The Mystic's Dream

di EffyLou
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -2 ***
Capitolo 2: *** -1 ***
Capitolo 3: *** 0. Before the twilight ***
Capitolo 4: *** 1° 𝘯𝘪𝘨𝘩𝘵 - Vertexes ***



Capitolo 1
*** -2 ***


PREMESSA

I. Questo è il primo volume della serie Ahura Daiva ed è ambientato dopo il Summit tenuto da Aladdin (non presente nell'anime, ma si colloca dopo la fine della seconda stagione) in cui mostra la storia di Alma Toran. Se non avete letto il manga fin lì, vi invito a farlo. Non è fondamentale per la lettura di questo volume nello specifico, però non guasta.
Comunque sia, potrei scegliere di ignorare o modificare piccoli dettagli di eventi del manga precedenti a questo momento.

II. In questa storia ho inserito degli OC, ovvero dei personaggi originali frutto della mia fantasia. Dovrete immaginarli come se fossero sempre stati dietro le quinte, soprattutto alcuni; altri sono sbucati fuori con questi eventi (?). Non so quanto possa fari piacere, ma in questa storia gli OC giocano un ruolo importante e più di rilievo rispetto ai canon.

III. Ai fini della storia, ho dovuto aggiungere elementi e dettagli alla geopolitica del mondo creato dalla Ohtaka. Questo perché mi servivano informazioni che non esistevano, o erano molto scarne, quindi vedrete l'aggiunta di un nuovo arcipelago (1) e nuovi luoghi in ogni Stato canonico.

IV. Avendo letto il manga, trovo che Magi sia una storia tutto fuorché allegra, colorata e spensierata. C'è molto lavoro dietro e, a mio avviso, una forte componente dark nell'atmosfera. E, se l'ho vista solo io, cercherò di tenere fede alla mia visione e mantenere, per questa storia, la stessa componente oscura. Voglio trattare questa fanfiction come se fosse un romanzo fantasy-storico senza risparmiarmi nulla, un po' come Il Trono di Spade (??).

V. Questa storia avrà due sequel, quindi sarà una trilogia. Almeno per il momento, questa è la mia decisione.


 

Magi: Ahura Daiva.
Vol. I


The Mystic's Dream


-2


Un colpo alla porta. Silenzio. Un altro colpo, stavolta più forte. Il grande portone d’ingresso resistette anche al terzo colpo, ma al quarto i battenti si aprirono.
Sapevano che stavano arrivando: nel loro tragitto fino al palazzo reale, i maghi ribelli avevano saccheggiato, distrutto e compiuto atti ignobili contro la città e la popolazione innocente. Dalle vetrate del castello si vedevano bene colonne di fumo che s’innalzavano al cielo da edifici civili, giardini, angoli di strade. La gente scappava per le vie come formiche impazzite, gridando pietà o i nomi dei propri cari per ritrovarli nel caos, cercando riparo e nascondiglio dai maghi.

Molti dei membri della servitù più bassa erano stipati nell’atrio dell’ala di servizio e stavano in silenzio, mai ammutoliti come prima d’ora, mentre dal cuore del palazzo provenivano i rumori del saccheggio e le esplosioni magiche, unite alle grida di altri servi, ancelle, ciambellani.
Tutti in angosciante attesa, silenti, quasi temessero che i maghi potessero scoprirli se anche solo avessero respirato un po’ più forte. Non molto lontano dai loro alloggi c’erano le cucine, le quali erano fornite di un passaggio nascosto utilizzato dalla servitù per andare a buttare la pattumiera e far arrivare i viveri. Erano così vicine eppure non avevano fatto in tempo, e ora il rischio era troppo grande, non potevano uscire.


L’urlo disperato di una bambina squarciò l’aria come un tuono, e un brivido percorse le spine dorsali dei servi silenziosi. Uno dei maggiordomi ingoiò un groppo e pronunciò, tremante: «L’hanno presa. Hanno preso la principessa Dunya»
«Bisogna portare in salvo i gemelli» rispose prontamente una lavandaia. Senza attendere il giudizio degli altri, Shoshanna aprì la porta del ripostiglio, in cui era stato organizzato un giaciglio di fortuna con qualche coperta messa alla bell’e meglio. Arrotolati in quel groviglio, due gemelli dormivano paciosi. I capelli azzurrini sparsi sul cuscino coprivano i lineamenti delicati, tondi.
«Non potranno mai ristabilire la dinastia di Musta’sim, sono bastardi» obbiettò un cuoco.
«Hanno preso la principessa. Anche se sono illegittimi, sono gli ultimi della dinastia» replicò Shoshanna. Con una scossa leggera, ma che tradiva agitazione e impazienza, svegliò i gemelli.
Due paia di occhi azzurri come il cielo terso d’estate la osservarono assonnati. «Bambini, andiamo, venite con me»

«Shoshanna» la richiamò il maggiordomo «sono troppo piccoli per cavarsela da soli lì fuori»
«Devi andare con loro. Tu li stai designando come continuatori della dinastia, tu te ne prenderai cura»
«Shoshanna? Che succede?» domandò la bambina, strofinandosi gli occhi.
La lavandaia le fece una carezza tra i capelli e li invitò ad alzarsi. In fretta, raccolse qualche coperta e qualcosa da mangiare. «Andiamo via, Dhalia. Raccogliete le vostre cose».
I bambini si scambiarono un’occhiata perplessa, ma erano troppo assonnati per continuare a fare domande e fecero come era stato loro detto. I rumori fuori si fecero più forti, concitati. I passi dei maghi rimbombavano sopra le loro teste, segno che avevano raggiunto il piano superiore.
Shoshanna coprì i gemelli con le loro mantelline e si coprì a sua volta con uno scialle di lana. Sulle spalle aveva legato una sacca con le cose che aveva raccolto e alla cintura dell’abito aveva il sacchetto di cuoio con gli unici risparmi che aveva racimolato.

Appoggiò l’orecchio alla porta, in attesa del momento migliore per uscire. E guardò dietro di sé, verso i suoi colleghi. «Addio»
«Buona fortuna» risposero quelli.

Shoshanna aprì la porta, piano, e scrutò fuori. Appurando la via libera, trascinò i bambini dietro di sé in una corsa a perdifiato fino alle cucine. Nel tunnel che conduceva fuori, la lavandaia proseguì a tastoni pur di non accendere una torcia, fino a sbattere contro la porta d’uscita. Ogni tanto chiedeva ai bambini se ci fossero, se la stessero seguendo, e intimava loro di non lasciarsi la mano.
Fuori dal palazzo reale, la brezza estiva della sera li colpì. Aleggiava un paradossale senso di quiete, nonostante in lontananza si vedessero le colonne di fumo in città.

