Sotto un cielo di fuoco

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo (I) – Attese ***
Capitolo 2: *** Prologo (II) – Attese ***
Capitolo 3: *** I: Quelle notti nere - di polvere e spari – Capitolo 1 ***
Capitolo 4: *** I: Quelle notti nere - di polvere e spari – Capitolo 2 ***
Capitolo 5: *** I: Quelle notti nere - di polvere e spari – Capitolo 3 ***
Capitolo 6: *** II: Grandi speranze – Capitolo 1 ***
Capitolo 7: *** II: Grandi speranze – Capitolo 2 ***
Capitolo 8: *** II: Grandi speranze – Capitolo 3 ***
Capitolo 9: *** III: Ad occhi chiusi – Capitolo 1 ***
Capitolo 10: *** III: Ad occhi chiusi – Capitolo 2 ***
Capitolo 11: *** III: Ad occhi chiusi – Capitolo 3 ***
Capitolo 12: *** Primo Interludio: Ambizioni ***
Capitolo 13: *** IV: Una linea nella sabbia – Capitolo 1 ***
Capitolo 14: *** IV: Una linea nella sabbia – Capitolo 2 ***
Capitolo 15: *** IV: Una linea nella sabbia – Capitolo 3 ***
Capitolo 16: *** V: Ciò che non uccide – Capitolo 1 ***



Capitolo 1
*** Prologo (I) – Attese ***


Sotto un cielo di fuoco
(Reminiscenze di una guerra senza fine)

Prologo

 Attese
(I)
 
 
“E ora che ne sarà
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l’ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
che è una stoltezza dirselo.”

[Prima del viaggio – E. Montale]
 
 


Febbraio 1915
Bar di Madame Christmas, Central City
11:50


 
È una serata stranamente calda, per essere febbraio, tanto che mi pento di aver indossato il gilet. Il via vai è stato poco e il foyer è deserto; seduto al bancone ci sono solo io con un analcolico ormai tiepido in mano. Mia zia sta dietro la cassa e prende fittamente appunti sul libro contabile mentre parlotta rapida al telefono; di tanto in tanto digita qualcosa sulla macchina da scrivere, segnato da uno scampanellio metallico che risuona nella stanza. La sua voce mi giunge indistinta, non mi sforzo di cogliere le sue parole.

Una delle ragazze – Suzan? O Leonore? – è abbandonata sull’ottomana in un angolo e legge intentamente un libretto spiegazzato. Dovrebbe occuparsi del bar, ma non si è fatto vivo nessuno nelle ultime due ore. A intervalli regolari alza gli occhi verso la porta, si assicura che non ci sia nessuno e torna a leggere sollevata. Di tanto in tanto incrocia il mio sguardo e mi sorride appena, ma senza malizia: sa che non sono un cliente. Per il reso, l’unica compagnia è quella del grammofono dietro al bancone che gracchia qualche vellutata aria jazz.

Mi siedo più comodamente sullo sgabello e lancio un’occhiata stremata all’orologio d’argento: è quasi mezzanotte e io sto perdendo la mia poca pazienza. Mi alzo irritato, vado dietro al bancone e aggiungo un paio di cubetti di ghiaccio nel bicchiere, poi lo rabbocco di quello che dovrebbe essere whiskey analcolico: è tra le cose più disgustose che io abbia mai bevuto, ma le direttive del dottor Knox non mi lasciano molta scelta.

Mia zia mi lancia un’occhiata di rimprovero, ma è troppo occupata a parlare al telefono per occuparsi di me. Alzo il bicchiere nella sua direzione in un brindisi ironico, ma tornando al mio posto lascio qualche cenz nel barattolo delle mance.

Continuo a controllare l’orologio sempre più spesso, cominciando ad accusare il sonno. La puntina del grammofono inizia a grattare fastidiosamente in sottofondo sul disco terminato. Alla fine, Suzan – sì, è lei – si alza e solleva il braccio dell’apparecchio. Il silenzio cala nel foyer. Si sente solo mia zia che batte a macchina.

«Sembra che ti abbiano dato buca di nuovo, eh?» commenta infine dopo una buona mezz’ora, spegnendo la cicca nel posacenere e alzandosi dalla sua postazione con pesantezza.

Non rispondo e mi rigiro il bicchiere tra le mani facendo tintinnare il ghiaccio rimasto sul fondo. Lei si avvicina, me lo prende e va a portarlo nel lavello; prima di allontanarsi mi dà un buffetto sulla spalla con fare a metà tra il consolatorio e l’incoraggiante.

«Suzan, va’ a chiudere le camere. Andiamo.»

La ragazza si alza subito, assicura il libriccino nella fascia che le cinge la vita, e sale al piano di sopra prendendo il mazzo di chiavi che le tende mia zia. Sparisce in tutta fretta per le scale. Io scivolo giù dallo sgabello rassettandomi la camicia e vado verso il guardaroba per recuperare la giacca.

«Deluso?» mi chiede a sorpresa mia zia.

Mi metto la giacca sulle spalle, lasciando libere le maniche come al solito.

«Mi aspettavo che non venisse nessuno,» replico, evitando la domanda.

«Bugiardo,» mi rimbrotta lei, severa, e non la contraddico.

So che lo sconforto sul mio volto è evidente. Continua a fissarmi, attendendo una risposta. Sospiro sentendomi messo all’angolo.

«Non è nulla di grave,» comincio nervosamente. «Rende solo tutto più complesso,» concludo in fretta.

La vedo accigliarsi e forse vorrebbe domandare ancora qualcosa, ma stringe le labbra brillanti di rossetto e non lo fa. Suzan torna a passo svelto nel foyer, con uno scalpiccio acuto di tacchi, e ci avviamo insieme all’uscita. Fuori fa molto più freddo di quando sono arrivato, e rabbrividisco infilandomi del tutto la giacca. L’aria gelida mi intirizzisce subito le dita e indosso in tutta fretta anche i guanti – controvoglia, in realtà: mi danno sempre l’impressione di andare in giro armato.

Mia zia chiude a doppia mandata la porta d’ingresso e a tripla mandata la grata antistante ad essa, dà un’ultima occhiata scrupolosa alle persiane e poi s’incammina sul marciapiede con la ragazza sottobraccio. Le seguo a passi svogliati, con le mani affondate nei pantaloni, e mi sento un ragazzino a cui hanno dato un palo al primo appuntamento. Arriviamo all’angolo della strada; mi fermo alla mia macchina e mi offro di riaccompagnarle, ma entrambe rifiutano. Non insisto: so che con mia zia è inutile. E poi, non vedo l’ora di farmi una dormita.

Salgo in macchina, ma non metto subito in moto e rimango a fissare la strada con le mani sul volante. Un brutto palazzo a quattro piani con la facciata di un verdino smorto ricambia il mio sguardo, quasi un riflesso del mio umore. Sento picchiettare sul vetro, mi giro e mi ritrovo a fissare il volto cupo di mia zia. Abbasso a malincuore il finestrino, girando con deliberata lentezza la manovella.

«Sì?»

Lei non dice nulla e mi allunga una chiave a cui è attaccata una targhetta. La prendo titubante e la fisso interrogativamente.

«Visto che l’ultimo rifugio è inagibile,» esordisce lei a bassa voce «potrebbe farti comodo un piano di riserva.»

Leggo la targhetta: è un indirizzo, da qualche parte nelle campagne intorno a Central City. Quindi è riuscita a trovare un’altra casa sicura, dopotutto. Iniziavo a perdere le speranze, ma come al solito zia Chris non mi delude mai. Soppeso la chiave, di vecchia fattura e un po’ arrugginita, poi gliela tendo di nuovo.

«Che me ne faccio di un rifugio senza nessuno da metterci dentro?» sbotto, frustrato.

Mi prenderei a schiaffi da solo, visto che dovrei esserle riconoscente. Chissà quanto ha rischiato per trovare e acquistare la proprietà, e quanto ha speso... sono sempre stato troppo ingrato con zia Chris. Lei ha un moto di stizza, ma quando parla la sua voce è ferrea:

«Non fare il bambino e prendila,» mi respinge la chiave in mano, «Lo sai che ti serve, a prescindere da chi e quanti sarete. Senza una base operativa non andrai da nessuna parte.»

Stringo la chiave nel palmo e la guardo impotente:

«Zia, è un mese che aspetto qualcuno, chiunque... e non si è fatta viva un’anima. A questo punto dovrò riconsiderare i miei piani,» mormoro, ma metto la chiave nel taschino della camicia.

Zia Chris sembra cogliere la gravità della situazione, a dispetto di ciò che ho detto prima. Sta in silenzio per un po’, scrutandomi con i suoi occhi neri e penetranti come opali.

«Aspetta ancora una settimana,» dice infine.

Io sospiro. L’ha detto anche la settimana scorsa. Non glielo faccio notare, lo sa già.

«Non possono essersene dimenticati tutti,» aggiunge.

«Non se ne sono dimenticati,» replico meccanicamente. «È questo il problema.»

A questo neanche lei sa come replicare. Mi lancia un’ultima occhiata e nei suoi occhi scorgo un velo di tristezza che vorrei strapparle via. Ha passato la vita a preoccuparsi per me, e per quanto sia una donna apparentemente superficiale e insensibile ho visto troppo spesso quello sguardo.

«Non sei solo,» dice infine, e so dalla sua voce decisa che non è una frase detta con leggerezza.

Annuisco brevemente, volendo credere a quelle parole, ma la consapevolezza che le uniche altre persone che potrebbero aiutarmi sono irraggiungibili mi demoralizza.

«Domani alla stessa ora,» taglio corto, sentendomi esausto.

Volevo dire tutt’altro, ma non sono mai stato bravo con le parole, almeno non con le persone a cui tengo. Ci auguriamo la buonanotte e metto in moto la macchina. Seguo con lo sguardo Suzan e zia Chris finché non spariscono dietro l’angolo, poi parto e mi dirigo verso casa.

È un’altra lunga notte.

 

 
La mattina mi sveglio con un ingiustificato senso di spossatezza e con un cerchio alla testa. Nonostante tutto, mi forzo ad alzarmi dal letto ignorando il malessere e in poco meno di mezz’ora sono fuori casa, stranamente in anticipo rispetto al solito. Decido di andare a piedi fino al Quartier Generale; magari camminare un po’ migliorerà il mal di testa e mi schiarirà le idee, mi dico con poca convinzione.

Mi incammino a passo abbastanza lento, testando la resistenza della mia ferita. Ho preso gli antidolorifici poco fa, ma è passato un bel po’ dall’ultima volta che ho fatto attività fisica e mi muovo con cautela. Il fianco ancora sensibile si tende fastidiosamente ad ogni mia falcata e dopo appena qualche minuto sono costretto a rallentare, preoccupato per una fitta improvvisa.

Sbuffo, emettendo una nuvoletta nell’aria gelida del mattino. Non va bene. Dovrei essere in forma smagliante e mi sento ancora un relitto infermo. Il Giorno della Promessa è tra meno di tre mesi, come pretendo di guidare la battaglia in queste condizioni pietose?

Riprendo un’andatura più rapida, spinto dalla rabbia verso me stesso e dall’angoscia per tutto ciò che deve venire. A quest’ora dovrei già essere entrato nella fase operativa del piano e iniziare ad organizzare attivamente il tutto; invece mi ritrovo a passare ore al telefono cercando di contattare persone ormai lontane e ad aspettarle inutilmente.

Non avevo previsto di rimanere solo, realizzo con rammarico.

Mi fermo a riprendere fiato, con una mano premuta sul fianco da dentro la tasca del cappotto. Scorgo la sagoma massiccia ed eccessivamente imponente del Quartier Generale fare capolino da sopra i palazzi di cemento, più vicina di quanto credessi. Non ho alcuna voglia di rinchiudermi per ore in un ufficio vuoto, sentendomi appuntati addosso gli sguardi dei miei superiori ogni volta che metto il naso fuori. Riluttante, riprendo il cammino zoppicando un po’ ed evitando le sparute pozze di ghiaccio qua e là.

Quest’anno ha nevicato poco, e la neve si è subito sciolta in una poltiglia grigiastra e infida. D’inverno Central ha bisogno della neve. Il manto bianco ricopre le brutture di una città nata e cresciuta troppo in fretta, ricolma di palazzi grigi e squadrati che si fondono col cielo livido. Sembra di camminare nel cemento, interrotto solo da qualche decorazione verde Amestris e dalle insegne dei negozi. Di notte l’impressione viene mitigata dalle luminarie e dai lampioni, che le danno un aspetto meno austero, ma comunque freddo.

Rimpiango East City, per quanto odi quella città. Nella sua fatiscente caoticità manteneva una nota accogliente e calda nelle facciate di legno dei vecchi edifici, nei mercatini sparsi un po’ ovunque e nei parchetti spuntati tra case e strade senza una logica apparente. Un inverno senza neve a East City è cupo ma sopportabile. A Central è come stare in una bara.

Non avrei mai creduto di poter sentire la mancanza della neve. Affretto il passo, tentando di scrollarmi quei pensieri di dosso, ma ormai la porta si è aperta.

In guerra era tutto più semplice, mi balena in testa, e soffoco fortunatamente le immagini che stanno tornando a galla, ma questa consapevolezza mi riempie comunque d’inquietudine.

In guerra si deve solo obbedire agli ordini. Se si sbaglia, poco male: è la guerra, si muore per nulla. Mi ritrovo a desiderare che ci sia qualcuno a guidarmi in questo momento, qualcuno che mi dica cosa fare così da non dovermene occupare io, qualcuno che si prenda le responsabilità delle mie azioni, anche se so che è un sollievo illusorio.

Ricaccio indietro queste constatazioni. Maledizione, è proprio questo che voglio cambiare! Quando sarò il Comandante Supremo – quando, poi? – non ci sarà nessuno a guidare me. Ci sarà la mia squadra a supportarmi. Qualche amico, qualche commilitone – chi verrà? Verranno? – gli Elric. Ci sarà Riza al mio fianco.

Ci sarà? Il mio cuore prende a martellare, preso improvvisamente da un panico irrazionale che annulla qualsiasi altra paura e devo fermarmi di nuovo, stavolta per riprendere il controllo.

Non pensarci. Sta bene. Non pensarci.

Me lo ripeto ininterrottamente, ogni giorno, ma sento la testa pesante e solcata da immagini e pensieri spiacevoli. Li lascio ronzare in sottofondo e mi concentro sul marciapiede davanti a me mentre avanzo come in trance.

Entro nel Quartier Generale già stremato e pronto ad andarmene il prima possibile. Prendo posto alla mia solita scrivania senza neanche togliermi la giacca, e il silenzio innaturale del mio ufficio, rotto solo dalla pendola, non aiuta i miei nervi.

Scruto le scrivanie vuote: la postazione radio di Fury, i libri e fascicoli impilati ordinatamente su quella di Falman. Nel cassetto semiaperto di Breda si intravede la sua scacchiera tascabile, dimenticata nella fretta. La postazione di Havoc è libera e pulita; manca il solito pacchetto di sigarette abbandonato sulla scrivania. Sono terribilmente consapevole della scrivania vuota alla mia sinistra, non ho neanche bisogno di guardarla per percepirne l’imponente assenza.
La pendola ticchetta incessante e inesorabile. Mi prendo la testa tra le mani e poggio i gomiti sul tavolo, sentendomi innaturalmente accaldato.

Deve arrivare qualcuno. Devo sapere di non essere solo, o divento pazzo.
 
 


 
Note Dell’Autrice:

Cari Lettori,
questo progetto nasce la bellezza di dieci anni fa, e da allora ho continuato ad ampliarlo in modo più o meno costante (e frammentario), senza mai riuscire a trovare la "forma" in cui pubblicarlo, cosa che si è risolta giusto qualche giorno fa.
L’idea iniziale coincide con la struttura di un diario di guerra, collocando quindi la storia in bilico tra una long vera e propria e una raccolta, il cui filo conduttore è fondamentalmente il tempo che scorre. Ho deciso quindi di dividere la storia in "macroparti" suddivise in capitoli, collegati dalla medesima tematica, ambientazione o svolgimento – prologo ed epilogo fanno parte a sé, e vi saranno un paio di "interludi" che si distaccano da Ishval.

Ho preso questo progetto come una sorta di "prova di scrittura", e per questo vi preannuncio che vi saranno molti personaggi originali nelle vesti dei commilitoni di Roy – alcuni fanno la loro comparsa nel manga/anime. L’azione è comunque incentrata su Roy e, nonostante vi saranno molte deviazioni narrative (d’altronde, sappiamo davvero poco di ciò che accade a Ishval), il tutto confluirà linearmente nel canon e nell’ambientazione del prologo, che è appunto qualche mese prima del fatidico Giorno della Promessa.

Chiudo con queste note troppo prolisse e spero che questo primo assaggio vi abbia messo curiosità. Se vi va, fatemi sapere che ne pensate :)
Al prossimo capitolo (l’aggiornamento sarà più o meno bisettimanale, salvo capitoli molto brevi),

-Light-

 
 
 
 
 
  
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l’autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all’originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

©Hiromu Arakawa

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Capitolo 2
*** Prologo (II) – Attese ***


Prologo

 Attese
(II)



Febbraio 1915
Bar di Madame Christmas,
Central City
23:00



Quando la porta della casa chiusa si apre, sono così stanco e concentrato sul mio solito bicchiere di liquido analcolico che non alzo neanche lo sguardo, troppo preso ad osservare lo sciacquio dei cubetti di ghiaccio che tintinnano contro il vetro.

«Ohilà, Maggiore!» una voce squillante e intrisa di un forte accento del sud mi fa sobbalzare e alzo di scatto gli occhi verso l’ingresso.

Sulla soglia, avvolto in un pastrano da viaggio nero, se ne sta un uomo sulla quarantina con un mezzo sorriso sardonico sul volto. Poggio il bicchiere con ostentata calma, ma le mie mani tremano di sollievo e sento un peso spiacevole abbandonare il mio stomaco, sostituito da un senso di esaltata aspettativa.

«Charlie!» esordisco, alzandomi per andargli incontro.

Gli tendo la mano e Charlie Deshaw me la stringe con vigore, con quell’espressione a metà tra il divertito e il provocatorio che a quanto pare non l’ha abbandonato. Sembra però invecchiato: le rughe attorno agli occhi scaltri sono più profonde, e le striature grigie sulle tempie più marcate e ampie.

«È bello rivederti,» dico un po’ goffamente, cercando di rompere il silenzio imbarazzato, ma sono sincero.

Charlie non risponde e si limita a un cenno del capo, forse realizzando in quel momento la stranezza della situazione. L’ultima volta che ci siamo visti eravamo in un cimitero; l’ultima in cui abbiamo parlato eravamo appena sopravvissuti alla battaglia di Darhia. Più che ricordi, abbiamo condiviso incubi, e adesso sembrano aleggiare tra di noi minacciosi. Sappiamo che sarà inevitabile affrontarli, ma nessuno di noi ha intenzione di anticipare il momento.

Charlie si riscuote, come scrollandosi di dosso quella consapevolezza, e si prende la briga di portare avanti la conversazione col suo solito fare gioviale:

«Si è scelto un bel posticino, eh, Maggiore?» fa un ampio gesto col braccio, a indicare l’elegante foyer.

Alzo appena gli occhi al cielo, ma mi risparmio la fatica di trovare una scusa: temo che la mia fama mi preceda.

«È un’ottima copertura,» dico invece, «e sono in famiglia.»

Ammicco verso mia zia, che si sta avvicinando col suo solito incedere minaccioso che farebbe sentire il Comandante Supremo un bambino sorpreso con le mani nella marmellata. Sì, anche se è un Homunculus: zia Chris fa quest’effetto.

E infatti anche Charlie si ritrova più impettito che mai, come a dimostrare di non essere per nulla intimorito a dispetto della sua figura dinoccolata. Nascondo il mio lieve sogghigno meglio che posso, ma zia fulmina anche me con un’unica occhiata.

«Ti sei preso il tuo tempo, giovanotto,» lo accoglie prevedibilmente, continuando a fumare la sua lunga sigaretta con nonchalance. «A Roy-boy, qua, stava per prendere una crisi di nervi,» rivela poi a tradimento.

Sbianco per poi sentirmi la faccia in fiamme, e stavolta sono io a raggelarla risentito. Charlie dimostra un tatto insolito, per qualcuno che anche in trincea aveva l’abitudine di ridicolizzare a piena voce chiunque capitasse nel suo raggio d’azione, e si limita a trattenere un sorrisetto nell’udire quel soprannome che detesto. Forse anche la stazza di mia zia è un buon deterrente.

«Oh, sì, sono in ritardo. Problemi organizzativi,» spiega vago, e non insisto su quel punto.

Avremo comunque il tempo di rimetterci in pari con ciò che è successo in questi anni nelle rispettive vite. Prima di poter aggiungere altro, mia zia mi porge un mazzo di chiavi.

«Sono quelle di riserva. Io chiudo all’una come al solito; se fate più tardi assicuratevi di non essere visti quando uscite,» si raccomanda, e annuisco appena, sia in un gesto d’assenso che di ringraziamento.

Sta rischiando molto, troppo. Finita questa storia, non sentirò storie e riscatterò la vecchia casa a Bushmills. È il minimo che possa fare per lei.

Ci salutiamo con un ultimo cenno del capo, e mi sembra di cogliere una traccia di sorda preoccupazione e aspettativa nel suo sguardo. Prima di potermene accertare, però, mi ha già voltato le spalle.

 
 

Ammetto che incontrarsi nel privé di una casa chiusa con uno dei miei ex-commilitoni ha un che di surreale.

L’impressione è fomentata dalla luce proiettata dall’abat-jour nell’angolo, che ammanta il salottino di una soffusa tinta rossastra. Mentre Charlie si accomoda e arrotola una sigaretta, rimuovo il paralume colorato, smorzando l’atmosfera pseudo-erotica e poco adatta a quello che dovrebbe essere il preambolo di un consiglio di guerra.

Sprofondo in una delle tre poltroncine, muovendomi cautamente nel sentire la pelle appena rimarginata della ferita che tira, fastidiosa. Charlie lo nota, con una punta d’incredulità.

«La ferita le dà ancora noia?»

Faccio un sorriso a metà, spavaldo ma non troppo.

«Sì, più o meno. Non è quella che ricordi tu.»

Charlie alza le sopracciglia aguzze e storce la bocca sottile in un commento muto, piazzandovi poi l’involto di tabacco. Fa scattare due volte l’accendino consunto, senza risultato, ed è in un istinto quasi inconscio che sfrego appena due dita guantate, facendo sfrigolare un minuscolo filo infuocato che accende la sigaretta a colpo sicuro. Charlie si ferma col pollice sulla rotella di selce, mi scocca un’occhiata laterale e inspira poi una boccata soddisfatta di fumo, che rimane ad aleggiare sopra di noi. Arriccio il naso, ma quell’odore spiacevole mi sembra in qualche modo adatto a questo momento. È un vecchio compagno anche lui.

«Non ha perso la mano,» commenta Charlie, neutrale.

«Ho affinato la tecnica,» rispondo altrettanto distaccato, con un sorrisetto automatico.

«E quello com’è successo, allora?» indica il mio fianco malandato.

«È una lunga storia e dovrai sorbirtela tutta, quindi non vedo perché dovrei darti anticipazioni. Sempre che tu sia disposto ad ascoltarla,» rispondo, ondeggiando tra ironia e un tentativo di sondare i suoi pensieri.

«Ohi, Maggiore, stia un po’ a sentire…» scuote la testa lui, ricadendo nel suo accento cantilenante, ma lo interrompo con un sorriso divertito:

«Colonnello.»

«Come le pare,» sbuffa lui, assieme al fumo. «Dicevo, non penserà che ho alzato le chiappe da Dublith per venire fin qui per nulla,» continua poi, quasi offeso, e quelle parole mi causano un sussulto speranzoso nel petto.

«Non so cosa dovrei pensare,» replico senza sbilanciarmi. «Perché sei qui, Charlie?»

Lui stringe le labbra sul filtro della sigaretta, sbiancandole in un moto perplesso.

«Ma che diamine, perché mi ha chiamato!» sbotta poi, allargando i palmi rovinati dai calli. «Erano questi i patti, no? Erano questi,» ribadisce convinto, dandosi una pacca sulle ginocchia.

Provo l’improvviso istinto di scoppiare a ridere per il sollievo, e mi sento revitalizzare dalla luce che gli illumina gli occhi chiari.

«Sì, Charlie, erano questi,» rispondo semplicemente, trattenendo la piega malinconica che sta assumendo il mio sorriso. «Forse, semplicemente, non mi aspettavo che venissero rispettati,» ammetto, esponendomi forse troppo.

«Gliel’ho detto, ci sono stati dei contrattempi… Gente difficile da reperire, gente morta, gente che andava convinta… ci è voluto un po’,» spiega flemmatico, alternando le parole alle boccate di fumo.

Schiudo le labbra in un moto di sorpresa che non riesco a reprimere.

«Non sei solo?»

A quel punto Charlie strabuzza gli occhi.

«Ma per l’inferno, Maggiore, che le prende? Per chi ci prende?» si corregge, e quasi temo che si alzi di scatto per agguantarmi il bavero per esternare la sua frustrazione. «Ci siamo tutti, e chi non c’è sta sotto due metri di terra, ma può scommetterci che sarebbero venuti pure loro,» dichiara poi, più mestamente.

Mi prendo un momento di silenzio, cercando di assorbire quell’informazione che mi apre il cuore, gettandovi una luce finora soffocata dal pessimismo e dal cielo bigio di Central City. Nel vedermi silenzioso, Charlie si china in avanti, quasi a dar più peso a ciò che sta per dire:

«La guerra non è finita,» scandisce, adesso del tutto serio, e contraggo le dita nel sentire le mie stesse parole.

«No,» gli confermo, riprendendo il controllo e inclinando appena il capo, «e adesso ne sta per cominciare un’altra.»

Un brillio feroce scaturisce nelle pupille del mio compagno. Poggia un gomito sul bracciolo, sostenendo il capo sulle nocche.

«Buono a sapersi, Maggiore.» Charlie ghigna nell’usare deliberatamente il grado sbagliato, sbuffando una boccata di fumo. «Qual è il piano?»

 
 

Riza, forse grazie al suo innato intuito, forse grazie al fatto di conoscermi da mezza vita meglio di me stesso, ha capito che c’è qualcosa che mi turba all’incirca tre secondi dopo avermi visto.

Anche se, pensandoci bene, averle dato un appuntamento nella periferia di Central City spedendole un mazzo di fiori in codice potrebbe essere stata una mossa rivelatoria in mio sfavore.

E pericolosa. Così pericolosa che mi sento come se qualcuno mi stesse tenendo un coltello sulla gola, col filo che mi intacca la pelle e un rivolo di sangue che mi scorre lungo il collo, costringendomi a deglutire il più piano possibile per non recidermi la giugulare.

Siamo in silenzio da forse un’ora, da quando l’ho recuperata con la macchina al punto d’incontro, per poi seguire strade e percorsi tortuosi attraverso la città per assicurarci che nessuno ci stesse pedinando. Mi sono fermato al luogo da me prescelto da una decina di minuti: un vicoletto buio stritolato tra due fabbriche nella zona industriale.

Le ciminiere sono spente, eppure il sentore di carbone bruciato penetra fin dentro l’abitacolo, acre e sgradevole. Non apriamo i finestrini, quasi non respiriamo nemmeno; siamo tutt’uno col buio denso, illuminato solo da qualche lampada a gas troppo lontana per arrivare fino a noi.

So che Riza sta aspettando una spiegazione per questo incontro improvviso, folle, sotto ai mirini, e il punto è che non ce n’è una, se non quella di volerla vedere – nonostante adesso sia a tutti gli effetti un ostaggio. È un desiderio che ho assecondato forse due volte in sei anni, perché è sempre troppo rischioso farsi vedere da soli fuori dal Quartier Generale.

L’ultima volta che è successo, Hughes era appena morto. Riesco a percepire la sua preoccupazione che mi fa vibrare l’aria contro i timpani, a stento trattenuta.

«Scusa per la convocazione improvvisa, Tenente,» esordisco, con voce roca per il lungo silenzio.

Riza alza appena lo sguardo, rivolgendomi quegli ampi occhi castani che sembrano sondarmi l’anima ogni volta. Ogni volta, cerco di non chiedermi cosa potrebbero mai vedere, se non sangue e fiamme.

«C’è qualche problema, Colonnello?»

È formale, distaccata, anche se siamo soli. Una pantomima sterile e autoimposta, affinata con gli anni. Non possiamo cedere, mai, nemmeno nel buio cieco di un vicolo dimenticato, o finiremmo per tradirci alla luce del sole con mille occhi intenti a scrutarci. L’abbiamo concordato in silenzio, che è ciò che di solito parla tra noi. Per questo adesso mi sento quasi un profano a romperlo, a voler trasmutare in parole ciò che mi passa per la testa. Ombre dense, a cui non dovrebbe mai essere data forma.

«Ho rivisto Charlie Deshaw,» esalo, e anche se dovrebbe essere una buona notizia, non suona tale.

Colgo il suo fremito di sorpresa, seguito da un respiro rapido, di quelli trattenuti che prende prima di sparare un colpo.

«Cosa è successo?» chiede, girando infine il busto verso di me, con gli occhi fermi di chi allinea lo sguardo con la canna di un fucile.

Scrollo il capo, e lascio che i capelli mi schermino in parte il volto. Incontrarsi è stata una decisione sciocca, per usare un eufemismo. È stata una decisione che potrebbe costarci la vita, e sono stato io a prenderla per entrambi.

«Nulla,» sospiro. «Abbiamo il suo appoggio e quello della vecchia truppa. Tutto secondo i piani, anche se in ritardo rispetto al Giorno della Promessa… dovremo accelerare i preparativi, ma…»

«Roy.»

Mi irrigidisco, con la pallottola che si conficca sotto il cuore spegnendomi il resto della frase in gola.

«Non pensare di poter nascondere qualcosa a me,» mi rimprovera poi.

Sento i suoi occhi da cecchino che mi trapassano, e lo scricchiolio una crepa che incrina la solida struttura di distacco interposta tra noi. Non sono il solo ad essere turbato, questo mi è ormai chiaro. Ha tutte le ragioni per esserlo, visto che è intrappolata nella tana del lupo – per colpa mia, sempre per colpa mia.

«Cosa è successo?» chiede di nuovo, livellando la voce.

Non la guardo, come non l’ho guardata per tutto questo tempo. Pondero per un istante l’idea di rimettere in moto e allontanarmi da lì, ma so che non me lo perdonerebbe mai. E sarebbe da veri vigliacchi.

«Abbiamo parlato,» comincio, quasi svogliatamente.

Esito, mi mordo piano le labbra con gli occhi inglobati dal buio, fissi sui lumicini lontani. So dal modo in cui si irrigidisce sul sedile che ha capito, e probabilmente l’ha capito dall’istante in cui ha trovato il mazzo di otto dalie viola e un ibisco sulla porta. L’ha capito, perché i fantasmi e le ombre sono gli unici motivi che potrebbero spingermi a un atto così sconsiderato; l’ha capito perché per lei è lo stesso, solo che i suoi fantasmi e le sue ombre glieli ho impressi io sulla pelle.

«Abbiamo parlato del piano, delle nostre vite, dei nostri commilitoni…» elenco stancamente, e mi copro gli occhi con una mano, sentendo la ferita sul dorso tirare fastidiosa. «Non di Ishval,» esalo infine.

L’ultima parola cade tra di noi come un macigno che ci manca per un soffio.

Alzo finalmente la testa per guardarla. Ci limitiamo a fissarci, con le pupille rese enormi dall’assenza di luce. Forse, in un altro momento, basterebbe questo per cancellare l’angoscia che mi opprime da giorni, ma non oggi.

«Si aspettava di parlarne, Colonnello?» chiede lei, e riconosco quel tono più morbido che raramente le smussa la voce schietta, nonostante il tentativo di recuperare distanza.

«Credevo fosse inevitabile, Tenente,» replico, con una punta di rimpianto.

Gettiamo i nostri gradi nello spazio che ci divide in una debole, forzata difesa. Stringo le braccia al busto, avvertendo il morso della ferita farsi più acuto.

Charlie e io ci siamo mossi attorno ad Ishval come se fossimo ancora in trincea, intenti ad aggirare un ordigno inesploso a distanza di sicurezza. È stata una reticenza comune mai infranta, portata avanti in sincrono quasi fosse un balletto collaudato; un mutuo evitare determinate parole, uno schivare potenziali allusioni, un rimanere sempre al livello del presente e del passato prossimo, coi piedi ben piantati a terra per non sprofondare nel fango.

«Magari non era con lui che volevo parlarne,» constato infine, e lei scosta gli occhi dai miei, ritraendosi.

Come se si fosse scottata. Il pensiero mi incide il cuore di tacche dolorose. Prima di poter tornare sui miei passi ed esonerarla da una conversazione che sarebbe l’equivalente di piantarci un pugnale nel ventre a vicenda, lei si riscuote, scrutandomi da sotto le ciglia folte.

«Dopo sei anni?» chiede soltanto, e la sua voce è ferma.

Esito, con le parole che mi battono in gola.

«Dopo sei anni,» confermo laconico.

Il Giorno della Promessa è ancora lontano, fumoso: potrebbero esserci altre occasioni, altri giorni, altre opportunità. Ma siamo qui adesso, celati dalla notte, con le parole intrappolate in un abitacolo appannato. Se c’è una cosa che ti insegna la guerra, è godere di ogni momento e non rimandarne nessuno. E adesso, siamo in guerra.

Riza tace, ma annuisce appena. Un cenno minuto del capo che sembra spezzare le catene dei miei pensieri con la volontà di ascoltarmi e farsi ascoltare. Forse ha aspettato anche lei per sei anni, o forse voglio solo crederci e credere che la nostra affinità arrivi a includere anche il ritmo con cui si risanano le nostre ferite. Sei anni vicini, e allo stesso tempo distanti, non sono bastati a nessuno dei due. Mi rilasso un poco, assaporando il refolo di pace che accarezza la mia mente sconvolta.

Riza guarda fuori dal parabrezza, in alto verso il cielo nero. Si vede qualche timida stella qua e là, soffocata dalle luci lontane di Central City.

«Si ricorda il cielo a Ishval?» mi chiede, assorta.

Trova la mia mano, e il contatto con la sua pelle liscia mi prende di sorpresa, quasi dimenticato. Chiudo gli occhi e di nuovo mille immagini si sovrappongono dietro le mie palpebre, in un distorto gioco d’ombre. Prima o poi bisogna dare voce ai fantasmi. Sento il mio cuore aumentare i battiti e intreccio le dita alle sue.

«Sì, certo,» rispondo piano.

Stavolta, lascio che un sorriso leggero e dolceamaro mi attraversi brevemente il volto.

«Era bellissimo.»


 


 
Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
ho finalmente deciso di dividere in due il prologo, che era di una lunghezza improponibile :')
Non è cambiato nulla, se non alcune correzioni dal punto di vista formale ♥

-Light-


P.S. per capire l'affermazione finale di Roy dovrete arrivare alla fine della storia... non siete contenti?
 

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Capitolo 3
*** I: Quelle notti nere - di polvere e spari – Capitolo 1 ***


Parte I
 
Quelle notti nere – di polvere e spari
 “Guardo l'orizzonte
che si vaiola di crateri
Il mio cuore vuole illuminarsi
come questa notte
almeno di zampilli di razzi.”

[Perché – G. Ungaretti]
 
 
 
.1.
 
 
 
 

10 Novembre 1908,
Distretto di Tiham,
18:35
 

Una coltre di fumo nero e denso risale incessante dalle macerie, velando il cielo screziato d’indaco.

Il bagliore delle fiamme riverbera ovunque, pulsante. Sento l'odore acre invadermi i polmoni già incatramati: oltre a legno carbonizzato, metallo fuso, calce e cenere, colgo il sentore di carne bruciata.

«Deshaw, ripulite l'area,» ordino lanciando un cenno a Charlie, che attendeva solo il mio segnale per passarlo al resto della truppa.

Sono sparpagliati tra le macerie biancastre, in uno spiazzo nudo e martoriato che fino a poco fa ospitava una mezza dozzina di case. Da dietro i tetti bassi superstiti, come un gigante silenzioso e cieco, fa capolino la cresta di una duna scarmigliata dal vento.
Charlie fa per tornare indietro e radunare i soldati, ma sembra ripensarci e si ferma dopo pochi passi, lanciandomi un’occhiata sbilenca da sopra la spalla.

«Gli uomini sono stanchi,» dice laconico.

Una nuvoletta di vapore esce dalla sua bocca mentre parla e vedo che il suo volto è irrigidito dal freddo; si stringe nel mantello lacero più che può. Sembra incurvato da un peso invisibile che avverto di riflesso al centro della schiena: è stata una giornata faticosa. Anche io sento le membra pesanti e i piedi gonfi, stretti negli stivali consumati.

Ruoto il capo e scruto con attenzione i resti di quello che un tempo deve essere un bel palazzo nobiliare, a giudicare dai fregi scheggiati che intravedo sui mozziconi delle mura. Bassorilievi sfigurati occhieggiano qua e là, colmi di visi severi e occhi smorti su cui guizzano le fiamme.

«Maggiore?»

Mi riscuoto, con la stanchezza che mi rallenta e il freddo che inizia ad entrarmi nelle ossa.

«Di' agli altri di mantenersi a distanza: do un altro paio di fiammate e torniamo al campo. Voi occupatevi dei prigionieri.»

Lui mi lancia un'occhiata grata prima di avviarsi verso le mura diroccate che fungono da riparo di fortuna alla mia truppa. Rimango in ascolto, guardando l'incendio e calzando la stoffa ruvida già perfettamente aderente alle mie dita. Sento due raffiche di spari ravvicinate dietro di me e solo allora sollevo la mano guantata. Dopo aver considerato brevemente il modo migliore per far crollare ciò che resta dell'edificio, sfrego la stoffa d'accensione.

Non sono concentrato: il getto di fuoco vira troppo a destra, senza centrare perfettamente il bersaglio, ma basta la scossa provocata dall'esplosione a far gemere le ultime travi ancora integre. La facciata resiste ancora qualche istante prima di collassare sotto il suo stesso peso in una nube di calce e cenere.

Per scrupolo, spazzo l'area circostante con un'altra fiammata rasoterra. Anche questa volta, calibro male la potenza e sento il calore sfiorarmi pericolosamente il volto; le falde del mantello schioccano investite dal getto d'aria rovente. Socchiudo gli occhi per schermarli dal bagliore, infastidito.

Devo essere più stanco di quanto pensassi. Lancio una terza fiammata, più per accertarmi di essere ancora nel pieno controllo delle mie facoltà che per un vero e proprio scopo. Stavolta la scia di fuoco saetta preciso oltre la pila di detriti, si insinua dentro una finestra dell'unica porzione ancora in piedi, e la vampata che si sprigiona al di là è perfettamente contenuta. Metà del tetto esplode in un'eruzione di calcinacci e tegole. Mi sembra di sentire delle urla, ma il fragore dell'incendio è così intenso che non posso esserne certo, e d’altronde il mio udito non è più così fino, dopo mesi di bombardamenti.

Volto le spalle alle fiamme e torno lentamente verso la mia truppa, pestando polvere calcinosa e frammenti marmorei. Gli uomini sono così esausti che molti si sono semplicemente abbandonati a terra e non si accorgono del mio arrivo; sono sicuro che sarebbero capaci di addormentarsi lì, nel mezzo del campo di battaglia.

In teoria dovremmo ancora tirar giù l'intero isolato, ma è dall'alba che non abbiamo un momento di tregua e riesco a sentire la stanchezza uscirmi dagli occhi. Trattengo un sospiro e raddrizzo lo schiena indolenzita dai crampi.

«Truppa Blaze!» li riscuoto, e la mia voce risuona roca per via del troppo fumo.

