Storia di viaggiatori, di una santa reliquia, di tre lestofanti e un ciuco

di yonoi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo: dove entrano in scena un novizio, tre pellegrini e una promessa sposa ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo: Dove si apprendono delle cattive notizie e qualcuno finisce spennato come un pollastro ***
Capitolo 3: *** Dove si narra di colombe e serpenti, qualche nodo viene al pettine ma la maggior parte resta così com’è ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo: dove entrano in scena un novizio, tre pellegrini e una promessa sposa ***


Storia di viaggiatori, di una santa reliquia, di tre lestofanti e un ciuco
 
 

Capitolo primo: dove entrano in scena un novizio, tre pellegrini e una promessa sposa
 
 
“E in loro erano profondi
la paura e il timor di Dio e la certezza
della sua presenza nelle forze della natura, nelle fonti,
negli alberi, nelle nuvole del cielo,
nelle trasparenze delle trasparenze”
(“Magnificat”, Pupi Avati)
 

 
Abbazia benedettina di Nonantola, anno 1028 dall’Incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo
 

“Sii vigilante, mentre attendi alla tua opera”: queste parole, così ricorrenti nel tempo della mia infanzia e negli anni del mio apprendistato come miniatore, contenevano in sé molti significati che, come i gradini della vera umiltà insegnata dalla Regola, procedevano dalla terra per elevarsi ai vertici della somma visione. Così, occorreva anzitutto che fossi diligente mentre attendevo al servizio di rivolgere le pelli nelle vasche del calcinaio, senza farmi distrarre dagli odori dei resti che lenti si disfacevano, simbolo della transitorietà di questa vita quia pulver es, homo, et in pulverem reverteris.
“In parole povere: sii presente con la testa e non solo con il corpo, perché se dovesse coglierti uno schizzo dal calcinaio, ti copriresti di piaghe. La calce sa essere una buona magistra per i distratti,” mi ripeteva Odilone, maestro percamenarius in questa abbazia dedicata al santo papa Silvestro nelle terre dette di Nonantola.
Mentre rimestavo e cavavo fuori le pelli già monde, mentre le deponevo dal loro letto di liscivia sui telai, con un lungo bastone che molto mi superava a quel tempo in altezza, dovevo rammentare che anche quello era opus Dei, servizio al Verbo divino che si apprestava ad essere deposto su quei velli per rimanervi in eterno, perché la vox hominis è come il vento che passa e nessuno più la ricorda, mentre dalla Parola dell’Altissimo omnia facta sunt.
Fin dalla fanciullezza ho sempre vissuto qui, donato da mio padre Guiduccio il Vedovo in cambio dell’usufrutto dei Mulini della Vecchia e del diritto di pesca nel fiume Panarium, nonché del diritto di rilevare ogni anno tre sacchi di frumento e tre cataste di legna nei boschi attorno alla pieve detta di San Cesario.
Insieme a tre fratelli maggiori, giunsi nei territori dell’abbazia con il nome di Decimo, che fu presto mutato in quello di Anselmo sia perché in quel giorno si commemorava il santo fondatore, sia perché il mio nome non figurava in nessun martirologio consultato dai padri, sicché non potevo contare su un nessun protettore tra le schiere beate.
Arrivai con le rondini che tagliavano l’aria del primo disgelo. I loro voli che s’incrociavano sui campi avevano gli stessi colori neri e bianchi della terra congestionata, dei lastroni forati dai bucaneve fragili, simili a mani giunte quand’erano chiusi mentre quando sbocciavano erano detti, dalla gente del mio paese, le campane della Candelora.
Dopo aver superato valichi accidentati e pantani argillosi, torrenti in piena e sentieri nei boschi, il carretto condotto dai miei maggiori si rovesciò in un fosso e non vi fu verso di smuoverlo. Eravamo in prossimità dei recinti dell’abbazia. Il cammino dei miei fratelli sarebbe dovuto proseguire lungo i fossi e i canali della pianura, fino alla località Mulini della Vecchia: pochi muri sbreccati che ospitavano nidi di gufi e di scoiattoli, ma posti sulla giusta pendenza per fare girare una mola.
Mentre i miei imprecavano contro quell’accidente che li avrebbe costretti a proseguire a piedi, io vidi in quell’evento un chiaro segno del fatto che ero giunto alla mia destinazione: per quel che mi riguardava, il viaggio finiva lì. Alle Case Rotte, ero l’unico dei miei che sapesse leggere, perché malgrado tutti gli sforzi del canonico Uguccione, né il mio maggiore Primo, né nessun altro tra i figli di Guiduccio erano stati in grado di imparare qualcosa che andasse al di là della mera fatica delle braccia.
“Perché un bravo mugnaio dovrebbe ingobbirsi sui codici?” aveva concluso il canonico, indicandomi a mio padre come il candidato ideale. “Se intendi donare un figlio all’abbazia, ti conviene cedere Decimo, che è in grado di distinguere le lettere dell’alfabeto ed è sufficientemente rachitico.” Poiché il consiglio veniva da una voce autorevole - l’unica nel paese dopo l’abate e proprietario delle terre, che peraltro nessuno aveva mai visto - mio padre si convinse anche se io, in realtà, non ero più magro e stentato degli altri. Ma alle Case Rotte vi era l’idea che quella del monaco fosse essenzialmente una vita da studioso, l’ideale per chi nasceva con la schiena già predisposta a incurvarsi sui testi dello scriptorium.   
Di fatto, i miei primi lavori furono di fatica. Accolto da Odilone, maestro percamenarius, la mia prima occupazione fu quella di sobbarcarmi infiniti secchi d’acqua destinate ad alimentare le vasche del calcinaio. A questo, seguì l’incarico di rimestare le pelli, per lo più di capre e pecore e a volte di vitello, per poi cavarle fuori con una grossa pertica e disporle a essiccare su appositi cavalletti. Per levare dalla vasca un’intera pelle vaccina, sgocciolarla a dovere e in seguito raschiarla con l’apposito lunellum ci voleva ben altro che un letterato rachitico, sicché nel giro di breve tempo mi irrobustii.
Odilone segnava sulla pertica i progressi della mia altezza e garantiva che quando sarei stato in grado di realizzare il mio primo folium senza lacune e rammendi, mi avrebbe concesso di accedere allo scriptorium. Già sapeva del fascino che su di me esercitavano i tavoli approntati con i corni d’inchiostro e le polveri scintillanti dei colori: il vermiglio e il sangue di drago, che si diceva appunto nato dal sangue di un drago e di un elefante uccisi in battaglia; poi il giallo zafferano, il blu e le lamine d’oro che minuscole pinze posavano su colla di chiara d’uovo, a raffigurare la luce dell’eterna beatitudine.
Solo in rare occasioni avevo visitato quella sala dalle ampie finestre, rivolta al mezzogiorno per cogliere fino all’ultimo pulviscolo di luce, eppure sempre avvolta dal gelo che sudava dalle pareti. L’unico tepore proveniva, anche in estate, da un focolare collocato nel punto più remoto e più buio. La fiamma scaldava solo chi si trovava nelle immediate vicinanze, mentre l’umidità continuava a gocciolare dai muri fin nelle ossa. Forse proprio per questo, chi era costretto a lavorare per lunghe ore finiva per assumere quella tipica posizione rannicchiata sullo sgabello.
Assai ingenuamente, mentre sudavo sotto al sole nello stretto cortile del calcinarium, pensavo che sarei stato in grado di resistere a qualunque intemperia, pur di poter accedere un giorno a quei manoscritti che contenevano tutti i segreti della sapienza.
Alle Case Rotte, il canonico Uguccione custodiva in un armadio, insieme a non meglio precisate reliquie di santi  – ossicini di pollo, secondo i meno devoti tra i miei compagni di allora – un innario miniato e dedicato alla Vergine. Senza voler dubitare della sicura pietà di Uguccione, dirò che quel volume, rilegato con arte e conservato in una teca di profumato legno di pino, era tenuto in maggior conto di quelle spoglie adorne di nastri e fiori secchi – probabilmente mai rinnovati dal giorno in cui le reliquie giunsero alla pieve. L’innario era esposto, con grande solennità, in occasione delle festività della Madonna, quando dall’abbazia salivano i cantores per la messa solenne. Allora la nostra chiesa, povere mura che s’appoggiavano ai più solidi bastioni del sottobosco, si colmava di voci che non erano di questo mondo: col naso finalmente levato dalle zolle e immerso nelle nuvole degli incensi, anche noi abitanti del borgo ci sentivamo ammessi alla corte celeste, dove gli angeli cantano le lodi di Dio nei secoli.
Gli stessi cantores parevano figure discese da un altro regno: non erano diversi dalle figure dei santi affrescati sulle pareti della pieve, con la differenza che quelle erano ormai annerite dal sego e soffrivano l’umido di innumerevoli spifferi, tanto che in molti punti, a cause delle piogge, erano ricoperti di funghi detti i berretti del diavolo. I cantori, invece, conservavano intatto il nitore della nuova Gerusalemme, che in quei giorni scendeva alle Case Rotte con lo splendore delle candele in cera d’api, gli incensieri d’argento e il tenue aroma di erbe con cui i paramenti erano conservati dentro alle cassepanche per il resto dell’anno.
Totalmente affascinato, desideravo solo esser parte di quel corteo che parlava in latino faccia a faccia con Dio: se l’Altissimo era infinita grandezza e imperscrutabile sapienza, come insegnava Uguccione a noi ragazzi del borgo, volevo contemplare da vicino quella bellezza e apprendere la conoscenza, per lo meno quella contenuta nei libri. A quel tempo ero ancora un infante col moccolo che si divertiva a indovinare forme strane nel passaggio delle nuvole – una torre, un castello – e quando dalla nebbia filtravano lunghe lame di luce, immaginavo una scala che dalla nostre montagne salisse fin lassù, nei luoghi del mistero.
In verità, tendevo a confondere il paradiso con l’ozio: sicché non mi passava neppure per la mente che presso l’abbazia non si usasse soltanto salmodiare nel coro e immergersi nella lettura, ma toccasse sgobbare esattamente come al mulino di mio padre.  
Ne feci l’esperienza non solo quando fui affidato a Odilone per l’ufficio del calcinarium ma soprattutto quando, con mio grande entusiasmo puntualmente sconfessato dai fatti, passai sotto la guida del monaco Teodoro, il più giovane miniatore del monastero.
Teodoro proveniva dalla terra dei Romei, l’impero dei Greci, anche se a ben guardarlo si poteva pensare che fosse originario delle regioni del nord o meglio della stessa Civitas De, perché era di carnagione chiarissima e trasparente, e somigliava in tutto agli angeli musicanti che avevo visto spesso nelle edicole poste ai crocicchi delle mie valli. Quanto al temperamento, lo si sarebbe detto più simile ai leoni che sorvegliavano le porte della chiesa abbaziale: con l’unica differenza che quegli esseri poderosi erano semplici simulacri di pietra, mentre Teodoro era creatura di carne e ossa, dagli umori il più delle volte tempestosi.
Quando si innervosiva, il che accadeva spesso, prendeva a insultarmi nella sua lingua di origine: io chinavo la testa senza capire affatto dove stava l’errore, mentre altri nello scriptorium, che evidentemente comprendevano il greco, sghignazzavano dietro al riparo dei volumi. Qualcuno disapprovava per lo più limitandosi a scuotere il capo, perché Teodoro di Calcedonia era un lustro per l’abbazia, dove era giunto al seguito della basilissa Zoe in occasione delle nozze con l’imperatore Ottone. Avendo offerto ospitalità all’Imperator dopo l’attacco di febbri che l’aveva colto a Faleria e da cui si era risollevato dopo dieci giorni e dieci notti di deliri e visioni, il nostro abate Rodolfo aveva ricevuto molteplici benefici. Oltre alla presenza ispida di Teodoro, numerosi manoscritti e una fornitura del più raro pigmento che a un minatore sia dato di utilizzare: il blu oltremare che si ottiene dalla lavorazione del lapis lazulo, le cui si origini si perdono lungo le vie carovaniere d’Oriente.
Teodoro era l’unico legittimato a utilizzarlo per le sue opere, veri capolavori in cui le lamine d’oro, disposte con sapienza a creare orli e sfondi, si mutavano in luce e illustravano processioni di santi e scene quotidiane: il taglio della legna, la cottura del pane, l’aratura dei campi, la bonifica delle terre argillose del circondario. Dalle lettere delle rubriche scaturivano selve abitate da uccelli variopinti, rappresentazioni dei giardini dell’Eden, il mare che si apriva di fronte a Mosè in un turbine di pesci e mostri guizzanti. Immergendomi nella contemplazione di quei folia, perdevo la cognizione dello spazio, del tempo e persino della scarsa simpatia che provavo nei confronti di Teodoro. Mi pareva allora di comprendere appieno lo scopo di quell’arte, che era di mostrare come l’intero mondo non fosse che un riflesso del Divino splendore.
Quell’idea era confermata dallo stesso Teodoro: “La luce è emanazione della vera Sapienza e il colore rivela la presenza di Dio. Il blu, in particolare, richiama alla trascendenza, per questo lo utilizziamo per le vesti del Cristo e della Theotokos.”
“Di chi?” domandavo io, confuso.
“Della Madre di Dio, idiotes,” sbuffava Teodoro, che già aveva smarrito quel poco di pazienza che possedeva e che in verità era più esigua di quel granello di senapa che, secondo l’Evangelista, dà luogo a un maestoso albero in cui gli uccelli del cielo possono trovare riparo.
Parlando di ripari, dirò che nei primi tempi del mio burrascoso sodalizio con Teodoro, quando la tentazione che maggiormente mi coglieva era quella della mormorazione – non si addice infatti a un monaco coltivare l’idea di percuotere un confratello, per cui si suole al massimo mormorare alle sue spalle – trovai sostegno e comprensione nel vecchio Odilone. Quando avevo un po’ di tempo lo raggiungevo nel calcinarium. Mentre raschiavo le pelli con l’ausilio del lunellum, mi sforzavo di grattare dal fondo dell’anima anche i malumori, quelle pessime disposizioni che salivano alte e robuste come la zizzania, l’erba della discordia per eccellenza.  
Il mio primo compito da tirocinante nello scriptorium fu imparare a tracciare le linee che avrebbero guidato la mano del copista. A quel tempo, come ora, prima di incominciare l’opus della scrittura occorreva segnare le righe con la massima precisione e senso dell’armonia. Il senso dell’armonia di Teodoro doveva senza dubbio essere assai elevato, fatto sta che nel mio lavoro trovava sempre qualche difetto. Magari impercettibile e solo a lui evidente, fatto sta che il difetto c’era e per rimediarvi occorreva cospargere i folia di gesso e ricominciare daccapo, con l’ausilio del filo e della punta a piombo.
Confesso di aver sospettato in più occasioni che il giovane Teodoro agisse mosso non da lodevole zelo, bensì da pura e semplice antipatia nei miei confronti. Di questo, in più occasioni, ebbi a sfogarmi con Odilone e arrivati persino a rimpiangere la durezza del lavoro nel calcinarium. Odilone, dal canto suo, non si stancava di ripetermi quel passo della Regola dove si dice che, nel momento della prova, il monaco deve saper opporre alle contrarietà la pazienza, senza stancarsi e soprattutto in silenzio. Certo, le contrarietà che andavo attraversando erano di poco conto, proporzionate alla mia età e inesperienza: però ammetto che mai come in quel periodo osservare la Regola mi parve difficile quanto sfondare un muro a colpi di testa. Testardo lo ero assai, un mulo di paese mi definiva Teodoro, che in verità era ostinato quanto me: io nel ripetere all’infinito l’errore, lui nel riprenderlo e ordinarmi di ricominciare dal principio tutto il lavoro.
Il frutto di quella tensione non tardò a manifestarsi: in coro sbagliavo i tempi ed ero costretto a prosternarmi in segno di penitenza davanti ai confratelli. Più volte, in refettorio, rovesciai i vaselli dell’acqua, il tagliere del pane, oppure incorrevo in qualche altra negligenza, sicché mi toccava puntualmente stendermi sul pavimento, tra le bucce e gli scarti, fino alla fine del pasto. 
Arrivai a coltivare pensieri sgradevoli non solo nei confronti del mio giovane maestro, ma anche nei confronti dell’intera abbazia e persino di Benedetto, colpevole a mio parere di avere inventato una Regola impossibile a seguirsi, quanto meno per me.
Una mattina entrai nello scriptorium con il fermo proposito di chiedere a Teodoro di essere esentato dall’ufficio di rigatura. Di seguito, avrei domandato all’abate il permesso di ritornare da mio padre, vista la mia assoluta incapacità di adattarmi alla vita monastica e con buona pace dell’usufrutto sui Mulini della Vecchia e dei diritti di pesca nel fiume Panarium.
Avvolto dalla luce iniziale del giorno, mai come allora lo scriptorium mi apparve come uno scrigno prezioso, poiché già lo vedevo con gli occhi del rimpianto. Il monaco Teodoro era già al suo lavoro, con la fila di penne disposte ordinatamente, le ampolle dei pigmenti e sottili strali d’oro che decoravano, più che macchiare, le sue dita abili. In quel momento era intento a passare la spugna sui punti del folio destinati a ospitare le lamine dorate che avrebbero formato l’aureola e gli orli del manto di una Vergine col Bambino. Poco più in là, i copisti affilavano la punta dei pennini, disponevano gli inchiostri, ammorbidivano i folia con l’uso della pomice. Qualcuno si crogiolava nei primi raggi di sole e spostava lo sgabello per avere più tepore.
Mentre mi domandavo se davvero intendevo lasciare tutto questo, Teodoro mi rivolse una rapida levata di sopracciglio e m’invitò a sedere al suo fianco. 
La sua mano mi guidò ad afferrare la pinza, poi a sollevare una lamina di spessore impercettibile. “Da oggi inizieremo ad apprendere la doratura. Si tratta di un lavoro di estrema precisione, ma in fondo anche semplice. Può farlo anche un mulo di paese, basta avere l’accortezza di seguire esattamente i contorni. Dopo, verrà il colore.”
Stupefatto e confuso, alzai gli occhi dal tavolo, dove erano disposti tutti quegli strumenti che a malapena riuscivo a guardare per il timore di fare un danno, figurarsi toccarli, prenderli, adoperarli.
“Che c’è, ti sei incantato?” sbuffò a quel punto Teodoro. “Sarà meglio che ti svegli, perché da oggi in poi dovremo lavorare parecchio. Abbiamo ricevuto l’incarico di preparare un evangeliario in occasione delle nozze della figlia dell’Imperator. Teofano e il suo corteo partiranno da Ravenna la prossima primavera e una nostra delegazione la incontrerà a Pomposa per consegnarle il dono. Tolto il tempo del viaggio, abbiamo a disposizione sei mesi esatti a iniziare da ora.”
Alle Case Rotte, non si sapeva neppure chi fosse l’imperatore: giravano molte leggende di cavalieri, o forse di briganti, che ancora ai tempi della gioventù di mio padre avevano risalito le nostre montagne senz’altro scopo evidente che quello di depredare. Non trovando nulla da prendere, s’erano accontentati di dar fuoco alla pieve, distruggere le case e terrorizzare la gente. Qualcuno sosteneva che si trattasse dell’esercito di Ottone di Sassonia, che marciava verso Roma in aiuto del papa; secondo altri, si trattava di bande che avevano semplicemente approfittato dell’occasione per darsi alla razzia. Del resto, sarebbe stato ben poco onorevole per un re dotarsi di un seguito che inseguiva le galline fin dentro ai pollai, infilzava i maiali a colpi di picca e riduceva in cenere tutto ciò che non era possibile portare con sé.
All’abbazia Ottone era considerato come un benefattore, per via dei ricchi lasciti che aveva concesso al tempo della sua convalescenza dalle febbri. Tra questi, il più importante sedeva ora al mio fianco e guidava la mia mano nel comporre gli orli del manto della Theotokos, che avremmo poi dipinto con il prezioso blu oltremare. D’oro erano anche i pannicelli del Bambino, che posava la gota contro quella di lei in un gesto di tenerezza. Dimenticai ben presto Ottone e il suo esercito, i polli di mio padre e persino il proposito di abbandonare la vita monastica, per dedicarmi interamente nel mio lavoro.