«Shoshanna, che sta succedendo? Perché Musta’sim brucia?» si allarmò il bambino, Brahim.
La lavandaia non rispose, si affrettò a raggiungere le stalle poco lontane e caricare i bagagli sul cavallo. Dopodiché fece salire i gemelli e salì a sua volta, partendo al galoppo.
I bambini si voltarono, confusi e spaesati, verso il palazzo che li aveva cresciuti tra le sue mura e lo videro in fiamme. Bruciavano i piani superiori e quelli inferiori, finché, non appena furono abbastanza lontani, non lo videro collassare su sé stesso. Solo allora capirono, e solo allora si lasciarono andare ad un disperato pianto liberatorio.

 
 
 • • • • •


 
 
Tre anni prima della comparsa di Aladdin…
 
C’era un lezzo nauseabondo ad Aktia, ancor di più al porto. Tra l’odore del pesce e il sudore, mischiato alla sporcizia, dei marinai, per chi non era abituato era quasi impossibile respirare.
Lei ormai non ci faceva più caso, erano mesi che viveva per strada e mangiava ai depositi del porto. I lupi di mare non notavano neanche più la sua figura cenciosa che si aggirava in cerca di cibo.
Il mondo fuori le mura di Magnostadt era molto diverso da come lo aveva immaginato, ma anche meno terribile. Non conduceva una vita tranquilla: viveva di furti e rivendita di ciò che rubava, mangiava il pesce appena pescato e dormiva in un’alcova nel deposito di grano.
Era stanca di vivere così. Era perfettamente consapevole di chi fosse e di cosa meritasse nella vita, e quello decisamente non rientrava tra le sue aspirazioni. Aveva dei progetti, dei piani, che erano andati a monte prima che potesse provare ad attuarli. Da quando la donna che l’aveva cresciuta era morta di una terribile malattia e, poco tempo dopo, suo fratello era stato rapito e fatto schiavo, Dhalia si era sentita persa nel mondo. A mandarla avanti aveva solo un unico, grande, desiderio: distruggere Magnostadt.
Si era tinta i capelli ed era riuscita ad entrare all’Accademia. Aveva faticato, era arrivata al penultimo Kodor e ormai riusciva a padroneggiare quasi tutti i tipi di rukh. Era vicina a poter distruggere Magnostadt dall’intero. Eppure, poi, i ricordi di quando i maghi distrussero Musta’sim e uccisero gli innocenti tornarono prepotenti nella sua mente, e comprese che non poteva macchiarsi degli stessi loro peccati. Lei era migliore di così, non ci avrebbe mandato di mezzo ragazzi innocenti. Spaesata, in un luogo che odiava e senza più un obbiettivo da raggiungere, era fuggita e si era stabilita ad Aktia.
Ora la sua esistenza vagava nel limbo dell’incertezza, la confusione di chi non ha uno scopo nella vita. Aveva persino smesso di pensarci.

Dhalia affondò le unghie, sporche di terra e residui di cibo, nell’esoscheletro del gamberetto che aveva appena raccolto dal cumulo di pescato del giorno. Lo ripulì e cominciò a mettere in bocca i pezzi di polpa pallida.
Intorno a lei cominciò ad aumentare il flusso di persone dirette al porto, concitate. In lontananza si vedevano le vele in avvicinamento di una nave da guerra di Aktia, bucherellate e bruciacchiate. A quella vista, anche Dhalia si alzò per raggiungere la folla che si raccoglieva sulla banchina.
Il veliero era stato bruciacchiato, gli alberi maestri spezzati e le vele strappate.

«Cos’è successo?» domandò.
Un mercante di pesce di fianco a lei la osservò vagamente sbigottito. «Shaytan» le rispose, come se fosse ovvio. «Una delle sue navi è stata avvistata pochi giorni fa al largo del regno e il re ha voluto giocare d’anticipo e attaccare lui per primo, stavolta»
Dhalia sollevò un sopracciglio. «Non è stata una mossa furba»
«Le navi partite per attaccare quell’unico veliero erano tre».

Un verso di esclamazione si diffuse tra le prime file. Non appena la nave fu abbastanza vicina, uno dei soldati a bordo lasciò cadere la vela malridotta e ne spiegò una nuova, immacolata, su torreggiava una scritta provocatoria: “Provateci di nuovo”.
Dhalia si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito, guadagnandosi l’occhiataccia del mercante. «Non c’è da ridere, ragazzina. Shaytan saccheggia le nostre navi da sempre, questa è l’ennesima beffa»
S’intromise una donna con un foulard legato attorno alla testa e un cesto di vimini colmo di mele: «Forse stavolta non voleva attaccarci, dopotutto è stata avvistata solo una delle sue navi. Abbiamo sbagliato a fare la prima mossa»
«Sciocchezze, donna»
«Chi è Shaytan?» domandò Dhalia, interrompendo il mercante.
«Una donna terribile. Un’ammiraglia a capo di una flotta molto potente, che raccoglie sotto di sé quasi tutti i pirati dei sette mari. Uomini senza legge che le hanno giurato fedeltà e rispondono a lei» rispose il mercante, atono.
La fruttivendola si sporse per osservare la ragazza: «Ora ha fondato un regno suo nei mari del sud, di fatto è da qualche anno che ha smesso di attaccarci»
Dhalia sollevò un sopracciglio. «Una pirata che fonda un regno proprio?»
«Sì, è davvero una barzelletta, maledizione!» sbraitò il mercante. «Dovrebbero sbatterla in cella e buttare la chiave!»
«L’ultima volta è evasa» gli ricordò la donna.
«Allora dovrebbero giustiziarla!»
«Prima dovrebbero prenderla»
«Arrgh!» sbottò esasperato, e girò i tacchi per andarsene.

Dhalia lo osservò allontanarsi dalla folla, poi tornò a guardare la nave di Aktia deturpata, mentre gettava l’ancora. “Provateci di nuovo”. La ragazza rilesse quelle tre parole ancora e ancora, mentre nella sua mente fantasticava sulla battaglia navale e più lontano, pensando al regno fondato da una donna del genere. Che vissuto poteva avere una donna così? Di quanto potere disponeva se quasi tutti i pirati al mondo le avevano giurato fedeltà? Dhalia non riusciva ad immaginarsela, ma senz’altro si ritrovava incuriosita da questa figura che portava il cupo e crudele nome di Shaytan.
Aveva fondato un regno dal niente. C’era riuscita lei, una pirata.
Nella mente di Dhalia balenò una nuova idea, un nuovo obbiettivo, stavolta più complesso. Lei era una Musta’sim, seppur la figlia bastarda del re, era l’ultima erede: Dunya era stata presa dai maghi, probabilmente morta, Brahim era stato fatto schiavo. Lei era ancora libera ed era la discendente di una dinastia sovrana, poteva fare qualcosa. Poteva rifondare Musta’sim.
“Provateci di nuovo”, diceva Shaytan. Dhalia ci avrebbe provato e decise che, per rifondare un regno da capo, avrebbe chiesto aiuto proprio al Diavolo dei Sette Mari. 