Alcuni scattano in piedi sull'attenti, e li riconosco come i nuovi cadetti arrivati pochi giorni fa. Mi fissano con un misto di timore e aspettativa oltre lo strato di sangue e fuliggine che impiastra i loro volti. Avranno al massimo tre anni meno di me. Gli altri si alzano prontamente, più composti, ma tralasciano il saluto militare, evidentemente più coscienti di quanto poco io tenga alle formalità.

«Si torna al campo,» annuncio, vedendo quanto siano stanchi e provati.

Dall'espressione di stupore e sollievo che si dipinge sui volti dei cadetti, capisco che probabilmente Haytham o Richard hanno rifilato loro qualche balla riguardo alla nostra linea d'azione per terrorizzare i novellini. Qualcosa come assaltare un altro distretto o perquisire Tiham da cima a fondo da soli. Lancio loro uno sguardo indagatore e il sorrisetto beffardo di Haytham lo tradisce.

Scuoto rassegnato la testa nella sua direzione mentre il gruppo si mette in marcia e lui si stringe nelle spalle, per poi pungolare malignamente il cadetto di fronte a lui con la baionetta. La mia espressione non è neanche vagamente minacciosa, anzi, devo camuffare il mio divertimento. Tormentare i nuovi arrivati offre qualche motivo di cinico svago a noi e fa capire a loro che questo non è più un esame finale dell’Accademia. Sospiro, facendo per incamminarmi in direzione della base, quando uno dei cadetti lancia un'esclamazione:

«Ehi, quello sta scappando!»

Subito molti mettono mano alle armi e io mi volto di scatto, la destra già pronta a trasmutare. Intravedo una figura barcollante che tenta di allontanarsi dalle macerie.
Alzo la sinistra per intimare l'alt alla mia squadra e sto per lanciare un getto di fuoco con la destra, quando uno sparo lacera l'aria. La figura si accascia a terra e inizia a dibattersi nella polvere, lanciando grida di agonia. Mi volto verso il tiratore, lo stesso cadetto che ha dato l'allarme. Lui sembra rimpicciolire sotto i miei occhi furenti.

«Bel colpo,» commento piattamente, prima di incamminarmi in direzione del fuggitivo. Dovrei frenare i miei passi e occuparmene a distanza come sempre, ma non trattengo i miei passi, rapidi ma pesanti.

Arrivo a pochi passi e la sagoma rannicchiata a terra prende i contorni di una donna, piuttosto anziana, che preme inutilmente una mano sulle reni dove la pallottola l'ha trafitta, contorta in una posa scomposta. Uno spiacevole formicolio mi avvolge la parte destra della schiena: so quanto fa male.

Alza su di me gli occhi rossi e annebbiati dalle lacrime e ringhia qualcosa nella sua lingua, fissandomi con odio. Sostengo il suo sguardo – non dimenticarli, non dimenticarli mai – e la fiammata la avvolge, abbacinante. Non ha neanche il tempo di urlare.

Torno verso la mia truppa, lasciandomi alle spalle il suo corpo fumante e carbonizzato, tutt’uno con le macerie annerite.

Il cadetto, poco più che un ragazzino, mi fissa spaurito e io mi limito a trapassarlo con lo sguardo. Riprendo la marcia, facendo cenno ai miei uomini di seguirmi. Qualcuno, passando, gli scaglia uno sguardo di rimprovero, ma la maggior parte della truppa si limita a ignorarlo. I nuovi arrivati sono visibilmente confusi.

Respiro a fondo per calmarmi. Odio i cadetti.

Mentre cammino sento un velo di stanchezza calarmi sugli occhi, e me lo scuoto di dosso battendo le palpebre gonfie. Il campo è vicino, ma non abbastanza da abbassare la guardia: Tiham non è ancora stato messo in sicurezza e il pericolo che una banda di guerriglieri Ishvaliani cali su di noi per farci a pezzi è reale, vicino e tangibile. O peggio ancora, qualche adepto del Sangue di Ishvala.

Aumento il passo e marcio in testa alla mia squadra cercando di non incespicare nelle macerie che invadono la strada. Il distretto è stato sventrato dalle mie fiamme e dai mortai, e quella che un tempo era una ricca zona residenziale è ora ridotta a una landa carbonizzata, dove gli incendi continuano a divampare da giorni. Il Comando ha detto che ho fatto un buon lavoro, che Tiham era una zona problematica, che andava ripulita con mano ferma e attacchi serrati per stanare le ultime sacche di resistenza.

Superiamo un palazzo completamente annerito, di cui rimane solo lo scheletro contorto delle travi. Davanti è segnata, con un drappo bianco, una delle tante fosse comuni per gli Ishvaliani. Acceleriamo istintivamente il passo.

Proprio un buon lavoro.

Charlie mi affianca con naturalezza, il fucile reclinato sulla spalla, la solita aria svogliata stampata in volto. Deve aver notato che non sono nel pieno delle forze. Anche lui ha l'aspetto di chi non chiederebbe altro che dormire tre giorni di fila, ma quattro occhi, seppur assonnati, sono meglio di due, soprattutto nel buio oscillante di fiamme.

È con un sospiro di sollievo che arriviamo alla piazza di scambio senza contrattempi. Al centro giace una statua di un qualche monaco di Ishval, abbattuta al suolo e sfigurata, il braccio proteso al cielo in un monito spezzato; delle robuste barricate con terrapieni si ergono a poche decine di passi, incuneate tra i palazzi ancora in piedi.

Noto che sono state rinforzate con del filo spinato durante la nostra assenza. Noto anche che i teli bianchi allineati da una parte sono aumentati. Spero che non mi chiedano di nuovo di bruciare i cadaveri, ma so anche che non possiamo permetterci un'altra epidemia.

Scorgo due coppie di soldati sugli stretti e bassi camminamenti, una per lato, che danno un segnale ai soldati a terra non appena ci avvistano. Il picchetto di guardia mi riconosce e si mette sull'attenti. Stasera è meno numeroso del solito: una mezza dozzina di uomini al massimo. Forse sarà una notte calma, ma non mi faccio illusioni. Il sottoufficiale in carica si fa avanti con una staffetta al suo fianco, in attesa del mio rapporto da consegnare al Quartier Generale.

«Maggiore Mustang.»

Sembra sollevato di vederci.

«Sergente Picard,» saluto a mia volta, circospetto.

«Il plotone di Goer non è rientrato,» mi annuncia, prima ancora che possa dire qualcosa. Dalla profonda ruga in mezzo agli occhi intuisco che qualche superiore deve essersi sfogato su di lui per l'assenza del suddetto plotone. Non mi stupisco. Picard, fin dal tempo delle trincee, sembra nato per essere il capro espiatorio degli altri, complice la sua figura mingherlina.

«Lo so,» rispondo accigliandomi a mia volta. «Li abbiamo trovati smembrati in una palazzina a qualche isolato da qui.»

L'agitazione che serpeggia tra i soldati è palpabile, soprattutto tra gli sfortunati della mia squadra che hanno fatto la macabra scoperta. Non dormiranno sonni tranquilli, stanotte.

«Tutti avevano gli occhi cavati,» aggiungo significativo.

«Sono arrivati fin qui?» sbotta uno dei soldati di guardia.

Picard cerca di non dare a vedere la sua perplessità, ma mi guarda interrogativo, con una smorfia incerta che gli fa tremare i baffi a spazzola. Sospiro tra me: la qualità delle informazioni che riusciamo a scambiarci tra i vari avamposti è imbarazzante. Mi sorprendo a rimpiangere di dover fare rapporto a Ironclad quando ero in città.

«Il distretto limitrofo di Hazari è sotto il controllo di un gruppo di ribelli. Si fanno chiamare il “Sangue di Ishvala” e sono quasi tutti monaci guerrieri ben addestrati. Oltre ad essere un flagello, mutilano i corpi dei soldati e ne catturano molti. Forse li tengono come ostaggi o…» esito brevemente, «… come sfogo

«Capisco,» annuisce gravemente lui, fingendo compostezza.

«Devi aver pestato i piedi a qualcuno d'importante, per farti trasferire qui,» commento infine, e lui evita il mio sguardo.

Sì, è decisamente qualcuno d'importante.

«Mi stupisco che non si sia sparsa la voce,» cambio argomento, ma in realtà non mi stupisco affatto, perché dubito che Bradley si scomoderebbe per una bazzecola come uno squadrone armato che va in giro a cavare occhi e mozzare arti e membri ai suoi soldati.

«Sono qui solo da due giorni e a Yazik non se n'era fatta parola. Ma sa com'era il Colonnello Sheridan,» aggiunge pungente, e replico con una tirata di labbra.

Ricordo perfettamente com'era, e ricordo anche di aver sperato più volte che una granata cadesse casualmente nel suo bunker.

«Comunque, ho raso al suolo l'edificio dove li abbiamo trovati e messo a ferro e fuoco le cantine. Non so chi ci fosse là sotto, ma nessuno è sopravvissuto. Abbiamo tirato fuori i corpi dei nostri, ma dovrete recuperarli lì,» concludo gravemente.

Picard si rilassa, ma continua a tormentarsi i baffi ingrigiti; non sarà lui a dover fare rapporto, ma il pensiero di una banda di guerriglieri assetati di sangue che si aggira nei dintorni turberebbe chiunque.

Faccio un cenno al messaggero, una cadetta riccioluta con una tracolla che probabilmente sarà ammazzata ancor prima di arrivare a destinazione. Ha all’incirca la stessa età di Riza, ed evito di guardarla in volto per non rilevare altre somiglianze.

«Riferisci tutto al Quartier Generale e cerca di far pressione perché la cosa arrivi ai piani alti,» ordino, poco convinto. «Vai, veloce,» la sprono seccamente.

Lei si mette sull'attenti e schizza via, sparendo subito nei vicoli limitrofi. I suoi passi echeggiano ancora per qualche secondo prima di svanire del tutto, inghiottiti dal buio delle palazzine esplose.


 
 

Note Dell'Autrice:

Cari Lettori,
con questo capitolo, entriamo direttamente nel vivo della guerra di Ishval, con un primo approccio che spero sia stato d'impatto. Tutti i nomi di luoghi, gruppi e persone menzionati troveranno riscontro e spiegazioni successivamente. Ribadisco che, per molti versi, questa storia può essere considerata un'originale, escludendo il contesto bellico specifico e il PoV Roy, che rimarrà comunque IC (o almeno proverò a mantenerlo tale); il tutto si basa comunque sul canon, quindi la maggior parte dei dettagli è coerente con esso. La differenza più sostanziale è che in questa storia Roy conosce la propria truppa; in questo capitolo oltre a Charlie compare Richard, uno dei pochi soldati citati esplicitamente nel volume 15 del manga.

La lunghezza dei capitoli sarà variabile, questo è uno dei più brevi; in apertura a ogni parte vi sarà una citazione che fa da filo conduttore, tratta da poesie rappresentative (la maggior parte di Ungaretti e Quasimodo, per motivi credo intuibili).
Ora la smetto di blaterare :) Grazie a chi ha letto, e se volete fatemi sapere che ne pensate!

-Light-

P.S. Piccolo avvertimento: non lesinerò su descrizioni anche molto crude quando necessario: non amo soffermarmi inutilmente su dettagli violenti, ma Roy è una persona estremamente analitica, e credo che questa scelta sia in linea col suo carattere, a maggior ragione se la storia è in prima persona. Nei prossimi capitoli fatemi sapere se, secondo voi, dovrei cambiare il rating da arancione a rosso.



 

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Capitolo 4
*** I: Quelle notti nere - di polvere e spari – Capitolo 2 ***


.2.

 
 
10 Novembre 1908,
Guarnigione di Tiham, Ishval
20:00


 
La fuliggine che permea l’aria affatica i polmoni, ricoprendoli di una patina viscosa. Avanziamo in una pantomima di marcia, scoordinati, le spalle curve sotto il peso dell’ennesima giornata di guerra.

Finalmente, superate le due palazzine che fungono da strettoia e barriera, entriamo nell'accampamento, annidato tra le macerie delle basse palazzine che prima occupavano l'area.

Non credo che ai miei soldati sia rimasta abbastanza energia per arrivare fino alla camerata, e li sento arrancare dietro di me in una cadenza strascicata e meccanica. Mi fermo poco dopo l'ingresso, li faccio schierare e controllo che non ci siano feriti. Spedisco Roger ed Ellis in infermeria, ignorando le loro proteste. È stata una buona giornata, stranamente senza perdite.

Prima di congedarli cerco con lo sguardo la testa calda di prima, che si tiene prudentemente in ultima fila.

«Ehi, tu, laggiù,» lo indico per fugare ogni dubbio su chi stia chiamando e gli faccio bruscamente cenno di avanzare.

A quel punto la truppa sembra riscuotersi, nonostante il pensiero di tutti voli sicuramente alla propria branda e al rancio, e si apre all'istante in due ali che lasciano il malcapitato privo di ogni riparo, alla mia mercé. Colgo con la coda dell'occhio Richard che dà di gomito a Haytham, e sono combattuto tra l'ignorarli e il richiamare anche loro, tanto per vedere come reagiranno.

«Ragazzo, se non ti muovi te la faccio io, la ramanzina!» prorompe Haytham, che come previsto non vede l'ora di andarsene per i fatti suoi, e dà una spintarella allo sciagurato per sottolineare le sue parole.

Lui incespica in avanti, chiaramente terrorizzato, e stringe la cinghia del fucile fino a sbiancarsi le nocche.

«Springfield!» prorompo, e Haytham ammutolisce all'istante riprendendo una postura marziale, anche se il suo sogghigno divertito rimane.

Il ragazzo è finalmente di fronte a me e cerca in tutti i modi di non guardarmi negli occhi, rendendo sfuggenti i suoi. È ben piazzato e mi supera di un paio di centimetri in altezza, ma ha la faccia di un bambino troppo cresciuto: le guance sono piene, rosee, al contrario degli zigomi affilati che tagliano i nostri volti smunti, la mascella è stata appena squadrata dalla pubertà. Quanti anni avrà? Diciannove? Venti?

Gli occhi celesti sono limpidi, anche se già segnati dal sonno e dalla fatica, e sembrano lenti affacciate sui bei salotti di East City con tre pasti caldi al giorno, un letto con un cuscino di piume e un materasso e acqua corrente a volontà. Non avrà neanche il tempo di abituarsi alla nostra vita di fango e sangue; lo sparo di prima non farà in tempo a trapassargli la coscienza. Forse una medaglia al valore, un encomio, qualcosa di cui scrivere a casa su della bella carta filigranata per far sorridere un padre, fiero tra le lacrime nell’accogliere la salma del figlio.

Stringo le labbra smorzando un sospiro, e il mio silenzio non fa che sprofondarlo nel disagio più totale. In altre circostanze, mi gusterei il momento: mettere alla berlina i nuovi arrivati in cerca di gloria facile è un passatempo intriso di senso del dovere che svolgo quasi con piacere, ma stasera è una di quelle sere. Quelle in cui vedo l’uomo e non il soldato, in cui guardo gli occhi e non le mostrine sul petto o le spalline graduate.

«Identificati,» gli intimo infine, nel tono più duro che la mia gola irritata mi consente.

«Soldato Zachary Stormer a rapporto, signore!» balbetta; evidentemente sono stato comunque abbastanza convincente.

«Quando imparerò il tuo nome e cognome sarai probabilmente già morto, cadetto. Perché non sei un soldato, vero?» lo metto in difficoltà.

«Sì, signore... cioè, no, signore!» s’ingarbuglia prevedibilmente lui.

«Ti vedo nervoso. Sei nervoso?»

Lui fa vigorosamente cenno di no con la testa. Giuro che è lo spettacolo più avvincente che abbiamo avuto da un mese a questa parte, Festa dell'Esercito esclusa, ma inizio a provare un po’ di pietà per lui.

«Bene, cadetto.» Faccio una pausa prima di mettere fine alla cosa, anche se so che la truppa ci rimarrà male: di solito mando avanti la farsa per una decina di minuti, con qualche ordine ridicolo nel mezzo, ma stasera sono sfinito e non so che altro inventarmi. «La prossima volta che spari un colpo senza permesso ti faccio sbattere a fare servizio d'ordine per tre giorni. Sono stato chiaro?»

Stormer impallidisce, con la faccia di chi è appena stato mandato al patibolo. Il “servizio d'ordine” è lo spauracchio che impedisce ai cadetti bizzosi di compiere ulteriori atti di eroismo. Di solito funziona: a nessuno piace improvvisarsi becchino.

«Sissignore,» riesce a dire, e gli do credito per non essersi strozzato nella sua stessa saliva.

«Truppa Blaze, riposo. Rapporto all'alba come sempre,» ordino quindi, con voce più stentorea.

Il capannello si scioglie in un mormorio di congedi e “sissignore”; Stormer farfuglia qualche parola prima di filare via con la coda tra le gambe dai suoi compagni. Questa sera i cadetti faranno gruppo a parte...

Vengo riscosso dalla fragorosa risata di Richard, evidentemente molto divertito dallo spettacolo offerto dal sottoscritto.

«Dreyse...» lo riprendo bonariamente, ma il richiamo stavolta non ha effetto.

Quando non siamo sul campo di battaglia la distanza tra ufficiali e subordinati si accorcia, ma rimane quel tanto che basta per non farmi sentire allo scoperto: sono stato particolarmente attento a lasciarmi attorno una bolla protettiva. Non amo particolarmente legare coi miei soldati, ma devo ammettere che da quando Riza e Hughes sono passati sotto un altro comandante ha iniziato a mancarmi il contatto umano. Così per una volta sto al gioco e non mi ritiro nella mia tenda come al solito, perché forse stasera ho bisogno di vedere attorno a me degli uomini e non delle uniformi.

«Breve ma efficace,» continua lui imperterrito, con un ampio sogghigno sulla sua larga faccia rubizza da oste. «Quand'è che ci mandano la prossima partita di cadetti?»

Alzo gli occhi al cielo e gli faccio cenno di tacere mentre ci addentriamo nell'accampamento. Si uniscono anche Charlie e Joel, che sembrano pericolosamente pieni di energia, e mi chiedo se quella dei poveri uomini distrutti dalla fatica non fosse una messinscena per tornare prima al campo. Ma in cuor mio so che non mi mentirebbero mai.

Sembrano apprezzare il fatto che mi stia intrattenendo con loro, ma non capisco se sia semplice deferenza nei confronti di un superiore o sincero piacere: dal modo in cui camminiamo, appaiati e non con me a guidarli, sembrerebbe una semplice uscita tra commilitoni di pari grado. Mi rilasso leggermente.

«Maggiore, certo che stavolta ci ha deluso,» afferma Charlie scuotendo la testa e facendo sobbalzare la sigaretta che gli pende dalle labbra. «Vista la giornata di merda che abbiamo avuto ci si poteva impegnare un po’ di più,» continua, indirizzandoci con decisione verso il tendone del rancio.

«Si meritava minimo mezz'ora,» borbotta Joel con la sua voce distrutta dal fumo, sfregandosi la barba troppo lunga.

«E tu ne sai qualcosa, mh?» lo rimbecco divertito.

«Almeno ho imparato la lezione,» si schermisce lui, con pacatezza.

Non credo di averlo mai sentito pronunciare più di una frase per volta, così non mi stupisco quando non aggiunge altro e si chiude in uno dei suoi soliti silenzi meditabondi. Ci mettiamo in fila stancamente, gavette e cucchiai alla mano con annesso stomaco brontolante.

Cerco lo sguardo di Hughes e Riza nel marasma di mantelli bianchi assembrati davanti alla tenda del rancio, ma probabilmente la loro squadra è ancora in trasferta, altrimenti mi starei già sorbendo i deliri del mio migliore amico sulla sua fidanzata. Preferirei ascoltarli, piuttosto che saperlo – saperli – in territorio ostile.

Deglutisco polvere e torno a concentrarmi sulla schiena del soldato davanti a me, che sembra avanzare sempre più lentamente.

«È solo un ragazzo,» commenta improvvisamente Joel, mangiandosi le parole.

«Non ho bisogno di sbarbatelli sanguinari nella mia truppa,» replico, forse troppo duramente.

Charlie mi lancia un'occhiata più che eloquente, e se fossimo più in confidenza mi aspetterei una frecciatina sulla mia carenza di barba. È il tipo di commento che avrebbe potuto fare Oskar. Il pensiero mi folgora e mi incupisce il volto, mentre Richard continua:

«Devono essere disperati, se continuano a mandare quaggiù i cadetti.»

«Non sono i primi e non saranno gli ultimi,» replico con noncuranza, e il mio pensiero corre a Riza.

Segue un silenzio pesante, che alla fine mi sento tenuto a rompere.

«Imparerà in fretta, come tutti. Non è certo il primo che metto in riga,» e scocco un’altra occhiata saputa a Joel, che fa spallucce.

«Ohi, va così, quando metti un fucile in mano a uno zotico che sa usare solo zappe e forconi, no?» commenta Charlie, scivolando nel suo comico, cantilenante accento del sud.

«Parli di te?» lo rimbecca Richard con una risata, e si rimedia uno spintone che fa ondeggiare la calca attorno a lui in un coro di insulti e proteste.

«Quello non mi sembra uno zotico, ma uno appena uscito da un salottino da tè di Central,» intervengo io, con noncuranza e una goccia d’acredine che suscita consenso.

Il discorso vira sugli anni di preparazione militare, tra Accademia e corsi ufficiali, ma io non spiccico che qualche parola di circostanza. Mi concentro sul fondo metallico della gavetta, che riflette i miei lineamenti leggermente distorti.

Dopo mezz'ora buona di attesa abbiamo finalmente una scodella di zuppa calda e un tozzo di pane un po' raffermo in mano – stasera ci è andata bene – e ci sediamo ai margini del campo, su alcuni massi tondeggianti che i miei tre compagni hanno rivendicato come propri fin dal nostro arrivo a Tiham.

Nonostante ci sforziamo di non trangugiare la nostra razione, sparisce come sempre troppo rapidamente in pochi morsi e cucchiaiate voraci prive di gusto. Almeno placherà il nostro stomaco fino a domattina; lo sento addirittura pieno, ormai abituato banchettare con porzioni di cibo ben più infime, e tanto basta.

Ultimamente circolano voci su delle rivolte contadine nell’area orientale, e il fantasma della carestia ha già iniziato ad aleggiare al fronte. Nessuno osa però parlarne apertamente.

Charlie e Richard si accendono un’altra sigaretta e se la passano facendo un paio di tiri a turno. Joel se ne accende una per sé in disparte e si rigira tra le mani la catenina che tiene appesa al collo, facendo tintinnare tra loro medagliette e fede nuziale. Io me ne sto in silenzio, la testa libera da pensieri e il fumo del sonno che mi risale agli occhi.

Inizio a sentire freddo: le temperature si sono abbassate drasticamente negli ultimi giorni e le nostre uniformi invernali tardano ad arrivare. Cerco di scaldarmi stringendomi nel mantello, ma infine mi alzo per raccogliere della sterpaglia e qualche rametto; li raduno al centro del nostro piccolo cerchio e accendo un fuoco con uno schiocco di dita. Gli altri accolgono la cosa di buon grado e imprecano contro i rifornimenti tardivi e i superiori e la guerra.

Io fisso ipnotizzato le fiamme, ma quando inizio a distinguervi volti e forme distolgo lo sguardo.

«Ho una sorpresa per voi,» annuncia di punto in bianco Charlie, e si inclina all'indietro per alzare un sasso piuttosto pesante a circa un braccio da lui.

Al di sotto rivela un'infossatura, dalla quale estrae con fare trionfale una bottiglia di quel che sembra whiskey. Richard lancia una sonora esclamazione e siamo in tre ad intimargli il silenzio, nonostante i nostri occhi brillino al pensiero di un buon bicchiere per scacciare freddo e fatica.

«Come hai...» inizio, ma poi scuoto la testa nel notare il suo ghigno machiavellico. «È meglio se non lo so,» concludo rassegnato.

La bottiglia fa un paio di giri e ognuno la maneggia come se fosse un oggetto sacro, con gesti quasi rituali. Beviamo poco più di un sorso a testa, preferendo mantenerci vigili. Io mi bagno appena le labbra: la mia ultima esperienza con l'alcool non è stata delle migliori e sento ancora una leggera nausea nel percepire il suo odore pungente. Alla fine, la bottiglia viene meticolosamente riposta al sicuro da mani e occhi indiscreti.

Mi sdraio con la schiena appoggiata al mio masso e ascolto i miei compagni parlare del più e del meno, delle ragazze o delle mogli, di vino e di cibo, di case vicine e lontane e di cosa faremo una volta tornati. La guerra rimane sullo sfondo, distante come gli spari isolati che risuonano oltre le basse colline sabbiose. Intervengo di tanto in tanto, ma mi tengo sulle mie e loro non mi forzano.

Dopo poco la stanchezza prende il sopravvento e il nostro chiacchiericcio scema nel silenzio.

«Manca poco, me lo sento,» sospira Richard come ogni sera, stiracchiandosi.

Joel stringe nel pugno il suo ciondolo e tace.

«Ho smesso di illudermi,» replica Charlie, lapidario.

Mi incupisco e non commento. Siamo in guerra da quasi sette mesi e ancora non riesco a scorgere la fine di questo massacro. Ogni giorno si sussegue all'altro in una marcia agonizzante che si lascia dietro una scia di sangue.

Per un istante mi riaffiorano alla memoria dei volti familiari, speranzosi, con occhi rivolti a una fine vittoriosa che tutti noi pensavamo vicina. Prima che possano consolidarsi serro le palpebre e li scaccio, anche se so che torneranno a visitarmi stanotte.

Riprendo a guardare il cielo, godendomi la torpida miscela di sonno e alcool, stupidamente contento di avere la pancia piena e di essere ancora vivo.

«Finirà presto,» mormoro, in uno sbuffo di vapore che si dissipa subito.

È quasi una preghiera, ma nessuno la sente. Oltre la perenne coltre di fumo non si scorge alcuna stella. Il cielo è nero come inchiostro.


 
 

Note:
-Tutti i cognomi dei soldati sono ispirati a mezzi di trasporto bellici o armi, rimanendo in linea con il "metodo Arakawa".
-Il modo di parlare dei soldati, in particolare di Charlie, è in alcuni punti volutamente scorretto o pieno di ripetizioni/elementi pleonastici.
-Ho invertito l'ordine dei capitoli e accorpato l'ultimo col secondo.

 

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Capitolo 5
*** I: Quelle notti nere - di polvere e spari – Capitolo 3 ***


.3.
 
 
 


11 Novembre 1908,
Distretto di Tiham,
01:00


 
Di notte, il buio dietro le mie palpebre non è immobile, né davvero nero.

A volte si tinge di una sfumatura rossastra, di tramonti infuocati soffocati dagli incendi e dalle ceneri; si popola di figure deformi, dalle articolazioni aguzze e rigide come carbone, con volti indistinguibili e privi di occhi, i denti troppo bianchi digrignati contro di me.

Altre si fa grigio, avvolto da una nebbia caliginosa che ottura i polmoni, nella quale si aggirano fantasmi di fumo con mantelli bianchi, sporchi di sangue così vivido da ferire le retine.

A volte mi oppongo al sonno e penso, do forma agli spettri che si annidano nella mia testa nella speranza che renderli più reali possa aiutarmi a combatterli. La maggior parte delle volte mi annego nella stanchezza dopo pochi minuti, sopraffatto da un dolore soffuso che sembra tirare le cuciture della mia anima quasi a volermela strappar via – li sento ridere, o forse piangere.

E quando penso, tornano i caduti. I compagni, i senza nome, tutti quelli che ho lasciato nella sabbia con gli occhi egualmente neri e sbarrati nel nulla. Arrivano in una massa confusa, mi assalgono e poi recedono, fingono di andarsene, perché non si allontanano mai veramente. Si nascondono solo negli angoli bui del mio inconscio, pronti a riemergere.

Stanotte richiamo uno ad uno i miei compagni perduti, in una processione ordinata, come alle esercitazioni dell’Accademia. Mi scopro a ricordare tutti i volti, tutti i nomi, il grado, il modo in cui se ne sono andati. I ricordi precedenti, con loro ancora in vita, sono sbiaditi e perdono consistenza con ogni giorno che passa, come fossero solo racconti di eventi vissuti da qualcun altro. 

Non mi sforzo di recuperarli. Li lascio affondare nell’oblio, prendo un paio di gocce di laudano e sprofondo assieme a loro prima che diventino troppo reali.



12 Novembre 1908,
Distretto di Tiham,
20:20
 

Mi agito nel sonno leggero di chi dorme negli orari solitamente occupati dalla veglia.

Non sono del tutto addormentato, e percepisco gli spasmi impercettibili che mi attraversano i muscoli, logorati dalla tensione residua della battaglia. Oscillo nel dormiveglia con un senso di nera vertigine, mentre odori e colori irreali mi lambiscono i sensi, scaglie oniriche di sogni diafani – fiamme e spari e strade assolate di campagna; urla e sangue e il profumo di caprifoglio nelle serate estive. Per un attimo sento la consistenza dell’erba secca e morbida sotto il fianco, subito sostituita dal sottile strato di coperte adagiato sulla dura terra battuta. Poi sono di nuovo nel buio, incorporeo, con solo il dondolio stanco dei miei pensieri a cullarmi.

Una sagoma corre in lontananza, ora tra rovine diroccate, ora tra steli dorati inframezzati dai vigneti. Corre, si arrampica agile su dune friabili, scala collinette fiorite, schiva monumenti sfregiati e alberi rigogliosi senza fermarsi, ora con una divisa addosso, ora con un vestito di lino leggero, senza fermarsi, affannata, inseguita da un sibilo acuto, più forte, sempre più forte, assordante…

Basta una lieve pressione sull’avambraccio a farmi spalancare gli occhi, strappandomi dall’oblio con artigli affilati: mi sollevo a sedere di scatto, la destra già pronta a trasmutare e le pupille che faticano a mettere a fuoco il bersaglio nella penombra della tenda.

«Ehi, guerriero, metti via quell’affare,» mi rimbrotta una voce nota, scansandomi il polso senza tante cerimonie.

Il volto di Maes emerge dallo sfondo annacquato, prendendo man mano forma e consistenza davanti a me come un riflesso in una pozza d’acqua agitata. La lente incrinata degli occhiali, il cerotto sulla fronte, la barba mal rasata. Abbasso la mano lentamente, le dita ancora contratte nell’atto di schioccare, e mi sento implodere i polmoni mentre cerco di trattenere l’affanno, riducendolo a respiri appena più sonori del normale.

«Uno di questi giorni ti incenerirò per sbaglio, Hughes,» sbotto con voce impastata, stropicciandomi gli occhi ancora appesantiti dal sonno, ancora fissi sulla sagoma in corsa già sbiadita dalla mia memoria.

«Certo, perché un nemico avrebbe l’accortezza di svegliarti, prima di ucciderti,» sbuffa lui, in tono canzonatorio.

Faccio per abbozzare un sorriso, ma l’intenzione si scontra con l’indolenzimento che mi morde le giunture non appena provo a muovermi. Fa sempre più freddo, e la mia divisa non è più abbastanza per tenerlo a bada.

«Sei sopravvissuto anche oggi solo per venire a seccarmi?» lo rimbecco, ma sono contento di vederlo.

Almeno finché non comincerà a straparlare della sua ragazza a Central… allora, forse, potrei cambiare idea. Hughes fa una smorfia indecifrabile, ed è come se stesse rimangiando un commento a forza, per poi accennare col capo al di fuori della tenda.

«Non so se hai dei programmi per la serata, ma se avevi intenzione di cenare arrivi tardi,» mi annuncia infine.

Un crampo allo stomaco mi ricorda la mia fame mai del tutto sopita, e lancio un’occhiata oltre il lembo della tenda: il cielo è già scuro, con solo un fievole riverbero sul profilo delle dune. Impreco tra i denti, alzandomi con più lentezza di quanto vorrei. Ho dormito molto più di un’ora.

«Avevo detto a quell’idiota di Stuart di svegliarmi per tempo…» sibilo, mentre il mio stomaco insiste nel farmi notare che l’ultimo pasto caldo è stato questa mattina.

Hughes si alza, dandosi delle pacche sulle ginocchia per scrollar via la polvere sottile.

«Credo che “quell’idiota di Stuart” sia il soldato che si è beccato una pallottola vagante ai margini del campo,» mi informa, privo d’inflessione, ma con occhi intensi. «È della tua truppa, no?»

Mi passo una mano tra i capelli scomposti, pettinandoli al meglio che posso con le dita.

«Sì,» annuisco infine. «È morto?» chiedo poi, infilando le braccia nelle maniche del pastrano chiaro, che uso come coperta.

«Non saprei. Controlla in infermeria.»

«Magari domani,» liquido la questione, scostando la stoffa cerata della tenda e uscendo all’esterno.

L’odore di fumo, attutito all’interno, si intensifica pungendomi le narici, e l’aria frizzante scava un canale limpido tra i miei pensieri, rendendoli più navigabili. Un pallido alone mi esce dalla bocca, appena percettibile ma destinato a farsi più denso e visibile con ogni giorno che passa [1]. L’aria è sbagliata: manca la scia fragrante di foglie cadute, il loro fruscio tinto di colori caldi, il profumo delle caldarroste che viaggia nell’aria.

«Non è colpa tua,» mi riscuote Hughes, dietro di me.

«Lo so,» rispondo piattamente, muovendomi in direzione della piazza d’armi. «Non posso certo coprire le spalle ai miei soldati anche quando dormo, mangio o vado al cesso,» borbotto, in sincrono col mio stomaco ridotto a una noce.

Maes non commenta, ma colgo un’occhiata strana da parte sua, la seconda stasera.

«Cosa?» chiedo, fermandomi e voltandomi verso di lui più accigliato di quanto vorrei.

«Niente,» scrolla le spalle lui. «Penso solo che ti conosco troppo bene,» aggiunge poi, col fantasma di un sorriso a tirargli le labbra.

Sospiro tra me, ma non lo contraddico. Se potessi, li proteggerei tutti, sempre. Ma quanto può suonare ipocrita, detto dalla bocca di uno che per proteggere brucia, devasta e lascia altre persone ad agonizzare tra le braci?

Mi limito a rivolgere lo sguardo al cielo opaco, segnato da grigie dita di fumo che sembrano volerci calare addosso per ghermirci. Per portarci via, uno ad uno, verso un luogo d’ombra privo di stelle, perché quelle non esistono più. Sono state inghiottite mesi fa dalla coltre perenne degli incendi e delle esplosioni. Ogni volta la loro assenza mi scava gli occhi, mi fa sentire cieco.

«Forse non mi conosci così tanto,» replico, in un mormorio appena udibile.

La sua risposta è una stretta di spalla che mi allontana dal buio.

Arriviamo in silenzio alla struttura pericolante che ospita le cucine. È difficile determinare che tipo di edificio fosse prima: le architetture qui sono diverse, estranee; quello che potrebbe sembrare un tempio è in realtà una scuola, quello che potrebbe essere un condominio è un ospedale.

Questo è un anonimo cubo di blocchi squadrati, un tempo chiari, ora anneriti dalla fuliggine e dai fumi delle cucine, con una piccola cupola sfondata sul tetto. Nei frammenti sparpagliati a terra si intravedono intricati motivi geometrici di un azzurro pallido, forse l’illusione di un cielo limpido.

A giudicare dall’affaccendarsi degli addetti, l’ora di cena è passata da un pezzo. I fuochi di cottura sono spenti, gli enormi pentoloni rovesciati, mentre un ragazzino smilzo, forse figlio di uno dei militari, li pulisce uno ad uno a colpi di spazzolone e sabbia. L’acqua è troppo preziosa per essere sprecata.

Individuo il capo-cuoco seduto su una rampa di scale crollate, intento a sorseggiare da una fiaschetta metallica. Hughes mi dà di gomito, attirando la mia attenzione vagante.

«Puoi corrompere Hershel con le sigarette,» mi informa, dall’alto di chi ha passato già più di un mese a Tiham, contro le mie due settimane scarse.

«Peccato che non fumo,» replico, tirando seccamente su col naso e prospettando già una notte a digiuno.

Hughes rotea gli occhi al cielo e mi piazza in mano una stecca di sigarette, che prendo di riflesso, per poi scuotere la testa.

«Prendile e basta, ne fumo comunque troppe,» mi incita, mettendo a tacere le mie proteste con veemenza.

Le sollevo nella sua direzione in segno di ringraziamento, e dopo cinque minuti passati a contrattare con Hershel, ci avviamo di nuovo fuori, io con una razione sottovuoto indefinibile e senza etichetta, lui intento a fumare quella che sembra la sua ultima sigaretta.

«Hai rimediato solo quello?» sogghigna Hughes, con un cenno del mento verso la scatola di metallo, e io alzo le spalle. «Farsi bistrattare così da un Sergente… dov’è finito il tuo orgoglio, Alchimista di Fuoco?»

«Sotto qualche centinaio di cadaveri bruciati,» replico secco, prima di poter cambiare traiettoria ai miei pensieri.

Mi mordo la lingua quando Hughes ammutolisce, anche se non sembra portarmi rancore. Non lo fa mai, per quanto ne avrebbe tutte le motivazioni, visto il mio umore perennemente scostante. La sua giovialità si smorza, e quasi penso che stia per congedarsi; invece mi segue con le mani in tasca, rimandando probabilmente i suoi vaneggiamenti su Gracia a un momento più ameno.

Ci fermiamo nella parte est dell’accampamento, sotto un’altura scoscesa che funge da difesa naturale. Ai suoi piedi, sono abbattuti i resti di un passaggio coperto un tempo fiancheggiato da colonne, che sono state spostate e usate come rinforzo nelle fortificazioni. Ne rimane una, spezzata, un mozzicone bianco riverso sul terreno brullo. I resti del giardino circostante sono ingialliti, a tratti carbonizzati; l’unico albero è stato sradicato da una bomba, il laghetto è stato prosciugato già da tempo, con le alghe e le ninfee rinsecchite ancora incollate al fondo.

Mi siedo con pesantezza sul capitello scheggiato della colonna. Questo è una sorta di luogo privato, uno dei pochi in cui posso stare davvero solo coi miei pensieri, che spesso si trovano a rievocare l’aspetto originario del giardino, una piccola oasi lussureggiante ora non dissimile dal deserto che la circonda, pronto a inglobarla.

Hughes lo sa, ma si siede comunque accanto a me, sempre senza parlare, e la sua presenza non mi disturba. Apro la scatoletta con un rumore d’alluminio piegato, ne registro di sfuggita il contenuto poco appetibile e recupero comunque il cucchiaio dal tascapane. Non voglio neanche sforzarmi d’immaginare cosa sto mangiando.

Uno sparo riecheggia in lontananza, seguito da una raffica ravvicinata. Molti alzano la testa, ma non c’è allarme; io continuo a mangiare cercando di non ingozzarmi.

Si sente un rimbombo basso, poi un frastuono metallico, simile a uno sferragliare di catene. Un paio di cupi colpi di cannone ci fanno vibrare le ossa, chiudendo la sequenza, poi torna il silenzio. Lo scontro riprende, ma i suoni ci arrivano così flebili da essere coperti dagli schiamazzi del campo.

«Grand non era in permesso?» chiede Hughes, guardando in direzione della battaglia, dove all’orizzonte si intravede di tanto in tanto il chiarore di una trasmutazione.

«Lo ha rifiutato,» rispondo, inghiottendo a forza una cucchiaiata insipida. «Ha detto che “lui serve qui”,» concludo, e non aggiungo altro per non palesare troppo la mia antipatia per l’Alchimista di Ferro e Sangue.

Hughes prevedibilmente si acciglia: so che è di un altro avviso, essendo già stato sotto il suo diretto comando.

«Beh, non ha tutti i torti,» replica, con uno sbuffo che forse è stanchezza, forse frustrazione.

«L’hanno riassegnato a Gunja [2]. Sperano che distrugga la sacca di resistenza,» bevo un po’ d’acqua dal sapore di cloro dalla borraccia, «ma per come la vedo io sta solo distruggendo la sua brigata,» non mi trattengo dal commentare.

