Back to the future

di Miss Rossange Stucky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Leaving ***
Capitolo 2: *** A message from time ***
Capitolo 3: *** Back for you ***



Capitolo 1
*** Leaving ***


Ho deciso di pubblicare questa ff in tre piccoli capitoli (poco più di 1000 parole), perché ho la sensazione che ne faciliti la lettura. Spero di non aver fatto la scelta sbagliata.
I capitoli verranno pubblicati settimanalmente.
Buona lettura e…buona suspence!
 
 
“Certo che non ce l’ho con te, Pun-…Steve, come potrei? Hai fatto la tua scelta, ed è stata una decisione che ti ha reso felice…più felice di come eri…insomma, più felice, no?”
 
Le rughe attorno agli occhi del vecchio Rogers si approfondirono e si moltiplicarono. Stava sorridendo? James non avrebbe saputo dirlo: quel volto che si trovava davanti apparteneva sicuramente a Steven, anche se gli sembrava così estraneo, e probabilmente era lo stesso che gli avrebbe visto, un giorno, se la vita fosse stata tanto generosa con Bucky da permettergli di viverla accanto a lui, invecchiando insieme.
 
Ma così non era stato e, a ben pensarci, non era stata la vita ad essere ingenerosa. Era stato Steve a decidere di cambiare tutto e correre da Peggy. Quindi sì, un po’ ce l’aveva con lui, ma non glielo avrebbe mai rivelato, non poteva.
 
“…e soprattutto non te la senti di prendertela con un vecchietto indifeso, non è così?”
 
Le sue elucubrazioni gli avevano fatto perdere almeno la metà della risposta di Rogers, ma quelle ultime parole le aveva sentite e forse erano vere: che senso aveva prendersela con lui, ormai? Una cosa, però, stonava nelle parole di Steve…
 
“Tu non sei mai stato indifeso, Punk”
 
Quel nomignolo gli uscì spontaneo. Prima lo aveva censurato perché non lo riteneva rispettoso nei confronti di un uomo anziano…il marito di Peggy Carter, uno sconosciuto. Ma, per quanto la cosa gli sembrasse assurda, quello era Steve, o almeno lo era stato.
 
Rogers accennò una risata sommessa, scuotendo la testa.
 
“Non sono più lo stesso di allora, James”
 
Quell’affermazione, fatta con tanta leggerezza, lo irritò.
 
“Hai ragione. Non lo sei.” - replicò freddamente, poi si pentì della propria reazione e addolcì il tono della voce.
 
”Beh, ora ti saluto: gli altri mi stanno aspettando”. Era vero? Forse no, ma cosa importava?
 
Si alzò, porgendogli la mano per una stretta cordiale ma impersonale, Rogers invece usò quella presa forte per alzarsi dalla panchina ed avvicinarsi a Bucky per abbracciarlo.
 
James rimase impietrito a quel gesto inatteso, quindi non si allontanò, e fece in tempo a sentire le parole che l’altro sussurrò al suo orecchio.
 
“Non ti ho abbandonato, Jerk. Presto capirai. Ho fatto l’unica scelta possibile”
 
Stava per rispondergli “Hai scelto lei”, ma in quel momento sentì che quel corpo stretto contro il suo si faceva pesante, sempre più pesante, come se non potesse più sostenere il suo stesso peso.
 
Bucky si allarmò, lo scostò di poco e vide che aveva chiuso gli occhi, mentre un’espressione serena e distesa si andava diffondendo su quel viso rugoso e pallido…mortalmente pallido.
 
“Steve!”, la realtà di quello che stava accadendo lo colpì come un secchio d’acqua gelida in pieno viso, “No! No! Steve…Stevie, hey, non fare scherzi…no! Maledizione, no!”
 
Le sue parole disperate non ebbero il potere di rianimare Rogers, che lentamente scivolava verso il basso, il capo reclinato, le braccia ormai inerti lungo i fianchi.
 
Affranto, gli occhi sbarrati, James tentava di tenerlo in piedi, rifiutandosi di accettare la realtà. Ma non poté fare altro che rassegnarsi e accompagnarne la discesa, sorreggendolo delicatamente fino ad adagiarlo sul prato.
 
Gli si inginocchiò accanto e piantò, con tutta la forza che aveva, i pugni nel soffice terreno vicino al corpo, ormai senza vita, di Steve.
 
Lanciò un’imprecazione urlando il suo dolore verso il cielo, ma dalla sua gola uscì un suono inarticolato, come il verso di un animale ferito. Affondò con rabbia e disperazione il viso nelle mani, per impedire alle lacrime di cadere e per tentare di riprendere il controllo.
 
