IL RITORNO DEI CADUTI

Qualcuno gridò.
Una gamba si ritrasse di colpo come se si fosse scottata e un braccio corse a riparare gli occhi accecati dal sole.
“Il mio piede!” esclamò una voce mentre cercava di disincastrarsi da quell’ammasso di corpi che erano caduti uno sopra l’altro.
Cinque persone si rialzarono in piedi e si guardarono attorno curiosi. Quello in cui erano precipitati pareva, a prima vista, essere un piccolo parco, con un prato, qualche panchina e degli alberi bassi. C’era persino qualche bel fiore che decorava l’ambiente.
“Lily, stai bene?” chiese un uomo - un ragazzo forse - dai capelli scuri e spettinati, mentre si rimetteva gli occhiali sul naso.
Una donna dai lunghi capelli rossi e gli occhi verdi gli si avvicinò per controllare che stesse bene. Erano entrambi piuttosto giovani, forse appena ventenni. “Sto bene, Jamie”.
“Ma… Ma voi chi siete?” chiese a quel punto la donna che si chiamava Lily rivolta verso gli altri tre presenti in quella situazione con loro, due uomini e una donna dai peculiari capelli color rosa chewing-gum. I due uomini le sembravano familiari, li aveva già visti da qualche parte. 
“Lily, James… Siamo… Siamo noi, Sirius e Remus”, le rispose quello con i capelli più lunghi e mentre parlava cercava di avvicinarsi ai due più giovani. Lei indietreggiò. 
“C-Come Sirius?” fece James alternando lo sguardo tra quell’uomo che sì, aveva davvero l’apparenza di essere il suo fratello acquisito, e l’altro, coi capelli biondo cenere e il viso spigoloso sfigurato da quelle peculiari cicatrici sottili, invece sembrava essere l’altro suo amico. Ma perché erano così… invecchiati? 
“Ve lo giuriamo”. 
James abbassò lo sguardo e portò una mano alla schiena. Probabilmente stava cercando la sua bacchetta, come si era abituato a fare negli ultimi anni della sua vita. Quel gesto portò alla realizzazione che nessuno di loro aveva la bacchetta. 
Si trovavano in un posto sconosciuto, completamente disarmati e forse nessuno li avrebbe aiutati. 
“Ma perché voi… Insomma, che è successo?” chiese Lily senza preoccuparsi di nascondere il tono spaventato. Se quelli erano davvero i loro amici non c’era alcun bisogno di fingere di non essere terrorizzata a morte. 
“Be’, ecco… Voi eravate…”, cominciò Sirius senza sapere bene come proseguire. Il suo migliore amico - anzi, fratello - si trovava di fronte a lui in quel momento, vivo e vegeto - almeno così gli pareva, sempre che quello non fosse una specie di aldilà - e lui stava facendo di tutto per trattenersi dall’abbracciarlo come avrebbe fatto in una circostanza più “normale”. 
“Voldemort vi aveva uccisi”, concluse Remus per lui. Black si ritrovò a ringraziarlo mentalmente. 
“Uccisi?!” esclamò Potter, gli occhi spalancati e pieni di terrore. Com’era possibile? Ora che ci pensava l’ultima cosa che ricordava era Voldemort che entrava in casa loro, lui che gridava a Lily di scappare col bambino e… 
“Harry! Come sta Harry?” 
Lily accanto a lui gli strinse il braccio. 
“Harry è sopravvissuto. Sta bene, è solo che…”. 
“Che cosa?” 
“Ragazzi, guardate!” Fu la ragazza dai capelli color rosa a interromperli, parlando per la prima volta. In due rapide falcate delle lunghe gambe aveva raggiunto una panchina su cui stava un giornale e stava puntando il dito sulla data riportata in alto. 
“Qui c’è scritto 10 Luglio 2020”. 
“2020? Com’è possibile?” 
“Siamo nel futuro?” 
“E tu chi sei?” chiese James guardando la giovane. 
“Ninfadora Tonks. Ma chiamami solo Tonks, ti prego”. 
“Lei è… mia moglie”, aggiunse Remus guardando la ragazza dolcemente. 
“Tua moglie?!” esclamò Sirius. “Oh Merlino! Hai sposato mia cugina?” 
“Sì be’, dopo che sei morto anche tu…”.. 
“Morto? Sono morto anche io?” 
“A quanto pare qui siamo tutti morti”. 
“Pure tu, Remus?” 
Ninfadora lasciò gli altri discutere e si allontanò verso il recinto del parco per dare una sbirciata sulla strada. Alcune persone passavano frettolosamente e poco distante da loro si stagliava un edificio a vetri maestoso. Lo riconobbe subito, era il Ministero della Magia. La grossa M davanti non lasciava spazio a dubbi.
“Ragazzi, forse non siamo finiti chissà dove”, gridò agli altri. 
I quattro la raggiunsero alle spalle. “È il Ministero della Magia quello?” 
“Decisamente”. 
“E quello non ti sembra una persona familiare?” chiese Remus puntando il dito verso una figura dai corti capelli rossi e la tenuta da Auror. Era in piedi vicino a un tizio che vendeva del cibo da un chioschetto. 
“Possibile che sia…”. 
“Ron Weasley?” 
“Chi è Ron Wesel?” 
Sirius, Remus e Tonks guardarono James con espressioni perplesse quando quest’ultima scoppiò a ridere. 
“Forse possiamo chiedere aiuto a lui”. 
“Ma sei impazzito, Sirius? Se siamo davvero nel 2020 ed eravamo morti gli verrà un colpo”. 
“Però qualcosa dobbiamo fare. O preferisci restartene qui per sempre?” 
“Credete davvero che sia lui?” 
“Forse ho un’idea”. 
Nemmeno morto Sirius era riuscito a perdere la brutta abitudine di agire d’istinto senza consultarsi con gli altri. 
Si trasformò con velocità ed eleganza in cane ed uscì allo scoperto. 

Ron Weasley si annoiava quel giorno. Era una giornata piuttosto calda, non c’era una nuvola in cielo e il sole picchiava sulla sua testa. Quell’estate Londra aveva deciso di aumentare le proprie temperature; forse davvero c’era qualche problema col riscaldamento globale e non erano tutte chiacchiere di Hermione. Ma avrebbe sopportato pur di avere il suo caffè. Walter faceva il migliore caffè della storia.
Si tolse una briciola dalla camicia della divisa e avanzò di un passo quando la ragazza che stava in coda davanti a lui si allontanò con la propria ordinazione. Per fortuna mancava solo una persona e poi sarebbe stato il suo turno.
Un ringhio basso che provenne dietro di lui lo distrasse. Si voltò trovandosi di fronte un grosso cane nero, decisamente troppo grande per essere un cane qualsiasi.
Ron ebbe una bruttissima sensazione di deja-vù, piuttosto inquietante. Era difficile scordare quel grosso cane nero che al suo terzo anno di Hogwarts gli aveva rotto una gamba trascinandolo fino alla Stamberga Strillante. Ma scacciò subito via l’inutile ricordo e si girò nuovamente verso la bancarella ancora più desideroso di avere il suo caffè. Probabilmente era solo un randagio.
Il cane continuò a fissarlo, si sentiva quel penetrante sguardo sulla schiena. I cani non fanno così, vero? Non i cani normali almeno.
L’uomo dai capelli rossi si voltò di nuovo e questa volta notò che l’animale si era leggermente girato dall’altra parte ma comunque teneva il muso nella sua direzione. Sembrava quasi che gli stesse facendo segno di seguirlo.
Più lo guardava più era convinto di averlo già visto. Quel cane era identico a Felpato. Ma non era possibile, Sirius era morto anni e anni fa.
Il cane questa volta mosse la testa e si incamminò nella direzione opposta.
Ron sbuffò pensando che molto probabilmente, più tardi, si sarebbe preso in giro da solo per aver fatto quello che stava facendo.
Seguì il cane nella direzione del parco e, quando furono dietro i cespugli, lo vide trasformarsi in una figura umana. Certo, aveva pensato che quel cane non fosse normale ma non aveva creduto davvero che si sarebbe rivelato essere davvero un Animagus. E per giunta un Animagus con le sembianze di Sirius Black, identico a come era quando era morto.
Con lui c’erano persino Remus e Tonks. E altri due, un uomo e una donna giovani che non aveva mai visto ma che aveva come l’impressione che non fossero due persone a caso. Dopotutto, i capelli spettinati del primo e gli occhiali tondi e gli occhi verdi della ragazza li aveva già visti numerose volte in un’altra persona a lui ben conosciuta.
Tutte quelle osservazioni dentro la sua testa avvennero in mezza frazione di secondo. Nell’altra mezza frazione non esitò a mettere mano alla bacchetta e a puntarla contro i cinque di fronte a lui.
“Chi siete? Cosa ci fate qua?”
“Ehi, piano!” esclamò Sirius alzando le mani in segno di resa. “Non ti faremo del male”.
Ron iniziò a valutare la situazione attorno a lui. Loro erano in cinque e lui da solo, ma erano in uno spazio aperto quindi se lo avessero attaccato qualcun altro sarebbe corso in suo aiuto. Inoltre erano vicini al Ministero della Magia, sarebbe stato da pazzi per chiunque attaccarlo proprio lì dove poteva ricevere tutto l’aiuto di cui aveva bisogno.
Perché non c’era la possibilità che quelli fossero davvero Sirius, Remus e Tonks.
“Siamo noi”.
“Noi chi? Io non vi conosco, voi non siete…”.
“Te lo giuro, siamo noi”, insistette Black cercando di avvicinarglisi a passi lenti. “E siamo disarmati. Non è da Auror attaccare qualcuno disarmato”.
Ron storse un sopracciglio ma realizzò che probabilmente l’altro aveva capito qual era il suo ruolo dalla divisa che indossava. Ed effettivamente aveva ragione, erano disarmati. Tuttavia non abbassò la bacchetta. Senza pronunciare alcun incantesimo, li analizzò velocemente per accertarsi che non fossero inferi - anche se in quel caso probabilmente non sarebbero nemmeno stati in grado di parlare o reggersi in piedi - oppure sotto effetto di Trasfigurazione o in possesso di altre armi al di fuori delle bacchette. Ma non poteva escludere che stessero usando una Polisucco, chiunque essi fossero, forse addirittura dei Mangiamorte sfuggiti - anche se ormai era più unico che raro trovarli in circolazione. Di sicuro quello non era il posto migliore dove accertarsene.
“Portaci pure al Ministero”, gli suggerì Remus.
Certo, era quello che avrebbe fatto, li avrebbe affidati agli altri Auror, agli addetti al controllo della Magia Oscura, a quelli che si occupavano di individuare usi di incantesimi impropri o maledizioni, a chiunque potesse dargli la certezza che c’erano tre persone - cinque forse - davanti a lui che erano appena tornate dall’aldilà.
“Tu somigli molto al mio migliore amico, solo… più giovane”, mormorò alla fine Weasley abbassando la bacchetta e guardando James.
Lo sguardo di Sirius si illuminò: “Harry? Parli di Harry?”
“Harry”, sussurrò Lily quasi impercettibilmente e forse fu solo James a udirla.
“Sì, Harry”.
“Ci porti da lui?”
“Ehm… Sì. Devo portarvi al Ministero della Magia”.
Per forza di cose li avrebbe portati da Harry, era lui a occuparsi di quel genere di situazioni. O almeno così sperava. Era la prima volta che succedeva una cosa del genere. Certo, gli avrebbe fatto venire un bel colpo, forse sarebbe svenuto o chissà che altro, ma non sapeva che altro fare. Non poteva nemmeno affidarli nelle mani di qualche addetto casuale, non avrebbe saputo chi di preciso.
“Be’, seguitemi”.
Ron si incamminò in direzione del Ministero, il caffè di Walter già bello che dimenticato. Cercò di non dare totalmente loro le spalle, in fondo non poteva fidarsi così ciecamente. Al corso di Auror quella era una regola base. 
“Come siete arrivati qui?” chiese lungo il tragitto. 
“Ci siamo ritrovati in quel parco all’improvviso”, gli rispose Tonks. Non aveva ancora lasciato la mano di Remus. La ragazza era sempre stata quella tosta e forte, ma in quel momento sembrava decisamente spaventata. 
“Qual è l’ultima cosa che ricordate?” chiese loro Ron. 
“La battaglia di Hogwarts”. 
“Il Ministero della Magia. E la mia adorata cugina che mi lancia uno schiantesimo”.  
Gli unici a non aver risposto furono James e Lily ma Ron parve non rivolgere loro particolare attenzione. Aveva decisamente capito chi erano quelle due persone. Li fece attraversare dei corridoi piuttosto lunghi, quelli meno frequentati perché non voleva attirare l’attenzione di nessuno, non prima di arrivare a destinazione. 
Tuttavia qualcuno passò loro accanto e si premurò di salutare con un veloce cenno della mano. Ron non si soffermò, sorrise cordialmente e con passo veloce cercò di far capire che andava di fretta. 
Finalmente entrarono in un ascensore vuoto. 
“A proposito, io sono James”, disse finalmente quello con gli occhiali porgendogli la mano. 
Ron gliela strinse. “Potter? James Potter?” 
L’altro inarcò le sopracciglia. “Ci conosciamo?” 
“No. Be’, non proprio. E immagino che tu sia… Lily”. 
“Sì!” 
Ron sospirò e si portò una mano alla fronte. “Merda! E questa come gliela spiego ad Harry?” disse tra sé e sé ma non abbastanza piano da non farsi udire. Sirius ridacchiò. 
“Sono davvero passati tutti questi anni?” chiese Remus che stringeva tra le mani il giornale che avevano preso prima. “Siamo davvero nel 2020?”  
“Sì”. 
“E immagino che Voldemort sia stato sconfitto”.
“Probabilmente è diventato polvere ormai da qualche parte sottoterra”. 
“Auror quindi, eh?” 
Ron annuì lentamente con sguardo orgoglioso. Erano circa vent’anni ormai che faceva quel lavoro. 
L’ascensore saliva velocemente verso il secondo piano.  
“E Harry? Lavora con te?” gli chiese Sirius. Era assurdo che si fosse perso tutti quegli anni, che fosse stato lontano per tutto quel tempo dal suo figlioccio che invece aveva giurato di proteggere, era assurdo e gli faceva male molto di più che sapere che era morto. Ma sperava con tutto il cuore che nel frattempo Harry fosse riuscito a farsi una vita e ad avere tutto quello che voleva.  
Ron scrollò le spalle. Non avrebbe rivelato nulla di più, lo avrebbero scoperto da soli tra pochi minuti. 
Le porte dell’ascensore si aprirono all’improvviso. 

Sempre per chi ha già letto Afterwar saprà anche che mi piace trattare di argomenti che esulano un po’ dalla leggerezza delle fanfiction; la volta scorsa ho parlato di PTSD e depressione e, be’, questo argomento tornerà anche qua insieme ad altre tematiche, come le dipendenze, la depressione post-parto, l’omofobia, l’aborto, alcune disabilità ecc. E ci sarà anche tanta tanta musica per rilassare quando serve. 
Inoltre, essendo la storia ambientata nel 21esimo secolo (un anno più avanti al nostro oltretutto), ho pensato che i maghi avrebbero avuto più “contatti” col mondo babbano, sia in termini di relazioni/rapporti che in termini di usi e costumi, per cui ci saranno cose come cellulari, social, Instagram, computer. 

Come l’altra volta, penso di tenere l’aggiornamento costante a una volta a settimana, direi la domenica. 
Fatemi sapere che ne pensate di questo primo capitolo e a risentirci. 

IL CAPO DEGLI AUROR E I MALANDRINI

Per arrivare all’ufficio di Harry bisognava attraversare un altro corridoio. Ron non si era mai accorto che ci fossero così tanti corridoi al Ministero della Magia, o non ci aveva mai fatto caso.
Ma ora, col cuore in gola e l’agitazione che gli stringeva le viscere, gli sembrava quasi che quel percorso fosse una specie di Purgatorio. Con l’avvicinarsi dell’ufficio di Harry si rendeva conto delle conseguenze. Come l’avrebbe presa Harry? Cosa avrebbe fatto?

Forse non era stata una buona idea portarli subito da lui. 

I cinque, dal canto loro, se ne stavano in silenzio. Ron si chiedeva cosa stessero pensando o cosa si aspettassero di trovare. Se non erano loro - cosa ora alquanto probabile perché i morti non potevano tornare in vita - sarebbe stata una bella gatta da pelare. Ma se erano davvero loro… Ci sarebbero state un sacco di spiegazioni da dare, un sacco di misteri da scoprire e un sacco di nuove realtà a cui abituarsi.
Tutte cose a cui non poteva pensare ora. Meglio non pensarci.

C’erano due modi in cui arrivare all’ufficio di Harry: uno richiedeva attraversare l’intero dipartimento Auror, sotto gli sguardi di molte persone, e l’altro era una via sul retro, da cui si poteva arrivare indisturbati.
Non c’erano dubbi per quale l’uomo avesse deciso di optare.

Lydia, la segretaria del suo amico, se ne stava seduta al suo posto dietro una scrivania limandosi le unghie indisturbata. Sembrava che quel giorno non fosse particolarmente impegnata. La sua treccia era, come sempre, pettinata alla perfezione e il trucco rigorosamente abbinato all’abito verde sgargiante. Era una donna perfettamente consapevole delle proprie curve e non faceva altro che indossare vestiti che le valorizzassero, perciò Ron inciampò con lo sguardo nella scollatura che lasciava intravedere il suo prorompente seno prima di incontrare il viso della donna.
“Lydia, Harry è in ufficio?”
“Il signor Potter non si è mosso da lì per tutta la mattina”, rispose lei candidamente e con un sorriso che mostrava i denti bianchissimi e perfetti circondati da labbra gonfie di rossetto scarlatto.
“Grazie, Lydia”. 

“Ma siamo nell’ufficio del capo degli Auror”, osservò James con una punta di curiosità.
Ron non gli fece caso, ma il cartello che sulla porta recitava Harry J. Potter - Capo Auror lasciava poco spazio a dubbi. 

“Ragazzi, aspettatemi qui fuori prima. Vorrei spiegare a Harry la situazione”, disse Ron voltandosi verso gli altri. 

Sirius fissava il cartello sulla porta con uno sguardo strano, qualcosa che non si riusciva a decifrare.
Dopo aver ricevuto segni di consenso, il rosso entrò. 

Non fece in tempo però a dire niente che Harry, seduto alla scrivania e con la cornetta del telefono attaccata all’orecchio, lo bloccò con un gesto della mano per dirgli di aspettare. L’amico rimase fermo sulla soglia.
“D’accordo, Jeremy, gliene parlerò. Credo che il Ministro possa essere interessato”. 

Miseriaccia!, esclamò Ron mentalmente. Harry non sopportava Jeremy e parlare con lui lo metteva sempre di cattivo umore. Diceva che gli faceva venire il latte alle ginocchia e che avrebbe preferito prendere un cactus a mani nude piuttosto che parlare o incontrarsi con lui. 

“Grazie, Jeremy, ne riparleremo ancora. Sì sì…”. 

Momento di silenzio.
“Okay, Jeremy. Ci sentiamo, ho un po’ di lavoro da fare. Grazie, ciao”.
Il capo Auror attaccò il telefono e lasciò andare un sospiro di rassegnazione e stanchezza chiudendo per un attimo gli occhi. 

“Dimmi, Ron”, disse poi afferrando una penna e un foglio che iniziò subito a compilare.
Ottimo, Harry era distratto e forse persino stanco; non aveva certo beccato il momento migliore. 

“Ecco, Harry, è successa una cosa…”, iniziò l’amico e collega, esitando. 

“Hai di nuovo litigato con Hermione?” gli chiese l’altro senza alzare gli occhi da quello che stava facendo. 

“No, no. È solo che… Ci sono delle persone qui con me”.
Solo allora il moro alzò lo sguardo su Weasley, e inarcò un sopracciglio.
“E falle entrare”.
“Be’, sì… è che… È una cosa strana, molto strana, anzi, impossibile”. 

“Ron!” 

“Sono delle persone che non dovrebbero essere qui perché…. be’, loro… Erano mort…”. 

Nel momento in cui Ron stava pronunciando l’ultima parola, si sentì spingere di lato, lontano dalla porta e per poco non cadde di faccia a terra. 

Sirius - perché non poteva essere altri che lui - si era spazientito e aveva trascinato tutti dentro la stanza. 

Harry non reagì subito, ci mise qualche frazione di secondo a capire che cosa stava succedendo e a registrare e riconoscere i volti di chi aveva di fronte. Non che li avesse mai scordati. Li aveva sognati spesso negli anni dopo la seconda guerra magica ma quello non era decisamente uno dei suoi sogni. E loro erano lì di fronte a lui.
Scattò dalla sedia ed estrasse la bacchetta puntandola contro i cinque. 

“Ron, che diamine…!”
“Aspetta!” gli gridò l’amico. “Non attaccare. Li ho già controllati io”.
Harry alternava lo sguardo tra i cinque “sconosciuti” di fronte a lui e Ron quasi ossessivamente. Teneva la bacchetta ancora tesa davanti a sé.
“Non sono sotto effetto di Trasfigurazione e non sono creature demoniache. Ed inoltre, sono disarmati”.
“Harry”, chiamò allora Remus, cauto. “Siamo noi, te lo giuro”.
“Non può essere…”, sospirò Potter. “Tu non puoi essere… Lui… E tu…”.
L’emozione, l’ansia, lo sbigottimento, lo shock, qualsiasi fossero quelle cose che stava provando gli impedivano persino di finire le frasi.
“Ci siamo conosciuti al tuo terzo anno ad Hogwarts, ricordi? Ero il tuo insegnante di Difesa contro le arti oscure e ti ho insegnato a evocare un Patronus. Tu ed Hermione avete aiutato Sirius a scappare dalla torre di Hogwarts. E io e Dora…”, prese la mano della moglie. “Abbiamo avuto un figlio. Si chiama Ted, come suo nonno materno. E tu sei il suo figlioccio”. 

Harry finalmente si decise ad abbassare la bacchetta. Certo, raccontare dei dettagli della propria vita che potevano conoscere soltanto loro era una mossa furba. Ma quanto poteva essere efficace? Forse gli avevano rubato in qualche modo i ricordi, chiunque fossero quelle… persone che aveva davanti. Per non contare che certi episodi della sua vita privata erano ormai di dominio pubblico.
I morti non tornano in vita. Mai. 

Non era possibile. Non era possibile. Non era possibile. 

I morti non tornano in vita.

Mai. 

Mai. 

Glielo aveva detto Silente. I morti non tornano in vita.
Non era possibile. 

Non erano loro. 

“Harry?” lo chiamò piano Ron, quasi temendo di svegliare una bestia.
Harry non si era nemmeno accorto di essere rimasto a fissare la scrivania davanti a sé, col respiro affannoso che si intravedeva da sotto la camicia scura che indossava. Le mani, strette a pugno, erano sbiancate sulle nocche. 

“Ti prego, di’ qualcosa” , disse ancora il suo amico, ora seriamente preoccupato.
Il moro si mosse lentamente e schiacciò un pulsante del telefono presente sulla scrivania.
“Lydia, se qualcuno dovesse venire qui, di’ che sono impegnato e che non ricevo visite oggi”.
“Certo, signor Potter”, si sentì cinguettare la voce della donna dall’apparecchio.
Poi, con una mossa leggera della bacchetta, abbassò le tende e serrò la porta. 

“Accomodatevi”, disse agli altri che fecero immediatamente quello che lui chiese, sedendosi sul divano e la poltrona presenti di fronte alla scrivania, dalla parte opposta. Solo Ron rimase accanto ad Harry.
“Qualcosa da bere?” Harry non attese alcuna risposta, si limitò ad agitare un’altra volta la bacchetta e a versare del bourbon che si trovava su un mobile dietro di lui in sette bicchieri. Li fece volare fino ai suoi ospiti, mentre lui mandava il proprio giù tutto d’un colpo. Poi se ne versò immediatamente un altro. 

Non era propenso a bere al lavoro ma quella situazione era abbastanza particolare.

“Bello il tuo ufficio”, commentò Tonks per smorzare la tensione e l’imbarazzo della situazione.
Era uno spazio grande e luminoso, un lato delle pareti era occupato da vetrate enormi che davano sul paesaggio esterno, mentre le altre pareti erano dipinte di bianco quasi in tinta con con i divani morbidi il cui bianco era leggermente più sporco. Il pavimento era in parquet e la scrivania preziosa e spaziosa. C’erano persino alcune piante grasse in un paio di angoli, un quadro astratto appeso sopra il mobile con il bourbon nell’angolo dietro la scrivania.
Era tutto minimal ma decisamente accogliente.
“Non era così l’ultima volta che ci sono stata… Be’, anni fa”.
Harry si accomodò sul divano rimasto libero. “Che è successo?”
“Li ho trovati nel parco qua vicino mentre prendevo il caffè”, iniziò a spiegare Ron. 

“Hai notato qualcosa di strano?” 

“No, assolutamente”.
“Voi vi ricordate di essere…”, chiese Harry, questa volta rivolto agli altri. Esitò nel concludere la frase, non gli sembrava che la parola morti fosse abbastanza indicata.
“Morti?” concluse Sirius per lui. “Non proprio. Cioè, io ricordo l’ultima cosa che mi è successa prima di… ritrovarmi qui fuori”.
“Bellatrix che…”.
“Che mi lancia uno Schiantesimo? Sì. E tu avevi solo quindici anni”.
“Sono passati venticinque anni da allora. E ventidue dalla fine della seconda guerra magica”.
“Seconda guerra magica?!” esclamò Lily. 

Gli occhi di Harry si posarono su di lei e il ragazzo che le stava seduto accanto. Quel ragazzo terribilmente simile a lui. Quel ragazzo che - Harry capì - era suo padre ma che in quel momento aveva la metà dei suoi anni. E la ragazza dai capelli rossi e gli occhi verdi non poteva essere altri che sua madre. L’agitazione cominciò ad assalirlo.
I due lo guardavano come se avessero davanti una specie di idolo. Harry non avrebbe saputo dire che cosa stessero pensando o provando in quel momento, non ne aveva le forze mentali; doveva gestire quello che stava sentendo lui.
Aveva bisogno di una sigaretta. Sentiva prepotente il desiderio dentro di sé di fumare. 

“Com’è successo? Come siete tornati qui?” 

“Non lo sappiamo”, gli rispose Remus.
“Non esistono incantesimi che possono riportare in vita qualcuno”.
“Forse sì”, ribatté Ron.
Harry si girò a guardarlo.
“Magari qualcuno ha scoperto qualcosa. Magari… Non lo so, però qualcosa è successo”.
Harry abbassò lo sguardo pensieroso, mentre il silenzio cadeva sui presenti. Sirius ne approfittò per guardare la figura del figlioccio. Quanti anni poteva avere? Era più vecchio di lui - be’, più vecchio di lui quando era morto - ed era decisamente cambiato. Non portava più gli occhiali, così il verde smeraldo dei suoi occhi sembrava brillare ancora di più, i capelli scuri erano pettinati all’indietro alla perfezione, con del gel presumibilmente, e solo un paio di ciocche sfuggivano all’attenta pettinatura, sfiorandogli la cicatrice con le punte.
Anche nel modo di vestire dava l’idea di essere un uomo serio e importante: indossava una camicia blu scuro che aderiva perfettamente al corpo, sembrava quasi gli fosse stata fatta su misura, e un gilet di stoffa nero abbinato alla cravatta.
Quello non era l’Harry che conosceva lui. Ma non poteva esserlo dopotutto. Quello era un uomo fatto e finito, con le sue responsabilità e il suo lavoro. Chissà che cosa aveva fatto in tutti quegli anni, come era arrivato a dirigere l’intero dipartimento Auror, se era stato felice, se aveva sofferto, se… 

Improvvisamente venne colto da un senso di disperazione. 