«A quanto pare sposteranno a Gunja anche me,» mi rivela, ignorando la frecciatina, e io stringo di riflesso il manico della posata nel sentire questa novità. «Non è ufficiale, ma pare che vogliano riassegnare le truppe, visto che qui la situazione è più “tranquilla”.» [3]

Ci scambiamo uno sguardo, concordi sul fatto che non lo sia neanche lontanamente. Non con gli squadroni del Sangue di Ishvala in giro.

«Quindi anche Hawkeye riparte con te,» deduco, cercando di mostrarmi indifferente e tradendomi già col solo fatto aver posto la domanda.

«Già,» conferma lui, per poi chinarsi coi gomiti sulle ginocchia e scrutarmi a fondo da dietro le lenti. «Se vuoi ringraziarla, devi farlo entro domani. Stanno affrettando i preparativi,» continua poi, e nonostante il tono leggero riesco a percepire la sua curiosità.

«L’ho già ringraziata,» replico, bruciandomi più o meno consapevolmente quella scusa per interessarmi a lei e ingollando l’ultimo boccone del rancio, senza sentirmi più sazio di prima.

«Bene, perché senza di lei ce la saremmo vista brutta.»

«Già… non so come ho fatto a dimenticare il guanto,» butto lì. [4]

Lo so perfettamente, e la risposta la stringo tra le dita sottoforma di fialetta di vetro nella mia tasca. Allento la presa, o finirò per frantumarla.

«È lo stress,» risponde lui, con mio sollievo. «Ti logora fino alle ossa. Forse ti converrebbe tatuarti addosso il tuo scarabocchio come Komanche e Kimbly, così saresti sempre coperto.»

Lo spasmo che mi attraversa il cuore è così forte che temo mi abbia increspato la divisa.

«Non…» la mi voce si estingue, troppo debole. «Mi servirebbe comunque una scintilla; un tatuaggio risolverebbe solo metà del problema e un accendino è meno affidabile della stoffa d’accensione,» concludo infine, domando le mie parole traballanti e adottando un tono di consumata esperienza in materia.

«Ne capisci più tu,» mi concede Hughes, conciliante e ignaro.

E forse nota la mia tensione, nota il pallore del mio volto – forse, sicuramente – ma qui sul campo di battaglia sono normali, anonimi, quasi. Deglutisco saliva e polvere e sposto lo sguardo sul profilo aguzzo della cresta rocciosa.

«A proposito di Hawkeye… vuoi spiegarmi?» mi incalza poi, con un misto di curiosità e divertimento a illuminargli il volto.

Faccio appello al mio autocontrollo e impongo al mio viso di rimanere inespressivo, e alla mia lingua di non diventare tagliente per le connessioni inconsapevoli che sta facendo Hughes. Siamo stati attaccati, lei ci ha salvati, io non avevo il guanto. Chiunque farebbe queste domande, queste osservazioni. Butto fuori un respiro silenzioso e intriso di un vago senso di colpa, perché non dovrei nascondermi di fronte a Hughes.

«Ci siamo conosciuti da bambini, al villaggio dei miei.» [5]

«Siete in confidenza, mi sembra.»

«Io vivevo a East City, da mia zia, lei a Bushmills [6]. Ci vedevamo solo d’estate e per le vacanze di fine anno; giocavamo insieme, studiavamo...» Mi interrompo, temendo che quell’ultima parte possa risvegliare ricordi troppo vividi. «Non c’erano molti bambini della nostra età, e a nessuno piace stare da solo in vacanza,» continuo, scrollando le spalle a minimizzare la questione. «Siamo solo sorpresi di ritrovarci entrambi qui,» concludo, e questa è una verità.

“Sorpreso” non è tuttavia la parola giusta per la gelida pugnalata che mi ha trafitto le viscere nel vederla qui. Con le sfumature d’ambra liquida nei suoi occhi cristallizzate in lastre opache, coi riflessi di variopinte foglie autunnali ora smorte, calpestate da troppi piedi e accumulate ai lati della strada in pile marcescenti.

Non dovrebbe essere qui, anche se ne immagino il motivo; eppure chiederglielo mi terrorizza. Preferisco il tarlo insistente del dubbio a una certezza lancinante.

«Un’amica d’infanzia, insomma,» commenta Hughes, e odio la perspicacia che trapela dalle sue parole, innocentemente provocatoria.

«Sì, un tempo. Ci siamo persi di vista.»

È vero, anche se in modo diverso da quanto lascio intendere. Non ci siamo mai davvero persi di vista, sono solo cambiati i ritmi che regolavano il nostro rapporto; e in un certo qual modo, era più forte quando vedersi era un’occasione rara, speciale, da sfruttare fino in fondo e vivere appieno.

Ricordo l’attesa tra gennaio e giugno, quei sei mesi che sembravano eterni, e poi finalmente il breve lampo di colori – cieli tersi e campi di girasoli e tetti di tegole rossicci – che sembrava evaporare rapido come le pozzanghere dei temporali estivi.

Quando eravamo ancora troppo piccoli per avere il senso dei giorni e dei mesi, tenevamo d’occhio le file infinite di vigneti, sapendo che quando l’uva avrebbe cominciato a scurirsi sarebbe arrivato il momento di salutarci, almeno fino alla prima neve.

D’inverno era più difficile rendersi conto del tempo che passava. Erano due settimane che volavano in un battito di ciglia, con uno scoppiettio di fuochi d’artificio vivaci nel mezzo, e dopo mi rimaneva in bocca il retrogusto dalla cioccolata calda, più amaro di quanto realmente fosse, più amaro con ogni anno che passava.

Poi erano cominciate le estati mancate, gli inverni saltati. Il crescere senza vedersi, il mancarsi e il ritrovarsi adulti, quasi sconosciuti. Il conoscersi troppo, tra una lezione di alchimia e l’altra, il tenersi a distanza, tra un’ora di studio e tre di ozio sotto il gigantesco olmo su cui non ci arrampicavamo da anni, ma che rimaneva ancora il nostro punto d'incontro.

«È stata sfortunata.» La voce di Hughes mi fa sobbalzare. «Come tutti i cadetti diplomati quest’anno,» aggiunge poi, mesto.

«Non sapevo neanche che si fosse iscritta all’Accademia,» mi lascio sfuggire, e faccio di tutto per non incontrare i suoi occhi.

«È normale, se vi siete persi di vista…» osserva lui, sottintendendo il contrario ma avendo la buona grazia di non esplicitarlo.

«Sì, è solo…» Rastrello la mente alla ricerca di una spiegazione coerente. «Bushmills è piccola, le voci girano, tutti sanno tutto di tutti e zia Chris è una pettegola,» alzo le spalle a mo’ di giustificazione, con un mezzo sorriso. «Ha mantenuto qualche contatto lì, ed è strano che non me l’abbia detto. Le sarà sfuggito.»

Hughes non risponde, ma lo vedo sorridere di nascosto e volgo gli occhi al cielo. Lui non insiste, ma so che continuerà a stuzzicarmi al riguardo.

Magari uno di questi giorni gli spiegherò tutto. E capirà che tra noi non è come pensa... non del tutto almeno, o forse è molto di più.

Che quello tra me e Riza è un vincolo basato su presupposti diversi da quelli che uniscono le persone ordinarie: amicizia, affetto, amore, fiducia... sono concetti ora sovrascritti e distorti da formule alchemiche, sabbia e sangue, a siglare un legame indissolubile che solo in parte ha a che vedere coi sentimenti. Che preferiremmo molto, entrambi, essere solo delle persone ordinarie.

Che c’è un motivo dettato dal cuore e non dalla mente, se non ho un cerchio alchemico tatuato sul dorso della mano.

Magari uno di questi giorni glielo dirò. Presto, prima che la guerra ci separi di nuovo.



 
 
Fine Parte I
 
 
 


Note:

[1] Ishval è descritta e rappresentata come una terra desertica; di conseguenza, vi è una forte escursione termica tra il giorno e la notte. Vi sono molte somiglianze con un paese mediorientale, il che mi ha portato a ipotizzare che gli inverni possano essere molto rigidi, come in Iraq, Afghanistan, Siria e altri paesi dove temperature basse e neve sono frequenti anche in zone aride e sabbiose.

[2] Gunja: distretto citato nel manga, dove appunto è stanziato Hughes quando Logue Lowe, guida spirituale degli Ishvaliani, si consegna a Bradley nel tentativo di siglare una pace.

[3] Ricordo che Ishval è un’intera provincia di Amestris. Stando alle mappe, la nazione sarebbe grande all’incirca come la Francia, e in rapporto Ishval sarebbe vasta più o meno quanto la Provenza. Va poi tenuto conto del fatto che la ribellione si è espansa nell’intera East Area, assumendo quindi proporzioni gigantesche e difficilmente controllabili. Si giustifica così la lunga durata della guerra (1908-1909) nonostante gli Alchimisti arruolati. NB: I nomi dei distretti sono quasi tutti di mia invenzione, salvo diversa indicazione.

[4] Riferimento all’episodio riportato nel manga, in cui Roy e Hughes vengono provvidenzialmente salvati da Riza.

[5] Tutto ciò che seguirà qui e nei prossimi capitoli circa il passato di Roy e Riza sono mere speculazioni e frutto di headcanon consolidati negli anni.

[6] Già citato in precedenza, è un villaggio dell’East Area fittizio, anche se il nome richiama una cittadina dell’Irlanda del Nord che ho visitato e da cui ho tratto ispirazione (lì si produce un pregiato whiskey, in quella fittizia vino).

 

Note Dell'Autrice:

Cari Lettori,
arrivo finalmente col successivo capitolo della raccolta, nel quale spero troverete molti riferimenti familiari, prima fra tutti la comparsa di Hughes. Ovviamente nella storia c'è molta speculazione basata sui missing moments, ma spero che apprezzerete la mia visione e gestione dei personaggi. Roy può sembrare un po' distante dalla versione del manga/anime, ma qui ha ancora 22-23 anni, contro i 29-30 del canon, e ho voluto enfatizzare quanto non sia ancora del tutto maturo, né in grado di elaborare ciò che accade attorno a lui e per causa sua.
Tutto ciò che non è chiarito dalle note troverà spiegazione più avanti ;)

Ringrazio enormemente lovelyhinata per aver recensito lo scorso capitolo, e la mia carissima Miryel per il supporto e l'entusiasmo dimostrato per questa storia, oltre che per la fornitura clandestina di fanart per ispirarmi <3
Al prossimo capitolo, spero presto,

-Light-

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Capitolo 6
*** II: Grandi speranze – Capitolo 1 ***


Parte II
 
Grandi Speranze
“Avevamo diciott’anni, e cominciavamo ad amare il mondo, l'esistenza: 
ci hanno costretti a spararle contro.”

[E. M. Remarque – Niente di nuovo sul fronte occidentale]



.1.
 
 
 
 
 
[Sei mesi prima]

19 Maggio 1908
Treno EC47 East City-Resembool, East Area


«Bushmills! Stazione di Bushmills!»

Il capotreno suona la campana della locomotiva, intimando a un plotone di qualche decina di soldati di affrettarsi a salire a bordo. Sbircio tra le assi asimmetriche accanto a me, in cerca di qualche faccia familiare, ma sono tutti volti sconosciuti persi in uno sfondo blu di uniformi.

Il nostro vagone dondola leggermente ogni volta che qualcuno sale dal portellone con passi pesanti di anfibi chiodati. Entrano quattro uomini, che si stringono sul fondo del grande scompartimento unico cercando di non dare troppo nell'occhio.

Allungo il collo per guardare dalla fessura superiore e intravedo il campanile del municipio, con l'orologio che segna le otto passate; ancora oltre, il profilo delle colline terrazzate, ricoperte di vigneti. Cerco di scorgere il tetto della mia vecchia casa, ma è coperto da un frutteto.

«Ehi, Roy, altri tre secondi e perdi il turno,» mi riscuote Oskar, schioccandomi le dita vicino all'orecchio.

Mi volto infastidito dal gesto, lancio una breve occhiata alle mie carte e a quelle sparse per terra e ne butto una senza pensare troppo. Sto comunque perdendo.

«Lo stai ripulendo di nuovo, Rod.»

Oskar dà di gomito a Roderick, tentando allo stesso tempo di sbirciare la sua mano, ma tutto ciò che ottiene è uno spintone.

«Baro,» lo accusa semplicemente Jace, rubandogli la sigaretta di bocca e mandandolo subito fuori dai gangheri.

Mi sforzo di sorridere, a dispetto del nervosismo che si sta facendo strada in me. L'euforia dei miei compagni d'Accademia è ancora al massimo… la mia ha iniziato a scemare già dopo le prime due stazioni.

Il portellone scorre sui suoi cardini arrugginiti chiudendosi con uno schianto di legno vecchio, e il vagone piomba nella penombra trafitta da fievoli raggi di luce. Il treno si rimette lentamente in marcia con un ululato della locomotiva, arrancando verso est.

Un nodo mi stringe lo stomaco; non so neanche dire se sia un'emozione positiva o meno. So solo che sono stanco di stare rannicchiato per terra e che pagherei cenz sonanti per potermi sgranchire le gambe.

Mentre Oskar, Roderick e Jace si accapigliano tra loro per chi debba pescare dal mazzo, io guardo per l'ennesima volta i nostri compagni di viaggio, tutti seduti per terra e impegnati come noi a giocare a carte, fumare o bere di nascosto e chiacchierare a gran voce facendo un baccano infernale. Mi chiedo che condizioni regnino nei vagoni dei soldati semplici.

Noi ufficiali e sottoufficiali appena diplomati all’Accademia abbiamo almeno qualche privilegio, per esempio avere abbastanza spazio per respirare. C'è un’atmosfera quasi goliardica, anche se si coglie una traccia di tensione, sempre più densa man mano che scorrono le stazioni. Nessuno di noi ha idea di cosa ci attenda all'arrivo.

«Tutto bene?»

Mi accorgo con lieve imbarazzo di stare fissando involontariamente la ragazza che mi siede accanto, stretta tra noi, la parete di fondo e un altro capannello di soldati.

«Scusa, ero sovrappensiero,» dico distogliendo lo sguardo, per poi rimproverarmi mentalmente.

Sono un ufficiale adesso: non dovrei scusarmi coi miei inferiori in grado. La ragazza alza le spalle gracili e accenna un sorriso, a indicare che non fa nulla, e pare anzi incline a parlare con me. Sembra sola e molto a disagio, compressa com'è tra due chiassose compagnie di commilitoni.

Oskar mi richiama all'ordine con una gomitata e noto il suo sguardo malizioso nel vedere che sto parlando con una ragazza. Io sospiro, mi volto brevemente e getto silenziosamente a monte le mie carte per tirarmi fuori dalla partita, sollevando un coro di scherno. Purtroppo, lascio in tavola anche trecento cenz e mi guadagno gli insulti di Jace, al quale ho rovinato la mano.

Finalmente libero dall'onere del gioco mi giro verso di lei, che mi guarda con un sopracciglio scuro appena inarcato, chiaramente divertita da quanto appena accaduto.

Ha occhi molto grandi, quasi neri, che assieme alle lentiggini e al fisico minuto le danno un'aria da cerbiatta difficilmente accumunabile a un militare. I capelli castano chiaro sono fermati in una piccola e stretta crocchia sulla nuca. La divisa le sta leggermente grande, e per camuffarlo ha allacciato al massimo ogni bottone e cinghia, aumentando solo l'impressione di essere esile come un fuscello.

«Sei di East City, vero?» mi chiede un po' timidamente; deve aver riconosciuto l’accento.

Mi sento in dovere di renderle noto il mio grado, ma non voglio sembrare un gerarca, così decido di aspettare un momento più opportuno. Mi chiedo perché dobbiamo già indossare questi mantelli: oltre a essere pesanti e scomodi, nascondono anche le spalline, che fugherebbero ogni ombra di dubbio.

«Ero dislocato lì, ma sono di Bushmills,» accenno al finestrino, oltre il quale scorrono ancora file interminabili di vigneti.

«Allora non sono l'unica ragazza di campagna qua dentro,» scherza, mettendo in risalto le gote con un sorriso. «Presto servizio a Central, ma ero in permesso dai miei a Woodreigh. Sono salita qualche stazione fa.»

«Un posto quasi più tranquillo di Bushmills,» commento, sorridendo a mia volta.

Lei si limita ad alzare le spalle, concordando, poi mi tende la mano.

«Caporale Alena Perkins,» si presenta, con finta formalità.

Le stringo la mano e colgo l'occasione.

«Maggiore Roy Mustang.»

Vedo la sorpresa balenare sul suo volto e sembra improvvisamente a disagio. Si sottrae alla stretta, con occhi sgranati. Mi sento un po' in colpa nell'aver voluto per forza rivelarle il mio grado.

«Oh. Mi perdoni, Maggiore, non avevo realizzato che…»

«Non è un problema. Non m'importa molto dell’etichetta.»

Lei sembra leggermente rassicurata, ma mantiene un atteggiamento cauto. Non credo che nelle cittadine di campagna come Woodreigh si incontrino molti ufficiali superiori. Anche a Bushmills il massimo in cui ci si poteva imbattere era un Maresciallo impigrito dal sole e dalla monotonia.

«Maggiore... Mustang, ha detto?» sembrando decisa a non abbandonare più le formalità.

«Sì, esatto.»

Credo di sapere quale sarà il prossimo commento.

«È lei l'Alchimista di Fuoco?» chiede infatti titubante e, mi sembra, con una punta di incredulità.

Tiro fuori l’orologio d'argento dalla tasca a conferma delle sue parole. Lei lo guarda con sincero rispetto, ma non posso fare a meno di notare che è ancora perplessa.

«Devo anche sputare fuoco e fiamme per identificarmi?» dico, leggermente irritato.

«No, nossignore, è che...»

«Lo so, lo so: “ti immaginavo più vecchio”,» sbuffo, riponendo l’orologio in tasca. «I miei superiori ci tengono a ricordarmelo almeno una decina di volte al giorno.»

Lei non dice nulla, ma so che lo sta pensando anche lei. Sto seriamente prendendo in considerazione l'idea di farmi crescere la barba per evitare di venire costantemente identificato come un cadetto fresco di promozione. Coordinare una squadra e riuscire a farsi rispettare sul campo potrebbe diventare problematico.

Scocco un'occhiata un po' invidiosa a Roderick, che al contrario sembra molto più vecchio dei suoi ventidue anni, complici la sua notevole stazza e la chioma di capelli riccioluti che, unita alla folta barba, gli danno l'aspetto di un leone dalla criniera bronzea.

Mi sento quasi consolato nel constatare che, al contrario, Oskar dimostra circa la metà dei suoi anni, con quella treccina ridicola sulla nuca che si ostina a non voler tagliare, il volto arrossato da troppe lentiggini e la chiassosa esuberanza di un adolescente poco sveglio in preda ai bollori.

Scuoto la testa nel vederlo accapigliarsi con Jace, compassato come sempre di fronte alle sue escandescenze, ma con un brillio scaltro negli occhi chiari a indicare che si sta prendendo gioco di lui.

Nell’ora successiva parliamo poco e niente, ognuno troppo preso dai suoi pensieri. Il brusio dei soldati e lo sferragliare del vagone riempiono monotoni il silenzio e i miei compagni smettono finalmente di giocare a carte. Rod si assopisce, Jace fuma una sigaretta sovrappensiero, in piedi affacciato al finestrino posto in alto, e Oskar, irrequieto come sempre, si sposta carponi verso un altro gruppo e attacca bottone con dei coetanei.

Il treno rallenta sbuffando rumorosamente e inizia a frenare con un sibilo, fino a che non si arresta cigolando.

«Rochdale! Stazione di Rochdale!» si sgola il capotreno.

«Manca poco,» commento, rivolto a nessuno in particolare.

«Ottimista,» mi rimbecca Jace, sbuffando fumo e ciccando all'esterno.

Getta via la sigaretta e si siede di nuovo, scostandosi la ciocca scura che gli ricade costantemente sul volto allungato.

«Da Resembool a Ishval saranno ancora altre quattro ore di viaggio. Se saremo così fortunati da avere delle camionette e non dei carri.»

«Ora sì che mi fa meno male il culo,» borbotta Oskar, cogliendo l'occasione per tornare sui suoi passi e abbandonare una conversazione evidentemente molto noiosa.

Sembrano tutti di umore più serio, adesso, persino Oskar. Parliamo a bassa voce, quasi sussurrando.

«Stavo pensando...» esordisce Rod, stiracchiandosi con uno sbadiglio, ma si interrompe esitante.

Noi lo fissiamo interrogativi, invitandolo a continuare. So che anche Alena sta ascoltando; anche se abbiamo scambiato solo qualche parola di circostanza l'ho presentata agli altri e si è avvicinata alla nostra cerchia. Il treno si rimette in moto, sempre più pesante. Solo allora Rod parla, con la voce coperta dal brusio e dal cigolio delle ruote:

«Insomma… a Ishval andrà veramente così male come dicono?»

Lo ha chiesto in generale, ma guarda me, e così gli altri, probabilmente sperando che abbia informazioni di prima mano al riguardo. Illusi... credono davvero che io abbia qualche autorità. Mi prendo qualche secondo per rispondere.

«Non so nulla di preciso. Gli altri ufficiali superiori non erano molto propensi a parlarne.»

A parlarne con me, in realtà. Sono pur sempre un ragazzino, secondo i loro criteri, e il fatto di essere l'Alchimista di Stato più giovane è passato da vanto a svantaggio nel giro di pochi mesi.

«So solo che se la guerra va avanti da quasi sette anni non dev'essere rimasto molto da distruggere, ormai,» concludo evasivamente.

«Gli Ishvaliani sono tenaci.»

Oskar sembra insolitamente preoccupato nel pronunciare quel fatto, posto come debole giustificazione all'inconcepibile durata di quetsa guerra.

«Non che sia mai stata data loro la possibilità di arrendersi,» replica Jace, accigliandosi.


«Hanno scelto loro di finire questa guerra nel sangue,
» Rod punta l'indice in alto, in un'eloquente riferimento. «Vi sorprende?»

A questo punto Alena si sporge verso di noi, un po' in soggezione, ma quando parla la sua voce è ferma:

«Affatto. Amestris ha sempre finito i suoi conflitti nel sangue.» Quando vede che gli altri la stanno effettivamente ascoltando, continua: «E non è la prima volta che prolunga gli scontri per anni.»

«Bastardi,» ringhia Jace, il volto tirato, e Oskar gli stringe goffamente una spalla.

Tiro le labbra, in silenzioso cordoglio. La Guerra con Aerugo al Sud ha inflitto ferite insanabili a molti di noi, e Jace si porta l'annientamento di Fotset nel cuore anche a distanza di mezzo secolo. Alena esita ancora prima di riprendere:


«Ma perché adesso dovrebbero intraprendere uno sterminio?»

All'improvviso un profondo senso di disagio mi pervade e taccio.

«Piano con le parole. Stiamo solo andando a schiacciare le ultime sacche di resistenza. Cioè guerriglieri e miliziani armati fino ai denti che vanno a massacrare i nostri soldati e compatrioti.»

Oskar è aggressivo come sempre, ma il suo sembra un discorsetto imparato a memoria.

«L'Ordine 3066 era abbastanza ambiguo. Diceva semplicemente di eliminare ogni resistenza ishvaliana residua, credo senza curarsi delle vittime civili,» parlo a voce bassa, ma nessuno sta facendo caso a noi nel chiacchiericcio generale.

«Quello riguardava voi Alchimisti di Stato. E non si parla apertamente di sterminio,» ribatte Oskar, ma non suona più così sicuro.

«Pensi che andrò in battaglia come un lupo solitario? Sarebbe un suicidio. Avrò una truppa al mio comando, e potreste essere proprio voi. Non avrete ordini diversi dai miei.»

Per qualche secondo stiamo in silenzio, meditabondi.

«Credo che basterà eliminare gli ultimi ribelli, per far cessare le ostilità,» afferma Rod «Non c'è bisogno di fare terra bruciata,» conclude, e mi lancia un'occhiata forse pentendosi della scelta di parole.

«Già. E schierare gli Alchimisti in campo dovrebbe renderla una guerra piuttosto...» Jace cerca una parola adatta, «... rapida?»

Alzo le sopracciglia, scettico, ma allo stesso tempo il mio disagio aumenta nell'accorgermi di essere osservato da quattro paia d'occhi curiosi.

«Dipende,» dico distaccato.

«Abbiamo visto di cosa siete capaci. Ed era nella Piazza d'Armi, quindi immagino che non foste autorizzati a liberare il vostro potenziale massimo,»

Scrollo il capo: 
come al solito la perspicacia di Jace tende a irritarmi.

«Liberare il mio potenziale massimo di fronte a tutti sarebbe piuttosto stupido anche se fossi autorizzato,» commento; incrocio le braccia e fisso le carte sparse per terra, evitando di sbilanciarmi.

«Hai capito cosa intendiamo.» Oskar si sta innervosendo. «Volendo, potreste mettere fine alla guerra in poche settimane.»

Lo fisso senza dire niente. Non mi piace dove sta andando a parare l'argomento.

«Suppongo di sì. Dipende dai nostri ordini. E ci sono molti fattori da tenere in considerazione, almeno per quanto riguarda la mia alchimia.»

Cerco di essere il più ermetico possibile, ma so che vorrebbero farmi mille domande, nonostante nessuno di loro capisca una virgola di trasmutazioni. Noto che Alena ascolta con molto, forse troppo interesse.

«Con una fiammata ben piazzata potresti liberare... quanto? Un intero isolato?»

Mi corre un brivido lungo la schiena nel vedere che Jace sembra aver intuito un po' troppo chiaramente il mio “potenziale”.

«A malapena mezzo, a seconda della topografia del terreno,» mi schermisco in fretta. «Non è così facile come sembra. Non basta davvero solo "schioccare le dita",» aggiungo mordace a mo' di spiegazione, ma loro non demordono.

«Facciamo mezzo, allora,» interviene Oskar; mi fa un sorriso un po' dubbioso e si rivolge poi agli altri: «Adesso immaginate cosa lui e il Colonnello Grand potrebbero fare se unissero le forze.»

Loro fanno cenni d'assenso, visibilmente impressionati dall'idea.

«Grand distruggerebbe le barricate e tu faresti piazza pulita di ciò che resta,» conclude Rod.

«Se non per il fatto che tutto quel metallo tanto caro all'Alchimista di Ferro e Sangue finirebbe liquefatto dal mio fuoco e io rimarrei in campo aperto senza nessuno a coprirmi le spalle,» replico io piattamente, senza nascondere la mia antipatia. «Un ottimo bersaglio da tirassegno per i cecchini ishvaliani.»

Oskar sospira.

«Sei un guastafeste, lo sai?»

«Sono realista.»

«Allora comincia a pensare che realisticamente questa guerra durerà al massimo un mese,» mi rimbecca veemente, e scelgo di non insistere su quel punto.

«Resta il fatto che ormai l'intero Est è in conflitto. Non sarà facile riportare la situazione alla normalità in così poco tempo,» interviene Alena, dopo un lungo silenzio.

«La guerra è a Ishval ed è che si combatte. Gli altri sono solo scontri tra ribelli isolati e le guarnigioni del territorio; gli ishvaliani cadranno in ginocchio quando cadrà Ishval,» dice Oskar, con decisione.

A quel punto non posso evitare di guardarlo incredulo, e Jace s'infervora, perdendo la sua solita calma:


«Hanno distrutto interi villaggi, devastato le campagne e sottratto una parte di territorio ad Amestris. E ormai a East City c'è un attentato al mese! Questi li chiami scontri isolati?»

Oskar tentenna, ma gli lancia un'occhiata scettica in silenzio.

«Il governo non lascerà mai correre. È chiaro che noi siamo la spedizione punitiva,» dice Jace, e instilla in me una punta d'inquietudine.

«È da folli pensare che vogliano prendersela con tutta la popolazione,» s'intestardisce lui, evitando il suo sguardo.

Jace non ribatte. Quando Oskar s’incaponisce, è inutile intavolare discussioni.


«Oskar non ha tutti i torti. Ishval è in una posizione strategica rispetto ad Aerugo: non ha senso raderla al suolo.» Rod cerca di essere ragionevole e di calmare gli animi.

Vorrei credergli, ma tutto ciò che ho sentito su Ishval e questo brutto presentimento che mi stringe lo stomaco mi dicono che non sarà così. La guerra è iniziata con l'assassinio di un bambino. Cosa ci aspettiamo di trovare? Ma non voglio abbattere il morale del gruppo ancor prima di arrivare, così evito di esprimermi.


«Anche ammettendo che sia una situazione di merda... grazie agli Alchimisti abbiamo la vittoria in pugno, adesso,» Oskar mi stringe la spalla con fare rassicurante e io ricambio con un cenno d'assenso, nonostante tutto.

«E secondo me inviare tutte queste truppe serve solo a fare scena,» rincara Alena, alzando le spalle. «Alla fine sarete voi a dare una svolta alla situazione. –

«Sentito? Hai un' ammiratrice,» mi stuzzica Oskar, allentando la tensione.

«E piantala!» lo rimbecco, sorridendo mio malgrado, mentre Jace e Alena gli scoccano un'occhiataccia.

Sono riluttante ad accettare tutto quell'ottimismo ingiustificato, ma finisco col cedere per non provocare una lite, e perché in fondo voglio davvero crederci.


«Se le cose stanno davvero così basterà poco per indurre alla resa i ribelli. Non mi serve demolire una città... di solito una persona normale scappa dopo la prima fiammata che lancio. Lo stesso vale per Grand, Comanche e gli altri. Insomma, chi vorrebbe affrontare quel pazzo di Kimbly?»

A quel punto Oskar si lascia scappare una risatina.

«Il Maggiore Armstrong non avrebbe neanche bisogno di usare la sua alchimia...»

«Tramandata per generazioni dalla famiglia Armstrong!» interviene quasi meccanicamente Rod con voce stentorea, facendo girare mezzo vagone.

«Solo mostrando quella massa di muscoli farebbe scappare a gambe levate tutta Ishval.»

«Quindi... il tutto diventerebbe una specie di spettacolo per fenomeni da baraccone?» dice Jace, fingendosi pensieroso.

«Ehi!»

«Dai, non fare il prezioso!» mi spintona Oskar. «Come se sputare fiamme dalle mani fosse normale...»

«Io non sputo... oh, lascia perdere,» faccio un gesto esasperato, ma mi ritrovo a ridere con loro, come tante altre volte.

Sono contento di essere rimasto con loro invece di salire nei vagoni anteriori riservati agli ufficiali: non appartengo a quel mondo, non ancora, e ogni minuto passato coi miei compagni d'Accademia è importante.


«Resembool! Resembool! Ultima stazione! Prepararsi a scendere!»

All'annuncio iniziamo subito ad alzarci e radunare le nostre cose, mentre il treno rallenta sempre più fino a fermarsi. Mi metto lo zaino in spalla e aggancio l'orologio d'argento alla cintura, infilandolo in tasca e lasciando la catenella in vista.

Controllo che i guanti d'accensione siano al loro posto e mi inserisco nella coda che si è formata di fronte all'uscita del vagone. Ho il fondo schiena a pezzi e le gambe addormentate e cerco di sgranchirmele prima di scendere.

Mi incolonno dietro Oskar, e gli altri a seguire. Noto che Jace sta parlottando vivacemente con Alena, così guardo Rod subito dietro di me e ammicco verso di loro. Lui scuote la testa e io alzo gli occhi al cielo.

La porta scorrevole si apre e iniziamo ad avanzare lentamente, fino a che non metto piede sulla banchina malmessa di Resembool, accolto da una folata di vento caldo.


 


 

 

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Capitolo 7
*** II: Grandi speranze – Capitolo 2 ***


.2.




19 Maggio 1908
Stazione di Resembool, East Area
10:15
 
La prima cosa che mi colpisce è la calura, tanto che vorrei subito togliermi il mantello. Mi ero dimenticato quanto potesse far caldo qui, nelle zone rurali dell'Est. Se qui è così, non oso immaginare a Ishval, alle propaggini del deserto. Faccio qualche passo sulla banchina assolata per riattivare la circolazione e mi guardo intorno.

Scorgo solo campagna ondulata a perdita d'occhio, punteggiata dal bestiame. Su una collina lontana si erge una villetta affiancata da un albero, poco più a valle scorre un fiumiciattolo; lo attraversa un dimesso ponticello di pietra, sul quale trotterella pigro un gregge di pecore spronate dal pastore.

Solo noi soldati occupiamo la banchina in legno. Gli unici abitanti in vista sono il capostazione oltre il vetro fumoso della biglietteria e un contadino che conduce al giogo una coppia di buoi sulla strada sterrata poco più avanti; entrambi ci squadrano con diffidenza.

Si intravedono i segni della guerra: in lontananza ci sono dei campi bruciati e delle rovine di fattorie. Affisso al muro della stazione, un avviso spiegazzato ordina il coprifuoco dopo le sei di sera e accanto spicca un volantino di un verde vivo che invita i giovani ad arruolarsi “Per la vittoria di Amestris!


In uno spiazzo polveroso adiacente alla stazione sono schierati una ventina di camionette e una dozzina di carri attaccati a robusti cavalli da tiro nervosi. Metto più in vista l'orologio e cerco di lasciar intravedere le spalline sotto il mantello per aumentare le mie possibilità di aggiudicarmi un posto sulle camionette che, a quanto vedo da qui, hanno delle panche imbottite. Un lusso che sono deciso a conquistarmi.

Un Tenente Colonnello in un'uniforme sdrucita è incaricato di smistarci ed esegue il suo incarico con evidente insofferenza. Noto che zoppica vistosamente dalla gamba destra, che sembra più rigida del normale, e diventa chiaro perché sia stato relegato qui, lontano dai combattimenti.

Con mia sorpresa sono il primo ad essere chiamato, forse in virtù del mio status di Alchimista. Avanzo sotto gli occhi di tutti, ignorandoli, scambio qualche parola di circostanza col mio superiore e cerco di carpirgli delle informazioni sulla situazione a Ishval, ma lui deve aver ricevuto preciso ordine di non lasciar trapelare nulla, perché evade tutte le mie domande in scioltezza.


«Hanno davvero bisogno di voi alchimisti, Maggiore,» si limita a proferire piattamente, mentre confronta il numero sulle mie piastrine di identificazione con quello dell'elenco.

In un eccesso di zelo, mi fa anche esibire l'orologio d'argento. Mi sento fin troppo osservato, ed eseguo con riluttanza.

Finalmente mi assegna al distretto di Nasha: non ho idea di cosa significhi, né se sia un bene o un male. Sono solo lieto di essere in una camionetta e di potermi finalmente sedere più o meno comodamente. Blocco lo zaino tra i piedi e assisto allo smistamento dei più di cinquecento soldati ammassati poco più in là.

Mi rendo conto che staremo molto stretti; forse alcuni dovranno incamminarsi a piedi per poi essere raggiunti dalle camionette di ritorno. Chiacchierando con un altro paio di ufficiali vengo a sapere che molti altri treni sono in arrivo da ogni parte di Amestris, e che ci si aspetta un afflusso di più di diecimila uomini in appena tre giorni. Poco meno della metà dell'esercito è già dislocata a Ishval.

Mi chiedo come il governo pensi di gestire la situazione sugli altri confini: non mi sorprenderebbe se Creta o Aerugo approfittassero dei fronti rimasti sguarniti, e di fatto possiamo contare solo sulla difesa inespugnabile di Briggs al Nord, contro Drachma. Gli ufficiali condividono la mia preoccupazione, ma alzano le spalle: gli ordini sono ordini, e non si discute.

Oskar, Jace, Rod e Alena vengono assegnati con me, assieme a William e Dennis, nostri compagni dell'Accademia. L'altra dozzina di soldati stipati con noi sembra conoscersi a sua volta. Sembra che abbiano cercato di smistarci per Accademia o zona di provenienza, forse con l'obbiettivo di creare fin da subito affiatamento tra le truppe.

Dopo un'ora buona finalmente partiamo venendo sballottati su e giù mentre arranchiamo sulle strade sterrate di Resembool, e ognuno probabilmente rimpiange il treno. Oskar e Jace coinvolgono nella conversazione l'intero gruppo, e dopo pochi minuti mi ritrovo nel mezzo di una raffica di battute spinte e risate fragorose, alla quale prendo parte in modo più o meno discreto.

Non sono molto in vena di socializzare, considerando che potrei trovarmi al comando di questi soldati semplici, ma Oskar fa chiasso per tre, quindi vengo più o meno lasciato in pace.

Appoggio la testa alla parete metallica e fisso il soffitto di tela spessa. Ripasso mentalmente tutte le tecniche che ho messo a punto nei pochi anni in cui ho usato l'alchimia del fuoco e mi rendo conto di quanto siano vaghe e labili, imperfette.

Il Maestro Hawkeye sarebbe molto deluso. In realtà lo era già quando mi sono arruolato. Mi ritrovo improvvisamente a pensare che avrei dovuto avvertire Riza della mia partenza... ma forse è stato meglio così.

Non la vedo dal funerale, sarebbe stato... strano. Inopportuno, anche.

Non credo che sia questo, lo scopo per cui avrebbe voluto veder usate le ricerche del padre. Lo so in cuor mio, nel profondo, in quella nicchia nascosta che mi ostino a seppellire sempre più con ogni passo che compiamo verso Ishval.

I pomeriggi di studio a villa Hawkeye, costellati di discorsi adolescenziali e sguardi al futuro ciechi alle ombre che si allungavano sin da allora su Amestris, sembrano ora risuonarmi in testa come ammonimenti beffardi, con le mie affermazioni idealistiche gettate nel vuoto con la sicurezza dell'inesperienza e la voce ancora bambina di Riza che suonava troppo adulta nello smentirmi, nell'esternare tra le righe lo scetticismo verso una scienza che le aveva sottratto il padre.

Uno scetticismo che è venuto meno in ultima battuta, soffocato da una fiducia suggellata già un decennio prima con una giocosa stretta di mani infantili. Mani che adesso non sono più così innocenti, che portano sui palmi l'impronta della pelle dell'altro, delle matrici alchemiche che non dovrebbero mai essere vergati sotto la cute della propria figlia, né studiati dagli occhi di un allievo inesperto.

Serro i pugni nei guanti spessi e torno alle mie formule alchemiche tracciate su carta con penna e inchiostro, di gran lunga più rassicuranti e anonimi dei viluppi sanguigni che scorgo sempre in sovrimpressione nelle retine.

Non ho mai avuto modo di utilizzare l'alchimia in battaglia, se non per qualche esercitazione a East City, e quel fatto inizia a pungolarmi molesto, mettendo a nudo la mia inesperienza.

Mi consola il fatto che, se riuscissi a distinguermi sul campo, sarebbe relativamente semplice ottenere qualche riconoscimento, se non addirittura una promozione. Non mi è mai importato molto di scalare la gerarchia militare, ma devo ammettere che adesso il pensiero mi alletta, apparendo come un porto sicuro dagli orrori che mi aspettano in guerra.

Potrebbe essere un'occasione molto rapida per fare carriera e occupare una posizione rispettabile che mi eviterebbe di essere guardato dall'alto in basso dai miei superiori. Mi ritrovo a sorridere tra me. Quei matusa smetterebbero di fare nonnismo, se avessero una vaga idea di come potrei ridurli con un solo schiocco di dita.

E la paga dell'esercito è molto buona: sarebbe ora di ricambiare zia Chris per tutto ciò che ha fatto per me, anche se so che dovrò forzarla ad accettare ogni singolo cenz. E
difenderò Amestris dalle scorrerie ishvaliane”, come recitano i mille manifesti d'arruolamento affissi a East City.

Mi rabbuio di colpo: non voglio pensare agli ordini che ho ricevuto, soprattutto perché sono tutt'altro che chiari. Li nascondo nella nicchia a scomparsa del mio cuore, sapendo che non potrà reggere ancora per molto.

 


19 Maggio 1908
East Area
14:15


Dopo circa due ore, ci fermiamo brevemente a un pozzo nei pressi di una fattoria per dissetarci. Ci sparpagliamo qua e là lungo la strada, chi a fumare, chi a chiacchierare, chi a orinare, chi a sgranchirsi le gambe irrigidite.