 

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Capitolo 2
*** -1 ***


-1
 


Da lontano, l’arcipelago Toru appariva come un’immensa bocca dotata di denti scuri e seghettati. Nella circonferenza degli scogli, l’acqua che tutt’intorno era di un limpido blu assumeva un colore molto più tetro, che non prometteva assolutamente nulla di buono. Fortunatamente, la nave non ci passò in mezzo ma aggirò le isole dall’esterno per raggiungere il porto di quella che doveva essere la capitale.
Il molo brulicava di vita e, sorprendentemente, non emanava il puzzo nauseabondo di pesce che aleggiava su Aktia; piuttosto dominavano gli odori di alghe essiccate e salsedine, solo in minima parte del pescato.
Dhalia balzò giù dalla passerella e salutò il capitano del mercantile con cui era arrivata. Raggiungere Toru era stato più difficile del previsto: era dovuta arrivare a Balbadd per salire su un mercantile di Sindria che, dopo quella meta nel regno dei Saluja, avrebbe fatto rotta a Toru e infine sarebbe tornata a casa. Il regno di Aktia non aveva alcuna intenzione di intraprendere una rotta commerciale con Toru.
La giovane non sapeva se Shaytan era lì o in chissà quale altro angolo del mondo, ma l’avrebbe aspettata se necessario: la questione era troppo importante. Sentiva dentro di sé l’urgenza di rifondare Musta’sim, non aveva intenzione di perdere tempo.

«Scusi…» cominciò, cauta, rivolgendosi ad un pescatore. «Dove posso trovare Shaytan?».

L’uomo si voltò a guardarla. Dhalia si era già accorta dell’etnia dei nativi: erano scuri, le pelli abbronzate dal sole e gli occhi chiari che risaltavano come gemme preziose sul velluto nero. Indossavano abiti larghi e leggeri, dalle mille sfumature di colore, e piume tra i capelli, incastrati nei lacci delle collane o ai bracciali di legno. Tutti erano scalzi e tutti avevano tatuaggi sparsi sul corpo di piccole dimensioni ma così vicini da sembrare macchie informi; sul viso ne avevano, invece, solo uno.
Quel pescatore aveva il disegno stilizzato di un pesce tatuato sullo zigomo sinistro.

«Shaytan?» ripeté, poi si carezzò la mascella e si guardò attorno. Dhalia seguì gli spostamenti del suo sguardo, che si interruppero quando carezzò un’imponente veliero con gli occhi. Dalla forma allungata ed elegante, sembrava scivolare sulle onde come un serpente nero. Se ne stava ormeggiata distante rispetto ai mercantili e al di sotto, sulla banchina, una manciata di marinai si davano da fare per pulirla e scaricarla dai suoi averi. Le rifiniture in oro luccicavano alla luce del sole, formando intrecci tribali e i connotati di volti demoniaci.

«Sei fortunata, forestiera» la riscosse il pescatore con un sorriso affabile, l’accento esotico distorceva il suono delle sillabe. «Lei è qui, ad Avaiki»
«Dove posso trovarla?»
«Con ogni probabilità, lassù» e, voltandosi, le indicò un promontorio roccioso che svettava imponente sopra gli edifici della città, e vi sorgeva, altero e incontrastato, un palazzo color alabastro. «Basta andare sempre dritta. Buona fortuna con lei»
«Grazie… almeno credo», sgrullò la testa e seguì la direzione indicata.

La città si aprì davanti a lei non appena superò un’imponente arcata di marmo niveo. Le vie erano strette e scoscese, si arrampicavano sul terreno irregolare presentandosi come scie di ciottoli bianchi e lisci come pietre di fiume. Le case erano ammassate l’una sull’altra, a pianta quadrata, ma non avevano mai più di due piani. Molte di esse avevano i tetti piatti, altri a cupola, e tutte avevano dei porticati dalla staccionata colorata e tende di seta a garantire privatezza.
Le persone conversavano in un idioma sconosciuto, che solo per alcuni suoni somigliava alla lingua comune, ed erano vestite di ogni sfumatura di colore. L’aria era pervasa dall’odore di foglie, sabbia, spezie e stoffe.
La sua avanzata verso il promontorio, sotto i raggi del sole cocente, si rivelò più ardua di quanto avesse immaginato. Inoltre, anche a causa del viaggio in nave, cominciava ad emanare l’acre odore del sudore e della sporcizia.
Con un gesto di stizza si asciugò la fronte con l’avambraccio e poi s’annusò il colletto della camicia sdrucita che indossava da ormai diverse settimane. Ma non aveva scelta. Non poteva farsi un bagno, si sarebbe presentata a Shaytan in quel modo – suo malgrado.
Alle pendici del promontorio, la città diminuì la sua densità lasciando spazio a veri e propri villini collegati alla strada principale da vie di ciottoli pallidi. Di fronte a lei, il palazzo reale si ergeva maestoso e alle sue spalle la vetta aguzza dell’isola, somigliante a un dente di squalo.
Quando riuscì ad arrivare ai cancelli il sole era ancora alto nel cielo.
Una delle guardie la scortò all’interno e subito alcuni servitori l’accolsero. Una di loro storse il naso all’odore emanato da Dhalia, ma non si pronunciò.
C’era una breve coda di persone fuori le porte della sala del trono: qualcuno era di bassa estrazione sociale, qualcun altro sembrava un erudito. Dhalia li osservava con curiosità, cercando di carpire, dai loro atteggiamenti prima di entrare, cosa avrebbe dovuto pensare di Shaytan, e si rese conto che era lei l’unica persona agitata. I nativi risultavano tranquilli e solo vagamente ansiosi, di certo lo erano perché si sarebbero trovati al cospetto della regina. La fila scorreva rapidamente, venivano congedati quasi subito, tanto che non dovette aspettare molto prima che toccasse a lei.
Oltre i battenti, la sala del trono si apriva in una mastodontica navata. Ai lati, le colonne di marmo liscio lasciavano vedere i corridoi laterali tappezzati d’arazzi e dipinti o finestre imponenti che si affacciavano sulla città al di sotto. Al centro della sala c’era una piccola vasca d’acqua e oltre, in fondo, una scalinata che conduceva ad un ampio seggio dalla forma ovale, rivestito di morbidi cuscini colorati, costruito in oro e legno d’ebano. Ma, in tutto quello sfoggio di sfarzo e opulenza, svettava lei.