“Non posso lasciarvi andare così”, disse Harry interrompendo il silenzio. “Vi manderò giù, al Dipartimento di Controllo delle Arti e Magie Oscure. Giusto per… Per accertarmi che non siate…”. 

“Certo”, rispose Remus interrompendolo. Certo, un qualsiasi Auror avrebbe agito così. 

“Lasciatemi solo fare una telefonata”.
Harry si alzò e tornò alla scrivania. Alzò la cornetta e digitò un paio di numeri. 

“Steven, ti mando giù delle persone. Ho bisogno che tu faccia tutti i controlli…”, pronunciò Harry al telefono.

“Che cos’è quello?” chiese James indicando il telefono. 

“È un oggetto babbano. Non pensavo lo utilizzaste anche qua”, gli rispose Lily. 

“Diciamo che abbiamo introdotte molte cose del mondo Babbano”, spiegò Ron.

“E che cosa fa?”

“Permette di comunicare a distanza”.
“Ah”.
“No, Steven, non credo siano maghi oscuri però non dovrebbero trovarsi qui”, proseguì Harry dopo aver aspettato di sentire che cosa gli dicesse qualcuno dall’altra parte della cornetta. “Ti spiego appena arriviamo giù”.
E riattaccò il telefono. 

Harry ritornò nel proprio ufficio quasi col fiatone. 

Aveva cercato di liberarsi di quella situazione il prima possibile; non sapeva davvero come comportarsi, era rimasto in silenzio per gran parte del tempo e aveva evitato persino di guardarli.
Non poteva essere vero, Sirius, Remus, Tonks e… i suoi genitori? non potevano essere lì davvero. Non dopo tutti quegli anni. Quelli erano degli impostori, per forza, doveva esserci qualche spiegazione reale e credibile e dolorosa. Almeno, di questo cercava di convincersi ma il suo subconscio spingeva prepotente per fargli credere che invece il Cielo - o chi per lui - avesse deciso di fargli un regalo.
A quasi quarant’anni riusciva ancora a illudersi.
Stupido Harry, pensava mentre si accendeva una sigaretta nervosamente. Gli tremavano le mani, tutto il suo corpo tremava.
Per fortuna Ron era rimasto con lui tutto il tempo; aveva sentito la sua presenza accanto, gli pareva quasi di poter percepire le sue frasi rassicuranti e il suo sostegno nei semplici gesti. Gli era parso anche che avesse voluto mettergli una mano sul braccio, ma alla fine non lo aveva fatto. Forse un tempo, quando erano più giovani. 

Se fosse stato più giovane si sarebbe buttato tra le braccia del suo padrino e avrebbe pianto davanti ai genitori ritrovati, ma tutti quegli anni di esperienza gli avevano fatto capire che i sogni, specialmente quelli belli davvero, non potevano diventare realtà e che non bisognava mai dare nulla per scontato, nemmeno le cose belle.
Di magie straordinarie e miracolose ne aveva viste ma nessuna che riportasse in vita i morti.
Steven e il suo team se ne sarebbero assicurati; loro avrebbero capito di quale magia oscura si trattava, quale incantesimo di Trasfigurazione, e avrebbero sventato anche quel pericolo lì, per poi tornare alla solita normalità.
Dopotutto, la sua normalità gli andava più che bene, era felice, stava bene, finalmente, era in pace con sé stesso e con la sua vita.
Perché doveva sempre rovinarsi tutto? 

Fu di fronte a una delle grandi finestre del suo ufficio che Ron lo trovò quando entrò a sorpresa nel suo ufficio.
Harry tornò immediatamente alla scrivania per schiacciare il mozzicone nel posacenere. 

“Stai bene?” gli chiese l’amico. 

“Sì, Ron”, rispose l’altro buttandosi pesantemente sulla sedia. 

“Mi chiedevo se… Insomma, con quello che è successo…”. 

“Non è successo niente. Si tratterà di qualche incantesimo o uno scherzo di pessimo gusto. Magari i miei fan”. 

“Certo, Harry, però… E se fossero davvero loro?” 

Harry si soffermò a guardare l’amico per un po’ come per sondargli la mente e poi scosse il capo. “Non può essere. Certe cose non succedono”.
“Sono d’accordo con te. Però sai, se qualcuno è in grado di dividere la propria anima in sette parti per diventare immortale, magari davvero i morti possono tornare in vita”.
Il punto di vista di Ron non era del tutto errato ma c’erano troppe cose in ballo per poterlo credere davvero senza esitare. Tipo la sua sanità mentale e l’equilibrio di tutto quello che si era costruito. 

Sirius sospirò buttandosi all’indietro per cadere sul materasso che lo fece rimbalzare leggermente.
Harry li aveva abbandonati nei sotterranei del Ministero affidandoli a Steven e al suo team e ora si godevano lo spettacolo dei membri del Dipartimento degli Incidenti Magici che correvano davanti a loro con i camici bianchi e i guanti in lattice.
Il fatto che li avessero fatti accomodare in quella che sembrava essere una stanza con cinque letti a disposizione faceva solo presagire che sarebbero rimasti lì per un po’.
Non che potesse dire qualcosa, dopotutto era una situazione abbastanza peculiare nonché unica nel suo genere. Capiva le remore che poteva avere il Ministero ma Sirius aveva ricordi piuttosto spiacevoli dei suoi rapporti con l’Istituzione magica. Al che gli venne la paura che potessero sbatterlo di nuovo ad Azkaban.
Un brivido gli percorse la schiena. Non sarebbe successo, Harry lo avrebbe protetto.
Lo avrebbe fatto? 

Ma forse non doveva più temere, forse non c’erano nemmeno più i Dissennatori. Erano cambiate tante cose, lo sentiva. Persino nella struttura del Ministero, non era più maestoso come lo ricordava lui ma molto più semplice e “alla mano”.
Avrebbe però tanto voluto che Harry fosse rimasto lì con loro per raccontare di quello che aveva fatto, di come Voldemort fosse stato sconfitto, della sua vita insomma. 

Solo quando sentì sospirare qualcuno accanto a lui si distrasse dai propri pensieri.
“Jamie?” chiamò notando l’amico sdraiato sul letto accanto al suo con uno sguardo stanco e perso.
“Hm?” fece l’altro.
Solo in quel momento Black parve realizzare. Sorrise in direzione di James - un sorriso radioso che non faceva dai tempi di Hogwarts - e si lanciò addosso al ragazzo che se lo vide piombare addosso inaspettatamente, e dovette inarcare tutti i muscoli dell’addome per non subire una gomitata o una ginocchiata da qualche parte.

“Stupido canide, così mi uccidi!” gli urlò col fiato corto. 

“Jamie! Tu sei vivo!” 

“Grazie per avermelo ricordato. Ora per favore ti levi?”
Ma Sirius strinse ancora di più la presa attorno al collo di James e gli affondò il naso nell’incavo del collo inalando tutto il suo profumo.
James… quanto gli era mancato. 

Remus dall’altra parte della stanza sorrideva contento anche lui mentre Lily alzava gli occhi al cielo, divertita comunque dalla situazione.
Finalmente Sirius decise di staccarsi anche se controvoglia ma il fiato era venuto a mancare persino a lui.
“Ragazzi, siamo vivi, siamo di nuovo qui. Insieme. E là fuori c’è Harry. Okay, è cresciuto però siamo con lui e siamo di nuovo tutti insieme”.
“Sirius, la morte ti ha fatto ritornare ragazzino?” gli chiese Remus senza poter nascondere il suo divertimento.
Riusciva a percepire la gioia dell’amico e la sentiva anche dentro di sé. Non era una persona che si lasciasse andare ai romanticismi o alle nostalgie, ma rivedere i suoi vecchi amici dopo che pensava di averli persi per sempre non poteva in alcun modo lasciarlo indifferente. Velocemente si asciugò una lacrima che gli spuntò nell’angolo dell’occhio prima che potesse scivolargli lungo la guancia. Solo Tonks se ne accorse e gli strinse una mano tra le proprie. 

“Sai questo cosa significa, Remmie?” gli chiese guardandolo con i suoi grandi occhi castani pieni di emozione.
“Che potremmo rivedere Teddy”. 
La ragazza annuì appoggiando il mento sulla spalla del marito. 

“Chi è Teddy?” chiese Lily. 

“Nostro figlio”, le rispose l’Auror. 

Sirius e James alzarono il capo e spalancarono le mascelle in direzione dell’amico Malandrino. 

“Moony, hai avuto un bambino?” 

“Sì. Lo abbiamo chiamato Ted, come mio padre”. 

“Alla faccia che non dovevi sposarti mai e avere una discendenza”, lo canzonò Sirius. 

“Teddy non ha il morbo del lupo”, rispose Remus. “Ha ereditato i poteri di Metamorfomagus di Dora”.
“È una cosa bellissima”, commentò Lily sporgendosi per abbracciare l’amico. 

“E quando lo avete avuto?” chiese Sirius. 

“Poco prima della battaglia finale contro Voldemort. Adesso avrà… ventun anni?”  

“Quale battaglia?” chiese James apparendo sempre più confuso. 

“Be’, amico… Mi sa che ti dobbiamo aggiornare su un po’ di cose”. 

E così, per uccidere l’attesa, Sirius, Remus e Tonks raccontarono a Lily e James di quello che era successo negli anni che si erano persi a causa di Voldemort, di come Harry si fosse salvato e fosse stato mandato a vivere dai Dursley, di come Padfoot era evaso da Azkaban e aveva quasi ucciso Minus, del secondo Ordine della Fenice, della Profezia… Da lì il racconto lo dovette continuare Remus che accennò a una missione che Harry stava compiendo per conto di Silente ma non ne sapeva abbastanza per entrare nei dettagli, men che meno di come Voldemort fosse stato sconfitto. Almeno così supponevano da quel poco a cui aveva accennato Ron.
Naturalmente il racconto si protrasse più del dovuto perché James non era capace di ascoltare qualcosa senza interrompere - soprattutto quando venne a sapere che il suo migliore amico era finito nella peggior prigione che ci fosse nel Mondo Magico e che il suo unico figlio era finito a vivere sotto lo stesso tetto con i peggiori babbani che conoscesse - e in un paio di punti della storia era talmente impallidito che temettero sarebbe svenuto. Almeno Lily si limitava a mostrare le sue reazioni con le espressioni del viso o leggeri singulti. 

“Quindi quello… Quell’uomo che ci ha accompagnati qui è… nostro figlio?” chiese Potter titubante. 

“Non lo avevi capito?”
“Sì, ma… Voglio dire… È adulto”.
“Siamo nel 2020, ricordi?” 

“Sto per impazzire”. 

Cadde il silenzio nella stanza interrotto solo dai rumori dei passi e delle chiacchiere dei dipendenti del reparto.
Lily si alzò e si avvicinò alla porta spalancata come se volesse guardare fuori.
“Quindi ho perso quarant’anni della vita di mio figlio”, esordì in tono quasi rabbioso. Nei suoi occhi si poteva leggere tutta la frustrazione. 

“Magari è pure sposato e ha dei figli”. 

A quella frase Sirius inarcò le sopracciglia. Stava per dire qualcosa quando vennero interrotti dalla comparsa di Steven sulla soglia.
“Tu!” disse puntando un dito contro Black. “Seguimi!” 

Harry aprì la porta di casa con fare piuttosto stanco. Si lasciò andare in un grosso sospiro appoggiando le chiavi dell’auto sul tavolino vicino all’ingresso e appendendo la giacca elegante all’attaccapanni. 

“Amore!” sentì chiamare dalla voce di Ginny dal salotto. La moglie doveva averlo sentito rientrare.
L’uomo la raggiunse e, toltosi le scarpe, si buttò sul divano appoggiando la testa nel suo grembo. Lei prese subito ad accarezzargli i capelli. “È stata una giornata così pesante?”
“È successa una cosa assurda, Gin”. 

“Raccontami”. 

“Non mi crederesti mai”. 

“Dai, Harry, non c’è alcuna storia che tu mi abbia raccontato a cui non ho creduto ciecamente”. 

“Sì, ma questa è fuori da ogni… possibile logica. È persino più assurda di me che scappo sul dorso di un drago dalla Gringott”. 

Ginny gli appoggiò due dita sotto il mento per costringerlo a guardarla. Harry spalancò gli occhi verdi verso di lei e cercò di farle capire con uno sguardo quanto quella giornata fosse stata stancante per lui. Emotivamente stancante. 

“Harry, raccontami”. Non lo aveva detto in tono perentorio o di rimprovero. Era stata calma e dolce e proprio questo lo aveva convinto a sputare il rospo. 

“Sirius, Remus, Tonks e… i miei genitori sono tornati in vita”. 

Ci fu qualche secondo di intenso silenzio, lo sguardo di Ginny che passava da confuso a perplesso e infine a incredulo. Almeno così Harry suppose perché sua moglie era brava a non far trasparire le emozioni. 

“COSA!?” esclamò poi. “In che senso tornati in vita?”
“Che sono qui. Non so come e non so perché ma sono qui”. 

“Ma sei sicuro che siano loro?”
“Non lo so. Li ho affidati al dipartimento degli incidenti magici ma per ora sembrano loro. Apparentemente. Immagino che scopriremo se si tratta di un inganno o di magia oscura”. 

Ginny tornò con la schiena contro il divano e fissò gli occhi sulla parete di fronte, pensierosa. 

“A che pensi, amore?”
“È assurdo, Harry. I morti non tornano in vita”. 

“Lo so, Gin. Credimi, non mi sto facendo false speranze. Ti sto raccontando solo quello che è successo”.

“Oppure sono davvero loro e… ci sono delle magie che noi non conosciamo”. 

“Sì, ma allora chi avrebbe interesse nel riportarli in vita? A parte me, ovviamente, e io non sono stato. Non sarei di certo in grado di usare quel tipo di magia”. 

“Dove staranno adesso?”
“Al Ministero. Ci vorrà un po’ di tempo per fare tutti i controlli”. 

Ginny lasciò andare i capelli di Harry e chiuse con un colpo il suo portatile sul quale stava lavorando fino a un attimo prima. 

“Dove sono i ragazzi?” le chiese il marito cambiando argomento.
“James è fuori con gli amici e Albus in camera sua. Lily è dai miei”.

“Non diciamo nulla a loro. Non ancora”.
“Certo”. 

In quel momento il cellulare di Harry prese a squillare. L’uomo lo tirò fuori dalla tasca leggendo sullo schermo il nome di Hermione. Lo portò subito all’orecchio.
“Pronto?”
“Oh Santo Godric! Ron mi ha detto quello che è successo!” sentì dire dalla voce squillante dell’amica dall’altra parte della cornetta.
Non dubitava che Ron lo avrebbe raccontato subito alla moglie. 

*** 

Ben ritrovati a tutti. Come promesso, ecco l’aggiornamento domenicale. Inizialmente questo capitolo non doveva essere così lungo, ma mi sono accorta che il capitolo due - che va dall’incontro con Harry fino alla telefonata con Steven - era piuttosto corto e diceva ben poco e mi dispiaceva darvi un capitolo così povero, per cui l’ho unito col terzo. 

Ho visto che avete apprezzato molto anche il primo capitolo e spero che anche questo sia stato di vostro gradimento. Fatemi sapere che ne pensate. 

Per amor di cronaca, vi linko anche un’altra fan fiction che sto scrivendo, anzi, traducendo. Si tratta di una drarry mpreg dal titolo Babygate. 

Su AO3 invece trovare una mia fan fiction in inglese, sempre Drarry, dal titolo Tightrope. 

Auguro una serena domenica a tutti.

Alla prossima,

C. 

LACRIME SULLA TOMBA

Naturalmente Harry aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per andare in fondo a quella situazione. E dall’alto del ruolo che ricopriva poteva fare parecchio. Aveva chiesto a Ron di accompagnarlo nel posto in cui aveva ritrovato i “resuscitati” e insieme si erano messi a cercare qualche traccia, qualsiasi cosa che potesse portare a un qualche tipo di indizio.
Ma come avevano sospettato non avevano trovato niente se non uno strano odore di bruciato, molto leggero, che era riuscito a percepire solo Harry però, quindi venne scartato come una cosa non importante.
Harry non aveva voluto coinvolgere gli altri Auror - per ora ne erano a conoscenza soltanto lui e il suo migliore amico, e il team che stava lavorando a quel caso ovviamente - non gli sembrava ancora arrivato il momento di alzare il polverone. Non che non si fidasse dei suoi ragazzi, erano tutti costretti dal segreto professionale dopotutto, ma cinque persone che resuscitano erano troppo da reggere per chiunque.
Tutti probabilmente avevano perso qualcuno in passato - la guerra si era portata via molti cari - e sapere che c’era la possibilità di riportare in vita le persone avrebbe dato alla testa a chiunque.
Sempre se davvero si trattava di “persone che tornavano in vita”.
Harry cercava di mantenere la razionalità; aveva ormai una certa maturità nonché una buona dose di esperienze per potersi permettere di esaltarsi e andare in brodo di giuggiole. Non poteva illudersi, non gli avrebbe fatto bene.
Si era fatto prestare da Hermione alcuni libri sulla magia oscura e sugli incantesimi e le maledizioni antiche ma non aveva trovato nulla sul riportare in vita i morti. Certo, c’era la Pietra della Resurrezione ma quella era al sicuro e nemmeno quella era in grado di resuscitare le persone.
In tarda mattinata decise di fare quello che nella sua vita non aveva mai sperato di fare. Non chiese a nessuno di accompagnarlo, né a Ron né a Hermione. Nella sua vita di adulto aveva capito che c’erano alcune cose che preferiva fare da solo.
Perciò si materializzò a Godric’s Hollow e girò subito verso il cimitero. Il guardiano gli venne incontro sorridendo, felice di vedere il volto del famoso Salvatore del Mondo Magico tornare da quelle parti. Gli disse semplicemente che stava andando alla tomba dei suoi genitori - non era la prima volta che lo faceva, in fondo.
Il guardiano era un uomo discreto per fortuna e non aveva mai riportato a nessun giornale quelle sue capatine nostalgiche. Il moro si era dovuto arrendere all’idea che qualsiasi cosa facesse, dall’allacciarsi le scarpe al comprare un nuovo orologio, i giornali di gossip ne approfittavano per scriverci qualcosa, anche se era solo un trafiletto.
Quello che però il guardiano non sapeva era che Harry doveva aprire - letteralmente - le tombe dei suoi genitori.
Potter percorse a grandi falcate il viale del cimitero deserto e arrivò alla tomba dei suoi genitori eccessivamente presto per i suoi gusti. Lanciò un paio di incantesimi di protezione e di invisibilità per non farsi vedere da nessuno e cominciò.
Non doveva esitare perché altrimenti non ci sarebbe riuscito. Doveva farlo senza pensarci, rimanere indifferente, come fosse la tomba di due persone qualsiasi.
Prima di tutto sollevò la pietra di marmo stringendo forte la bacchetta per mantenere l’incantesimo perché l’oggetto era piuttosto pesante. Lo appoggiò da un lato schiacciando i piccoli fiori selvatici e pensò a ripulire le bare dalla terra. Ora arrivava la parte difficile.
Harry sospirò pesantemente prima di scoperchiare anche quelle. La sua espressione rimase vacua quando guardò dentro.
Non era arrivato lì con alcuna aspettativa, non aveva voluto ipotizzare nulla. 
“Hai trovato qualcosa nei libri che ti ho prestato?” gli chiese Hermione quando lei e Ron si erano ritrovati nell’ufficio di Harry per l’ora di pranzo. 
“Nulla”. 
“Accidenti. Proverò a cercare meglio”. 
“Tranquilla, Hermione. Dubito di trovare una risposta nei libri”. 
L’amica si limitò a mostrare un cipiglio risentito; era ancora convinta che tutte le risposte si trovassero nei libri, ma non era intenzione di Harry smentire quella cosa o sminuire la sua passione. Semplicemente la sua sensazione gli diceva che quell’incantesimo - qualunque esso fosse - non era di quelli che si sarebbero trovati facilmente in un libro. 
“Anche quando io e Harry siamo andati sul posto dove sono comparsi non abbiamo scoperto nulla”. 
“È assurdo. Una magia del genere dovrebbe lasciare traccia”, commentò Hermione. 
“E la persona che lo ha fatto deve essere molto potente”. 
“Dici che si tratta di una persona?” 
“Hai altre ipotesi?” le chiese Harry guardandola intensamente. 
Lei scosse il capo sconsolatamente. 
“Sono andato persino a dissotterrare i loro cadaveri”, rivelò a quel punto Harry. 
Finalmente l’interesse dei suoi due amici sembrò essersi riacceso di colpo. 
“Come?” 
“E hai scoperto qualcosa?” 
“Sono vuote. Tutte le bare. Quelle dei miei genitori e di Remus e Tonks. Non ci sono ossa né polvere, come se non fossero mai stati lì. Ovviamente per Sirius non ho potuto controllare, ma scommetto che ovunque sia sparito il suo corpo non si trova più lì”. 
Hermione e Ron si guardarono confusi ma nei loro occhi si poteva leggere una sorta di illuminazione. 
“Questo è un grosso indizio!” esclamò Granger. “Significa che qualcuno ha dissotterrato i loro cadaveri per riportarli in vita”. 
“Una cosa del genere si può fare?” chiese il marito. 
“Forse sì. Ci sono tantissime magie antiche e potenti. La negromanzia è una realtà anche se quasi nessuno la pratica. È magia oscura e se non sai usarla puoi causare guai. Guai molto grossi”. 
Harry afferrò la pallina da tennis che teneva sempre a portata di mano nell’ufficio e la fece rimbalzare contro la parete verso cui era girato. Lo faceva sempre quando doveva concentrarsi o rilassarsi. 
“Harry, secondo me a questo punto dovresti indagare sulle persone vicino a te. Sono state resuscitate persone che ti erano care quindi c’era un interesse specifico nel riportare in vita proprio loro. Magari qualcuno che… insomma, ti conosce”, gli suggerì l’amica. 
“Stai dicendo che i miei figli, o magari Teddy, potrebbero aver usato un incantesimo per riportare in vita persone che non hanno mai conosciuto? O magari Ginny?” 
“No!” ribatté subito Hermione. “Non lo so. Però non è un dato da ignorare”. 
Hermione aveva ragione e Harry lo sapeva. Quella situazione diventava sempre più incasinata. 
“Harry”, lo chiamò lei dopo un po’, piano, quasi titubante. “Ma tu come ti senti? Insomma, rivedere Sirius e… i tuoi genitori… dopo tutto questo tempo?” 
Harry esitò nel risponderle. “Tu come ti sentiresti a rivedere i tuoi genitori che non hai mai conosciuto e con vent’anni meno di te?” Le disse senza alcun timbro particolare nella voce. Non la guardò nemmeno.
Non aveva una risposta alla sua domanda. Aveva piuttosto tante domande. Era cresciuto senza genitori e ci era abituato, alla fine gli era andata bene così, e poi era diventato padre lui e tutto alla fine si era sistemato nella sua vita. Aveva paura che questo evento - e tutto ciò che ne sarebbe conseguito - avrebbe potuto rovinare lo status quo così difficilmente raggiunto. Perché certo, era felice e non lo poteva negare, ma era anche spaventato. Una cosa del genere quanta influenza avrebbe avuto nella sua vita e nelle sue emozioni? E le emozioni erano qualcosa che lui doveva assolutamente controllare, altrimenti… Altrimenti sarebbe successo quello che era successo anni fa.
Qualcuno bussò alla porta del suo ufficio. 
“Avanti!” gridò Harry. 
Steven fece capolino dalla porta. “Ho delle novità. Possiamo parlare in privato?” 
Il moro congedò i suoi amici con un cenno della testa e i due abbandonarono immediatamente l’ampia stanza. 
“Dimmi pure. Ti va del bourbon?”
“No, grazie. Non bevo in servizio”. 
Harry fece un verso silenzioso a quell’asserzione e rimproverandosi mentalmente del fatto che invece lui beveva - non troppo - ma comunque a volte beveva al lavoro. 
“Ti ho portato i risultati delle ricerche che abbiamo fatto sui… resuscitati. Non ci sono anomalie né altre stranezze. Sono perfettamente umani, maghi al cento per cento, ricordano tutti gli incantesimi e sanno ancora padroneggiare la bacchetta. Non ci sono tracce di Pozione Polisucco né incantesimi di trasfigurazione. Ricordano tutto della loro vita, abbiamo chiesto cose molto dettagliate, per quanto potevamo sapere, e hanno risposto a tutto. L’unica cosa che non ricordano è… Be’, la morte. Non sanno dirci se ci sia un aldilà o simili”. 
Harry sogghignò; ovviamente doveva aspettarsi una cosa del genere, che le persone sarebbero state interessate a sapere “dove si va a finire quando si muore”. Forse era una fortuna che non lo ricordassero. Per quanto concerneva lui non si andava da nessuna parte.