Una banda di ragazzini smunti e cenciosi si avvicina a noi di corsa e si ferma a qualche decina di passi, facendoci smorfie e lanciandoci insulti sempre più fantasiosi. Uno ha l'idea di imitare il latrato di un cane, e dopo pochi secondi l'intero gruppetto si mette ad abbaiare vivacemente contro di noi, saltando qua e là.

Mi faccio più piccolo che posso, celando l'orologio d'argento. Qualche soldato li fissa infastidito, ma li ignoriamo finché non iniziano a tirarci delle pietre, e uno dei cavalli si impenna imbizzarrito, facendo oscillare pericolosamente un carro.

Uno dei sottoufficiali di scorta avanza verso di loro puntando minacciosamente il fucile e togliendo la sicura. Solo allora si dileguano, schernendoci ancora e arrischiandosi a lanciare qualche altro sasso da dietro un muretto.

Rod li guarda allontanarsi, d'un tratto pensieroso, e lo devo riscuotere con un colpetto per farlo salire di nuovo al suo posto.


«Avranno l'età di mio fratello,» commenta soltanto, scuotendo la testa in un moto che sa d'impotenza.

«New Optain è lontana dal fronte,» lo rassicuro, intuendo la sua preoccupazione implicita, e lui annuisce rapido, rivolgendomi un lieve sorriso grato.


Siamo di nuovo in marcia e nonostante la stanchezza continuiamo a parlare ad alta voce e a ridere.

La camionetta avanza col motore che borbotta quasi allegramente, e fuori vedo la campagna verdeggiante che scorre via, punteggiata qua e là da fattorie, mucche e pecore. Il terreno diventa a poco a poco più aspro e roccioso, e ben presto lascia il posto a una landa d'erba verdognola dalla quale si ergono di tanto in tanto dei covoni.

Si intravedono anche dei crateri probabilmente causati da esplosioni e mortai. Gli appezzamenti bruciati diventano più frequenti. Superiamo lo scheletro di un mulino a vento, che sembra levare verso il cielo le sue pale carbonizzate in segno di resa.

Smettiamo ben presto di guardare fuori e ci sentiamo in dovere di distrarci facendo ancora più baccano. Si parla di scontri e battaglie; chi ha amici o parenti al fronte fornisce un quadro dettagliato della situazione, ma i resoconti sono contrastanti.

Si finisce inevitabilmente a parlare della fine della guerra, molto più allettante della guerra stessa.


«Tra un mese saremo di ritorno così pieni di medaglie che non riusciremo neanche a camminare!» esclama Oskar, con le sue solite esagerazioni che ricevono però l'unanime consenso.

«Ehi, anche guadagnarsi qualche cicatrice non è così male: fa colpo sulle ragazze...» sogghigna Jace, strizzando l'occhiolino ad Alena, che alza gli occhi al cielo diventando però porpora in viso.

«Potete tenervi cicatrici e medaglie,» li zittisce Rod. «Io voglio solo prendere il mio salario e tornarmene a casa per spenderlo come si deve.»

Un coro di insulti gioviali segue la sua affermazione, giudicata sin troppo noiosa, e mi ci unisco d'istinto. In lontananza inizia a dispiegarsi la steppa inospitale di Ishval, che continua ininterrotta fino a inerpicarsi ripidamente su delle montagne appena distinguibili all'orizzonte.

Stringo i guanti nella tasca, accarezzandone la stoffa leggermente ruvida. Siamo vicini.


 


 


Note:

La geografia di Ishval, i suoi distretti, zone e aree sono frutto di miei headcanon coerenti col manga.

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Capitolo 8
*** II: Grandi speranze – Capitolo 3 ***


.3.



19 Maggio 1908
Quartier Generale dell'Esercito a Ishval
Distretto di Zharfa

16:00


Zharfa, con i suoi alti minareti [1] e campanili ora mozzati, è sparpagliata a macchia di leopardo sulla distesa di collinette brulle affacciate sulla piana di Ishval.

Ci sono tracce di casa, in questo avamposto a mezza via tra due popoli: se tengo lo sguardo puntato sul quartiere amestriano e ignoro le vetrine rotte e le facciate delle costruzioni annerite, col tufo crivellato dai proiettili, mi sembra di essere nella piazza di Bushmills quando soffia lo scirocco da est, che porta con sé sabbia e pioggia rossa a ricordarci che il deserto, di tanto in tanto, allunga le sue falangi aride verso di noi.

Adesso le sue propaggini hanno invaso senza distinzioni le strade sventrate, insinuandosi sia nell'acciottolato di ardesia che nei lastricati di arenaria per rivendicarne un possesso atavico.

Mi districo tra i vicoli tortuosi di uno dei rioni amestriani, affollati di commilitoni e abitanti derelitti, fino a sbucare nella terra di nessuno tra la città e la base militare, che cinge l'intera zona ovest dell'insediamento scrutandolo dal basso dal suo pianoro.

Seguo le orme di altre cappe bianche frustate dal vento, rientrando infine tra le schiere di tende bianco-verdi dell'esercito. Sospiro, avviandomi verso la zona del campo in cui – credo di ricordare – ci hanno stanziati per il momento.

Oskar ha avuto la brillante idea di addentrarsi nella città conquistata, a dispetto delle direttive di rimanere nei ranghi; ho perso di vista lui e gli altri nel caos del suq [2], divenuto ancor più labirintico per via del tetto mezzo crollato che intralcia i corridoio di detriti. Non c'è più molto di esotico, là dentro: dei mercanti amestriani vi hanno stanziato uno spaccio clandestino tollerato dai superiori e sfruttato dalle truppe, e gli unici segni dell'ormai cancellata presenza ishvaliana sono i tessuti intarsiati di ghirigori che pendono stracciati dalle pareti e i cocci di vasi spaccati negli angoli.

Dopo aver raggiunto i nostri quartieramenti e aver cercato i miei compagni per circa mezz'ora, mi rassegno a girovagare per il campo da solo, in cerca di un modo per ammazzare il tempo fino allo smistamento definitivo delle truppe, stasera.

Cerco di non pensarci troppo, ma l'ansia mi stringe la gola: noi di East City saremo trasferiti in gran parte direttamente a Ishval, in città, dove servono forze offensive – il resto delle truppe fresche sarà dislocato sul territorio a seconda del bisogno. L'alto grado che ha accolto il nostro scaglione è stato molto vago su questo aspetto, e molto svogliato nell'esporlo, ma sembra che l'esercito sia in crisi da quasi un anno e che abbiamo perso terreno nelle ultime settimane ai confini.

Noi siamo i rinforzi della speranza, a quanto pare.

Continuo a farmi largo nell'accampamento indaffarato. L'intero Quartier Generale è in tumulto e si agita con i flutti di un torrente in piena: neanche all'Accademia ho mai visto così tanti soldati stipati in così poco spazio.

Ovunque risuonano schiamazzi, passi cadenzati di interi reggimenti che vengono spostati da una divisione all'altra, rombi di furgoni colmi di vettovaglie che procedono a passo d'uomo, nitriti di cavalli imbizzarriti da tutto il frastuono, comandanti che si sgolano per radunare le truppe – e chissà cos'altro, in un concerto umano che ferisce le orecchie.

Di tanto in tanto risuona il tuono di un cannone lontano, ma nessuno sembra farci caso. Il cielo è velato e incombe una cappa afosa che toglie il respiro: mi allento il colletto della divisa, ma non aiuta molto.

Vado dove mi portano i piedi, zigzagando tra i militari e cercando senza troppa convinzione qualche volto conosciuto. Qualcuno mi lancia occhiate incuriosite per via della catena d'argento che sporge dalla mia tasca, e sostengo gli sguardi con allenata indifferenza, senza far nulla per nasconderla.

Mi ritrovo infine ai margini occidentali del campo, dove solo qualche sentinella ciondola avanti e indietro sul terrapieno con un fucile in spalla. Il perimetro è segnato da una rozza staccionata sormontata a tratti da filo spinato. Oltre, il fumo sembra più denso. Poco più in là intravedo delle file di teli bianchi allineati con cura.

Distolgo lo sguardo, sentendomele impresse nelle retine, e torno sui miei passi dirigendomi verso una collinetta poco distante su cui lo stendardo verde di Amestris garrisce nel vento teso. Nuvole di sabbia spazzano la guarnigione, insinuandosi nelle tende e sotto ai vestiti; sento già che la odierò [3].

Mi schermo gli occhi con una mano e cammino controvento, mentre le falde del cappotto si contorcono dietro di me. Mi inerpico sull'altura, con la terra friabile che frana sotto i miei stivali. In cima si erge un albero secco, forse un tempo florido e carico di frutti: adesso è piegato dal vento, col tronco sbiancato dal sole, e protende i rami scarni verso il cielo lattiginoso.

Da qui si domina gran parte dell'area circostante, e mi si impiglia il respiro in gola nel venire investito da una raffica di vento violenta, quasi uno schiaffo in viso che porta con sé un monito.

Il deserto ha un odore che gratta la gola e secca la lingua. È indecifrabile, quasi neutro se non per un sentore di polvere che rimane appiccicato al palato: sa di sabbia e dune, di vento caldo che scrocchia sotto ai denti e di sole che brucia la nuca con la sua mano arroventata. 

Non profuma decisamente di curcuma e spezie esotiche, né del "sale di antichi oceani" come descritto nei libri d'avventura che divoravo da ragazzo. Quelli narravano di traversate antiche, carovane perdute e città favolose distrutte in una notte, presentandolo come un luogo mitico che chiama a gran voce chiunque vi si avvicini. Tutto il contrario.

Il deserto è ostile  – o forse lo è solo questo deserto calpestato per anni da scarponi chiodati, zoccoli e mortai. Ci ricorda ad ogni passo che non ci appartiene, come noi non apparteniamo ad esso: ha deciso di tollerare e accogliere ai suoi margini unicamente gli Ishvaliani e le loro usanze altrettanto aride, temprate dall'arsura.

Noi, con la nostra freschezza di terra fertile, gli stendardi verde smeraldo e la divisa blu brillante, siamo nella migliore delle ipotesi degli estranei, se non degli intrusi. Invasori, di fatto.

Non è una terra ospitale. I volti bruniti dal sole e le orecchie e le dita mancanti dei veterani che ho scorto in giro parlano di estati torride e inverni rigidi.

Ishval non è altro che una distesa sterminata di dune, rocce e steppe aride, solcate qua e là da un torrente in secca. A nord ci sono delle pianure fertili che prima appartenevano all'Est – ma sette anni di guerra sono lunghi, e i confini solo fragili linee. A sud incombono le montagne di Ktirja, ancora chiazzate di neve nonostante l'estate sia alle porte. A est, in lontananza, si scorge la capitale di Ishval, incorniciata da una coltre di fumo.

Non deve essere molto diversa da Zharfa, o a quel che ne rimane.

I nostri attacchi sono stati impietosi e hanno inferto ferite insanabili: la maggior parte degli edifici è ridotta a un cumulo di macerie. Pennacchi di fumo si innalzano ovunque nell'aria, inclinati dal vento. Si distinguono i segni dei cannoni e dei mortai nei crateri che butterano la città annidata tra le colline e arroccata su di esse, in un saliscendi sinuoso.

È ormai quasi del tutto abbandonata, così come gran parte dei distretti di Ishval sotto il controllo dell'esercito: solo Lissahr, Kamyan e Nahasti. Gli altri nove, Ishval compresa, sono ancora dilaniati dagli scontri, senza alcuna vittoria significativa.

Nonostante ciò, il Comandante Supremo è ottimista e sprona le truppe, rinvigorite dall'arrivo di noi Alchimisti di Stato. Presto, ha detto, il Dragone sventolerà sul pinnacolo del Tempio Bianco, e Ishval cadrà. Poi sarà il turno delle campagne e dei villaggi, fino a che degli Ishvaliani non rimarrà che il ricordo insanguinato.

Saranno un monito per chi oserà mettersi di nuovo contro Amestris.

Il mio sguardo si abbassa sul guanto alchemico ben calzato: sono nemici, sono guerrieri addestrati che fanno scempio dei nostri soldati anche nella morte. È guerra, e non esiste una terra di mezzo su cui camminare. Sono parole aguzze che riempiono propositi vuoti, ormai lontani – è così, che si aiuta la gente?

Scrollo capo e pensieri e rialzo lo sguardo: i miei occhi incontrano una distesa di ocra e giallo stinto punteggiata da rovine. Solo il vento attraversa questa distesa piatta, questa insulsa scatola di sabbia.

Cosa ci sarà mai di così importante, qua dentro, da spingere tutti a versarvi il proprio sangue?

Il vento risponde con un ululato tra le alture bombardate. Volto le spalle alla devastazione e scendo a passi svelti dall’altura.

Forse, sarà una guerra breve.


 


19 Maggio 1908
Quartier Generale dell'Esercito, Ishval,
22:00
 
«Dài, fallo di nuovo!» mi incita Oskar, gli occhi rivolti al cielo cupo.

Cerco di sottrarmi alla sua stretta per svicolare via, accampando qualche scusa sconclusionata riguardo al riposarsi e al non attirare l'attenzione, ma lui mi trattiene fermamente e mi ritrovo gli occhi della mia nuova truppa puntati addosso.

Sembrano bambini che aspettano trepidanti un nuovo trucco di magia e improvvisamente il mio desiderio di defilarmi viene soppiantato da quello di non deluderli. Di brillare, esattamente come quando da ragazzino cercavo di farlo in tutti i modi più sbagliati e incappavo nelle strigliate di zia Chris.

Mi lascio scappare un sorrisetto compiaciuto prima di schioccare le dita con fare teatrale e liberare un'altra fiammata sopra di noi, stavolta facendola esplodere a mezz'aria come un fuoco d’artificio. Il mio piccolo uditorio lancia un'ovazione in un misto di esclamazioni di meraviglia e improperi per il calore intenso che ci sfiora la testa.

Uno dei soldati lancia un fischio penetrante, mentre Oskar mi piazza in mano una bottiglia colma di un liquido chiaro, che passo però di soppiatto a Jace senza bere.

Sto giusto credendo che la loro curiosità per la mia alchimia sia scemata, quando un ragazzo alto e mingherlino dalla pelle olivastra – Patrick? Le presentazioni sono state serrate, frettolose, un viso e un nome dopo l'altro – e un po' su di giri per l'alcool mi incita a fare di meglio.

Stavolta mi mostro falsamente riluttante, solo per tenerli sulle spine, ma allo stesso tempo mi guardo intorno attento. Rimango sul chi vive: non credo che i superiori sarebbero entusiasti delle mie bravate, ma dietro un gruppetto di tende appena montate e un po' sbilenche colgo il bagliore azzurrino di una trasmutazione, seguito da un coro di stupore.

A quanto pare non sono l'unico a darsi un po' di arie, e forse Hughes ha ragione e dovrei avere più fiducia in me stesso; così sfrego il guanto con decisione e al centro del grande cerchio che formiamo erutta una fontana di fuoco che sale fino a venti piedi d'altezza.

Si leva un vero e proprio boato e stavolta anche molti passanti voltano la testa sorpresi; qualcuno applaude. Sorrido apertamente, adesos, con un po' di sana arroganza che non mi curo di nascondere. Potrei incenerire anche tutti i dubbi e le paure che mi si agitano in testa – dovrei farlo, sono solo una distrazione pericolosa.

Con un potere del genere tra le mani, sono gli altri, che dovrebbero aver paura. La scorgo in controluce anche nelle pupille lucide d'alcol e di calore dei miei commilitoni: la stilla di timore che suscita un sorriso e fa ringraziare di avermi dalla loro parte, e non contro. 

Decido di stupirlo, e senza ulteriori istigazioni tento un esperimento un po' audace: scaglio un guizzo di fuoco sottile, che si avvita un paio di volte nell'aria prima di ampliarsi e assumere la vaga e distorta forma di un drago ad ali spiegate.

Mi acciglio, preso dalla concentrazione di controllare l'ossigeno e la combustione che si propaga dalle mie dita, ancora a volte traballante, e riesco a far eruttare alla bestia un'informe vampata di fiamme tra un coro di esclamazioni stupefatte prima di lasciarla dissolverei in un ventaglio di scintille.

Oskar mi dà una gran pacca sulla schiena e mi ritrovo nuovamente la bottiglia di acquavite in mano; non penso e stavolta ne prendo una gran sorsata, lasciando che un fiotto di calore mi di riversi nello stomaco scaldandomi da capo a piedi nella notte fredda del deserto.

So che è solo l'alcool, ma mi sento più leggero e quei pensieri fastidiosi si confondono nei ripostigli della mente, lasciando da parte promesse in bilico e occhi fiduciosi che mi chiedono di rispettarle: non ora, non stasera, non in questa ultima notte da uomo al confine prima di varcarlo.

Stasera ho ancora i miei occhi fissi sulla vita.

Nell'euforia del momento brindo a una guerra breve e vittoriosa; loro brindano di rimando all'Alchimista di Fuoco.

Scoppio a ridere, schermendomi senza smettere, ma dentro di me sento crescere un senso di appagamento e orgoglio alto come le fiamme che si avvitano nel cielo buio.



 
 
 
Fine Parte II
 

Note:
[1] Il minareto è la parte più altaa della moschea, ma qui è inteso in senso puramente architettonico e "visivo", non religioso, in quanto è semplicemente una costruzione tipica di zone medio-orientali.
[2] Un mercato coperto comune nei paesi medio-orientali.
[3] Riferimento alla citazione cinematografica più cringe del secolo (un Black Hayate in premio a chi la individua!)

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Capitolo 9
*** III: Ad occhi chiusi – Capitolo 1 ***


Parte III

Ad occhi chiusi
 “Tutti andavano avanti zoppi; tutti ciechi;
ubriachi di fatica; sordi anche ai sibili
di granate stanche, distanziate, che cadevano dietro.”

[Dulce et decorum est – W. Owen]



.1.
 
 
 
 
 
 
 
 
21 Maggio 1908
Rione di Nasha, Ishval
14:30
 
Un colpo di mortaio esplode a pochi metri da noi. Sento la terra e il pietrisco graffiarmi il volto anche se sono accucciato dietro a un muretto mezzo abbattuto. Mi appiattisco contro i fragili mattoni d'argilla con le orecchie che fischiano, cercando di offrire meno bersaglio possibile, e aspetto che una raffica di proiettili voli sopra la mia testa prima di arrischiarmi a sporgermi oltre l'angolo per valutare la situazione.

I guerriglieri non cedono posizione, ben barricati in un palazzo diroccato a tre piani dimezzato dalle bombe. Ci tengono in scacco da quasi un'ora, grazie a una trappola semplice ma efficace che ci ha messi a ferro e fuoco nella piazzetta antistante. Una parte della squadra che ci ha gridato aiuto è bloccata in una stalla pericolante, proprio sotto le finestre che i cecchini usano come postazione di tiro. Impreco tra i denti, col respiro accelerato che mi si condensa nella gola irritata. Potrei usare le mie fiamme, ma questo è un tiro rischioso: il minimo errore, e potrei bruciare vivi i miei commilitoni intrappolati, o rischiare di far crollare loro addosso la stalla per il contraccolpo. 

Cerco di pensare velocemente a un piano B, ma stanno accadendo troppe cose insieme. L'unica considerazione coerente che affiora nella mia testa in tumulto è che gli addestramenti non ci hanno preparato a questo. E adesso m
i maledico per aver speso più tempo sulla potenza della mia alchemia, piuttosto che sulla sua precisione. Un proiettile mi sfiora, seguito dai suoi compagni che si abbattono poco sopra di me,scheggiando l'angolo del muro, e mi ritiro all'istante, col fiato corto e un’escoriazione sullo zigomo. Un centimetro più a destra e mi avrebbe perforato la tempia. Addio Alchimista di Fuoco, e con lui la squadra.

Mi do uno scossone mentale, isolando la sensazione viscosa del sangue che cola lungo la guancia, e giungo, coi pensieri che si rincorrono, all'unica via d'uscita da questa situazione. Rischiosa, ma praticabile. Molto rischiosa: devo avvicinarmi per guadagnare precisione e manovrabilità. Avvicinarmi, sotto il tiro di cecchini scelti e di un mortaio invisibile, nascosto chissà dove.

Prendo una boccata d'aria calda e fumosa e sbircio di nuovo oltre l'angolo: non c'è traccia di Rod. Impreco di nuovo, col cuore che acquista battiti in più e perde il ritmo. Hanno diviso la truppa vicino al mercato, con una pioggia di proiettili e granate ben piazzata. Ai miei piedi giacciono morti tre dei miei commilitoni, che mi fissano con occhi vuoti o semichiusi. Non ricordo neanche il loro nome; me li hanno assegnati stamattina come rinforzo.

Ancora non riesco a vedere Rod, né gli altri, ma in compenso scorgo dall'altro lato della piazza un gruppetto di Ishvaliani che si avvicina discretamente alle stalle, fucili e coltelli alla mano, coperti dal fuoco incessante che proviene da sopra. Trattengo il fiato,  gettando al vento la prudenza, mi espongo leggermente issandomi su un ginocchio e invio una fiammata contro di loro, troppo rapidamente per calibrare bene potenza e direzione. Ritorno con le spalle al muro e il coro di grida e urla di dolore che sento fuga ogni mio dubbio. Mi si asciuga la gola. Ho lanciato qualche fiammata prima, ma alla cieca. Stavolta ho mirato per uccidere. Per difendere, soprattutto, ma per uccidere.


«Bel colpo!»

Mi giro di scatto, contraendo le dita, ed è con un fiotto di sollievo che vedo Rod  sbucare da un vicoletto in ombra e avanzare carponi verso il mio riparo, seguito a ruota da Alena e Patrick. Scaglio una fiammata diversiva direttamente sopra di noi, così da oscurare la visuale dei cecchini per qualche istante, e i miei compagni coprono i pochi metri di terreno scoperto per gettarsi dietro il mio riparo di macerie.

«Non che sia cambiato molto,» commento, facendo un cenno verso le stalle, da cui proviene di tanto in tanto qualche colpo isolato, segno che le loro munizioni scarseggiano. «Gli altri?»

«Bloccati nell'ex-distilleria. Quei bastardi hanno rimediato un mortaio,» dice Patrick tra i denti, senza cessare di guardarsi attorno come una preda braccata.

I suoi occhi neri compiono piccoli scatti nervosi; digrigna la bocca e stringe il fucile con tanta forza che le sue nocche coperte di sangue sono sbiancate.


«Ho notato,» dico, accennando al cratere a pochi passi da me – terribilmente vicino.

Una gragnuola di proiettili si abbatte contro il muricciolo, facendomi temere che possa cedere da un momento all'altro nel sentire gli impatti che mi vibrano nelle ossa.


«Mi serve una copertura. Bastano pochi secondi.»

«Tiri giù il palazzo?»

«Troppo rischioso. Offro alla Squadra Scout un diversivo. Spero che abbiano la prontezza di coglierlo, ma devo avvicinarmi.»

Parlo seccamente, forse troppo, ma non ho tempo per curarmene. Controllo che il guanto d'accensione sia ben calzato. Ho i palmi sudati, ma la mia mano è ferma.

«Toglietemi di mezzo quei cecchini.»

Patrick, Alena e Roderick piazzano le canne dei fucili sul bordo del muretto, pronti a sparare. Esito, tentato dall'infilare un guanto anche alla mano sinistra, ma questo non è il momento per esperimenti audaci, così mi limito a stringere il pugno e a sporgermi per contare quanti tiratori ci sono nel palazzo. Ne individuo almeno sei, sparsi tra la ventina di finestre. Inizio ad aumentare la concentrazione d'ossigeno davanti all'intera facciata, pretendendo una notevole dose di concentrazione del mio cervello martellato dalla paura di morire con ogni proiettile che ci piove attorno. I miei pensieri si soffermano per un istante di troppo sull'immagine del mio corpo crivellato che fa ritorno da zia Chris, avvolto in un drappo verde, ma la annacquo e soffoco all'istante, anche se sento le gambe farsi improvvisamente deboli. Il mio cuore inizia a pompare più vigorosamente, scaldandomi da capo a piedi.

Visualizzo le formule nel retro delle palpebre, assieme alla voce pacata del Maestro che mi guida attraverso i principi elementari dell'alchimia. Oltre le tenebre, c'è luce. [1] Quell'eco arriva, non richiesta. Ha un retrogusto acido, sul campo di battaglia, ma mi ci aggrappo comunque.


«Ora!» ordino con voce quasi stridula, e mentre loro sparano a raffica io mi alzo su un ginocchio e scatto verso l'edificio guadagnando qualche decina di metri, esponendomi completamente. Un cecchino cade dalla finestra, colpito a morte da un colpo.

Inchiodo sul margine della piazza e sfrego il guanto: un muro di fiamme si erge a divorare l'esterno dell'edificio, una patina infuocata che si dissolve in qualche istante ma che costringe i cecchini a ritirarsi momentaneamente, accecati.


«Via libera!» mi sgolo in direzione del capanno, mentre già un paio di uomini si lanciano fuori correndo nella nostra direzione, seguiti dal resto della loro squadra.

Ho appena il tempo di ripararmi prima che il fuoco nemico solchi l'aria nel punto in cui mi ero piazzato. Solo sette dei dieci uomini intrappolati riescono a gettarsi nella polvere accanto a noi: gli altri tre cadono nella terra di nessuno tra i due schieramenti. Uno dei sopravvissuti è riverso ai miei piedi, pericolosamente esposto; si stringe la gamba sanguinante tra le lacrime e gli spasmi. Do cenno a Patrick di aiutarmi a portarlo del tutto fuori dalla linea di tiro. Faccio in tempo a scorgere il suo volto devastato dal dolore, ma distolgo subito lo sguardo riportandolo alla palazzina occupata. Gli spari sono cessati. Probabilmente stanno esaurendo anche loro le munizioni. Ottimo, concludo, con una positività che stona e stride dentro di me.


«Tenetevi al riparo, copritemi solo se necessario,» ordino di nuovo, alzandomi stavolta del tutto in piedi e sentendo il coro dei fucili ricaricati e posizionati dietro di me.

Non so da dove provenga questa energia che sento totalmente estranea, ma mi permette di non vacillare mentre mi avvicino rapidamente di qualche passo, portandomi di nuovo vicino. Non ho più motivo di trattenere le mie fiamme, adesso, e mi formicola la destra. Scaglio una potente ondata di fuoco contro l'edificio, soffocandola quel tanto che basta per non ustionarmi. Il boato fa vibrare il terreno, la stalla viene carbonizzata e le mura si anneriscono rapidamente, avviluppate dealle fiamme violente. Qualcuno si getta dai piani alti, avvolto da lingue di fuoco, e si schianta urlando venti metri più sotto con un tonfo a malapena udibile oltre i ruggiti degli incendi.

Sento le grida d'incitamento della mia truppa dietro di me, accompagnate da spari sporadici, e lancio un'altra fiammata verso il tetto; ne incuneo un'altra ancora nelle finestre divelte, scuotendo visibilmente il palazzo ormai avvolto dall'incendio. I vetri vanno in frantumi, cadendo a terra in una pioggia tagliente che mi sfiora. Un cumulo di fumo nero si leva verso il cielo grigio, illuminato qua e là dai guizzi feroci e rosseggianti del fuoco. Tra le fiamme scorgo un corpo che penzola disarticolato da una ringhiera, sorretto dalla cinghia del fucile. Un quarto del palazzo collassa con un rombo di terremoto; fortunatamente il vento porta lontano il fumo e la polvere, risparmiandoci l'asfissia. Scende un silenzio inframezzato da calcinacci in caduta e scricchiolii d'assestamento. Gli unici spari sono echeggianti, lontani.

Mi rendo conto del mio cuore che batte all'impazzata solo nel momento in cui l'adrenalina inizia a calare, lasciandomi indebolito, ma allo stesso tempo pervaso un senso di euforia mi pervade nel realizzare che sono ancora vivo e illeso, e così i miei compagni.

Scruto con attenzione i dintorni, ma non noto alcun segno di vita, così alzo una mano tremante per dare il via libera alla mia truppa. Ancora non mi volto a guardarli. Fisso il cadavere dell'uomo ai piedi del palazzo, riverso in una posizione rigida e innaturale a una decina di metri da me. Delle fiamme residue continuano a levarsi dai suoi vestiti sbrindellati; quando realizzo che la chiazza rossastra e informe sul suo ventre sono le interiora ustionate e carbonizzate ho un conato che trattengo a stento. Porto una mano davanti alla bocca e faccio un respiro profondo, domando il mio stomaco in subbuglio nonostante non abbia toccato cibo da stamattina. Devo costringermi con la forza a distogliere lo sguardo e, quando infine mi arrischio a dare le spalle al campo di battaglia, la mia truppa è già in piedi in attesa di ordini.

Sono consapevole di avere un'aria stravolta, a dispetto del successo, e mi sforzo di camuffarla. Incrocio lo sguardo di Alena e Roderick e mi rendo conto che la loro espressione non deve essere molto diversa dalla mia: volti pallidi e al contempo arrossati da tagli superficiali, dipinti con una mano di fuliggine e terra. Patrick è indaffarato col ferito e insieme a un altro uomo cerca di arginare la perdita di sangue.

Sento una detonazione cupa non troppo distante da noi e il mio pensiero corre al resto dei miei compagni, ancora intrappolati nell’ex-distilleria. Una quantità enorme di informazioni si accavalla nella mia mente – i miei uomini, il nemico, il mortaio, la guarnigione probabilmente sotto attacco, il ferito, i corpi bruciati, le orecchie che ronzano disorientandomi – ma sento il mio corpo agire in automatico, come se lo stessi osservando dall'esterno.


«Patrick, tu e un altro continuate ad occuparvi del ferito. Voi,» indico i tre soldati della Squadra Scout ancora armati di fucile, «prendete la via dei tetti e posizionatevi sul magazzino sul lato est della distilleria. Non fatevi individuare. Noi,» faccio cenno al resto del gruppo, «avanziamo via terra. Apro io la strada. Il rendez-vous rimane lo slargo davanti al bazar.»

Mi risponde un coro squillante di “signorsì!” e ci dividiamo con un sottofondo di stivali che pestano la polvere. Avanzo a passo deciso, facendo strada alla mia truppa lungo la strada maestra del distretto commerciale. Stando alle mappe, dovrebbe sbucare sulla piazza del mercato, dove saremo completamente allo scoperto. Infatti, la vedo dopo poche decine di metri oltre l'angolo del magazzino che stiamo costeggiando.

Mi appiattisco contro il muro, ordinando silenziosamente l'alt. Scorgo in lontananza l’edificio malmesso della distilleria, che anche in tempi migliori non deve essere stato particolarmente stabile.

In mezzo alla piazza, rivolta verso l'ingresso, è stata approntata una barricata di fortuna dietro alla quale hanno preso posizione una ventina di ribelli Ishvaliani, riparati su tre lati. Tengono chiaramente sotto scacco i miei uomini intrappolati nell'edificio. Al sicuro dietro le casse, i sacchi di sabbia e le assi di legno accatastati alla rinfusa si intravede la sagoma di un mortaio mobile, sottratto chissà come al nostro esercito. Da qualche parte devono essere stipate anche le munizioni.

Dall'angolazione della canna, deduco che l'obiettivo sia in un raggio di circa un chilometro tra questo rione e quello di Kis, probabilmente la guarnigione di Nasha. Il colpo che poco fa mi ha quasi ammazzato deve essere stato un errore di calcolo nella traiettoria.

Poggio la testa al muro e socchiudo gli occhi imponendomi di pensare, di richiamare alla mente le pagine e pagine di strategia militare su cui ho passato notti intere all’Accademia, ma incontro solo una lastra bianca e sterile, priva d’informazioni utili. Non trovo schematiche che corrispondano a una situazione di per sé semplice. Per fortuna sembra esserci uno stallo: le uniche detonazioni che si sentono sono lontane, provenienti dalle mille schermaglie che fanno ribollire la città.

Sento un colpetto sul gomito e mi giro verso Rod, che indica in alto: dal tetto del magazzino si sporge una ragazza della Scout, invisibile dalla barricata.

Siamo in posizione,” comunica a gesti.

Replico affermativamente nello stesso modo. Butto fuori l’aria che non mi ero accorto di trattenere e i miei pensieri si schiariscono, focalizzandosi sulla situazione attuale.

Metto nero su bianco i dintorni, il nemico, gli alleati, le nostre risorse e i possibili ostacoli. Chiudo i manuali tattici e apro quella parte di cervello istintuale ma razionale rimasta sopita fino ad ora; quella che a volte si risvegliava, in misura più spensierata, quando correvo a perdifiato per le vie di Bushmills con le ginocchia escoriate dopo averne combinata una delle mie, e l'unico obiettivo che mi lampeggiava in testa era trovare un rifugio sicuro dai gendarmi. Allora istinti ancestrali di preda, venati di giocosità e brividi di trasgressione, adesso di cacciatore braccato coi piedi affondati in sangue non suo.

Mi prendo qualche secondo per soppesare quanti danni possa causare l'esplosione di una distilleria e concludo che non posso attaccare alla cieca: una sola fiammata diretta malamente potrebbe condannare i miei uomini nell’edificio. Stessa tattica, esito potenzialmente diverso, e  di nuovo, mi viene richiesta una precisione troppo poco esercitata. Sospiro tra i denti: dobbiamo creare un fuoco di sbarramento e prenderli di fianco, cercare di distrarli per dare modo alla Squadra Flame di uscire da quella trappola. 

Impartisco in silenzio gli ordini ai soldati sul tetto, ma mi sembra di agire ancora tramite qualcun altro, qualcuno con molta più esperienza di me che muove le mie braccia come quelle di una marionetta.

Al mio segnale, ritiratevi.

Ricevuto.”

La ragazza sgattaiola via silenziosa come è arrivata. Mentre aspetto che inizi il diversivo, cerco con attenzione una qualunque apertura che mi permetta di far arrivare le fiamme all'interno della distilleria. La usano probabilmente come base: sarà meglio raderla al suolo del tutto. Adocchio una finestrella a livello della strada… e forse nel seminterrato viene ancora conservato dell’alcool, il che faciliterebbe le cose. Roderick segue il mio sguardo e mi lancia un cenno d'approvazione, seppur nervoso.


«Farà un bel botto,» sussurra, quasi senza voce per la tensione.

Annuisco appena, altrettanto sulle spine. Leggo nei suoi occhi lo stesso senso di sbandamento che mi colpisce il cervello ogni pochi secondi: cosa ci facciamo, qua?


«Se c'è ancora alcool,» deglutisco poi, appena udibile. «Gli Ishvaliani nemmeno bevono.»


«C'è sempre qualcuno che usa una distilleria. Dacci dentro con quelle fiamme, però.»

Gli sono grato per il sostegno, ma sono troppo nervoso per concordare con lui o anche solo per rispondere. Un passo falso e muoio io, lui e tutta la squadra.

Finalmente la prima raffica di artiglieria lacera l'aria. Un Ishvaliano troppo esposto è il primo a cadere, e subito il resto si acquatta dietro la barricata, gli occhi puntati verso l'alto in direzione dei cecchini.

Lascio malvolentieri che Roderick si ponga in testa alla squadriglia e impugno la pistola, consapevole che usare l'alchimia con un mortaio, delle munizioni e una quantità indefinita di liquido infiammabile in posizioni precarie equivarrebbe a un suicidio. Mi maledico ancora mentalmente: devo riuscire a lanciare attacchi più mirati...

I miei pensieri si frantumano quando Roderick spara il primo colpo, centrando un altro ribelle in pieno petto, e siamo alla mercè dei loro fucili. Ci ripariamo dietro il muro di un altro magazzino, dal quale però abbiamo una linea di tiro sfavorevole.

Manteniamo un fuoco costante e intravedo tra il fumo degli spari un gruppo di sagome che si precipita fuori dalla distilleria attraverso la piazza, tentando il tutto per tutto e sparando all'impazzata. Una cade a terra prima di raggiungere la salvezza dei vicoli dal lato opposto, e sento una stretta al petto.

Non sono sicuro che tutti siano riusciti ad uscire, ma la nostra posizione diventa sempre più rischiosa, e un proiettile mi strappa un grido nel colpirmi di striscio la gamba. Dieci uomini esposti sono troppo pochi per annientarne il doppio, soprattutto se barricati. Non posso fare altro che sperare per il meglio.


«Via di qui!» grido, facendo un gesto imperioso ai miei soldati.

Non se lo fanno ripetere e si ritirano rapidamente, diretti al rendez-vous.

Parte un'ultima raffica dal tetto e poi anche i cecchini indietreggiano. Gli Ishvaliani cessano a loro volta il fuoco dopo qualche secondo, e, sebbene non riesca a vederli, appiattito contro il muro, posso immaginare la loro perplessità. Probabilmente non hanno neanche mai visto un Alchimista di Stato in azione e non hanno la più pallida idea di ciò che li aspetta. Nemmeno io l'avevo, fino a ieri.

Sopprimo i pensieri e sfrego la stoffa d'accensione, indirizzando la fiammata verso la finestra della distilleria. Non è precisa, affatto: gran parte si schianta contro la parete e lambisce l'obiettivo, ma la quantità di fiamme che vi penetra è sufficiente.

Per quanto abbia smorzato l'ossigeno intorno a me per evitare che il fuoco mi raggiunga, non ho alcun controllo sulla potenza dell'esplosione che si sprigiona. L'onda d'urto mi scaglia di schiena a terra, mozzandomi il fiato, e un'immensa fiammata si leva dall'edificio, inghiottendo tutto nel raggio di cinquanta metri. Una serie di detonazioni assordanti squarcia l’aria quando le fiamme toccano le casse del mortaio, dilaniando chiunque fosse troppo vicino e scuotendo il terreno attorno a me.

Riesco a mettermi prono per schermarmi il volto e sento un calore rovente contro le spalle; mi rimetto in piedi a fatica, annaspando in cerca d'aria e trovando fumo e fiamme.

Qualcosa di tagliente mi sfiora il collo, ma a malapena percepisco il dolore mentre mi rimetto in piedi e corro tra la nebbia densa che invade le strade. Non riesco a respirare bene e il fumo acre di alcool evaporato mi irrita la gola. Mi ritrovo ben presto senza fiato e coi polmoni affaticati che pompano pulviscolo sottile. Mi porto a un'andatura moderata, cercando di allontanarmi velocemente senza sfiancarmi, col timore che ombre nemiche mi assalgano dalla nebbia.

Dopo una marcia nel nulla che mi fa procedere a tentoni e spallate attraverso vicoli e bivi, raggiungo la mia truppa davanti al bazar.

Qualcuno mi corre incontro e solo quando è a un passo da me identifico il volto sporco di sangue e fuliggine di Oskar, sollevato di vedermi vivo quanto lo sono io. Mi guida fino al resto del gruppo, che mi accoglie con altrettanta euforia smorzata dalla caligine che ci opprime. Non esulto, e il sollievo mi muore in gola: dei miei sessanta uomini ne conto a malapena una ventina.

Scorgo un paio di compagni d'Accademia, poi la mezza dozzina appena arrivata dal Nord, e un paio di altri volti familiari. Anche Jace emerge infine dalla nebbia, illeso se non pe la cappa bruciacchiata – rabbrividisco nel notarla. Appena vede Alena la abbraccia d’impeto, evidentemente sollevato. Gli concedo qualche istante prima di rivolgermi a lui:


«E gli altri?»

«Ci siamo separati prima che venissimo bloccati nella distilleria. Saranno già al campo di Nasha,» mi rassicura Jace, senza staccarsi dalla ragazza.

Mi acciglio. Gli ordini erano di rimanere uniti; ci saremmo risparmiati quest'assalto azzardato se non si fossero divisi. E forse i miei uomini e quelli della Squadra Scout non sarebbero morti. Altre sagome e volti conosciuti emergono dalla foschia. Alcuni si stanno prendendo cura dei feriti; Un gruppetto di soldati forma un capannello serrato nel tentativo di schermarsi dal fumo.


«Quanti caduti?» chiedo, a nessuno in particolare.