Quando ci riuscì il suo viso non mostrava più alcuna emozione. Il cuore stretto in una fin troppo familiare morsa di gelo, sistemò la salma nella posizione più dignitosa possibile, la guardò un’ultima volta, poi si alzò, prese il telefono e formò il numero di Sam.
 
---
Le esequie solenni sembrarono la replica di quelle organizzate per Stark.
 
Una breve ma intensa cerimonia nel grande cimitero, tra prati verdissimi e lapidi bianche, un gran numero di figure vestite di nero a capo chino, intorno ad un feretro coperto da una bandiera a stelle e strisce; l’unica differenza erano i fiori disposti a formare una piccola copia dello scudo più famoso del mondo, il cui originale era ormai parte dell’armatura di Sam.
 
James se ne stava in disparte, osservando tutto quel dolore come se non lo riguardasse, come se stesse guardando un film. Si sentiva troppo confuso ed estraneo per partecipare…in un certo senso non era neanche sicuro di sapere al funerale di chi stesse assistendo.
 
Si diede dell’idiota e del mostro una decina di volte, prima di decidere di allontanarsi da lì senza farsi vedere, tornando nell’oblio da cui proveniva, quello stesso oblio che lo aveva tenuto prigioniero per anni e di cui ancora portava dentro i segni, così come il suo corpo ne mostrava le cicatrici.
 
Raggiunse il Grattacielo e salì all’ultimo piano, aprì la porta dell’appartamento che aveva diviso con Steve e si diresse senza indugi verso il guardaroba. Ne estrasse un anonimo borsone e vi gettò dentro a caso un po’ dei suoi vestiti. Chiuse la zip con un gesto rabbioso, si caricò il misero bagaglio su una spalla e si apprestò a lasciare quel posto per sempre.
 
Aveva deciso: sarebbe sparito senza lasciare traccia, in fondo era la cosa che sapeva fare meglio, oltre ad uccidere.
 
Gli Avengers non avevano bisogno di lui, il mondo non aveva bisogno di lui, e poi…se il grande Captain America aveva potuto mollare tutto, perché non poteva farlo lui? In fondo lui non era nessuno, e di certo nessuno avrebbe sentito la sua mancanza.
 
Nell’ingresso, un attimo prima di uscire, il suo sguardo fu attratto da una foto lasciata apparentemente a caso sul tavolino accanto alla porta. La prese e la guardò perplesso, poi si ricordò: era una vecchia foto di loro due subito prima della guerra, che Steve voleva incorniciare.
 
Gliel’avevano scattata la sera che lui aveva portato Steve in un locale a Brooklyn, per festeggiare la sua partenza. Buck era in divisa, sorridente, col berretto di traverso e un braccio attorno al collo di Steve, che invece non sorrideva affatto, indossava il suo solito “vestito della festa” ed era… – una lacrima premette contro l’orlo della palpebra di James – …era “il suo” Stevie, quello a cui non era stato ancora iniettato niente. Quello che aveva combattuto mille battaglie, ma senza lo scudo di Captain America; l’unico vero Steve che il suo cuore era, in quel momento, disposto a riconoscere e a ricordare.
 
Infilò la foto nella tasca interna del suo giubbotto e uscì, sbattendosi la porta alle spalle.

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Capitolo 2
*** A message from time ***


Ecco il secondo capitolo (coraggio: ne è rimasto solo uno!)
Grazie a tutti coloro che hanno letto il primo, se quello vi è piaciuto spero questo non vi deluda.
Buona lettura.
 

Voleva andarsene lontano, il più lontano possibile. Voleva un posto dove nessuno potesse riconoscerlo, un posto in cui la sensazione di estraneità fosse normale, giustificata. Aveva scartato un cospicuo numero di destinazioni, prima di decidere quale fosse la migliore. La maggior parte le aveva eliminate dalla lista perché gli ricordavano troppo Steve.
 

Mentre ancora rifletteva su quale scegliere si rese conto che, a parte le sale di tortura dell’HYDRA, non c’era un luogo che non gli ricordasse Steve. Non sapeva se essere arrabbiato con lui o con se stesso, poi si disse che anche questi non erano altro che i suoi soliti labirinti mentali, in cui si perdeva, lasciandosi accecare dalla rabbia, come una belva braccata.
 

La sua era una fuga a tutti gli effetti, ma non doveva necessariamente comportarsi come un ricercato, dato che in realtà nessuno lo stava cercando.
 