Harry scese per l’ennesima volta nel seminterrato e raggiunse subito la stanza dove alloggiavano i suoi genitori, Sirius, Remus e Tonks.
Entrò e senza dire niente si tolse la giacca, l’appese allo schienale di una sedia che trovò lì e la afferrò per sedercisi al contrario, col petto appoggiato contro lo schienale. Notò gli occhi di James fissi su di lui, quasi in contemplazione. 
“Mi chiedevo come fai ad avere i capelli così in ordine. Io ho provato in tutti i modi per anni”, gli disse semplicemente. 
Harry ridacchiò. “Solo tanto gel. E incrociare le dita sperando che stiano così per tutta la giornata”. 
James sorrise a quella battuta e si mise più comodo sul letto. 
“Comunque, avete superato tutti i test”, proseguì Harry. “E non siete prigionieri, quindi potete anche andare via da qui”. 
A quelle parole tutti i presenti strabuzzarono leggermente gli occhi, chi perplesso, chi preoccupato. 
“E dove andremmo? Cioè, non abbiamo un posto…”, cominciò Lily riscuotendosi all’improvviso. Per qualche motivo che non riusciva a spiegarsi, era rimasta a fissare la camicia scura di Harry, soprattutto i bottoni allacciati a nascondere un fisico che - da quello che riusciva a intravedersi - doveva essere piuttosto ben messo, a giudicare anche da alcuni bottoni che sembravano voler scappare dalle asole. 
Harry allora prese nuovamente la parola, interrompendola. “Mica vi lascio così. Voi due - indicò Remus e Tonks - penso che Andromeda sarebbe molto felice di riavervi a casa. E voi - si rivolse a James, Lily e Sirius - be’, potete stare da me. Ho una casa… piuttosto grande”. 
Sirius lo guardò inarcando un sopracciglio. Poi spostò lo sguardo verso la sua mano sinistra dove un sottile anello d’oro, dalla fattura molto semplice, faceva bella mostra di sé sull’anulare. Passò lo sguardo dall’anello al viso del figlioccio un paio di volte e spalancò la bocca in totale sorpresa.
“Aspetta! Ma quella è una fede?!” 
“Ehm…”, bofonchiò Harry guardandosi il dito. “Sì?” 
“Ti sei sposato?” 
“Decisamente”. 
“Con chi?” 
L’espressione dell’Animagus era velocemente mutata in allegria e contentezza, anche se c’era ancora del leggero stupore che aleggiava nei suoi occhi. 
“Lo scoprirai da te”, gli rispose Harry evasivo, sorridendo con aria malandrina e alzandosi dalla sedia. 
“Come sarebbe a dire? Io voglio saperlo! Devo saperlo!”
“Non essere invadente, Siri”, lo redarguì Remus per salvare il povero Harry da quell’impiccione del suo migliore amico che sembrava stesse tirando fuori il peggio di sé. Sembrava di avere a che fare col Sirius dei tempi di Hogwarts, più che con un Sirius adulto. 
“È Hermione, vero?” fece l’altro ignorando totalmente l’amico licantropo. 
Harry per poco non si strozzò con la propria saliva. “Cosa? No! Non è Hermione!” 
“Allora chi? Qualcuno che conosco? Qualcuno che hai incontrato ad Hogwarts?” 
Potter cominciò ad avviarsi verso la porta. “Te l’ho detto, Sirius, lo scoprirai”. 
“Ma hai anche dei figli?” Si sentì ancora chiedere mentre usciva, l’ombra di una risata ancora sulle labbra. 
Sirius, e tutti quanti i resuscitati, avrebbero avuto delle grosse sorprese una volta che li avesse ospitati in casa sua. Non poteva negare che la cosa gli facesse piacere, ma perlopiù era preoccupato. Non aveva ancora avuto occasione di parlare con Teddy e lo doveva fare il prima possibile, ma anche con Remus e Tonks di quello… della situazione di Teddy. Senza contare che la notizia di cinque persone resuscitate non sarebbe rimasta sottochiave per sempre e prima o poi la stampa lo avrebbe scoperto e allora ci sarebbe stata una bella gatta da pelare. Per non dire che, davvero, non avevano idea di come avessero fatto a resuscitare. 
Perché proprio loro? Qualche ragione dietro doveva esserci e Harry temeva che non gli sarebbe piaciuta. 

 *** 

Oggi mi sono fatta attendere più del solito e vi chiedo scusa. Ma ecco qua il capitolo. Un po’ più breve dell’altra volta e un po’ più di passaggio, ma abbastanza intenso. 

Voi che dite? Avete qualche ipotesi su quello che succederà o sul perché i Malandrini e Tonks e Lily sono resuscitati? 

Lasciatemi un commento e ci risentiamo domenica prossima : )

C.

FIGLI E GENITORI

Harry si materializzò al San Mungo e varcò le grosse porte dell’ospedale senza perdere tempo. Aveva mandato un messaggio a Teddy per chiedergli di vederlo ma non era sicuro che il ragazzo lo avesse visto. Probabilmente era pieno di lavoro, come sempre. In quell’ospedale non ci si annoiava mai.
Si avvicinò alla ragazza seduta dietro un bancone posto all’ingresso, la reception, e le chiese di chiamare Ted Lupin. Lei sobbalzò leggermente non appena vide l’uomo che le stava davanti ma obbedì quasi subito. Harry ormai era abituato a quel tipo di reazioni.
“Arriverà subito, si accomodi da quella parte”, gli disse la ragazza non appena messa giù la cornetta del telefono.
Harry fece come gli era stato chiesto e si lasciò cadere su una delle poltroncine della sala d’attesa, guardando i guaritori, i medimaghi e gli inservienti che gli passavano davanti senza badarlo, troppo occupati a pensare al proprio lavoro. C’era qualche altra persona seduta con lui, probabilmente in attesa di qualche paziente. Non faceva per lui lavorare in un ospedale - e nemmeno starci - chissà come facesse Teddy a trovarsi lì tutti i giorni. Vocazione, poteva soltanto immaginare.
Si mise a maneggiare al cellulare, quando dopo pochi minuti vide il figlioccio venirgli incontro, il lungo camice bianco che svolazzava dietro di lui, il passo veloce e deciso.
“Ciao, scusa l’attesa”, lo salutò allegramente. 
“Non ti preoccupare”, gli rispose il più grande alzandosi. 
“Che ci fai qui? È successo qualcosa a Ginny o i ragazzi?” 
Sempre il solito Teddy, a farsi venire ansie per nulla. 
“No, stanno tutti benissimo. Devo solo parlarti di una cosa. C’è un posto più tranquillo?” 
Il ragazzo parve pensarci un attimo, poi si illuminò. “Andiamo in giardino!” 
Percorsero tutta la lunghezza dell’ospedale, al piano terra, per arrivare a un altro paio di porte che Ted dovette aprire col proprio pass. Si inoltrarono in una specie di giardino - finto ma dall’apparenza incredibilmente reale - pieno di alberi, fiori di tutti i tipi e qualche scoiattolo e fenicottero. Una farfalla blu volò vicino all’orecchio dell’Auror. Probabilmente c’erano molti altri animali nascosti da qualche parte. Qualche inserviente o infermiera spingeva uomini e donne sulla sedia a rotelle o li aiutava a camminare. Quello era il posto dove portavano i pazienti ricoverati per farsi una passeggiata o rilassarsi in un posto naturale e tranquillo senza dover uscire dall’ospedale. 
Ted condusse il padrino su una panchina ed entrambi si sedettero con calma. 
“Dimmi, è qualcosa di grave?” 
“No, anzi. È una bella cosa”. 
Potter studiò il volto del figlioccio cercando le parole adatte per dirgli quello che era capitato poco più di una settimana fa, ma si pentì di non essersi preparato un discorso. 
“Non so da dove iniziare”, confessò. 
Teddy inarcò un sopracciglio. “Be’, inizia dal principio”. 
“Giusto”. Harry si schiarì la gola mentre puntava lo sguardo su una coccinella che gli camminava vicino ai piedi. “È successa una cosa assurda, strana e fuori dal comune”. 
“Cioè?” Non capiva perché il padrino esitasse così tanto. Non era da lui, di solito non aveva problemi a dirgli le cose. 
“Non ci crederai, anche io ho fatto fatica a crederci ma ti assicuro che è così. Abbiamo fatto tutti i controlli possibili e immaginabili, stiamo ancora cercando la magia che ha potuto fare una cosa del genere…”.
“Harry, vieni al punto!” 
“Delle persone sono tornate in vita!” 
Harry vide Teddy strabuzzare gli occhi quando finalmente si decise a guardarlo. 
“Come tornate in vita?” 
“Significa che prima erano morte e ora non lo sono più”. 
“So cosa vuol dire. Ma… non può essere. Non esiste una cosa del genere”. 
“Per questo ti dico che è assurdo. Eppure è successo. Scopriremo come, ne verremo a capo. Intanto però loro sono qui”. 
Ted puntò gli occhi color caramello in quelli del padrino, ora con l’esitazione nello sguardo. Uno strano dubbio iniziò a insinuarglisi nella testa ma non voleva dare adito a quella vocina, non finché non ne avesse avuto conferma. C’era un motivo se Harry gli stava dicendo quella cosa. 
“Ma… ma chi sono queste persone?” 
“È proprio questo il punto. Sono delle persone che conosci… be’, più o meno… persone di cui hai sentito parlare e che… fanno parte della tua vita”. 
“Harry, non mi starai dicendo che…”. 
“I tuoi genitori, sì”. 
Ted ammutolì. Questa volta fu il suo turno evitare lo sguardo del padrino e spostarlo verso un albero di fronte a sé che in realtà in quel momento non vedeva. Aveva davvero sentito quello che aveva sentito? Il suo cuore cominciò a battere più forte e le sue mani a sudare. Non poteva essere. Non… 
“Ma sei sicuro che siano loro? E… da quanto tempo sono qui? E se non fossero veramente qui?” 
Harry sorrise; quegli stessi dubbi erano venuti anche a lui. Non sarebbe stato da Teddy esaltarsi per una cosa del genere e non prevedere qualche fregatura. Era troppo intelligente per cadere in una trappola del genere. 
“I ragazzi che lavorano al Ministero li hanno controllati. È tutto nella norma, non sono sotto effetto di qualche incantesimo e non sono redivivi. Si ricordano persino tutto, anche di come sono morti. Ma non ci sono solo loro. Ci sono pure i miei genitori e il mio padrino, Sirius”. 
“I tuoi genitori?!” 
“Sì”. 
“Ma perché proprio loro?” 
“Non lo so, Ted. È quello che cercheremo di scoprire”. 
“Merlino Santissimo!” esalò infine il medimago pulendosi le mani sui pantaloni beige. 
“Lo so, è tanto da digerire. Loro ovviamente vorrebbero conoscerti”. 
Qui lo sguardo di Harry si fece più dolce e rassicurante. 
“Be’, anche io… anche io vorrei”. 
“Saremo tutti a cena da noi stasera. Che dici? Vieni?” 
“Sì, d’accordo. Appena finisco di lavorare”. 
Potter si alzò dalla panchina con un colpo di reni e salutò il figlioccio con un cenno del capo, sorridendogli un’ultima volta, senza troppe moine. Non era certo se dovessero parlarne ancora, se ci fosse altro da dire, ma sapeva che Ted preferiva elaborare certe cose da solo, perciò se ne andò, con la consapevolezza che, in ogni caso, lo avrebbe chiamato se avesse avuto qualcosa da chiedergli o di cui parlare. 
Senza contare che nemmeno lui sapeva bene come gestire quella situazione a livello emotivo e quindi era di poco aiuto. 

Dora e Remus varcarono la soglia della casa di Andromeda Tonks lentamente e silenziosamente, come se ci fosse qualcuno che non dovevano disturbare.
La ragazza dai capelli rosa notò immediatamente che quasi nulla era cambiato in quella piccola ma confortevole casa di campagna; la solita carta da parati gialla con dei strani ghirigori, le tende rosa perla alle finestre, l’orologio a cucù appeso in cucina. Solo il divano era diverso, più grande. Le parve persino di notare le macchie - ora sbiadite - che da piccola aveva fatto sul muro coi pastelli colorati. All’epoca sua madre l’aveva sgridata tantissimo, ma alla fine si trattava di comunissimi pastelli babbani che si potevano tranquillamente togliere con la magia. Eppure sua madre non lo aveva mai fatto. 
Remus, dal canto suo, era stato in quella casa solo un paio di volte e ricordava ben poco. Quello che attirò la sua attenzione, piuttosto, furono delle foto appese alle pareti e alcune sul caminetto bianco ed elegante. Alcune ritraevano Andromeda da giovane, a fianco del marito, in alcune c’era sua moglie da piccola e in ogni ritratto sfoggiava un colore di capelli diversamente assurdo. 
Ma ad attrarlo maggiormente furono le foto che mostravano un ragazzino dalla chioma blu elettrico. Ce n’erano diverse: in una, neonato, stava in braccio ad Andromeda, in un’altra indossava la divisa di Hogwarts con la cravatta rosso-oro, in un’altra ancora sedeva a un pianoforte. In particolare, rimase a osservare una foto che lo vedeva insieme a una bimba dai capelli biondi che si protendeva per posargli un bacio sulla guancia mentre lui abbassava lo sguardo imbarazzato ma sorridendo teneramente. 
“Hai capito chi è?” 
Remus per poco non sobbalzò all’udire la voce di Andromeda che gli si era avvicinata silenziosamente da dietro. 
Il licantropo prese in mano la foto e la osservò silenziosamente, notando una certa somiglianza tra il naso di quel ragazzino e il naso importante di Dora del quale lei si lamentava sempre - ma che lui aveva sempre trovato adorabile -. 
“È…”, iniziò esitante. 
In quel momento li raggiunse anche Tonks, affiancandosi al marito e osservando la foto ben conscia di chi aveva davanti. 
“È vostro figlio, Ted”. 
“È bellissimo!” esclamò la ragazza. 
“Lo è, ma ora ha ventidue anni e studia medimagia”. 
“Davvero?!” esclamò Remus alzando di colpo gli occhi in direzione della donna e sorridendo con entusiastica sorpresa. 
“Oh sì. È estremamente intelligente e sensibile. In questo ti somiglia molto, Remus”. 
Ti somiglia anche troppo, pensò la donna. Remus e Dora non potevano sapere che alla fine anche a Teddy era toccata la maledizione della luna che aveva così tanto tediato la vita del padre per troppi anni. Ma non era quello il momento giusto per dirglielo. 
“Harry parlerà con lui e sicuramente stasera verrà alla cena dai Potter. Comunque, venite in cucina così ci beviamo una bella tazza di tè e parliamo un po’. Sono successe così tante cose in questi anni”. 

La vecchia stanza di Ninfadora, dove Andromeda aveva messo un letto matrimoniale per lei e Remus, si affacciava proprio su quella che era la stanza di Teddy o che, quantomeno era solito usare. Andromeda aveva detto loro che il ragazzo non viveva più lì, da quando aveva finito il primo anno di scuola di Medimagia e che si era trasferito più vicino al San Mungo insieme ad alcuni amici.
Per i due è stato inevitabile andare a curiosare. L’unico aggettivo che avrebbero potuto usare era “ordinato”. Il letto era perfettamente rifatto, con le coperte ben tirate, i libri erano disposti in maniera rigorosa sugli scaffali - perlopiù erano vecchi libri di Hogwarts - e alcuni romanzi di autori Babbani.
Nell’armadio erano allineati vestiti babbani, pantaloni, jeans, magliette di vario tipo e colore, con disegni e scritte incomprensibili ai due. Sopra il letto erano attaccate delle istantanee, qualcuna che ritraeva Teddy a Hogwarts con altri ragazzi della sua età - e questo a Remus ricordò nostalgicamente il suo gruppo dei Malandrini -  una in cui era con Harry, e un’altra che invece lo vedeva con i capelli biondi insieme alla ragazza che avevano visto nella foto di prima e che lo stava abbracciando da dietro solleticandolo con i propri capelli lunghi. Quell’ultima sembrava essere la più recente.  
“Mi sa che ci siamo persi un bel po’ di cose”, sussurrò Dora osservando quelle foto. Remus  la attirò a sé e le circondò la vita come faceva sempre quando voleva farla sentire al sicuro e lei gli appoggiò la testa sulla spalla. 
“Recupereremo, vedrai”. 
“E se… E se Teddy non volesse? Se non volesse conoscerci?” 
Lupin guardò nei grandi occhi della moglie, quegli occhi che erano perennemente pieni di vita ed energia, ma ora velati da una patina di paura e ansia. 
“Certo che vorrà conoscerci. Siamo i suoi genitori. E poi, lo sa perché non siamo potuti stare con lui”. 
“Sì, ma… Non ci conosce, forse non gli piacciamo”. 
Remus non potè fare a meno di ridacchiare a quelle paure così sciocche e infantili di Tonks. Era la ragazza più coraggiosa e irriverente che avesse mai conosciuto, eppure a volte si preoccupava per cose che non avevano senso. 
“Credo che questa sia una cosa che in una situazione come questa non ha minimamente senso”.  
“Sempre il solito razionale, tu”, concluse lei affondando il viso nel suo petto e stringendolo più forte.

Remus e Dora se ne erano andati da un paio di ore ormai, con una Andromeda talmente felice che si sarebbe messa a fare balli estremi di lì a poco, nonostante la sua età di sicuro non glielo permettesse. Ma probabilmente nei prossimi giorni non avrebbe nemmeno sofferto di reumi. 
Sirius, James e Lily invece vennero prelevati da Ron che portò loro anche i vestiti che avevano indossato quando erano ricomparsi, lavati e profumati. Il Ministero aveva dato loro delle strane divise semplici e comode, ma i tre erano contenti di poterne uscire finalmente. 
“Harry vi aspetta fuori. Vi accompagno”, disse il rosso gentile. 
Dovettero attraversare diversi corridoi e diversi piani prima di trovare l’uscita. Non appena furono all’aria aperta, il sole colpì loro gli occhi con prepotenza facendoli quasi lacrimare e la calura estiva li avvolse come un manto. Ma l’aria più fresca rispetto a quella sottostante e il poter finalmente essere fuori era impagabile. 
Trovarono Harry appoggiato a una Mercedes grigia nel parcheggio retrostante, a quell’ora quasi deserto eccetto per lui e un altro paio di auto. Stava fumando una sigaretta distrattamente, la mano libera in tasca. Come al solito era vestito elegante, ma senza la giacca. I tre si guardarono attorno smarriti e confusi: si aspettavano di trovare delle cabine del telefono da usare come passaggi. Non quella strana distesa di terreno grigio e duro con dei rettangoli disegnati di bianco per terra.
“Grazie, Ron”, disse Harry sorridendo all’amico.
“Figurati. Ci vediamo domani”. Salutò e si diresse alla sua macchina parcheggiata a poca distanza da quella dell’altro, una famigliare di un improbabile color caramello. 
Harry buttò la sigaretta schiacciandola col piede e facendola poi evanescere con la bacchetta.  
Infine, si diresse dal lato del passeggero e aprì la portiera. 
“Le signore davanti”, disse guardando Lily e indicandole di salire. 
“Grazie”. Riuscì a dire soltanto lei, confusa ed esitante. Non era l’idea di salire in un’auto a renderla così inquieta - ricordava ancora la vecchia aiuto che aveva comprato suo padre anni fa -, quanto più quella di trovarsi accanto al figlio cresciuto che… be’, la trattava in quel modo. Era troppo strano. Ma cercò di non darlo a vedere e si sedette.
“Dobbiamo… dobbiamo salire su quella cosa?” chiese James perplesso. 
“È un auto. La useremo per tornare a casa”. 
“E non ci smaterializziamo?” 
“No”. 
Harry aprì anche la porta posteriore e aspettò che James e Sirius vi salissero. “Tranquilli che non vi mangia”, aggiunse divertito vedendo i due esitare ancora. 
Solo quando anche i due uomini si furono accomodati, Harry salì al posto di guida e controllò che tutto fosse a posto. Accese l’auto con un semplice pulsante e cominciò a muoversi, facendo manovre delicate per uscire dal parcheggio. 
“Quindi ora anche i maghi usano questi aggeggi?” chiese Sirius appoggiato alla portiera. 
“Non tutti. Diciamo solo che alcune volte è comoda”. 
“E vola?” fu la domanda di James. 
“No, questa è una semplice auto babbana. Il Ministero non permette a molte auto di essere modificate per volare. Solo in casi eccezionali. Purtroppo, in aria è più difficile regolare il traffico o controllare che tutti guidino bene. E considerando l’aumento delle macchine diventerebbe un caos”. 
Quando si fu immesso nel traffico londinese, Harry premette un altro pulsante e subito la voce di una donna - la speaker alla radio - si diffuse nell’abitacolo, leggermente gracchiante. 
“Se volete che cambi frequenza ditemi pure. O se abbassare l’aria condizionata”. 
“L’aria che?” fece James facendo ridacchiare Harry. 
“Aria condizionata. È una cosa babbana. Fa uscire aria fredda da questi cosi - e indicò le fessure da cui usciva l’aria condizionata - quando c’è caldo”. 
James non disse altro, come se fosse ammutolito di colpo, e anche gli altri parvero aver fatto voto di silenzio. 
Dal canto suo nemmeno Harry diceva qualcosa. Teneva lo sguardo fisso sulla strada, come se richiedesse una particolare attenzione. In realtà, conosceva quella strada a memoria, era la solita via casa-lavoro-lavoro-casa che faceva tutti i giorni, e avrebbe potuto percorrerla ad occhi chiusi. La verità era che non sapeva cosa dire; parlare del più e del meno gli sembrava fuori luogo e stupido e parlare di cose più importanti - e lì sì che ce ne sarebbero state di cose da dire e da spiegare - semplicemente non gli andava. Non credeva di esserne pronto o di averne il coraggio. Che detto da un ex Grifondoro era assurdo. 
Inserì la freccia e svoltò elegantemente verso destra. 
Lily osservava la strada fuori dal finestrino pensando a quanto ora le cose fossero diverse. Non ricordava tutte quelle auto - auto grosse e dall’apparenza costose - e nemmeno così tanto… be’, asfalto. Era come se un po’ di incanto fosse svanito, come se la magia si fosse fatta da parte un po’ per dare spazio a… tutto quello. Quindi quello era il futuro? 
Mentre si avvicinavano sempre di più al luogo di destinazione, Harry sentiva il cuore accelerare i battiti. Aveva avvertito Ginny e i ragazzi delle persone che avrebbero ospitato, aveva detto loro chi erano e cosa rappresentavano. 
Di certo, però, non sarebbe stato un incontro… normale. Il grosso punto di domanda che gli frullava in testa era Teddy. Forse lo aveva lasciato troppo in fretta dopo avergli rivelato la notizia, forse doveva restare a parlargli ancora, a rispondere ai suoi dubbi, ma la verità era che non sapeva nemmeno lui come fare. Si trovavano più o meno nella stessa situazione, ma almeno Teddy aveva modo di prepararsi e senza contare che, quando lui avrebbe guardato in faccia Remus e Dora, non avrebbe visto due ragazzi poco più che adolescenti che potevano essere suoi figli. 
Harry non avrebbe mai potuto considerare James e Lily, davvero del tutto, suoi genitori. E non sapeva dire se questo gli facesse male o no. 

*** 

Se vi aspettavate in questo capitolo l’incontro tra i Malandrini e la famiglia di Harry… sorry, ero convinta pure io di averlo scritto in questo capitolo e invece non è così. 
Eeee… Finalmente appare Teddy! Quanto si nota che è uno dei miei personaggi preferiti in questa storia? Vi aspettavate che avrebbe sofferto di licantropia? La verità è che sono sadica e mi piace far soffrire un po’ i personaggi che mi piacciono. 

Ho delle brutte notizie però. Probabilmente domenica prossima non aggiornerò perché sarò di ritorno da Napoli e non ho idea a che ora né in quali condizioni tornerò. Ma in ogni caso, se non sarà domenica, aggiornerò il lunedì dopo. 
Per il resto vi auguro un felice agosto e vedete di divertirvi un po’ questa estate : )

Prima di concludere, vi segnalo che ho scritto una Oneshot Wolfstar. Ve la linko qui nel caso foste interessati a leggerla, si intitola Un giorno di pioggia.

Baci,
C.