 
******
 

Ravenna, Palazzo dell’Esarcato, un anno dopo

 
“Ancora!”
Non mi stancavo mai di ascoltare quella leggenda. Dal camino proveniva il crepitio delle ultime braci, che a tratti schiudevano i loro occhi rossi sotto a un velo di cenere, esalavano un soffio e quindi si disponevano a dormire. Cosa che, d’altro canto, avrei dovuto fare anch’io. La pioggia che ticchettava incessante contro alle mura conciliava il riposo. Berta di Classe, la mia balia, aveva recepito in pieno il suggerimento e dopo aver ciondolato il capo in qua e in là aveva cominciato a russare. Solo le ampie vesti la tenevano ancorata alla seggiola, impedendole di cadere a gambe all’aria.
“Svegliati, Berta! Devo sapere come va a finire la storia!” Di nuovo la chiamai, perché la sonnolenza l’aveva colta sul più bello. Anche se la vicenda di santa Marina che vestì panni maschili per vivere nel deserto l’avevo udita così spesso che potevo ben dire di conoscerla a memoria, ogni volta provavo le stesse emozioni: un misto di eccitazione, desiderio di avventura e fascino per l’Assoluto. Marina che seguì suo padre in monastero e come monaco visse anch’essa nel cenobio, fu accusata di aver disonorato una giovane, crebbe il figlio di lei sotto a un riparo di frasche e solo dopo la morte si scoprì che era femmina. Per vivere cose grandi, evidentemente, occorreva essere uomini. Così era a quel tempo e così è ancora oggi. O forse era sufficiente esser cavalieri nell’animo. In ogni caso, Marina era l’eroe senza macchia che sognavo di essere.
“È tardi, piccola augusta,” borbottò Berta di Classe, con la voce ruminante di chi parla nel sonno. “Sulle mura è già passata la terza ronda e domani molti impegni ci attendono. L’abito per le nozze, i profumi richiesti per te dalla basilissa, l’arazzo che recherai in dono al tuo sposo. Ormai il tempo del nostro viaggio è vicino.”
“Io voglio restare accanto a mio padre, come Marina,” risposi io chiaro e forte, al punto che Berta si ridestò del tutto, riordinando di colpo le vesti, la faccia e le trecce.
“Quelli erano altri tempi, figlia mia, i tempi delle leggende.” Berta ravvivò il fuoco, vi gettò foglie di alloro per purificare l’aria e un paio di ramoscelli, quel che era necessario per prolungare un poco la veglia. “Su ogni vita Dio pone la sua volontà come un sigillo. Nel tuo caso, la Sua volontà coincide con quella di tuo padre.”
Con quella di tua madre, avrebbe fatto meglio a dire, perché di fatto il mio matrimonio con Imre di Ungheria era stato suggerito all’Imperator da lei, Zoe nata dalla porpora dei palazzi dei Romei e giunta sino a qui dopo un lungo cammino di terra e di mare, dalle regioni in cui nasce il sole al mattino fino ai luoghi in cui, secondo i semplici come Berta, lo stesso sole scende a trascorrere la notte sul fondo del mare. Ora un analogo tragitto, questa volta attraverso fiumi e montagne, attendeva anche me: ignoravo del tutto dove si trovasse il reame di Ungheria, ma sapevo che un tempo quella regione era stata romana. Ora che l’Impero era finalmente tornato a essere uno, un’alleanza del genere era il primo passo per ricondurre quella regione alla cristianità, o meglio sotto il governo di Ottone, Imperator Romanorum per Divina Volontà.
Da quella sera di pioggia molti anni sono trascorsi, ma io la ricordo come se fosse ora. Forse perché anche il cielo di questa notte, in questa città di Alba Regia in Ungheria, è basso per il vento e greve per la tempesta. Su questo manoscritto redatto presso il monastero della Visitazione, dove posso finalmente accedere a quella sapienza che ho a lungo desiderato, io, Teofano di Ravenna, intendo lasciare traccia dei miei ricordi, dei molti fatti di cui fui testimone nel tempo in cui rivisse l’Imperium Romanorum, unificato in forza del matrimonio tra Ottone di Sassonia e Zoe basilissa dei Romei.
 Racconterò in particolare del viaggio che mi condusse attraverso i territori della Nuova Pentapoli, da Ravenna e fino ai più alti valichi dove si parlava la lingua cara a mio padre, per giungere infine al regno di Stefano il Pio, padre dello sposo scelto per me dall’infanzia, Imre degli Árpád.
Comincerò a narrare da quella sera trascorsa tra la sonnolenza di Berta, il camino che crepitava altrettanto stancamente, purificando l’aria dagli spiriti nefasti con un pugno di foglie d’alloro, e il ricordo di antiche leggende che mi ispiravano sogni avventurosi. Continuerò dicendo dei più strani preparativi che ebbero luogo nei giorni prima della partenza e che sortirono l’esito di assegnarmi un bagaglio tra il principesco e il bizzarro, che fu causa di molteplici vicissitudini. Se era l’avventura, quella che cercavo, debbo dire che fui pienamente accontentata.
In quei giorni un gruppo di girovaghi si presentò al Palazzo, esibendo curiosità provenienti dai confini del mondo e attirando subito l’attenzione di quanti, operosi o sfaccendati, si trovavano a transitare per la corte.
“Chi siete? Di qui non si passa. Per il mercato, proseguite sempre diritto.” Il capo del plotone a guardia delle mura, un pretoriano di nome Rustico, scese velocemente dalla sua postazione e sbarrò il passo al carretto coperto da una teleria sbrindellata, al quale era aggiogato un somaro bigio e recalcitrante. Il padrone lo tirava per le redini, schioccava la lingua per farsi intendere nel linguaggio delle bestie da soma, dava sfogo alla stizza senza far caso al tizio armato di tutto punto che gli stava di fronte.
“Ohiii Liutprando, ohiii!”
Costretto a muoversi suo malgrado  – e c’era da aspettarsi che di punto in bianco lasciasse il morso e tutti i denti in mano al carrettiere – Liutprando faceva un passo e immediatamente arretrava di due.
“Ohiiii! Che c’è, hai visto un fantasma?”
Piantato sotto l’arco d’ingresso della corte e altrettanto testardo, Rustico non mollava:
“Il tuo ciuco ha più buon senso di te. Ti ho detto che per il mercato devi andare avanti dritto. Per il porto, a destra per la discesa. Qui, comunque, non puoi entrare.”
Il tizio del carretto non gli concesse neppure un attimo di attenzione. Si rivolse ai compari che stavano acquattati dietro ai tendaggi:
“Voialtri imbecilli, venite ad aiutarmi!”
Dal carro spuntarono un paio di facce smunte. Vista la mala parata, il ciuco s’impuntò con tutte le sue forze.
La scena cominciò ad attirare l’attenzione di quanti affollavano il luogo a quell’ora: le guardie si sporgevano dai loro camminamenti e dalle bettole dentro alle mura, i garzoni del fabbro, dei panettieri e dei vasai facevano capolino dalle rispettive botteghe. Un gruppetto di monache che recava un pesante arazzo s’intrufolò spaurito tra Liutprando e la guardia, sparendo sotto al portico che conduceva agli appartamenti della basilissa Zoe. 
Seguendole con lo sguardo, non potei fare a meno di sbuffare annoiata: ecco un altro orpello pronto a entrare a far parte del mio bagaglio di viaggio. D’un tratto provai una grande simpatia per il ciuco, perché anch’io recalcitravo e non poco: non volevo lasciare mio padre che soffriva di attacchi di febbri che lo lasciavano spossato, non volevo recarmi in un paese ignoto con l’unica compagnia di Berta e di un manipolo di armigeri, tanto meno desideravo sposare uno sconosciuto che immaginavo vecchio, barbaro e con tutti i difetti del mondo. Dal sacco di un verduraio pescai due carote e mi diressi decisamente verso il gruppetto.
Da vicino, il ciuchino pareva ancor più macilento di quello che si poteva intuire da lontano. Divorò una carota, poi mosse qualche passo per addentare la seconda. Come se fossi anch’io carrettiere da una vita, lo guidai all’abbeveratoio al centro della corte.
“Ha solo fame e sete,” notai, rivolta al gruppetto che s’era zittito al mio arrivo.      
“Non dovresti essere qui, augusta Teofano,” si limitò a brontolare Rustico, contrariato. “Quanto a questa gente, non sappiamo neppure da dove vengono.”
“Messere, noi veniamo dai più rinomati luoghi della cristianità,” s’intromise con larghi inchini quello che aveva lottato fino all’ultimo con Liutprando. Da parte mia, sapevo bene che il mio posto non era a zonzo per la corte ma nel quartiere delle donne, a contemplare l’arazzo donato dalle monache, a stordirmi con le essenze commissionate ai migliori profumieri e a badare ad altre faccende del genere, sempre in vista di quel viaggio che ormai avevo cominciato a detestare. 
 “Rechiamo con noi merci di grande pregio,” continuò quello del ciuco. “È nostro desiderio offrirle a questa corte e, se possibile, all’attenzione della basilissa.”
“Voi tre dalla basilissa?” ghignò il miles Rustico. “Prima di varcare la soglia, dovreste lavarvi i piedi per dieci anni di seguito e forse non basterebbe. Puzzate peggio dell’asino e non so cosa abbiate da vendere, a parte i vostri pidocchi.”
“Sandrone, procedi,” replicò lo straniero. Un giovane sparuto si affrettò a cavare da un sacco una fiala splendente di dorature, dal contenuto liquoroso e fluttuante di sfumature ambrate.
“ A riprova della nostra buona fede,” riprese il capo girovago, esibendo la fiala sotto al naso di Rustico, “consentimi di offrirti questa lozione dalle cento qualità, filtrata nel cenobio dei Sette Savi di Rodi.” Rustico non sapeva né leggere né scrivere, figuriamoci se sapeva dell’esistenza dei Sette Savi di Rodi, nozione che peraltro sfuggiva anche a me. Delle supposte cento qualità di quel liquido, il padrone del ciuco ne enumerò solo tre, però fondamentali: “Previene la calvizie, suscita il desiderio e aumenta le capacità amatorie dell’uomo. Poche gocce di questa lozione e dovrai difenderti dagli assalti delle fanciulle.”
Rustico non pareva troppo convinto. Molto probabilmente, aveva assistito spesso a spettacoli di imbonitori e non ci teneva a farsi infinocchiare, soprattutto di fronte al capannello di donne, servi e commilitoni che nel frattempo s’era radunato attorno al carro.
Dopo la fiala, Sandrone aveva tratto dal sacco una serie di ciondoli che montavano frammenti di corteccia e pietre dure: “Ecco il legno del sorbo che protegge le case, come dice il proverbio: sorbo selvatico e filo rosso, fan correre le streghe a più non posso. Il corniolo e l’avventurina, che propiziano la salute e la buona fortuna. L’agata, efficacissima contro gli incubi notturni, i demoni che gravano sul ventre mentre si dorme e tolgono il respiro. Non funziona, ovviamente, se avete esagerato col mangiare e col bere.”
Con la coda dell’occhio, vidi le monache dell’arazzo sopraggiungere dai quartieri delle donne. Due di loro avrebbero voluto fermarsi ma le consorelle più anziane le tiravano per la manica, con un cipiglio che imponeva di affrettarsi. Sicuramente anche Berta, in quel momento, era pungolata dalla fretta e mi stava cercando per i cortili del gineceo, tra gli zampilli delle fontane e i palmizi, inseguita dagli sguardi furibondi della basilissa.
 “Con questi talismani camperete cent’anni e sarete liberi da ogni legamento o malattia delle bestie e degli uomini, incendio e veneficio, dai malefizi degli spiriti dell’aria, dell’acqua, della terra.”
“E del fuoco,” aggiunse l’ultimo del terzetto, un tipo con le gote rubizze e la pancia più o meno delle dimensioni del sacco. Dopo avere frugato a lungo nei recessi del carro, riemerse con un mazzo di cornetti color corallo: “Ecco a voi o’ curnicello, prezioso amuleto proveniente dal ducato di Napoli. Ottimo per scacciare il malocchio, avere fortuna al gioco e fare affari d’oro. Attenzione, però: non va comprato ma regalato. San Gennaro, san Gerolamo, san Giustino e san Crispino, usa il mio cornetto, dagli fuoco, dagli vento. San Crispino, san Giustino, fammi vincere il quattrino…”
Il terzo ambulante stava ancora recitando la sua filastrocca quando un gruppo di canonici di sant’Apollinare si fece avanti nel bel mezzo della calca. Alcune delle monache che si erano attardate in prossimità della porta, sparirono in men che non si dica e in una nuvoletta di polvere.
“Cosa si vende, qui? Talismani, intrugli e altri artifici di stregoneria?”
Riconobbi Cassiano, confessore imperiale e braccio destro del papa Silvestro. Anni addietro, una sollevazione di nobili aveva cacciato il papa e l’Imperator da Roma. I progetti di riconquista erano ancora sulla carta e nel frattempo Cassiano offriva a noi il beneficio delle sue estenuanti omelie, il cui argomento principale era il diavolo in tutte le sue forme, quasi che del buon Dio si fosse dimenticato. Il risultato di tutti quei discorsi, più che il timore, era la noia: la basilissa si assopiva fin dall’inizio, l’Imperator dopo un po’ cominciava ad aprire e chiudere il pugno per invitare a farla corta e io, solitamente, approfittavo del torpore generale per svignarmela altrove.
Quel mattino, tuttavia, la voce di Cassiano ebbe il potere di ridestare tutti i presenti dalla suggestione degli amuleti. Accanto all’abbeveratoio dove Liutprando godeva il meritato riposo, calò improvviso il silenzio. Solo il capo degli ambulanti non si fece cogliere in fallo: mentre Cassiano e il suo seguito fendevano la ressa, aveva già fatto sparire curnicielli e monili dalle fantastiche proprietà. Dai recessi nascosti sotto alle telerie del carro cavò fuori una serie di fiale argentate e un involucro di broccato.
“Reverendissimo, noi non vendiamo niente di tutto ciò. Siamo semplici pellegrini e dai nostri viaggi nei luoghi santi siamo soliti riportare reliquie da offrire alla venerazione dei buoni cristiani. Ecco la mirra di san Nicola che nelle terre dell’Apulia trasuda dalla sua tomba.” Mostrò la prima fiala, quindi passò a descrivere la seconda. “In quest’ampolla è contenuta qualche foglia degli uliveti del Getsemani, dove Nostro Signore si fermò in preghiera la notte del Venerdì Santo.”
“Che dici mai, furfante?” lo interruppe un pretino minuscolo, che sgomitava per farsi avanti e non finire fagocitato dalla folla. “La notte del Venerdì Santo, il Cristo era già nel sepolcro.”
“Ben detto, padre santo,” tirò dritto il capo girovago. “E a questo proposito, desidero porgerti in dono l’acqua della Basilica di Gerusalemme, raccolta dalla pietra dove il Cristo fu unto prima di essere deposto nella sua sepoltura.”
“E quell’involto cosa contiene?” domandò Cassiano, ostinato.
Le corna di Belzebù, avrei voluto rispondere, ma il capo degli ambulanti mi precedette: “Si tratta senza dubbio della più importante reliquia della cristianità, che può essere offerta solo alla basilissa. Lei sola ha il diritto di esporla e noi ci sottomettiamo alla sua autorità. È un omaggio di noi pellegrini in occasione delle nozze dell’augusta Teofano. Se la recherà con sé, il suo viaggio avverrà sotto alla più potente benedizione celeste.”
“Hai un bel coraggio, straniero. Sicché un dono simile verrebbe dalle mani di tre pezzenti più un ciuco.” Tra la folla, qualcuno rise. Per trarsi d’impaccio e affinché fosse ben chiaro a tutti che lui con quei tre non aveva nulla a che fare, Rustico cominciò a enumerare le pene previste per gli eretici, negromanti, divinatori e ciarlatani: un occhio la prima volta, la lingua la seconda, il rogo di tutte le membra per la terza.
“Sono io, l’augusta Teofano,” mi intromisi a quel punto. “Siate i benvenuti nel Palazzo dell’Esarcato. Se vorrete seguirmi, vi condurrò ai quartieri della basilissa Zoe.”  
Sentivo su di me gli sguardi del popolino, le occhiate fiammeggianti di Cassiano e del pretino che annaspava stretto tra i guardiani di oche, i garzoni dei fornai, le donne delle caserme e un paio di maniscalchi dalle braccia come travi. Persino Liutprando voltò il muso nella mia direzione, mentre i tre lestofanti, stupefatti e confusi, abbozzarono un inchino facendo volteggiare in aria i loro berretti.  
Ancora oggi non so se intervenni per fare un dispetto a Cassiano, per ottenere un giusto compenso per tutte quelle ore trascorse ad ascoltare le sue omelie sull’inferno o per il desiderio di portare un po’ di scompiglio nei quartieri delle donne. Ero anche curiosa di sapere cosa contenesse l’involto, sicché afferrai decisa Liutprando per la cavezza e guidai il carro dei pellegrini, seguito dai canonici in processione, attraverso i cortili, le fontane e i giardini odorosi di gelsomino.