Tentò quindi di rilassarsi e cambiare ottica, rassegnandosi all’idea che il pensiero di Steve e i ricordi che appartenevano a loro due lo avrebbero seguito ovunque.
 
Così, dopo sei mesi passati a girare il mondo per trovare la “tana” perfetta, si ritrovò a Brooklyn in un appartamento in affitto al quinto piano, l’ultimo, di un edificio a mattoni rossi a Prospect Heights. Un posto che non avrebbe mai pensato di scegliere, così “normale” e vicino alla sua vecchia casa, ma che perlomeno gli assicurava una vista spettacolare su Brooklyn e Manhattan.
 

L’appartamento era piccolo e abbastanza spoglio, ma lui non aveva bisogno di granché.
 

Gli serviva un posto in cui vivere, non una casa. Quella l’aveva persa quando aveva perso Steven, in quei dannati cinque secondi che avevano salvato l’universo…e distrutto la sua vita.
 

Non aveva nulla da fare quindi, per evitare di passare tutto il giorno a pensare, inasprendo un dolore mai attenuatosi, e a coltivare una sterile rabbia verso il mondo, la vita e se stesso, usciva all’alba, girava per la città senza meta, per poi tornare all’appartamento solo quando il sole stava ormai per tramontare. Spesso dimenticava di mangiare, ma il suo frigo era pieno di birre.
 

La sera crollava sul letto, a volte con gli stessi vestiti del giorno prima. La testa vuota e allo stesso tempo affollata di pensieri, sprofondava in un sonno fatto di frequenti risvegli, quasi sempre causati da orribili sogni. Quando si alzava, si spogliava, si infilava nella doccia e restava per un tempo infinito sotto il getto tiepido dell’acqua, sperando, inutilmente, che il flusso incessante cancellasse le tracce della nottata e il ricordo degli incubi.
 

Non ci mise molto a riabituarsi a stare da solo, dopotutto aveva i suoi vantaggi, ed era qualcosa che conosceva bene…la solitudine è tutto ciò che ho – si ripeteva – essere solo mi protegge.
 
Sapeva di mentire a se stesso, sapeva che sono gli amici che ti proteggono, ma lui non aveva amici, ne aveva avuto uno solo e lo aveva perso per sempre. Doveva accettare la realtà dei fatti.
 

Le cose stanno così – si disse stendendosi sul letto alla fine dell’ennesima giornata vuota, lanciando lontano la bottiglia vuota, stringendo tra le mani la sua testa vuota e cercò di convincersi a dormire, pur sapendo cosa comportasse.
 

Aveva chiuso gli occhi da poco e stava abbandonandosi ad un combattuto stato di dormiveglia, quando sentì un rumore che il suo cervello registrò immediatamente come un segnale di pericolo.
 

Durante tutta la permanenza a Bucarest, rintanato nel suo rifugio, sentir bussare alla porta era la cosa che più lo allarmava…gli ci volle qualche secondo per realizzare che non era più in quella situazione, che si trovava a Brooklyn e che se qualcuno bussava alla sua porta non avrebbe dovuto per forza trattarsi di una minaccia.
 

Neppure essendo, come in quel momento, quasi mezzanotte.
 

Andò alla porta, guardò dallo spioncino ma non vide nessuno e la sensazione di pericolo si riaffacciò alla sua mente, inviandogli un brivido freddo lungo la schiena. Non era paura. Era il riflesso condizionato del fuggitivo, era il Soldato d’Inverno che reclamava la sua parte.
 

Per non perdere il controllo decise che qualcuno gli aveva fatto uno stupido scherzo, magari un inquilino ubriaco. Si era accorto che non era l’unico in quel palazzo, in quel quartiere, a cercare sollievo nell’alcool al male di vivere.
 
Stava per tornare in camera quando uno ‘swish’ sul pavimento lo spinse a voltarsi e ad abbassare lo sguardo: da sotto la porta sporgeva l’angolo di una busta da lettere.
 

Si abbassò ad osservarla con circospezione, sembrava innocua. La prese, la girò tra le mani e sentì il respiro bloccarsi: sul lato del destinatario c’era scritto ‘Jerk’.
 

Emise un grido soffocato, quasi un lamento, e lasciò cadere la busta a terra. Si passò le mani tra i capelli, cercando di ritrovare la calma e di rallentare i battiti del suo cuore. Chiuse gli occhi per un attimo, poi raccolse di nuovo la busta.
 