A CASA

Harry fermò la macchina di fronte a una villetta che si stagliava lungo una stradina isolata di un quartiere che James, Lily e Sirius non conoscevano. O forse semplicemente non riconoscevano. I loro sguardi comunque non erano tanto attratti dalla zona in cui si trovavano - piuttosto anonima comunque - quanto più per quella casa dai muri bianchi, i tre piani che la facevano sembrare imponente ma i cuoi fiori, sia appesi sulle ringhiere dei balconi che piantati nell’ampio giardino, regalavano parecchia eleganza.
Harry agitò la bacchetta fuori dal finestrino per aprire l’elegante cancello in ferro e lentamente condusse l’auto nel viale, fermandosi di fronte alla casa e spegnendo il motore.
Slacciò la cintura e aprì la portiera uscendo dalla macchina, imitato dagli altri.
“Quindi… Questa è casa tua?” chiese Lily guardandosi attorno, ammirata da quello che vedeva. Se fuori era tutto così bello, grande e ordinato chissà come doveva essere dentro.
Harry le sorrise. “Certo. Entriamo?”
I tre seguirono Harry verso il portico - che ospitava una bella panchina di legno e un lungo tavolo con un posacenere nel mezzo - e rimasero ad aspettare che l’Auror aprisse la porta con le chiavi.
Non appena superò la soglia della porta una vocina squillante gridò: “Papà!”
Quello che i tre resuscitati riuscirono a vedere da dietro le spalle di Harry fu solo qualcosa di rosso andare a sbattere contro le gambe dell’uomo.
Harry la sollevò in aria senza troppa fatica e se la appoggiò contro il petto. “Ehi, scricciolo! La mamma è in casa?” 
Da sopra la spalla del moro, James, Lily e Sirius videro il visetto dolce di una bimba dai grandi occhi color castagna su cui ricadevano lunghi capelli rosso scuro.
“Ciao!” li salutò lei guardandoli con curiosità.
Ancora stretta tra le braccia di Harry, la ragazzina allungò la mano verso di loro. “Io sono Lily!” Disse poi con entusiasmo.
I tre spalancarono la bocca contemporaneamente in una scena che vista da fuori sarebbe parsa piuttosto comica.
Il primo a riprendersi fu James. “Ciao, piccola. Io sono James”.
“Lo so chi siete. Papà me l’ha detto”, rispose lei guardando verso la sua omonima che la osservava con un misto di stupore e dolcezza. Tremava impercettibilmente, sentiva le lacrime premere contro gli angoli degli occhi ma cercò di non lasciarle andare; non le sembrava il caso di mettersi a piangere di fronte alla bambina e ad Harry. Tutto quello a cui riusciva a pensare era il fatto che Harry avesse dato il suo nome alla propria figlia e non sapeva nemmeno come la cosa la facesse sentire.
Sirius era fermo in un angolo, silenzioso e cupo
“La mamma è a casa?” chiese nuovamente Harry alla figlia interrompendo quel gioco di sguardi.
“Sì, è di sopra”.
Probabilmente attirata dalle voci, una figura femminile comparve davanti a loro stagliandosi in cima alle scale. Anche lei aveva i capelli rossi, ma lunghi fino alle spalle. E sorrideva.
“Ehi! Mi era parso di aver sentito qualcuno”.
Solo in quel momento Sirius parve tornare in sé; oltrepassò Lily e James e si piazzò proprio di fronte alla nuova arrivata, una decina di gradini a separarli.
La fissava con incredulità, sicuro di conoscerla. Sì, era terribilmente familiare, solo che l’ultima volta che l’aveva vista era una ragazzina di appena quattordici anni che rispondeva a tono ai suoi fratelli e andava in giro per Grimmauld Place fiera come una leonessa.
“Ginny!?”
“Perché così sorpreso, Sirius?”  fece lei sorridendo e scendendo i gradini per raggiungerlo. L’uomo la  squadrò dall’alto in basso e ammise tra sé e sé che la piccola Ginny era germogliata davvero in una bella donna; un viso spigoloso, un seno abbondante, i fianchi più larghi ma ben proporzionati a tutto il resto e quel taglio di capelli che le donava parecchio. Non si era alzata molto in altezza. Ginny era sempre stata bella ma ora aveva quel fascino in più tipico delle donne mature.
“Quindi, tu ed Harry…”.
“Sì, io ed Harry. E ora smettila di fissarmi con quello sguardo da pesce lesso che non ti si addice e abbracciami!”
Sirius non se lo fece ripetere due volte e si protese verso Ginny stringendola contro il proprio corpo in un abbraccio amichevole, inspirando un po’ del suo dolce profumo. Ginny gli era sempre piaciuta. E a Ginny era sempre piaciuto Sirius: oltre ad averlo sempre trovato affascinante, quel suo carattere un po’ burbero e un po’ cinico l’aveva sempre attratta.
Sapere che era tornato in vita l’aveva resa molto contenta, non solo per Harry.
“Allora è vero che ai Potter piacciono le rosse”, disse James con un sorriso scanzonato facendo ridere tutti gli altri. Era la prima battuta che faceva da quando erano usciti dal Ministero.
A quel punto Sirius si girò verso James e Lily che durante quello scambio di battute se n’erano rimasti in disparte, e li indicò:
“Ehm… loro sono-“.
“James e Lily Potter! Siete una leggenda ormai”, lo interruppe Ginny sorridendo ai suoceri. “Probabilmente lo avrete capito, comunque io sono Ginny Weasley. Benvenuti a casa nostra. Magari ci spostiamo dal corridoio, che dite?”
Ma prima che tutti potessero fare una qualsiasi mossa, James e Lily fissarono entrambi lo sguardo di nuovo sulle scale. Harry, Ginny e Sirius fecero altrettanto, incuriositi dalla loro reazione. Fermo sulla cima delle scale, dove prima stava Ginny, c’era un ragazzino, capelli folti e scuri, gli occhi verdi della stessa tonalità di quelli di Harry, vestito interamente di nero, jeans e una semplice maglietta. Dall’aspetto non c’erano dubbi che fosse figlio di Harry. Lui ricambiava il loro sguardo, leggermente imbarazzato.
“Tesoro, perché non saluti i nostri ospiti?” gli chiese Ginny con fare materno.
Il ragazzino scese lentamente le scale e poi porse la mano prima a Sirius, il più vicino a lui. “Ciao. Ehm… Sono Al”.
“Al?” ripetè Black incuriosito da quel nome particolare. “Piacere mio. Sono Sirius”.
“Scusate!” li interruppe allora Harry. “Io devo assolutamente andare a cambiarmi. Vi lascio nelle mani di Ginny”. Non aspettò che qualcuno gli rispondesse; imboccò le scale e sparì velocemente verso il piano superiore.
Quando terminarono tutte le presentazioni, finalmente Ginny potè trascinare via di lì i suoi ospiti. “Venite. Vi faccio vedere le vostre stanze”.
Salirono verso il primo piano, lasciando indietro Al e la piccola Lily, con Ginny che apriva la strada e Lily grande concentrata a guardare le foto appese alle pareti bianche, alcune magiche e in movimento, altre babbane; ritraevano tutte la famiglia di Harry, in un paio c’erano lui e Ginny il giorno delle nozze - a giudicare dal vestito bianco di lei e dallo smoking di lui e gli sguardi innamorati - alcune ritraevano solo i figli e quello che attirò la sua attenzione in particolare fu la presenza di un terzo ragazzo, più grande degli altri due, ma molto simile al suo James, soprattutto per i capelli spettinati. Tuttavia non chiese chiarimenti. Notò che James cercava di comunicarle qualcosa con uno sguardo silenzioso e quindi gli afferrò la mano.
Non si fermarono al primo piano ma proseguirono fino al secondo dove invece facevano sfoggio alcune foto con un ragazzino dai capelli blu elettrico.
Giunsero su un corridoio in cui si aprivano tre porte. La donna ne aprì due contemporaneamente con la bacchetta, quelle che si affiancavano, e lasciò chiusa la terza che si trovava di fronte.
“Voi magari potete stare qui”, disse indicando James e Lily. “E tu, Sirius, di qua. Purtroppo però temo dovrete condividere il bagno dei ragazzi, è al primo piano, in fondo a destra”.
Ginny entrò nella stanza che aveva indicato come quella di Sirius e aprì l’armadio vuoto eccetto per un paio di scatoloni contenenti dei vestiti. “Ho chiesto ai miei nipoti di mettere qui tutti i vestiti che non indossano più, magari qualcosa vi può andare bene”.
“Oh grazie!” sospirò Lily davvero sorpresa ma felice per quel gesto.
L’altra ridacchiò. “Aspetta a ringraziarmi. Non so davvero cosa ci troverai. Le mie nipoti hanno tutte dei modi strani di vestirsi. In caso, ti presto qualcosa di mio”.
Richiuse le ante dell’armadio e si ripulì le mani sui pantaloni bianchi. “Ci sono anche dei vestiti smessi di Harry, magari a te staranno bene, Sirius. E a te, James, potrebbero andare bene quelli di Teddy”.
“Teddy?” chiese l’uomo perplesso.
“Oh sì. Lo conoscerete stasera a cena. È il figlioccio di Harry”.
“Intendi il figlio di Remus”, fece Sirius. Moony gli aveva parlato di lui, di come avesse ereditato i poteri da Metamorfomagus da Tonks e non la licantropia da lui e aveva sorriso per tutto il tempo. Decisamente non vedeva l’ora di conoscerlo.
“Proprio lui! Ora scusate, vado a finire di preparare la cena”. Ginny andò verso la porta con uno svolazzo della corta chioma rossa, ma sulla soglia si fermò di nuovo. Aveva uno sguardo più dolce quando si voltò verso i tre che erano rimasti al centro della stanza. “So che vi sembrerà tutto strano e nuovo e un po’ confuso, però… Non preoccupatevi, vi adatterete in fretta. Per qualsiasi cosa non esitate a chiedermi e considerate questa come casa vostra”.
“Grazie”, sospirò James. Avrebbe voluto correre incontro a quella donna e abbracciarla come faceva un tempo con sua madre; era talmente gentile e comprensiva che si sentiva sciogliersi il cuore e in quel momento aveva davvero bisogno di qualcuno che fosse gentile e comprensivo. Non aveva idea di quanto tutto quello gli sembrasse strano e nuovo e confuso. Ginny era una manna dal cielo.
La padrona di casa ripercorse il corridoio e le scale, cercando di togliersi di dosso il nervosismo. Aveva fatto di tutto per non darlo a vedere ma era stata parecchio agitata. Quelli erano i genitori e il padrino di suo marito e voleva che si sentissero a suo agio, specialmente in una situazione come quella che di naturale non aveva assolutamente nulla. 

Teddy rientrò in casa e gettò subito le chiavi dell’auto e di casa nel cesto sul mobiletto vicino all’ingresso.
Adocchiò velocemente il proprio riflesso mentre passava accanto al piccolo specchietto rettangolare posto sopra il suddetto mobiletto - rabbrividendo di fronte alla propria immagine stanca - e salì velocemente le scale al piano superiore ignorando il suo coinquilino che giocava alla console. 
Buttò la borsa a terra e si gettò sul letto rimbalzandoci sopra un paio di volte mentre si passava le mani sul viso.
Era stata una giornata assurda. Non aveva fatto altro che distrarsi e non era riuscito a concentrarsi neanche sforzandosi. Per fortuna non aveva avuto interventi importanti altrimenti non avrebbe saputo dire come sarebbero andati. Ma intanto della conferenza a cui aveva partecipato non era riuscito ad ascoltare nulla e non ricordava nemmeno di cosa avessero parlato.
I suoi genitori erano vivi. Vivi. Gli sembrava uno scherzo. Possibile che Harry potesse giocargli uno scherzo così crudele? Ovviamente no. Aveva detto che anche i suoi erano tornati in vita. Ma come poteva essere possibile? Quindi, una cosa del genere poteva capitare. Forse un miracolo. Sapeva di persone che credevano in questo strano essere - o strani esseri - superiore che sta da qualche parte oltre le nuvole e che ha creato tutta la Terra e l’umanità e le cose presenti attorno a lui, e addirittura lo pregavano e lo veneravano e gli chiedevano qualcosa in cambio - felicità, fortuna, gioia, guarigione, benedizione… - ma lui non era il tipo. Credeva nella scienza, nella medicina, nelle cose che poteva vedere con gli occhi e toccare con le mani.
I miracoli non accadevano, solo magie e non poteva esistere una magia talmente forte da far resuscitare i morti. A meno che… La magia poteva evolvere, potevano essere creati nuovi incantesimi e si potevano mischiare diverse pozioni tra di loro per ottenere effetti simili ma differenti. Quindi forse era possibile anche riportare in vita le persone.
Ma chi mai avrebbe voluto riportare in vita i suoi genitori o quelli del suo padrino?
La sua testa lavorava freneticamente, poteva addirittura sentire i neuroni scricchiolare nello sforzo di mettere insieme le ipotesi e trovare una risposta. Perché era quello che Teddy Lupin faceva, trovava le risposte. Risposte concrete, supportate da fatti, provate da esperimenti.
E ora come doveva comportarsi? La risposta più logica, più ovvia, la reazione che tutti si sarebbero aspettati da lui - quella che persino lui si aspettava da sé stesso - era correre subito a casa di Harry per conoscerli.
Eppure… Non ce la faceva. Non ne aveva il coraggio. Davvero poco Grifondoro, non c’è che dire. Sua nonna avrebbe scosso la testa e stretto le labbra in segno di profonda disapprovazione. Ma che ci poteva fare? Lui era così, aveva bisogno dei suoi tempi e di preparazione.
Quanto aveva sognato di conoscerli? Certo, aveva avuto un infanzia incredibilmente felice per un orfano, sua nonna e soprattutto Harry non gli avevano mai fatto mancare nulla, di sicuro non l’amore o il supporto emotivo. Ma ogni bambino sogna di incontrare i genitori che non ha mai conosciuto. Lui, a un certo punto, aveva smesso di sognarlo, sapeva che non c’era possibilità. Ed ora invece questa possibilità gli si presentava davanti, servita su un piatto d’oro. Non lo aveva chiesto, se si azzardava a desiderarlo con la mente cercava subito di allontanarsi da tale desiderio e dirsi che no, che c’erano molte altre cose più sensate da desiderare.
A Teddy Lupin erano mancati i suoi genitori ma non ne aveva avuto bisogno. Non nel senso comune del termine. Harry e Nonna Meda sono stati i suoi genitori e i Potter e i Weasley tutti sono stati la sua famiglia.
Non avrebbe potuto desiderare nulla di più.
Forse per questo era terrorizzato. In che quadro le avrebbe dovute inserire le povere anime di Remus e Ninfadora?
Era terrorizzato. Perché quando finalmente ottieni ciò che hai desiderato non sai in realtà come gestirlo. Ed è facile che ti scivoli via dalle dita.
Estrasse il cellulare dalla tasca e cercò il numero di Harry. 

*** 

A sorpresa arrivo anche oggi!! Sono tornata da Napoli prima del previsto e quindi ho deciso di aggiornare stasera piuttosto che farvi aspettare domani. Spero siate soddisfatti di questo capitolo. Qui, James, Sirius e Lily vengono a conoscenza dei figli più piccoli di Harry e Ginny. Manca solo il primogenito che verrà presentato nel prossimo capitolo. E accadranno delle belle XD

Mi sono dimenticata di precisare la volta scorsa che, per quanto sarò molto fedele al canone, alcune cose cambieranno un po’. Teddy dovrebbe essere un Tassorosso, invece io ho deciso di metterlo in Grifondoro e questo per alcune dinamiche - chiamiamole - che verranno menzionate più avanti. Spero non dispiaccia troppo.

Fatemi sapere che ne pensate di questo capitolo e ci sentiamo.
Baci,
C. 

Questo sarà un capitolo piuttosto lungo. Brace yourself.

CENA IN FAMIGLIA

Quando James, Lily e Sirius si decisero a tornare al piano inferiore, dopo essersi cambiati - faticando non poco a trovare qualcosa di sobrio in mezzo a tutti quei vestiti babbani troppo attillati o scollati - adocchiarono Ginny ed Harry in cucina impegnati sul ripiano da lavoro a parlare sottovoce di qualcosa, mentre Lily ed Al se ne stavano spaparanzati sul divano, rivolti verso una specie di grande oggetto rettangolare incastrato nel muro che mostrava delle immagini di persone che parlavano animatamente e facevano cose, correndo di qua e di là o ponendo domande. A James e Sirius ricordava un po’ i quadri che si muovono ad Hogwarts, solo che questo era molto più complesso. Lily capì subito che si trattava di una televisione. 
I tre realizzarono in quel momento che non avevano ancora fatto l’intero giro della casa. La cucina e il salotto erano adiacenti, separati dal tavolo da pranzo di legno. Il divano su cui stavano Lily e Al, bianco, era piuttosto ampio e dall’aria confortevole, affiancato da due poltrone dello stesso colore. A circondare la televisione c’era invece una grande libreria piena di libri, alcuni soprammobili e delle coppe che James riconobbe subito essere del quidditch, ma non chiese nulla. Subito accanto alla libreria un pianoforte nero a muro faceva sfoggio di sé. 
Chissà chi lo suonava, si chiese Lily, forse Harry o Ginny. O magari uno dei ragazzi. 
Sulla parete in fondo, leggermente isolato da tutto il resto, c’era il camino su cui poggiavano alcune foto incorniciate. Non c’era nulla che parlasse di magia in quella casa; era una normalissima casa pulita e ordinata, piena di ricordi forse, ma ordinaria.
“Bene, avete trovato qualcosa!” esclamò Ginny non appena li vide arrivare. “Mettetevi comodi, la cena sarà pronta tra poco”. Tirò fuori dei calici da una mensola sopra i fornelli e li poggiò sul ripiano della cucina. “Tesoro, vai a prendere una bottiglia di vino?” chiese poi rivolta al marito.
“Bianco o rosso?” 
“Rosso direi”. 
Harry attraversò il salotto diretto verso una piccola porta che si apriva vicino al pianoforte, sotto lo sguardo attento dei genitori e di Sirius. Si era cambiato con dei semplici pantaloni di una tuta e una maglietta grigia che gli lasciava scoperte le braccia forti; sull’avambraccio sinistro si notavano dei piccoli tatuaggi, ma non erano riusciti a capire di cosa si trattasse. 
L’uomo scese le scale di quella che doveva essere una cantina e sparì lì sotto. 
“Al, apparecchia la tavola”, ordinò poi Ginny e il figlio si alzò dal divano diretto verso le dispense per prendere i piatti. 
Sembrava che Ginny in quel momento avesse il controllo della situazione, di quell’ambiente famigliare e confortevole. 
“Jim non è ancora tornato?” chiese Harry ritornando con la bottiglia di vino. 
“No, ma dovrebbe essere qui a momenti”.
Harry appoggiò la bottiglia sul tavolo e usò la bacchetta per stapparla. Poi cominciò a versare il vino nei bicchieri. 
“Al, ricordati che siamo in dodici”, avvisò Ginny in direzione del figlio impegnato ad apparecchiare senza l’aiuto della magia. 
“Ah”, esclamò il ragazzo rimanendo all’improvviso immobile con un piatto in mano a fissare il lavoro portato a termine a metà. “Allora bisognerà allungare il tavolo”. 
“Ci penso io”, disse Harry correndogli in aiuto. 
In quel momento si udì qualcuno infilare la chiave nella serratura della porta d’ingresso e spalancarla con un sospiro. 
Un ragazzo alto, dai capelli scuri e spettinati, in tutto e per tutto simile a Harry da giovane, o a James, comparve sulla soglia del salotto e i suoi occhi scuri si poggiarono immediatamente su tutti i presenti. Aveva un borsone appeso sulla spalla e una scopa in mano. 
“La cena è quasi pronta”, gli disse Ginny non appena i loro sguardi si incrociarono.  
“Ce l’ho il tempo per fare una doccia?” chiese il ragazzo guardando i genitori. 
“Se ti sbrighi sì”, gli rispose il padre. 
“Vado e torno!” rispose il ragazzo correndo su per le scale senza sbattere alcun ciglio verso i nuovi ospiti. 
“Vi prego, ditemi che non comparirà qualche altro vostro figlio da quella porta o dal camino”, disse Sirius leggermente scioccato. 
Harry rise mettendo un bicchiere di vino davanti al padrino. 
“No, tranquillo. Sono solo tre”. 
Un suono squillante attraversò le pareti di casa facendo leggermente sobbalzare tutti. Qualcuno doveva aver suonato il campanello. Harry corse ad aprire incrociando subito lo sguardo con Andromeda, Remus e Tonks dall’altra parte del cancello. Li fece passare aprendo il cancello e aspettò che percorressero il vialetto.  
“Ma quanto è grande questa casa?!” esclamò Tonks sollevando lo sguardo per riuscire a vedere tutti e tre i piani della villetta. Harry ridacchiò davanti allo sguardo incredulo della ragazza e li fece accomodare. 
“Cugino!” Dora si buttò letteralmente tra le braccia di Sirius investendogli la faccia coi capelli rosa e l’uomo dovette usufruire di tutto il suo equilibrio per non cadere di schiena. 
“Non sei mai stata così affettuosa con me”. 
“Solo perché un tempo eri irascibile e burbero”. 
“Chi te lo dice che non lo sia ancora?” 
Tonks lasciò andare il povero cugino solo quando notò che lo stava quasi uccidendo e si voltò a guardare tutti gli altri presenti nella stanza affollata. 
“Ginny”. 
“Professor Lupin… O preferisci Remus?” 
“Remus andrà più che bene”. 
Remus e Tonks erano stati messi a conoscenza da Andromeda delle informazioni principali di cui avevano bisogno, pertanto non si stupirono né di vedere Ginny né i due ragazzini che li guardavano dal bordo del divano con fare curioso. 
Quando Lily e Albus si presentarono per la seconda volta quella sera, James scese le scale con i capelli ancora umidi dalla doccia, una canotta bianca leggera che lasciava intravedere un fisico ben modellato, e un paio di pantaloni militari morbidi da cui si intravedeva spuntare la bacchetta. Un piccolo anellino d’oro gli pendeva dal lobo sinistro. 
“Mi sono perso qualcosa?” chiese con un sopracciglio alzato quando tutti gli sguardi vennero puntati su di lui. 
“Prongy, perché c’è la tua versione adolescente davanti a noi?” chiese Sirius fissando il ragazzo come se vedesse un fantasma. Certo, Al somigliava ad Harry e a James ma l’altro ci somigliava in maniera impressionante. 
“Quindi siete voi due i miei omonimi”. 
I due si guardarono confusi. 
“Sono James Sirius”, si presentò il ragazzo porgendo loro la mano. “Per gli amici Jim”. 
Sirius e James si girarono verso Ginny ed Harry fermi vicino al tavolo da pranzo, indecisi fra la commozione, lo stupore o entrambi. Insieme ad un pizzico di gratitudine. 
“Be’, la cena è pronta!” esclamò alla fine la padrona di casa interrompendo quel momento di particolare imbarazzo e lasciando che tutti si accomodassero all’ampio tavolo. 
Un altro trillo, diverso da quello di prima, interruppe il momento conviviale. Harry estrasse il proprio cellulare dalla tasca e controllò il numero. 
“Scusate, è Teddy”, disse allontanandosi dalla stanza e sentendo vagamente James e Sirius chiedere cosa fosse l’oggetto che aveva tirato fuori. 
“Dimmi, Teddy”, rispose Harry non appena si fu spostato in una zona più appartata della casa.
“Harry”, fece la voce strascicata del ragazzo dall’altra parte della cornetta. Sembrava stanco. “Non credo di sentirmela. Intendo, per stasera”. 
Delle risate si levarono dall’altra stanza mentre Ginny spiegava che cosa fosse un telefono cellulare e della prima reazione che aveva avuto suo padre quando gliene avevano messo in mano uno. 
“Ho… Ho bisogno di tempo”, continuò Teddy quando non ricevette alcuna risposta dall’altra parte. 
“Certo, Teddy. Lo capisco”. 
“Davvero? Non sei arrabbiato?” 
Sempre il solito Teddy, preoccupato di ferire gli altri. 
“Certo che no. Ti capisco, davvero”. 
“Di’ che mi dispiace. So che la nonna alzerà gli occhi al cielo e dirà che sono un cretino che ha mangiato troppe cioccorane che gli hanno distrutto il cervello e probabilmente mi spedirebbe lì a a calci in culo, e ha sicuramente ragione, ma ora… È una cosa difficile”. 
Harry sospirò chiudendo gli occhi per un attimo, come a voler recuperare dell’energia che aveva esaurito. Nessuno aveva idea di quanto quel momento fosse difficile anche per lui, non solo per Teddy. 
“Non ti preoccupare, parlerò io con tua nonna. Anzi, se vuoi che ne parliamo un giorno, io e te…”. 
“Mi piacerebbe, sì”. 
“D’accordo”. 
“Grazie”. 
“Ciao, Teddy”. 
Harry richiuse la chiamata e tornò in cucina facendosi forza. Forse alla fine c’era da aspettarselo. Aveva solo paura di dare una delusione a Remus e Tonks. 
“Teddy non viene”, esordì non appena raggiunse il tavolo. 
“Come sarebbe a dire che non viene?!” chiosò subito Andromeda guardando l’uomo con quello sguardo minaccioso tipicamente Black, quello che diceva che avrebbe potuto strappare la lingua a chiunque se avesse pronunciato una parola sbagliata.
“Ha solo chiesto di avere un po’ di tempo”. 
La signora Black inarcò un sopracciglio che le diede un’espressione arcigna facendola sembrare più vecchia di quello che era. 
Harry spostò lo sguardo su Remus e Tonks che non guardavano in nessun punto particolare, sembravano solo delusi e leggermente tristi. Sperava solo che non pensassero che fosse colpa loro, non aveva le forze di gestire delle crisi emotive quella sera. 
“Be’, di’ a quel ragazzo che…”, cominciò Andromeda venendo subito interrotta da Ginny: “Andromeda, non importa. Alcune situazioni richiedono… più tempo e… Non è facile assimilare l’idea di poter conoscere i propri genitori che credevi morti. Diamogli i suoi spazi. Arriverà quando si sentirà pronto”. 
Harry mimò un grazie in direzione della moglie muovendo solo le labbra e lei gli sorrise dolcemente. 
“Non preoccupatevi”, aggiunse voltandosi verso Remus e Tonks. “È meglio non premere troppo su certe cose”. 
Quando anche il padrone di casa si sedette a tavola, la cena poté finalmente cominciare. La prima domanda che attraversò il tavolo fu il motivo di tutte quelle coppe di quidditch esposte nel salotto. Allora Ginny spiegò di come aveva iniziato a giocare per le Holyhead Harpies subito dopo aver finito Hogwarts, delle competizione vinte, delle coppe portate a casa, di quanti punti in totale era riuscita a segnare per la sua squadra come Cacciatrice, dei boccini catturati, il tutto sotto gli occhi luminosi di James seduto poco distante da lei. Quella donna gli piaceva sempre di più. 
“Dopo aver partorito Al però mi sono dedicata al giornalismo, la sezione sportiva della Gazzetta del Profeta. Adesso dirigo io tutta la sezione”. 
“E fai anche interviste? Intendo, ai giocatori?” le chiese James sempre più entusiasta. 
“Certo, a volte mi mandano all’estero. Se mi capita, ti porto con me”, rispose lei ammiccando e la reazione di James fu quella di un bambino che scopre che Babbo Natale arriva in anticipo quell’anno.
“E tu da quanto sei a capo degli Auror?” chiese Sirius rivolto al figlioccio. 
Harry svuotò il proprio bicchiere di vino prima di rispondere. “Quasi cinque anni”. 
“Non sei… un po’ giovane?” domandò allora Lily. “Insomma, credevo che i capi Auror fossero più anziani”. 
“Infatti. Credo di essere il più giovane nella storia dei capi degli Auror”. 
Sirius gli sorrise orgoglioso; non se ne stupiva, Harry su alcune cose era sempre un passo avanti rispetto agli altri. Il più giovane giocatore di quidditch di Hogwarts, il più giovane capo Auror della storia, il più giovane mago ad aver sconfitto Lord Voldemort… 
La prossima domanda fu di Tonks che chiese di Ron ed Hermione.
“Ron lavora con me ed Hermione… si è data alla politica”. 
“Ovviamente”, commentò Remus divertito. Il senso di giustizia di Hermione, nonché la sua forte voglia di lottare per i più deboli dovevano averla guidata per tutta la vita.
“Hanno due figli, sapete? Hugo e Rose. Hugo andrà ad Hogwarts quest’anno e Rose… Ha l’età di Al, ma è un peperino. Non somiglia per nulla ad Hermione”. 
“Quindi si sono messi insieme alla fine!” esclamò Tonks contenta, come se avesse appena vinto un premio. “Te lo dicevo io, Remmie, che quei due finivano insieme. Certe cose io le capisco”. 
Remus scrollò la testa bonariamente ricordando i primi appuntamenti a cui era andato con Dora e lei tirava fuori i più strambi argomenti solo per evitare di stare in silenzio perché il silenzio la imbarazzava terribilmente. Allora si era reso conto quanto amasse sentirla parlare e quanto adorava vedere le sue guance che si imporporavano. 
“Giocavi a quidditch?” chiese ad un tratto James Sirius guardando in direzione del suo omonimo più vecchio, quando la cena era ormai giunta al termine e Ginny stava servendo il dolce. 
“Sì, facevo il cercatore. Tu?” 
“Anche io il più delle volte. Un paio di volte ho giocato come cacciatore”. 
“Immagino tu sia bravo”. 
James Sirius si passò una mano tra i capelli spettinandoli ancora di più ed esibendo un sorriso sghembo che fece sbuffare ed alzare gli occhi al cielo suo fratello che gli stava seduto accanto. Sapeva benissimo che quando Jimmy ghignava in quel modo stava per dire qualcosa di assolutamente egocentrico. 
“Ho solo fatto vincere Grifondoro per tre anni di fila”. 
Difatti. 
“Presto dovremo evacuare da questa casa perché il tuo ego la demolirà”. 
Il maggiore si voltò verso l’altro senza smettere di ghignare. “Che c’è? Sei geloso perché la tua casa perde sempre?” 
“Pff! Sai che m’importa del quidditch. Noi almeno vinciamo la Coppa delle Case, quella che la tua non vedrà mai perché le fai sempre perdere punti facendoti beccare fuori dal dormitorio oltre il coprifuoco”. 
“Il coprifuoco è una cosa stupida!” gridò James Sirius facendo ridere tutti. Quel ragazzo era davvero la copia sputata di suo nonno. 
Improvvisamente però Sirius smise di ridere e osservò Al perplesso. “In che Casa sei tu?” 
“Ehm… Serpeverde?” fece il ragazzo, come sempre titubante quando gli facevano quella domanda. A quanto pareva, era ancora impensabile che il figlio di Harry Potter e Ginny Weasley potesse essere un Serpeverde. E lui non aveva ancora capito cosa ci fosse di così sconvolgente. Ci aveva messo un anno intero, quasi due, ad abituarsi lui stesso a quell’idea, arrivando quasi a ripudiare la casa verde-argento e a volersi strappare la cravatta; ora che finalmente aveva iniziato ad apprezzarla e a capirla, non voleva che delle persone arrivassero a portargli via questo appena maturato equilibrio.
Ma come ormai si aspettava da tutti, anche i loro nuovi ospiti strabuzzarono gli occhi. Il ragazzo ringraziava solo che ci fosse Andromeda con loro quella sera, l’unico altro membro della famiglia oltre a lui ad appartenere alla Casa di Salazar Serpeverde. 
“Che hai da strabuzzare tanto gli occhi, Sirius!?” lo rimproverò infatti la donna. “La Casa di Serpeverde è la più nobile e ha accolto moltissimi grandi maghi. Tu, dall’alto del tuo orgoglio Grifondoro, non sei mai stato capace di vederlo”. 
Il cugino fece per protestare ma Lily prese la parola per prima: “Ha ragione. Anche Merlino era appartenuto a Serpeverde”. 
Albus sorrise quasi impercettibilmente tenendo il viso basso. Forse finalmente c’era qualche membro della famiglia che non lo avrebbe fatto sentire a disagio per essere un Serpeverde.
Harry si alzò e, con la scusa di dover andare a fumare, uscì fuori. Lasciò che l’aria di quella serata estiva gli pervadesse le narici e si appoggiò con le braccia al parapetto del portico, accendendosi la sigaretta e inalando la prima boccata di fumo. 
Non passò molto prima che sentisse la porta aprirsi di nuovo dietro di lui e qualcuno avvicinarglisi a passi strascicati. 
“Hai davvero una bella casa… e una bella famiglia”, sentì dire dalla voce calda e forte di Sirius. Quanto gli era mancata quella voce. 
Sirius lo affiancò appoggiandosi anche lui al parapetto e rimase a osservare il viso del figlioccio; sotto la sola luce della lampadina appesa sopra la porta, poteva notare quanto fosse effettivamente invecchiato. Gli occhi stanchi e le rughe attorno ad essi e sulla fronte avevano sostituito il volto del ragazzo di quindi anni energico e coraggioso di cui aveva ricordo e che aveva imparato a conoscere.  Probabilmente anche James avrebbe avuto quell’aspetto se fosse vissuto abbastanza da invecchiare. Ora, invece, avrebbe dovuto imparare a conoscere quello nuovo che gli si presentava davanti in quel momento. 
“Ne vuoi una?” chiese Potter allungando il pacchetto in direzione del padrino, solo per interrompere quel silenzio teso che si era venuto a creare. Sirius prese il pacchetto ed estrasse una sigaretta, lasciando che Harry gliel’accendesse. 
“Allora, come hai fatto? A… Fare tutto questo?” 
“Vuoi la versione lunga o quella breve?” sospirò il moro tornando a guardare il proprio giardino. 
“Qualsiasi versione sia io non ne faccio parte. E questo mi dispiace da morire”. 
“Non è certo colpa tua, Sirius”. 
“No? Potevo non farmi uccidere”. 
Harry spense la propria sigaretta premendola forte nel posacenere e fissò gli occhi verdi in quelli grigi dell’altro, quasi con aggressività. “Non cominciare, Sirius. Quello che è successo non era certo colpa tua”. 
Era colpa mia. 
Sirius a quelle parole fissò per qualche istante il volto del figlioccio senza sbattere le palpebre, come a volerlo sondare e capire che cosa intendesse davvero; ma una grande prima differenza che poteva notare rispetto all’Harry che aveva conosciuto lui era che quello che si ritrovava di fronte in quel momento sembrava essere impenetrabile e leggergli dentro era impossibile. 
“Non rivanghiamo il passato ora. Sono qui, di nuovo nella tua vita se tu vorrai che ne faccia parte. Ginny è meravigliosa, i tuoi figli sono fantastici e sono davvero, davvero felice che tu ci sia riuscito. Non ho mai voluto altro che la tua felicità dopo che James e Lily erano morti e spero davvero che tu sia felice”. 
Harry annuì impercettibilmente abbassando lo sguardo come se fosse imbarazzato da quel discorso. La verità era che… Quelle parole lo avevano colpito come una ventata di aria fresca. Lungo il suo percorso aveva desiderato tanto sentire parole di quel tipo ma non c’era mai stato qualcuno che gliele dicesse. 
Meglio tardi che mai, suppose. 
L’abbraccio che seguì tra i due fu quasi inevitabile e del tutto naturale. Harry si sentì tornare quel ragazzino quindicenne spaventato ma anche determinato. 
I due vennero interrotti da Ginny e gli altri ospiti della casa che avevano deciso di raggiungerli sul portico. Si staccarono subito prima che qualcuno li potesse notare, ma l’occhio di Remus era stato più veloce; tuttavia il licantropo non disse nulla, si limitò a un sorriso impercettibile. 
La conversazione si spostò sul tavolo rotondo fuori dalla porta di casa, nella brezza estiva sotto il canto delle cicale, davanti ad alcune bottiglie di birra che Ginny aveva premurosamente preso dal frigo. Nessuno dei resuscitati aveva osato fare domande importanti finché stavano cenando, anche se premevano dal desiderio. La presenza dei ragazzi tuttavia li aveva frenati; non era il caso che sentissero parlare di guerre e morti di cui probabilmente non sapevano nulla, ed era giusto così. Ma adesso che James Sirius, Al e Lily erano rimasti dentro avevano osato. Perciò Harry si ritrovò a raccontare della ricerca degli Horcrux, della battaglia finale ad Hogwarts, dei segreti di Piton… Saltò anche molte parti: non disse nulla sul fatto che anche lui fosse stato un Horcrux, non disse del piano di Silente che prevedeva la sua morte, non disse che Piton era stato innamorato di sua madre fino all’ultimo - anche se non aveva potuto fare a meno di notare una certa tristezza negli occhi di Lily nel sapere del coraggio del suo ex migliore amico - e si premurò di tacere interamente la parte del dopoguerra che, per quanto lo riguardava, forse era stata anche più difficile della guerra stessa. Quella lo aveva quasi ucciso; riprendersi, curare le proprie ferite interne, seppellire i morti, andare avanti… 
Per Harry non fu facile ricordare quelle cose e per gli altri non fu facile ascoltarle. Solo le risate di Lily Luna e la voce calda di James Sirius che provenivano da dentro la casa gli permettevano di non dare in escandescenze. 