Era come una macchia d’inchiostro nero su un foglio bianco. Shaytan era una bellezza esotica, una perla nera; dalla carnagione olivastra e abbronzata dal sole del sud, i capelli lisci e lucenti del colore delle piume di corvo. C’era una dualità in lei. Era regale e selvaggia come una pantera. E altrettanto pericolosa.
Eretta al suo fianco, una donna dalla pelle scura come la sua ma la capigliatura albina, intrecciata a perline colorate e tagliata fin sotto le orecchie. Emanava eleganza e saggezza. Dhalia conosceva le donne come lei, dedusse che proveniva da Heliohapt. Ma Shaytan… non riusciva a capire da dove provenisse, sembrava appartenere al popolo dei Toran.
Avvicinandosi, si accorse che alla sovrana mancava l’occhio sinistro e la menomazione era coperta da una benda di metallo nero.

«Benvenuta» cominciò la donna di Heliohapt. «Deduco che tu sia una forestiera. Ebbene, ti trovi al cospetto di Jasmine Raja, regina e protettrice del regno di Toru, Shaytan il Diavolo dei Sette Mari, unificatrice dei pirati. Tu chi sei?»
Jasmine Raja. «Mi chiamo Dhalia»
«Che cosa desideri?».

La donna di Heliohapt aveva una bella voce, limpida e sicura di sé.
Dhalia, però, non riusciva a distogliere lo sguardo da Shaytan, dalla sua figura selvaggia e maestosa, dal suo unico occhio dall’iride color magenta. Era in attesa, quieta, e ricambiava lo sguardo come un predatore prima dell’attacco mortale. C’era qualcosa nel suo sguardo che la terrorizzava fino alle ossa e la attraeva pericolosamente.

«Che cos’è che desideri?» stavolta a ripetere la domanda fu lei, Shaytan. La sua, di voce, era graffiante e severa; la voce di chi era abituata a dare ordini e a vederli eseguiti.
«I-io…» si rese conto di star balbettando e si schiarì la voce. Chiuse gli occhi, facendo un profondo respiro e cercando di ritrovare la sicurezza in sé. Quando li riaprì, le due donne la guardavano con distaccata curiosità. «Io sono l’ultima erede di Musta’sim».
Un lungo silenzio regnò nella sala del trono. Poi uno sbuffo di sdegno: «Vedo invasati come te quasi ogni giorno. Ad ognuno di loro chiedo una prova concreta della loro discendenza e, indovina, si rivelano tutti ciarlatani»
«Permettimi di lavarmi i capelli! Sono solamente tinti!»
«Se desideravi un bagno potevi chiedermelo senza tirare in ballo Musta’sim» replicò sfottò, provocando un lieve sorriso sul volto della donna di Heliohapt.

«Devi ascoltarmi. Mio padre era Suleyman Musta’sim, mia sorella si chiamava Dunya ed era la legittima erede al trono. Io non sono una figlia legittima. La notte che i maghi assediarono il palazzo, io e mio fratello gemello fummo portati in salvo. Abbiamo vissuto nascosti per tutta la vita, ma poi la nostra salvatrice morì e mio fratello, per cercare cibo fuori, venne rapito dagli schiavisti attratti dai capelli azzurri. Io mi tinsi i capelli e, accecata dal desiderio di vendetta, entrai a Magnostadt per distruggerla dall’interno»
Jasmine non si scompose. «Ed ora sei qui per quale motivo? Se mi chiederai aiuto per assediare Magnostadt, ti farò arrestare. Misura bene le tue parole»
«No, i miei intenti sono cambiati. Non ho intenzione di spargere sangue innocente commettendo i loro errori. Scappai ad Aktia e lì, dopo diversi mesi, venni a conoscenza della tua esistenza. Chiedo il tuo aiuto per rifondare Musta’sim»
«Chi mi garantisce che tu sia veramente figlia di Suleyman?» indagò.
«Mia regina, i miei capelli sono azzurri. Questo colore cupo è frutto di pigmenti, ma potete lavarli via. Inoltre, a tutti gli individui altolocati di Musta’sim viene fatto dono di una perla rossa. È una rarità che si trovava esclusivamente nel mio regno».

Shaytan non rispose, e Dhalia frugò sotto il colletto della camicia per estrarre la collana che portava celata. Il ciondolo era una placca d’oro su cui era incastonata una perla di un colore rosso brillante. A quella vista, gli occhi smeraldini della donna di Heliohapt si spalancarono stupefatti mentre Jasmine assunse un’espressione meditabonda.

Dhalia si lasciò andare ad un piccolo sorriso trionfante. «Ora mi credi, mia regina?»
«Sì» replicò, senza indugio. «Ma laverai i capelli per ulteriore conferma. Quelle perle sono talmente rare che neppure io sono mai riuscita a trovarle, nemmeno i migliori contrabbandieri le posseggono. Perciò ti credo, Dhalia di Musta’sim. E dunque da me vorresti aiuto nel rifondare un regno morto»
«Sì, mia regina»
«Hai già chiesto ad altri regnanti?»
«No» e dopo una pausa aggiunse: «Dubito mi aiuterebbero»
«Fai bene a dubitarlo» replicò, sollevando il mento sottile. «Musta’sim si macchiò di crimini terribili contro i maghi. Dunque cosa ti fa pensare che io, che sono stata schiava a mia volta, ti aiuterò a rifondare un regno basato sull’oppressione di ogni diritto umano?»
Dhalia sollevò gli occhi, incontrando lo sguardo severo della sovrana. «Mia regina, la nuova Musta’sim non avrà quelle leggi antiche e crudeli»
«Questo è certo, altrimenti non ti fornirò alcun tipo di aiuto». Sul viso le si aprì un sorriso cospiratorio: «Una città-stato, indipendente. Sono certa che sono molti i rifugiati di Musta’sim che come te tingono i capelli. Torneranno ad avere una casa». Si alzò in piedi, facendo frusciare il mantello nero alle sue spalle.
«Quindi mi aiuterai?» Dhalia sollevò gli occhi verso di lei, vedendola scendere dalle scale con il passo lento tipico dei felini.
Jasmine Raja le porse la mano, facendo tintinnare bracciali ed anelli: «Direi che abbiamo un accordo io e te, Dhalia di Musta’sim».





 

Salve e ben trovati! Il capitolo è ancora ambientato tre anni prima l'arrivo di Aladdin ma dal prossimo comincerà la vicenda "attuale"!
Grazie a chiunque deciderà di dare una possibilità alla storia ♥

 

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Capitolo 3
*** 0. Before the twilight ***


0. Before the twilight 

 
 
Tre anni dopo l’avvento di Aladdin…

 
 
«Cancelliere Mogamett! Cancelliere!».