‘Jerk’. Quella parola, quella calligrafia…non c’era verso di sbagliarsi: il mittente era Steve. Era contro ogni logica, ma non poteva essere diversamente.
 
Tornò in camera, sentendo la busta bruciargli tra le mani. Si sedette sul letto, accese la lampada del comodino, posò la busta accanto a sé e rimase a fissarla come se si aspettasse qualcosa da lei, come se potesse svelare da sola il proprio contenuto.
 

Quando finalmente si decise ad estrarre il foglio piegato in due che il misterioso involucro custodiva, lo spiegò e lesse avidamente, quasi febbricitante, ogni parola, senza tuttavia riuscire a capirne il significato, come se fosse scritto in una lingua aliena.
 

La sua mente si rifiutava di accettare ciò che la lettera gli stava rivelando.
 

Steve aveva scritto per lui quel lungo messaggio, ma le parole che dovevano servire a spiegare, a chiarire, riuscivano solo a confonderlo di più. Le uniche cose che trovava comprensibili erano le istruzioni su cosa avrebbe dovuto fare il giorno dopo. Direttive, quasi ordini, ma espressi con toni di supplica. Ordini del suo capitano…suppliche del suo Steve.
 

La rilesse più e più volte, cercando di sgombrare la mente per potersi concentrare e, senza accorgersene, si addormentò, con quel foglio ancora stretto tra le mani.
 

Per la prima volta dopo tanto tempo quella notte non ebbe i soliti incubi e poté riposare, anche se fu un sonno popolato da sogni surreali in cui rincorreva ombre.

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Capitolo 3
*** Back for you ***


Terzo ed ultimo mini capitolo di questa piccola follia Stucky.
Grazie, come sempre, di cuore a chi ha letto i primi due, spero abbiate apprezzato. In caso spero vi piaccia anche la conclusione.
Dida77…che ti avevo promesso?

Buona lettura


Il primo raggio di sole del mattino si fermò proprio sulla sua fronte, il leggero calore gli sembrò quasi una carezza.

Aprì gli occhi e subito si guardò le mani, sempre avvolte attorno a quell’inatteso, assurdo messaggio di speranza.

Nonostante continuasse a ripetersi che era una follia, decise di seguire le istruzioni riportate sul foglio, quindi fece una rapida doccia fredda per essere ben sicuro di essere sveglio, si vestì in fretta e uscì.

Prospect Park era a pochi passi dal suo appartamento, ma quando vi arrivò si accorse di avere il fiato grosso, come se avesse corso, o camminato per ore.

Si diresse nel punto indicatogli, passando sotto il vecchio ponte coperto di muschio, fino al laghetto in cui nuotavano splendidi cigni neri.

Fu allora che lo vide. La sensazione di déjà-vu che provò era grottescamente, crudelmente ironica: il mittente della lettera era di spalle, seduto sull’unica panchina, apparentemente intento ad osservare il placido andirivieni dei cigni come se niente fosse.

Ebbe l’impulso di fuggire da quell’assurda situazione prima che fosse troppo tardi, prima di perdere del tutto la ragione, ma le sue gambe non gli obbedirono e continuarono a portarlo sempre più vicino a quella sagoma dolorosamente familiare.

All’avvicinarsi dei passi alle sue spalle, il giovane uomo seduto sulla panchina si voltò, le belle labbra dischiuse da un luminoso sorriso. Quel sorriso fermò per un attimo il cuore di Bucky e il suo quasi involontario avanzare.

Dalle quelle stesse labbra uscì una voce che ben conosceva:

“Buck, non ero sicuro che saresti venuto”

James si riscosse e lo raggiunse.

Tutto era troppo assurdo, irreale, tanto da non poter fare altro che adeguarsi, comportarsi anche lui come nulla fosse, come se si fossero semplicemente dati appuntamento lì, chissà quando…

“Non ti credo. Sapevi che non avrei resistito, Steve…sei Steve, vero? Ti prego, spiegami cosa sta succedendo!”

Tutta la calma che si era imposto scomparve in un istante e il suo volto si contrasse in una smorfia, un misto di dolore e confusione.

Rogers, continuando a sorridere, lo invitò a sedersi accanto a lui. James voleva aggiungere qualcosa, ma in quel momento gli crollò addosso tutta la stanchezza di quei mesi passati a nascondersi da se stesso, si sentì improvvisamente esausto, chinò il capo e obbedì senza fiatare.

Si passò le mani sul viso, poi, fissando il terreno, disse:

“Sei morto tra le mie braccia…”

“Quello non ero io”

Bucky si voltò a guardarlo, stupito.