È una domanda che mi suona estranea, ma so intrinsecamente di doverla porre. Pochi secondi di silenzio sembrano protrarsi all'infinito.


«Una decina, credo. Anche Dennis e William,» risponde in fretta Oskar, schivando il mio sguardo.

Non dico nulla, anche se quelle parole mi colpiscono come un maglio. Non li conoscevo così bene, ma ricordo con improvvisa vividezza i loro nomi chiamati nell'appello all'Accademia. Relego da parte quel ricordo e faccio cenno alla truppa di incolonnarsi, assicurandomi che i feriti più gravi abbiano un appoggio o una barella di fortuna, per poi fare strada in direzione del campo. È impensabile continuare gli attacchi qui a Nasha in queste condizioni, e spero solo che i superiori saranno altrettando comprensivi.

Non siamo fortunati e il vento spira adesso verso di noi mentre arranchiamo, portando con sé il fumo. I miasmi sono asfissianti e dopo poco ci ritroviamo tutti a tossire, con gli occhi che lacrimano.

C'è qualcosa che mi disturba nell'odore acre del fumo, ma non riesco a focalizzare cosa sia di preciso. C'è sentore di legna bruciata, di alcool e polvere, di carbone, e di qualcos'altro che non riesco ben a inquadrare.

Arriccio il naso infastidito, mi schermo il naso col bavero del mantello e respiro con la bocca attraverso le maglie della stoffa.

Superiamo con passo stanco il palazzo che ho dato alle fiamme poco fa. E quando i miei occhi si posano di nuovo sul corpo semi-carbonizzato schiantatosi sul mattonato, lo collego con orrore a quel puzzo nauseante.

Mi fermo di scatto, con la gola ostruita. Sento il sangue defluirmi dal volto e ristagnarmi nelle vene, gelido, solido. Persino da questa distanza riesco a scorgere gli occhi bianchi del cadavere che sembrano sbarrati verso di me, e il braccio scarnificato che sembra indicarmi accusatore.


«Roy?» la voce di Roderick sembra provenire da un altro mondo, uno in cui non siamo ancora carnefici. «Roy, ti senti...»

«Raddoppia il passo. Non siamo ancora al sicuro,»  mi sento dire in un tono monocorde che non mi appartiene.

Pesto i tacchi degli anfibi nella polvere e riprendo la marcia con forzata vivacità, chiedendomi quanta cenere umana sto calpestando.

Il resto accade come in un sogno. Realizzo a malapena di uscire finalmente dalla zona dei combattimenti, di superare la piazza di scambio, di entrare nel campo di Nasha crivellato di colpi del mortaio rubato e di indirizzare frettolosamente la mia truppa in infermeria prima di congedarmi. Squadrano con un misto di risentimento e perplessità la mia ritirata, ma non me ne curo.

Ho la vista sfocata, compressa, come se qualcuno mi avesse piazzato la testa in una morsa e la stesse stringendo sulle mie meningi.

Raggiungo la mia tenda riuscendo a non correre e riesco persino a chiuderla del tutto prima che le gambe mi cedano di schianto. Crollo a terra e annaspo verso il secchio vuoto in un angolo, pochi secondi prima di perdere il controllo del mio stomaco e rigettare una boccata di bile acida.

Tossisco convulsamente e la nausea non sparisce, si accavalla e basta, così rimango fermo con la testa nel secchio, ansimando in attesa del successivo conato che non tarda ad arrivare. Mi sembra di sentire ancora quel fetore ributtante. Ce l'ho nelle narici, incollato al palato. Tiro un respiro tremolante, senza arrischiarmi ad abbandonare il secchio.

Lascio ricadere il capo in avanti, poggiando la fronte accaldata sul bordo metallico e serrando le dita sul manico. Un crampo mi attanaglia lo stomaco e mi preparo di nuovo al peggio, ma il tutto sfocia in un debole colpo di tosse dal retrogusto acido.

Dopo parecchi minuti mi costringo a mettermi seduto, afferro una pezza pulita dalla mia sacca gettata a terra e la bagno con un po' d'acqua ormai calda dalla borraccia, pulendomi la bocca. Verso un po' d'acqua nei palmi e mi detergo il sangue e la polvere dal viso con gesti assenti, sentendo bruciare le escoriazioni.

I tagli sulla guancia e sul collo pulsano fastidiosamente e mi concentro su quella sensazione per qualche minuto, così da frenare i miei pensieri, quasi potessi farli uscire da me come il rivolo rosso che mi cola lungo la guancia.

Non riesco comunque a impedire alla mia mente di galoppare a briglia sciolta, imbizzarrita, e ho l'impressione che un macigno mi stia schiacciando a terra, sapendo che questo giorno si ripeterà. Ancora, e ancora.

Per settimane, forse mesi. Anni.

Non c'è più adrenalina, né euforia: solo un'estrema spossatezza, di chi è rimasto sott'acqua troppo a lungo e fatica a riprendere fiato. Le mie mani sono percorse da un fremito impercettibile e quasi mi strappo il guanto di dosso.

Fisso lo sguardo sul simbolo alchemico, sottili linee cremisi che si intersecano sul tessuto un tempo candido, ora lurido di sangue e polvere.

Oltre le tenebre, mi rimbomba in testa, e stavolta il tono è accusatorio.

Non è più il mio maestro, a parlare, anche se lei quelle parole non le ha mai pronunciate. Le porta solo vergate sulla pelle e me le ha affidate un giorno d'autunno, quando parlavamo ancora per speranze e sogni. Quando la guerra stessa era un fantasma lontano.

Trovo infine la forza di alzarmi e mi tremano le gambe: mi blocco sulla soglia, un lembo della tenda stretto in mano nel gesto di aprirlo.

Chiudo gli occhi e vedo quelli del cadavere bianchi e bolliti dal calore che mi fissano di rimando. Ciechi a qualsiasi luce, ormai.

Mi lascio scivolare di nuovo a terra, lentamente, e consento a quell'immagine di imprimersi nella mia mente. Dopo un po', dopo aver sostenuto quello sguardo abbastanza a lungo, non sembra nemmeno così spaventosa e il tanfo di carne bruciata scema gradualmente dalle mie narici. Prendo un respiro profondo.

Dovrei andare a fare rapporto al Colonnello. Rimango seduto a lungo nella penombra asfittica della mia tenda. 


Oltre, da qualche parte lontano da qui, c'è luce.

 


 

Note:

[1] Sul tatuaggio di Riza si legge, tra le altre cose, "post tenebram lux". È un estratto del passo di Giobbe che fu anche adottato come motto calvinista-protestante; visto il contesto di FullMetal Alchemist, qui è slegato da qualunque accezione religiosa e ho reso più libera la traduzione per meglio adattarla alla figura decisamente controversa di Berthold Hawkeye.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori, con questo capitolo si entra nel vivo dell'azione, e di conseguenza della guerra. Spero che il tutto sia risultato credibile: il pezzo originario risale a quasi sei anni fa, e sebbene l'abbia modificato e riadattato pesantemente, non sono del tutto convinta del risultato finale. Qualunque opinione è gradita!
Grazie a tutti coloro che hanno letto sin qui e/o hanno aggiunto la storia alle loro liste <3 Ogni voto e opinione conta, davvero :)
A presto col prossimo capitolo,

-Light-



 

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Capitolo 10
*** III: Ad occhi chiusi – Capitolo 2 ***


Parte III

Ad occhi chiusi
.2.


 
21 Maggio 1908
Guarnigione di Nasha, Ishval
17:20
 
Ironclad sarà furibondo. Sarei dovuto andare a fare rapporto un’ora fa e so che mi aspetta una sfuriata interminabile.

Non che mi importi molto, al momento, ma non è il migliore dei modi per presentarsi al proprio superiore. Soprattutto se si è troppo giovani per occupare il mio grado e il superiore in questione è un soldato vecchio stampo, abituato ad avere una schiera di subordinati pronti a scondinzolare ad ogni sua parola. Non riceverà quella soddisfazione da me: avrò anche la medaglietta di cane dell’esercito al collo, ma non sono ancora arrivato al punto di camminare a quattro zampe per gli alti gradi.

Attraverso con relativa calma il tumulto del campo, facendomi largo tra capannelli di soldati seduti per terra, tendoni sorti in mezzo al nulla e pezzi d’artiglieria abbandonati a loro stessi. Sono qui da neanche una settimana e già stiamo cadendo a pezzi.
Supero a testa bassa le file di teli bianchi schierati al centro del campo in attesa di essere identificati, chiedendomi se tra loro ci siano già William e Dennis.

Individuo finalmente la tenda del Colonnello, sormontata dallo stendardo verde di Amestris, quando scorgo gran parte della mia truppa radunata poco lontano. Alcuni siedono su un muretto di pietra diroccato, un tempo muro di cinta di un giardino – la casa a cui apparteneva non è che uno scheletro di muri e travi carbonizzati. Gli altri siedono per terra, col fondo dei pantaloni nella polvere. Sembrano discutere piuttosto animatamente, forse euforici per essere scampati alla loro prima battaglia. Un sentimento che non riesce a toccarmi, anche se qualche parte più primordiale di me è grata per poter ancora calpestare questa terra sabbiosa.

Sono indeciso se unirmi a loro o meno; quando già sto per tirare dritto,però, Jace mi vede e mi fa cenno di avvicinarmi. Non sono dell’umore, ma preferisco non evitarli. Ho avuto modo di conoscere fin troppi ufficiali che trattano i loro sottoposti con indifferenza.

«Truppa Flame,» dico a mo’ di saluto, quando mi fermo in piedi accanto a loro.

Uno dei soldati arrivati ieri fa per cedermi il suo posto sul muretto, ma lo fermo con un gesto.

«Non mi trattengo. Ironclad mi aspetta. Da un’ora,» aggiungo in tono significativo.

«Ti farà a pezzi,» sogghigna Oskar, e io alzo le spalle senza scompormi, lanciandogli un’occhiataccia.

Vorrei che i miei compagni d’Accademia non mi parlassero in modo così informale di fronte agli altri soldati.

«Qualcuno è in infermeria?» chiedo, cambiando argomento.

Jace mi fissa con vago rimprovero, sottintendendo che se prima fossi rimasto solo qualche minuto in più avrei potuto saperlo. Mostra la mano destra fasciata in una spessa benda chiazzata di sangue – ciò non gli impedisce comunque di tenere una sigaretta in equilibrio tra  medio e indice.

«Il mio è un graffio, qualche scheggia provocata dall’esplosione. Tess, Vinnie e un altro paio sono conciati peggio, erano più vicini. Noi stiamo più o meno bene,» snocciola Oskar, perdendo la sua solita vivacità.

Noto il suo turbamento, ma mi limito ad annuire grave. Credo di dover dire qualcosa, ma io stesso devo ancora riprendermi dallo stress della battaglia. Lascio che il tramestio del campo riempia quel silenzio, almeno per un po’.

«Avete combattuto bene. Se non fosse stato per voi avremmo perso il quartiere,» articolo infine, cercando di guardare tutti i miei soldati negli occhi.

Una sequenza di iridi dalle varie sfumature, per lo più chiare, ricambia le mie in una successione confusa. Di molti di loro non ricordo il nome, altri li conosco solo di vista, ma riesco a inquadrarli: a parte pochi, fanno tutti parte del gruppo intrappolato nella distilleria. Degli altri non v’è traccia. Le divisioni interne sembrano già molto nette, e non è un bene, lo dimostra il modo disordinato con cui abbiamo agito sul campo. Ho l’impressione di dover fare un bel discorsetto ai miei uomini, se abbiamo intenzione di uscire da questa guerra vivi. Ma non oggi: sento già un principio di mal di testa stringermi la nuca.

Mi chiedo soltanto perché mi abbiano assegnato una truppa così numerosa, considerando che questo è stato il mio primo scontro vero e proprio. La mia prova del fuoco, che ironia. Controllare così tante unità sul campo si è rivelato molto più complesso del previsto, soprattutto perché dovevo tenerla al riparo dalla mia stessa alchimia. Ho più di sessanta uomini ai miei ordini e oggi avrei potuto perderne la gran parte.

«Se non fosse stato per le tue fiamme a quest’ora nessuno di noi sarebbe qui,» ribatte semplicemente Roderick, rimasto taciturno finora. Un sorriso leggero increspa la sua barba rossiccia.

Ricevo altri sguardi grati e sorrisi un po’ titubanti e sento una punta dell’orgoglio che avevo sepolto riaffiorare in superficie.

«Signor Maggiore?» un soldato – Pete? – che avrà almeno cinque o sei anni più di me mi si rivolge come se stesse parlando con qualche pezzo grosso dell’esercito. Gli faccio cenno di proseguire. «Pensa che ci consentiranno di tornare a casa per... per seppellire i caduti?» chiede, esitante.

Non so chi abbia perso, ma dal suo sguardo improvvisamente sofferente capisco che è qualcuno di caro. Un amico, o forse un fratello.

«Spero di sì,» rispondo senza sbilanciarmi, pensando a Dennis e William e ai teli bianchi.

Nonostante non fossimo così legati è innaturale non vederli con gli altri dopo aver affrontato l’Accademia insieme. È innaturale non sentire la risata rara ma inconfondibile di William ed è innaturale non sentire i costanti fischiettii sottovoce di Dennis, che accompagnava quasi ogni conversazione con una marcetta o un bolero inventato sul momento.

«Di solito non lo permettono. Ti convocano solo per identificarli,» interviene una ragazza, brusca.

La guardo, un po’ seccato per l’intervento indelicato, ma freno ogni rimbrotto nel vederla: i suoi occhi grigi sono puntati verso l’orizzonte delimitato dalle tende. Hanno la stessa sfumatura delle strade di East City – spente, malmesse. Ha la divisa stracciata e sporca, gli stivali consunti a cui si sta scollando una suola. Deve essere qui a Ishval da un po’. Mi chiedo quanti compagni e amici abbia perso lei. Pete, a quelle parole, abbassa gli occhi afflitto.

«Chiederò conferma al Colonnello,» mi limito a dire, sentendo la gola secca.

Devo andare.

«Adesso riposatevi. Domani probabilmente ci spediranno di nuovo a Nasha per consolidare l’area,» annuncio, senza sapere davvero niente per certo, ma fingendo che sia così per rassicurarli.

Loro annuiscono; ci scambiamo cenni di saluto frettolosi, formali o meno, e mi allontano in fretta, tirando un sospiro di sollievo insensato nella calura opprimente. Mi avvio finalmente alla tenda di Ironclad, la cui entrata è sorvegliata da una guardia. Storco il naso nel prendere atto delle dimensioni della tenda: ho la fortuna di averne anch’io una singola, ma questa è almeno tre volte più grande. È pur vero che funge da centro di comando per Nasha, ma posso solo immaginare le comodità che Ironclad può avervi fatto installare – per esempio, un vero letto.

«Maggiore Mustang. Devo fare rapporto al Colonnello,» mi identifico, mostrando svogliato l’orologio d’argento.

«Non è di buon umore,» mi avverte lui sottovoce, scansandosi di lato.

«Lo so,» rispondo secco, preparandomi mentalmente alla strigliata che mi aspetta.

Non sono nuovo ai rimbrotti delle autorità, ma credevo di essermeli lasciati alle spalle assieme ai corridoi del collegio. All’Accademia sono miracolosamente riuscito a mantenere un basso profilo, con Oskar che fungeva da specchietto per le allodole con le sue bravate eclatanti che mascheravano le nostre. Sospirando, scosto il lembo della tenda ed entro.

Dall’interno, lo spazio sembra ancora più grande, ma non così lussuoso come mi aspettavo. C’è effettivamente un letto nel vero senso della parola, lì dentro, ma è una semplice brandina da campo mezzo piegata da un lato. Al centro, dietro al supporto centrale, c’è un tavolinetto sbilenco sul quale è spiegata una carta di Ishval. Sopra di essa sono posizionate delle pedine e di fianco spicca un bicchiere di vino, terribilmente fuori luogo. Appoggiata al tavolo, con la punta del fodero nella polvere, c’è una sontuosa spada da ufficiale.

Il Colonnello è seduto, chino sulla mappa coi gomiti puntati: sembra non essersi accorto del mio arrivo. Ho avuto modo di vederlo solo da lontano, ma dalle voci bizzarre che corrono su di lui avrei fatto a meno di un incontro ravvicinato. Vicker Ironclad è un uomo alto e allampanato, dai capelli grigi stempiati che mostrano i segni dell’età, nonostante le mani nodose lascino ancora intravedere un marcato vigore. Il pastrano bianco è appeso allo schienale e le mostrine lucide sulla sua divisa da parata sono bene in vista, quasi fosse in procinto di sfilare in pompa magna in mezzo all’accampamento. Mi hanno avvertito delle sue stranezze.

Faccio per avvicinarmi cercando di richiamare la sua attenzione, ma riesco appena a muovere un passo che lui alza la testa e mi trapassa con occhi cristallini e acuti. Riesco a vedere chiaramente la profonda cicatrice che gli sfigura il volto, dalla tempia destra all’angolo del labbro sinistro: un ricordo della Guerra Civile del Sud.

«Non ti ho dato il permesso di entrare, soldato.»

La sua voce risuona profonda, ma arrochita dagli anni passati a gridare ordini. Mi blocco sul posto e lui riporta la sua attenzione alla carta, come se non esistessi. Contraggo la mandibola. Un uomo più intelligente e meno orgoglioso di me starebbe zitto.

«Mi ha convocato a fare rapporto, se non sbaglio.»

Ho la sensazione che la temperatura cali a picco di almeno dieci gradi. Il Colonnello solleva di nuovo lo sguardo. Stavolta prende nota della catenella d’argento che fa capolino dalla mia tasca e un brillio di comprensione gli balugina nelle pupille.

«Sei tu il bastardino di East City?»

Mi sento avvampare e reprimo la risposta pungente che mi sale alle labbra. Sto in silenzio, ma non riesco a camuffare il risentimento nei miei occhi.

«Ti ho fatto una domanda, soldato.»

«Sono il Maggiore Roy Mustang, l’Alchimista di Fuoco,» scandisco, sforzandomi inutilmente di mantenere un tono neutro – non mi riesce affatto bene.

Ironclad si alza in piedi e, nonostante l’età, è ancora impettito e diritto. Sembra riempire la tenda, nonostante non sia poi così corpulento. Il suo volto scavato s’indurisce.

«Risparmiati quei nomignoli altisonanti di cui andate tanto fieri. So chi sei. Mi avevano detto che voi cani dell’esercito eravate “particolari”. Ma se pensate che ciò mi spingerà a passare sopra alla vostra indisciplina, fareste meglio a morire in battaglia il prima possibile come il resto dei soldati semplici.»

Ignoro l’ultimo commento. Se ho quasi perso la mia squadra è per colpa delle informazioni superficiali che ci sono state riferite e dell’incompetenza della Squadra Scout. Entrambi i fatti possono essere ricondotti alla negligenza di Ironclad, ma la mia posizione è già abbastanza delicata senza farglielo presente.

«Avevo richiesto il tuo rapporto più di un’ora fa, Maggiore.»

Per questo non ho scusanti, per cui mi limito a chinare il capo, vincendo il mio orgoglio, ma senza offrire alcuna scusa in merito.

«Abbiamo conquistato la zona commerciale nel distretto di Nasha e...»

«Risparmia il fiato. Sono già stato informato dal Tenente Foster. Sembra che vi siano solo sei superstiti della Squadra Scout.»

Alzo gli occhi, assottigliandoli.

«Sette. Ne abbiamo salvati sette.»

«Il sottotenente Gries è morto mentre tu eri impegnato ad oziare,» risponde seccamente lui, «e anche la tua squadra ha subito perdite. Mi aspettavo di meglio, dal tanto decantato Alchimista di Fuoco.»

La frecciata va a segno e la incasso con una contrazione del volto. Non ha bisogno di ricordarmi dei soldati che ho perso. E poi, dov’era Foster in tutto questo? Mi viene da pensare che abbia battuto la ritirata non appena ha capito che brutta aria tirasse per loro, e probabilmente ha trascinato con sé il resto della mia truppa misteriosamente irreperibile, abbandonando gli altri al loro destino. Razza di codardi.

«Comunque, non importa più. Non è questo il problema,» aggiunge Ironclad, dopo una breve, significativa pausa.

Alzo mentalmente gli occhi al cielo – trattenendomi dal farlo davvero per puro istinto di autoconservazione – e lo anticipo, maledicendomi:

«Mi scuso per il comportamento irrispettoso di poco fa, Colonnello. Non accadrà di nuovo.»

È come se dovessi strappare ogni singola parola dalla mia bocca a forza con una tenaglia. Più che una scusa, sembra una minaccia. Ironclad mi fissa e basta, stranamente interdetto. Le sue labbra si tendono in quella che sembra una smorfia di disgusto, ma è difficile dirlo. Lo sfregio gli attraversa l’intero volto e l’angolo sinistro della bocca è inclinato decisamente verso il basso. Ogni suo lineamento si muove in modo innaturale, ed è solo a fatica che capisco che sta sorridendo, anche se non so con quale intento. I suoi occhi rimangono freddi.

«Impari in fretta,» commenta aridamente; il suo volto ritorna una maschera impenetrabile e grinzosa , «ma il mancato rapporto non è stata certo la tua più grande dimostrazione d’indisciplina, oggi.»

Mantengo una facciata impenetrabile, ma un sottile velo di sudore freddo mi insidia la nuca. Essere all’oscuro di qualcosa, soprattutto qualcosa di cui sono artefice, mi fa sentire allo scoperto, in un campo minato. Attendo in silenzio che il Colonnello mi illumini, senza dargli la soddisfazione di chiedere delucidazioni. Il suo sguardo impatta contro il mio, e vedo chiaramente quanto sia infastidito dal mio modo di fare.

«Il tuo comportamento sul campo è stato... discutibile,» si pronuncia infine, puntellando le dita ben distanziate di una mano sulla mappa, quasi a prendere le misure di qualcosa.

«Anche questo gliel’ha detto il Tenente Foster?»

«Lui, certo. E i tuoi osservatori.»

A questo punto non posso evitare di sgranare gli occhi.

«Mi... tenevate d’occhio?» chiedo cautamente, oscillando tra indignazione e inquietudine.

«Alcuni veterani capitati nella tua truppa si sono fatti “assumere” per qualche razione più abbondante e un letto comodo,» spiega lapidario, ma colgo anche una vena di disprezzo nella sua voce. «Voi Alchimisti siete un esperimento voluto dai piani alti. E non possiamo permetterci esperimenti fallimentari

Mi squadra da capo a piedi come se avesse a che fare con una cavia da laboratorio.

«La tua alchimia ci sarà molto utile, da quanto mi è stato riferito.» Ironclad incrocia le dita, intersecandole alle linee della mappa. «Sono un profano, ma sembra potente quasi quanto quella dell’Alchimista Scarlatto, e molto più controllabile; di certo hai meno esperienza di Grand e Komanche, ma sei già un’arma notevole, Maggiore Mustang. Dovresti solo eseguire gli ordini.»

Storco apertamente il naso alla parola “arma”, ma sono confuso. Come avrei potuto disobbedire a un ordine, anche volendo?

«Ero il più alto in grado,» specifico, accigliandomi. «Non ho dovuto rendere conto a nessuno.»

Ironclad scaccia quest’affermazione con un gesto della mano, come fosse una mosca fastidiosa.

«Sì, sì, la questione dei ranghi,» sospira seccato. «Sarete anche equivalenti a maggiori, voi cani dell’esercito, ma non avete più autorità di quanta ne abbia un capitano. Spero che il concetto sia chiaro una volta per tutte.»  Fa una pausa, senza staccare per un istante gli occhi da me. «Piuttosto, cosa non ti è chiaro dell’Ordine 3066?»

Un peso scivola sul mio petto prima ancora che possa realizzare a cosa voglia alludere. Rispondo guardingo, dosando e calibrando ogni parola e intonazione della voce.

«Non capisco cosa intende. Ho spazzato via l’avamposto dei ribelli senza esitare. Da quel che ho potuto constatare, non ci sono stati sopravvissuti.»

L’immagine di quel cadavere sventrato, dei suoi occhi bianchi, si sovrappone per un istante alla mia vista. Un conato mi stringe la bocca dello stomaco e deglutisco a forza aria e poca saliva per placarlo.

«Non avete rastrellato la zona,» replica seccamente Ironclad.

«Non eravamo nelle condizioni di farlo: se ci fossero stati altre bande di ribelli ci avrebbero sicuramente attaccato durante la ritirata. E poi quello è un distretto civile

La scintilla che si accende nel suo sguardo è solo un fievole indicatore della rabbia che è appena montata dentro di lui, quasi del tutto impercettibile dall’esterno.

«Hai idea di quanti Ishvaliani potevano essere barricati nei magazzini e nei palazzi circostanti?» il suo tono sprofonda, diventa glaciale. «A quest’ora si saranno già spostati in un altro distretto per riorganizzarsi. Pensi che il solo nemico siano i ribelli?»

La terra sotto ai miei piedi si fa molle. Sono del tutto cosciente di ciò che il Colonnello sta implicando, ma, esattamente come ho fatto quando mi sono ritrovato tra le mani il riepilogo dell’Ordine, chiudo fuori a chiave quelle parole. Guerra di sterminio. Il mio cervello ha voluto intenderla come “sterminio selettivo”. Di potenziali pericoli per Amestris. Dei soldati e ribelli che minano e attentano alla sicurezza e pace della nostra gente nell
’Est.

Il cadavere del guerrigliero carbonizzato si trasforma in quello di un uomo comune... e poi di una donna... e poi di un vecchio... e infine di un bambino e– il conato diventa una morsa che mi strangola lo stomaco e sento il sangue defluire di colpo dal mio viso. Il sapore della bile mi ristagna sul palato.

«Stiamo parlando di civili!» sbotto incredulo, e la mia voce trema un poco.

«Civili, sì. Che secondo l’Ordine 3066 devono essere considerati alla stregua di nemici per Amestris, e pertanto eliminati.»

«Non posso bruciare vive persone innocenti!» la mia voce decolla e quasi mi dimentico di stare parlando con un mio superiore.

«Ogni Ishvaliano che risparmi equivale a un soldato di Amestris che muore.» Ironclad rovescia un paio di pedine sulla mappa con un secco colpo di nocche. «Vuoi davvero portare avanti questa guerra più a lungo di quanto serva? Sette anni non sono stati abbastanza?» aggiunge, e la sua voce bassa ora somiglia a un ringhio.

Apro la bocca per ribattere, ma ogni parola si è rifugiata sotto la lingua, lasciandomi muto.

«Bastano gli alti gradi a trascinare avanti questo bagno di sangue e a mandare gli uomini al macello. Non accetterò un comportamento simile da un mio subordinato.»

Ironclad si ricompone, torna composto come quando sono entrato nella tenda.

«Sei in guerra, Mustang,» proferisce poi, con un tono che mi ricorda quello del vecchio Pastore di Bushmills. I miei guanti diventano pesanti nella tasca, quasi si fossero trasmutati accidentalmente in piombo. «Quando hai accettato di indossare quell’uniforme, hai accettato anche il sangue che l’avrebbe sporcata. Fai il tuo dovere, come io faccio il mio.»

Ironclad mi trafigge con lo sguardo e ricambio con un’occhiata furiosa che ha il retrogusto acido dell’impotenza. Vorrei mandarlo al diavolo, ma so che se dovessi disobbedire di nuovo mi troverei davanti alla corte marziale. E forse non solo io. Taccio, coi pugni serrati. La conversazione avuta in treno coi miei compagni mi torna in mente, vivida. Amestris annega sempre i suoi conflitti nel sangue. Ho davvero ingenuamente pensato che non avrebbe sporcato le mie mani? Non so darmi risposta, e forse non voglio.

Capisco che l’incontro è terminato quando il Colonnello si siede di nuovo al tavolo e riprende a fissare la mappa. Riposiziona con cura le due pedine che ha colpito.

«Tra le altre cose, faresti bene a nominare un luogotenente. Voi Alchimisti siete più vulnerabili,» non si risparmia un’occhiata derisoria, «e avete bisogno di qualcuno che porti avanti la truppa e vi faccia da scudo mentre voi siete impegnati a fare i vostri trucchetti alchemici in retroguardia.»

«La mia non è un’alchimia da retroguardia,» ribatto in automatico, senza curarmi del tono che sto usando. «Combatto in prima linea.»

Gli occhi slavati di Ironclad si sollevano per una frazione di secondo a trapassare i miei, forse accesi da una scintilla d’interesse, poi tornano a ignorarmi.

«Nomina comunque un luogotenente. Se muori, qualcuno dovrà pur prendere il comando in tua vece.»

Fissa brevemente la mappa davanti ai suoi occhi e sposta una pedina rossa di qualche centimetro. Immagino che rappresenti la Squadra Flame. Mi fa sentire insignificante, manipolabile. Carne da macello. Lo sapevo, realizzo in quell
’istante, con un crampo allo stomaco, l’ho sempre saputo. Gli occhi del mio Maestro mi trafiggono a distanza di anni, colmi di sardonico disprezzo.

«Domani, tu e la tua truppa attaccherete quest’area del distretto di Sarkis. È una zona povera, un intrico di baracche e seminterrati. I bastardi che avete risparmiato oggi si sono probabilmente rifugiati là dopo la caduta di Nasha.» Rialza brevemente gli occhi verso di me. «Stavolta eseguirai l’Ordine alla lettera. Non lo ripeterò di nuovo, Mustang.»

Mi concentro sulla pedina, imponendomi di non contraddirlo.

«Sissignore,» rispondo in modo meccanico, mettendomi sull’attenti con una prontezza e simmetria dettate dall’abitudine.

Aspetto il cenno noncurante di Ironclad per uscire in fretta e furia da quella tenda. Sento i suoi occhi puntati sulla schiena anche quando sono ormai fuori. Vengo stordito dal caldo torrido, che sembra ancor più intenso nella vibrante luce rossa del tramonto vicino. Allo stesso tempo, un brivido mi scuote. Le gambe sembrano non appartenermi – oppure sono rimaste davanti a Ironclad, pietrificate.

Nel punto in cui c’era la mia truppa sono rimasti solo Oskar, Alena, Patrick, Jace e Roderick. Mi incammino malfermo verso di loro, ricomponendo un tassello alla volta una facciata imperscrutabile. Nell’avvicinarmi, colgo un dettaglio del tutto superfluo, che è però una gradita distrazione dalla battaglia infinita che mi imperversa nel cranio: Jace tiene con disinvoltura un braccio sulle spalle di Alena. Mi acciglio tra me e me, anche se potrebbe non voler dire nulla. Teoricamente, dovrei impedire relazioni tra i commilitoni... ma dopo i miei trascorsi dell’Accademia sono l’ultima persona nell’esercito a poter mettere bocca in queste faccende. Prendo comunque l’appunto mentale di tastare il terreno con Jace.

«Allora? Ti ha fatto a pezzi?» chiede scherzoso Oskar, giocherellando con la treccina sulla nuca, ma si rabbuia all’istante quando vede la mia espressione.

«Non dirmi che ti ha messo al gabbio per il ritardo,» commenta Rod, preoccupato.

«No, niente del genere.»

La mia voce si rifiuta di collaborare e sembra più stridula del normale. Oskar sta per fare una delle sue battute poco felici, ma si rimedia una gomitata da Jace, che mi squadra con attenzione.

«Devo...» esito e capisco di non avere la forza di dire loro dell’Ordine, almeno non ora. Vigliacco. «Devo nominare un luogotenente,» butto lì infine, suonando molto poco convincente.

Mi fissano dubbiosi, capendo che li sto depistando, ma fortunatamente Alena accorre in mio supporto:

«E chi ha scelto?»

«Non prendetela sul personale,» prendo tempo distrattamente, scostandomi i capelli dal viso e rimanendo abbagliato al sole che manda un lampo quando sfiora il confine tra cielo e terra.

«Ah, non farmi morire senza sapere da chi altri dovrò prendere ordini,» sbotta Oskar, sbuffando, e la sua cinica scelta di parole, nonostante sia una mera battuta, mi raggela.

Non dovrei dirlo ora, così, su due piedi, senza nemmeno valutare le scelte a mia disposizione – non molte, a dire il vero, considerando che tutti i possibili candidati sono qui, meno uno che è ormai sotto un telo bianco. Sono consapevole che questa è una decisione di rilievo e mi sento superficiale a prenderla alla leggera, ma ormai non posso tirarmi indietro. Sono tutti sottoufficiali ma non devo farmi influenzare dal loro grado, né dal livello di confidenza che ho con loro. William sarebbe davvero stato la scelta perfetta, concludo mesto.

Penso rapidamente: scarto subito Patrick, che mi sembra un po’ troppo entusiasta di essere su un campo di battaglia. Alena sembra un bravo soldato, ma la conosco decisamente troppo poco per affidarle l’unità. Oskar è da escludere assolutamente. Ci farebbe ammazzare con i suoi colpi di testa imprevedibili – e non è tra le mie priorità porlo in prima linea. Jace e Roderick... esito, sentendo di avere ancora pochi secondi per scegliere. Non avrei dovuto tirar fuori l’argomento adesso. Roderick viene immediatamente oscurato, quasi in automatico, e il riflettore ricade su Jace. Jace, che riesce sempre a vincere a poker e non si fa problemi a parlare con franchezza. Che è riuscito ad avere una condotta immacolata all’Accademia nonostante si cacciasse nei guai quanto noi. Che ha perso tutti i suoi cari a Fotset, in una guerra civile sanguinosa quanto questa. Non lascerebbe mai i suoi compagni allo sbando.

Incrocio il suo sguardo e mi sembra di cogliervi un’intesa. I suoi occhi sono calmi, forse troppo per qualcuno che è appena sopravvissuto a una battaglia vedendo morire i propri compagni. Sto per parlare, ma improvvisamente sento un groppo in gola, una barriera che si interpone tra i miei pensieri e ciò che dico – ci impatto contro, senza poterla evitare.

«Roderick,» annuncio, indicandolo con un cenno mentre già mi pento di aver parlato.

Rod mi guarda sorpreso, gli occhi che scattano qua e là a conferma di aver sentito bene. Jace gli dà una gran pacca sulla schiena a congratularsi, ma colgo la sua occhiata interrogativa diretta a me. La ignoro, forzando un sorriso.

«Stai scherzando? Io comandare una squadra?» sbotta l’eletto, piantandosi un indice tozzo sul petto.

Come dargli torto. È stata la decisione più idiota che potessi prendere e mi sento in dovere di ridimensionare i suoi compiti:

«Solo in mia assenza. E seguendo i miei ordini.»

«Quindi farà quello che fa di solito,» commenta Patrick, grattandosi il naso, evidentemente contrariato dalla mia decisione.

Non replico e scrollo le spalle prima di incamminarmi verso la mia tenda, seguito dagli altri che discutono animatamente la mia scelta come se neanche fossi presente. I toni non sono particolarmente entusiasti e non posso dar loro torto. Roderick, il “gigante buono”, che comanda una squadra incaricata di massacrare persone innocenti. Non può finire bene.

Ci separiamo al centro del campo, loro diretti alle tende comuni, io a quelle nel settore degli ufficiali superiori. Poco prima di allontanarsi, Jace si volta verso di me, schermandosi gli occhi dal sole:

«Sicuro che non ci sia altro? Hai una faccia,» commenta, con un cenno del mento a rafforzare il concetto.

Sostengo il suo sguardo e sorrido rassicurante, ma i miei occhi rimangono freddi e so di non ingannarlo.

«Sicuro.»



 




 


Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
no, non ho dimenticato questa storia, sono solo molto, molto lenta nel portarla avanti per tutta una serie di motivi. I capitoli che avete letto finora sono stati scritti quasi 10 anni fa e richiedono pesantissime opere di revisione. Questo è quello che, forse, ha subito meno interventi rispetto agli altri, e credo la cosa sia abbastanza evidente, a partire dallo stile che, me ne rendo conto, è farraginoso. Ho scelto comunque di non operare troppe interpolazioni, pur sistemandolo dal punto di vista formale.

Vicker "Ironclad" (il vero cognome verrà rivelato più avanti) è un mio OC, il primo che sia mai scaturito dalla mia penna. Vi chiedo di non riutilizzarlo in alcuna sede né di trarne ispirazione in qualsivoglia modo, in quanto tutto ciò che lo riguarda è totale frutto della mia fantasia ♥
Spero che vi abbia suscitato curiosità: il modo in cui si presenta può magari sembrare scontato, ma spero non sarà lo stesso con l'avanzare del tempo e della trama.

Grazie a chi ha commentato recentemente questa storia, ovvero Rhoda, LaTazzadiTea e lovelyhinata, dandomi la carica per riprenderla: sappiate che ogni vostro commento e lettura ha un valore ♥
Alla prossima, stavolta sicuramente prima di quanto pensiate,

-Light-

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Capitolo 11
*** III: Ad occhi chiusi – Capitolo 3 ***


Parte III

Ad occhi chiusi
.3.
 



24 Maggio 1908
Distretto di Sarkis, Ishval
21:45


Lultima esplosione lacera laria, inghiottita da unaltra nube di fuoco. Rimango immobile per qualche secondo, scrutando loscurità graffiata dai fasci di luce dalle lanterne cieche. Nella notte echeggiano ancora una sequenza di spari e qualche grido; un boato di granata, uno schianto, lacciottolio di calcinacci che impattano a terra. 

Poi, il silenzio. Non abbasso la mano ancora pronta a trasmutare.

A distanza di pochi minuti, una sagoma corpulenta si inerpica sul terrapieno sul quale ho preso posizione e intravedo a fatica il volto fuligginoso di Roderick.

«Larea è libera,» mi annuncia, trafelato. 

Una chiazza rossa gli impregna la barba sulla mandibola, dove qualche frammento esploso lha sfiorato, bruciando i peli. Mi alzo finalmente in piedi, con le gambe strette dai crampi dopo ore passate accovacciato a forzare gli occhi attraverso il buio cieco di una notte senza luna né stelle.

«Ottimo. Raggruppa gli altri, torniamo al campo.»

Con questo buio non riesco a decifrarne appieno lespressione, ma sembra rilassarsi allimprovviso, lo deduco dalle spalle larghe che perdono la loro rigidezza metallica. La battaglia è finita: ci aspettano il rancio e un breve sonno ristoratore. Quellidillio di serenità fittizia si incrina con le successive parole che pronuncia:

«E i civili? Li facciamo prigionieri?» chiede quasi distratto, mentre ci avviciniamo al magazzino adiacente a un bazar ormai carbonizzato.

Torno istantaneamente in allerta e solo ora noto una fila di soldati coi fucili puntati allinterno della struttura, oltre la grata alzata. Strizzo gli occhi attraverso la caligine e scorgo una trentina di persone in vesti bianche oltre lampia soglia del magazzino, tutte in ginocchio con le mani dietro la nuca. Distolgo in fretta lo sguardo e prendo Roderick da parte, strattonandolo per il gomito lontano da orecchie indiscrete. Volto deliberatamente le spalle ai prigionieri.

«Abbiamo lordine di ripulire la zona,» dico, senza mezzi termini.

Lui non sembra afferrare del tutto le mie parole e ricambia spaesato il mio sguardo. Occhi castani, morbidi, inadatti alla guerra.

«Roy?» chiede esitante, accantonando le formalità.

Fa’ il tuo dovere. La voce di Ironclad mi stride contro i timpani.

«Dobbiamo eliminarli.»

Tutto questo sarebbe molto più semplice, se al posto di Rod ci fosse davanti a me uno dei tanti altri soldati sconosciuti a cui poter impartire un ordine secco e incontrovertibile.

«Sono... sono disarmati,» protesta lui debolmente, e percepisco il suo tono oscillante, in bilico, come se si trovasse a parlare dun tratto con un estraneo.

«Non importa,» ribatto duramente, ma so che i miei occhi mi tradiscono. Vorrei chiuderli, escludere buio e luce e fiamme dalla vista così da non poterli più distinguere.

Solo adesso sembra realizzare ciò che gli sto dicendo. Si porta una mano ampia alla fronte sudata e fa un passo indietro.