Il vecchio mago sembrava non aver pace, quel giorno. Aveva tenuto una conferenza con le matricole, quella mattina, dopodiché il consiglio docenti per le nuove politiche di Magnostadt, che era durato più del previsto e si era concluso solo al crepuscolo. Aveva mangiato la sua cena sobria, bevuto del vino scadente proveniente da Qishan, e ora – finalmente – poteva accomodarsi sulla sua poltrona, di fronte al camino e con un buon libro con cui rilassarsi prima di andare a dormire.
Avrebbe potuto, e per un attimo aveva gustato la pace. Ma poi la voce di quel giovane professore, da poco unitosi al corpo docenti di Magnostadt, lo aveva strappato al suo momento di quiete.

«Maledizione, che cosa c’è ancora?!» sbottò, alzandosi con un brusco scatto per raggiungere la porta delle sue stanze.

Gli occhi del mago di fronte a lui tendevano al color rubino, rossi come il sangue, eppure non avevano assolutamente nulla di maligno. «Cancelliere, da Aktia sono giunte notizie ben poco rassicuranti»

«Aktia è un regno di goi inetti e perditempo, dediti all’illegalità e all’alcool» replicò, aspro. «Non ho alcun interesse nelle notizie che giungono da lì e non ti permettere più di disturbarmi a quest’ora e in questo modo allarmista» aggiunse poi, con una nota furente nella voce.

Il giovane scosse la testa, smuovendo ciocche di capelli neri come inchiostro. «Signore, mi ascolti: pare che nella striscia di terra che ci divide da Aktia stia sorgendo un cantiere. Stanno costruendo una città»

Matal Mogamett aggrottò le sopracciglia, avvicinandole al punto da sembrare unite al centro della fronte. «Voglio sapere chi, perché e se può fare una cosa del genere»

«Tecnicamente sì, lo possono fare» il mago estrasse una pergamena dalla tasca della toga nera, e la srotolò rivelando un atlante. Con la punta del dito, gli indicò la zona interessata. «Vede, questo territorio non appartiene a nessuno, è neutrale. Adesso è il Regno di Toru che lo sta invadendo, rivendicando, e ci st costruendo una città»
Il cancelliere restò in silenz
io per una manciata di secondi, cercando di capire le dinamiche e i motivi. «Per quale motivo Shaytan ha deciso di appropriarsi di una porzione di terra e fondarci una città così lontana dal nucleo del suo regno…?» domandò, più a sé stesso che al mago di fronte a lui. «Quelli come lei, come Sinbad e come Kouen, sono in corsa per il titolo di Rex Mundi ed è chiaro che hanno mire espansionistiche. Ma perché così lontano dal suo nucleo?»

«Ha stretto un patto, signore. La città non farà parte del suo regno» tentennò, arrotolando la mappa e rimettendola al suo posto nella tasca, con una calcolata lentezza. Stava prendendo tempo per cercare le parole adatte, non sapeva come dirglielo, e Mogamett attendeva con pazienza. Infine, il professore emise un sospiro. «Shaytan ha stretto un patto con l’ultima erede di Musta’sim. Sta rifondando la città».

L’espressione del cancelliere di Magnostadt mutò. Nei suoi occhi si potevano rivedere i ricordi di gioventù, segnati da sfruttamento, schiavitù, guerra e il nefasto evento della morte della sua unica figlia. Era riuscito a smantellare Musta’sim mattone dopo mattone, aveva dato fuoco alle sue case, ucciso e depredato la sua gente; poi era arrivato al cuore, assaltando il palazzo e trucidando la famiglia reale. Era sicuro di aver estirpato il seme di quella progenie maligna, i goi popolani che sopravvissero vennero rinchiusi, fatti schiavi, e ora vivevano nella miseria nel Quinto Livello di Magnostadt, servendo i maghi che avevano tanto disprezzato. Era sicuro di aver eliminato per sempre la minaccia di Musta’sim, eppure… ora sbucava questa miserabile erede che, alleatasi con la peggior canaglia in circolazione, rifondava la città che tanto si era impegnato a distruggere.
Matal Mogamett sentì di aver fallito. Un fallimento a lungo termine. Nel suo cuore si affollarono paura, sensi di colpa, rabbia, frustrazione. Non avrebbe permesso a Musta’sim di tornare a vivere, non dopo tutti i suoi sforzi per eliminarla e non dopo tutti i crimini commessi.

«Zakir» mormorò, come privo di forze. «Dobbiamo fermare questa follia ad ogni costo, con qualunque mezzo. Ma ci servono alleati e non ho alcuna intenzione di allearmi con dei goi»

«Cancelliere, mi permetta: non è necessario allearsi con i semplici umani. Si fidi di me» Zakir esibì un sorriso ampio, ma impossibile da decifrare. «Se non ha paura del prezzo da pagare ed è disposto ad utilizzare qualsiasi mezzo, ho la soluzione per lei e vedrà che ne usciremo vincitori».
 
 
• • • •

 
 
Le mancò il fiato, non riuscì a respirare. Come se una mano le stringesse la trachea in una morsa d’acciaio. Cominciò a dimenarsi, cercò di far entrare l’aria nei polmoni in qualsiasi modo, mentre brividi gelidi le percorrevano la schiena e rivoli di sudore caldo le rotolavano dalla fronte arrossata dallo sforzo. La vista si appannò, i rumori si fecero ovattati, capì che stava perdendo i sensi e non ebbe più la forza di affaticarsi.
Invece si svegliò, di colpo, emettendo un grido strozzato che morì in gola. Il cuore le martellava contro lo sterno, rimbombava nella cassa toracica così forte da invaderle persino le orecchie. I polmoni protestavano per avere aria, i respiri veloci e ansimanti non bastavano più.

La donna chiuse gli occhi, ispirando ed espirando più di una volta nel tentativo di placare il battito cardiaco. Quando li riaprì, si sciugò la fronte imperlata di sudore col dorso della mano e, con dita tremanti, cercò a tastoni la scatola di fiammiferi per accendere la lanterna. Questa si illuminò di una tenue luce aranciata, che lentamente permise di vedere anche l’ambiente circostante: una carovana, che un tempo trasportava cavalli, dalle pareti in legno incise con simboli e sigilli, arredata miseramente ma colma di cianfrusaglie e piante.

Si alzò lentamente per poi riaccomodarsi su uno sgabello di legno, di fronte ad un piccolo tavolo squadrato, e si prese la testa tra le mani.
Aveva avuto un sogno spaventoso, premonitore. Sembrava quasi una profezia visiva, espressa attraverso immagini. Si erano alternati una serie di scenari, tesi e apocalittici. Gruppi di uomini e donne che correvano nel deserto, morti violente, belve feroci accecate da furia omicida, le gallerie di una cripta e un occhio enorme che si apriva sul mondo, lo osservava con invadenza. Era tutto così confuso e spaventoso, non aveva idea di cosa significasse tutto ciò. Non riusciva a pensare.

Aveva un’unica frase in mente, l’unica che era riuscita a formulare e che impediva il passaggio di qualsiasi altro pensiero.
 Il mondo come lo conosciamo noi sta tramontando. È il crepuscolo di una notte buia.