 
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Capitolo 2
*** Capitolo secondo: Dove si apprendono delle cattive notizie e qualcuno finisce spennato come un pollastro ***


Capitolo secondo: Dove si apprendono delle cattive notizie e qualcuno finisce spennato come un pollastro
 

 

“A volte è difficile fare la scelta giusta,
perché o sei roso dai morsi della coscienza
o da quelli della fame”
(Totò)
 
 

Eremo della Madonna delle Carceri, bacino fluviale dell’Adige a sud dei Colli Euganei
 

Mentre il corpo di mio padre veniva lavato con vino speziato per cavare gli umori fetidi delle febbri, quindi condotto in processione a Sant’Apollinare, per riposare in somno pacis accanto alle ossa del santo, io avevo ormai lasciato i territori della Nuova Pentapoli. Il mio corteo sostava nei pressi di un romitorio che galleggiava letteralmente sulla palude, in una pianura di nebbia detta, con grande appropriatezza, delle Carceri. In quella piana delimitata all’orizzonte da colli lattiginosi, contro cui il vento rimasto dall’inverno scalciava nel tentativo di trovare una via d’uscita, un gruppo di agostiniani era riuscito a mettere radici e due capanne, con l’intento di trasformare quel luogo in un monastero.
Dagli acquitrini coperti da una patina verdastra, a tratti emergevano le loro sagome bigie, intente a levare argini e a condurre carriole di ghiaia, che qua e là cedevano e toccava fermarsi per disincagliarle dal fango. Il tintinnio degli scalpellini, proveniente da una cava nel ventre delle colline, era interrotto dai richiami di grossi uccelli rauchi, in volo dai canneti.
La desolazione che ovunque ci circondava mi suggeriva l’idea di un’immensa lontananza.
Giungemmo infine a uno spiazzo dove sorgeva l’unico edificio in pietra, le mura di una cappella dedicata alla Vergine con al posto del tetto un frammento di cielo.
Là ci raggiunse il priore per offrirci il benvenuto, acqua per i cavalli e una tavolata di frutta secca. Raffiche basse preannunciavano un temporale e scuotevano i rami di un alberello contorto, che malgrado le zolle fradice e l’aria greve fioriva in una nube di petali rosa.  
Sempre là, poco dopo, fummo raggiunti da un messo inviato da Ravenna. L’avevo già intravisto durante l’ultimo tratto, spiando dalle cortine che relegavano il mio carro in una penombra perenne. All’orizzonte, la forma indistinta di un cavaliere spariva nella caligine, di seguito riaffiorava e ci veniva incontro al galoppo. “Sarà la retroguardia,” aveva detto Berta, che badava a tenersi sul naso un sacchetto di sostanze aromatiche, perché temeva gli umori e le febbri delle paludi.
“Oppure sarà il diavolo,” osservò un’altra dama, stringendo anche lei un involto sul lungo naso a becco e sobbalzando all’udire l’eco di un tuono. “Lo senti, piccola augusta? È il diavolo che porta a spasso sua moglie.”
Quegli intrugli di mirra, canfora e altri estratti avevano saturato, nel giro di breve, la poca aria che ristagnava nel carro. A quel punto cacciai la testa fuori dalle cortine per tirare un respiro e rivolgermi a Rustico, che sobbalzava in sella sulle creste di fango.
“Qualcuno ci sta seguendo,” dissi. Anche il pretoriano teneva un fazzoletto intriso di spezie sul volto, il mantello tirato fin sopra alle orecchie e gli occhi a fessura, per ridurre al minimo i contatti con i miasmi. A vederlo così, pareva che dormisse.
“Svegliati un po’, soldato!” lo ripresi, facendolo sobbalzare. “Vai piuttosto a vedere chi è che ci vien dietro.”
Chi era lo sconosciuto, lo imparai ben presto.
“Porto notizie dal Palazzo dell’Esarcato,” disse quando arrivò, scortato da Rustico e ancor prima di scendere da cavallo. “Le febbri hanno prevalso sulla salute dell’Imperator.” Il messo cavò fuori un dispaccio e lo porse a Cassiano, che aveva assunto la mia tutela per il tempo del viaggio. Riconobbi il sigillo della basilissa Zoe, insieme a un altro a me totalmente sconosciuto. Nel silenzio che era caduto d’un tratto, cercai di decifrare il senso di quella lettera osservando la faccia assorta di Cassiano, il cui cipiglio andava peggiorando mano a mano che scorreva le righe. Il messaggero attendeva paziente e sull’attenti, impegnando le ultime riserve di energia per rimanere dritto dopo aver cavalcato a spron battuto per giorni. Accanto a lui, Rustico era assorto a guardarsi le pezze dei piedi.
Il peggior presentimento trovò spazio dentro di me, così recuperai un filo di voce e domandai:
“Mio padre è peggiorato? Ha avuto un altro attacco?”
“Da tempo l’Imperator aveva espresso il desiderio che il suo cuore riposasse accanto a sua figlia,” rispose il messaggero, porgendomi un astuccio che mi spinse a riparare tra le ampie vesti di Berta. “Lo porterai con te in terra di Ungheria.”
“Voglio tornare a Ravenna,” protestai. Fu tutto ciò che riuscii a pensare in quel momento, mentre avevo l’impressione di affondare nell’acqua marcia della palude.
“È volontà della basilissa che il sogno dell’Impero riunificato continui,” intervenne Cassiano. “Puoi scegliere se fare ritorno a Ravenna ed essere adottata dal prefetto Cipriano, che tua madre ha prescelto perché regni al suo fianco.” Notai chiaramente sul volto del mio tutore un moto di insofferenza. “Oppure, puoi decidere di dar seguito alle ultime volontà dell’Imperator e proseguire il tuo viaggio.”
Quel viaggio, in realtà, non era stato mio fin dall’inizio: lo diventò in quel momento, malgrado la confusione, la tristezza, lo smarrimento. Gran parte del discorso di Cassiano mi rimaneva oscuro: Cipriano di Armenia lo conoscevo solo di nome, nulla sapevo di lui se non che era il comandante delle guardie di mio padre. Non ero ancora donna al tempo della partenza e, se la memoria non mi inganna, non lo ero neppure allora. Eppure quella sera, mentre il cielo si rompeva percorso dai lampi e cominciavano a cadere le prime gocce, uscii definitivamente dall’infanzia.
Ordinai di riprendere il cammino nella notte. Su mia richiesta, le dame insieme a Berta presero posto in un altro convoglio. Coi sacchetti di essenze sempre attaccati al naso, da cui sfuggiva un mormorio ancora più acre, le vidi salire su uno dei carri di vettovaglie e stiparsi tra i sacchi di carne sotto sale, i barattoli di conserve e le scorte per i cavalli.  
Il tramonto era un filo di brace sull’orizzonte, la pioggia una cortina che velava un paesaggio collinare e monotono. Dal mio carro solitario udivo le voci di Rustico e di quelli della scorta, di tanto in tanto costretti a fermarsi per cavar fuori dalla melma una ruota.
Quello era il momento destinato ai pensieri, eppure non riuscivo a metterne insieme neanche uno. Guardai i mucchi di oggetti ammassati un po’ ovunque, cassepanche di abiti da cui proveniva un leggero aroma di basilico, suppellettili avvolte in drappi di tessuto, cofanetti intarsiati per i gioielli e il trucco. Qualche grano d’incenso ormai ridotto in cenere diffondeva un’intensa fragranza alla rosa.
Avvertivo in me il bisogno di fare delle domande, ma passando in rassegna i volti del mio seguito, mi resi conto che nessuno sarebbe stato in grado di rispondermi in modo convincente.
“Fatti animo, piccola augusta,” avrebbe detto Berta, senza sapere che pesci pigliare.
“La volontà di Dio segue vie incomprensibili,” avrebbe sentenziato Cassiano, senza spiegare niente.  
D’un tratto mi ricordai di un involto tra i tanti, un panno di broccato tenuto insieme da cordicelle dorate. Doveva pur essere da qualche parte, in fondo si trattava del dono più importante da offrire a Stefano il Pio, in segno di alleanza: frugai tra le masserizie e presto lo ritrovai.
Si trattava della reliquia che i sedicenti pellegrini dei luoghi santi avevano recato in omaggio alla basilissa, in un tempo che ormai pareva lontanissimo. I particolari di quel giorno erano ancora vivi dinanzi a me: la luce del mezzogiorno sul selciato della corte, gli amuleti di pietre e i curnicielli rossi, gli occhi di Liutprando che seguivano la scena, l’arrivo di Cassiano e io che conducevo l’intera compagnia al quartiere delle donne, sperando di movimentare la giornata.
I tre compari del ciuco non erano nient’altro che poveracci che tiravano a campare sulla borsa dei grulli, ma dinanzi alla basilissa avevano esibito qualcosa di realmente straordinario: al centro di quel broccato che a svolgerlo occupava un intero tavolo e ancora ne avanzava, tanto che Sandrone e Pisquano, quello dei curnicielli, avevano dovuto reggerlo perché non toccasse terra, era cucito un pezzo di lino fine, che recava un’impronta appena distinguibile. La basilissa Zoe, tra le file di perle che le scendevano sulle spalle, Cassiano e don Giustino, il pretino che a stento arrivava al bordo del tavolo, io stessa insieme a Berta, Rustico e le donne del gineceo ci chinammo a guardare. Nel chiarore che giungeva dalle finestre aperte, l’immagine si perdeva in una serie di macchie, dalla consistenza simile a bave di seta.
Soltanto quando il capo degli ambulanti ordinò la chiusura delle porte e dei tendaggi, nella penombra apparve l’immagine di un volto dalle palpebre chiuse, che esprimeva una composta serenità. Persino io, che avevo sempre considerato Dio alla maniera degli antichi filosofi – una sorta di grande macchina in movimento, del tutto estranea alle vicende degli uomini – rimasi affascinata.
Alle mie spalle Rustico si grattava la testa, le dame si segnavano come fossero in chiesa, Giustino si sporgeva e a momenti stramazzava sul tavolo. Cassiano era impassibile, mentre la basilissa aggrottava lo sguardo. Una preziosità del genere in mano a tre straccioni e un asino: la faccenda appariva quanto meno sospetta.  
“Non toccarlo, reverendissimo,” avvertì il capo degli ambulanti, un certo Michelaccio, rivolto a Giustino che già allungava le dita. “Il tessuto è antichissimo e potrebbe addirittura disfarsi in polvere, qualora venga toccato da mano profana.”
Il prete Giustino, che era come Tommaso e per credere doveva toccare con mano, si sentì punto sul vivo: “Io sono un sacerdote, e sono molto più degno di voialtri lestofanti…”
“Noi maneggiamo solo i bordi del broccato,” tagliò corto Michelaccio, che di colpo aveva acquistato autorità e ci teneva a tenersela stretta. “Questa immagine non è stata creata da mano d’uomo. Non è stata dipinta e non è neppure un ricamo.”
“A Costantinopoli è venerato il sacro volto di Edessa,” lo interruppe la basilissa. “Questo da dove proviene? Ammetterete che è strano che un oggetto del genere si trovi nelle mani di un gruppo di ambulanti.”
“Può essere farina del sacco del diavolo,” interloquì Giustino, risentito. “Si sa che il demonio ama trarre in inganno presentandosi con l’aspetto degli angeli, o addirittura di Cristo in persona.” Cassiano si limitò ad annuire, Michelaccio dal canto suo non si scompose:
“Come ho già detto prima, noi siamo pellegrini provenienti dai luoghi santi. Al prezzo, ci tengo a dirlo, di tutti i nostri averi e tenendo per noi solo il carro e il somaro, abbiamo acquistato questa preziosa reliquia da un gruppo di cavalieri di Compostella, che a loro volta l’hanno sottratta agli infedeli e ne hanno confermato l’origine incontrovertibile.”
“Incontrovertibile?” osservò Cassiano, sornione.
“Hai per caso dei documenti che attestino quello che vai dicendo?” rincarò Giustino, pugnace.
“Naturalmente, padre santo.” Michelaccio frugò in un borsello sudicio che gli cascava, più che pendere, dal fianco. Ne estrasse una pergamena e la consegnò al prelato. “Qui sono narrati i numerosi miracoli compiuti dal sacro volto di Compostella. Proprio davanti alla basilica di san Giacomo incontrammo quei cavalieri, che dissero di averla trovata sulla tomba del santissimo apostolo.”
“Ma non hai appena detto che i cavalieri l’avevano sottratta agli infedeli?”
Mentre la discussione andava per le lunghe, io ebbi tutto l’agio di osservare l’immagine e non riuscii a sottrarmi alla sua suggestione. Pareva un re dormiente, con l’unica differenza che i volti dei mausolei si limitavano a giacere nelle loro pose geometriche, mentre in questo caso si aveva l’impressione di essere scrutati fin nelle viscere da quegli occhi chiusi.
Quello sguardo che incombeva, pur provenendo dal ripiano di un tavolo, non ispirava timore ma una profonda quiete. Durante le sue infinite omelie, Cassiano ci aveva posto davanti agli occhi le sue visioni degli inferi, dove i denti stridevano e ancor più scricchiolavano gli strumenti per le torture. L’inferno doveva essere un luogo di rumore, di chiasso – è proprio il caso di dirlo – indiavolato. D’un tratto capii perché, del paradiso, il nostro predicatore non parlava quasi mai: non c’era niente da dire perché la dimora di Dio era solo silenzio, un silenzio che era equilibrio e armonia. Immaginavo i cori degli angeli assorti a contemplare una luce senza inizio né fine, che prosciugava l’anima da qualsiasi domanda. Là le molte questioni che agitano la mente e la vita degli uomini si dileguavano come ombre, al cospetto di un Volto che se non era proprio quello di Compostella, certo doveva somigliargli parecchio.
In quella sera di pioggia che tamburellava sulle telerie del mio carro, svolsi il rivestimento senza toccare il prezioso lino all’interno, come avevo visto fare da Michelaccio. Qualcosa mi diceva che in quei lineamenti impressi a bave sottili erano contenute le risposte a tutte le mie domande. Aggiunsi olio alla piccola lucerna che dondolava appesa a una cordicella, spargendo strane ombre piuttosto che far luce, e mi disposi a riflettere.
Negli ultimi giorni prima della mia partenza, mio padre aveva subito un nuovo attacco di febbri e quella santa reliquia gli era stata posta sul petto, per riordinare i suoi umori secondo quanto narrava il racconto dei miracoli. Tuttavia, l’espediente che aveva tratto in salvo un contadino colpito da un fulmine, sette donne in procinto di morire di parto e almeno due bambini ripescati dal fiume col ventre gonfio d’acqua, non aveva funzionato con l’Imperator. Non potevo fare a meno di domandarmi perché. Soprattutto, mi chiedevo dove fosse mio padre in quel momento. Si trovava all’inferno descritto da Cassiano o aveva raggiunto la pace? Era morto prima del tempo, e quindi la sua anima avrebbe continuato a vagare sulla terra fino al giorno del giudizio di Dio? Così si credeva dalle mie parti a quel tempo. Mentre mi dibattevo in questi interrogativi, il carro ebbe un sobbalzo e si arrestò di colpo. Udii un trambusto provenire dall’esterno, vidi ombre addensarsi attorno ai tendaggi. Un baluginio di torce illuminò il passaggio di quello che pareva un gruppo di armati, a piedi o a cavallo, che caricava a testa bassa. Per il terrore che mi colse in quel momento, quelle forme spettrali mi parvero gigantesche. In mezzo al clamore ch’era sorto d’un tratto, riconobbi la voce di Rustico che chiamava i rinforzi, le grida delle donne in qualche punto remoto, ordini che volavano da un capo all’altro del convoglio, un fragore di armi. Altre grida in una lingua che io non conoscevo, dagli accenti selvaggi.
Feci appena in tempo a recuperai la reliquia e riparai sul fondo, dietro a un mucchio di cassepanche impilate. Stavo considerando l’idea di rifugiarmi dentro a una di queste, quando dalle cortine fece capolino un tizio massiccio, barbuto e soprattutto armato fino ai denti. Per un attimo restai immobile a fissarlo, stringendo ancora il broccato che recava il Volto santo. La cordicella di seta che reggeva la lucerna fu tagliata di netto da un colpo d’ascia, la luce s’infranse in schegge e improvviso calò il buio.
 