«Li fuciliamo sul posto? Come se niente fosse?» farfuglia, guardando dietro di me.

«È il modo più rapido,» dico a mezza voce.

«Rapido?» pianta le pupille nelle mie, ed è la prima volta che le vedo scintillare di rabbia. «Ne stiamo veramente discutendo?»

«No, infatti. Il mio era un ordine.»

«Come puoi aspettarti che mi sporchi le mani di sangue innocente senza fare una piega?» scuote la testa e mi volta le spalle scosse da respiri pesanti, nel tentativo di calmarsi, una mano puntata sul fianco, laltra a scarmigliarsi i capelli con una forza tale da graffiarsi lo scalpo.

Cerco di trattenermi e sto per rimbrottarlo, ricordandogli chi è in comando, ma le parole escono ancora una volta di loro volontà:

«Allora me ne occupo io.»

Lui torna a guardarmi, più confuso che mai.

«Da solo? E come...» chiede distinto, ma sinterrompe a bocca schiusa. «Non vuoi...»

«Non posso ucciderli uno alla volta, Sergente Eckhart.»

Prendo le distanze da lui, ma non sembra funzionare e ricevo solo unocchiata astiosa, sbieca. Di qualcuno che fissa insistentemente una macchia sul soffitto, chiedendosi da dove sia spuntata o se sia sempre stata lì, e perché non lha mai vista. Forse mi sto ponendo la stessa domanda, ma la verità è che non sto pensando. Non sto realmente riflettendo su ciò che mi sono proposto di fare. Per ora riesco solo a capire, pragmaticamente, che sparare a ognuno di loro di persone e lasciare che vedano i loro cari morire uno dopo laltro sarebbe molto peggio.

«Con... col fuoco?»

Il suo tono è colmo di paura e orrore, oltre la piattezza dello sconcerto, e sento una stretta al petto opprimermi. Vorrei mettermi a urlare e rompermi i pugni contro un muro, sbrindellarmi le mani, invece riesco solo a riversare la mia rabbia su Roderick.

«Sì, se non vuoi impugnare tu il fucile assieme a me e ai tuoi compagni e risparmiarci questo supplizio.»

Una pagliuzza annidata sotto il mio cuore implora Rod di riconsiderare, di scegliere il modo più pulito che infangherà la coscienza di noi tutti a pari merito. Non riesco a credere di aver appena pensato una cosa simile – come se il modo cambiasse davvero il risultato. Il crimine di cui ci macchieremo inevitabilmente.

Fa’ il tuo dovere. Di nuovo, i guanti sembrano farsi di piombo.

Rod, però, non risponde, e lo vedo mordersi quasi a sangue le labbra, gli occhi annacquati da lacrime che, forse, sono solo frutto del fumo denso. Lo incalzo, intravedendo la crepa, lo spiraglio che un amico non dovrebbe mai forzare volontariamente:

«Hai una scelta che non dovrei nemmeno darti. Ma va fatto: se non obbediamo saremo noi a trovarci di fronte a un plotone desecuzione.»

«Io non credo di poter... credo di parlare anche per gli altri quando dico che...» incespica nelle sue stesse parole, sprofondando infine nel silenzio, viscoso come morte.

Prendo un respiro prima di parlare, ed è come se qualcuno mi stesse soffocando con un nodo scorsoio.

«Allora me ne occupo io.»

Sento un fardello scivolarmi sulle spalle e piantarsi lì, doloroso. Roderick continua a scuotere la testa, sconvolto.

«È disumano, Roy,» mormora, a occhi bassi.

Non lo nego. Farlo sarebbe futile e ridicolo. Mi limito a fissarlo, cercando i suoi occhi castani in cui guizzano i riverberi del fuoco.

«Tutto questo potrebbe finire con pochi spari in pochi secondi. E saremmo tutti egualmente colpevoli,» la mia voce suona innaturalmente fredda.

«Non siamo assassini,» replica debolmente lui.

«Nemmeno io lo ero, fino a stamattina.»

Sostengo il suo sguardo, finché è lui ad abbassarlo per primo. I bei discorsi che facevamo allAccademia, le chiacchiere spensierate sul treno... come tutto questo sembrasse un gioco non molto diverso dalle esercitazioni e dalle parate militari a cui prendevamo parte: tutto sfuma nellinevitabile verità su cui poggiamo i piedi, fatta di sangue e sabbia. Sprofondiamo, lentamente, inesorabilmente.

Vedo Roderick e non vedo un soldato, ma un ragazzo troppo cresciuto catapultato in una divisa, con degli occhi da bambino incastonati tra la folta barba rossiccia, le guance ancora rosse del sole dellEst.

Lui non ha visto il cadavere bruciato. Non ha realizzato che William e Dennis, e adesso anche Henry e Douglas, sono morti per qualcosa in cui hanno smesso di credere nel momento in cui una pallottola li ha trafitti. Non ha mirato alla testa col fucile, ma sempre alle gambe. Non si è unito ai più anziani della truppa per assicurarsi che tutti i nemici a terra fossero morti, finendoli con le baionette. Non scaglia le fiammate che lasciano gli uomini a contorcersi a terra invocando una morte rapida, che io non ho il coraggio di accelerare col colpo di grazia.

Gli occhi del guerriero bruciato mi fissano dal buio, bianchi, bolliti dal fuoco.

Mi sforzo di voltarmi verso il resto dei miei uomini. Non vedo altro che un gruppo di ragazzini mandati al macello e so che sono il mio specchio. Sono miei compagni, alcuni anche amici, e in questo momento si abbatte su di me la consapevolezza che probabilmente nessuno di loro vivrà abbastanza a lungo per diventare un soldato.

Forse Jace sarebbe lunico che si prenderebbe questo peso sulle spalle e lo dividerebbe con me, prendendolo come un qualcosa di orribile, ma inevitabile. E capisco ora perché non ho nominato lui luogotenente. Sarebbe come vedere un amico trasformarsi in un mostro; lui ha la capacità per diventarlo. Come me.

Mi chiedo cosa penserebbe Maes di tutto questo. Se riuscirebbe a guardarmi negli occhi in tacita accettazione, come sta facendo Jace, o se mi prenderebbe per il bavero scaraventandomi nella polvere.

Stringo il pugno guantato. Dovrei impormi, costringerli a imbracciare i fucili con me e fare ciò che va fatto. Mi giro verso Roderick e vedo che ha gli occhi velati e laspetto di un vecchio divorato da rughe di tensione.

«Questo pesa sulla mia coscienza quanto sulla vostra,» mormoro infine pungente, superandolo con rapide falcate per avvicinarmi al magazzino.

Lui mi guarda, ammutolito da parole troppo grandi e sbagliate, e mi segue con passo macilento, incerto, come un ubriaco. Sembra già abbastanza consapevole di aver condannato delle persone a una morte atroce – siamo giudici e giuria e boia, nient’altro – ma non posso fare a meno di rimarcare il concetto:

«Siete complici in questo. Non pensate di non esserlo solo perché adesso non vi permetto di sporcarvi le mani.»

Con queste parole avanzo fino alla linea del picchetto, segnalando loro di sciogliere i ranghi. Ignoro volutamente il cenno di saluto di Oskar e lui mi fissa risentito. Patrick e Alena mi lanciano occhiate perplesse. Colgo lo sguardo di Jace – acuto, diretto – e so che lui ha capito. Vedo una freddezza nei suoi occhi che fino ad ora ho scelto di ignorare. Ma è sempre stata là, sin dal momento in cui ci hanno spediti qui.

«Tornate al campo,» ordino, guardando Roderick.

«Roy, non devi per forza...»

Lo fulmino con uno sguardo e lui tace allistante.

«Caporale Sikorsky!» alzo la voce e faccio un cenno perentorio a Jace.

Il brusio degli altri cessa allimprovviso, stroncato dalle mie parole.

«Prendi il comando al posto di Eckhart e riporta la Truppa Flame alla base.»

Da dove viene questa nota metallica che trapela nel mio tono? Sembra scaturire da una parte profonda di me che è sempre rimasta sopita, un pozzo oscuro dal quale adesso si riversa bile nera. I miei compagni mi guardano interdetti, primo fra tutti Oskar.

Li ignoro e scruto con attenzione i prigionieri Ishvaliani davanti a me. Non posso fare a meno di notare quanti giovani ci siano tra loro. Avranno la nostra età. Ci sono anche degli anziani, delle donne. Una di loro stringe un fagotto al petto e sento quella voragine nera che mi inghiotte del tutto, chiudendo le fauci, nel momento in cui scelgo di ignorarlo e fingere che non esista. Non riesco a guardarli negli occhi, ma sento i loro che mi inchiodano sul posto con odio, rabbia, paura – una stilla di speranza affinché io li risparmi. 

Brucia. Qualcosa, dentro di me, prende fuoco e resta accesa, ad ustionarmi gli organi interni con fiamme fredde.

«... sissignore,» arriva tardiva la risposta di Jace, che si riprende con prontezza e ordina alla truppa di schierarsi e mettersi in marcia. Non protesta.

Colgo con la coda dellocchio Oskar che sta per tornare indietro a passo di carica, un pugno alzato. Jace lo placca bruscamente e gli ordina di proseguire con uno spintone – da superiore a subordinato, non da amico ad amico. Rimango solo davanti allampio ingresso del magazzino, con gli occhi di trenta o più Ishvaliani puntati addosso. Consapevoli di ciò che sta per accadere: hanno visto come ho devastato il distretto poco fa.

Jace si attarda in fondo alla colonna ed esita ad avvicinarmi. Sospiro e mi volto verso di lui. I prigionieri non si muovono. Consci che non cè via di fuga, che un singolo uomo ha molto più potere e forza di quanto ne avrebbero loro messi insieme. Ogni secondo che passa è un secondo di ulteriore tortura per queste persone. 

Uno di loro grida con voce sfatta di paura e ira qualcosa di incomprensibile e gli altri gli fanno eco. Deamhan, deamhan*, ripetono, in una litania rabbiosa. Non ho bisogno di capire lishvaliano per sapere cosa vogliano dire.

«Non eravamo pronti,» dice laconico Jace, ora accanto a me.

La sua voce è calma, anche se venata di amarezza. Vorrebbe essere una giustificazione per questatto, ma è debole, troppo debole. Do le spalle ai prigionieri. Esito e lancio unocchiata dietro di me. Sarebbe così facile non farlo.

«Non lo saranno mai,» rispondo a bassa voce, escludendo volutamente lui e me da quellaffermazione. 

I suoi occhi non vacillano, concordando in silenzio. Sfrego il guanto senza guardare, scagliando una violenta vampata di fiamme allinterno del magazzino – fiamme bianche, le più potenti che ho, le più misericordiose.

Colgo solo per un istante il riverbero abbacinante del fuoco, un lampo nella notte. Le grida sono così distorte da sembrare a malapena umane, confuse al ruggito della vampa. Jace mi affianca, ma dopo pochi passi accelera, torna velocemente in testa alla truppa e mi lascia solo.

Stringo i pugni fin quasi a farmi male mentre il fuoco ruggente divampa dietro di me, avvolgendo il magazzino. Di nuovo, sento una scia di carne bruciata perseguitarmi e sono costretto ad appoggiarmi al muro per domare la nausea. Mi tremano le mani. Le urla strazianti, vere o irreali, mi lacerano le orecchie in echi di morte. 

Chiudo gli occhi, ma continuano a risuonare per tutto il cammino e anche quando mi addormento e per tutta la notte e fino allalba del mio primo giorno di guerra. Fisso il sole appena sorto che trapela dallapertura della tenda, illusoriamente luminoso. Lo fisso fino a sentirmi cieco.

Cè luce, oltre le tenebre. Ma non qui, non dentro di me.
 



Fine Parte III



Note:
*Deamhan: non c’è alcun glossario di ishvaliano in giro, né è mai stato esplicitato alcun termine in questa lingua, ma chi mi segue sa la mia fissa per le conlang (lingue fittizie), quindi è una mia invenzione per "demone/demonio", che ho scoperto coincidere con il suo corrispettivo in gaelico.

Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
l’avevo detto, che ci voleva un po’ di stomaco, per questa storia? Beh, lo ripeto.

Amo il personaggio di Roy, ma credo che ci si dimentichi troppo spesso che ha preso parte attiva in una guerra di sterminio. E che, al contrario di Armstrong, che ha avuto la forza di sottrarsi e rifiutare di perpetrarla ulteriormente, Roy ha scelto di obbedire agli ordini. Intendo esplorare a fondo questa sua area buia senza giustificarla, pur motivandola.

Allacciate le cinture: la guerra è iniziata davvero, adesso.
Alla prossima settimana,

-Light-

 

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Capitolo 12
*** Primo Interludio: Ambizioni ***


Primo Interludio

Ambizioni

 “Non sai bene se la vita è viaggio,
se è sogno, se è attesa, se è un piano che si svolge giorno
dopo giorno e non te ne accorgi
se non guardando indietro.
Non sai se ha senso.
In certi momenti il senso non conta.
Contano i legami.”

[Contano i legami – J.L Borges]

 




Marzo 1910
Rumpelstilzchen Pub, East City
23:30

 

«E questo sarebbe il tuo piano?»

«Sì. A grandi linee.»

«È un piano molto stupido.»

Hughes scuote la testa e beve un sorso di birra chiara, posando il boccale con un gesto brusco sul sottobicchiere di sughero. Si deterge la schiuma dal labbro e mi scocca un’occhiata indagatrice, col verde degli occhi reso più scuro dalla luce soffusa del pub.

Scuoto la testa: mi aspettavo una reazione simile, ma incasso comunque il colpo e abbasso lo sguardo sui rimasugli amarognoli della mia pinta rossa. Rimaniamo in silenzio, guardandoci intorno circospetti, ma nel locale affollato nessuno fa caso a noi.

È tornata la vita a East City, dopo mesi e anni di stenti al fronte, e oggi è particolarmente vivace, nell’anniversario della vittoria. Comitive miste di ogni età si affollano attorno al bancone e alle panche addossate ai muri, alcuni in divisa, altri in borghese, altri ancora a metà, coi pantaloni dell’uniforme e maniche di camicia. 

Gridano, brindano, fanno impazzire i camerieri e si attirano i richiami del gestore – che però ride anche lui sotto i baffi a manico d’ombrello e offre giri di bevute a tutti. Dietro il bancone occhieggiano foto sbiadite color seppia, che fanno cerchio attorno a quella più grande di un giovane in divisa, con gli occhi scuri come quelli del gestore. Dei crisantemi la adornano, fissati dietro la cornice, in un sipario bianco e appassito.

Non sento così tante risate tra militari dai tempi dell’Accademia; a tratti, quando risuona una più secca e alta, ho l’impressione di udire gli schiocchi dei fucili, quando riecheggiavano in lontananza oltre le dune di Ishval.

Hughes ferma una cameriera e ordina altre due birre, nonostante io non abbia nemmeno finito la mia. Ignora la mia occhiataccia.

«E dopo?» mi incalza inaspettatamente, tamburellando le nocche sul legno scuro.

«Cosa?» replico distratto.

Seguo i volteggi impacciati di due commilitoni che hanno improvvisato una mazurka fuori tempo in mezzo al locale, accompagnati dal battito ritmato di tacchi pestati sul pavimento. Hughes fa un gesto spazientito con la mano, richiamando la mia attenzione.

«Supponiamo che tu diventi Comandante Supremo... cosa farai dopo?»

Boccheggio per un istante, spiazzato dalla domanda così diretta. In mio soccorso arriva la cameriera, che esegue a sua volta una sorta di danza per schivare i disastrosi ballerini alticci che le sbarrano la strada senza rovesciare il vassoio. Mi prendo il mio tempo per pagare, aggiungendo una mancia consistente, come se l’esuberanza dei miei colleghi ricadesse anche sulle mie spalle, pur essendo in borghese. Lei mi ringrazia con un sorriso sentito.

Hughes rimane in silenzio, rilassato contro lo schienale della panca, ma non schioda lo sguardo da me neanche per un istante. Sa perfettamente come farmi innervosire. Nascondo la faccia dietro l’orlo del boccale, prendendone un sorso esageratamente lungo – non la migliore delle idee, in effetti.

«Cosa vuoi che ti dica?» sbotto infine. «Pensavo fosse un’idea molto stupida.»

«Il piano è stupido. L’idea no,» mi rimbecca lui, strizzandomi l’occhio.

Lo scruto oltre il vetro, nel riflesso delle lenti che gli schermano in parte le iridi. Le borse violacee ricalcate attorno ai suoi occhi non si sono ancora del tutto riassorbite, nonostante sia ormai normale dormire intere notti di fila. Il marchio della guerra è sbiadito, ma ancora visibile. Io fatico ancora a non svegliarmi di soprassalto ogni paio d’ore, con un senso di asfissia e la destra nuda contratta nel vuoto.

«Non hai detto così a Ishval,» borbotto tra i denti.

«All’epoca ho detto che era un’idea motivata da speranze infantili, o qualcosa del genere. E lo penso ancora, ma a me non importa perché lo fai, ma cosa farai dopo

«Non ho ancora deciso,» rispondo seccamente. «Mi sembra il caso di concentrarsi sul come, per adesso.»

A questo punto, Hughes sospira platealmente e mi preparo ad essere preso in giro come al solito. Quando fa così gli scotterei volentieri le chiappe... ma poi chi starebbe ad ascoltare i miei deliri?

«Se non impari a mentire come si deve, caro il mio Tenente Colonnello, non arriverai proprio da nessuna parte,» mi dice con esagerata compassione nella voce, rimarcando il grado che mi hanno appioppato assieme a una medaglia al valore, in un mattino grigio e gelido.

Alzo gli occhi al cielo, mentre una parte di me spera che la discussione finisca qui. È stato un errore intraprenderla, ma sto diventando sempre più irrequieto e tormentato dal mio obiettivo così fumoso, spuntatomi nel petto in quel giorno di vittoria che non mi è mai sembrato tale.

Riza ha percepito il mio turbamento, ma non posso incontrarla fuori dall’ufficio senza richiamare l’attenzione. Ho già destato fin troppi sospetti con la richiesta di appuntarla come mia assistente personale; la sgradita nomea che si portano appresso gli affari di famiglia è servita a qualcosa, stavolta, e i superiori mi hanno accordato di avere attorno una "bella presenza", se mi faceva sentire "più a casa". 

C’è mancato poco che incenerissi il Generale Hakuro per quel commento. Ma ho imparato che, per calcare i corridoi dei Quartier Generali, devo inghiottire orgoglio e amor proprio – mio e altrui.

Di conseguenza, le nostre conversazioni si riducono a quei pochi minuti di pausa in cui riusciamo a rimanere soli. Sapere che è dalla mia parte mi rinvigorisce, ma da soli non possiamo minimamente pensare di attuare il mio progetto. Mi mancano i mezzi, e soprattutto gli agganci per scalare la gerarchia militare. L’appoggio di Grumman fa comodo, ma il fatto che lo abbiano dislocato da Central a East City parla chiaro. Io stesso non sono benvoluto dagli alti gradi.


Però Maes... è riuscito ad avere una carriera notevole e il fatto di lavorare per il tribunale militare ne fa una fonte d’informazioni preziosa. Ma solo adesso mi sono deciso a parlargli seriamente, durante una delle sue brevi trasferte a East City. 

Ci è rimasto di stucco: è passato un anno esatto da quando gli ho esposto la mia idea, a Ishval; probabilmente pensava che fosse una fantasia dettata dallo stress e dalla disperazione del momento. Non posso dargli torto. Sa che il fardello della guerra pesa più sulle mie spalle che sulle sue, ma è chiaro che non si aspettasse una posizione così netta da parte mia.

Mi ha investito di critiche e frecciatine per tutto il tempo, mentre gli esponevo di nuovo il mio progetto di scalata gerarchica, ma in fondo gli sono grato. Sono stanco di pensarci da solo, nelle lunghe notti insonni che passo a camminare per casa tormentato da incubi. È il momento di passare dalla fantasia alla realtà e mi serve tutto laiuto che riesco a trovare, per quanto parlarne mi faccia sentire esposto, oltre che un illuso.

«Devi avere almeno una vaga idea, no? O vuoi farmi credere che vuoi salire al potere solo per il gusto di farlo, con una politica del tutto utopistica e priva di fondamenta pratiche? Non è da te, Roy,» insiste Hughes, alternando birra e parole a un ritmo più sostenuto del mio.

Dal suo tono, capisco che in fondo è veramente interessato e che vorrebbe davvero aiutarmi. E che ha memoria esatta di ciò che gli ho detto a Ishval. Dellidea – sogno – di proteggere chi sta sotto di noi, in una piramide di responsabilità crescenti.

Però, speravo di parlare del come; magari in dettaglio del perché, ma il dopo...

Mi rendo conto che è una parte essenziale della questione, ma non sono ancora riuscito a elaborarla nel dettaglio, anche se sto studiando volumi e volumi di legislazione per capire cosa cambiare e come. Per ora ne ho rimediato solo forti mal di testa e scoraggiamento nel constatare quanto la macchina governativa amestriana sia cavillosa e complessa anche nelle vesti di Comandante Supremo. 

Un solo obiettivo mi è molto chiaro, ma so che Hughes mi prenderebbe per folle ed è esattamente quello che non vorrei condividere con lui.

Nel caos che ci circonda, sulle note di un’armonica stonata si leva d’
un tratto un coro sgangherato, fatto di toni allegri e canticchiati ad accompagnare parole cupe:

«La dolce Morte m’è venuta a cercare
E voi ditele, amici, ditele che con lei 
Non voglio, non voglio andare!»*

Le labbra di Hughes si increspano in un sorriso sardonico: lo stesso che abbiamo rivolto fin troppe volte alla Morte che avanza tetra e ghignante in quelle strofe goliardiche, mentre ci chiedevamo perché venisse a cercare e falciasse chi ci circondava, ma mai noi. Un brivido mi arpiona la schiena, e sono di nuovo in un pub affollato, non sul crinale di una duna spazzata dal gelido vento notturno, a guardare file di lenzuoli bianchi.

Mentre il canto e la musica proseguono in sottofondo, guardo Hughes negli occhi, cogliendo limprovvisa realtà dei fatti: di chi altro potrei fidarmi se non di lui e di Riza? 

La mia tensione non si allenta e rimango curvato in avanti con le braccia incrociate sul tavolo, estendendo un silenzio fin troppo lungo accompagnato dai canti di chi è sopravvissuto, con addosso gli occhi invisibili di chi, invece, non ha visto la fine della guerra.

Hughes ha smesso di incalzarmi e si guarda intorno con aria spazientita. Se fossimo soli, probabilmente finiremmo a discutere come al solito: io che cerco di rimanere impassibile e lui che mi urla contro finché non mi decido ad ascoltarlo o, nel peggiore dei casi, finché non ci azzuffiamo – come è capitato spesso in Accademia. 

Sono contento di averlo incontrato in un luogo pubblico. Almeno posso prendermi i miei tempi senza prendere anche un pugno in faccia. Anche se in effetti, da quando vive con Gracia, sembra essere più pacato. O forse è solo Ishval che ha stroncato del tutto quella sua vena ribelle, lavando via lanimosità di un tempo.

Libero la mia testa da divagazioni superflue e mi decido a parlare, scegliendo per un momento di non pensare alle conseguenze delle mie parole:

«Una delle prime... o delle ultime cose da affrontare sarà Ishval,» mormoro, quasi coperto dal chiasso circostante.

Vedo Hughes farsi attento, ma allo stesso tempo mettersi sulla difensiva.

«Ovvero?» chiede guardingo.

Poggio una guancia sul pugno, puntellandomi sul tavolo, e parlo quasi distrattamente, seguendo le venature contorte del legno, specchio dei miei pensieri.

«La maggior parte degli alti gradi attuali ha commesso crimini di guerra a Ishval o ne ha ordinato lesecuzione. Di certo non voglio che persone del genere rimangano impunite dopo la restaurazione del Parlamento e della democrazia. Si dovrà istituire un processo,» dico dun fiato.

Hughes poggia la tempia contro le dita tese, squadrandomi intento come se fossimo nel mezzo di una partita di poker dalle puntate stratosferiche.

«Bisognerà ripulire gli apparati militari dai criminali di guerra,» concorda, sempre cautamente, come se intuisse che ci sia qualcosa sotto. Unombra vela la sua voce nel pronunciare le successive parole: «Certo, nella doppia veste di Comandante Supremo esente da scrutinio ed "eroe di Ishval" sarà un tantino ipocrita presentare una proposta del genere, se...»

«È proprio questo, il punto,» ribatto con più freddezza di quanto vorrei.

Ci vuole qualche secondo prima che Hughes capisca appieno dove voglio andare a parare. Serra dun tratto i palmi attorno al boccale mezzo pieno, sbiancando le nocche, le sopracciglia aggrottate che tremano.

«Vorresti istituire un processo contro te stesso?» scandisce incredulo.

Non mi sorprendo di sentirlo pronunciare quellesatta deduzione: la perspicacia è sempre stata la sua dote più grande, nel bene e nel male. Non lho mai visto così sbigottito, ma passa rapidamente dalla sorpresa alla rabbia – o forse paura, al pensiero di vedere il suo migliore amico condannato a morte. Anchio ne avrei, al suo posto.

«È una follia!» sentenzia, il palmo reso a tagliare laria addensatasi tra noi. «Nessuno appoggerebbe mai una richiesta simile!»

«Noi no. Gli Ishvaliani sì,» rispondo laconico. «Abbiamo sette anni di debiti con loro e un primo passo potrebbe essere restituirgli la cittadinanza amestriana, se la vogliono. E così, in quanto minoranza riconosciuta, avrebbero il diritto di pretendere giustizia per i fatti della guerra civile,» spiego con una calma che non sento mia, la stessa che provavo sul campo di battaglia prima di un assalto suicida.

Hughes si poggia rigidamente allo schienale della panca.

«Spero che almeno, in quanto Comandante Supremo, avrai la lungimiranza di abolire la pena di morte, prima di fare qualcosa di simile.»

Esito: qui le mie idee in merito cominciano a farsi confuse. Non so ancora con chiarezza come gestirei lautorità di Comandante Supremo e Parlamento, né in che rapporti dovrebbero essere. Non so nemmeno se avrei il diritto di concedermi il lusso di scampare la morte – anche quello sarebbe un passo verso la democrazia e la civiltà, ma quanta parte di quei pensieri è rivolta a salvaguardare me stesso?

«Questa decisione spetterà al popolo,» svicolo infine, contraendo la mascella. «Nella migliore delle ipotesi sconterò un paio di ergastoli, nella peggiore mi ritroverò a penzolare da un capestro,» concludo senza particolare emozione nella voce.

È unidea ancora così lontana da sembrare irreale, da avere un altro cadavere appeso al cappio. Vedo un guizzo brillante di paura nello sguardo di Hughes; sembra comprendere a stento ciò che dico.

Finisco la mia birra, mentre il vociare attorno a noi si fa più contenuto, anche se costante e ancora vivace. La leggerezza che sento in testa non è dettata dallalcool. È uneuforia malsana, che parte dalle radici dello stomaco e risale al cervello in flussi di eccitazione, paura e sollievo.

Hughes mi fissa allimprovviso con sguardo duro.

«E Riza?» chiede seccamente.

Mi ritraggo distinto. Scocco occhiate allarmate attorno a noi, come se finora non avessimo parlato di rivoluzioni e riforme e utopie, e fosse la semplice menzione di Riza a potermi appuntare addosso un mirino. Hughes sa di lei – lunico al mondo, il pilastro di fiducia su cui poggio metà della mia vita. Sa quanto vicino a un arteria sia affondata quella frase aguzza. Rispondo in fretta, sottovoce, anche se nel caos del pub riusciamo a sentirci a malapena a vicenda:

«È daccordo con me.»

«Intendevo: e Riza? Hai pensato a cosa le potrebbe accadere?»

Mi si secca la gola, la bocca impastata di luppolo e paura.

«Il processo trascinerebbe in tribunale solo gli ufficiali superiori allepoca, gli Alchimisti di Stato e i membri dellesercito che si sono dimostrati particolarmente sanguinari. Riza è al sicuro.»

Lo sto dicendo a me stesso?

«Stai parlando di uno dei cecchini che ha mietuto più vittime a Ishval: è prevedibile che sarà chiamata in giudizio. Come credi di scagionarla? Rivelando chi è lei per–»

Lo blocco, stringendogli il polso in una morsa. Anche quel colpo va a segno, doloroso. Sento il sangue defluire dal volto, ma la mia voce rimane ferma:

«Non ho intenzione di scagionarla.»

La scena si dipana nella mia mente cristallina, come ogni volta che il pensiero mi ha sfiorato: Riza al banco degli imputati in unaula di tribunale esageratamente grande, i membri della giuria imparruccati e avvolti da toghe nere che confabulano tra loro e il giudice che infine emana il verdetto con uno schiocco del martelletto. E io, sulla mia tribuna donore in divisa da parata, in silenzio e a capo chino, in attesa di salire io stesso su quel banco e di subire la stessa sorte.

Hughes mi guarda, le pupille ridotte a capocchie di spillo. Il sarcasmo che gli sfugge di bocca stona con la maschera di sbigottimento che è calata sul suo volto:

«Unottima linea dazione, davvero. E hai pensato, magari, di informarla di questa possibilità?»

Stringo la presa sul suo polso, non so nemmeno io se per frenare le sue parole o se per ancorarmi con più forza al presente. O se per trattenerlo qui, una volta pronunciato ciò che mi preme contro i denti.

«Nessuno di noi due pensa di avere il diritto di abbracciare chi amiamo con le mani sporche di sangue,» esalo in tono piatto.

Parole vecchie e pesanti riecheggiano nelle nostre orecchie. Glielo leggo nello sguardo, che ricorda quel giorno, quellalba livida in cui lho accusato di voler andare avanti con la propria vita rifugiandosi nel calore di una famiglia.

Hughes ammutolisce. Vedo emozioni contrastanti affollarsi sul suo volto: prima ira, poi incredulità, poi sembra fermarsi su un espressione che dovrebbe essere neutra, anche se le sue sopracciglia aggrottate e gli occhi improvvisamente infossati e cupi parlano chiaro. Abbasso lo sguardo, conscio di cosa ho detto. Della crepa su cui ho premuto.

So che si aspetta delle scuse, o almeno che io aggiunga qualcosa, ma non voglio farlo. Hughes ha scelto di vivere la sua vita come meglio crede e io ho il diritto di fare lo stesso.

Hughes attende che io aggiunga qualcosa, invano. Quando capisce che non ho intenzione di farlo, si sottrae di scatto alla mia mano e si alza dal tavolo senza dire una parola. Mi sento mancare la terra sotto i piedi. Una parte di me vorrebbe fermarlo, ma rimango inchiodato al mio posto. 

Se è così che deve andare, se siamo davvero diretti verso destinazioni separate, in questa vita, così sia. Potrò sempre aspettarlo in cima.

Hughes tira fuori dal taschino della giacca un pacchetto di sigarette, mostrandomelo. La rabbia non abbandona il suo volto.

«Non ne fumo una da quasi un anno,» mi annuncia, quasi distrattamente. «Vado a sbollire fuori.»

«Maes...»

«Non rovinare tutto,» mi zittisce però lui, perentorio, e mi volta le spalle uscendo dal locale lasciandomi con quelle parole insensate a ronzarmi in testa.

Lo scampanellio della porta si perde nel vociare chiassoso degli altri tavoli, ancora impegnati a brindare e a ridere tra loro. Rimango seduto, da solo, con un boccale mezzo vuoto davanti a me.

Chiudo lentamente gli occhi e mi maledico. In un solo colpo ho perso non solo il suo appoggio, ma probabilmente anche la sua amicizia. Forse dovrei disperarmi, o semplicemente accettare il fatto di essere un povero pazzo che crede di poter cambiare il mondo da solo. Il punto è che non vorrei doverlo fare da solo.

Ma non sarebbe la prima volta che Hughes mi fa notare, a ragione, che sto sbagliando.

E se fosse così? Se stessi sbagliando?

È con calma sfrigolante di tenue energia repressa che mi rendo conto di non avere alcuna intenzione di demordere. Anche se stessi sbagliando. Anche se lintero mondo si trasformasse in un fiume di fango e sangue da traversare da solo – non da solo, mai, non finché avrò lei a guardarmi le spalle.

E non mi avrebbe forse già sparato, se stessi sbagliando?

Sento il cuore rallentare i battiti e un velo ovattato coprirmi le orecchie. I miei pensieri sono nitidi e puntano in ununica direzione. È il senso di calma irreale che mi avvolgeva sul campo di battaglia prima dello scontro. Una brutta, ma utile sensazione che non provo da quasi un anno. 

Mi sembra così familiare da essere rassicurante, ormai intessuta alle vene e i tendini pronti allo scontro. Mi ci abbandono, recuperando il controllo in pochi secondi. 

Nulla di ciò che verrà potrà mai essere peggio di quello che ho già vissuto, di questo almeno sono certo. Nessun dolore che potrò provare sarà mai pari a quello che ho inflitto.

Rimango così in attesa, sentendomi di nuovo in guerra.

 


 

Hughes rientra dopo quasi venti minuti, ancora scuro in volto, ma apparentemente più preoccupato che arrabbiato. Si avvicina e ha un lieve moto di sorpresa nel vedere la mia espressione, forse aspettandosi di trovarmi in lacrime o quantomeno abbastanza sconsolato. 

Trova invece ad attenderlo i famigerati "occhi da assassino" di Ishval, in cui so che ogni uomo dotato di coscienza si rispecchia.

Si siede nuovamente, tamburellando con le dita sul legno, come cercando le parole giuste. Alla fine, sembra rinunciarvi e incrocia le braccia, guardandomi storto:

«Sei cambiato,» mi dice inaspettatamente. «Stavolta davvero.»

Quelle parole mi suonano familiari, ma non riesco a collocarle del tutto. Sono perse nelle nebbie del laudano che mi offuscavano il cervello dopo essere risorto dalla morte. Non so se si aspetti una risposta da parte mia, ma nel dubbio aspetto che venga al punto, chiedendomi se quello volesse essere un complimento.

«Se mi avessi chiesto scusa, ti avrei spaccato la faccia,» dice senza mezzi termini. «Ciò che hai detto o lo pensi, o non lo pensi. Non avrebbe avuto senso chiedermi scusa. Saresti stato solo un ipocrita, e lipocrisia non è una delle qualità che cerco nel mio futuro leader,» mi spiega, notando la mia espressione interdetta.

«Lo penso,» gli confermo. «Ma–»

«Non venirmi a dire che non giudichi le mie scelte.»

«Non le giudico,» ribatto ostinato, accigliandomi al suo tono.

Sono contento per Hughes dal profondo del cuore. Sono contento che abbia una moglie, e un figlio in arrivo; sono contento che sia riuscito ad appendere gran parte dei fantasmi di guerra nellarmadio assieme al mantello bianco. Sono contento di una felicità che punge il cuore se cercassi di afferrarla.

«Ma non le condivido, perché io non potrei mai farle.»

«Però vorresti

Anche questo colpo va a segno in profondità, insinuandosi fra le costole come un bisturi.

«Certo che vorrei,» mi ritrovo a mormorare.

Non ci provo nemmeno, a mentire, o a celare la lucidità che mi ha appannato gli occhi, oltre la quale scorrono tutte le possibilità che potrei – che potremmo avere – se solo scegliessimo di prendere unaltra strada. 

Ma la nostra è fatta di sangue e fango.

«E ci stai rinunciando.»

Non ho neanche la forza di annuire per paura di versare le prime lacrime da un anno a questa parte. Non abbasso gli occhi, che si asciugano da soli come se una ventata di vento torrido li avesse sferzati.

Hughes sembra riflettere ancora, indeciso. Poi la sua espressione si ammorbidisce di una singola tacca e unombra di sorriso mesto gli attraversa il volto.

«Da quando ti conosco ti ho sentito desiderare ununica cosa per te stesso: stare con chi ami. Se sei disposto a rinunciare a questo per fare ciò che ritieni giusto, non posso più dire che siano dei sogni infantili o delle fantasie.» Maes torna serio, scrutandomi attentamente. «Mi chiedo solo se ti rendi conto di cosa stai facendo.»

Batto le palpebre asciutte e intravedo gli scorci dei miei dormiveglia: campagna assolata, un vecchio olmo sopravvissuto a mille tempeste, le colline ricamate di vigneti. Una casa di mattoni bianchi con un giardino curato, da cui sono stati estirpati fantasmi ed erbacce. Silenzio, pace. Il canto delle allodole al mattino, il frinire dei grilli la sera. Pozzanghere limpide dacquazzoni estivi in cui specchiarsi senza paura del riflesso.

Una vita che mi è sfuggita tra le mani come sabbia e che ha vita solo dietro le mie palpebre.

«Ce ne rendiamo conto entrambi,» replico con semplicità.

Da qualche parte dentro di me, qualcosa si scheggia nel dare voce a queste parole, e so che non sarà la prima volta.

Hughes fa un cenno dassenso e il suo sguardo si fa improvvisamente distante, come se fosse impensierito da altro. Forse pensa a Gracia, al figlio in arrivo, al privilegio che si è preso nel preferire una vita felice a una vita di ammende.

Vedo sempre Ishval di fronte a me. Un sole cupo che ho scelto di guardare direttamente e che continua a gettare unombra densa alle mie spalle, sui passi compiuti. Maes, quel sole, ha scelto di non guardarlo, di schermarlo agli occhi di chi ama, ma incombe alle sue spalle e proietta unombra sui passi che compie.

Dopotutto, cosè peggio tra il cercare di riparare i torti compiuti e il cercare di fingere che non siano mai accaduti? Maes non si pentirà mai di ciò che ha scelto per sé, ma non potrebbe mai nemmeno dimenticare di cosa si sono sporcate le mani con cui lha scelto.

«Ci sto,» sbotta infine, quasi con veemenza, e quasi sobbalzo sulla panca.

«Davvero?» riesco solo a chiedere stolidamente, quasi balbettando.

«Mi hai mai visto più serio?»

Scruto i suoi occhi verdi e non vi è alcuna scintilla di giocosità. È lo sguardo che gli ho visto a Ishval, ma privo della rassegnazione di una guerra inutile e inconcludente. Cè anche lo spettro della consapevolezza che non ci si può lasciare tutto alle spalle come credeva. Cè motivazione, in quegli occhi.

«Certo, dovremo smussare un po gli angoli di un piano abbastanza rozzo, passare mazzette a destra e a manca, raccogliere consenso e mille altri dettagli... ma ci si può lavorare,» aggiunge con fare saccente, un sogghigno che gli chiude le labbra.

Mi lascio sfuggire un sorriso che scioglie finalmente la tensione sul mio volto.

«Ero certo che ti avrei convinto,» lo stuzzico, portando indietro un gomito a poggiarmi sullo schienale. Inarco un sopracciglio. «Ho un fascino innato, dopotutto.»

Lui sorride di rimando, con insolenza, accettando di far finta che nulla sia successo, anche se sappiamo entrambi che non è così – o forse è così tra noi, anche se abbiamo appena deciso di riscrivere la storia.

«Già stai diventando borioso come i tuoi superiori.»

«Mi ambiento in fretta.»

Hughes sbuffa divertito, poi alza un braccio e fa portare altre due birre. Stavolta non mi oppongo. Sui boccali è stampigliato il dragone bianco rampante, ci facciamo caso solo ora. Lo fissiamo entrambi, per poi scambiarci unocchiata complice. Hughes alza il boccale verso di me.

«Al futuro Comandante Supremo di Amestris, allora,» dice sottovoce, sullo sfondo di canti e risa soffuse.

Un senso di piacevole aspettativa mi scuote il petto. Sorrido sghembo e alzo il mio boccale di rimando.

«Al futuro,» rispondo semplicemente, con un tintinnio di vetro.