Teddy prese una birra dal frigo e si buttò sul divano vicino al suo coinquilino Sam impegnato a giocare alla playstation che non aveva nemmeno prestato attenzione al suo arrivo. Era così Sam, quando giocava entrava in un mondo interamente suo. Era capace di giocare anche per giornate intere quando non doveva andare al lavoro. 
Il ragazzo fissò lo schermo del cellulare mentre pensava a cosa fare. Si sentiva… idiota e confuso. In ansia persino. 
Sbloccò il telefono mettendosi subito a cercare la chat che aveva con Vicky.
Sono un coglione, le scrisse. 
Notò che Sam aveva abbandonato dell’erba sul piccolo tavolino di plastica di fronte al divano. 
“Posso prenderne un po’?” gli chiese.
L’altro ragazzo rispose con una specie di grugnito strano ma Teddy lo interpretò come una conferma. Si inginocchiò di fronte al tavolino e iniziò a rollare. Poi accese la canna con la bacchetta e inspirò un’ampia boccata, lanciando un’altra occhiata al telefono. Vicky non gli aveva ancora risposto. 

Harry si fermò vicino alla porta della stanza del secondogenito, osservando in silenzio il figlio immerso nella lettura di un libro, steso a pancia in giù sul letto. 
“Non stare alzato fino a tardi”, gli disse non appena questi si fu accorto del suo sguardo addosso. 

“Okay”.
Poi andò verso la camera di Jim, di fronte, che se ne stava in boxer, seduto sulla sedia della scrivania a guardare le foto di Instagram. Infine toccò a Lily Luna, già infilata sotto le coperte e  sprofondata nel sonno. Harry raggiunse il suo letto silenziosamente e la rimboccò fino al collo, spegnendo la lampada sul comodino e appoggiandole accanto il piccolo lupo di peluche che le era caduto a terra. 
Prima di andare in camera propria si assicurò di aver chiuso la porta d’ingresso. 
“Tutto a posto?” chiese ai genitori fermandosi sulla soglia della camera in cui stavano. Sirius gli passò accanto. 
“Sì”, rispose James. 
“Ho dovuto avvisare il Ministro… di quello che è successo. Ora è fuori città ma quando torna vorrà vedervi. Cercheremo di capire cosa è successo”. 
“Va bene”, fu la risposta di Lily. Sentiva che c’era altro che avrebbe voluto dire ma nessuna parola le veniva fuori. 
“Buonanotte”. 
Quando Harry si fu chiuso in camera propria con Ginny, James si buttò sul letto e tirò un lungo sospiro. 
“Davvero vogliamo dormire? Insomma, sono rimasta morta per quasi quarant’anni, non so se riuscirò a dormire”, esordì Lily andando alla finestra ma riuscendo a vedere ben poco col buio. 
“È un casino”, disse James.
“Comunque voi Potter sembra che vi facciano con lo stampino. Siete identici”. 
Il marito rise divertito. Lo aveva notato pure lui che in quella casa giravano tre copie inquietantemente uguali a lui, chi più giovane e chi più vecchio. 
Sirius si limitò ad augurate la buonanotte agli amici e ad andare in camera sua; non capiva perché ma si sentiva stanco e percepiva il bisogno di riflettere su tutto quello che era successo, su quello che aveva scoperto e… Be’, su quelle ultime ore. Dire che fosse sconvolgente era un eufemismo. Trovarsi il suo figlioccio più vecchio e con tre figli era… Non aveva nemmeno le parole per definirlo. 

“Harry, come stai?” chiese Ginny vedendo il marito stendersi sul letto dallo specchio di fronte al quale era seduta per togliersi il trucco. 
Harry non rispose subito; capiva a cosa la moglie si riferiva. Ma non sapeva cosa rispondere esattamente. 
“Bene”, disse allora.
“Non mentire”. 
Solo lei riusciva a leggergli dentro. Ma la verità era che non stava mentendo. Non era sicuro di stare interamente bene, ma non stava nemmeno male. Insomma, si sentiva strano. Nervoso, spaventato e… Be’, anche contento. 
“Non lo so, Gin. Di là ci sono i miei genitori che però hanno vent’anni meno di me e potrebbero essere i miei figli se consideriamo questo. Poi c’è Sirius che… Be’, è il solito Sirius. E Remus e Tonks? Non so come la prenderà Teddy, non so niente. Non so come sentirmi. Non sembra reale tutto questo”. 
“È reale, tesoro”. 
“Lo so, per ora”. 
Ginny si alzò e a piedi nudi raggiunse il marito salendogli a cavalcioni e guardandolo dall’alto con quello sguardo caldo e rassicurante. Harry le accarezzò le cosce scoperte, sollevando la corta camicia da notte e lasciando che lei lo confortasse con la sola presenza. La donna gli calò sulle labbra baciandolo teneramente. Solo quando il bacio divenne più intenso, Potter ribaltò le loro posizioni con un colpo di reni e la fece finire distesa di schiena sul letto. Lei rise e gli circondò il collo con le braccia. Lui si abbassò per baciarle il collo, mentre lei gli accarezzava il petto scolpito. 

*** 

Non mi sono dimenticata dell’aggiornamento domenicale, ho solo avuto altre cose da fare prima (tipo studiare). 
Devo dire che mi sono divertita molto a scrivere questo capitolo, specialmente la prima parte. E qui è entrato in scena anche James Sirius. Ho realizzato, durante la scrittura dei capitoli, che è piuttosto un casino coi nomi essendoci tutti questi omonimi, per cui James Sirius sarà perlopiù Jim e Lily junior sarà Lily Luna o Lils.
Che altro dire? Ah, spero non ci siate rimasti troppo male per l’assenza di Teddy, ma per come ho voluto dipingere il personaggio, ho sentito il bisogno di fare così. Non è una cosa facile andare a incontrare i propri genitori per la prima volta. Ma non preoccupatevi, ci sarà un capitolo dedicato tutto a loro. 

 
Comunque, più rileggo e più mi rendo conto di quanto ci sarà da dire e da raccontare in questa storia. E non sono ancora entrati tutti i personaggi ;)
Fatemi sapere che ne pensate e a domenica prossima (con un capitolo altrettanto lungo). 

C.

Altro capitolo abbastanza lungo e pieno di informazioni. 

ALTI E BASSI DELLA VITA

Ginny era seduta al tavolo della cucina quando Sirius, Lily e James scesero l’indomani mattina per la colazione. Era concentrata a fissare qualcosa su un oggetto rettangolare con una mela mordicchiata e luminosa al centro e non si era subito accorta della loro presenza.
Al era seduto accanto a lei in silenzio a guardare il telefono con una tazza di cereali vuota davanti a lui. Il tavolo era imbandito per la colazione. 
“Buongiorno!” li salutò la donna allegramente sollevando finalmente lo sguardo su di loro. “Dormito bene?” 
“Benissimo!” rispose Lily prontamente. Anche se aveva pensato che non sarebbe riuscita a chiudere occhio per tutta la notte, alla fine aveva ceduto, cullata dal leggero russare del marito. 
“Vi va del caffè?” 
“Oh sì!” fece Sirius sedendosi al tavolo. 
Con un leggero movimento di bacchetta Ginny riempì tre tazze di caffè fumante e le pose davanti ai suoi ospiti, avvicinando latte e zucchero. 
“Harry non c’è?”  
“È andato al lavoro presto stamattina”. 
Un’ombra di delusione sembrò passare sui volti dei tre, ma Ginny non aggiunse altro decidendo - semmai se ne fosse accorta - di ignorare quell’improvviso cambio di umore. 
In quel momento un James Sirius dal volto piuttosto assonnato si vide scendere le scale, piuttosto rumorosamente nonostante fosse a piedi nudi. 
“Jaimie, sei caduto dal letto?” gli chiese la madre chiudendo l’aggeggio rettangolare che stava guardando. 
“Perché?” chiese il ragazzo perplesso grattandosi una spalla. 
“Perché non ti alzi mai così presto”. 
“Presto? Sono le nove!” 
“Appunto”. 
Jim decise di ignorare la battuta - mentre gli altri se la ridevano sotto i baffi - e andò dritto verso il frigo tirando fuori un cartone di succo all’arancia per berlo a canna senza nemmeno degnarsi di prendere il bicchiere. 
“Non potresti bere come le persone normali?” fu l’immediato rimprovero del fratello. Quella era una cosa alla quale ormai doveva essere abituato, persino i suoi genitori ci avevano rinunciato a dirgli di prendere il bicchiere, o eventualmente il piatto, ma Albus non lasciava mai perdere. 
“Io non sono una persona normale”. 
“Certo, come no”, rispose tra sé e sé il più piccolo, tornando a concentrarsi sul suo telefono. 
“Ma’, io vado in piscina”, disse allora James riponendo il succo in frigo. 
“Mangia qualcosa prima. Ti ho preso dei cereali senza zucchero, sono in quella dispensa”. 
Jim aprì la dispensa che la madre gli aveva indicato e afferrò i suddetti cereali, versandoseli in una tazza e mangiandoli senza niente, a grosse cucchiaiate, restando in piedi vicino al lavandino. Sembrava che per lui la colazione fosse un orribile impegno che doveva sbrigare il prima possibile. 
Quando ebbe svuotato la scodella, si sciacquò mani e bocca e si diresse verso la porta d’uscita. 
“Bene, ora vado in piscina”. 
“Cos’è… quello?” chiese James senior quando vide Ginny riaprire lo strano oggetto rettangolare. 
“È un po’ complesso da spiegare…”, iniziò lei. “È un oggetto babbano, funziona un po’ come il cellulare che vi dicevo ieri. Solo che questo si chiama computer. Io lo uso anche per lavorare, gli articoli per la Gazzetta li scrivo qua”. 
“Quindi non esiste più la carta?” 
“Certo che sì. Ma li mettiamo anche… ehm, online. Insomma, con questi le persone possono leggere i giornali ovunque vogliano e gratis. Almeno, una parte”. 
“Davvero? Però voi non ci guadagnate niente”. 
“Ci guadagniamo dalle pubblicità. Magari appena ho un po’ più di tempo vi spiego come funziona”, concluse Ginny iniziando a riporre il cibo avanzato e far levitare le tazze vuote verso il lavello.
“Avete iniziato a usare molto questi oggetti babbani”, osservò Sirius. 
“Sì, ma è stata una cosa graduale. Anche i maghi hanno iniziato a notare che alcuni oggetti babbani sono più comodi da usare, soprattutto se amplificati con la magia. Poi in realtà è Harry che adora queste cose, soprattutto quelle più costose”. 
Sirius emise un verso tra l’apprezzamento e il divertimento, beccandosi un’occhiata incuriosita da James. 
In quel momento Albus si alzò da tavola mormorando che andava a fare i compiti e sparì verso le scale. 
“Da quanto siete sposati tu ed Harry?” chiese Black guardando verso Ginny che si stava alzando anche lei; aveva ancora indosso la camicia da notte ma sopra ci aveva messo una vestaglia. 
“Quasi vent’anni. Ci siamo sposati quando io avevo ventidue anni e un anno dopo abbiamo avuto James”. 
Ginny si riempì un bicchiere d’acqua e se lo bevve indecisa se raccontare anche il resto. Erano davvero successe troppe cose in quegli anni e non tutte erano belle. 
“Comunque, per aver avuto tre figli, hai davvero un fisico fantastico”, disse allora Lily togliendola da ogni impiccio. 
L’altra non potè fare a meno di ridere. “Ti ringrazio. Prima non avevo questi… be’, seni. Si sono ingrossati”. 
“Immagino. Mi ricordo che quando allattavo Harry facevo così tanto latte che…”, Lily si bloccò all’improvviso fissando l’altra donna temendo di aver detto qualcosa di troppo; dopotutto, non stava parlando più del suo piccolo bambino, ma di un uomo adulto, sposato e con figli e non conosceva Ginny così bene da averci tutta quella confidenza. 
Ma l’altra le sorrise comprensiva e divertita. “Lo so”, rispose la padrona di casa tornando a sedersi davanti ai suoi ospiti. “Anche se… - esitò prima di continuare - James non l’ho allattato”. 
Sotto le occhiate stranite di Sirius e del suocero, si affrettò a spiegare. “Ho sofferto di depressione post parto subito dopo averlo partorito”. 
“Depressione… cosa?” 
“È un disturbo abbastanza comune nelle donne che partoriscono. È una forma di depressione. Non facevo che starmene a letto a piangere e, credetemi, io non piango mai normalmente. Non riuscivo nemmeno a guardarlo, mio figlio, o prenderlo in braccio, figurarsi ad allattarlo. E come se non bastasse, James non riusciva a bere il latte in polvere. Era intollerante o allergico, qualcosa del genere. Per fortuna una delle mie cognate aveva anche lei da poco partorito quindi aveva ancora del latte e lo ha allattato lei”. 
Ginny aveva ancora terribili ricordi di quel periodo, quando Fleur aveva dovuto prendere in mano la situazione se non volevano lasciare che James morisse di fame. Da allora aveva dovuto smettere di chiamarla Flebo e di fingere di odiarla. Però il pensiero che la moglie di suo fratello Bill avesse allattato suo figlio la metteva ancora a disagio, anche se la cognata francese lo aveva fatto con estremo piacere, contenta di poter essere d’aiuto in quella famiglia che non l’aveva accolta subito bene. 
“Mi dispiace”, sussurrò Lily guardando l’altra con sguardo ferito. 
“Non ti preoccupare. È passato. La parte divertente di tutto questo è che avevo così tanto latte che mi esplodeva e nessuno che se lo prendesse. Il problema era che ero troppo giovane e non mi sentivo pronta ad avere un bambino. Harry non ha mai insistito, ha sempre lasciato a me la possibilità di scegliere. Ma sapevo che lui lo desiderava tanto, lui… Non lo so, sembrava nato per fare il padre, lo aveva fatto anche con Teddy”. A quelle parole Sirius e James non poterono fare altro che sorridere inteneriti e orgogliosi. “Non volevo ferirlo. Si è preso lui cura di James per diversi mesi e James non era affatto un bambino facile, piangeva spesso. E nel frattempo cercava di aiutare anche me che non riuscivo ad alzarmi dal letto e mi sentivo incompetente a fare la madre. Sapevo che avrei dovuto rinunciare a una parte della mia vita e credo sia stato questo a farmi più male. Adoravo giocare nelle Holyhead Arpies ma avere un figlio piccolo e andare agli allenamenti tutti i giorni e alle trasferte non erano cose che si potevano facilmente unire”. 
“E come hai fatto a… superarlo?” 
“Con l’aiuto di Harry, di mia madre, della mia famiglia. Ci sono stati tutti per me. Mi è passata così come mi è venuta. Ho ripreso a giocare e a prendermi cura di mio figlio”. Se le capitava di ripensarci, non poteva fare altro che sentirsi grata nei confronti del marito che non l’aveva mai giudicata né abbandonata, ma aveva portato pazienza e si era fatto molte ore piccole per stare dietro a James. E considerando tutto quello che aveva passato anche lui solo un paio di anni prima era stato fenomenale. 
“Due anni dopo è nato Albus”. 
“Albus?” 
“È il suo nome”. 
“Come Silente”. 
“Esatto”. 
Ginny evitò di dire il secondo nome che avevano scelto per il loro secondogenito; stando a quanto le aveva raccontato il marito, dell’inimicizia tra i Malandrini e Piton e l’amore di quest’ultimo per sua madre, forse non era ancora il caso di lanciare quella bomba. 
“Con Albus è stato più facile. Ma dopo aver avuto lui ho smesso di giocare. Volevo dedicarmi alla mia famiglia. E poi, diciamo che per chi si è già fatto un certo nome non è difficile trovare un altro lavoro soddisfacente. Mi hanno chiamata dalla Gazzetta per chiedermi di scrivere per la loro sezione di quidditch. E devo dire che è stata una delle cose migliori che mi siano capitate. Ho scoperto che c’era un giro di droga tra vari giocatori, anche quelli più famosi. La spacciavano dei maghi potenti e pericolosi. Nessuno voleva darmi corda, erano troppo spaventati di inimicarsi questi maghi. E non avevano torto. Quando hanno scoperto che gli stavo addosso hanno iniziato a mandarmi lettere di minaccia e pacchi esplosivi. Con due bambini piccoli in casa non era l’ideale. Ma Harry aveva capito quanto ne avessi bisogno e mi ha lasciata fare. Con le giuste precauzioni ovviamente. Avere un marito che fa l’Auror ha i suoi vantaggi”. 
“E com’è finita?” chiese James completamente preso dalla storia.
“Quando ho portato le prove concrete non potevano più ignorarmi. Quei maghi sono stati arrestati e io ho scritto il mio pezzo. Se ne è parlato per diverso tempo. Quando lo ritrovo ve lo faccio leggere”. 
“E dei giocatori che ne è stato?” 
“Sono stati squalificati per un po’ di tempo e mandati in riabilitazione. Non era nemmeno del tutto colpa loro. Questi maghi li convincevano a comprare la droga e a usarla”. 
“Wow! Che storia!” commentò James, mettendosi più comodo sulla sedia. Si stava appassionando a tutte quelle vicende. 
“E Lily, invece?” chiese Sirius, curioso di sapere qualcosa anche della più piccola di quella casa. 
“Lily è nata due anni dopo Al. Il suo è stato il parto più difficile. Lei è nata prematura e io ho avuto un’emorragia. Siamo quasi morte entrambe”. 
Ginny lasciò i suoi ascoltatori completamente a bocca aperta. Ma il fatto che ne stesse parlando tranquillamente e con un tono di voce calmo indicava che in realtà era tranquilla riguardo la questione. 
“Siamo qui entrambe però, quindi non preoccupatevi”. 
La signora Potter si alzò nuovamente da tavola con l’intenzione di interrompere le sue chiacchiere. Le sembrava di averli già sconvolti abbastanza, non era il caso di dire anche che forse lei e Harry non avrebbero più potuto avere figli e tante altre cose che li avrebbero fatti solo soffrire. Erano appena tornati dalla morte, in un periodo completamente diverso da quello che conoscevano loro; a dire il vero non sapeva nemmeno perché si era messa a raccontare tutto quello, forse perché quelle tre persone non erano completamente sconosciute, anzi. 
Ma c’erano altre cose che ancora non era il caso che sapessero e non era nemmeno un diritto suo raccontarle. 
“Io ho un po’ di lavoro da finire. Fate come foste a casa vostra. Sul retro c’è una piscina se volete prendere il sole. E se avete bisogno di me sarò in ufficio, al secondo piano”. Detto quello, Ginny andò verso le scale lasciando i suoi ospiti. 
“Non so voi, ma io andrei a vedere quella piscina”, annunciò James, alzandosi di scatto anche lui dal tavolo e dirigendosi verso la porta. Sirius e Lily lo seguirono, più per mancanza di altre cose che avrebbero potuto fare che per vero interesse. 
Fecero il giro della casa e si ritrovarono sul retro, dove una piscina lunga all’incirca sette metri capeggiava al centro del prato curato. Sul bordo erano disposte alcune sdraio e, un po’ più lontano, un piccolo tavolino rotondo. In fondo al giardino erano piantati anche cinque bassi alberi di noci e su uno si poteva intravedere una casetta di legno. 
I tre rimasero sbigottiti; la domanda silenziosa che lampeggiava nelle teste di tutti era il costo di tutto quello e, soprattutto, il patrimonio che doveva detenere Harry - ma anche Ginny - per potersi permettere tutto quello. Anche se gli avevano lasciato un’eredità cospicua non era certamente sufficiente per mantenere una proprietà del genere. E chissà cos’altro possedeva che ancora non avevano visto. 
Ma prima di poter esprimere qualsiasi pensiero ad alta voce, furono distratti da una figura che nuotava avanti e indietro nella piscina, schizzando acqua ovunque: James Sirius si stava dando allo stile libero e poteva tranquillamente avvicinarsi a un campione olimpionico. Il ragazzo si fermò d’improvviso a bordo piscina, appoggiandosi con le braccia fuori dall’acqua. Afferrò un oggetto piccolo e nero - un orologio da polso - e guardò lo schermo. 
“Settantacinque vasche in mezz’ora”, disse il ragazzo.
“È un bel tempo”, fece James senior avvicinandosi. 
“Dici? Si può fare di meglio”. Il ragazzo si puntellò sulle mani per uscire con un colpo di reni dall’acqua, gocciolando come un vestito bagnato. Si avvicinò a una sdraio per afferrare l’asciugamano e buttarselo in testa. Quando ne riemerse aveva i capelli sparati in tutte le direzioni. Per essere così giovane e in età da scuola aveva un fisico che persino ragazzi più grandi di lui avrebbero potuto invidiargli, con pettorali e addominali se non scolpiti comunque ben marcati, le braccia coi bicipiti in evidenza e le gambe e il sedere tonici. Nessun giocatore di quidditch a Hogwarts aveva quel fisico. 
James Sirius si sedette sulla sdraio con l’asciugamano poggiato sulle spalle. Poco dopo una piccola Lily emerse salendo da delle scalette in pietra che sembravano portare a una piccola porta di legno consumato. 
Li raggiunse reggendo in mano uno skateboard. 
“Mettiti il casco, Lils”, la ammonì il fratello. 
"Ma il casco mi dà fastidio”, si lamentò la sorellina che esibiva delle belle sbucciature sulle ginocchia scoperte. 
“Non deve starti comodo, deve proteggerti”. 
“Andiamo al parco da skate dopo?” chiese la piccola, ignorando totalmente le parole del fratello. 
“Va bene ma solo se prendi il casco”. 
Lily alzò gli occhi al cielo ma si decise finalmente a fare come le era stato detto. 