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Fosso Ghiaia e Borgo Faina, nel contado di Ravenna

 
“San Crispino, san Giustino, fammi vincere il quattrino…” ritto in piedi sul carro, brandendo una manciata di curnicielli con voce stentorea, Pisquano aveva appena terminato la prima strofa. Stava prendendo fiato per attaccare la seconda, santa Eufemia e santa Assunta, nel borsello il mio soldino, il cornetto al santino, quando un messo imperiale, scortato da un gruppo di soldati e da un paio di ceffi del signore locale, discese da cavallo sul piazzale del borgo. Vennero esposte le insegne: l’aquila bicipite dell’Imperator, la croce simbolo della basilissa dei Romei, nonché un panno dai colori sgargianti che esibiva al centro un pinolo e rappresentava Tinozzo di Fosso Ghiaia, padrone del feudo.
Il pinolo era moneta di scambio da quelle parti: raccolto nelle ricche pinete del litorale, aveva riempito a manciate la scarsella di Michelaccio in un giorno particolarmente propizio per gli affari. Ai tre compari era bastato far capolino accanto al pozzo nell’ora in cui le donne andavano ad attingere l’acqua, chiedere un secchio per far bere Liutprando e spalancare il sacco. I monili di pietra dura e i curnicielli rossi avevano fatto il resto, almeno finché il messo e il suo seguito non erano sopraggiunti a interrompere il mercato. Mentre Pisquano era sul punto di riprendere la filastrocca che avrebbe dotato i curnicielli della massima potenza nei tre campi consueti – gioco, denaro e amore – il messo aprì un dispaccio e cominciò a proclamare, col tono monocorde di chi aveva girato parecchi villaggi a partire dall’alba:
“Nel nome di Cipriano Imperator e dell’augusta Zoe, il signore di Fosso dà ordine e dispone che un maschio per famiglia si presenti all’accampamento di Classe nel tempo di giorni trenta da oggi. Qualora non sia in grado di provvedere alle proprie armi, per mancanza di mezzi o per mestiere, si presenti all’arruolamento in qualità di artigiano, addetto alle salmerie e alle varie necessità, oppure versi sette libbre di legna, di avena, di fieno o di grano. No, il pinolo non è contemplato dall’editto,” aggiunse, rispondendo a una domanda ch’era appena un brusio nel gruppo delle donne.
Sandrone, Michelaccio e Pisquano, indaffarati a raccogliere le merci, si scambiarono un’occhiata:
“Comincia un’altra guerra?” sussurrò Sandrone, che anche se poteva contarsi le ossa addosso era pur sempre alto e piantato come un pioppo. A volergli prendere le misure, il fisico e l’età per andare in battaglia li possedeva tutti.
“Ma l’Imperator non era Ottone, quello della reliquia?” aggiunse Pisquano, grattandosi la testa. “Sta’ a vedere che quel lenzuolo gli ha portato disgrazia. Dovevamo vendergli o’ curniciello, anche se forse avremmo incassato di meno. Quei due sacchi di denari ci hanno fatto ben comodo”
“Chiudete il becco, imbecilli,” li riprese Michelaccio. “Questo non ci riguarda. Mica siamo al servizio del signore di Fosso. Noi siamo pellegrini in giro per il mondo. E adesso poche chiacchiere e badate a fare fagotto.”
Gli stessi interrogativi assillavano lo sparuto capannello che s’era radunato attorno al messo: erano per lo più donne con grappoli di bambini attaccati alle gonne, anziani col bastone, un paio di ragazzotti con gli occhi sgranati come lepri prese in trappola. Uno di questi si fece portavoce di tutti:
“Ma la guerra dov’è?”
“Lontano.” Il messaggero indicò l’orizzonte con la mano. “Nella terra di Al Andalus, dove vivono i mori.” La gente, che aveva seguito il gesto alzando il naso oltre i tetti, verso la macchia che incominciava appena fuori dal villaggio, impallidì di colpo. Come se l’avversario, temibile e leggendario, fosse nascosto là, dietro al primo cespuglio.
“Ma i mori tagliano le orecchie alla gente,” osò dire qualcuno, con un filo di voce. 
“Tagliano anche il naso,” rincarò un altro. “E le mani e le teste, poi le appendono ai muri delle loro città, perché le vedano tutti.”
“Mancano di rispetto alle donne,” aggiunse una comare, con gli occhi dilatati da chissà quali visioni. “Le prendono come schiave e le aggrediscono in dieci, in cinquanta per volta.”
“Non ci saranno donne nella nostra spedizione,” tagliò corto il messo imperiale. “I regni cristiani dell’Hispania chiedono aiuto all’Impero. L’Imperator vi rammenta che un tempo quei territori erano provincia romana.”
I villici continuavano a fissarlo sbalorditi. Hispania e Al Andalus erano nomi vuoti, che nessuno di loro avrebbe mai saputo collocare sulla faccia del mondo. I mori, invece, li conoscevano bene. Per sentito dire, ovviamente, ma con una tale dovizia di particolari da suscitare il terrore solamente a parlarne. 
“Hai detto sette libbre di avena o di grano?” domandò il ragazzo di prima, già intento a fare i calcoli di quanto c’era nel granaio di suo padre.
“Dio vi chiama in battaglia,” alzò la voce il messo. “Il santo padre Silvestro garantisce per voi l’acquisto dell’indulgenza, con il perdono di tutti i peccati commessi dal giorno del battesimo. Avrete la gloria in terra e, se morirete nell’impresa, quella del regno dei cieli.”
“Bella soddisfazione,” ringhiò Michelaccio, che si trovava a una distanza sufficiente per poter commentare col beneficio dell’impunità. Sandrone, invece, ascoltava con gli occhi che brillavano, rapito dagli stendardi che garrivano al vento e dallo splendore di armature immaginarie. “Forse potrei diventare cavaliere,” mormorò, trasognato.
“Sicuro,” rispose Michelaccio. “È la sorte dei pezzenti, diventare cavalieri. Va’ piuttosto a recuperare Liutprando. Qui si chiude bottega, ma il sole è ancora alto e possiamo raggiungere Borgo Faina prima che arrivino questi a guastarci la piazza.”
Nuovamente in cammino, i tre ripresero a discutere della reliquia.
“Ma tu lo sapevi, che abbiamo un nuovo Imperator?” incominciò Pisquano.
“L’altro è morto di febbri,” rispose asciutto Michelaccio.
“Sicché il volto di Compostella non è servito a niente.”
“E tu che ne sai?”
“Mentre eravamo ancora a Ravenna, la reliquia è stata posta sul corpo del sovrano durante uno dei suoi soliti attacchi,” spiegò Pisquano con le guance più rubizze del solito, segno evidente di una fifa galoppante. “L’ha tenuta sul ventre per tre giorni e tre notti. Dopo, si era ripreso. O almeno, così ha raccontato una mia compaesana che serve al Palazzo. Sono riuscito a venderle ben dodici curnicielli, uno per ogni membro della famiglia.”
“Le febbri consumano le fibre del corpo a una a una. Anche se c’è chi dice che l’Imperator sia stato avvelenato.”
“Purché non diano la colpa a noi,” s’intromise Sandrone, che invece per la fifa era bianco come uno straccio.
“Su questo, puoi stare tranquillo,” garantì Michelaccio. “Se fosse così, già ci avrebbero preso e tagliato le mani, le orecchie e forse anche qualcos’altro. Queste cose le fanno anche i cristiani.”
Seguì un lungo intervallo di silenzio, mentre Liutprando si faceva strada nel bosco e non si udiva altro che il fruscio dei cespugli e dei rami più bassi, che restavano presi nelle telerie del carro. Di tanto in tanto, il mormorio di un torrente su un letto di pietre chiare, la fuga di un animale selvatico in qualche anfratto e il richiamo del cuculo. Il mezzogiorno filtrava in brevi fasci di luce.
 “Certo che abbiamo rischiato grosso al Palazzo, raccontando quella fola di Compostella,” riprese a dire Pisquano, che non si sentiva per nulla tranquillo e non sapeva perché. 
“I ricchi sono come i villani dei borghi. Sono superstiziosi. Non lo sanno neppure loro, dov’è Compostella,” dichiarò Michelaccio, frugando dentro al carro e cavando due pani e una manciata di pinoli.
“Io dico che è non bene rubare ai morti, porta scalogna.”
“Ancora con questa storia?” masticò Michelaccio, insieme a un boccone di pane. “Mangia e cuciti il becco. Da queste parti, anche i pini hanno le orecchie.”
In realtà, pure lui si sentiva inquieto. Era chiaro che loro non c’entravano nulla con la morte dell’Imperator. Anche le reliquie hanno i loro limiti: diversamente, nel mondo non ci sarebbero più la scrofola e la peste, nessuna donna morirebbe durante il parto e per sconfiggere i mori sarebbe sufficiente sventolare un lenzuolo, invece di andarsene in giro per i villaggi a raccattare un esercito.
Piuttosto, guai se si fosse saputo che la reliquia non veniva da Compostella ma era stata trovata, per fortuna o per caso, sul luogo di un agguato. Durante una delle loro peregrinazioni ai confini della Pentapoli, si erano imbattuti in quel che rimaneva di una compagnia assalita, molto probabilmente, dalla banda di Battibecco, che imperversava da quelle parti ed era persino più temuta dei mori. Gli aggrediti dovevano essere gente ricca, dal momento che quelli di Battibecco, dopo averli affettati che neanche con un filone di pane si poteva far meglio, li avevano spogliati persino degli abiti. Qua e là erano sparse le tracce della devastazione, c’erano bauli rovistati e buttati in aria.
“Frughiamo un po’ e vediamo se c’è qualcosa da portar via.” Il senso pratico di Michelaccio aveva avuto la meglio sullo sbigottimento generale. Anche quella volta Pisquano, che temeva i defunti molto più dei briganti, aveva obiettato: “Non si prende la roba ai morti, dalle mie parti dicono che porta disgrazia. Magari i loro spiriti sono ancora qui in giro e vorranno vendicarsi.”
“Mica li abbiamo ammazzati noi,” osservò Michelaccio, addentando un formaggio trovato in mezzo all’erba. “E poi, non le ascolti le prediche? Essere superstiziosi è da ignoranti.”
“Sarà. Ma non esserlo porta male.”
“Andiamo, mica è rubare,” intervenne Sandrone, intento a rovistare tra i corpi e gli oggetti sparsi con il fiuto di un cane da caccia. “Noi ci limitiamo a prendere in prestito per il giorno del giudizio. In ogni caso, tutto ciò che troviamo a loro non serve più.”
“Certo che hanno fatto un bel repulisti,” disse ancora Pisquano, che non si risolveva a toccare i cadaveri e si guardava intorno, probabilmente in cerca di qualche anima errante. “Hanno portato via tutte le armi.”
“Bel branco di fessi. Il ferro mica si mangia.” Michelaccio addentò un altro pezzo di formaggio, con evidente soddisfazione.
“Però serve a fare la pelle ai disgraziati che passano per di qua.”
“Appunto. Vediamo di sbrigarci.” Michelaccio assestò una manata sulla coppa a Sandrone: “Molla quelle scartoffie. Se ti piace poltrire sui libri, dovevi farti monaco.”
Sandrone era l’unico dei tre che sapesse leggere. Cresciuto in un villaggio vicino a Pomposa, era l’ultimo di sette fratelli entrati nell’abbazia, in fila uno dopo l’altro. I suoi avevano fatto appena in tempo a insegnargli le sillabe prima che certe frequentazioni a zonzo per le locande gli facessero incontrare Michelaccio da Rimini e Pisquano di Napoli, che lo spogliarono al gioco suscitandogli in cambio la sete di avventure. Si diede così a far vita da girovago insieme a loro, ma l’amore per le parole gli era rimasto addosso. Quando ne aveva il tempo e l’occasione, Sandrone ne approfittava per esercitarsi con l’alfabeto. In quel preciso istante, prima che lo cogliesse lo scappellotto del compare, era intento a scorrere col dito un manoscritto ridotto nello stesso stato pietoso dei corpi sparsi attorno. Strappato in più punti, recava notizie su quel viaggio finito in malora: “Qui dice che gli uccisi venivano da Roma, a portare un dono e un messaggio addirittura all’Imperator.
“Per quello che ne so, a Roma l’Imperator è benvenuto come un cane in chiesa,” osservò Michelaccio, che le cose le sapeva anche se, da autentico pellegrino, fingeva di snobbare i fatti del mondo.
“Infatti qui gli domandano la grazia di non mettere più piede in città. In cambio, gli offrono una reliquia portentosa.
“Sarà il solito pezzo del legno della Croce. Chi è arrivato prima di noi, se lo sarà preso per farci un falò.”
“E se invece fosse questo?” Tra le scartoffie sparpagliate sull’erba da chi, evidentemente, non vi aveva trovato nulla di interessante, Sandrone pescò un rotolo di broccato finissimo, avvolto in una guaina di semplice pergamena. Una volta spiegato nel mezzo della radura, il rotolo rivelò il proprio contenuto.
“È un fazzoletto sporco,” fece appena in tempo a dire Pisquano. In quel momento, una nube che andava per i fatti suoi verso il mare si fermò sopra al bosco, immergendolo in un’oscurità quasi totale. Durò solo un istante, ma fu sufficiente perché il volto del Dormiente si mostrasse in tutta la sua serena compostezza. “È un ritratto del Cristo,” osservò Sandrone, stupito. “Chissà quali tinte hanno usato per dipingerlo. Si vede solo al buio.”
“A Costantinopoli esiste un Volto simile, impresso sulla tela ma senza che sia stato dipinto da nessuno. Almeno così si dice,” ragionò Michelaccio.
“Ma allora è un miracolo!” Pisquano lo annunciò con un tale entusiasmo da scordarsi di colpo delle anime trapassate, che secondo lui svolazzavano sul luogo del delitto come rapaci in tondo.
“È un miracolo, certo, per chi ci crede,” ghignò Michelaccio. “Per noi, invece, è un affare. Si parte per Ravenna, miei prodi, e otterremo due piccioni con una fava: l’Imperator avrà il suo dono e i devoti pellegrini otterranno un’equa ricompensa. Se aggiungi che le anime di questi disgraziati saranno ben felici che qualcuno porti a termine il loro servizio, ecco che i piccioni in questione diventano tre. Caricate dunque la fava sul nostro carretto,” aggiunse, solenne, “e filiamocela alla svelta. Non sia mai che a Battibecco salti in mente di aver scordato qualcosa e si prenda il disturbo di correre qua a riprenderselo.”
Così quella reliquia, detta di Compostella quando in realtà proveniva dai nemici giurati dell’Imperator, dopo aver portato pochissima fortuna ai nobili romani, portò uguale disgrazia a Ottone di Sassonia e una discreta iella anche ai tre del ciuco.
Mentre difatti entravano a Borgo Faina, furono intercettati da un altro contingente dei messi di Cipriano. Le insegne raffiguranti l’aquila bicipite, la croce dei Romei e il pinolo di Tinozzo si strinsero attorno a loro senza lasciare scampo.
Dopo aver dato lettura del solito dispaccio, il banditore di turno ritenne dar seguito a una postilla quanto mai decisiva: “Essendo decretato in tutto il territorio della Pentapoli il divieto assoluto di esercitare il mestiere di ciarlatani, venditori di amuleti, cornetti e altri oggetti di superstizione, si dispone che tutti coloro che verranno sorpresi a esercitare simili mestieri, capziosi, ingannevoli e fondati su credenze pagane, saranno reclutati per il bene delle loro anime nel costituendo esercito a difesa della cristianità.”
“Cosa vuol dire capziosi?” osò chiedere Pisquano, mentre un paio di armigeri, spalleggiati dai ceffi di Tinozzo di Fosso Ghiaia, circondavano il carro e cominciavano a frugarlo.  
“Significa che c’hanno fregato, imbecille,” mormorò Michelaccio, a denti stretti.
Liutprando, solitamente silenzioso e pacifico come si addice a un asino in devoto pellegrinaggio, cacciò un raglio talmente vigoroso e drammatico da far sobbalzare tutta la piazza: trasalirono tutti, dal banditore all’ultimo villano del paese, proprio come se i mori fossero usciti in quel momento dai vicoli e stessero calando a spada tratta sul villaggio. Non ci fu verso di calmare il somarello, che tremava dai garretti alla punta delle orecchie.
A quel tempo si credeva che le bestie possedessero il dono della veggenza, sicché quelli di Borgo Faina considerarono il raglio alla stregua di una premonizione: attorno ai focolai nelle sere d’inverno, si tramandò per generazioni il racconto della visione di Liutprando, con tale profusione di dettagli paurosi da non dormirci la notte. Come se la gente avesse visto coi propri occhi il campo di battaglia, chiaro tondo e spaventoso e con grande spargimento di orecchie e nasi mozzi.   
I fatti successivi diedero piena ragione a Liutprando, perché dei venti uomini reclutati a Borgo Faina ne tornò solo uno, talmente malconcio e ridotto alla follia che morì di lì a pochi giorni.  

