamo abbastanza in alto.

    – … Mmm. Suppongo di sì.

    – Basta battibeccare, guardate!

    Il sole stava sorgendo. 

    Il cielo non era del tutto terso, c’era qualche nube bassa che faceva rifrangere i raggi, creando sfumature variabili tra il rosa e l’arancio. In alto c’era ancora l’intensità della notte e le ultime stelle che piano sbiadivano. Il Giappone era lontanissimo, in basso, ancora avvolto nella penombra.

    Il sole illuminò prima la vetta, in alto, e poi arrivò anche ai cinque escursionisti stremati, fermi sul versante della montagna.

    – Però, fa impressione.

    – Sì.

    – Ne abbiamo fatta di strada, dopo tutto.

    – Io me la sento tutta nelle gambe.

    – È bello raggiungere l’alba dopo aver camminato nella notte.

    – … Sì.
 

E adesso è finita, finita davvero, almeno per quanto riguarda Victor e Yuuri.
A breve saluteremo anche Yurio e Otabek, con un piccolo extra.
Vorrei, ma non so se ci riuscirò e di sicuro non sarà subito, darvi uno scorcio del 2032, perché in casa Otayuri c'è una cosina importante e mi piacerebbe cogliere l'occasione di andare a salutare anche Victor, Yuuri e Chris, vedere come se la passano e cos'hanno combinato. Ma non ce n'è una vera necessità, sopratutto per Victor e Yuuri, perché so che stanno bene. Bene come si può stare nel mondo realte, che ha sempre qualcosa da scaricarti addosso, ma in grado di cavarsela.
So che si sono sposati in una giornata di fine agosto molto calda, con fedi molto impegnative (le stesse usate dai Victor e Yuuri di Elina), ma con un abbigliamento insolitamente rilassato. Victor era addirittura in maniche corte, con un completo chiaro, Yuuri in giacca e cravatta in toni scuri. Per Victor c'erano solo Chris e Yakov, per Yuuri  sua madre, Pich e Yuuko con le figlie. So che alla fine l'ha spuntata Victor e hanno preso un monolocale a Parigi, dove ogni tanto si rifugiano e usano come base quando ci sono gare in Europa in successione. So che il viaggio in Russia non è stato facilissimo per Victor e che Yuuri probabilmente aveva un'altra idea di "viaggio di nozze", ma che sono contenti entrambi di esserci andati e di esserci andati insieme. So che diventano entrambi dei buoni allenatori e che, dopo il ritiro di Yurio si sono specializzati nel settore femminile. So che il documentario di Izumi e Kuma, nella versione europea, ha avuto un buon successo, è stato presentato a dei festival importanti e che Victor ha fatto i capricci perché non voleva sedersi vicino a Izumi durante la prima, né essere civile con lei. So che in qualsiasi momento io li guardi, li vedo insieme e contenti di esserlo.

Tutta questa mole piuttosto impressionante di pagine non avrebbe mai potuto nascere senza una serie di persone. Elina, ovviamente, che ha riportato il pattinaggio nella mia vita, facendomi impattare con Yuri on Ice e continuando a essere sempre sostegno, sfida, aiuto per la documentazione, supporto psicologico per scibacchina in crisi. C'è sul mio cellulare tutto un gruppo wa dall'eloquente nome "Più Otabek per tutti", con gente più o meno volontariamente coinvolta nella follia, che ha fornito sostegno psicologico, supporto di immagini, letture attente, grande tifo per i personaggi. C'è Nicola, il mio Victor personale (più di quanto ami ammettere, anche se si è riconosciuto più o meno a pagina 3), che sopporta tutto ciò pur detestando cordialmente il pattinaggio e tutto ciò che gli gira intorno e che mi fa trovare i porta chiavi a forma di Yurio nelle uova di Pasqua.

Ci siete voi che leggete e che date un senso a tutto questo.
Ogni volta che avete dedicato dei minuti alla lettura di queste storie li avete sottratti a qualcosa d'altro. Lo so. Grazie di cuore.
Grazie a Syla che sin dall'inizio mi ha tenuto la mano e accompagnato in tutto questo percorso.
Grazie a Crystal, che ruba il tempo quando può per i suoi meravigliosi commenti. Grazie a Dragonfly per la sua sensibilità. Grazie ad Annie. Grazie a tutti coloro che hanno speso del tempo a commentare, grazie a chi ha messo le mie storei tra le preferite, ricordate o seguite.
Grazie a tutti voi che state leggendo queste righe.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3847319