Ginny, dalla piccola stanza che avevano adibito ad ufficio, guardava dalla finestra i suoi figli parlare e divertirsi con James, Sirius e Lily. Naturalmente non era mai stata sua intenzione perderli di vista, voleva solo vedere come se la cavavano senza la sua sorveglianza e, da quanto poteva giudicare, per ora era tutto a posto. 
Era incredibile che cinque persone fossero tornate in vita, così, inspiegabilmente, e che si comportassero come se nulla fosse successo, senza sembrare nemmeno un po’ sconvolti o confusi. E allo stesso tempo non poteva fare a meno di pensare che, chissà, magari avrebbe rivisto anche Fred. 
La donna tornò a rivolgere l’attenzione all’articolo che stava scrivendo, lanciando un’occhiata ai due Ordini di Merlino prima classe incorniciati sopra la scrivania che lei e Harry avevano ottenuto per i servigi resi nella guerra contro Voldemort.

Lily Evans risalì le scale verso la stanza che condivideva col marito. Aveva abbandonato gli altri due insieme a James e Lily - i suoi nipoti avrebbe dovuto dire - per andare a farsi una doccia. In realtà era solo una scusa, aveva iniziato a sentirsi improvvisamente a disagio stando con gli altri. Aveva ventun anni, era morta a ventun anni, e ora improvvisamente si ritrovava viva, nel duemila venti, con un figlio più vecchio di lei e tre nipoti. 
Non sapeva nulla di loro, di quella casa, di quel mondo. Non sapeva se la sua vita sarebbe tornata come una volta - certo che no - o se avrebbe avuto una vita normale. Forse avrebbe dovuto nascondersi e cambiare identità. 
Stava per svoltare verso il bagno quando si accorse di Albus da solo nella propria camera, la porta lasciata spalancata. Era seduto a gambe incrociate sul letto, assorto completamente da un libro. 
“Ehi!” lo salutò lei piano, quasi senza accorgersi di essersi avvicinata alla soglia. 
Lui spostò gli occhi su di lei senza cambiare espressione. “Ciao”. 
“Cosa leggi di bello?” gli chiese. 
“Ehm… Il signore degli anelli. Conosci?” 
Lily scosse il capo, entrando anche se non era stata invitata. Ma qualcosa in lui aveva attirato la sua attenzione. 
“Di cosa parla?” 
“È un po’ complicato. Ci sono tre Hobbit - che sono delle creature inventate da questo autore - che partono per una spedizione con dei nani, un elfo e degli umani per portare un anello magico in un posto dove dovrebbe essere al sicuro. E con loro c’è anche un mago che li aiuta. Ma l’autore è babbano, quindi tutta questa roba per lui non può esistere davvero. I babbani lo chiamano fantasy”. 
“Magari quando lo finisci me lo presti”. Non gli disse che conosceva bene quel genere, c’era anche nella sua epoca ma lei aveva sempre preferito i classici, tipo Piccole donne e Orgoglio e pregiudizio.
“Certo”. Le sorrise il ragazzo. 
Lily si guardò attorno, curiosando con gli occhi per la stanza: sullo scaffale c’erano diversi libri tra cui alcuni di scuola, la scrivania era piena di pergamene e un paio di piume, il baule era chiuso in un angolo e appesa all’armadio c’era la divisa di Hogwarts con la cravatta verde-argento. 
“Posso?” gli chiese lei poggiando gli occhi su un piccolo libro appoggiato sul comodino, dalla copertina scura con uno strano simbolo rappresentante delle stelle intrecciate racchiuse in un cerchio. Sotto, bello grande, si leggeva Necronomicon.  
Lily aprì la copertina sulla prima pagina e in alto, scritto a matita, lesse “Proprietà di Albus Severus”. La ragazza strabuzzò gli occhi. 
“Severus? Il tuo secondo nome è Severus?” chiese con voce un po’ troppo stridula. 
“Ehm, sì. Ho un nome un po’ particolare, lo so. Per questo preferisco che mi chiamino Al”. 
Non era per quello, avrebbe voluto rispondergli; Severus Piton. Il suo migliore amico. Ex migliore amico. Suo figlio aveva chiamato uno dei suoi figli Severus. Non poteva essere una coincidenza. Voleva sapere, doveva sapere. Ma chiedere a quel ragazzo non le sembrava l’idea migliore, di certo lui non poteva saperne molto. Avrebbe dovuto parlare con Harry. 
Decise di distrarsi sfogliando un paio di fumetti che intravide sullo scaffale, uno dei quali aveva uno stile piuttosto particolare e sembrava che dovesse essere letto al contrario. Quando lo rimise via notò che il ragazzo la stava guardando. Si scontrò con i suoi occhi identici ai propri. 
“Che anno frequenterai ad Hogwarts?” gli chiese allora per avere qualcosa di cui parlare.
“Il quarto”. 
“Sei ancora lontano dai G.U.F.O. allora”. 
“Per ora”. 
“E sai già cosa vorresti fare dopo?” 
“Non saprei…”. 
“In cosa sei bravo? Insomma, cosa ti piace? Cosa ti riesce meglio?” 
Niente. Avrebbe risposto Al. Non era bravo nel quidditch come suo fratello e sua madre, anzi, soffriva persino di vertigini, non era intelligente come Teddy o esperto in pozioni come il suo migliore amico e non sapeva nemmeno destreggiarsi con la bacchetta come faceva suo padre. Al si sentiva un completo fallimento su tutti i fronti. Ma questo non era il caso di dirlo a quella donna appena conosciuta, anche se si trattava di sua nonna. Nonna. Che strano termine da usare per una persona così giovane. 
“Non saprei”, rispose di nuovo. 
Lily gli sorrise. “Non ti preoccupare. Hai ancora tempo”. 
Tempo, certo. Peccato che molti altri avevano già capito chi erano e cosa volevano da molto prima; suo padre affrontava i draghi in un torneo mortale alla sua eta. 
A lui piaceva solo leggere e giocare ai videogiochi. Spesso immaginava delle cose, delle storie ma quello non si poteva certo chiamare talento o comunque non un talento utile. 

“Non sapevo tornassi per pranzo”, disse Ginny scendendo dalle scale quando vide la figura del marito china sul tavolo da cucina. 
“Non mi fermo infatti”, rispose lui. Nel frattempo anche Lily li aveva raggiunti dopo essersi fatta la doccia e Sirius e James erano appena rientrati in casa, seguiti da Jim e Lily junior. 
“Infatti non mi fermo. Sono solo venuto a portare delle cose”, Harry aprì una borsa di cuoio e ne estrasse due scatole lunghe e rettangolari che appoggiò sul tavolo. 
Le aprì rivelando due bacchette appoggiate su un panno rosso. “Queste sono vostre”, disse guardando i suoi genitori. “Il Ministero custodisce sempre le bacchette dei maghi… deceduti. Se le ritrovano, quantomeno”. 
Lily e James Potter si avvicinarono al tavolo senza fretta, come se temessero di svegliare una creatura che dorme, e osservarono le loro bacchette leggermente sorpresi. Riconoscendo ciascuno la propria, la presero in mano lasciando che la magia li inondasse completamente. Privare un mago della sua bacchetta era come privarlo di un braccio. 
“La tua, Sirius, purtroppo non è mai stata ritrovata dopo che sei… Be’, ecco… Faremo in qualche modo, non ti preoccupare”, aggiunse Harry rivolto al padrino. Questi gli sorrise come per dirgli di non preoccuparsi, ma la verità era che si sentiva un po’ geloso e infastidito. Anche lui voleva la sua bacchetta, altrimenti era completamente indifeso e inutile. Avrebbe dovuto fare tutte le cose alla babbana. 
“Devo passare da Andromeda”, disse poi Harry richiudendo la borsa. “E poi andare ad Azkaban”. 
“Come ad Azkaban?” fece Ginny in tono improvvisamente preoccupato. 
“Devo interrogare un prigioniero”. 
“E devi per forza farlo tu?” 
“Non posso delegare, lo sai. Andrà tutto bene, ci vediamo stasera. Okay?” Le diede un leggero bacio sulla fronte e cominciò ad andare verso la porta. 
“Ricordati che vengono Ron ed Hermione a cena”, disse spettinando i capelli dei due figli rimasti vicino alle scale, in segno di saluto. 
“Ciao”, lo salutò la madre prima che sparisse nuovamente fuori.    

*** 

Tutti questi primi capitoli, chiamiamoli prima parte, saranno un po’ così: scene molto leggere di banale vita domestica. I resuscitati devono abituarsi alla loro nuova vita prima che si possa entrare nell’azione.
Ditemi cosa pensate di Albus da tutti questi nuovi piccoli elementi ^^. E in generale fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto, dico anche a voi lettori silenziosi. Non mordo eh, al massimo pungo. 

Un bacione,
C.

WEASLEY-POTTER-GRANGER

Una voce squillante ma piuttosto familiare, sicuramente femminile, arrivò alle orecchie di Sirius mentre scendeva le scale della casa di Harry e Ginny e capì  che doveva provenire da una donna che - per quanto la ringhiera gli permettesse di vedere - stava in piedi di fronte al suo figlioccio sprofondato nel divano, le braccia appoggiate allo schienale e le gambe divaricate in posizione di riposo.
La chioma di capelli ricci e castani, tenuti legati in uno chignon spettinato, era però inconfondibile.
Sembrava piuttosto impegnata in una conversazione animata e importante con Harry. Quest’ultimo invece la guardava piuttosto divertito a giudicare dal sorrisetto sulle labbra. 
Sirius si fermò dietro ad Hermione - l’aveva riconosciuta in un attimo - senza che questa se ne accorgesse, almeno finché non vide gli occhi di Harry spostarsi alla sua destra. Con sguardo curioso si voltò anche lei in quella direzione e spalancò occhi e bocca sorpresa nel trovarselo lì davanti, anche se era stata ben informata del ritorno dal regno dei morti di alcune persone. 
“Sirius!” 
“Hermione! Non sei cambiata poi così tanto”. 
I due rimasero a guardarsi per qualche istante, indecisi su cosa dirsi o come salutarsi appropriatamente. Qualsiasi parola ad Hermione sembrava poco consona o fuori luogo. Cosa si poteva dire a qualcuno che tornava dalla morte? 
Fu Sirius a togliere entrambi da quell’impiccio, aprendo le braccia in una muta richiesta di abbraccio; Hermione si lasciò accogliere senza opporre resistenza e lo strinse forte ricordando quando, anni e anni prima, quell’uomo le aveva fatto provare un po’ paura, un po’ soggezione ma anche tanto rispetto. 
Un tossicchiare dietro di loro annunciò che anche James e Lily si erano uniti alla scena e ora li stavano guardando piuttosto perplessi. 
I due si staccarono di colpo e la donna poggiò subito gli occhi sui nuovi arrivati, esitando su James con sorpresa nello sguardo. 
“Lo so, la somiglianza con Harry è quasi inquietante”, disse Sirius divertito. 
“Direi più con l’altro James”, rispose Hermione. “Comunque, io sono Hermione Granger”, si presentò poi porgendo la mano ai due. 
“Oh porco Salazar!” esclamò all’improvviso Black con in mano una piccola spilla rotonda trovata sul tavolino da caffè che fissava come fosse un oggetto più unico che raro. “Ti candidi a Ministro della magia?” 
“Be’, sì… quella è l’idea”, rispose Hermione leggermente in imbarazzo. 
La spilla che Sirius teneva in mano recitava infatti Granger, Ministro della Magia. 
Anche Lily e James le guardarono, più curiosi che altro, ma anche consapevoli di starsi trovando di fronte a una figura importante in quel momento. 
“E quando succederà?” 
“A dicembre ci saranno le elezioni”. 
“La cena è pronta!” li interruppe in quel momento la voce di Ron che aveva aiutato la sorella a preparare da mangiare. 
Anche quella sera la cucina, nonché la tavola della casa Weasley-Potter, era affollata perché si erano nuovamente aggiunti Remus, Tonks e Andromeda e in più c’erano anche i figli di Hermione e Ron. 
Quando Sirius aveva posato gli occhi su Rose era rimasto esterrefatto; scoprire poi che la ragazza aveva solo quattordici anni lo aveva quasi destabilizzato. Non è che la ragazza portasse male la sua adolescenza, erano il portamento, il modo di vestire, di atteggiarsi, di parlare e anche il trucco - ombretto, eyeliner, mascara - tutto l’insieme, per quanto fosse elegante e perfettamente curato, bello da vedersi e persino sexy, le dava un’aria eccessivamente matura e costruita. 
Hugo, invece, era un bimbo timido di undici anni e, anche se aveva solo un anno in meno della piccola Lily, sembrava decisamente più giovane. Quindi, il contrario della sorella. Come lei aveva i capelli rossi - eredità del ramo paterno - e piccole lentiggini che gli costellavano il naso e parte del viso, dandogli quell’aria innocente, adorabile e dolce, accentuato ancora di più dai grandi occhi color cioccolato. 
Nè Rose né Hugo somigliavano ai genitori, indice che alle volte la mela può cadere lontano dall’albero - anche se invece ciò non riguardava i figli di Harry e Ginny. 
“Jim, metti via il telefono”, disse Harry rivolto al figlio intento a scrivere a qualcuno. 
Il ragazzo non disse niente limitandosi a riporre il telefono quando la cugina, seduta accanto a lui, gli afferrò la mano per guardare lo schermo. 
“Chi è Veronica?” chiese canzonatoria. 
“Non sono affari tuoi”, le rispose l’altro senza scomporsi minimamente. Bloccò il telefono e lo ripose in tasca. “Dovresti imparare a non ficcare il naso nelle cose altrui”. 
“Lo faccio solo perché mi preoccupo per te. Non vorrei mai fosse un’altra Shannen”. Il tono preoccupato di Rose non poteva risultare più fasullo eche  lei faceva apposta a marcare. 
Si beccò un’occhiataccia da parte della madre che venne ignorata totalmente. 
“Che c’è, cugina, sei gelosa?” ribatté allora James senza scomporsi, portandosi le braccia dietro la testa e guardando l’altra malizioso. 
Tutti si ricordavano la storia di Shannen, una delle poche cose che aveva sconvolto James Sirius un paio di anni addietro. Non sarebbe stata facilmente dimenticata. 
“Ti piacerebbe”. 
Gli altri presenti, specialmente i Malandrini, assistevano a quella scena divertiti, cercando di trattenersi dallo scoppiare a ridere. 
C’era un’aria allegra, e quel siparietto non faceva che alleggerire l’atmosfera. Solo una cosa stonava, si percepiva l’assenza dell’unica persona che avrebbe dovuto trovarsi lì quella sera. Ma Teddy ancora non si presentava e nessuno osava nominarlo. 
“Comunque, davvero, la situazione della campagna elettorale sta diventando pesante…”. 
“Hermione, possiamo parlarne dopo cena?” 
C’erano solo due cose che Harry odiava si facessero a tavola: usare i telefoni e parlare di politica. 
Perciò la sua famiglia e gli ospiti si premuravano di non farlo mai. Anche se per Hermione era difficile uscire dal suo ambiente che respirava circa ventiquattro ore su ventiquattro.
“Harry, lo sai vero che quest’anno tocca a te organizzare la grigliata degli Auror?” si intromise Ron servendosi del purè. 
A quel punto Harry sbiancò. “Ah”. 
“Te lo eri dimenticato?” 
“Certo che no!” mentì il moro con un sorriso di circostanza. 
“Che cos’è la grigliata degli Auror?” chiese Tonks con la migliore espressione da bambina curiosa che poteva avere. 
“È una grigliata che organizziamo tutti gli anni, in estate”, spiegò Ron pazientemente. “Facciamo a turno, per estrazione. Sostanzialmente stiamo tutto il giorno a mangiare e bere birra. Quest’anno tocca a Harry”. 
“Perché queste cose non le facevano ai nostri tempi?” si lamentò James guardando verso Lily e Sirius. 
“Perché eravamo troppo impegnati a combattere Vold…”, fece per rispondere Lily bloccandosi tutto d’un tratto con la bocca ancora aperta nell’intento di finire la frase e, raggelata, passò lo sguardo su tutta la tavolata; i più piccoli la osservavano più con curiosità che altro, ma Harry teneva lo sguardo basso con Hermione che cercava di osservarlo di sottecchi come per accertarsi che stesse bene. 
“Buono questo arrosto, Ginny! Dove lo hai preso?” si intromise a quel punto Andromeda, interrompendo il silenzio che si era venuto a creare e cercando di riportare l’atmosfera alla normalità. Lily gliene fu grata, ma si beccò un’occhiataccia da parte di Remus. 
“Comunque non capisco perché non posso sottrarmi a questa cosa. Non dovrei avere dei vantaggi visto che sono il capo?” si lamentò Harry, tornando a parlare della grigliata degli Auror. 
“Le regole sono regole, amico. Nessuno si sottrae. Comunque, ti darò una mano, non ti preoccupare”. 
“Avrei preferito non avere trenta persona che bazzicano per casa mia”. 
“Ma sono i tuoi sottoposti!” 
“Appunto! Ho una dignità da mantenere”. 
Ron sghignazzò. “Dignità! Certo, come no”. 
Harry effettivamente non poteva dare torto all’amico; la dignità l’aveva persa diversi anni prima quando aveva fatto la cazzata più grossa della sua vita. Ma non era quello il momento di rivangarlo. 
Piuttosto cercò di godersi la cena e le chiacchiere degli altri, provando a calmare la tensione che sentiva dentro da ormai qualche giorno; da quando Sirius e i suoi genitori erano tornati in vita ad essere precisi. 

It's just another night
And I'm staring at the moon
I saw a shooting star
And thought of you

Teddy prese una vecchia coperta dal bagagliaio della macchina - quella che teneva sempre lì dentro per ogni evenienza - e la distese per terra, sul prato fresco d’estate.
Vicky vi si sedette sopra piegando le gambe e aspettò che l’altro si sistemasse accanto a lei. Il ragazzo si sedette a gambe incrociate e prese la chitarra che aveva lasciato appoggiata a terra.
Lui e Vicky qualche volta andavano su quella collina, soprattutto d’estate, si sedevano sulla vecchia coperta che Teddy teneva sempre in macchina - trovata nell’armadio di nonna Andromeda - e restavano lì per un po’, abbracciati a guardare le stelle. Era il loro modo per isolarsi, per fuggire dal caos delle loro case, dalle famiglie, dai pensieri, dagli impegni e godersi la natura, il canto dei grilli, il silenzio, le stelle. Quella sera il cielo aveva deciso di regalare loro tante stelle, la luna probabilmente andata in sciopero perché non si vedeva nemmeno uno spicchio.
Teddy poi si portava sempre dietro la sua chitarra per cantare insieme, una cosa che adoravano fare fin da bambini. 
Vicky aveva una voce bellissima - le diceva sempre il suo ragazzo. In realtà glielo dicevano tutti, ma quando lo diceva lui era diverso. 
Quindi Teddy prese la chitarra e punzecchiò qualche corda, il primo accordo della canzone che voleva suonare per Vicky, quella canzone un po’ triste che parla di stelle e di lunghe distanze, di mondi diversi in cui due amanti non si possono mai incontrare. 
“You were lying next to me / I looked across and fell in love / So I took your/ hand / Back through lamp lit streets I knew”. 
Teddy aveva una voce calda e dolce, perfettamente intonata. Non si sarebbe mai stancata di ascoltarlo cantare, o di cantare insieme a lui. Ma quella era la canzone di Teddy e lei lo lasciava cantarla guardandolo con gli stessi occhi con cui lo aveva guardato quando aveva capito che se ne era innamorata, anni fa. 
All’improvviso gli toccò la mano, leggermente, un tocco quasi impercettibile, e lui si fermò. Osservò la mano bianca della ragazza con le unghie curate e poi spostò gli occhi sul suo viso. Vicky lo guardava con due occhi castani che sembravano volergli sondare l’anima. 
“Teddy…” lo chiamò la ragazza. Teddy le prese la mano e aspettò che continuasse a parlare. “Non abbiamo più parlato di quello che mi hai scritto l’altro giorno”. 
Teddy sapeva a cosa si riferiva e non gli serviva la sua mente geniale per capirlo. 
“Perché non sei ancora andato a conoscerli?” 
Il ragazzo spostò la chitarra e sospirò guardando la coperta le cui decorazioni geometriche erano diventate improvvisamente interessanti. 
“Non… non lo so. Io-io non me la sento”. 
“Perché, Teddy? Non mi dicevi sempre tu che alle volte ti mancavano? Anche se non li avevi mai conosciuti, ti mancavano e avresti dato qualsiasi cosa per stare almeno cinque minuti con loro”. 
Era vero, da piccolo lo aveva detto. Poi, crescendo, si era auto-convinto che non fosse così, che lui non aveva bisogno dei genitori. Non poteva mancargli qualcuno che non aveva mai conosciuto. Ma era solo l’illusione che usava per stare meglio perché mai e poi mai era riuscito a superare quella mancanza. Nemmeno ora. 
“Ho paura, Vic. E se non gli piacessi? Se rimanessero delusi?” 
“Teddy!” esclamò la ragazza stizzita. Prese entrambe le mani del ragazzo e gli si avvicinò di più guardandolo negli occhi. “Che cosa stai dicendo? Come potrebbe mai succedere? Sono i tuoi genitori e scommetto che non aspettano altro che vederti. E poi, guardati, sei fantastico! Sei bellissimo e sei intelligente e studi una cosa che li renderà sicuramente orgogliosi. Ma anche se lavorassi in un negozio di Nocturn Alley, a loro andrebbe bene lo stesso. Sono i tuoi genitori, Teddy”. 
Vicky aveva ragione e Teddy sapeva di sbagliare a pensare quelle cose e di essere anche un po’ sciocco, eppure era fatto così: si faceva paranoie inutili. 
“Che razza di Grifondoro sei?” lo prese in giro lei. 
“L’ho sempre detto che sono un Tassorosso mancato”. 
Teddy si stese a terra allungando un braccio per far accomodare la ragazza che non aspettò altro che di potersi stendere tra le sue braccia. 
“Lo so, hai ragione. In ogni caso questo weekend devo andare a un convegno a Cardiff per cui ci penserò appena torno”. 
“Promesso?” 
“Promesso”. 
Teddy si girò verso Vicky e rimase incantato a guardarla. Nella fioca luce delle stelle riusciva a vederla poco, ma anche con quella poca illuminazione si poteva notare quanto fosse bella. Semplicemente e genuinamente bella. 
La ragazza - che fino a quel momento era rimasta con lo sguardo rivolto al cielo - si accorse che Teddy la guardava e si voltò anche lei verso di lui. E gli sorrise. 

La giovane donna si sistemò i lunghi capelli neri e ricci dietro le spalle, riflettendosi nello specchio ovale posto all’ingresso della casa povera e dalle pareti sporche e consumate. 
Sorrise al proprio riflesso che le mostrava un volto cinereo su cui spiccavano due occhi scurissimi, intensi e un paio di labbra spesse e leggermente arrossate. 
Per ora le cose sembravano procedere bene, stava seguendo il piano alla perfezione e non c’erano stati intoppi. Tutto nella norma. Il procedimento però richiedeva ancora diverso tempo, diverse cose da fare e non poteva distrarsi nemmeno un attimo. 
Attraverso il riflesso dello specchio vide Patrick avvicinarlesi e circondarle la vita con le braccia. Il ragazzo affondò il viso nell’incavo del suo collo, aspirandone il profumo. 
Aveva voluto seguirla a tutti i costi, persino in quella topaia di Little Hangleton. Patrick poteva anche avere l’aspetto, il volto di un uomo, ma dentro era rimasto sempre quel ragazzino incapace che le correva appresso come un cagnolino perché da solo non riusciva a fare nulla. Ma forse in qualche modo ne avrebbe ricavato qualche utilità. 
Lei però non ricambiò in alcun modo quel suo slancio d’affetto. Rimase a fissarsi allo specchio, sorridendo con soddisfazione. 

***

E qui entrano in scena anche Hermione e i piccoli Weasley. Se qualcuno è rimasto deluso da come ho deciso di caratterizzare Hugo e Rose, mi dispiace, ma non mi andava di fare delle piccole copie Weasley-Granger. Chiedo scusa anche a Johanne per aver deliberatamente e grandemente sputt*nato i suoi personaggi XD 

Ah sì, c’è anche Vicky. Vicky come ve la siete immaginata leggendo il settimo libro? 
Per il resto, non aggiungo altro perché rischio di parlare troppo. Fatemi sapere voi cosa ne pensate. 

Un bacio,
C.

NOTA: la canzone che canta Teddy (e i versi scritti all'inizio di quel paragrafo) è di Ed Sheeran, si intitola All of the stars. Presumo la conosciate tutti ma vi metto il link lo stesso perché è bellissima. 

Il ministro della magia e il parco da skate 

Il Ministro della Magia, Ferdinand Sigismund Lutz, guardava quei cinque volti che ora gli sedevano di fronte nel suo ufficio come se vedesse dei fantasmi. Il che in un certo senso poteva essere vero. 
Era arrivato alla veneranda età di 65 anni ma mai aveva potuto vedere qualcosa di simile nella sua vita; mai aveva pensato di poter vedere qualcosa di simile. Cinque persone che tornano in vita: un miracolo o una pazzia. 
Si ricordava bene - dopotutto lui all’epoca aveva una quarantina d’anni, ma non aveva preso parte alla guerra contro Voldemort - della triste vicenda di Lily e James Potter e del piccolo Harry che aveva sconfitto Lord Voldemort salvando l’intero mondo magico. Per ben due volte. 
E ora proprio quel Salvatore del Mondo Magico sedeva nel suo ufficio, sul bracciolo del suo divano bianco e lo guardava con un’espressione indecifrabile. Quell’uomo gli aveva sempre messo una certa soggezione e lui era il Ministro della Magia. Poco distante da lui c’era anche Hermione, a capo dell’ufficio dell’applicazione della legge sulla magia. 
“Per ora, l’unica soluzione che posso darvi è di stare al sicuro a casa del signor Potter”, disse il Ministro massaggiandosi la radice del naso. “Come avete fatto. Cerchiamo di non farvi scoprire, altrimenti la stampa impazzirà. E non sarà una bella cosa”. 
“Ma per quanto tempo?” chiese James, la voce quasi lamentevole. 
Merlino, quanto era giovane!, riusciva solo a pensare Ferdinand Sigismund Lutz.
“Ovviamente è una soluzione a breve durata, me ne rendo conto. Ma ora come ora non c’è molto che possiamo fare. Voi dovete stare al sicuro e noi… capire cosa è successo. D’accordo?” 
James scrollò le spalle e si buttò contro lo schienale della sedia. Il Ministro li congedò e si dovettero rassegnare ad abbandonare l’ufficio senza aver ricevuto alcuna sostanziale risposta. 
“Potter, Granger, ho bisogno di parlare con voi ancora un attimo”, disse l’anziano guardando verso i suoi due dipendenti. 
“Aspettatemi qui fuori”, disse Harry ai cinque che abbandonarono l’ufficio. 
Hermione e Harry tornarono a fronteggiare il Ministro. 
“Questa cosa è… Incredibile”, disse Ferdinand senza guardare i due. Da come si torturava ancora la radice del naso sembrava fosse in procinto di sviluppare un mal di testa.
Non arrivò alcuna risposta dagli altri due.  
“Non so se dobbiamo considerarla positiva o negativa”. 
Harry corrugò il viso appoggiandosi sul bracciolo della poltrona prima occupata da James. 
Finalmente il Ministro alzò lo sguardo sui due e notò subito l’espressione del capo degli Auror. 
“Voglio dire… Non è mai accaduta prima d’ora e… Non sappiamo esattamente cosa sia. Potrebbe trattarsi di magia oscura”. 
“Lo sappiamo, Ministro, stiamo concentrando tutte le nostre forze su questo avvenimento”, gli rispose Hermione. Harry fissava il pavimento. 
“Dobbiamo aspettarci… qualcun altro che torna dai morti?” 
“Non lo so, Ministro. Purtroppo non abbiamo alcuna idea”. 
“D’accordo. Potete andare allora. E cerchiamo di tenere questa cosa lontana dalla stampa, almeno per ora”. Sapeva bene, il Ministro, che era impossibile tenere qualcosa lontano dalla stampa, e un avvenimento del genere non sarebbe mai passato in sordina. 
“E tenetemi aggiornato”. 
Dopotutto, Lutz era ormai alla fine del suo mandato e, qualsiasi cosa fosse accaduta, ci avrebbe pensato il prossimo Ministro in carica, chiunque egli fosse stato. 
Harry ed Hermione uscirono dall’ufficio e ritornarono dagli altri che li avevano aspettati tutto quel tempo in corridoio. 
“Vi accompagno a casa”, disse Harry in un tono che gli era uscito più stanco di quello che avrebbe voluto. 