 

Eccomi qua, dopo un mese, a scrivere finalmente il vero prologo di questa fanfiction.
So che è breve, so che non c'è granché. Ma non ho intenzione di scrivere capitoli troppo lunghi o troppo complessi, in fondo è una fanfiction e la uso soprattutto per non restare immobile con la scrittura. È un periodo in cui non scrivo affatto e anche solo queste poche righe mi aiutano a non fermarmi o a riprendere la mano. Ho storie più impegnative a cui pensare e questa è una sorta di esercizio.

Comunque ci tengo lo stesso, la sto partorendo con dolore (cit.).
Fatemi sapere che ve ne pare, non siate timidi ♥ 

Alla prossima~

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Capitolo 4
*** 1° 𝘯𝘪𝘨𝘩𝘵 - Vertexes ***


۞ act  ɪ  ━  DUST AND DAGGERS ۞



 




1ST NIGHT
Vertexes


 
«Sono un po’ nervosa» confessò Dhalia, torturandosi le dita in gesti nervosi. Una folata di vento dal forte odore di salsedine le scompigliò i capelli azzurri, ormai liberi dai pigmenti scuri usati per camuffarla. La perla rosso cremisi, se un tempo era celata sotto le vesti cenciose, ora veniva sfoggiata con orgoglio sottoforma di gioiello che pendeva sulla fronte. 

Nel corso di quei tre anni, da quando aveva avuto un colloquio con Shaytan, era rimasta nell’ombra.  Era stata ospitata nella città di Avaiki, capitale del Regno di Toru, e non aveva fatto nulla di concreto: l’avevano istruita sugli usi e costumi del posto, sulla politica estera, le dinastie degli altri Paesi, intrighi e pettegolezzi da sapere per maggiori informazioni ma non divulgabili.
Aveva imparato che Jasmine era una donna schiva, in tre anni l’aveva vista poco, e le poche cose che aveva imparato a scoprire di lei erano che si stava occupando della burocrazia, per riformare Musta’sim, ed era sempre in viaggio per il medesimo motivo. Al contempo, però, Dhalia non si fidava delle informazioni che Jasmine le faceva arrivare: aveva motivo di credere fossero pilotate. O meglio, che la sovrana le facesse arrivare volutamente solo quelle. Detestava pensar male dell’unica persona che la stava aiutando e non mentiva a sé stessa se si diceva che si stava lasciando – almeno un po’ – condizionare dalle voci che circolavano su Shaytan.

Di recente, però, il mondo era stato scosso da morti violente e inspiegabili che non sol avevano allarmato i leader, ma stavano anche mettendo a repentaglio alcuni aspetti delle varie politiche: il decesso improvviso coglieva chiunque, di qualsiasi estrazione sociale, e la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era la morte di un cittadino di Heliohapt, un politico difensore dello schiavismo e schiavista egli stesso. Dhalia non sapeva altro, sapeva solo che era stata organizzata una riunione straordinaria per risolvere la questione e Jasmine aveva insistito affinché partecipasse anche lei in quanto futura sovrana della Nuova Musta’sim.

«Perché mai?» domandò Isla, la consigliera di Shaytan, con un sorriso cortese.
Dhalia aveva trovato in lei una sorella maggiore, oltre che un’insegnante. Isla veniva da Heliohapt, la sua era una famiglia di architetti che lavorava per la casa reale e lei avrebbe dovuto seguire le loro stesse orme; nessuno avrebbe previsto l’arrivo di Jasmine in quella terra desertica e la forte influenza che ebbe su Isla, la quale decise di unirsi a lei e al gruppo che la donna si portava dietro.

«Perché sono tutti governanti, sono i leader mondiali. E io non sono nessuno, ho solo un progetto che sicuramente nessuno approverà»
«E che importanza ha? Tu hai l’approvazione di Jasmine, sei sotto la sua tutela, perciò non deve interessarti quella altrui»

«Non ti preoccupare» s’intromise la voce ariosa di Zassan Fanalis, generale delle guardie reali. «È incredibilmente protettiva e territoriale, non permetterà a nessuno di darti contro» ed esibì un ampio sorriso, sfoggiando i canini pronunciati.

Dhalia arrossì e distolse lo sguardo. Zassan era bello, aveva una bellezza arrogante e selvaggia ma solare, e dei modi di fare simpatici, amichevoli; era imponente ed estremamente forte fisicamente, come tutti i Fanalis. Di lui non sapeva nulla, se non che da bambino era un gladiatore al Colosseo di Remano ed era sotto la tutela di Cassius, generale dell’esercito di Toru.
Zassan provocava in lei scariche d’euforia, e nonostante i suoi modi lei si sentiva a disagio lo stesso, in sua presenza.

Per fortuna, a distogliere l’attenzione da lei furono i marinai che annunciarono l’arrivo al porto. Era stato un viaggio breve, dal momento che l’incontro si sarebbe tenuto in uno dei villaggi nell’Arcipelago Toran e Toru si trovava a poche miglia di distanza. Insomma, era bastata mezza giornata di viaggio.
Attraccate al molo, c’erano una sfilza di navi eleganti e regali, divise di tanto in tanto dalle barchette dei pescatori locali.
I marinai lasciarono cadere l’àncora e prepararono la passerella per far scendere i passeggeri. Così, uno ad uno, i membri più vicini a Jasmine scesero: Husayn, direttore del cantiere navale; Samus, generale della guardia cittadina; Cassius, comandante generale dell’esercito; Zassan, generale delle guardie reali; Isla, consigliera e ambasciatrice. Infine lei, Dhalia, l’ospite politica.

«Jas!» il Fanalis richiamò a gran voce la regnante di Toru, avvicinandosi persino agli oblò della stiva. «Ci fai arrivare in ritardo!»
«Non c’è bisogno di sbraitare tanto» brontolò Jasmine, apparendo in cima alla passerella. Si passò una mano sul viso e si strofinò l’unico occhio che le era rimasto.
«Sbrighiamoci, se restiamo in mezzo a tutta questa gente a Samus si scatena l’allergia»
Il diretto interessato sollevò un sopracciglio nero come la pece, senza nascondere uno sguardo di distaccata confusione negli occhi grigio antracite. «A cosa sarei allergico?»
«All’intero spettro delle emozioni umane»
«Ma perché devi metterlo in mezzo…» sospirò Isla alzando gli occhi al cielo.
«Io comincio ad essere allergica a te e se non la smetti ti mando a raccogliere alghe sul fondo delle fosse oceaniche» replicò Jasmine scoccandogli un’occhiata eloquente.
Zassan non si lasciò scalfire e mantenne il suo solito sorriso gioviale. «Non ti sei svegliata bene, eh?»
«Non ho proprio dormito, perciò sono molto suscettibile» lo avvisò con un’occhiata.
«Non mi sorprende. Il male non dorme mai».