 
******
 

Abbazia di Nonantola, alcune settimane prima

 
In nomine Domini incipit Evangelii secundum Matthaeum. Il volume si apriva su una visione dei nove cori angelici, contrassegnati da diversi colori secondo i loro attributi: l’oro e il rosso rubino per il fuoco dei Serafini, il blu oltremare dei Troni che reggono in eterno il seggio dell’Altissimo. Poi, mano a mano che la luce divina scendeva, avvicinandosi alla materia, il bianco delle Dominazioni che regolano gli astri, il verde dei Principati che proteggono i regni terreni e l’azzurro degli angeli, che hanno cura degli uomini. Noi li avevamo rappresentati nell’atto di salire e discendere da una scala che arrivava fino alle nubi.
Perdendomi nella contemplazione di quella visione, pensai che in tutto l’Imperium non poteva esserci un evangelario più bello, in grado di raffigurare il regno dei Cieli proprio così com’era.
In tanti avevano contribuito alla realizzazione di quell’opera. Sulla pergamena sgrassata dal lunellum di Odilone e levigata dalla pomice, io stesso avevo tracciato le righe col punteruolo e con il filo a piombo. Di seguito era intervenuto Michele da Subiaco, che aveva riempito i folia con la sua calligrafia fine, lasciando appositi spazi per le figure.
Infine, insieme a Teodoro avevamo trascorso giorni interi a tracciare i bozzetti, dorare e poi dipingere le singole immagini. Mano a mano che il lavoro procedeva, Teodoro mi metteva a parte dei segreti di quell’arte paziente: imparai così che il tempo umido e la rugiada del mattino, che tormentavano le ossa dei confratelli più anziani, erano considerati eventi assai favorevoli per l’opera di doratura, perché permettevano alla base collosa di rimanere umida.
Diversamente, occorreva alitare a pieni polmoni sulla pagina per mantenere molle l’intonaco, che era costituito da una parte di gesso, una di piombo bianco e una di argilla mischiata a chiara d’uovo. Per questo mi toccava recarmi assai spesso in cucina, a separare le chiare dai tuorli. Già che ero lì ne approfittavo per sgraffignare qualche fetta di pane e pasticcio, possibilmente senza farmi sorprendere da Berto, il cuciniere. Tornavo da Teodoro sotto agli sguardi di riprovazione degli altri copisti, perché la Regola vieta di banchettare nello scriptorium.
Teodoro mostrava di gradire moltissimo quei momenti di pausa e in breve imparai a frugare con accortezza nelle madie, alla ricerca dei suoi bocconi preferiti. A colpi di pasticcio e focacce di uva passa, conquistai la fiducia del mio nuovo maestro: “Ottimo lavoro,” annuiva Teodoro a bocca piena, e io mi crogiolavo pur non sapendo se si riferiva al modo in cui stendevo l’intonaco oppure allo spuntino che gli avevo procurato.
 Di Teodoro si diceva che gli unici sentimenti ch’era in grado di provare riguardassero le pergamene, i colori e le penne. Oltre all’amor di Dio, naturalmente. Eppure, superate le prime burrasche e pur se continuava a rivolgersi a me con l’appellativo di idiotes, Teodoro si fece carico dei miei progressi con una perseveranza molto simile all’affetto.
Spesso, dopo compieta, ci fermavamo a lungo nello scriptorium, per continuare il lavoro col permesso dell’abate. Nello scriptorium si gelava già in pieno giorno, figurarsi di notte. Ma tale era in me il desiderio di apprendere che io tutto quel freddo non lo sentivo nemmeno. E devo dire che le immagine più ardite le realizzammo proprio in quelle ore notturne, appollaiati sugli sgabelli e coi mantelli levati fino alle orecchie. Dalle finestre entravano le voci della campagna, il fruscio delle volpi attorno ai pollai e i richiami del gufo.
 Quando ritornò il tempo dei voli delle rondini e i ciliegi del chiostro si coprirono di fiori, deponemmo i pennelli e Martino da Ravenna, maestro rilegatore, assemblò i folia e confezionò il volume. Fu allora che appresi che la delegazione incaricata di consegnare l’evangeliario all’augusta Teofano, di passaggio a Pomposa col suo corteo nuziale, era composta da due emissari soltanto: Teodoro e il sottoscritto. Di fatto eravamo in tre, perché a trasportare il dono e le provviste, nonché incaricata di farci far bella figura di fronte all’augusta era la mula Rosvita, la più graziosa dell’abbazia. Ci mettemmo dunque in cammino lungo le antiche strade che da Nonantola conducevano verso il mare.
 Nella contea di Ferrara trovammo le vie occupate dall’esercito che Bonifacio di Canossa, signore del luogo, stava allestendo per recarsi in Hispania a combattere contro i mori. Era un continuo traffico di armati, salmerie e altre truppe che giungevano dalla Pentapoli, di divieti di transito e intere aree occupate per acquartierare i coscritti, le bestie e le macchine. Per non accumulare ritardi decidemmo di seguire i sentieri meno battuti. E questo fu un errore, perché finimmo per perderci.
Dopo un lungo vagare attraverso borgate spopolate e boscaglie, apprendemmo da pellegrini di passaggio, tre uomini insieme a un asino, che il corteo dell’augusta aveva già lasciato da tempo quelle terre e non si era neppure fermato a Pomposa. Scoraggiati, ci interrogammo sul da farsi.
“La cosa più sensata è tornare a Nonantola e riferire all’abate,” disse Teodoro, mentre Rosvita approfittava della sosta per stringere amicizia col ciuco, che portava il nome altisonante di Liutprando.
“E se questi tre mentono?” insinuai all’orecchio del mio maestro. Quei viandanti mi parevano troppo male in arnese per essere dei romei, oltre al fatto che non recavano alcun contrassegno: non avevano il bordone né la conchiglia di Compostella, né il distintivo con le chiavi di san Pietro né la croce di Terrasanta.
Parevano piuttosto quel genere di ciarlatani che s’incontra nelle piazze, imbonitori di lozioni miracolose e altri trucchi di cui è bene diffidare, anche qualora non ne sia dimostrata l’origine diabolica. Gente di quella risma s’era veduta spesso anche alle Case Rotte. Una volta Secondo, uno dei miei fratelli, aveva scambiato un intero sacco di farro con uno di quegli intrugli per conquistare le donne. Non aveva rimediato in realtà nessuna femmina, bensì una buona dose di legnate da nostro padre.
Ritenni così opportuno che l’allievo, una volta tanto, consigliasse il maestro: “Non fidarti, magister. Questa è gente che imbroglia persino quando non ha da ricavarci niente. Andiamo fino a Pomposa, e là apprenderemo notizie sicure.”
In realtà, nel mio dire c’entrava anche l’orgoglio. Se ripensavo a tutto l’impegno che avevamo profuso per realizzare l’evangeliario, ero più che disposto a inseguire Teofano in capo al mondo. Sapevo che l’augusta, pur essendo poco più che fanciulla, era assai istruita e certamente avrebbe apprezzato quel dono. Forse avrebbe insistito perché l’accompagnassimo in terra di Ungheria, dove avremmo potuto realizzare per lei altri capolavori. Saremmo diventati miniatori di fama, e ammetto che quell’idea mi attirava ben più della prospettiva di tornare tra le zolle di Nonantola.
Teodoro, invece, era semplicemente sfinito dal lungo cammino. Fu così che tra i miei sogni di grandezza e la stanchezza accumulata dal mio magister, il diavolo ebbe l’agio di metterci la coda.
“Sapete dirci, buoni uomini, qual è il monastero o la pieve più vicina, in modo che possiamo trascorrervi la notte?” domandò Teodoro ai pellegrini.
“Da queste parti non ci sono conventi,” rispose il più massiccio, probabilmente il capo. “C’è però la Torre del Becco, a pochi passi da qui. Vicino c’è un mulino. Può essere un riparo accettabile per una notte.”
“L’abate si è raccomandato che cercassimo asilo solo entro i sacri recinti,” rammentai io che per intuito, più che per il rispetto che dovevo all’abate, subodoravo l’inganno. “Ci sarà pure una parrocchia nei dintorni, che si possa raggiungere di buon passo.”
 “Avanti sempre dritto arriverete a Borgo Faina. Però vi toccherà viaggiare col buio e non ve lo consiglio. Questi boschi sono infestati dalla banda del Paganello, noi stessi l’altra notte siamo scampati per un pelo a un agguato. Per fortuna Liutprando ha udito dei rumori e si è messo a ragliare, altrimenti ci avrebbero tagliato la gola nel sonno.”
Rabbrividii e a quel punto guardai il mio maestro. “Ci penseremo su,” disse secco Teodoro. Probabilmente, gli si leggeva in faccia che quella notte avremmo sostato alla Torre del Becco. Fatto sta che di lì a poche ore successe il fattaccio.
Innanzitutto la Torre era un rudere in mezzo alla campagna. Un luogo più isolato non si sarebbe potuto trovare. Il mulino che sorgeva nei pressi era anch’esso abbandonato, anzi per dirla tutta era poco più che un muro. Della ruota restava soltanto una carcassa ricoperta di edera. Il canale che un tempo scorreva da quelle parti era completamente prosciugato. Quel che ne restava era una pozza putrida, sopra a cui galleggiavano ninfee bianche e rosa.
Quelli ci hanno ingannato,” dissi, guardandomi attorno. “Qui è anche peggio del bosco. Se verranno i briganti a tagliarci la gola, non ci sentirà nessuno per mille miglia.”
“Andiamo, chi vorrà derubare due monaci?” si spazientì Teodoro. “E poi è troppo tardi per andarcene altrove.”
Non che non mi fidassi del buonsenso del mio magister, ma quella notte ritenni più opportuno vegliare o almeno ci provai. Nugoli di zanzare salivano dal fossato, probabilmente per aiutarmi nel mio ufficio di sentinella a suon di schiaffoni in fronte e sanguinose grattate sulle caviglie. Anche Rosvita vorticava la coda, per scrollarsi di dosso quel tormento continuo. Teodoro era crollato nell’erba alta e russava come se si trovasse nella reggia di Costantinopoli. Non era abituato a viaggiare, era di complessione delicata e più che la paura dei briganti di Paganello aveva prevalso in lui il richiamo di Morfeo.
La luna era tramontata da poco quando anch’io cominciai ad avvertire la spossatezza. Nel dormiveglia, feci appena in tempo a notare uno strano movimento accanto alla mula. Quando mi resi conto che non stavo sognando era già troppo tardi: mi levai di scatto e cominciai l’inseguimento, ma gli sconosciuti visitatori – mi pareva di averne intravisto più d’uno – s’erano già dileguati nel buio pesto. Avanzai alla cieca in mezzo alla campagna, dove ogni fruscio pareva un rumore di passi. Un’intera corale di ranocchi segnalava la presenza di canali o di fossi, ben disposti ad accogliermi nel caso decidessi di farci un salto. A stento riuscii a orientarmi per ritornare indietro.
“Svegliati, magister!” Senza troppi riguardi, appioppai uno spintone al mio confratello, accesi l’ultimo mozzicone di candela e cominciai a frugare nei bagagli. Non mi ci volle molto a compiere l’inventario, perché già immaginavo quello che avrei trovato, o meglio ciò che mancava: insieme a un paniere colmo di fichi secchi e a una focaccia al formaggio, era scomparso anche l’evangeliario.
“Ci hanno derubati!” gridai, mentre Teodoro riemergeva dal sonno e apriva prima un occhio, poi di seguito tutti e due. Ci guardammo in faccia quel tanto che ci consentì il moccolo e fu meglio così, perché ci sentivamo tutti e due così idiotoi che era davvero meglio stenderci sopra un velo.
Dai fossi, pareva che persino le ranocchie ridessero.
 