Teddy stava guidando sulla superstrada che conduceva da Cardiff a Londra. Era partito da mezz’ora e lo aspettavano ancora un paio d’ore di strada, se il traffico non lo tradiva. Ma il traffico britannico tradiva sempre. 
La sua Chevrolet Impala del ’67 procedeva a passo spedito, facendo lo slalom ogni tanto tra le auto che procedevano più lentamente; il ragazzo si stava lasciando cullare dall’aria condizionata e dalla cassetta dei Green Day che aveva messo nel mangianastri - una band che non ascoltava da un po’ ormai - e guidava quasi senza far troppo caso alla strada, perso com’era nei propri pensieri. 
Era arrivato il momento di smettere di rimandare e di incontrare i suoi genitori. Lo voleva e sapeva che anche loro lo volevano. Sua nonna glielo aveva chiaramente fatto intendere quando gli aveva telefonato per dirgli che aveva avuto la sensibilità di un Erumpent a non essersi presentato alla cena. 
Aveva una paura terribile - non sapeva nemmeno lui di cosa esattamente - che si mescolava all’emozione e tutto quel cocktail di sentimenti lo agitava in una maniera assurda.
Ancora non gli sembrava vero. Non aveva smesso di pensarci, nemmeno alla conferenza che lo avevano costretto a seguire nell’ospedale babbano di Cardiff sulle cellule staminali. Per fortuna aveva registrato col cellulare così la poteva riascoltare perché di certo il suo capo avrebbe preteso una relazione. 
Teddy sospirò e sorpassò un camion che trasportava sottaceti. 
La vita era proprio assurda. Ma a volte assurda in maniera piacevole. 

James Sirius aveva mantenuto la promessa alla sorellina e l’aveva accompagnata al piccolo skatepark vicino casa e James senior e Sirius avevano deciso di unirsi a loro. Non c’era nessuno a parte loro, ma probabilmente nemmeno quella calda ora incoraggiava: anche Londra stava diventando abbastanza calda. 
Il giovane Potter aveva preso possesso dello skate e del casco di Lily e si stava facendo diversi giri da una parte all’altra della piattaforma, atterrando perfettamente sul bordo della due parti e girandosi con le ruote per riprendere la scivolata. Bilanciava il corpo in maniera perfetta per riuscire a stare in equilibrio. Era come andare sulla scopa, diceva sempre, un gioco di equilibrio semplicemente.
Sirius e James lo guardavano affascinati dal bordo, mentre Lily reggeva in mano il telefono del fratello che le aveva chiesto di fargli un video. 
Continuò così finché il ragazzo non si sbilanciò e finì quasi carponi in mezzo alla piattaforma con un grugnito. 
Il ragazzo però si rialzò subito facendo capire che non si era fatto nulla e ritornò a piedi dagli altri, restituendo lo skate e il casco alla sorellina e riprendendosi il proprio telefono. 
“Sei bravo”, gli disse il James più grande. 
“Grazie. Ma ci sono altre cose che vorrei imparare. Tipo alcuni tricks”.
“I tricks?” 
“Acrobazie. Ce ne sono davvero di fighe. Magari vi faccio vedere dei video”. 
Sirius e James si chiesero che diavolo fosse un video, ma si limitarono a starsene in silenzio mentre si allontanavano verso l’altra parte del parco, quella con una piattaforma liscia e piatta con degli ostacoli più piccoli. Lily indossò il casco e cominciò a fare qualche giro lento. 
James si sedette sul bordo del marciapiede affiancato subito dai due adulti. 
“Posso chiederti una cosa?” chiese James senior dopo qualche istante di silenzio, rivolto al suo giovane omonimo. Il ragazzo annuì semplicemente senza togliere gli occhi dalla sorella che stava andando sempre più veloce sul suo skate.
“Com’è tuo padre? Intendo… come persona e come padre”. 
Qualche altro istante di silenzio passò prima che James senior aggiungesse di nuovo velocemente. “Scusa, è una domanda un po’ strana. Lascia perdere se non vuoi rispondere”. 
“No, va bene!” si affrettò a rispondere il ragazzo. Poi sospirò. “Be’ è… come tutti i padri dovrebbero essere, no? Probabilmente non glielo dirò mai ma è un bravo papà. Gli voglio bene”. 
James Sirius scrollò le spalle con nonchalance, strizzando gli occhi infastiditi dal sole. 
Sirius e l’altro James si ritrovarono a sorridere anche se con una certa amarezza. 
“Sapete, il vostro ritorno”, continuò Jim. “è una cosa abbastanza folle. Non so come la stia prendendo papà, non è uno che parla tanto di queste cose… di sentimenti, intendo, o di quello che prova. Io… conosco la vostra storia, ho sentito tante cose su di voi, sulla guerra, perlopiù dalla mamma e zia Hermione e zio Ron, ma capisco cosa siate stati per papà e cosa avete fatto”. 
Il ragazzo finalmente si voltò a fronteggiare gli altri due notando un certo tremolio negli occhi di James senior. I due potevano praticamente essere fratelli, quasi coetanei vista la poca differenza di età che li divideva. Anche per quello tutta quella situazione era folle. Non avrebbe mai potuto considerare quell’uomo suo nonno. 
“Papà comunque non ha mai parlato tanto della sua infanzia, qualche accenno, quindi io non ne so tanto. Dovrete chiedere a lui”, concluse il ragazzo interrompendo quello scambio di sguardi. Quella conversazione lo stava mettendo a disagio; non era davvero sicuro su come comportarsi con quelle persone che erano suoi parenti, di cui portava pure il nome; aveva deciso che avrebbe cercato il più possibile di essere sé stesso, ovvero simpatico, scherzoso e tranquillo, ma era una situazione strana persino per lui. 
“E quanto è famoso tuo padre?” chiese Sirius allora; il mago supponeva che ora Harry fosse ancora più famoso di quanto non lo fosse stato da giovane. 
“Parecchio”, rispose James Sirius. “Ricordo una volta che siamo andati a cena fuori, io, lui, la mamma e Albus… le persone continuavano a chiedergli l’autografo e le foto. Alla fine non ce la faceva più e ha iniziato a confonderli ogni volta che vedeva qualcuno avvicinarsi al nostro tavolo”. 
I due adulti scoppiarono a ridere. 
“Ma immagino che sia così quando sconfiggi un pazzoide assetato di potere che vuole sterminare mezza popolazione. E poi, se non è lui a essere riconosciuto, è la mamma”. 
“WoW! Deve essere dura andare in giro”. 
“Dipende. A un certo punto la gente si abitua a vederti in giro anche se sei famoso. E poi, alcuni si limitano a fissare senza avvicinarsi”. 
I tre rimasero in silenzio per qualche altro istante, osservando Lily fare piccoli slalom con lo skate. 
“E Hogwarts? Com’è?” chiese James senior guardando il più giovane. 
“È figa. Ma papà dice che non è cambiata dai suoi tempi, penso sia sempre rimasta più o meno la stessa. Ma ci sono dei passaggi segreti in più, credo che si creino da soli. Li ho dovuti aggiungere alla Mappa”. 
“La Mappa?” fece Sirius, una strana improvvisa consapevolezza che gli brillava negli occhi. 
“La Mappa del Malandrino. Adesso ce l’ho io”. 
“Quindi quell’oggetto esiste ancora”, disse James senior più a sé stesso che agli altri. 
“Ovvio. È molto utile, specialmente quando devo scappare da Gazza dopo il coprifuoco”. 
James senior ridacchiò tra sé e sé lanciando un’occhiata malandrina a Sirius; quel ragazzo era molto simile a loro due, il degno erede dei loro nomi. C’erano un sacco di aggettivi contrastanti che si potevano usare per descrivere quella situazione; scoprire di essere morti e poi tornare in vita, anni dopo, quando il mondo e la vita delle persone care è andata avanti, era abbastanza traumatico e sconvolgente, ma c’era anche del fascino. James e Sirius pensavano che almeno ora avrebbero potuto stare accanto ad Harry e alla sua famiglia ed essergli di supporto se glielo avesse permesso; anche se l’idea di stare nascosti - di nuovo - non piaceva troppo a nessuno dei due. 
James junior lanciò un’occhiata all’orologio che teneva legato al polso sinistro e con un fischio richiamò la sorella. 
“Andiamo a casa, tra poco è ora di cena”. Il ragazzo si alzò con un colpo di reni ma nel farlo gli cadde dalle tasche dei jeans strappati una piccola bottiglietta di plastica piena di qualcosa che sembravano caramelle bianche e rotonde. James si piegò per raccoglierla al volo e rimetterla in tasca. 
Solo dopo qualche istante si accorse degli sguardi sottilmente curiosi e confusi degli altri due. 
“Sono per il diabete”, rispose il ragazzo con una scrollata di spalle mentre si incamminava verso casa. 
“Diabete?” fece Sirius aspettando qualche spiegazione in più. 
“Una malattia cronica, quando hai troppo glucosio nel sangue”. 
Nel frattempo Lily li aveva preceduti correndo sul suo skateboard.  
“In pratica ho troppi zuccheri in corpo e il mio pancreas non riesce ad assimilarli come nelle persone normali. Quelle pillole lo aiutano. Tutto qua. Papà non ve lo ha detto?” 
Il ragazzo si infilò le mani in tasca proseguendo la camminata e guardando dritto lungo la strada. Lo metteva un po’ a disagio parlare della sua malattia, non perché se ne vergognasse ma perché… perché mostrava che anche lui aveva un punto debole.
Il suo omonimo più grande scosse il capo. “Ed è grave?” 
“Non proprio. Può esserlo se non ci sto attento. Diciamo che l’esercizio fisico e una dieta corretta aiutano. Devo solo evitare troppi zuccheri. E prendere quelle pillole una volta al giorno. Nulla di terribile. Almeno non devo fare le iniezioni. Quelle erano terribili”. 
“E lo hai da tanto?” 
“Da quando ho nove anni”. 
Lily fermò il suo skateboard e aspettò che gli altri la raggiungessero. James lanciò un’occhiata ai due adulti che gli camminavano affianco e mostrò loro un mezzo sorriso. 
“Avete un bel po’ di cose da recuperare, mi sa”. 
“Decisamente”. Sirius annuì. 
Il resto della passeggiata proseguì tranquillo e James senior riuscì a farsi prestare lo skateboard da Lily per provarlo, con Sirius che se la rideva alla grande, soprattutto quando ad un certo punto l’amico finì col culo a terra. 
Quando arrivarono a casa aveva tutto il retro dei jeans sporco di terra. Nel momento in cui attraversarono il cancello di casa, Harry stava uscendo dalla macchina parcheggiata nel vialetto. 
“Dove siete stati, ragazzi?” chiese al gruppetto non appena li adocchiò. 
“Al parco da skate”, gli rispose il figlio. 
“D’accordo ma non allontanatevi troppo”, rispose Harry fissando gli occhi sul padre e sul padrino mentre lo diceva. Poi si voltò verso la casa e senza aggiungere altro li precedette dentro. 
Lily gli corse dietro. 

*** 

 
Non so se qualcuno lo ha colto, comunque sì, Teddy guida un’Impala, proprio come quella di Dean Winchester in Supernatural XD Vi metto una foto giusto per farvela vedere. 
Fatemi sapere con qualche commentino, anche i lettori più silenziosi :)

Kiss,
C.

P.S. ho riesumato il mio profilo tumblr se qualcuno volesse seguirmi o suggerirmi i propri profili (o altri) da seguire. Se sono a tematica Harry Potter ancora meglio. Mi chiamo The Unhappy Cactus.

L’INCONTRO DEI LUPIN

“Ehi!” salutò Lily entrando nella camera di Albus e guardandosi attorno con circospezione. La stanza del ragazzo la attirava in una maniera che non avrebbe saputo spiegare; era così piena di vita e caratteristica, si capiva subito che chi ci viveva era qualcuno con personalità. E ogni volta che ci metteva piede notava qualcosa che prima non aveva notato: oltre al poster in cui capeggiava la scritta Star Wars, ce n’era un altro con scritto Il signore degli anelli - la compagnia dell’anello, accompagnata da alcuni personaggi tra cui un ragazzino in primo piano dal volto smunto e un uomo poco dietro di lui dai capelli e la lunga barba bianchi che un po’ le ricordava Silente. Su un altro poster, sopra uno sfondo tutto nero, Lily riconobbe il disegno di una di quelle famose cabine blu che la polizia inglese usava molto egli anni Sessanta. Sopra di essa si leggeva Doctor Who.
Sugli scaffali erano presenti più romanzi e testi di letteratura che libri di scuola e sulle mensole sopra la scrivania c’era anche il modellino di quello che Albus le aveva detto si chiamava Millennium qualcosa.

Anche il ragazzo la attirava in qualche modo. Era l’unico dei figli di suo figlio ad aver ereditato i suoi occhi, ma era anche quello più tranquillo e silenzioso, sempre in disparte come se fosse indifferente alle cose che gli accadevano intorno ma comunque un attento osservatore. Le ricordava un po’ il suo migliore amico, Severus. Forse non era un caso che portasse anche il suo nome. 

“Ehi!” ricambiò il saluto Albus. Era sdraiato sul letto a pancia in giù e guardava qualcosa sullo schermo di quell’aggeggio babbano che avevano visto utilizzare Ginny - il computer. “Ti serve qualcosa?” le chiese. 

“Volevo capire come funziona quell’aggeggio”, gli rispose lei indicando il computer con un cenno del capo. 

“Vieni qua”, le rispose Albus portando le gambe fuori dal letto e sedendosi sul bordo col computer in grembo.
Lei obbedì docile.
“Ci sono tante cose che puoi fare con un computer”, cominciò a spiegare Albus pazientemente, smanettando col cursore. “Puoi scrivere, giocare, fare i calcoli ma la cosa più interessante che puoi fare è cercare informazioni su Internet”.
Quando il ragazzo premette su una tonda icona verde, gialla e rossa si aprì una schermata su cui si leggeva Google. 

“Qui puoi scrivere quello che vuoi e internet ti trova tutte le informazioni. Poi, ovvio, c’è talmente tanta roba che a volte è un po’ difficile orientarsi e capire cosa è falso. Che cosa ti interesserebbe cercare?” Albus alzò uno sguardo dolce su Lily e attese.
La ragazza scrollò le spalle. “Non saprei”, disse titubante. Un’enorme piattaforma disponibile in cui poter cercare tutte le informazioni che si volevano, Lily sapeva bene che cosa cercare ma non le sembrava il caso di farlo davanti ad Albus. 

“Allora, proviamo con…”. Il ragazzo ci pensò un attimo e poi scrisse. “I Beatles. Conosci i Beatles?”
“Certo, li ascoltavo quando ero più giovane”.
Albus avvicinò lo schermo a lei e le fece vedere una schermata piena di titoli e scritte.
“La fonte che di solito si usa di più è Wikipedia. Ma ci sono anche articoli di giornali o blog o siti creati dai fan. Prova tu, con questo quadrante scorri col cursore e cliccando entri nella pagina”.
Lily si accomodò il computer sulle gambe e iniziò a smanettare anche lei, lentamente. 

“Come mai conosci i Beatles? Sono un gruppo vecchio”. 

“Teddy… ehm, il nostro fratellastro, ha delle cassette e ogni tanto li mette in macchina. Ha tutte queste cassette di gruppi e cantanti del secolo scorso”. 

Lily gli sorrise poi rivolse di nuovo lo sguardo al computer. 

“Comunque, col computer ci puoi anche guardare i film, sai, come quelli che fanno in Tv”. 

“Lo so. Ho visto lo sbarco sulla luna in tv quando ero piccola”.
Ricordava ancora - con strana chiarezza - quando suo padre aveva comprato un televisore nel periodo in cui quegli apparecchi erano in voga ma non tutti se li potevano permettere e con l’intera famiglia era rimasta affascinata davanti allo schermo a fissare le immagini trasmesse dagli astronauti americani che erano andati sulla luna. Solo sua sorella Petunia sembrava l’unica a non essere troppo affascinata dalla cosa, addirittura un po’ perplessa. Petunia era sempre stata difficile.
Petunia…

Anche sua sorella era una delle tante incognite per lei in quel momento, come Piton. Ma non aveva il coraggio di chiedere nulla ad Harry. Sapeva che Piton era morto nella guerra, non sapeva i dettagli, ma solo che alla fine si era rivelato essere uno dei buoni, anzi, addirittura una delle pedine centrali per la sconfitta di Voldemort. Ma lo aveva scoperto da uno degli operatori del Ministero, non certo da Harry. 

Harry, in quei pochi giorni in cui avevano frequentato la sua casa, li aveva come… evitati. Poteva comprenderlo, certo, ma faceva male ugualmente. Faceva male tanto quanto chiedersi se fosse suo figlio. Non in senso letterale: certo che era suo figlio, era identico a James, per Morgana!, e quegli occhi li aveva visti mille volte riflettendosi nello specchio, ma alla fin fine lei di Harry non sapeva nulla. E come poteva lei, che di anni ne aveva appena ventuno, pretendere di avere qualche diritto di maternità su un uomo di quasi quarant’anni con una famiglia, una vita, dei figli e tutto il resto?

Sì, faceva dannatamente male. 

Cercò di distrarsi da quei pensieri tornando con la mente alle televisioni. Quando era piccola le piaceva guardare i programmi che facevano. Ora che ci pensava, c’era un programma della BBC che si chiamava Doctor Who, proprio come era scritto sul poster di Albus, e parlava di una specie di alieno che viaggiava nello spazio e nel tempo con una astronave a forma di cabina telefonica della polizia. Forse anche il ragazzo ne era fan. 

Quando poi era partita per Hogwarts aveva un po’ abbandonato i televisori, le lavatrici, e tutte quelle cose che avevano caratterizzato il suo mondo babbano, anche se ci tornava tutte le estati. Ma era sempre difficile riuscire a dividersi tra questi due mondi, il magico e il non magico, specie quando sono così lontani. Sposando James, in seguito, era stato ancora più difficile. James era sempre stato aperto a tutto, a ogni dispositivo o tradizione babbana lei cercasse di insegnarli, ma lui era un po’ tardo. Non stupido, ovviamente, ma un po’ duro di comprendonio. Era comunque contenta di vedere quanto in questo mondo - be’, questo tempo - le cose fossero cambiate e i due mondi non erano più così separati, non come ai suoi tempi quantomeno. 

“C’è anche internet per i maghi”, disse a un certo punto Albus facendola quasi sobbalzare. “È tipo collegato a quello dei babbani, ma solo i maghi possono accedervi. Nel senso, che se cerchi informazioni su cose riguardanti il mondo magico, tu che sei una strega puoi trovarle, ma i babbani no. Credo abbia a che fare con il nucleo magico di una persona, non so esattamente, non chiedermelo. Lo ha fatto un mago che è un genio di queste cose tecnologiche”. 

“Quindi, se scrivo Incanto Patronus su questo Google me lo trova?” 

“Esatto”. 

Lily fece un tentativo e una schermata piena di informazioni sull’incanto Patronus le comparve davanti. 

“WoW!” 

“Sì, è una cosa pazzesca”. Albus si grattò una guancia prima di alzarsi dal letto con un colpo. “Senti, vado un attimo in bagno. Tu usalo pure”. 

“Grazie”. 

Prima che Lily avesse il tempo di aggiungere qualcos’altro, il ragazzo era già scomparso oltre l’uscio. 

In realtà la ragazza era grata di quel momento di solitudine; ora poteva cercare quello che veramente le interessava. 

Scrisse “Harry James Potter” su Google e cliccò con il cursore. 

Un sacco di informazioni le comparvero davanti, come prima. Persino alcune foto che ritraevano Harry da giovane e da adulto, con Ginny e con Ron ed Hermione. Persino con altre persone che lei non riuscì a identificare. 

Cliccò su quella pagina che si chiamava Wikipedia e scorse velocemente. Descriveva abbastanza in dettaglio tutta la vita di Harry, ma aveva paura di non avere troppo tempo per leggerla. Parlava di quello che era successo la notte di Halloween del 1981, degli anni di Harry a Hogwarts, del suo rapporto stretto con Silente, dell’Ordine della Fenice e persino di un altro gruppo che si chiamava Esercito di Silente. C’era addirittura un’intera sezione che parlava del Torneo Tremaghi e di come Harry ci avesse partecipato, cosa che aveva poi portato al ritorno di Lord Voldemort. Lesse più volte persino il proprio nome e quello di James e Sirius. La pagina spiegava anche della Battaglia Finale contro Voldemort, di come Harry lo avesse ucciso. 

Tornò indietro e sfogliò ancora un po’ tra i vari siti finché non incappò in una specie di articolo che associava il nome di Harry ad abuso di droghe.
Peccato che Albus scelse proprio quel momento per tornare nella stanza e Lily dovette chiudere tutto. 

“Ti ringrazio!” gli disse, appoggiando il computer sul letto. “Non è difficile”.
“No, devi solo prenderci la mano. Se vuoi ti farò vedere altre cose”. 

“Volentieri”, disse Lily con un sorriso e, dopo aver salutato il ragazzo, lo lasciò da solo nella stanza. 

Peccato che lei non avesse la minima idea di cosa fosse una cronologia né di come si cancellasse.

In salotto, anche James Sirius si stava improvvisando come insegnante, peccato che non fosse bravo tanto quanto il fratello e che i suoi allievi non avessero le stesse doti di apprendimento rapido di Lily.
L’altro James e Sirius cercavano di capire come funzionasse Facebook, ma erano piuttosto confusi. 

“Andiamo sul profilo di Teddy”, esordì James con il cellulare davanti. Questo Teddy stava diventando famoso ultimamente alle loro orecchie con tutte le volte che era stato nominato da ciascuno dei membri della famiglia. Si vedeva che in quella casa era ben voluto. Be’, era il figlio di Moony dopotutto, e tanto bastava.
Nella sua foto profilo su Facebook Teddy era seduto in mezzo a quello che sembrava essere un prato - o un parco - cosparso di foglie dai colori autunnali. Indossava una giacca rossa dallo stile scozzese, sicuramente adatta alle temperature, e sulle gambe reggeva una chitarra. Esibiva una specie di sorriso quasi timido, ma dolce, sotto i capelli biondo paglia e gli occhi erano rivolti in basso per cui non si riusciva a vederne il colore. James si perse tutta la spiegazione del nipote su come funzionava quel sosial, social - o quel che è - perché troppo impegnato a cercare di distinguere in quella foto dei tratti che potessero somigliare a quelli del suo migliore amico. 
Chissà chi gli aveva fatto quella foto così poetica. 

Teddy sentì la portiera del passeggero aprirsi e il suo padrino mettersi comodo accanto a lui nella sua auto. 

Appoggiò il telefono nello spazio vicino alla leva del cambio e fissò gli occhi sull’enorme casa dei Potter sospirando. 

“Allora?” fece Harry guardandolo con un leggero sorriso un po’ divertito. “Nervoso?” 

Teddy voltò il capo leggermente verso di lui e gli lanciò un’occhiataccia. “Secondo te?” 

“Devo infonderti un po’ di coraggio Grifondoro? Pensavo ne avessi a sufficienza”. 

Teddy sospirò e buttò le mani sul volante. Era rimasto nascosto nella propria macchina, parcheggiata nel viale della casa del padrino, per una decina di minuti buoni, fino a che non si era deciso a inviare un messaggio ad Harry per dirgli che era lì e che non riusciva ad entrare dentro. Era nervoso, agitato, terrorizzato… al diavolo il suo essere un Grifondoro.
Dentro casa c’erano i suoi genitori - quei genitori che doveva incontrare per la prima volta dopo aver rimandato troppe volte - e probabilmente lo stavano aspettando trepidanti. Era venuto fin lì apposta, si era messo una delle poche magliette pulite che gli erano rimaste e persino un profumo che aveva trovato in fondo allo scaffale del bagno. Ma ora si sentiva stupido, con quella maglietta dei Guns’n’ Roses e il profumo che aveva rubato a uno dei suoi coinquilini.
Si stropicciò un occhio con il dito sentendo Harry ridacchiare. 

“Non hai nulla di cui preoccuparti. Non vedono l’ora di conoscerti e saranno davvero felici di incontrarti. Sono delle brave persone, davvero, Ted”. 

Teddy si voltò verso il padrino guardandolo con un’espressione da cucciolo abbandonato. Si umettò le labbra con la lingua; sentiva persino la bocca arida. 

“Lo so, lo so… è solo che… Nessuno ti prepara mai per questo”. 

Harry gli poggiò una mano sul ginocchio cercando di calmarlo in qualche modo. “Lo so, piccolo. Non puoi prepararti, puoi solo farlo e basta”.

“Tu come hai fatto? Insomma, incontrare i tuoi genitori… come ti sei preparato?” 

Harry rise. “Non mi sono affatto preparato. Non sono pronto nemmeno ora. Ogni volta che li vedo mi viene quasi un mancamento. Però… Sono comunque contento che siano qui, che possano vedere quello che ho costruito. Per fargli capire che sono riuscito a fare qualcosa di bello della mia vita per la quale loro si sono sacrificati”. 

Teddy gli sorrise dolcemente e con una maggiore convinzione nello sguardo; gli piaceva quando i discorsi tra lui e il suo padrino diventavano in qualche modo più intimi - come una sorta di confessione dei reciproci sentimenti - e aveva come l’impressione di essere lui l’unico privilegiato. Nemmeno con i suoi figli Harry si apriva a quel modo. 

“D’accordo”, disse infine il ragazzo. 

“Se vuoi li chiamo qui fuori. Così potete parlare un po’ da soli. C’è un sacco di gente dentro casa”. 

“Mi piacerebbe, sì”. 

Grazie a Merlino Harry era uno che capiva. 

“Teddy!” chiamò ad un tratto il padrino mezzo fuori dalla macchina, come se si fosse ricordato all’ultimo di un’altra cosa.
“Sì?” 