Non ci fu bisogno che Jasmine replicasse: Cassius, un uomo ben più massiccio e imponente persino di Zassan, arrivò a trascinare via il molesto Fanalis, lontano dalla portata di Shaytan.
Dhalia vedeva quei siparietti ogni giorno da tre anni, ma ogni volta la facevano sorridere e le alleggerivano l’animo.

Il gruppo cominciò ad addentrarsi nel villaggio Toran, che per l’occasione era stato sgomberato: i popolani erano stati invitati a restare nelle proprie case fin quando l’ultima nave reale non sarebbe salpata per tornare alla propria nazione. Il capo villaggio aveva permesso loro di usufruire della capanna del consiglio degli anziani. Era una casina piccola, in argilla, con il tetto costruito con le grandi foglie tropicali locali.
Dhalia si domandò se c’entrassero tutti, ma quando Jasmine scostò la tenda che fungeva da ingresso e rivelò l’ambiente, l’erede di Musta’sim si tranquillizzò: all’interno v’erano solo i regnanti, senza consiglieri e guardie reali, e i magi. Non c’era molto spazio, ma non si stava neanche troppo stretti.
La ragazza scorse l’occhiata che si scambiarono Jasmine e Zassan, seria e complice, e non dubitò neanche per un istante che il Fanalis, al minimo segno di inquietudine di lei, sarebbe corso in soccorso. C’era una complicità e un’intesa profonda tra i due, Isla le aveva detto più volte che lui era l’unica persona a cui Jasmine avrebbe affidato la sua vita. Questo fece cadere un macigno sullo stomaco di Dhalia, schiacciandolo in una morsa simile al fastidio della gelosia.

«Benvenute. Ora possiamo cominciare» le salutò Kouen Ren, con quel suo cipiglio distaccato.

Dhalia distolse lo sguardo da Jasmine per posarlo sul gruppo radunato intorno al tavolo di legno.
Alcuni la guardavano con curiosità, altri non la degnavano neppure di uno sguardo. Non aveva idea di come affrontare i leader mondiali, e decise che sarebbe semplicemente rimasta in silenzio. Aveva studiato quelle persone solo su libri e pergamene, ora aveva la possibilità di vederli in carne ed ossa, osservare le loro espressioni e gesti, il modo di parlare e rapportarsi con gli altri.

A Jasmine, dal canto suo, quell’incontro divertiva. Li osservava esibire tutta la loro ipocrisia e, con una parola di troppo, avrebbe potuto vedere la loro maschera di falsità cadere e distruggersi in mille pezzi. C’era un equilibrio precario in quei convegni: il suo smanioso lato distruttivo desiderava guardarli azzannarsi come cani rabbiosi, e il fatto che molti di loro si trovavano alleati sotto il nome dell’Alleanza dei Sette Mari non aveva significato, erano sempre pronti a pugnalarsi alle spalle a vicenda ma fingevano lealtà.
E le veniva da sorridere a vederli così impettiti nei loro migliori abiti nazionali, come se avessero incuso timore solo dalle stoffe preziose che indossavano. Lei, per quanto dicessero che era subdola, non aveva mai peccato di superbia o ipocrisia, si era sempre mostrata per quello che era: una pirata, una signora della guerra, che non era ancora ufficialmente regina del suo arcipelago.

«Come tutti ben sapete» cominciò Kouen, accomodandosi a capo tavola «le nazioni sono scosse da morti violente di persone casuali, di qualsiasi estrazione sociale»
«Ad Artemyra neppure una, al momento» intervenne Mira Dianus Artemina. «Qual è la dinamica di queste morti?»
«Incubi, presumo» rispose Sinbad, incrociando le braccia al petto. «Le persone vanno a dormire e non sanno se si risveglieranno. Muoiono nel sonno»
«Allora come si può parlare di morti violente?!»
«Perché» Kouen riprese parola, austero «il modo in cui muoiono nel sonno è violento. A Rakushou un fabbro si è cavato gli occhi con le tenaglie, mentre dormiva»
«Temo che ci sia poco da fare, se questa è la situazione. Non possiamo prevenire una cosa del genere» meditò Titus, carezzandosi il viso glabro.

Il principe di Kou intrecciò le mani sopra il tavolo. «Innanzitutto dobbiamo capirne l’origine, poi lo schema. Non può essere tutto casuale»
«A tal proposito» intervenne Sinbad, di nuovo «ho trovato qualcosa di interessante». Gli occhi dei presenti si spostarono su di lui, e il re di Sindria estrasse un cofanetto dalla fattura semplice. Con gesti calcolati lo aprì, rivelando un materiale sottile su cui era disegnato un occhio in inchiostro nero.
Jasmine sollevò un sopracciglio. «Cos’è?»
«La porzione di pelle, dietro l’orecchio, di un mercante di stoffe morto a Sindria»
Lei gli scoccò un’occhiata di sottecchi, venata di ironia. «Ti sei messo a deturpare cadaveri, ora?»
«Quello è il simbolo di al-Thamen» osservò Dhalia, sottovoce. Eppure Armakan Amun-Ra la sentì: «Ovviamente. Fin qui c’eravamo arrivati tutti, persino Shaytan»
L’erede di Musta’sim scoccò un’occhiata allarmata alla diretta interessata, ma Jasmine non fece una grinza ed ignorò categoricamente il sovrano di Heliohapt. «Perché al-Thamen uccide e si firma?»
Sinbad alzò le spalle. «Questo dobbiamo scoprirlo» e non poté far a meno di scoccare un’occhiata obliqua a Judal, eretto di fianco a Kouen. Il magi oscuro si limitò a scoccare la lingua sul palato, ma non si permise d’aggiungere altro, comprendendo la sua posizione svantaggiosa. Anche il principe di Kou restò in silenzio per il medesimo motivo.
L’impero era un alleato di al-Thamen, sfruttava la loro magia per la propria politica ed economia, dunque entrambi sapevano che gli altri leader covavano già, in loro, dubbi e teorie circa il coinvolgimento di Kou in quella nefasta situazione.

«Comunque» ricominciò Armakan «questo giochetto è costato la vita di uno schiavista influente di Heliohapt, un fervente protettore della schiavitù nel mio regno. È morto, e i suoi schiavi sono fuggiti nel deserto. Dobbiamo assolutamente recuperarli»
Jasmine emise uno sbuffo divertito. «Dobbiamo?»
«Sì, Shaytan: dobbiamo. E prima che tu possa illuminarmi su quanto sia uno spreco di tempo ed energie cercare schiavi che nel deserto moriranno in pochi giorni, c’è una cosa che devi sapere, visto che ti interessa tanto» le labbra di Armakan si curvarono in un sorriso machiavellico. «Quelli non sono schiavi qualsiasi. Ci sono giovani delle etnie più rare e singolari, ti ricorda qualcosa?».