 
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Capitolo 3
*** Dove si narra di colombe e serpenti, qualche nodo viene al pettine ma la maggior parte resta così com’è ***


Capitolo terzo: Dove si narra di colombe e di serpenti, qualche nodo viene al pettine ma la maggior parte resta così com’è


 
“Se i fatti non si adattano alla teoria,
occorre cambiare i fatti”
(A. Einstein)

 
Non appena fu giorno, ci lasciammo alle spalle il profilo cadente della Torre del Becco e riprendemmo la strada verso Nonantola. Camminavamo con la coda tra le gambe: Rosvita perché le veniva naturale, io e Teodoro con il morale che strusciava sotto ai sandali.
Non potevo fare a meno di ripensare a tutte le ore trascorse su quei folia, ai sette cori angelici, alla Natività che io stesso avevo realizzato con la supervisione del mio magister. Teodoro aveva abbozzato i volti, senza dotarli di quell’espressione fissa che andava tanto di moda a quel tempo e che si pensava fosse una prerogativa della maestà. Al contrario, il mio maestro aveva disegnato i volti in movimento, volgendoli tutti verso la mangiatoia: Giuseppe il giusto e Maria contemplavano il Bambino, i pastori giungevano in processione insieme agli agnelli, qualcuno si affacciava a spiare dentro alla grotta. Io avevo provveduto a posare le lamine dorate per le aureole, a mescolare diverse misure di curcuma e zafferano con la malachite in polvere, per creare un paesaggio che fosse il più possibile luminoso grazie alla mescolanza del verde e del giallo.
Appollaiate in cima ai palmizi avevamo disegnato anche alcune scimmie, sicché l’intero mondo – umano e animale – era presente per venerare il Cristo Bambino.
“La luce contiene ogni colore,” spiegava il mio magister. “Lo dimostra l’arcobaleno, che fu il segno della prima alleanza, quando Dio lo inviò a Noè promettendogli che la terra non avrebbe più subito il diluvio. Fai attenzione ai bordi, il tuo lavoro non richiede fretta ma precisione.” Immersi nella trasparenza mattutina che filtrava nello scriptorium, mi pareva di essere sollevato a quei cieli cosparsi da un sottile strato di gomma, sopra a cui si posavano minute stelle d’argento che il mio maestro tagliava e io posavo a una a una in punta di penna.
“La varietà dei colori rappresenta la Grazia che opera in molteplici forme nel mondo,” diceva ancora Teodoro. “Fiat lux disse l’Altissimo. La luce si separò dalle tenebre e nacquero le diverse gradazioni delle tinte.” Allora ero ben lontano dall’immaginare che quei folia, miniati con tanta pazienza e devozione, sarebbero presto spariti insieme a un pacco di fichi, trasformati in bottino dai ladruncoli di una notte.
Mentre camminavamo sotto al sole già estivo, incrociando a tratti manipoli di coscritti che dai paesi si avviavano verso il castrum di Classe, Teodoro si era chiuso in un mutismo assoluto. Io arrovellavo fra me molti pensieri. Non avevo alcun dubbio riguardo al fatto che a mettere a segno il colpo erano stati i tre del ciuco. Nessun altro sapeva che avremmo pernottato alla Torre del Becco, nessuno avrebbe potuto capitarci fra capo e collo così a colpo sicuro, a meno che i famosi briganti di Paganello non fossero passati di là proprio per caso. Mio padre soleva dire che il caso non esiste, esistono la Provvidenza e gli sprovveduti: ed era piuttosto facile capire in quale delle due categorie dovevamo collocarci io e il magister.
È meglio scivolare sul pavimento che con la lingua, dicono le Scritture. Non avevamo parlato troppo e neppure a sproposito, ma l’accento di Teodoro era quello dei greci e si sa che per i furfanti di tutto l’Imperium essere greci significa ricchezza, anche se ben nascosta sotto al saio di un monaco. Probabilmente i tre avevano pensato di mettere le grinfie su scorte d’oro e d’argento o sui preziosi lapis lazuli d’Oriente, quando invece il colpaccio aveva fruttato loro un intero evangeliario.
Più ci pensavo e più le facce di quei tre mi tornavano davanti agli occhi. Sarei stato in grado di riconoscere persino il ciuco. Era da poco trascorsa l’ora del mezzogiorno e il mio stomaco cominciava a farsi sentire. Già pensavo a come rompere quel muro di silenzio ch’era sorto tra noi, per domandare a Teodoro dove poter rimediare qualcosa da mettere sotto i denti. Assieme al volume, infatti, quei furfanti s’erano presi anche le ultime provviste.
D’un tratto ebbi la sensazione di trovarmi di fronte a un miraggio, simile a quelli che tormentavano i Padri del deserto a causa dei lunghi digiuni: verso di noi avanzava una colonna di armati, che recava nel mezzo i tre della Torre del Becco issati sul loro carro e legati come il prosciutto che si fa dalle mie parti. Il ciuco avanzava a testa bassa, nella polvere sollevata dai calzari dei soldati, e aveva tutta l’aria di vergognarsi con buona ragione. 
Magister!” sussultai, afferrando Teodoro per la manica. “Guarda un po’, sono loro!”
Teodoro resuscitò improvvisamente dal suo stato di apatia e interrogò il primo che gli capitò a tiro: “Chi sono quegli uomini e perché li avete arrestati?”
 “Sono tre ciarlatani, venditori di amuleti e diavolerie varie,” rispose il soldato facendosi da parte, per non bloccare il transito dalla colonna in marcia. “Il signore di Fosso Ghiaia, in obbedienza ai decreti dell’Imperator, ha stabilito che tutti gli ambulanti sorpresi sul suo territorio vengano aggregati alle truppe da inviare in Hispania, in aiuto dei regni di Leόn e Pamplona.”
“Leόn e Pamplona?” ripetei esterrefatto.
“Esattamente, ragazzo. Cipriano ha deciso di riportare l’impero entro i confini di un tempo. Vedremo se riuscirà a riprendersi anche Roma,” sghignazzò il militare. “Quella sì è un osso duro, molto peggio dei mori.”
“I vostri coscritti li legate sempre come presiutti?” intervenne Teodoro che ancora stentava a esprimersi nel nostro volgare ma dalla visione dei tre, che parevano pronti per essere salati, aveva ricavato la mia stessa impressione. Nel frattempo, la colonna si era arrestata ed era sopraggiunto un tizio col pennacchio sull’elmo, molto probabilmente un centurione:
“Avete qualcosa da dire riguardo a quei tre malviventi?” ci interpellò, rude. “Quelli non li abbiamo certamente arruolati. Li portiamo a Ravenna, dove saranno sottoposti al giudizio di Dio. Una bella passeggiata sopra ai carboni ardenti: se ne usciranno indenni, allora saranno riconosciuti innocenti, come si ostinano a dire. Diversamente, saranno loro tagliati i piedi e le mani, come si conviene a dei ladri. Se volete il mio parere, venerabili padri, io sono convinto che a mastro Spillo, il boia, non mancherà il lavoro da fare.”
In silenzio, Teodoro lasciò vagare lo sguardo sui volti dei prigionieri. Quello che doveva essere il capo si ostinava a esibire una faccia di pietra e a tenere lo sguardo fisso sull’orizzonte, come se l’intera messinscena non lo riguardasse affatto. Il più giovane se ne stava buttato in un angolo e pareva già morto: a vederlo, si poteva ben dire che l’unico ufficio che restasse da compiere a mastro Spillo fosse semplicemente quello di seppellirlo. L’ultimo del terzetto, quello con le gote rubizze e la pancia da bevitore, ci fissava con gli stessi occhi mogi del ciuco. A Liutprando erano letteralmente cadute le orecchie. Si limitò a sollevarne una soltanto quando riconobbe, accanto a noi, Rosvita.
“A me, questi tre uomini par proprio di conoscerli,” disse a un certo punto Teodoro. “Cosa hanno mai commesso di così grave perché si debba ricorrere al giudizio di Dio?”
“Li abbiamo trovati in possesso di un volume pitturato, che quei tre riferiscono di avere acquistato da viandanti di passaggio, mentre sicuramente l’avranno trafugato in qualche chiesa.”
“Potete mostrarcelo?” domandò ancora Teodoro. “Io e il mio novizio siamo miniatori presso l’abbazia di Nonantola. Proprio di recente abbiamo lavorato a un’opera del genere.”
A un cenno del superiore, il soldato di prima cavò dal carro uno scrigno di legno intarsiato, che riconobbi all’istante: dentro, c’era precisamente il nostro evangeliario.
Stavo per aprir bocca, quando mi capitò tra capo e collo il più solenne scappellotto che mi fu mai rifilato dal magister, da quando lo conobbi fino all’ultimo giorno in cui, vegliardo e quasi cieco, continuò a sedere al mio fianco e a correggermi semplicemente ascoltando il fruscio della penna.
“Proprio come immaginavo,” asserì Teodoro scuotendo capo, mentre i tre presiutti sul carro sbiancavano come panni trattati con la liscivia. “Qui c’è stato un equivoco. Se me lo consentite, vi mostrerò chiaramente che questi nostri compaesani sono innocenti.”
Fissai in volto Teodoro, sforzandomi di nascondere il mio stupore. Il magister aprì il volume e prese a sfogliarlo davanti al centurione. Arrivò all’ultima pagina e cominciò a spiegare, sempre tenendo il testo sotto al naso del milite come se avesse a che fare con un esperto par suo: “Quest’opera, come risulta dalla postilla conclusiva, è stata realizzata presso l’abbazia di san Silvestro a Nonantola e di seguito affidata a questi pii pellegrini, perché la recassero al parroco di Borgo Faina in cambio di… cosa avevate stabilito, voialtri, con l’abate Rodolfo?” Teodoro si rivolse direttamente ai tre del ciuco. Due si limitarono a guardarlo trasognati, mentre il più coriaceo, il capo della banda, ebbe la faccia tosta di rispondere a tono: “Tredici libbre di pinoli per il tempo di tredici inverni.”
“Purtroppo l’abate si è dimenticato di fornire ai nostri inviati un’adeguata lettera di presentazione. Noi ci siamo messi in cammino apposta per consegnarla a questi buoni uomini, a titolo di salvacondotto per il viaggio. Ad ogni buon conto, eccola qua.” A meno di una spanna dal naso del centurione, Teodoro sventolò la pergamena di benedizione per le nozze, che Rodolfo aveva scritto di proprio pugno per accompagnare il dono all’augusta Teofano. “Qui puoi vedere bene la firma e il sigillo,” aggiunse il mio magister, indicando col dito come si usa fare con gli illetterati, solitamente propensi a farsi impressionare da ceralacca e svolazzi.
Il centurione si limitò a guardare prima la pergamena, poi si voltò in direzione dei tre tapini sul carro. Di nuovo riportò la sua attenzione allo scritto e lo scorse dal principio alla fine, senza battere ciglio. “Forse dovrei sentire il preafectus a Ravenna…” Era evidente che non sapeva che pesci pigliare, sicché Teodoro ne approfittò per battere, come si suol dire, il ferro finché era caldo.
“Tu metti in dubbio le parole di uomini di Dio,” lo incalzò il mio magister. “Solo per questo meriteresti la sorte che vorresti riservare ai nostri delegati. Leggi le parole del nostro abate,” insistette, brandendo la pergamena come se fossero le tavole di Mosè. “Leggi e decidi di conseguenza.”
“Ho letto certamente, venerabile padre,” si difese quell’altro. In breve, diede disposizioni affinché i prigionieri fossero sciolti dai ceppi e restituiti alla proprietà di Nonantola insieme al reliquiario, al carro e a Liutprando. La colonna si mosse con un fragore di ruote, armature pesanti e passi cadenzati, e riprese il cammino.
Quando ci trovammo al riparo da orecchie indiscrete, interpellai il mio maestro: “Magister, perché mai hai voluto rischiare per quei delinquenti?” sussurrai a bassa voce. Quelli del ciuco ci seguivano a debita distanza e lentamente cominciavano a riaversi. “E soprattutto, come facevi a sapere che il centurione non era in grado di leggere?”
“Ricorda che sotto alla ruota del più maestoso pavone si nasconde un comune deretano di pollo,” disse Teodoro, serio. “Alla stessa maniera, sotto alle penne di un centurione si nasconde, di solito, un villico ignorante.”
“Sei stato astuto, magister, anche se io non riesco a capire perché: quei tre sono dei ladri e la pena che li attendeva era giusta. Non era sufficiente recuperare l’evangeliario e per il resto lasciarli al giudizio di Dio?”
“Da quando Dio fa giustizia scottando i piedi ai suoi figli?” replicò Teodoro, serafico. “A Calcedonia c’è un detto: tutti i giorni si svegliano un furbo e uno stolto. Se i due s’incontrano, l’affare è presto fatto.”
“Però la Scrittura condanna la furbizia come opera del demonio,” insistetti, confuso.
“Tu scherzi, figlio mio. Nostro Signore raccomanda ai suoi discepoli di essere candidi come colombe, ma anche scaltri come i serpenti.” Mi arrivò sulla coppa un altri scappellotto e finalmente il mio maestro rise di cuore. Sicuramente, l’idea di mettere alla prova il suo ingegno gli era sembrata un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Così pensai allora, inesperto com’ero delle cose del mondo. Ora invece, ricordando quegli eventi ormai lontani nel tempo, comprendo che il mio magister non aveva agito per sfida o perché detestava certe usanze da barbari travestiti da romani. Lui non lo ammise mai, ma in realtà fu mosso da compassione.
I tre del ciuco ci seguirono per un po’. A un certo punto mi accorsi che non udivo più, dietro di noi, il lento incespicare delle ruote del carro. Mi voltai a controllare e alle nostre spalle vidi solamente la strada e il vento che sollevava un mulinello di sabbia. Il mare non doveva esser troppo distante, il suo odore di spazi aperti e salmastri arrivava fin lì. Mi parve di udire i richiami dei gabbiani, ma forse quello era realmente un miraggio.
“Andiamo, fratello,” mi sollecitò Teodoro. “La strada è ancora lunga e una volta a Nonantola dovremo giustificare il nostro fallimento di fronte all’abate.”
“Perché, abbiamo fallito?” domandai io, smarrito.
“Abbiamo perso la strada e con essa anche il corteo dell’augusta. Ci mancava solo che perdessimo il reliquiario per essere eletti fessi summa cum laude.”
“Quindi alla fine siamo stati dei fessi anche noi?”
“In un modo diverso,” sorrise il mio magister. “come si addice a dei buoni credenti. In fondo, siamo tutti in parte colombe e in parte serpenti. In questo mondo sono ben rare le eccezioni.”
“Come quel centurione?”
“Il centurione, certo, ma anche un altro idiotes di mia conoscenza.”
Mi arrivò dritto sul collo un altro scappellotto, che però questa volta mi parve assai affettuoso.