“Che diamine significa?”

Rogers sussurrò:

“Presto capirai”

A quelle parole James sussultò, chiuse gli occhi e replicò:

“Ti ascolto”.

Steve gli spiegò che, in quei cinque secondi, in cui si era spostato nel tempo e nello spazio per assicurarsi che ogni Pietra dell’Infinito tornasse al proprio posto, era andato a prendere il corpo di Captain America che si trovava sepolto nei ghiacci dell’Artide e lo aveva portato alla base militare americana, per far sì che Peggy e gli altri lo trovassero, sicuro del fatto che avrebbero trovato il modo di riportarlo in vita.

Lui nel frattempo aveva eliminato ogni traccia dell’HYDRA, poi era tornato da quello Steve Rogers per assicurarsi che fosse convinto della morte del sergente Barnes. Quel Rogers, senza l’altra metà di se stesso e senza più battaglie da combattere, era rimasto con Peggy, lavorando per lo S.H.I.E.L.D con il nome di Daniel Sousa, e l’aveva sposata. A quel punto Steve ebbe la certezza che il suo piano aveva funzionato alla perfezione.

Quello era lo Steve che avevano visto quel giorno sulla panchina, che era morto di vecchiaia tra le braccia di Buck, dopo avergli sussurrato un messaggio affidatogli due mesi prima dall’altro se stesso.

James inizialmente era incredulo, confuso ma, man mano che il racconto di Steve andava avanti, tutte le tessere del puzzle stavano prendendo, una alla volta, il loro posto nella sua mente.

Gli restava solo una perplessità.

“Quindi quel giorno non sei comparso nella macchina di Banner perché non sei tornato…”

“Esatto”

“E dov’eri?”

“Ero qui…due mesi prima”

James si voltò a guardarlo, accigliato.

“Scusami, non capisco”

“Mi sono trasportato indietro di due mesi, qui a New York, per parlare con l’altro me e affidargli il messaggio che ti ha riferito. Si è fatto trovare su quella panchina, proprio quel giorno, in quel momento, per creare l’illusione di un “ritorno dalla missione”.

Quando sono stato certo di averlo convinto a svolgere il mio “incarico”, sono andato via e sono rimasto ad attendere pazientemente il tempo giusto per tornare in scena. Ho dovuto aspettare che tu lo vedessi, che lui parlasse con Sam, poi che ti riferisse il mio messaggio, poi la sua morte, i funerali, la tua fuga, i tuoi viaggi…il tuo ritorno”

“Ma come sapevi che sarei tornato qui se neanche io lo sapevo?”

“Perché questa è Brooklyn, Buck. Questo posto è noi”

James sentì il proprio cuore accelerare, mentre un dolce calore si diffondeva nel suo petto sciogliendo ogni residuo di ghiaccio…

“Non mi hai abbandonato…”

Rogers abbassò il tono della voce, per tentare di mascherare l’emozione:

“Te lo avevo detto che sarei rimasto con te fino alla fine”

James emise un lungo sospiro, ancora inquieto…

“E ora che succede?”

Steve gli prese una mano tra le sue e lo guardò intensamente negli occhi.

“Ora viviamo la nostra vita. Insieme, se lo vuoi anche tu”

Buck si lasciò sfuggire una piccola risata nervosa.

“Mi gira la testa, ma di una cosa sono certo: voglio stare con te, comunque e dovunque. Dovresti saperlo, scemo che non sei altro”

Steve annuì e lo abbracciò stretto, come aveva fatto l’altro Steve, sei mesi prima.

“Allora è quello che faremo. Niente più Avengers: Captain America è morto e Sam ha già preso il suo posto. Saremo solo noi, Steven Grant Rogers e James Buchanan Barnes”

Finalmente Bucky ricambiò l’abbraccio e si strinse a lui così forte che ebbe paura di fargli male, ma aveva bisogno di sentirlo contro di sé, vivo, giovane, forte. Aveva bisogno di assicurarsi che fosse tutto vero.

Nascose il viso nella curva del collo di Steve, aspirò il profumo della sua pelle, strofinò la guancia contro la sua, gli sfiorò l’orecchio con le labbra, sussurrando...

“Non sparire più”
Rogers abbassò le palpebre voltando il viso per posargli un lieve bacio sulla tempia, prima di rispondere.

“Mai più, promesso”. I maestosi cigni neri di Prospect Park sfilarono lievi come nuvole, regali ed eleganti, davanti a loro, e furono gli unici, discreti e silenziosi spettatori del primo bacio della loro nuova vita.

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