Jasmine non raccolse l’allusione al suo passato, quando era stata scambiata per una piccola Toran e aveva fatto la fine di quegli schiavi. Armakan continuò: «Al contrario di te e del tuo aguzzino, il mio schiavista non faceva combattere i propri acquisti. Li teneva con sé, li collezionava come bambole di porcellana. Li accudiva con amore e loro, in cambio, dovevano vestirsi e comportarsi come desiderava lui»
Dhalia lanciò uno sguardo confuso alla governante di Toru, la quale non lasciava trasparire alcuna emozione dall’unico occhio che le restava. «La sorte di questi poveracci dovrebbe interessarmi solo per questo?»
«Assolutamente no. Di fatto potrebbe interessare anche quella rarità che ti porti appresso come un cagnolino» e indicò Dhalia con un cenno del mento. «Tra quegli schiavi, c’è un giovane dai capelli azzurri e un pendente in perla rosso cremisi»

«Brahim!» l’erede di Musta’sim scattò in piedi, colta da un impeto. Il cuore le martellava nel petto, rendendola sorda all’ambiente. Brahim era vivo, il suo gemello. In quegli ultimi tre anni aveva tentato di scoprire se qualcuno, tra i mercanti di schiavi di passaggio, lo avesse visto; ma nessuno sapeva risponderle e ora capiva perché. Era stato tenuto segregato in una casa, costretto a vestirsi da bambola e a fare chissà che altro per quel viscido schiavista. Un impeto di rabbia la colse, nei confronti di Armakan che permetteva tutto ciò. «È colpa tua! È solo colpa tua se Brahim è stato fatto schiavo! Tu hai permesso tutto questo!» cieca di rabbia, si scagliò contro il faraone senza ben sapere cosa fare di lui.
Fortunatamente, prima che lo raggiungesse, la mano di Sinbad l’afferrò per un braccio e la tirò indietro. Subito Dhalia venne raggiunta da Aladdin, che con parole tranquillizzanti e carezze sulla testa riuscì a calmare la sua rabbia, facendola sfociare nel pianto. Judal, dal fondo della stanza, scoppiò in una breve risatina di scherno, subito messa a tacere da Kouen.
Nella sala calò il silenzio, interrotto solo dai singhiozzi della ragazza che, subito dopo essersi accorta che era l’unica ad emettere rumori in quel momento, decise di uscire accompagnata da Aladdin.

I leader restarono in silenzio ancora una manciata di minuti, poi Armakan emise un sonoro schiocco sulla lingua. «Infantile»
«Dunque vuoi un aiuto per recuperare quegli schiavi, perché?» lo incalzò Jasmine, impassibile.
«Perché ne vale l’economia di Heliohapt».

Lei restò in silenzio per un istante. In altri momenti si sarebbe rifiutata di aiutare un regno che favoreggiava la schiavitù, eppure c’era di mezzo il fratello di Dhalia, l’altro erede di Musta’sim. Non poteva far finta di niente. «D’accordo» decise, infine. «Invierò alcuni dei miei uomini per organizzare squadre di ricerca che aiutino le tue. Troverò il ragazzo di Musta’sim e poi ti abbandonerò ai tuoi affari»
Judal bisbigliò qualcosa all’orecchio di Kouen, che prese parola: «Anche Kou invierà alcune squadre, le supervisionerò io personalmente»
«Ottimo!» Armakan si alzò, tenendo le mani piantate sul tavolo. «Vi aspetto il prima possibile, allora. E, Shaytan» la guardò, compiaciuto «solo per stavolta, revocherò tutte le taglie che hai sulla testa nel mio regno. Non farmene pentire»
Jasmine sollevò un angolo delle labbra. «Una minaccia velata davvero mal riuscita. Ma non ti preoccupare, Armakan, mi impegnerò. D’altronde, come sai, la rifondazione della Nuova Musta’sim e i suoi eredi sono sotto la mia tutela, e sai quanto so essere protettiva»
«Jasmine ha dato la sua parola» intervenne Kouen «non c’è motivo di dubitarne, la conosciamo abbastanza da sapere che la manterrà. Non serve continuare a punzecchiarla» aggiunse con una nota di rimprovero, verso Armakan.
«Comunque, la questione dei schiavi è risolta» s’intromise Sinbad, conciliante. «Ora dobbiamo occuparci di come sistemare la faccenda delle morti»
«Magnostadt? Potrebbe aiutarci?» domandò Mira.
Il re di Sindria storse il naso: «Credo che Matal Mogamett sia troppo ostile verso i goi per aiutarci»
Yunan, per la prima volta dall’inizio della conferenza, si fece avanti. «Conosco qualcuno che se ne sta occupando.  A Cathargo c’è un’incantatrice, una mia vecchia conoscenza, da sempre tormentata da visioni del futuro. Lei sogna e vede ciò che sarà»
«Pandora» commentò Jasmine, quieta.
«Sì. Pandora ha visto tempo fa ciò che sta succedendo adesso, e altre cose che avverranno nell’immediato futuro o che stanno avvenendo già da ora, ma la questione delle morti nel sonno l’ha turbata e sta indagando sulle persone che ne sono state vittime»
«Ha scoperto qualcosa?» domandò Kouen.
«Lei crede che solo chi evita il sonno per diversi giorni, non dorme bene, e poi si corica con preoccupazioni, non appena cade in un sonno profondo viene colpito da questa sorta di maleficio. Inoltre, interrogando amici e parenti delle vittime, ha scoperto che sognavano cose spaventose già da un po’, qualcosa legato alle loro paure. Per questo evitavano di dormire, poi chiaramente sono crollati»
Sinbad aggrottò le sopracciglia. «Quindi la soluzione è non lasciarsi spaventare e dormire»
«Così pare. Sta cercando anche lei una soluzione, nel suo piccolo. Secondo lei, al-Thamen sta facendo tutto ciò per accumulare rukh oscuro. Pandora è speciale, ha il Dono di Ill-Ilah, non è una semplice incantatrice. Mi fido molto di lei, è un’alleata utile»
«È una sorta di oracolo, una mistica» riassunse Jasmine alzando le spalle. «Io l’ascolterei, fossi in voi».





 

Salve e ben trovati! Cominciamo ad addentrarci nel vivo della storia, finalmente. So che questo capitolo è quasi interamente composto da dialoghi, ma non ho trovato il modo di evitarlo visto che si tratta di una riunione.
Btw, spero vi stia intrigando e vi stia piacendo; se sì, vi invito a non fare i timidi e lasciarmi un parere qui sotto ♥ Fa bene a me, per avere feedback e sapere se sto facendo o meno una schifezza colossale, e magari fa bene a voi, se avete domande e volete farmele u.u

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Alla prossima! ♥

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