 

 



Fine Primo Interludio


 


Note:

*La canzone è un adattamento rivisitato di Death Will Never Conquer dei Coldplay, di cui vi consiglio l’ascolto.
– Ci sono dei riferimenti al capitolo extra del manga "His Battlefield Once More", in cui Roy accusa Maes di voler avere una famiglia, pur con le mani sporche di sangue. È un confronto estremamente bello e significativo e vi lascio il link qua accanto se volete dargli un’occhiata-> https://fma-facts.tumblr.com/post/164919360816/his-battlefield-once-more-book-in-figure
– Quando si accenna al carattere irruento di Maes, mi riferisco sia all’extra sopracitato che all’anime 2003, in cui prende letteralmente a pugni Roy, sia all’OAV che ripercorre il loro periodo all’Accademia.
– Attenzione ai banner in alto: quelli in bianco e nero indicano la linea temporale di Ishval, quelli a colori invece trattano di momenti non legati alla guerra (precedenti o successivi).

Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
piccolo (non proprio) aggiornamento a sorpresa, perché ho questo capitolo nel cassetto da fin troppo tempo e non ne potevo più di tenerlo sottochiave :’)
Ogni 3 parti della storia ci sarà un "Interludio" con fatti inerenti alla vita di Roy prima e dopo Ishval. Sono strapieni di headcanon e riferimenti a manga, anime, OAV ed extra, quindi se qualcosa non dovesse essere chiaro, battete un colpo ♥

Grazie a chi ha letto, votato e/o commentato gli scorsi capitoli!
Alla prossima,

-Light-

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Capitolo 13
*** IV: Una linea nella sabbia – Capitolo 1 ***


Parte IV
 
Una linea nella sabbia
 “Chi piange? Io no, credimi:
sui fiumi corrono esasperati schiocchi d'una frusta,

i cavalli cupi, i lampi di zolfo.
Io no, la mia razza ha coltelli
che ardono e lune e ferite che bruciano.”

[Le morte chitarre – S. Quasimodo]

 
 
 
.1.

 

 

 

 

Un mese dopo, 25 Giugno 1908,
Distretto di Kanda, Ishval,
18:20



Il bagliore intenso del sole calante viene oscurato dalla linea dei tetti e posso finalmente smettere di socchiudere gli occhi.

Sbatto un paio di volte le palpebre per scacciare i puntini luminosi rimasti impressi sulla mia retina e controllo di riflesso l'area circostante. 
Case belle, ricche, ornate da giardini pensili e cortili, tutti ormai rinsecchiti e devastati dai bombardamenti. La polvere e la sabbia si sono insinuati fin qui, rivendicando la periferia benestante di Ishval e le sue strade lastricate d'ardesia.

La via in cui ci troviamo è deserta, se non per una decina di corpi riversi in fila contro il muro a pochi passi da me. Tra i capelli bianchi risalta il rosso del sangue rappreso, dipinto anche sull'intonaco ocra in aloni sbavati e distorti dalle crepe.

Su quel che rimane di una modesta palazzina è infisso un palo sbilenco, su cui sventola il lungo drappo nero-arancio dei ribelli. Ondeggia lievemente al vento, ipnotico. Lancio un piccolo getto di fiamme nella sua direzione: lo guardo avvitarsi tra le lingue di fuoco e cadere a terra ridotto a un mucchietto di stoffa carbonizzata e braci. Sento la tensione costante alla base del collo sciogliersi un poco, in uno strappo di legamenti contratti.

Tutto è immobile, a parte il fumo che si leva pigramente dai cumuli di macerie e le mosche che si avventano già avide sui cadaveri in un banchetto macabro e ronzante. Il lezzo di sangue opprime le narici. Una mosca mi svolazza fastidiosamente intorno da interi minuti; ormai ho rinunciato a scacciarla, se non quando mi zampetta fastidiosamente sul volto bruciato dal sole impietoso.

Mi concedo di sedermi sul muretto di un giardino, assicurandomi che Patrick sia ancora di vedetta sul tetto della casa di fronte. Lui intercetta il mio sguardo e mi fa un cenno di via libera con la mano, per poi riprendere a sorvegliare il suo quadrante, gli occhi stanchi ma concentrati.

Accolgo la brezza serale che rinfresca l'aria afosa come una liberazione. Mi allargo il colletto della divisa, traendone ben poco beneficio vista la pesantezza del mantello d'ordinanza. Mi agito sul mio sedile di fortuna e non faccio che peggiorare la situazione. 

Ho la bocca secca, la divisa incollata addosso, il sudore mi cola in rivoli lungo le tempie impregnando i capelli. Sto pregando da ore che i lavatoi dell'accampamento non siano prosciugati, come ieri. Rialzo lo sguardo in direzione della strada dissestata e ancora vuota. Contraggo d'istinto le dita guantate: questa calma mi innervosisce.

Spero che Jace torni presto con gli altri. Non mi sento affatto tranquillo ad aver affidato a loro il rastrellamento, così da poter presidiare meglio l'accesso al quartiere: questa zona si è rivelata più pericolosa del previsto, con tutti i monaci guerrieri che la infestano. 

Sarò costretto ad affrontare nuovamente il Colonnello Ironclad riguardo alla dubbia strategia adottata dal Comando – spedirci nelle zone di guerriglia a macchia di leopardo, in gruppetti spesso capitanati da Alchimisti di Stato. Per quanto io abbia provato ad arginare i danni, si è rivelata comunque fallimentare.

Il solo pensiero di dover discutere con lui mi sfianca più del caldo. Sono quasi tentato di appellarmi direttamente al Generale Crowell, il nuovo comandante in carica a Kanda, ma farlo equivarrebbe a guadagnarsi l'ulteriore odio di Ironclad. Mi passo una mano sul volto madido. Queste rivalità tra superiori servono solo a rendere la nostra vita un inferno ancor più bruciante.

Sto ancora cercando un modo innocuo per affrontare l'argomento, mentre scribacchio distrattamente il rapporto su un pezzo di carta lasciandovi più macchie d'inchiostro e impronte di fuliggine che parole, quando sento il rumore familiare di passi cadenzati. Chiudo la stilografica e la ripongo assieme al foglio nella tasca interna della giubba. Da dietro l'angolo spunta Jace, seguito dal resto della truppa. Mi alzo per andare loro incontro.

«Libero?» chiedo, non appena sono tutti schierati in strada.

«Libero,» conferma lui, poggiando la canna del fucile sulla spalla.

Annuisco compiaciuto, passando in rassegna i soldati e contandoli rapidamente per assicurarmi che non ci siano state perdite.

Ventuno. Sono tutti.

Tiro mentalmente un sospiro di sollievo. Non vedo l'ora che arrivino i rinforzi dal Sud. Avere un numero così esiguo di uomini rende ogni operazione un salto nel buio.

Jace mi fa un cenno discreto col capo. Ordino alla squadra di prendersi una pausa e mi sposto di qualche passo, in modo da avere sotto controllo sia loro che la zona, mentre mi accosto a Jace.

«Non c'erano superstiti,» esordisce lui. «Forse dovresti usare più spesso quelle fiammate rasoterra.» Fa una pausa, esitante a continuare: «Ci risparmierebbe un po' di lavoro,» aggiunge infine, quasi di sfuggita.

«Va bene,» convengo subito, annuendo.

Non mi sfugge il sollievo di Oskar che, pur non prendendo parte attiva alla discussione, è in ascolto.

«Sono ostiche da controllare, ho quasi bruciato voi. Ma se studiassimo una tattica efficiente potrebbero tornare utili,» proseguo poi, coi pollici nella cintura e gli occhi che saettano da una viuzza all'altra, solo apparentemente rilassato.

Non ricordo l'ultima volta che ho allentato la guardia, né l'ultima in cui ho poggiato la testa sul cuscino – o meglio, sulla terra – senza avere parate di cadaveri carbonizzati a sfilare dietro le palpebre. Me le stropiccio anche ora, per impedire loro di sedimentarsi.

Jace sembra soddisfatto dalla mia risposta. Colgo di nuovo quella freddezza nei suoi occhi acquamarina, come se si spegnessero alla luce. Per la prima volta mi accorgo di quanto profonde siano le sue occhiaie, gonfie, quasi color cenere sul volto pallido. La piega delle labbra screpolate è rigida, contratta nella tensione. 

Jace Sikorsky non ispira più quell'aura di sicurezza che aveva ai tempi dell'Accademia. Piuttosto, sembra che stia concentrando tutte le sue forze nel rimanere impassibile e saldo sulle sue gambe.

Si accorge che lo sto osservando, e dopo un'occhiata schiva distoglie lo sguardo e affianca Alena, più piccola e magra che mai nella sua divisa enorme. Dà l'impressione di un animale spaurito e pronto a balzar via al minimo movimento troppo brusco. Accetta di buon grado il braccio di Jace sulle spalle e mi volto nella direzione opposta quando lui si china a sfiorarle la guancia graffiata con le nocche altrettanto escoriate.

Mi ritrovo mio malgrado a fissare Oskar, ed è come vedere il suo fantasma. Le lentiggini si intravedono appena sotto il viso scottato ferocemente dal sole. Gli occhi chiari sono così infossati da sembrare neri, quasi si fossero sporcati nel corso di questi mesi. Si è tagliato di punto in bianco la treccina sulla nuca un paio di settimane fa, e i suoi capelli sono ormai diventati una massa bruno-rossiccia aggrovigliata. 

Oggi mi ha stranamente rivolto la parola mentre eravamo in fila alla pompa dell'acqua, ma la nostra discussione è morta dopo poche frasi di circostanza.

Il livido sul mio zigomo brucia ancora. So che mi avrebbe sferrato volentieri altri mille pugni, se non fossero intervenuti Roderick e Jace a separarci, quella sera di un mese fa, quando dopo aver compiuto il mio dovere ho dovuto fronteggiare le conseguenze.

Non ho reagito, ma da allora Oskar non ha più contestato i miei ordini. E ha anche iniziato a fingere che io non esista. Ho perso un compagno e un amico, ma non riesco a non pensare che sia giusto così.

Mi chiedo cosa penserebbero di me Hughes o Riza, ma freno quell'interrogativo che mi suscita una nausea profonda, simile a una marea che mi annega. Sento le linee alchemiche del guanto premere sul dorso della mano. Mi chiedo spesso come sarebbe, averle impresse sulla pelle – quanto male faccia. So solo che non avrò mai la salamandra scarlatta tatuata sul palmo come Komanche o Kimbly, che hanno reso il loro stesso corpo un'arma.

Quest'alchimia non mi appartiene, né voglio farne una parte di me. Deve rimanere racchiusa nel guanto e nella stoffa d'accensione, separabile dalla mia carne, in quella che so essere una mera bugia che mi racconto. Il sangue che verso mi artiglia comunque la coscienza con mani carbonizzate.


Strappo lo sguardo dalle sottili linee rosse e noto solo ora che anch'io vengo osservato: Rod mi fissa senza curarsi di nasconderlo. I suoi occhi hanno perso quella gentilezza bonaria che faceva di lui la vittima di ogni scherzo all'Accademia: adesso sono severi, più simili a quelli di una statua che di un uomo.

Sono cambiato anch'io? Non ci sono specchi, sul campo di battaglia, solo le superfici levigate delle canne dei fucili o dell'orologio d'argento ormai opaco, con la sabbia che ne ha inceppato i meccanismi. L'unica differenza che ho notato è il dover allacciare la cintura un buco più stretta, o il fatto che ormai posso tirare avanti quarantott'ore senza dormire. Il resto è diventato una routine di fuoco e spari e notti insonni.

Mi riunisco infine agli altri, impegnati a parlottare a mezza voce e a bere dalle borracce ormai agli sgoccioli. Quasi mi dispiace rompere l'idillio, ma ci resta ancora l'altra metà della zona da perlustrare. In realtà, preferirei ritirarmi prima del crepuscolo, ma non oso immaginare la reazione di Ironclad se sapesse che non abbiamo ripulito almeno un quarto del distretto di Kanda. Se riuscissimo a prendere il tempio nel settore nord potremmo mettere in seria difficoltà la rete di monaci ribelli che ormai infesta Ishval.

Poi, il Colonnello ha detto che dopo aver preso la capitale verremo dislocati fuori città, nelle campagne circostanti. Così ripuliremo l'intera Area Est dei guerriglieri e schiacceremo le ultime sacche di resistenza. 

Personalmente, non vedo l'ora di lasciarmi alle spalle questi vicoli claustrofobici: mi faccio forza e mi rassegno a un'altra settimana di schermaglie e scontri sfiancanti, in una Ishval ormai in ginocchio che aspetta solo di essere sgozzata dal coltello amestriano, così da irrorare quell'inutile sabbia di sangue.

«In marcia,» annuncio con riluttanza. «Ancora un paio d'ore e avremo finito,» li incoraggio, con un po' più di forza a corroborare la bugia.

Loro si riscuotono, scrollandosi di dosso la fatica come marionette forzate a rimettersi in piedi, gli arti molli.

«Forse...» comincio a voce un po' più alta, e vi appaio un sorrisetto complice che mi tira le guance, ormai estraneo.

Aspetto di avere la loro attenzione e, quando tutti mi fissano con curiosità, continuo:

«Forse stasera potrei rimediare un paio di quelle bottiglie di vino di Dublith destinate al Quartier Generale.»

Parlo a voce abbastanza alta da farmi sentire anche dalla vedetta. Come per magia, i loro volti si distendono e si riempiono di aspettativa a quella promessa così semplice e che fino a pochi mesi fa davamo per scontata. Persino Oskar mi rivolge un sorriso microscopico, lanciato nella mia direzione per poi voltarmi le spalle, quasi a non volersi esporre troppo.

«Sarà meglio sbrigarsi, allora,» commenta Jace, improvvisamente pieno di nuova energia che mi trasmette con una solida pacca sulla spalla.

«Maggiore...» la voce di Patrick ci raggiunge, un po' più acuta del solito, probabilmente pronta a gettare su di noi uno dei suoi commenti acidi.

«No, Patrick, per te niente! L'ultima volta che hai bevuto...» inizia Alena, piantandosi le mani suoi fianchi e suscitando già le risatine dei compagni mentre ci rimettiamo in marcia – ma le sue parole vengono inghiottite dal suono riecheggiante di uno sparo.

Ho appena realizzato ciò che ho sentito, che Patrick precipita in mezzo alla strada. Per un istante sono paralizzato sul posto, ipnotizzato dal foro rosso e vomitante sangue sulla sua fronte che va a impregnare l'ardesia insabbiata. Poi sento una scarica elettrica trapassarmi le ossa.

«Al riparo!» riesco ad ordinare, e al mio grido roco ci riscuotiamo come un sol uomo.

Altri spari spaccano l'aria. Sento i sibili sfiorarmi, ma non vedo nemici – non vedo nulla, sento solo il sangue che grida nei timpani.

Lancio una fiammata nella direzione approssimativa degli spari per coprirci la ritirata. Scatto verso la casa più vicina, preceduto da Rod – mi segue uno scalpiccio concitato. Sento dei fischi acuti dietro di me, urla, richiami, ma non mi volto a guardare e manca un passo alla porta scardinata dell'abitazione.

Rod inciampa, cade di fronte a me. Io inciampo su di lui, finendo faccia avanti per terra a un soffio dall'ingresso. Mi spacco un labbro sul mattonato e il dolore mi acceca per un istante.

Nel mulinio di piedi e mani che arrancano nella polvere colgo delle sagome indistinte e affusolate che fendono il cielo. Nella frazione di secondo in cui il mio cervello processa quello che sto guardando, so che è troppo tardi. 

Sbarro gli occhi e cerco di rialzarmi con le gambe molli, incespicando nelle falde lunghe della divisa – è finita ormai è finita è finita no no no – le mie mani artigliano il suolo cercando di issarmi in piedi – non ho mandato le lettere a zia Chris a Riza a Maes ormai è tardi è finita no no– 

Rod fa appena in tempo ad afferrarmi di peso per il colletto e a scaraventarmi oltre la soglia prima che i colpi di mortaio esplodano con un boato di ferro dietro di noi.

 





 


Note:
– Il quartiere di Kanda viene citato nel manga/anime. È dove vivono Scar e suo fratello.
– Le lettere citate in chiusura torneranno ;)


Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
non potevo certo lasciare in pace la nostra Truppa Flame per molto, no?

Vi lascio con la "suspense" – anche se credo sia chiaro sin dal primo capitolo cosa stia per accadere – e ci vediamo tra qualche giorno col continuo ♥

Grazie di cuore a chi segue, commenta e/o legge in silenzio. Ricordate che ogni feedback è gradito ♥
Alla prossima,

-Light-

EXTRA: il recente rewatch di Brotherhood mi ha ricordato quanto sia bella la sua colonna sonora. Quindi, vi lascio qui i due brani che ho sentito a ripetizione durante la stesura-> Mist (per l'inizio) e Knives and Shadows (per il finale)

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Capitolo 14
*** IV: Una linea nella sabbia – Capitolo 2 ***


Parte IV
 
Una linea nella sabbia
.2.


 
Il mondo è una massa indistinta di fumo, grida, sapore di sangue e denti digrignati. Un fischio acuto mi preme solido nelle orecchie. Non riesco a capire se sono in piedi o sdraiato e se quelli sono i miei timpani rotti o altri colpi di mortaio sibilanti.

Il mio corpo è insensibile, inerte, le giunture slegate come quelle di una marionetta rotta. Riesco a capire dove siano i miei occhi e li schiudo appena con difficoltà oltre un velo denso di lacrime. Intorno a me vedo solo penombra e sagome indistinte che si muovono ora a scatti, ora al rallentatore. Capisco di essere sdraiato su un pavimento polveroso. Metto a fuoco una scala, delle piastrelle scheggiate, delle porte, un tavolino a gambe all'aria, un divano sfasciato. Un salotto?

Sento dei colpi ritmici in lontananza, ma potrebbero anche essere a un passo da me e non farebbe alcuna differenza. Tutto risuona ovattato. Riprendo coscienza delle mie mani e constato di indossare ancora il guanto.

Ruoto la testa e non capisco perché mi sembri così pesante finché non realizzo che ho l'occhio sinistro oscurato da un sipario di sangue. Mi tampono cautamente la tempia trattenendo una smorfia e faccio per tirarmi a sedere, col cervello a pezzetti che si rimescola come la scatola di un puzzle scossa violentemente.

La mia truppa. I miei uomini. Siamo sotto attacco. Devo reagire. Devo reagire.

L'urgenza di questi fatti è smorzata da mille metri d'acqua, come se fossi adagiato sul fondale di un lago, il sole solo una capocchia di fuoco distorta oltre la superficie. Fuori, le raffiche di spari sono cessate e distinguo appena delle urla in una lingua che non comprendo. Seguono dei colpi singoli, a distanza regolare, alcuni seguiti da tonfi attutiti. Sento le mie viscere gelarsi.

Li ho lasciati soli.

Mi isso sulle ginocchia con uno scatto, ma un dolore lancinante al fianco destro mi strappa un grido rauco e ricado carponi a terra. Tutto il mio corpo cessa di funzionare, esiste solo in quel punto dilaniato dalle fitte, umido di sangue.

Mi appiglio con le unghie all'ultimo barlume di lucidità. Oltre il velo che ovatta le mie orecchie distinguo dei tonfi, forse dei passi, forse altri spari. Riapro gli occhi, i palmi premuti sul ventre, e stavolta scorgo quello che a prima vista mi sembra un grosso sacco abbandonato per terra. 

Solo dopo qualche istante riconosco la sagoma imponente di Roderick, prono e con le braccia allargate, la schiena scossa da respiri rotti. Sussulto quando mi accorgo che accanto a lui si staglia la silhouette di un uomo. Armato. Esalo un rantolo e stavolta riesco ad alzarmi sulle ginocchia, il guanto già pronto.

L'uomo si gira verso di me ed è con un vuoto allo stomaco che incrocio delle iridi rosse che sembrano rilucere nella penombra. Mi fissa, la pupilla quasi invisibile, contratta dal disgusto. Abissi scarlatti, densi di sangue rappreso e appena versato. Non ho nemmeno il tempo di trasmutare. Succede in un attimo: punta la canna del fucile contro la nuca di Rod e preme il grilletto.

«NO!»

Lo sparo copre il mio grido e lo schiocco dell'ossigeno che si incendia. Un violento getto di fuoco avvolge l'Ishvaliano e lo fa crollare a terra in un nugolo di fiamme roventi, mentre cerca di strapparsi di dosso le vesti infuocate – non ricordo nemmeno di aver schioccato le dita. 

Mi lascio ricadere, senza forze, ascoltando intontito le sue urla che pian piano scemano nel silenzio. La stanza ondeggia intorno a me, pregna del lezzo di carne bruciata. Sento le labbra appiccicose.

Fuori regna di nuovo il silenzio, rotto solo dal vento che soffia tra le macerie.

Ho la divisa inzuppata di sangue. So che è inutile cercare di arginarlo. Non riesco neanche a localizzare la ferita: il mio intero fianco destro è un pulsare indistinto di bruciore sordo alternato a fitte acute che mi stroncano il fiato. Stringo i denti e striscio fino a portarmi all'altezza di Roderick. Quasi mi accascio su di lui quando lo raggiungo. La sua schiena è un'unica chiazza di sangue, tessuto strappato e carne dilaniata.

Rod.

La voce muore in un singulto muto mentre tento di riscuoterlo nonostante la fredda logica della mia mente mi urli che è inutile. 
Intravedo il foro d'ingresso del proiettile sulla nuca, confuso tra i ricci e il sangue scuro che continua a riversarsi in terra, lambendo la sagoma carbonizzata e ancora fumante dell'Ishvaliano, le mani bloccate in una stretta d'agonia sul nulla.

Mi stringo il fianco e rivolto faticosamente il corpo di Rod sulla schiena. I suoi occhi sono rovesciati, fissano il soffitto senza vederlo. Gli chiudo le palpebre con dita tremanti, macchiandole di rosso con nuove pupille. Forse vedono già l'azzurro del cielo dell'Est, quello sotto il quale voleva tornare a scottarsi la nuca – senza ritrovarsela sfondata da un proiettile nella terra di nessuno.

Rod era il nostro pilastro, il gigante dalla pazienza infinita che fingeva di essere un duro nato per la vita militare, quando avrebbe preferito di gran lunga rimanere nella fattoria di famiglia, ad allevare cavalli e arare campi, se solo non fosse arrivata la guerra con le sue grinfie a graffiare la sua città. Era quello che si prendeva colpe non sue per le nostre bravate e passava notti immeritate in cella mentre noi, crudeli ma grati, ci piazzavamo sotto la finestrella e lo prendevamo in giro, passandogli però le sigarette attraverso la grata e tenendogli compagnia con canzonacce inventate.

Mi ha fatto da scudo col suo corpo. Dovrei esserci io in questa pozza di sangue. I miei occhi sono lucidi, ma per la polvere e il fumo che li irrita: nessuna vera lacrima preme per uscire. Mi sento prosciugato.

L'ho sempre saputo, mi balena in testa, insensato, un pensiero frastagliato come la linea di una saetta che si abbatte in fondo al mio cervello sprizzando fuoco e scintille.

Vorrei solo rimanere qui, immobile, ma tiro un respiro spezzato e mi alzo in piedi, la vista offuscata, i piedi molli ma ben piantati. Qualcosa si squarcia, dentro di me – il velo sottile che ancora divideva luce e ombra si dissolve nel nulla. Mi fa male la destra, serrata in un pugno di muscoli rigidi e spasmodici. Mi sostengo al muro e avanzo verso la soglia, che mi appare solo come un riquadro leggermente più chiaro del resto della stanza. Là fuori c'è la mia truppa – per la prima volta, è un pensiero terrificante.

Non appena metto piede in strada sono costretto ad aggrapparmi allo stipite per non cadere. Un capogiro dopo l'altro mi avvita il cervello in un vortice nauseante. Non vedo altro che rosso: sulla sabbia, sui muri, sui cadaveri, sulla terra imbrattata dall'esplosione.

Colgo un movimento alla mia destra e ho appena il tempo di scagliare una fiammata prima che dei guerriglieri mi freddino sul posto. Si dibattono avvolti dal fuoco, gridando in agonia, ma quasi non li sento. Un vocio concitato risuona poco distante, ma non riesco a staccare gli occhi dai cadaveri smembrati dei miei soldati. Alcuni non sono neanche riconoscibili. A molti, quelli sopravvissuti ai mortai, hanno sparato in testa, metodicamente. Come facciamo noi con loro, quando qualcuno sopravvive alle mie fiamme. Ruoto sul posto, i tacchi che strusciano nella sabbia macchiata, la divisa intrisa di sangue tiepido.

L'ho sempre saputo – dal momento in cui siamo saliti su quel treno, forse sin da quando mi sono arruolato. Ho sempre saputo che, un giorno, avrei visto questo. L'ho sempre saputo e non ho fatto nulla per impedirlo.

«Oskar! Jace! Alena!»

Li chiamo, con voce spezzata. Non mi importa di attirare l'attenzione del nemico. Le corde vocali stridono per lo sforzo mentre cammino in una devastazione di sangue e membra scomposte. Nessuno risponde.

E infine, li vedo.


Jace, riverso a terra con metà corpo maciullata dalle esplosioni, il bianco delle ossa esposto al sole, a un passo dal cratere d'impatto. Sotto di lui, Alena, egualmente esanime, il volto rigato di sangue le gambe ritorte in un'angolazione innaturale. Premo un palmo sulle bocca, a soffocare una conato. C'è puzza di carne bruciata. Sento una morsa al petto e al cuore, che potrebbe rompermi le costole per quanto sta battendo forte. 

L'ho sempre saputo
.

Un altro gruppo di Ishvaliani sbuca da un vicolo, fucili alla mano. Li incenerisco quasi senza guardarli; le fiamme sono così roventi e incontrollate da assumere una sfumatura bianca. Una colonna di fuoco si leva verso il cielo, esageratamente violenta, e il calore mi incendia le vene.

È questo il potere che volevi, Roy? La voce del Maestro mi rimbomba nei timpani. Per un attimo, il sangue che mi cola addosso non è il mio – è quello del Maestro che mi muore tra le braccia, con gli occhi di Riza puntati addosso.

Annaspo tra pensieri e aria rarefatta e mi guardo intorno barcollando, ma non individuo altri pericoli immediati. Solo terra bruciata e sangue rappreso dal calore. Porto una mano sul fianco comprimendo con forza la ferita, ma sento la vita che mi sfugge via una goccia dopo l'altra, imbrattandomi i palmi e la divisa. Il sangue mi sta colando anche sulla schiena, non riesco a tamponarlo. 

La testa si fa leggera, sospesa nel vuoto... pensare è così difficile e vedo solo il massacro che mi circonda. Le ginocchia mi tremano e per un momento sono sul punto di cedere. Non ci sono superstiti. Solo io, per uno scherzo beffardo del destino che, forse, vuole dirmi qualcosa. Non ho protetto nessuno, neanche col potere alchemico più devastante tra le mie mani.

Mi sfugge un gemito mentre lotto per non cadere in ginocchio. Devo tornare alla base

Ma vorrei rimanere qui, coi miei compagni. Vorrei consumarmi anch'io qui, nel fuoco. Sarebbe così facile lasciarsi andare e stendersi nella sabbia. Prima o poi morirò dissanguato. Prima o poi mi troveranno e sarò troppo debole per reagire. Prima o poi, Riza e zia Chirs riceveranno quelle lettere, macchiate di sangue, imbucate sotto al doppiopetto della divisa e spedite in una bara anonima.

Un rumore sordo dietro di me mi riporta alla realtà. Mi volto di scatto, già pronto a trasmutare, con gli istinti vitali che sopraffanno quel desiderio di oblio – di riposo, di annullamento – ho sbagliato tutto, tutto.

Quasi perdo l'equilibrio mentre giro su me stesso in cerca del pericolo. La strada è ormai immersa nel buio bluastro del crepuscolo, deserta. Con la coda dell'occhio colgo uno dei corpi fremere leggermente. Un colpo di tosse umido risuona dall'oltretomba. Zoppico il più rapidamente possibile verso di lui – lampi rossi e blu e bianchi mi esplodono negli occhi – e mi accascio al suo fianco, ansante per il dolore.

Riconosco a fatica il volto un tempo sempre sorridente di Oskar nella smorfia di sofferenza in cui è distorto ora, gli schizzi di sangue confusi con le lentiggini. Gli sollevo appena la testa per farlo respirare meglio, ma mi congelo nel farlo, con una consapevolezza strisciante che mi risale come acqua fredda nelle vene. 

Morirà qui. È un pensiero fluttuante, ma si àncora nella mia testa con rampini arrugginiti.

L'esplosione lo ha quasi sventrato; intravedo il baluginio dei visceri oltre la stoffa blu, squame di pesci guizzanti sotto la superficie. Sollevo un lembo del mantello a coprire lo squarcio, senza neanche cercare di fermare la perdita di sangue. Oskar socchiude gli occhi, ridotti a due pozzi neri segnati da striature rosse nella sclera, le pupille dilatate che quasi inghiottono l'azzurro sporco.

Mi fissa, ma mi chiedo se riesca a vedermi. Tenta di dire qualcosa, ma la voce si perde in un gorgoglio agonizzante e non posso fare altro che sorreggerlo al meglio. Ascolto il suo respiro farsi sempre più debole, coi polmoni distrutti che sibilano appena. La sua risata è solo un'eco lontana, vibrante di vita stroncata.

Si aggrappa debolmente alla mia divisa. Gli stringo la mano, impotente, unendo il sangue che ci imbratta i palmi. Mi sento distante da qui, come se tutto ciò non stesse realmente accadendo. 

Come se fossi ancora all'Accademia, sul tetto della caserma a bere e parlare con lui e gli altri di ciò che ci aspettava. Jace era alticcio, ma vinceva comunque una mano dopo l'altra di poker, Oskar rideva troppo forte per nulla, io schioccavo le dita, sparando piccoli, innocui fuochi d'artificio nel cielo notturno e Rod versava troppo poco alcool nei bicchieri mentre ci richiamava all'ordine con un sorriso sotto i baffi, le gote brillanti a sua volta. 

Dopo qualche bicchiere di troppo, Oskar mi ha detto che, se non avessi smesso di preoccuparmi degli altri prima di me stesso, sarei stato il primo a lasciarci le penne in battaglia. L'avevo zittito con uno scappellotto, seguito da un fuoco artificiale più potente degli altri che aveva richiamato l'intero servizio d'ordine, costringendoci a scendere a rotta di collo dalla caserma, verso i dormitori.

Le ombre di quella serata si proiettano sul presente, danzando macabre sul volto di Oskar. Serro la mascella fino a farmi male e non riesco a dire neanche una parola di conforto, si infrangono tutte sui miei denti digrignati. Lascio che se ne vada in silenzio, mentre anche io mi spengo, un minuto dopo l'altro.

Alzo appena lo sguardo, verso la strada. Solo adesso noto che i corpi degli Ishvaliani giustiziati poco meno di un'ora fa sono spariti. A terra è rimasta solo una chiazza di sangue, confuso con quello dei miei soldati, senza alcuna linea definita a distinguerli.

Riabbasso il capo, tremante, ma incontro solo gli occhi ormai vitrei di Oskar.

 


25 Giugno 1908
Distretto di Kanda, Ishval,
??? Notte

Riemergo con un sussulto dal torpore ingannevole indotto dalla ferita. La boccata d'aria che immetto a forza nella trachea mi spezza i polmoni, pungente.

Non so quanto tempo io abbia passato alla deriva nei flutti dell'intorpidimento, ma sono intirizzito, gelido fino alla punta delle dita. Solo il fianco impregnato di sangue è tiepido. Non capisco quanto sia grave la ferita, ma il fatto di essere ancora vivo suggerisce un danno non fatale, a dispetto delle fitte lancinanti che mi torcono le carni ad ogni respiro.

Sto ancora sostenendo il corpo senza vita di Oskar. La sua testa abbandonata pesa sul mio palmo, come se vi si fosse addensata tutta la paura degli ultimi istanti di vita. Le sue iridi sono velate, con la macchia d'inchiostro della pupilla che le divora, spalancata sul cielo offuscato e privo di luce.  Gli abbasso le palpebre, come ho fatto poco fa con Roderick, poi lo adagio a terra con delicatezza, a riposare nella polvere imbrattata di sangue suo e non. Tiro una falda del suo mantello a coprirgli il volto, in un sudario lacero. Il movimento mi strappa un singulto.

La mia vista si allarga, uscendo dalla visione a tunnel, come se avessi infine scostato gli occhi da un mirino puntato unicamente su Oskar.  Sono circondato dalle ombre bluastre della notte, tra le quali spiccano sagome di carbone riverse a terra. Arti ripiegati, occhi bianchi e sbarrati, denti stretti che rilucono tetri, mani aggrappate alle divise e ai fucili che iniziano a essere assalite dal rigor mortis. Una parata macabra che sembra accerchiarmi, accusatoria.

Sono ancora vivoE loro no. Loro no.

I pensieri mi divorano il cervello, ne trapassano le volute come tarli affamati di lucidità, spingendomi verso l'oblio. I cadaveri che mi circondano diventano d'un tratto animati, ombre vive nella notte con gli arti tesi verso di me – compagni, nemici che si aggrappano alle mie vesti con mani scarnificate per trascinarmi con loro verso il fondo. Sto per cadere.

Non voglio morire qui.

Semplici parole che si incuneano alla base della nuca, inviando una scossa elettrica alle sinapsi. Non voglio morire, nonostante l'abbia desiderato fino a un istante fa. La mia mente vuole forse spegnersi e annullarsi, la mia anima vacilla sul baratro, pronta a lasciarvisi cadere – ma il mio corpo azzanna la vita e vi affonda i denti, rifiutandosi di lasciarla scivolare via.

Faccio leva sulle ginocchia, seguendo l'impulso ancestrale che ha preso il controllo dei muscoli e li obbliga a tendersi, a fallire e ricadere nella polvere più volte, fino a issare in piedi il mio corpo martoriato e a rimanervi, ansante, scosso dai tremiti.

Vivo, in mezzo ai morti.

Avrei potuto salvarli tutti

Ma sono solo un misero essere umano incapace di proteggere chiunque. Il potere che mi brucia i palmi innesca solo distruzione e morte – imparare a usarlo non è servito a nulla, nulla. Se il Maestro Hawkeye è morto tempo fa, consumato dall'alchimia perfetta che non è riuscita nemmeno a salvare poche vite, io sono morto oggi, nell'istante in cui mi sono rialzato.1

Con un ringhio da bestia ferita muovo un passo, accusando la fitta che mi attraversa e sconquassa il fianco. Rod non mi ha fatto da scudo col suo corpo perché morissi qui, poco dopo, vinto per scelta.

Porto l'altro piede di fronte a me, con l'impressione di lacerarmi il busto in due. Riza non mi ha affidato la sua schiena e tutta se stessa per vedermi gettar via alle fiamme la sua fiducia e il sogno che ci ha acceso gli occhi in quei giorni lontani d'autunno.

Ti prego, non morire. Me l'ha detto con un filo di voce quasi perso nel vento freddo del cimitero.1

Mi accascio contro il muro più vicino, col respiro accelerato e privo di qualsiasi ritmo che mi scortica a sangue la gola. La mia mente si chiude di nuovo, si oscura creando ombre illusorie. Mi dice che andrebbe bene appoggiarsi per un momento al vecchio olmo, o stendersi qualche minuto tra le spighe scricchiolanti della segale per riprendere fiato dopo una sfiancante partita di acchiapparella. Di stendermi sulla schiena e riempirmi gli occhi delle nuvole estive che corrono nel cielo terso, di un azzurro chiaro e irreale. 

Sotto il guanto, però, non c'è l'asperità della corteccia, ma un muro friabile e diroccato. I miei piedi affondano nei detriti grigiastri delle case, lontani da qualunque campo in attesa della mietitura. E sopra di me c'è la cappa di fumo e polveri che ammanta il cielo, precluso alla vista. Le carezze del sole sono lontane, perse nelle lunghe estati che ho vissuto troppo poco.

Mi artiglio alle sensazioni vere, sgradevoli, reali. Al morso umidiccio della ferita nel fianco. Il velo della febbre recede, bollente sulla pelle.

Ti prego, non morire.

Devo agire in fretta; devo fare qualcosa. Riordino i pensieri, do loro priorità definite; ascolto gli istinti di battaglia e sopravvivenza.

Mi serve un riparo. È un obbiettivo, è qualcosa.

Riprendo ad arrancare accostato alle case e palazzine, seguendo la strada rettilinea. La mia mente obnubilata non riesce a raccapezzarsi tra i crocevia tutti uguali, ma sono abbastanza sicuro che la guarnigione di Kanda sia da questa parte. Prima o poi incontrerò una pattuglia. O una banda di ribelli. O un proiettile vagante. Forse morirò mentre cammino, senza neanche accorgermene, in una marcia verso l'aldilà. Ogni passo è un'agonia, ma non mi fermo – poi non sarei più in grado di muovermi.

Raggiungo un incrocio di strade che non mi è familiare. Le finestre esplose di una casa ammiccano dall'altro marciapiede come troppe orbite vuote. L'area è piuttosto malmessa, ma le strade sono state sgomberate dalle macerie: devono averla bombardata da tempo. Lascio l'appoggio del muro e mi guardo intorno battendo le palpebre, il respiro denso di sangue che si rapprende in nuvolette di vapore.

Ormai è notte. L'unica luce che rischiara gli edifici bianchi è quella di un timido spicchio di luna che di tanto in tanto riesce a farsi spazio tra le nubi e il fumo, gettando occhiate lattee al mondo sottostante. In lontananza riecheggiano delle esplosioni. Cannoni a tamburo amestriani, ne riconosco i boati serrati, secchi come i latrati di un cane. Non riuscirò mai a raggiungerli prima di morire dissanguato.

Adocchio una casa a due piani devastata: il tetto superiore è esploso, un muro si è disarticolato dalla struttura, una faglia profonda ne solca una facciata. Questo sfacelo non è opera di un proiettile. Mi avvicino con l'impressione di galleggiare nel vuoto, ma anche in queste condizioni riconosco, su cemento e pietra, le dentellature regolari e in rilievo di una trasmutazione. L'Alchimista Scarlatto2, a giudicare dall'apocalisse circostante. Ho sconfinato nel settore già liberato da Amestris, dunque. Al sicuro, almeno, anche se non in salvo.

L'edificio colpito dall'esplosione sembra ancora piuttosto stabile ed è l'unico ad avere un accesso agevole, oltre a un tetto ancora in piedi. Non ho comunque scelta: non posso rimanere allo scoperto, settore liberato o meno. Devo trovare riparo, cercare di arrestare l'emorragia e riposare qualche ora. E non pensare, soprattutto, a cosa mi sono appena lasciato alle spalle.

Mi faccio largo tra le macerie il più silenziosamente possibile, nonostante le gambe malferme, ma causo comunque una piccola e rumorosa frana. Slitto sui calcinacci e la mia vista si oscura per un istante – riesco ad aggrapparmi a una trave sporgente appena prima di rovinare a terra.

Entro nel buio dell'abitazione. La luce è appena sufficiente a distinguerne i contorni, grazie a uno squarcio in alto che lascia intravedere il cielo. Evito di accendere una fiammella per non attirare l'attenzione. Avanzo in un'ampia stanza che un tempo deve essere stata un soggiorno. Intravedo un tavolino basso sfondato e una credenza infranta al suolo, che ha disseminato ovunque schegge di vetro e cocci lucidi di stoviglie, rendendo i miei passi scricchiolanti sul pavimento di ceramica decorata. 

In un angolo c'è una pompa per l'acqua, ma non sembra funzionante: mi rende solo più conscio della mia sete latente, fomentata dalla febbre. Una cassapanca è rovesciata, col contenuto sparpagliato qua e là: animali intagliati, una bambola di pezza, palline colorate – giocattoli ormai senza valore e senza proprietario. Qua e là pendono drappi colorati e intessuti di fitti arabeschi, ridotti a stracci. Il resto è stato saccheggiato dagli sciacalli.

Un tempo deve essere stata una dimora signorile, forse appartenente a qualche sacerdote o diacono. Adesso non è molto diversa dal resto della città devastata.