 
******
 

In una regione imprecisata del nord, in viaggio verso i confini dell’Imperium
 

Di fronte alla visione di quel guerriero armato di tutto punto, che brandiva un’ascia e urlava nel suo linguaggio rauco, furibondo e del tutto incomprensibile, lì per lì ero rimasta impietrita. Mi appiattii contro alle cassepanche che formavano il mio esiguo riparo, vidi l’ascia ruotare e udii il rumore della lucerna che s’infrangeva. Cadde un buio agitato dalle molteplici grida che provenivano dall’esterno, eppure simile a un silenzio colmo d’aspettativa. Il mio stesso aggressore si ritrovò a brancolare: troppo esaltato o probabilmente troppo rozzo per attendere che l’occhio si abituasse alla penombra, menava colpi a caso, cercando di farsi strada in mezzo alle masserizie per giungere fino a me, che nel frattempo continuavo ad arretrare finché arrivai a sfiorare le assi nude del carro.
Più in là non potevo andare, sicché mi toccò affrontare di petto l’avversario e lo feci d’istinto, lanciandogli contro l’unico oggetto che avevo a portata di mano, ossia la santa reliquia.
Quel che accadde a quel punto mi risulterebbe del tutto incredibile, se non fosse per il fatto che io stessa ero presente e vidi con i miei occhi: il pesante broccato si avviluppò all’elmo del mio aggressore, dotato di molteplici punte che divennero altrettanti appigli. Più quello tentava di scrollarselo più il drappo si avvolgeva come se fosse vivo. La porzione di panno che recava impresso il volto del Cristo si piantò esattamente sulla faccia di quel gigante vestito di ferro, armato come un intero esercito. L’uomo cominciò a urlare mentre da ogni parte si levava un lezzo di carne bruciata. Impietrita, assistetti a quel fenomeno straordinario: sotto alla cappa di tessuto ricamato, il corpo di quel tizio ardeva come un tizzone avvolto dalle fiamme di un’intera fornace. In breve lo straniero cadde riverso a terra, sussultò in uno spasimo e poi rimase immobile. Fu a quel punto che Rustico fece capolino dalle cortine: “Piccola augusta,” mi chiamò, con la voce che vibrava di tutte le possibili note della paura. “Piccola augusta, sei qui?”
All’esterno erano cessate le voci della battaglia. Scivolai fuori dal mio nascondiglio, lasciandomi illuminare dalla fiaccola che Rustico muoveva qua e là cercandomi, riempiendo il carro di ombre e bagliori confusi. Ovunque affioravano cocci e assi sfondate. Da sotto al broccato, sottili volute si levavano verso l’alto.
Al vedermi, Rustico parve risollevato. Quando però il suo sguardo cadde sul corpo ancora coperto dal broccato, sgranò gli occhi e m’interrogò stupefatto: “Cos’è successo qui? Ti hanno aggredito?” Puntò la torcia illuminandomi dal capo fino all’orlo dell’abito, in cerca di qualche segno evidente di violenza.
“Non mi hanno fatto nulla. La reliquia del Cristo mi ha protetto,” mi limitai a dire. Ancora stentavo a credere a quel che avevo visto. Dietro a Rustico comparvero altri uomini della scorta, che calarono il corpo del bruciato fuori dal carro e lo abbandonarono insieme ai molti altri che giacevano nella macchia.
All’orizzonte, cominciava ad albeggiare.
Durante quella notte, ci eravamo lasciati alle spalle le terre delle paludi con i monaci chini a sollevare argini e a recare qua e là carriole di pietrisco. Il cammino era proseguito attraverso un’altra pianura segnata da profondi acquitrini e foreste. A differenza della spianata delle Carceri, questa era totalmente disabitata. Passando per il bosco, là dove il terreno era meno imbevuto, i carri avanzavano più spediti, senza correre il rischio d’impantanarsi nel fango. Finché, lungo un viottolo che a stento procedeva tra i rami bassi dei salici, era subentrato l’agguato.
“Hanno preso Berta di Classe e le altre donne,” m’informò Rustico, asciutto. “Quelli di noi che sono rimasti li vedi qui.” Erano un pugno di uomini, in buona parte malconci e sorretti dai pochi che ancora riuscivano a reggersi in piedi.
A partire da quel momento, il pensiero di Berta e quello per la mia scorta decimata a quel modo occupò interamente i miei pensieri, relegando in un angolo gli strani fatti occorsi riguardo alla reliquia di Compostella. Secondo i pretoriani, l’attacco non era stato condotto da una banda di briganti, sebbene quelle terre fornissero asilo a molti sbandati e fuorilegge.
“Era un’intera coorte di armati,” disse un soldato giovane, ancora profondamente impressionato e forse esagerando.
“Non dire enormità,” lo biasimò un centurione, un certo Rutelio. “La verità è che ci hanno colti di sorpresa.”
“Ci sono venuti addosso come se ci stessero aspettando,” puntualizzò un altro.
“Normale, per dei briganti.”
“Non era gente qualsiasi. Quelli erano ungari”, intervenne Quintilio, che non era un pretoriano ma un veterano di guerra. “Li ho conosciuti ancora ai tempi di tuo padre, piccola augusta, quando Stefano il Pio inviò una delegazione per stipulare un patto di alleanza con l’Imperium. Si dicono convertiti ma sono gente selvaggia, incline alla razzia.”
“Come fai a dirlo con sicurezza?” lo rimbeccò Rutelio, che era coperto di sangue da capo a piedi ma evidentemente non si trattava del suo, dal momento che era combattivo come un leone, quanto meno a parole. “Ti rammento che sei alla presenza di Teofano di Ravenna e che la meta del viaggio è proprio il regno degli Ungari.”
“So chi ho di fronte e dove siamo diretti,” disse Quintilio chinando leggermente il capo al mio cospetto, “ma so anche quello che dico. Conosco bene quel popolo e non per sentito dire. Dopo aver stretto accordi riguardo alle tue nozze, inscenarono una battaglia con alcuni dei nostri, durante i festeggiamenti in onore dell’Imperator. Ti dico solo che ci furono molti morti, piccola augusta, ma non puoi ricordarlo: eri nata da poco.”
Nel frattempo, il giorno s’era levato e subito nascosto dietro a una coltre di nebbia, quasi avesse timore di guardare verso il basso. Una luce cinerea indugiava tra i cespugli e allungava le ombre degli alberi. Il resto della truppa era intento a radunare i feriti sui carri e Cassiano era indaffarato a fasciare ferite, preparare decotti e benedire i morti.
“Di chiunque si tratti, conviene che ce ne andiamo il prima possibile,” stabilì il centurione, cominciando a impartire gli ordini necessari per riprendere la marcia. “Quella gente potrebbe essere ancora nei paraggi e non possiamo permetterci di mettere a repentaglio la vita dell’augusta.” 
“Per conto mio, faremmo meglio a tornare a Ravenna,” disse ancora Quintilio, aggiungendo solo poche parole che per fortuna furono udite solo da me: “Ci farai ammazzare tutti, maledetto imbecille.”
Quell’anziano soldato mi diede l’impressione di sapere esattamente cos’era avvenuto, tuttavia non ebbi il coraggio di interrogarlo. “Che ne sarà di Berta?” mi limitai a chiedere, a tutti e a nessuno. “E delle altre donne? Che ne sarà di loro?” Rutelio era già lontano, impegnato a sbraitare con voce così tonante da farsi udire da tutte le stirpi dei barbari da qui fino in Ungheria. Anche il veterano era sparito chissà dove. Solo Rustico era rimasto al mio fianco: mi aiutò a riprendere posto sul carro e a quel punto gli chiesi di restare con me. Avevo troppa paura di rimanere sola. Paura, soprattutto, di quelli che potevano essere i miei pensieri.
“Se quelli erano ungari, forse è davvero il caso di tornare a Ravenna,” dissi una volta chiuse le cortine del carro. “Ho fatto una promessa all’anima di mio padre, perché non torni a vendicarsi della mia disobbedienza e possa riposare nella sua pace. Ma adesso, veramente, non so più cosa fare.”
“Quintilio è un veterano di molte battaglie. È un ottimo combattente e di lui ti puoi fidare.” Rustico mi pareva tranquillo, o forse era semplicemente stremato da quell’attacco a sorpresa. “Accade spesso che bande di armati sconfinino dai loro territori e si dedichino al brigantaggio. Purtroppo, non ci vedo nulla di strano.”
“Siamo ancora molto lontani dalle terre di Ungheria,” mi limitai a osservare. In realtà, Rustico mi pareva sapere molte più cose di quelle che pareva disposto a rivelare.
“Vedi, piccola augusta, non tutte le tribù del regno degli Ungari ritengono opportuno allearsi con l’Imperium. È gente fiera e poco propensa a sottomettersi al re Stefano. Riguardo a questo, tuo padre ci aveva avvertito.”
“Quindi, non ci hanno assalito solo per derubarci.”
“Temo di no, piccola augusta,” mormorò Rustico, sfinito. “Ma questo è solamente il mio punto di vista. Purtroppo, Stefano il Pio ha ancora molti nemici, come del resto ne aveva Ottone di Sassonia. Ho parlato a lungo col messo che ci ha recato la notizia della morte di tuo padre: pare che sul corpo dell’Imperator siano state rinvenute numerose bruciature, laddove erano stati posati dei fazzoletti intrisi di medicamenti. Quei fazzoletti erano stati inviati dai nobili di Roma in segno di amicizia e invece, probabilmente, si trattava di un tranello. Almeno così sostiene Cipriano di Armenia, che proprio ora si trova a guidare l’assedio contro quella città.”
D’un tratto mi ricordai della reliquia di Compostella. “Dunque esistono stoffe in grado di distruggere la carne degli uomini? Il corpo dello straniero che ha assalito il mio carro è bruciato letteralmente sotto ai miei occhi, nel momento in cui io gli ho gettato addosso la reliquia del santo Volto.”
“Riguardo a questo non saprei dirti nulla,” disse ancora Rustico con gli occhi ormai in procinto di chiudersi e scivolare nel sonno. “Non credo di essere in grado di distinguere tra un prodigio e un inganno. Forse il Cristo Signore ha voluto operare un miracolo a tuo favore. Dovresti parlarne a Cassiano.”
Molto probabilmente, Cassiano avrebbe imputato quello strano avvenimento alla giustizia di Dio, che pone sul loro trono i re della terra perché governino i popoli nel Suo santo nome. Ma quelli erano tempi di grandi turbolenze e io sapevo bene che gli intrighi degli uomini non tengono in gran conto quel che Dio stabilisce dall’alto della sua imperscrutabile sapienza.
 Lasciai che Rustico si abbandonasse al suo riposo. Di nuovo spiegai il broccato e il Volto di Compostella si palesò ai miei occhi nella quieta penombra del carro. Quei lineamenti fini esprimevano una sovrana compostezza e soltanto a guardarli ci si sentiva pervasi da una profonda pace. Eppure, non mi erano mai sembrati così enigmatici. 