Mi guardo intorno in cerca di un divano, un letto, una panca su cui adagiarmi, ma la maggior parte dei mobili è sparita, probabilmente fatta a pezzi per ricavarne legna da ardere. La porta che conduce al resto della casa è ostruita dalla scala del piano superiore crollata. Tra i detriti scorgo il corpo denudato di un vecchio.

La testa riprende a girarmi e prendo un respiro stentato, puntellandomi contro il muro. È innaturalmente molle sotto al mio palmo. Strizzo gli occhi nella penombra appena rischiarata dal fioco chiarore che filtra dalle brecce. Non mi sento al sicuro qui, ma non riesco a muovere un passo di più. Devo occuparmi della ferita. Devo riposare, non importa dove. Le gambe non mi porteranno più lontano di così.

Prendo un respiro profondo, preparandomi all'arduo compito di sedermi senza svenire o dissanguarmi.

Uno scricchiolio di vetri mi fa sobbalzare, il cuore che si congela in gola. Mi giro con la destra già contratta e pronta a liberare scintille, ma mi blocco un attimo prima di incendiare l'aria, le pupille dilatate nella luce fioca. Dall'altra parte della stanza, una donna mi fissa con gli occhi sbarrati, paralizzata sul posto. Un panno le copre in parte il capo e stringe una sacca al petto come a farsi scudo. Scocca un'occhiata frenetica all'unica via di uscita, ma non osa muoversi. 

Capelli bianchi e occhi rossi – lo so, anche se non riesco a vederli con chiarezza, e sembrano brillare scarlatti nell'assenza di colore. 

La fisso, pollice e medio che frizionano con forza la stoffa d'accensione, pronti a schioccare e liberare la fiammata. Lo sparo che ha ucciso Rod riecheggia nelle mie orecchie; vedo Jace e Alena accasciati l'uno sull'altro in un abbraccio di morte; sento i rantoli di Oskar risuonarmi nel petto, la presa viscida di sangue sul mio palmo.

La mano mi trema e una rabbia ustionante mi invade come lava, una morsa malsana che mi artiglia il cuore e vi traccia solchi dolorosi nel ritrarsi, portando via con sé brandelli sanguinolenti. 

Quell'oscurità dilagante si riapre dentro di me. Mi risucchia, divora ogni luce nel buio di un'eclissi.

Oltre le tenebre non c'è luce –

Addenso l'ossigeno, i denti serrati.

– c'è altro buio, altre tenebre –

Carico la fiammata.

–  c'è una promessa infranta, c'è un sogno ormai in fumo che lotta per riaccendersi.

È un sogno meraviglioso.3

Abbasso la mano, con la trasmutazione che evapora in uno sbuffo assieme al mio respiro trattenuto. Scivolo a terra contro il muro, lasciando una pennellata di sangue sull'intonaco, e mi accartoccio con le ginocchia ripiegate contro il petto, il guanto inerte. La donna mi guarda ammutolita e rimane lì, una statua di pietra dalle iridi rosse cristallizzata sotto i raggi deboli della luna. Lascio che i miei occhi si socchiudano, appesantiti dal buio. 

La ferita continua a stillare sangue, silenziosa, pulsante. Sento un rumore di passi leggeri che sgattaiolano via – un refolo d'aria mi sfiora la guancia. 

Sospiro, col ferro sulla lingua. 

Sono stanco.


 

 


Note:

[1] Queste sono citazioni (dirette o rielaborate) dal volume 15 del manga, rispettivamente di Berthold Hawkeye (Capitolo 58) e Riza (Capitolo 60).
[2] Ho scelto il nome dell'edizione italiana cartacea per Kimbley. In Brotherhood è Alchimista Cremisi, ma personalmente preferisco appunto Alchimista Scarlatto.
[3] Questa è la frase che pronuncia Riza subito prima di affidare a Roy le ricerche del padre sulla sua schiena (Capitolo 60).

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
siete sopravvissuti? Spero di sì. 

Questo è uno dei capitoli più cruenti e meno "giusti", me ne rendo conto. Vi ho fatto conoscere dei personaggi che mi sono impegnata a delineare, per poi spazzarli via nel giro di pochi capitoli. Ma era esattamente così che volevo organizzare la storia, ovvero sottolineando quanto semplice sia morire in guerra. E, a livello di trama, la prima squadra di Roy ha una rilevanza notevole. Ho costruito molto sulla sua infanzia/adolescenza/giovinezza, incluso il periodo all'Accademia, e spero di potervi mostrare quella parte di sviluppo del personaggio che nel manga (e soprattutto in Brotherhood) è stato solo accennato.

Mi rendo conto che l'ultima parte è un po' contorta, tra i vari pensieri intersecati, ma in realtà è voluto. Volevo che a far desistere Roy fosse un filo logico sconnesso, sul momento, ma verrà ovviamente ripreso e sbrogliato in seguito.

Grazie a tutti coloro che leggono, votano e/o commentano questa storia. Era partita come un progetto estremamente personale per cui nutrivo ben poche speranze di "successo", ed è stato bellissimo vedere come, invece, sia riuscita a coinvolgere molte più persone di quanto mi aspettassi. I numeri delle liste parlano chiaro, anche se molti di voi sono lettori silenziosi, e vi ringrazio anche solo per spendere del tempo leggendo la storia. Se poi vorrete lasciarmi la vostra opinione, anche in privato, ne sarò felice ♥
Grazie di cuore ♥

-Light-

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Capitolo 15
*** IV: Una linea nella sabbia – Capitolo 3 ***


Parte IV
 
Una linea nella sabbia
.3.




?? Giugno 1908
Distretto di Kanda, Ishval
??? Notte

 

Ombre dense si allungano nei miei pensieri.

Come quelle che si disegnavano ai miei piedi al tramonto, mentre camminavo in bilico sui muretti dei terrazzamenti di Bushmills. Le braccia spiegate come un falco a mantenere l’equilibrio, le scarpe con la suola consunta che vacillavano sulle pietre bollenti incastrate a secco. Dalla strada sottostante, Riza rideva come faceva di rado e mi lanciava chicchi d’uva acerbi, senza mai mancarmi. 

Io ridevo con lei e barcollavo, un piede nel vuoto, le mani che mulinavano l’aria, il respiro che schizzava in gola assieme al cuore, sul punto di sbilanciarmi e cadere, cadere...

Cado di schianto sul pavimento gelido, i pensieri che precipitano con me dentro un pozzo nello stomaco. Riapro di scatto le palpebre e rimango accecato dal buio.

Ero a un passo dal baratro. Ho sentito la gravità arpionarmi le budella e trascinarmi verso il basso, a un soffio dal nulla. Accolgo il coacervo di sensazioni spiacevoli con un sollievo dal retrogusto masochista; lieto, per quel singolo istante, di essere ancora in grado di percepirle e di non essere scivolato oltre il velo bigio della morte.

Il sudore freddo mi imperla viscido la fronte. Il caldo della ferita divampa sul fianco, come se una bestia lo stesse masticando a poco a poco, tranciando carne e muscoli e riducendoli in poltiglia. Ogni respiro si raggomitola nei polmoni, si sfilaccia strada facendo tra laringe e trachea ed emerge in un refolo stentato dalle labbra riarse. Fontane e torrenti e cascate costellano la mia mente, acuendo la percezione della lingua gonfia e priva di saliva. 

La febbre mi sta cullando in braccia roventi – mi invita al dormiveglia e al sonno. Con ogni goccia di sangue che trasuda lenta dalla ferita, retrocedo di un passo nella battaglia contro le mie palpebre pesanti. So che, se mi addormentassi davvero, non riuscirei più a risvegliarmi.

Concentro lo sguardo su ciò che mi circonda, sull’ambiente sfregiato dalla guerra che occhieggia dalle macerie e dai resti di mobili fracassati. Nuvole perlacee si trascinano pigre oltre lo squarcio del tetto, annebbiando il cielo. Di tanto in tanto, nella semioscurità che il mio cervello tenta di riempire, fanno capolino i volti devastati di Alena e Jace e il cranio sfondato di Roderick e gli occhi vitrei di Oskar e i corpi mutilati della mia truppa ammassati nella sabbia impregnata di sangue. Premo sulla ferita e il dolore mi dilania, scacciando temporaneamente quelle immagini e riportandomi alla realtà.

Non mi sono medicato. Sono solo riuscito a far coagulare alla buona il sangue in una patina fragile e ferrosa con un cerchio alchemico raffazzonato, ma non oso tentare della vera e propria alchimia organica per timore di peggiorare le cose. Riesco a malapena a muovere il braccio, o a districare le dita in modo coordinato. È come se si fossero svuotate di sangue e linfa vitale, divenendo appendici inerti, fredde. Mi sto prosciugando, una goccia dopo l’altra, l’emorragia che non si è arrestata nonostante tutto.

Continuo ad aggrapparmi alla flebile speranza che abbiano già inviato la pattuglia notturna vedendo che tardavamo a rientrare. Non perlustreranno l’area in cerca di superstiti. Noi non lo facciamo mai. 
Carichiamo i cadaveri su un carro, avvolti in quei teli bianchi e freddi, per poi disporli nelle file interminabili schierate fuori dalla guarnigione, in attesa di essere identificati e seppelliti sommariamente. Secchi di medagliette prive di un corpo costellano quei macabri ranghi. Vengono spedite lettere di cordoglio alle famiglie. Ne ho già compilate diverse, una più asettica dell’altra. I più alti in grado ricevono una bara in cui tornare a casa – quella che potrebbe spettare a me.

Ma forse per un Alchimista di Stato... forse per me faranno un’eccezione e spediranno qualcuno a cercarmi. Ironclad non fa eccezioni né favoritismi, ma il tributo di sangue che verso è troppo alto per lasciarmi morire. Sono pensieri repugnanti come larve infette sottopelle, ma gli unici che mi tengono ancora in vita. Un filo sottile e rosso, teso tra anima e corpo, sul punto di spezzarsi.

Il confine tra sonno e veglia diviene nuovamente sfumato. 
Vedo altre linee, intersecate, geometrie vermiglie che si rincorrono su curve morbide sotto le mie dita; vedo una salamandra guizzante che mi fulmina con occhi di brace, la bocca vomitante fiamme nere; vedo il castano caldo di due iridi lontane, che specchiano l’autunno alle porte sul finire dell’estate – ti prego, non morire

Non muoio, non muoio.

Le tonalità di rosso si sovrappongono e gli intrichi alchemici si condensano nel sangue che mi sgorga dal fianco, dolore liquido e viscoso che rompe gli argini deboli delle mie dita.


Sto scivolando via.

Un rumore di calcinacci smossi riapre uno spiraglio nei miei occhi, che non mi ero nemmeno accorto di aver chiuso. Annaspo aria come se fossi rimasto in apnea e cerco di mettere a fuoco la stanza, catturando la poca luce lunare che vi filtra.

Dalla breccia nel muro sfondato fa capolino un’ombra umana. Mi irrigidisco con uno spasmo. Forse è un ribelle o uno sciacallo – in ogni caso sono inerme, ridotto così. Chiudo il pugno e sento la consistenza umidiccia della stoffa d’accensione impregnata di sangue. Trovo una piccola zona ancora asciutta, in grado di generare scintille, e vi premo sopra il pollice, pronto a sfregarlo. Serro i denti e lo spacco sulla tempia tira, minacciando di riaprirsi.

L’ombra entra nella sala distrutta e si delinea meglio, stroncandomi il fiato: è l’Ishvaliana di poco fa.

Guarda subito nella mia direzione e non provo neanche a fingermi morto. Il mio respiro discontinuo, raschiante nel silenzio notturno, è un indizio sufficiente. 
Mi osserva per un minuto intero, diritta come una statua, fusa con la penombra circostante. Sembra valutare la mia pericolosità, ignara del fatto che sto già addensando l’ossigeno in traiettorie indirizzate verso di lei. Sono traballanti e sottili, ma ancora efficaci.

Incrocio il suo sguardo e rimango immobile, paralizzato in una posizione che non è né di fuga, né di attacco, ma decisamente vulnerabile. Alla prima mossa falsa, sono pronto a incendiare l’aria, anche se il cuore riprende a pulsarmi violento in gola – perché non l’ho ancora fatto? 

Mi umetto senza successo le labbra aride, ma non scocco la scintilla fatale.

Nemmeno quando lei si avvicina, un passo dietro l’altro, i piedi nudi silenziosi nella polvere e sabbia che ricoprono il pavimento lasciando orme invisibili. Si ferma a un paio di metri da me, sempre con movimenti misurati, lenti. Quelli che si compiono attorno a un animale ferito. Fissa la mia mano contratta, solo parzialmente nascosta dalle mie vesti. Corruga le sopracciglia in una smorfia di disappunto che le disegna una linea netta sulla fronte, come se si stesse apprestando a fare qualcosa di sgradevole.

Solo dopo qualche istante metto a fuoco il pugnale ricurvo che stringe saldamente in mano. 
I miei istinti di battaglia si risvegliano e quel poco di adrenalina che mi rimane mi scorre nelle vene mentre il cuore riprende a pompare più vigorosamente. Sento il mio volto contrarsi sotto il sangue rappreso e so di avere davvero l’aspetto di una belva ferita messa all’angolo.

Stringo il pungo, pronto a scoccare la fiamma di avvertimento che avrei già dovuto sprigionare dall’istante in cui l’ho vista. La ragazza nota il mio gesto convulso e abbassa il pugnale, rivolgendo la punta verso di me in una posizione che è evidentemente ostile, ma non mi attacca. 

Forse non sa di cosa sono capace. Non sa che potrei incenerirla in pochi secondi, come ho fatto così tante altre volte con volti così simili al suo – perché non lo faccio? – o forse crede davvero di potermi sgozzare qui ed ora, vendicando i suoi compagni.

Invece, abbassa lentamente il pugnale. La guardo interdetto, la mano morsa dai crampi. Il cipiglio scuro che le incide la fronte non la abbandona, ma ripiega il mento all’indietro scrutandomi meglio, intensamente, con cupa curiosità. La lama del pugnale riluce appena d’argento. Lo rinfodera, con la lama aguzza che stride acuta, inghiottita dalle fauci bronzee di un serpente intarsiato.

Rilascio un respiro flebile e assieme ai polmoni anche il mio guanto si fa molle, dissipando reticoli d’ossigeno pronti a essere innescati. L’Ishvaliana mi riserva un ultimo sguardo tagliente, la mano che scivola via dall’elsa dell’arma, prima di distogliere il suo interesse da me. 

Prende a frugare tra le macerie e i detriti, avendo cura di non voltarmi mai del tutto le spalle. Di tanto in tanto recupera un oggetto, lo ripulisce con un lembo della veste e lo ripone nella sua sacca. Anche se scalza, non sembra curarsi delle schegge e delle asperità del terreno mentre si sposta agile da un capo all’altro del salone. I suoi passi sono sicuri, ma muove il capo in maniera spaesata, come se stesse tentando di raccapezzarsi in un luogo conosciuto. Non posso fare a meno di chiedermi se questa fosse casa sua, prima che le esplosioni alchemiche la sventrassero dall’interno.

Il cuore sembra battermi nelle ossa, facendo vibrare il midollo. Non so neanche dire se sia paura, o il sollievo che la segue, o un misto di entrambe le cose. Sento solo uno di quei battiti che mi affiora alle labbra, chiedendo di essere liberato:

«Perché?»

La mia voce risuona roca, spezzando la cortina di silenzio di questo armistizio indecifrabile. La donna solleva il capo di scatto verso di me. Si rialza in piedi e si fa di nuovo avanti, le spalle e la schiena rigidamente diritte. Mi trafigge con le sue iridi rosse, abissi cremisi che sembrano inghiottire ogni luce, pulsanti di fiamme e sangue.

«Perché non sono un’assassina.»

Nel dirlo, alza il mento e il panno verde le scivola dalla fronte, scoprendo i capelli nivei. Si staglia contro la luce lunare, ogni ombra inspessita in angoli aguzzi, metà corpo inghiottita dal buio come se l’avesse generata. Stringe la sua sacca con dita rigide quasi fossero le spoglie di un nemico appena abbattuto; il suo sguardo si fa più denso, oscillando tra il fiero e il compassato. In lei, scorgo la compostezza eterna e granitica delle statue che ornano i templi ishvaliani, di donne e uomini guerrieri raffigurati vittoriosi.

«Io sì, però.»

«Non sarà il sangue dei miei nemici a liberare questa terra o a riportare in vita chi ho perso.»

C’è odio, nella sua voce. Ma è distante, un’eco che rimbalza da una vallata all’altra, perdendo vigore. Un odio stanco, alimentato da rabbia esausta.

Uno spillo rovente si conficca nel mio cuore nel sentirla parlare così. Furiosa con la vita, con me, con chi le ha strappato tutto, ma determinata a non fare lo stesso, ad ergersi sopra al sangue. Come fa questa donna a mantenere ideali simili quando stiamo sterminando il suo popolo? Quando tra pochi giorni potrei riprendere a bruciare innocenti? Il mio sguardo si fissa sul mio guanto macchiato di sangue.

«Perché tu, piuttosto,» prosegue lei, adirandosi d’un colpo e avanzando di mezzo passo. «Ho visto cosa hai fatto là fuori. Perché prima non mi hai uccisa?»

Non posso far altro che sgranare leggermente gli occhi.

Lo sapeva, quindi? Sapeva che ero un Alchimista di Stato, ed è comunque tornata qui a... a fare cosa? Uccidermi? Sfidarmi? I pensieri mi mulinano in testa, vertiginosi. Si tingono del bianco di occhi spenti e del rosso vivo di vite riversate nella sabbia, e vengono infine calamitati da quella semplice domanda.

Perché?

Non ho una risposta così pronta come la sua. Non ho affatto una risposta.

Perché... sono stanco. Stanco di sfregare la stoffa d’accensione e, con precisione scientifica, appiccare il fuoco a persone e case in un inferno di urla. Stanco di sopravvivere, dopo aver visto la mia truppa decimarsi un uomo dopo l’altro, un amico e compagno alla volta fino a perderli tutti. Stanco di credere alla favola che l’alchimia serva a fare del bene – quale?, mi chiederebbe Riza.

È un sogno meraviglioso.

Il respiro mi si blocca in gola, denso, salato. Lo era.

Ti affido la mia schiena.

Le parole per rispondere all’Ishvaliana non mi appartengono nemmeno del tutto. Si sono cristallizzate in una mattina di novembre, disperse dal vento infido assieme alle foglie avvizzite. Un sogno effimero in cui, però, ho creduto. In cui Riza ha creduto.

Perché l’ho promesso.

Perché oltre le tenebre c’è ancora luce, forse, ma devo far scoccare io la prima scintilla.

«Non hai ucciso tu i miei compagni,» dico invece, tirando le labbra in quello che non è un sorriso, piuttosto una smorfia sardonica. «Ho già fatto abbastanza.»

È una mezza verità, dopotutto. Non ho esitato a trucidare i responsabili. Percepisco quello squarcio nero dentro di me allargarsi un poco nella lucida consapevolezza che, no, non esiterei nemmeno adesso. Taccio i miei veri pensieri. Sarebbe ipocrita e meschino fingere che vi sia una qualche comunanza tra noi, di fatto vittima e carnefice, invasore e invasa. Qui l’unica a potersi arrogare una vendetta è lei. Ne sono freddamente conscio.

A quell’affermazione lei mi fissa, gli occhi leggermente sgranati, non un muscolo a muoversi sul volto. Per un istante, credo che stia per rinnegare i suoi propositi rispetto al non uccidere – ma la ruga che le segna la fronte si spiana appena, attenuando di una tacca la durezza dei suoi occhi. Non so come, ma ha colto qualcosa di troppo, in ciò che ho detto, oltre la voce sfibrata dal dolore e dalla tensione. Forse la stessa stanchezza che attanaglia anche lei.

Annuisce, un cenno impercettibile che le fa vibrare la gola.

«Sarà Ishvala a decidere di te,» sentenzia infine, tirandosi di nuovo il panno sul capo. «Il suo è il giudizio più severo, ma anche il più giusto.»

E con quel verdetto, smette di trafiggermi con lo sguardo.

Riprende a rovistare tra macerie e calcinacci con metodica calma e minuziosità, senza tralasciare alcun cumulo di detriti o pertugio inghiottito dai crolli. Quel tramestio di cocci e calcinacci smossi è ipnotico. Mi ritrovo a socchiudere le palpebre quando la ferita torna a pulsare, azzannandomi con denti di ferro che mi trascinano via, verso l’oblio. Riaffioro alla superficie della coscienza solo quando ogni rumore cessa, ammantando di nuovo la notte di silenzio.

L’Ishvaliana è ferma, sulla soglia della breccia d’uscita da quel sepolcro. Mi fissa, di nuovo, il volto illuminato fievolmente dalla luna. Non capisco se sia più vecchia di me, o se sia solo la guerra ad aver inciso più scalfitture sul suo viso ovale.

«Siamo miseri esseri umani. Granelli di sabbia nel deserto del dio Ishvala.» Fa una pausa e dietro la fierezza tagliente di quelle parole sento un dolore sordo, vivo. 
«Ma un misero essere umano può ancora compiere le sue scelte. Tu, stanotte, hai compiuto la tua scegliendo di non uccidermi.» Mi punta l’indice sottile contro, nel gesto statuario di un giudice solenne che addita un colpevole. «Hai tracciato una linea tra te e gli altri, per quanto fragile. Io ho solo scelto di fare lo stesso.»

E, con un ultimo sguardo pungente scoccato come una freccia, sgattaiola via, oltre le macerie e nella notte.

Rimango lì, stordito, con la mente che si allontana dal corpo e ronza in circolo attorno a quelle parole come una mosca fastidiosa stordita dal caldo. Chiudo gli occhi, intorpidito. Il ronzio diventa più forte, mi fa vibrare i timpani. Muovo una mano inerte a scacciarlo – e sono di nuovo nello studio afoso del Maestro Hawkeye, con un moschino irritante che mi tormenta e Riza che sbircia da sopra la mia spalla mentre ripasso le formule alchemiche per la lezione del giorno. C’è odore di legno vecchio e pergamene, di terra scottata dal sole e di gelsi in fiore – o forse è il profumo discreto di Riza.

Mi impegno, una riga dopo l’altra, per quel sogno così vago e fumoso che però sembra bellissimo a entrambi mentre lo racconto entusiasta. Non importa dargli contorni precisi, finché rimane nel futuro, una semplice mèta da raggiungere, magari insieme.

Non ci sono linee. Né tracciate nella sabbia insanguinata, né impresse sottopelle a gravare sulla schiena. Solo quelle dei quaderni su cui scrivo i miei sogni ancora limpidi e quella dell’orizzonte, così vicina che mi sembra di toccarla già.

 

 



Fine Parte IV



 


Note dell’Autrice:

Cari Lettori,
Un po’ in ritardo, ma ecco il nuovo capitolo ♥

Spero che abbiate apprezzato il confronto che vi ho proposto. Nella bozza originale doveva accadere tutt’altro, ma essendo vecchia di almeno sei anni ho deciso di rivederlo in toto e di rendere più "diretta" tutta la scena. Verrà ovviamente ripresa in futuro ;)

Piccolo annuncio: sto seriamente pensando di traslare la storia in terza persona. Avevo un preciso progetto quando, all’epoca, l’ho impostata in prima, ma essendosi modificato in corso d’opera non ha più quel carico di significato originale.
Interrogo voi lettori: sarebbe uno shock se, dal prossimo capitolo, si passasse alla terza persona? Ovviamente provvederei poi a modificare  capitoli precedenti.
Non sono solita chiedere di "decidere" ai lettori, ma in questo caso, trattandosi di un cambiamento sostanziale che riguarda la forma, e non il contenuto, mi interessa molto conoscere la vostra opinione ♥

Ah, se ci fate caso, per descrivere l’Ishvaliana in una determinata scena ho preso a ispirazione i quadri di Caravaggio Davide con la testa di Golia e Giuditta e Oloferne. Perché? Perché no, suvvia ;) (e perché è bello ficcare ulteriori sfumature di significato implicito nelle scene).

Grazie a tutti voi che leggete e commentate questa storia!

Alla prossima, spero prestissimo,

-Light-

 

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Capitolo 16
*** V: Ciò che non uccide – Capitolo 1 ***


Parte V
 
Ciò che non uccide
 “E ancora sono il prodigo che ascolta
dal silenzio il suo nome
quando chiamano i morti.
[Fresche di fiumi in sonno – S. Quasimodo]
 
 
 
.1.
 
 
 
 

?? Giugno 1908,
Distretto di Kanda,
???
 
Un rumore familiare mi fa slittare dal sonno profondo a un torpore febbricitante. L’afa che abbraccia sempre le notti dell’Est sfuma nel freddo tagliente del deserto. Torno al presente, alla ferita, all’aria satura di polveri sottili che intasano i polmoni.

Brividi sottopelle mi scuotono incessanti e lotto per non richiudere gli occhi, battendo più volte le palpebre di cemento. La mia mano è ancorata al fianco, colloso e tiepido per il sangue rappreso. Deglutisco, senza un goccio di saliva residuo, e il pomo d’Adamo sobbalza a vuoto, dolente.
 
Cosa mi ha svegliato? 
 
Tendo le orecchie e colgo solo un brusio indistinto nel silenzio statico e illusorio della notte. In lontananza tuonano i cannoni. Focalizzo infine quella che sembra una piccola frana di ciottoli. Forse è solo la casa che sta cedendo, scossa dai costanti terremoti delle esplosioni. È un suono continuo, però, cadenzato – e si fa sempre più forte e distinto. Mi ricorda le stradine di Bushmills, ma non saprei dire perché. Il delirio della febbre mi ha riportato fin troppo spesso a quel rifugio della memoria, nel quale mi sono rincantucciato come un bambino sotto le coperte, rischiando di non uscirne più.
 
È con un guizzo della mente che riconosco finalmente lo scalpiccio di molti zoccoli contro la strada lastricata, come quelli dei cavalli da tiro che attraversavano il paese.
 
Un fiotto di debole energia mi scuote le membra quando un nitrito sommesso spezza in silenzio, seguito da uno strattone tintinnante di briglie. Schiarisco la mente della nebbia torbida che l’ha invasa, col cuore che riprende a pulsare: solo i soldati di Amestris hanno la cavalleria.
 
Gli zoccoli si avvicinano. Oltre la breccia del muro, scorgo le sagome di una mezza dozzina di soldati a cavallo che avanzano placidi lungo la strada. Prima che superino l’apertura, raccolgo il fiato nei polmoni e grido con tutte le forze che mi sono rimaste, staccandomi dalla parete:
 
«Ehi! Pattuglia!» il rumore di zoccoli si arresta all’istante.
 
Gli scatti metallici e secchi dei fucili a cui viene tolta la sicura riempiono l’aria.
 
«Chi va là?»
 
«Maggiore Mustang!» un’improvvisa fitta mi colpisce la gola scorticata e la mia voce si abbassa considerevolmente. «Ferito!» aggiungo in un rantolo, prima di lasciarmi ricadere contro il muro.
 
Sento gli uomini smontare frettolosamente da cavallo in un tramestio di finimenti e distinguo le sagome dei lunghi cappotti bianchi che entrano nel mio rifugio. 
 
Chiudo le palpebre per un istante, ma passa molto più tempo. Le voci mi rintronano, insensate, troppo forti e rimbombanti nellesiguo spazio del mio cranio. Clangori metallici e suoni di legno spezzato si fondono al brusio assordante. Qualcuno mi scuote debolmente, poi scosta il mio mantello dalla ferita, strappandomi un gemito. Le voci si fanno più distinte:
 
«Merda, che casino.»
 
«Porca puttana, è a pezzi.»
 
«Muoviti, prendi qualcosa per il sangue.»
 
«Come fa a essere vivo? Cazzo, guarda che roba.»
 
«Si è azzoppato un altro cane... e adesso chi li sente i superiori?»
 
«Zitto, idiota, vuoi che ti senta? Manda un dispaccio all’Alchimista Caduceo, se ne occuperà lui.»
 
Infine, braccia robuste mi sollevano, fomentando l’incendio della mia ferita. Mi sento adagiare su una barella di fortuna, assemblata con qualche stralcio di tessuto e resti di legno e ferro sparpagliati tra i detriti. Sorregge a malapena il mio peso quando la issano a mezz’aria, le giunture che stridono.
 
Schiudo le palpebre: un sottoufficiale riccio e scuro mi parla agitato sullo sfondo del soffitto cadente. Forse si aspetta una risposta, forse tenta solo di tenermi sveglio. La sua voce è distorta e non riesco a recuperare abbastanza fiato e parole per rispondere. Qualcuno mi getta addosso un mantello e smetto di tremare come a comando. Un velo di sudore freddo mi ricopre la fronte e il cuore mi batte a mille, come a recuperare tutti i battiti persi finora.
 
«La mia truppa...» riesco a sillabare infine, sollevando un braccio nella direzione dalla quale credo di essere arrivato. «La mia truppa, vi prego...» il braccio ricade mollemente, senza forze.
 
Il sottoufficiale abbaia un ordine: due soldati rimontano a cavallo e si distaccano dal gruppo seguendo la mia indicazione, in un tramestio di zoccoli a trotto. Noi ci mettiamo in marcia a piedi, ogni sobbalzo seguito da un mio lamento soffocato. Guardo il cielo, una massa nera e informe sopra di me, che mi preme addosso. Tra spesse nubi di fumo, una sottile falce di luna apre a forza uno spiraglio, gettando tenui raggi nel buio.
 
 
 
 
 
 
?? Giugno 1908
Guarnigione di Kanda, Ishval
???
 
«Ecco perché voi alchimisti da assalto dovreste studiare un po’ di formule mediche organiche prima di caricare a testa bassa. Che disastro è, questo? Hai condensato il tessuto ferroso del sangue per arrestare l’emorragia? Puah, cosa mi tocca vedere... è un miracolo se non ti sei autoinflitto un’infezione da tetano...»
 
La voce borbottante dell’Alchimista Caduceo riempie la tenda, accompagnando il tintinnare acuto degli strumenti chirurgici che posa e riprende dalla padella metallica di fianco al lettino, assiete a quello dei frammenti di mortaio che mi estrae dalla ferita. Mi mordo le labbra, sentendo con chiarezza bisturi, pinzette e altri aggeggi innominabili che mi tagliuzzano la carne del fianco in un concerto di fitte lancinanti. L’anestesia ha fatto effetto, dice, ma non so quanto sia vero, e se il fatto di non essere ancora svenuto sia mero effetto placebo.
 
Rimango in silenzio: è chiaro che non si aspetti che partecipi al suo monologo. Rimango immobile, i muscoli contratti, l'aria gelida della notte che mi fa accapponare la pelle. Di tanto in tanto, nella mia visuale entrano un camice chiazzato di sangue e delle mani tozze che a malapena entrano negli anelli delle pinze chirurgiche. Occhiali protettivi fanno capolino da sopra il panno che gli copre naso e bocca, schermando le iridi scure che a volte si intravedono oltre il riflesso. Di tanto in tanto, il tenue bagliore di una trasmutazione gli illumina il volto, accentuandone il profilo tondeggiante, dagli zigomi piatti.
 
«Uff, può bastare,» sbuffa infine, stringendomi la garza attorno al busto con uno strattone non esattamente professionale. «Ci sei andato vicino, eh? Ma vivrai.»
 
Si lascia ricadere col suo peso non indifferente sullo sgabello lì accanto. Si toglie gli occhiali protettivi, lasciandoli a penzolare dal collo, e abbassa la mascherina raffazzonata, scoprendo il naso poco pronunciato e la bocca piccola, contornata da baffetti sottili. Ciuffi di capelli neri sfuggono alla cuffietta, arricciandosi attorno alle orecchie e agli occhi dal taglio allungato.
 
Elmer Marder non dà l’impressione di essere il competente Alchimista di Stato che in realtà è, quanto un oste strappato a forza dal bancone sudicio di un locale dell’Ovest. Eppure, la dimostrazione della sua abilità con l’alchimia medica sta nel fatto stesso che io sia vivo, in grado di respirare e con una milza ancora funzionante.
 
Rilascio una boccata d’aria flebile, premendo la testa contro il lenzuolo ruvido che copre il lettino operatorio gettato in mezzo allo spazio in terra battuta – una postazione talmente precaria che farebbe sbiancare qualunque chirurgo di Central abituato all’igienica asetticità del proprio ospedale. La mia divisa è stracciata ai miei piedi, un cumulo di tessuto imbrattato e polveroso. L’odore del disinfettante e del sangue mi riempie le narici, unito al tanfo d’infezione che si insinua fin qui dal reparto degenza, separato da noi da un semplice telo cerato. Il concerto di lamenti e vocio stanco dall’altro lato trapela vivido fin qua. 

Sento la ferita che tira lintero fianco, dolente, ma non più devastata da un incendio. Gli antipiretici hanno fatto effetto e ho recuperato la lucidità sufficiente per distinguere la realtà dal mondo onirico e fumoso dietro le mie palpebre, nel quale la mia mente tenta ancora di rifugiarsi di tanto in tanto.
 
Marder non si schioda dalla sua postazione, osservandomi di sfuggita con occhio clinico mentre scribacchia qualcosa su una cartelletta sdrucita. Noto solo ora che, su ogni polpastrello, reca dei piccoli tatuaggi alchemici. Distinguo un bastone di Asclepio e una Croce della Vita sui pollici, ma le formule che li circondano sono indistinguibili. Sento all’improvviso il vuoto del guanto sulla mia mano nuda.
 
«È sopravvissuto qualcuno?»
 
La mia voce è ridotta a un sussurro roco, sottile quanto la mia speranza. Marder sobbalza, colto alla sprovvista. Mi rifila uno sguardo stranito, le iridi che quasi spariscono quando assottiglia gli occhi, e capisco che non riesce a collocare la mia domanda, per quanto ovvia, e non posso evitare di accigliarmi.
 
«Della mia truppa.»
 
«E come faccio a saperlo? Io ricucio solo chi mi rifilano. Ringrazia di esser vivo, piuttosto,» taglia corto, alzandosi con uno scatto che fa ondeggiare la sua mole tarchiata sotto il camice lurido di sangue e umori.
 
«Dovresti saperlo, visto che è il tuo lavoro,» riesco a dire, sforzando la voce, così densa e difficile da controllare che quasi mi si incastra a mezza via.
 
«Non mi pagano abbastanza per tenere il conto di tutti quelli che passano per le mie mani. O che ci muoiono. Se vuoi un conto dei morti, chiedi a quel becchino del dottor Knox, lui ne vede certo più di me,» quasi ride lui, senza nemmeno voltarsi e con una nota di disprezzo.
 
«Che razza di medico sei?» mi lascio sfuggire, trattenendo un colpo di tosse che poi emerge comunque, sconquassandomi le costole.
 
Marder si ferma, trapassandomi con lo sguardo, e abbozza un sorrisetto mentre inclina il capo con sufficienza.
 
«Tu che razza di Alchimista sei? Pensa al tuo, di lavoro.»
 
Stringo i denti, trattenendo una risposta tagliente, mentre lui mi supera con passi pesanti. Lo vedo affaccendarsi attorno al carrello dei medicinali con la grazia di un pachiderma. È quasi impossibile immaginarselo a portare a termine delicate operazioni chirurgiche sui suoi commilitoni. La sua fama è però indiscussa, sul campo di battaglia: se si ha la fortuna di passare sotto i suoi ferri, difficilmente si torna a casa in una scatola di frassino. 
 
Peccato che sia una fortuna riservata agli ufficiali superiori e agli altri Alchimisti di Stato. Macchine di morte privilegiate.
 
Mi chiedo, una voce flebile dai meandri della mia mente, se Marder avrebbe remore a salvare e curare un Ishvaliano, tante quante ne ho io a ucciderli. Se la sua, di linea nella sabbia, sia davvero così marcata come vuole far credere. Non credo avrò mai risposta – anche se le sue azioni e parole mi hanno già detto abbastanza.
 
«Senti, Mustang,» riprende poi a biascicare, sullo sbatacchiare di dozzine di bottigliette e fiale di vetro, «io avrei l’ordine di starti appresso come una balia finché non sarai di nuovo in grado di sputare fuoco e fiamme. Ma non ho tempo da perdere, qui, e so riconoscere una seccatura quando ne vedo una, quindi...»
 
Fa una pausa e si avvicina di nuovo a me, tenendo con due dita una boccetta scura e piazzandomela di fronte al naso.
 
«Tu adesso esci di qui, te ne stai un paio di giorni allettato sotto morfina, poi ti prendi qualche goccia di questo e sparisci dalla mia vista. Chiaro?» Mi caccia la bottiglietta nella tasca dei pantaloni e si volta a chiamare a gran voce l’infermiera. «Ruth!»
 
«Che roba è?» riesco a chiedere, tastando sospettoso il profilo del medicinale attraverso il tessuto.
 
«Laudano. Allevia il dolore, stordisce i sensi e ti fa dormire come un neonato. Non abusarne. Una decina di gocce al giorno, mattina e sera, non di più,» aggiunge, con tono improvvisamente serio e più in linea col suo ruolo di medico, anche se solo per un istante. «E non sbandierarlo in giro. Mi aiuta a liberare i letti più in fretta, ma... beh, capisci da solo che non è una procedura ufficiale.»
 
«Capisco benissimo,» mormoro io, livido, ma troppo esausto per reagire in modo appropriato.
 
Pensa al tuo, di lavoro, sembra ripetermi lui con sguardo duro, e seguo quel consiglio, seppur malvolentieri.
 
Un’infermiera e un assistente scostano il telo e fanno il loro ingresso nella sala operatoria, mettendo fine alla discussione e trasferendomi rapidi su una barella. Sento la coscienza vacillare anche per questo lieve sforzo passivo.
 
«Dottor Marder, sta arrivando una mezza dozzina di ufficiali feriti dal distretto di Nahasti. Granate e arma da fuoco, gravi. Possibili amputazioni,» annuncia Ruth in tono monocorde, poco prima di lasciare la stanza.
 
«Fate il triage e mandate qui il salvabile,» annuisce lui, legandosi di nuovo la mascherina sul volto mentre si lava rapido le mani in un bacile d’acqua. «Che notte d’inferno,» borbotta poi tra sé, sfregandosi via con vigore le macchie del mio sangue dai palmi.
 
È l’ultima immagine che ho di lui, prima che il telo lo nasconda alla vista.
 
 
 

 
 

Note:
-Il laudano è uno pseudo-medicinale a base d’oppio realmente impiegato sui campi di battaglia del XX secolo. Veniva prescritto come fosse un’aspirina, a dispetto del fatto che creasse dipendenza.
-Il Caduceo è il bastone alato con due serpenti attorcigliati, simbolo moderno della medicina, associato a Ermes/Mercurio. Il simbolo appropriato sarebbe il bastone di Asclepio/Esculapio con un singolo serpente, ma nel corso dei secoli entrambe le versioni sono andate a rappresentare quest’arte.
 
Note dell’Autrice:
 
Cari Lettori,
eccomi con quest’aggiornamento un po’ in ritardo, ma che spero sia stato gradito.
 
Questo capitolo può sembrare di passaggio (e lo è), ma è fondamentale per raccordare varie parti della storia, oltre che dei punti lasciati in sospeso finora, come il laudano menzionato nei primi capitoli o il perché la ferita di Roy sia guarita male. A questo proposito, essa si trova sullo stesso fianco che poi si cauterizzerà in seguito allo scontro con Lust, questo per spiegare il perché non ci sia una cicatrice in quel punto. Sì, siete autorizzati a dire "che c**o, Roy" :’D
 
Detto questo, grazie a tutti coloro che votano, commentano e leggono la storia ♥
Alla prossima, con un capitolo decisamente più denso di avvenimenti!
 
-Light-
 
P.S. Inutile specificare che Elmer Marder è un mio OC, quindi ne vieto l’utilizzo/rielaborazione in qualsivoglia modo. Il cognome, come tutti della Arakawa e dei miei OC relativi all'esercito, è ripreso da un veicolo militare realmente esistente.

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