 
******

 
Monastero della Visitazione di Alba Regia in Ungheria, nell’anno 1031 dall’Incarnazione

 
Scampammo a un altro agguato poco dopo essere entrati in terra di Ungheria, dopo aver attraversato le valli solitarie sopra a cui incombevano, innevate, le vette del ducato di Carantania e di seguito gli acquitrini che circondavano il grande lago detto il mare degli Ungari.
In mezzo agli alti canneti che ospitavano uccelli di ogni forma e richiamo, alcuni dei quali issati su lunghi e sottili trampoli, riuscii a sottrarmi nuovamente ai miei aggressori grazie alle formidabili e misteriose virtù della reliquia di Compostella. La voce di quei prodigi si sparse probabilmente per tutte le tribù e i borghi di quelle terre. Fatto sta che di lì in poi riuscimmo a proseguire senza ulteriori intoppi. In ogni caso, a quel punto del viaggio il mio corteo s’era ridotto a un carro dov’erano ammassate le ultime masserizie e le armi, mentre quelli che rimanevano della mia scorta avanzavano senza insegne, in modo da dare il meno possibile nell’occhio. In luogo delle ricche vesti dell’Esarcato indossavo una tunica, un mantello e calzari di foggia maschile. Il mio sogno di emulare le gesta di Marina di Bitinia, che per amore di suo padre si celò in un cenobio di soli uomini, si realizzò quindi in circostanze che non avrei mai saputo immaginare. Io stessa avevo dato disposizioni in tal senso, consigliata da Rustico e nonostante l’opposizione di molti.
“È assai disonorevole per un soldato rinunciare a combattere per viaggiare travestito da contadino,” aveva detto il centurione Rutelio.
“Una donna che si veste da uomo è un abominio dinanzi a Dio,” aveva tuonato Cassiano. “Così dice la Scrittura.”
“In nessuna parte della Scrittura Dio raccomanda all’uomo di essere stupido,” tagliai corto di fronte a quei due. “E il dovere di un soldato è di eseguire gli ordini di coloro a cui Dio stesso ha concesso il potere.”
Rutelio stava per dire che nessun guerriero è tenuto a obbedire a una donna. Glielo leggevo in faccia, sicché ritenni opportuno prevenirlo: “Se vuoi andare a combattere contro gli ungari da solo, non hai che da accomodarti. Sappi però che il destino che spetta ai disobbedenti è di ardere per l’eternità nella pace bollente. Là vi sarà pianto e stridore di denti. Dico bene, venerabile padre Cassiano?”
A quel punto, nessuno ebbe più il coraggio necessario o gli argomenti giusti per continuare a discutere. Giungemmo così alle mura di pietre vive e stendardi della città di Alba Regia, sorta per volontà di Stefano il Pio e simile alla possente Civitas Dei di cui parla l’Apocalisse, come ebbe a dire Cassiano. Sin dall’ultimo tratto del nostro cammino la vedemmo comparire all’orizzonte, splendente nella luce del primo mattino. Al suo interno, quella fortezza racchiudeva un viavai di vicoli torti, casupole addossate da cui provenivano le esalazioni pestilenziali della concia, gli sbuffi di calore dalle fornaci e i colpi di martello ritmati sull’incudine nelle botteghe degli spadai. Canali d’acque chiare erano scavalcati da stretti ponti di legno su cui s’incrociavano – e finivano molto spesso per incastrarsi – i carri trainati dai buoi e dagli asini, in un continuo imperversare di ragli, muggiti e altri versi da parte dei conducenti. Mentre attendevamo il passaggio di un poderoso carico di granaglie, mi venne la curiosità di sapere quali parole stava rivolgendo il carrettiere al suo collega che riteneva di avere, assai verosimilmente, la precedenza. Mi rivolsi a Quintilio e alla sua conoscenza della lingua del luogo e fui illuminata in men che non si dica:
“Levati dai piedi, imbecille,” riferì, non senza imbarazzo, il mio traduttore. “Parole sue, augusta.”
Altri imbarazzi ci attendevano presso la corte di Stefano il Pio, dove giungemmo attraversando i mercati, le bancarelle immerse nell’odore delle spezie dove villici e ambulanti decantavano le qualità della loro merce, spiegavano davanti agli occhi dei clienti rotoli di tessuto e concedevano assaggi di carni affumicate. Al palazzo reale mi presentai nuovamente rivestita dei miei panni e del diadema scintillante da cui ricadevano, da entrambi i lati, tre file di perle alternate a turchesi. Non facevo in realtà una grande figura, perché durante il viaggio avevo perso peso e in luogo di conferirmi un contegno solenne, l’abito mi cadeva addosso da ogni parte. Con un senso di pena pensai allora a Berta, alla cura che usava nell’accostare le tinte e scegliere per me l’acconciatura più adatta. Chissà dov’era adesso e dov’era l’altra dama dal lungo naso a becco, che credeva che il diavolo portasse a spasso la moglie durante il temporale.
Di fronte al possente arco che delimitava l’ingresso alla reggia, faticammo non poco a convincere le guardie che il nostro corteo a dir poco cencioso era quello di Teofano di Ravenna.
“Certamente, signori. E io sono Julius Kaisar,” ghignò uno degli armigeri, levandosi l’elmo e abbozzando un inchino. “Guardate attentamente e vedrete spuntare la corona d’alloro,” rise di nuovo, grattandosi la pelata. Mostrai la pergamena sottoscritta per l’occasione da Ottone di Sassonia e contrassegnata dal suo sigillo. Quelli, naturalmente, non sapevano leggere né tanto meno comprendevano il latino. Cassiano era più che disposto a darne lettura ma le guardie lo interruppero ancor prima di cominciare: “Il mercato è più avanti, sempre dritto e poi a destra. Per i postriboli, invece, svoltate sulla sinistra e arriverete nel quartiere che più si addice a voi e alla vostra buona donna.”
L’aria cominciava a farsi pesante e l’intera faccenda a mettersi male: anche se la maggior parte dei miei aveva compreso ben poco delle parole dei due armati, il loro tono di scherno era stato recepito da tutti. Già vedevo occhi infuriati volgersi verso il carro dove erano conservate le armi. A evitare una zuffa sopraggiunse, in quel momento, un ragazzo sottile come un salice di palude, che quasi scompariva negli abiti di corte esattamente come anch’io sparivo dentro a vesti, sopravvesti e sotto al mio copricapo.
“Lasciateli passare,” disse rivolto ai due, che lo superavano almeno di due spanne ma che al vederlo s’inchinarono con deferenza. “La Bibbia invita a onorare i pellegrini come se fossero Dio stesso. Come dice il santo Apostolo, molti facendo questo hanno accolto angeli senza saperlo.”
Fu allora che, pur senza averne il minimo sospetto, feci conoscenza con Imre degli Árpád.
Mentre attraversavamo la corte con gli abbeveratoi e il suo viavai di maniscalchi e addetti alle stalle, mi ricordai di quel giorno in cui tre uomini e un ciuco erano giunti a Ravenna recando ogni sorta di strane meraviglie, dalle lozioni per far ricrescere i capelli fino alla misteriosa reliquia di Compostella. Mi resi conto allora che le vicende degli uomini non sono altro che un ciclo che si ripete e che la differenza tra un re e un accattone molto spesso è soltanto questione di tempo.
Quanto alla reliquia, ritenni più opportuno non farne parola a nessuno. Da Rustico e Quintilio, che inviai nuovamente a Ravenna con un salvacondotto che recava il sigillo di Stefano il Pio, ottenni la promessa di diffondere soltanto le notizie relative al mio arrivo e alla celebrazione delle mie nozze con l’erede al trono degli Ungari.  
La pace che provai in mezzo ai festeggiamenti fu per me il segno che i desideri di mio padre erano giunti a compimento e che il suo spirito riposava nella pace di chi è ormai libero da ogni vincolo terreno. Anche Berta di Classe, ovunque si trovasse, poteva riposare nella quiete di chi ha adempiuto al proprio dovere. Il mio matrimonio con Imre degli Árpád non fu diverso dai tanti che furono celebrati a quel tempo, prima e dopo di noi: fragile come un’alleanza tra due regni lontani, a tratti consolante come capita a chi, nel corso di un cammino difficile e solitario, incontri un altro viaggiatore che si è perso. Fu in ogni caso breve.
Di lì a poco Imre morì durante una battuta di caccia e io ottenni da Stefano di potermi ritirare in questo monastero della Visitazione, dove la reliquia del Volto di Compostella venne esposta alla venerazione dei fedeli e dove io stessa ho provveduto a redigere l’esatto resoconto dei suoi molti prodigi.
Qui seppellii anche l’astuccio che conteneva il cuore di mio padre, Ottone il Sassone.
Ormai da molti anni vivevo nella quiete e nel raccoglimento di quel luogo santo, dedicandomi allo studio della sapienza degli antichi e delle Sacre Scritture, quando ricevetti la visita dei miei protettori di un tempo, Quintilio e Rustico da Ravenna. Li ritrovai invecchiati e carichi degli acciacchi di una vita di viaggi, lotte e peripezie. Da loro appresi della morte di Cipriano d’Armenia e di quanto si diceva nel Palazzo dell’Esarcato, a proposito del fatto che l’Imperator era morto dopo aver ricevuto in dono dai nobili romani, quale pegno di pace, una veste adorna di ricami assai particolari, perché era possibile vederli soltanto al buio. L’originalità di quel dono non si esauriva qui. Pareva che quei fregi possedessero indubbie qualità medicamentose, quanto mai utili a Cipriano che durante l’assedio di Roma aveva contratto le febbri delle paludi. Stando ai fatti, l’Imperator era trapassato solo pochi giorni dopo aver ricevuto quel dono, ufficialmente a causa di uno sbilanciamento dei suoi umori. L’arsura che l’aveva tormentato nelle sue ultime ore gli aveva lasciato sul corpo segni di bruciature.
Molte voci correvano anche riguardo alla basilissa, che di lì a poco aveva contratto nuove nozze con altro suo favorito, Lucio di Efeso. Vi era chi diceva che quelle stoffe non provenissero da Roma ma dal gineceo di Ravenna. Zoe era un’amante dei profumi di lusso, ma conosceva anche, fin troppo bene, il potere di certe erbe.
All’udire quelle notizie, molti pensieri e colmi di una luce sinistra si fecero strada in me riguardo alla reliquia di Compostella e ai suoi straordinari effetti. Come ai tempi in cui il veterano Quintilio accennò all’avversione che contro di me covavano alcune tribù degli Ungari, ritenni opportuno non indagare oltre. La reliquia continuò a essere venerata ancora per molti anni in questo monastero della Visitazione, finché il tempo e la corruzione della sua stessa materia non la ridussero a un’ombra che lentamente scomparve. Il Volto del Dormiente sparì lasciando solo un fazzoletto ingiallito e portando con sé il mistero della sua origine.
 

 
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Da qualche parte nella terra di Al Andalus, qualche anno prima

 
“Aggiungi un’altra fetta,” brontolò Michelaccio, rimestando la brace.
Sandrone infilò sullo spiedo ricavato da un ramoscello un altro pezzo di carne. Nell’ora del tramonto, la canicola che aveva arroventato insieme ai combattimenti quella piana di polvere incominciava lentamente a scemare. Passò un filo di brezza e con essa l’odore del sangue e del sudore.
“Puzzi come una bestia,” bofonchiò nuovamente Michelaccio, all’indirizzo del compare.
Sandrone si spogliò della tunica e la adoperò per tergersi le grosse gocce che gli imperlavano la fronte. Non si trattava solo di un effetto della calura, né del fumo che gli abbrustoliva le gote salendo da quel misero focolare di sterpaglie.
Attorno alla fiamma che cuoceva quei bocconi, tolti da uno dei puledri uccisi nella mischia, i tre del ciuco cominciarono a rimestare nella gavetta. Si guardavano attorno il meno possibile, per non vedere i corpi ammassati qua e là, quelli dei mori ingabbiati in armature dorate e quelli dei coscritti di tutto l’Imperium. Pisquano da Napoli stringeva un curniciello, l’ultimo rimasto. Temeva le ombre che calavano dalle rocce intorno al campo aperto e di tanto in tanto lanciava un’occhiata apprensiva ai cadaveri degli uccisi, come se quelli dovessero levarsi tutt’a un tratto, raccogliere le budella e trasformarsi in spettri.
Spigolando qua e là nell’erba arsa dal sole, Michelaccio mise insieme un pugno di foraggio da portare a Liutprando, che li attendeva nascosto in una delle grotte che avevano scoperto solo pochi giorni prima. Là s’erano rifugiati subito al primo attacco, approfittando della confusione degli ordini, dell’assalto imprevisto da parte dei mori che avevano colto di sorpresa la retroguardia. Sempre là avevano atteso la fine degli scontri, Sandrone annichilito come se fosse già morto, Michelaccio in attesa che quel turbine di armi, polvere e cavalli giungesse al termine ed entrambi gli eserciti prendessero altre strade. Pisquano sgranava un rosario di sua invenzione, invocando san Gennaro, san Gerolamo e san Giustino. La consueta filastrocca era stata modificata per l’occasione: questa volta il cornetto non doveva servire a far vincere il quattrino ma a conservare sana e salva la pelle.
San Gennaro, che la legione se ne vada col suo rumore. San Gerolamo, che i mori non mi cavino gli occhi. Santa Eufemia e sant’Assunta…”
“Piantala, razza di vigliacco, o ci farai scoprire,” aveva ringhiato Michelaccio, assestandogli una manata con quella specie di vanghe che Iddio gli aveva attaccato alle braccia al posto delle mani. Pisquano era ruzzolato a gambe all’aria, riuscendo comunque a trovare il fiato per rispondere:
“Vigliacco io? Mica mi sono nascosto da solo. Io qua, di vigliacchi, ne conto almeno altri due.”
Dopo averla scampata una prima volta, evitando di finire coi piedi arrostiti grazie alla parlantina dei monaci di Nonantola, i tre del ciuco erano stati riacciuffati nel giro di poche ore da un altro convoglio diretto al castrum di Classe. Una volta accertato che erano ambulanti e sempre in ottemperanza di quanto disposto dall’Imperator e dal suo tirapiedi, il signore di Fosso Ghiaia, il centurione di turno non aveva esitato ad arruolarli sul posto.
“Voialtri, nei ranghi. Avanti, camminare!”
“Ma dice proprio a noi?” aveva bisbigliato Sandrone, ancora frastornato dai molteplici fatti che si erano susseguiti in una sola mattina.
“Chiudi il becco e cammina, imbecille,” gli aveva soffiato contro Michelaccio. “Alla prima occasione, vedremo di filarcela.”
Quell’ambita occasione, in realtà, non era mai arrivata. Non erano riusciti a squagliarsela né durante il tragitto, né al campo di addestramento e neppure durante la lunga marcia fino in Hispania.
Paradossalmente, erano riusciti a riacquistare la libertà proprio grazie ai mori, i leggendari guerrieri famosi per il loro vezzo di affettare il naso e le orecchie ai cristiani.
Sandrone cavò dalla brace l’ultimo pezzo d’arrosto. Il crepuscolo indugiava sulle creste rocciose di fronte alla spianata, tingendole dello stesso colore vermiglio che si addensava attorno ai corpi dei caduti di quel giorno.
“E adesso dove andremo?” Pisquano diede voce alla domanda che tutti si stavano facendo in quel preciso momento, compreso Michelaccio anche se non l’avrebbe mai ammesso. “Abbiamo perso tutto, anche il carro. Ci resta solo Liutprando.”
“Possiamo prendere la via di Compostella. In fondo siamo pellegrini del buon Dio,” propose Sandrone.
“Tu la strada la sai?”
“In verità non ne ho la più pallida idea. Ma si dice che tutte le strade dell’Hispania portino a Compostella.”
“Quella è Roma, ignorante.”
“Direi che è il giunto il momento di rimetterci in marcia,” disse Pisquano, ritrovando finalmente il coraggio per rimettersi in piedi. “A Compostella ci sarà del mercato, potrò comprare qualche rametto di corallo e costruire una manciata di curnicielli napulitani. Scommetto che là non ne hanno ancora sentito parlare.”
“E come pensi di procurarti il corallo?” lo smorzò Michelaccio, che per la prima volta pareva sfiduciato e oppresso da chissà quali pensieri. “Ormai ci sono rimaste solo le pezze ai piedi.”
“Come abbiamo fatto sempre. Qualcosa inventeremo.” Pisquano si grattò la pancia e allargò le braccia per asciugare le ascelle, fradice di paura, alla brezza notturna. Per la prima volta da quando li conosceva, Michelaccio pensò che in fondo, molto in fondo, i suoi compagni di avventura avevano ragione. Assestò a Pisquano e a Sandrone una formidabile pacca sulla spalla di ciascuno: “Vado a prendere Liutprando. Voi guardate un po’ in giro, vedete se c’è qualcosa che valga la pena di portar via.”
Di lì a poco, una luna piena e chiarissima uscì a illuminare la via su cui s’incamminarono quei tre uomini e un ciuco. Il cielo si animò di una moltitudine di stelle.
“Questo è un buon segno,” disse Pisquano. “Compostella significa appunto il campo delle stelle. Possiamo considerarlo un presagio.”
“Se una di quelle cade, puoi esprimere un desiderio,” aggiunse Sandrone. A lungo tutti e tre rimasero col naso voltato per aria. Liutprando alzò le orecchie e le mantenne ben dritte per tutto il resto del viaggio. Forse era anche lui lieto di ritrovarsi libero o forse, di tanto in tanto, pensava ancora a Rosvita, la più bella mula della lontana, ormai lontanissima abbazia di Nonantola.
 
 
 

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