“Non dire… Non dire ancora nulla ai tuoi genitori del tuo… Sì, insomma, della tua licantropia. Tuo padre ancora non lo sa e ho paura che potrebbe non prenderla bene”. 

Il ragazzo esitò per qualche istante poi annuì, gli occhi fissi davanti a sé. “Okay”.

Harry allora uscì dall’auto, seguito dal figlioccio che rimase leggermente più indietro. Poi Harry rientrò di nuovo verso casa e il suo sguardo vagò per la stanza finché non si poggiò su Remus e Tonks che se ne stavano più lontani dalla confusione che facevano i suoi figli con James e Sirius. 

I due capirono immediatamente che Harry voleva qualcosa e si avvicinarono.
“Potete venire un attimo qua fuori?” fece il moro senza aggiungere altro.
Remus e Tonks si guardarono leggermente preoccupati ma seguirono con calma Harry verso l’uscita. Potter spalancò la porta e si spostò dall’uscio per farli passare. 

Un ragazzo piuttosto alto comparve alla loro vista, fermo sui gradini del portico della casa, una mano appoggiata alla ringhiera e un sorriso un po’ timido e vagamente impaurito sul volto. 

“Ciao”, li salutò lui con voce bassa. 

“Vi lascio soli”, disse Harry rientrando velocemente in casa. 

Remus e Tonks lo osservarono per un po’, il fisico slanciato e sottile, coperto da un paio di jeans chiari e una maglietta nera con il logo e il nome di una band che Tonks conosceva molto bene. Aveva i capelli biondo cenere, corti, ma leggermente mossi, con alcune ciocche che gli coprivano la fronte sopra un paio di occhi di un colore particolare, marrone chiaro che rasentava il caramello. Ma quello che li incantò di più fu il sorriso, un sorriso dolce che faceva spazio a un paio di piccole fossette sulle guance che lo ringiovanivano ancora di più, e a un paio di canini leggermente più lunghi e appuntiti rispetto al normale. 

“Teddy”, sussurrò Tonks con voce spezzata, guardando il ragazzo con occhi spalancati. 

“Sì”, rispose lui titubante, indeciso se avvicinarsi o meno; i suoi piedi sembravano essere incollati al pavimento, ma la sua testa voleva fare tutt’altro e quindi esitava in equilibrio precario vicino alle piante di Ginny. 

“Quanto sei bello”, disse ancora Tonks, ora davvero sull’orlo delle lacrime. “Posso abbracciarti?” 

“Sì”, rispose nuovamente Teddy, incapace di dire qualsiasi altra cosa. Fu Tonks a superare quei pochi passi che li separavano e a stringere il figlio in un abbraccio stretto. Il ragazzo era decisamente alto, lei gli arrivava al petto e lui poteva tranquillamente appoggiarle il mento sulla testa. Invece si piegò per poter affondare il naso nel suo collo e inspirarne il profumo dolce. Tonks fece altrettanto e rimase quasi scossa quando notò quanto l’odore di Teddy le ricordasse quello di Remus. 

Teddy di abbracci nella sua vita ne aveva ricevuti tanti, da sua nonna, da Harry, dagli amici e da Vicky. Ma essere abbracciati dalla propria madre, quella che non si è mai conosciuta, è qualcosa che non avrebbe saputo descrivere. Stava provando tutta una serie di emozioni che gli diedero una sensazione di leggero mancamento. In primis, felicità. Poi... poi alzò lo sguardo da sopra la spalla della madre e incontrò il viso sorridente di suo padre. I suoi genitori erano esattamente come Teddy li aveva conosciuti in foto. 

“Papà”, sussurrò il ragazzo sentendo le lacrime pungere. Si stava sforzando di non piangere ma era una vera impresa; maledisse il suo carattere sensibile. 

Remus annuí leggermente, ancora fermo vicino alla porta. Poi Tonks lasciò andare il figlio e si spostò per fare spazio al marito che non attese un ulteriore secondo e lo strinse anche lui forte al proprio petto con le proprie braccia più grosse. I due erano della stessa altezza e fu più facile per Teddy nascondere il viso nell’incavo del collo del padre e lasciar andare le lacrime. Rimasero stretti così per qualche istante in più, in silenzio, come se si fossero dimenticati di tutto ciò che li circondava. Forse Remus si era accorto della commozione del figlio - il suo respiro pesante contro la sua pelle e quei singhiozzi che cercava di nascondere malamente non lo ingannavano - e voleva dargli qualche minuto in più per ricomporsi. 

Quando si separarono, Teddy tirò su col naso; i suoi occhi erano asciutti anche se arrossati. 

“Ti va se ci sediamo un attimo qua così parliamo?” chiese Tonks che sentiva le gambe molli e stava per cedere alle lacrime anche lei. Si avvicinò alla panchina posta vicino alla porta d’ingresso e si lasciò quasi cadere. Remus e Teddy la seguirono. 

“Allora?” fece lei in tono trepidante, prendendo le mani del figlio nelle proprie, e nel farlo sfiorò un sottile braccialetto con un ciondolo a forma di testa di lupo legato al polso del ragazzo, seduto in mezzo ai genitori. 

“La nonna ci ha detto che studi medicina”, disse Tonks.

“Si”. 

“Ed eri un Grifondoro”. 

“Si”. 

Forza, Teddy, sai dire qualche parola in più. 

Teddy voleva maledirsi da solo per quella sua improvvisa perdita di loquacità. Ma si sentiva incredibilmente a disagio. Tonks non smetteva di fissarlo, troppo incantata da quanto suo figlio fosse bello con quel viso così pulito e giovane, senza alcuna cicatrice che glielo deturpasse come al padre. Perché di certo era questo il pensiero di Remus, il fatto che a suo figlio fosse stata risparmiata la maledizione della luna che tutti i mesi lo obbligava a trasformarsi in un orribile mostro assetato di sangue, capace di fare del male a sé stesso e agli altri. Teddy non era così; il suo volto rifletteva soltanto una giovinezza leggera e spensierata. 

“Ti piacciono i Guns’n’ Roses”, disse a un certo punto Tonks notando la maglietta del ragazzo. 

Teddy sorrise. “Sì. Ho delle cassette a casa”.

“Li ascoltavo quando ero più giovane”. 

“Lo so. Credo che le cassette siano tue. Me le ha date la nonna”. 

Tonks gli sorrise raggiante mettendo in mostra tutto il suo essere di ragazzina e Teddy ebbe quasi un fremito quando si accorse quanto giovane fosse sua madre. Essendo tornata con l’età di quando era morta, teoricamente ora doveva essere solo qualche anno più vecchia di lui. Era completamente folle. Nemmeno suo padre era particolarmente vecchio ma quantomeno era ben più vecchio di lui. 

Sua nonna gli aveva detto che sua madre era molto giovane quando era morta nella Battaglia e che aveva più di una decina di anni in meno rispetto a suo padre, ma Teddy non ci aveva mai pensato concretamente, in termini numerici. Dopotutto, aveva sempre vissuto i propri genitori come delle figure astratte che aveva idolatrato a un certo punto della sua vita. Ma non era mai riuscito a concretizzarli davvero nella sua testa, nemmeno con l’aiuto delle foto. 

“Vogliamo sapere tutto di te. Cosa ti piace, cosa non ti piace, qual è il tuo piatto preferito”, disse Remus chinandosi in avanti per guardare meglio il viso del figlio. 

Teddy ridacchiò. “Ci vorrà un po’ di tempo”. 

“Ci prenderemo tutto il tempo di questo mondo”.

“D’accordo”. annuì il ragazzo stringendo di più la presa sulle mani della madre - forse senza quasi accorgersene, finalmente potendo godere di un contatto che non si era nemmeno accorto gli mancasse - e i genitori poterono finalmente assaggiare la voce del ragazzo, non più frantumata da lacrime o singhiozzi; era una voce chiara e fresca, giovane come tutto il resto della sua apparenza. 

I Lupin avevano perso qualsiasi cognizione di tempo e non potevano esattamente dire quanto fossero rimasti fuori sul portico, ma quando rientrarono vennero accolti da una serie di sorrisi cordiali. Teddy adocchio la nonna seduta al tavolo che gli fece subito l’occhiolino al che lui le sorrise impercettibilmente. Solo chi non conosceva il ragazzo appena arrivato, esitò con uno sguardo incuriosito sulla sua figura, ma capirono subito di chi si doveva trattare a giudicare dalle espressioni felici di Remus e Tonks. 

“Teddy!” sentirono a un tratto Lily Luna esclamare e la bimba gli corse subito incontro in uno svolazzo dei capelli rossi. 

“Ehi, Puzzola!” la salutò il ragazzo chinandosi per lasciarle un buffetto sul naso. “Ti sei di nuovo sbucciata le ginocchia?”

Lily scrollò le spalle con nonchalance. Le sue ginocchia sbucciate ormai erano parte del suo aspetto fisico. 

“Teddy, ti fermi a cena con noi?” gli chiese Harry con un sorriso, in piedi vicino al frigo. 

Teddy esitò, vagando con lo sguardo su tutti i presenti che sembravano pendere da una sua risposta, e poi rispose: “Ahem... okay”. 

“Birra?” gli chiese ancora il padrino passandogli una birra in mano prima che il ragazzo avesse il tempo di rispondere. Ma Teddy la afferrò come se non avesse atteso altro; aveva decisamente bisogno di alleggerire quella serata con dell’alcol. 

“Quindi tu sei il famoso Teddy?” gli chiese un uomo dai capelli scuri legati in un piccolo codino, gli occhi grigio azzurri e il pizzetto. Teddy lo riconobbe subito. 

“E tu devi essere...”. Ritorse subito esitando un istante sul nome. “Sirius”. 

Sirius si aprì in un sorriso sorpreso e compiaciuto. “Vedo che il ragazzo è preparato”, disse guardando verso gli amici. 

“Ovvio. Deve aver preso l’intelligenza da Moony”, pronunciò un’altra voce e Teddy individuò un giovane tizio quasi identico al suo padrino e ai suoi due figli, solo che questa versione portava gli occhiali tondi. 

James Potter. E quella vicino a lui doveva essere Lily Evans. 

“Ehi!” si lamentò Tonks dando un pugno sulla spalla di James mentre gli passava vicino. “Cosa sono io? Stupida?”

“Tu hai altre qualità, cugina”, la prese in giro Sirius pizzicandola sui fianchi perché si spostasse per permettergli di riappropriarsi della propria sedia. 

Teddy si fece posto vicino ad Albus, di fronte a quella che aveva riconosciuto come la madre del suo padrino che lo stava scrutando con uno strano sguardo che il ragazzo non riusciva a decifrare. 

In quel momento dei rumorosi passi si sentirono scendere velocemente le scale - come una mandria di Thestral - e una zazzera spettinata fece capolino in sala da pranzo. 

“Teddy Bear!” esclamò la voce di Jim che sfoggiava uno dei suoi soliti ghigni da cretino. “Finalmente ci fai l’onore di venirci a trovare”. 

“Non farmene pentire, James”. 

Jim ridacchiò e prese posto accanto alla sorella, quasi di fronte a Teddy.
Il resto della tavolata continuò a parlare del più e del meno, a passarsi il cibo e a prendere da bere, quando il maggiore dei fratelli Potter - che aveva preso a giocherellare con una forchetta - esclamò tutto ad un tratto, guardando in direzione del giovane Lupin.

“Vedi, Teddy, questa è una forchetta”. Sventolò l’utensile di fronte all’altro prima di poggiarlo sulla tovaglia. “E ora è posata”. 

Ci furono diversi istanti di totale silenzio - come se il tempo si fosse bloccato - prima che quasi tutti i presenti scoppiassero a ridere, soprattutto Sirius e l’altro James, seduti vicino dall’altra parte della tavolata. Harry e Ginny alzarono gli occhi al cielo celando un sorrisetto e Albus si batté una mano sulla fronte. 

“Per i coglioni pelosi di Merlino! Non posso crederci che lo ha detto veramente”. 

“Dai, era divertente. Lo devi ammettere, Teddy”. 

Tutti gli occhi si voltarono su Teddy che aveva stretto le labbra in una linea sottile e guardava il ragazzo con una certa gravità. Poi abbassò lo sguardo, si umettò le labbra, si schiarì la gola e disse: “Lo sentì questo suono, James?” 

James scosse la testa, gli occhi spalancati su Teddy. 

“È il suono che fanno i tuoi neuroni mentre si suicidano”. 

Altro scroscio di risate, questa volta più forti. Anche James Sirius rise, a bocca aperta e per nulla offeso. Il suo rapporto con Teddy era fatto di battute stupide e insulti, ma si volevano un bene dell’anima - anche se non se lo dicevamo mai -. Teddy voleva bene a tutti i figli del suo padrino e ad ognuno di loro voleva bene in modo differente, ma con James aveva questo legame particolare per cui i due sembrava che battibecassero sempre ma in realtà era solo il loro modo di dimostrarsi affetto. In particolare, quella sera, Teddy era grato a James per quelle battute e quell’occasione che gli offriva per prenderlo in giro perché lo aiutava a stendere i nervi. Era felice di aver incontrato i genitori ma era anche incredibilmente teso. 

“Allora, Ted, come è andata a Cardiff?” gli chiese Andromeda a un certo punto, deviando l’attenzione da James. 

“Bene”, rispose il ragazzo servendosi del purè. “Un po’ noioso a dire il vero”. 

“Cosa ci facevi a Cardiff?” gli chiese Lily. 

“C’era una conferenza sulle cellule staminali nel loro ospedale babbano”, rispose il ragazzo con nonchalance, ma quando si accorse di alcune occhiate confuse si affrettò a spiegare. “Si trovano nel corpo umano e quelle staminali hanno la particolarità di poter curare alcune malattie, come il cancro. Ma c’è ancora molto studio da fare”. 

Teddy non era sicuro quanto avessero capito, ma li vide annuire affascinati. 

“Sei un guaritore, quindi”, disse Sirius. 

“Medimago”, lo corresse Teddy. “I guaritori sono un gradino più in basso”, fece delle virgolette in aria su quell’ultima frase. “Nel senso che hanno meno studi da fare e non possono fare certi tipi di operazioni. Ma possono somministrare farmaci”. 

“WoW”!” esclamò James abbastanza stupito, ma in fondo era il figlio di Moony, non potevano aspettarsi di meno. 

“Teddy è un genio”, si intromise a quel punto Andromeda e il nipote la guardò con un sopracciglio alzato. Non era abituato ai complimenti di sua nonna; non che non gliene facesse, però non li faceva mai a caso. Il ragazzo immaginò che la presenza dei suoi genitori cambiasse un po’ le carte in tavola. 

“Ha preso tuti E nei suoi M.A.G.O. ed ha ottenuto uno dei punteggi più alti nei test di ingresso di Medimagia”. 

Teddy arrossì leggermente all’altezza degli zigomi e abbassò lo sguardo sul suo piatto imbarazzato. I suoi capelli improvvisamente cambiarono colore tingendosi di un rosso quasi rosato. 

“Sei un Metamorfomagus!” esclamò Sirius. “Quindi hai preso solo i migliori tratti dei tuoi genitori”. 

Se possibile Ted si imbarazzò ancora di più ma il suo sguardo indugiò quasi impercettibilmente sul padre mentre le parole di Harry gli risuonavano ancora nelle orecchie - che lui non avrebbe preso bene la sua forma di licantropia. Aveva sempre saputo che Remus era un lupo mannaro, non glielo avevano mai tenuto nascosto perché era uno dei tratti che lo caratterizzavano e che lo avevano reso l’uomo che era e Teddy non lo aveva certo amato di meno, né provato meno stima per lui. Dopotutto, era cresciuto in una famiglia che aveva accettato e accettava un sacco di cose e non discriminava mai nessuno. Ma nessuno si era mai aspettato che alla fine anche Teddy avrebbe contratto quel morbo, nemmeno Teddy lo aveva messo in conto. 

Come lo avrebbe detto al padre? Quel padre che non era mai riuscito ad accettare la propria condizione e che aveva avuto paura che potesse esserne infetto anche lui. Alla fine le sue paure si erano concretizzate. Come avrebbe rivelato una cosa del genere? 

“Il nostro Teddy ha tante doti”, concluse James Sirius alzandosi dalla sedia dopo aver svuotato il suo piatto. 

La cena proseguì fino al dessert e un altro paio di birre aperte per ciascuno. Albus e Lily si erano ritirati sul divano a giocare ai videogiochi mentre James Sirius si alternava tra loro e il tavolo e aveva già divorato due fette di torta, a cui Ginny aveva messo del dolcificante piuttosto che lo zucchero. 

Teddy raccontò del suo lavoro come Medimago - anche se era ancora uno specializzando -, di come la medicina magica avesse iniziato a sperimentare con la medicina babbana, dato che ora sempre più babbani venivano a conoscenza del mondo magico e alcuni Medimagi, figli di babbani o medici babbani con parenti maghi erano in contatto con gli ospedali magici, tra cui il San Mungo e si era deciso di provare a unire le due discipline. Alcune malattie babbane potevano essere curate con pozioni o incantesimi, mentre diversi maghi si ammalavano di malattie più “comuni” nei babbani ed entrambi si potevano aiutare a vicenda. Ovviamente senza infrangere lo Statuto di segretezza che comunque vigeva ancora. 

Teddy era piuttosto interessato a questo tipo di medicina, anche se ancora non era certo di quale sarebbe stata la sua scelta per la specializzazione. Gli piaceva anche la ricerca; scoprire qualcosa di fenomenale che avrebbe potuto aiutare molte persone lo attirava, ma era un lavoro troppo statico per i suoi gusti ed era più facile fallire in quell’ambito e dover ricominciare da capo. Invece si divertiva di più nel reparto delle emergenze dove si lasciava trascinare dall’adrenalina. Una volta, al primo anno, aveva fatto un turno di 25 ore in cui non aveva quasi dormito, se non un paio d’ore nelle stanzette adibite. 

“Come hai fatto?” gli chiese Lily che non aveva idea di come una persona potesse non dormire per 25 ore di fila. Lei era una persona mattiniera e non le piaceva rotolarsi troppo nel letto, ma aveva comunque bisogno del suo sonno.

Teddy scrollò le spalle. “Diciamo che quando stai soccorrendo un paziente dissanguato non ci pensi. E poi, l’adrenalina e il caffè aiutano”. 

Avrebbe potuto tranquillamente dire che alle volte l’adrenalina e il caffè erano la sua dieta, non perdeva molto tempo nel farsi da mangiare o nel mangiare. Di sicuro i suoi pasti non erano mai abbondanti come quando andava dalla nonna, da Harry o da Molly.

“E ce l’hai la ragazza?” gli chiese a un certo punto Sirius ammiccando. “O il ragazzo”. 

Teddy sogghignò. “Sì. Si chiama Vicky”. 

“Victoire. È la figlia di Bill e Fleur”, aggiunse Harry.

“E quindi hanno avuto una figlia”, fece Remus. 

“Tre a dire il vero”, lo corresse Ginny. “Due figlie e un figlio. Vicky è la maggiore. Poi c’è Dominique e infine Louis”.

“Chi è Fleur?” chiese Sirius. 

“Ti ricordi la ragazza di Beauxbatons che ha gareggiato con me al Torneo Tremaghi?” fece Harry. 

“Quella bionda? La Veela?” 

“Proprio lei”, rispose Ginny. “Lei e Bill si erano conosciuti quell’anno ma Fleur era tornata in Francia. Un paio di anni dopo però è tornata a Londra e lei e mio fratello hanno iniziato a frequentarsi”. 

“E dimmi un po’, Vicky ha ereditato le stesse fattezze di sua madre?” chiese di nuovo Black rivolgendosi di nuovo a Teddy e, se possibile, ammiccando ancora di più. 

Teddy non sapeva esattamente cosa rispondere. Non voleva blaterare in giro di quanto la sua ragazza fosse bella - cosa vera e poteva dirlo senza essere di parte - ma doveva anche in qualche modo renderle onore. Vicky era tante cose per lui, molto più che una bella ragazza con sangue di Veela. 

“Perché non gli fai vedere quelle foto?” disse a un tratto Jim con uno stuzzicadenti stretto tra i denti, passandosi una mano tra i capelli scombinati. 

“Che foto?” 

Harry ridacchiò. “Appena è diventata maggiorenne, Vicky ha fatto delle foto per una collezione di intimo. Ovviamente non lo ha detto a nessuno. Lo abbiamo scoperto quando il danno era ormai stato fatto”.  

“Immagino che Bill sia stato molto felice”, fece Tonks. 

“In realtà mio fratello l’ha presa con filosofia. Quella che si è arrabbiata di più è stata Fleur”. 

Bill era un padre bonaccione, che poteva incutere timore per le sue cicatrici e le spalle larghe- e questo Teddy lo sapeva bene - ma in realtà era dolce come un pane. Qualcuno avrebbe potuto dire che fosse un padre permissivo, ma la verità era che semplicemente sapeva ascoltare e aveva un ottimo rapporto coi figli, per cui si fidava lasciando fare loro quello che si sentivano di fare assicurandosi che sapessero sempre di potersi rivolgere a lui in caso di problemi. 

“Comunque è lei”, disse James passando agli ospiti il proprio telefono per mostrare le foto della cugina. 

Gli altri le guardarono con stupore e una certa meraviglia. Nessuno avrebbe potuto dire che quella ragazza - che fissava l’obiettivo con due occhi azzurri come il cielo e sembrava volesse penetrarti l’anima - fosse brutta. Le foto erano tutte statiche - babbane - e tutte la mostravano in biancheria intima di vario tipo e di vari colori. I capelli lunghi e biondi incorniciavano un volto perfetto, dai zigomi evidenti ma non troppo pronunciati e le labbra gonfie al punto giusto, proporzionate. Non era truccata ma completamente al naturale. Probabilmente non c’era nemmeno stato bisogno di modificarle. C’era persino una foto ritraeva due perfette natiche rotonde vestite solo di un paio di mutandine sottili che non avrebbero fatto alcuna differenza anche se non ci fossero state. Le braccia erano piegate dietro la nuca a tenere su i capelli.

James fischiò in approvazione e si beccò un’occhiataccia da Lily, però pure lei dovette ammettere che la giovane Weasley fosse bella.

“Bel colpo, ragazzo!” disse Sirius a Teddy facendolo ridere. 

“E da quanto state insieme?” gli chiese Remus dolcemente. 

“Quasi sei anni”. 

“Però! È tanto tempo”, commentò Lily. Era parecchio più tempo rispetto a quello che avevano avuto lei e James prima di sposarsi o... Be’, stare insieme. E lo stesso valeva per Remus e Tonks. I due ragazzi avevano sicuramente tempo di godersi la loro storia d’amore.

“Ce la farai conoscere?” gli chiese Tonks guardandolo intensamente coi suoi grandi occhi marroni. 

Il ragazzo annuì. “Certo”. 

La cena arrivò alla sua conclusione e Teddy infine dovette farsi forza e ritirarsi perché il giorno dopo doveva cominciare a lavorare presto e aveva bisogno di smaltire quelle tre birre prima del turno. Erano tutti dispiaciuti di vederlo andare via, ma il giovane Lupin promise che sarebbe tornato presto. Una volta salito in macchina, Teddy lasciò andare un sospiro. Nonostante tutta la tensione,  doveva ammettere a sé stesso che era felice, felice soprattutto di quel sorriso pieno di orgoglio col quale i suoi genitori lo avevano guardato per tutta la sera. 

Mentre guidava con calma verso casa propria, sul punto in cui la strada si divideva a un bivio, Teddy decise che prima di rannicchiarsi sotto le coperte avrebbe fatto una deviazione. Tanto avrebbe fatto comunque fatica ad addormentarsi, vista l’emozione accumulata durante la serata.

Quindi, arrivato alla sua destinazione improvvisata, parcheggiò la macchina non troppo vicino a Villa Conchiglia in modo da non essere visto, e a piedi si diresse verso l’abitazione di Bill e Fleur. Era sicuro che i due stessero dormendo, ma era abbastanza certo che Vicky sarebbe stata sveglia. Oppure sua sorella e lei di certo lo avrebbe fatto entrare. Cercando di essere meno rumoroso possibile, si materializzò sopra il terrazzo della stanza della ragazza e guardò dentro attraverso le tende spalancate. Come sospettava, era sveglia. Stava ferma in piedi di fronte a una pianola, impegnata probabilmente - come suo solito - a comporre qualche canzone o a fare qualche cover. 

Bussò al vetro ma lei non gli badò. Se aveva silenziato la stanza per non disturbare la famiglia non lo avrebbe mai sentito. Perciò rimase lì in piedi a osservarla, con lo sguardo intenerito - come se fossero ancora agli inizi della loro relazione e lui fosse innamorato perso, ma lei gli faceva sempre questo effetto e lui innamorato perso lo era - e aspettò che lei alzasse lo sguardo e lo vedesse.

Per fortuna non dovette aspettare tanto. Vicky alzò lo sguardo e Teddy la vide sobbalzare trovandoselo lì davanti. Ma si ricompose subito e andò ad aprirgli la portafinestra. 

“Che ci fai qui?” gli chiese lei mentre il ragazzo scavalcava agilmente il piccolo gradino che separava il terrazzo dalla camera da letto. 

“Avevo bisogno di vederti”, le rispose lui con voce bassa e subito le prese il volto tra le mani per baciarla.
Vicky lo lasciò fare ma si ritrasse poco dopo leggermente confusa; il bacio non era stato irruente, ma non era da Teddy lasciarsi andare in quei gesti. “Che succede, Teds?” gli chiese la ragazza guardandolo, stavolta, preoccupata. 

“Ho incontrato i miei genitori”, sospirò lui; cercava di mostrarsi il più tranquillo e indifferente possibile, ma faticava a nascondere il sorriso ebete che gli si era stampato in faccia. 

Vicky sbatté un paio di volte le palpebre come se dovesse mandare giù la notizia. Poi si aprì in un sorriso radioso. “Finalmente! E come è andata?” Andò vero il letto e si sedette appoggiata al cuscino, le ginocchia piegate sotto il sedere.
Teddy la imitò e si accomodò di fronte a lei con le gambe incrociate. 

“Bene”, esalò il ragazzo fissando gli occhi sulla coperta. Non sapeva esattamente cosa dire. Era venuto lì perché non poteva tenersi tutto dentro - e Vicky era un’ottima candidata per ovvie ragioni - ma ora era a corto di parole. Come poteva spiegare quello che provava? “Bene. Sì, insomma… Bene”. 

“Teddy”, fece lei senza nascondere una risata. 

“Voglio dire… Sono come me li immaginavo, come li ho visti nelle foto. Anzi, meglio. Mia madre è davvero bella e spiritosa e mio padre è gentile e… Mi ricorda un po’ tuo padre, sai, per le cicatrici”.
Vicky gli sorrise prendendogli una mano tra le proprie e massaggiandogli il dorso col pollice.
“E di cosa avete parlato?” 

“Di tante cose. Del mio lavoro, di quello che faccio… anche di te”. 

Questa volta la ragazza sorrise con leggero imbarazzo ma senza perdere la contentezza mostrata prima. Era davvero felice per Teddy.
“Vorrebbero conoscerti”. 

Lei annuì. “Certo”. 

Teddy si ritrasse all’improvviso e girò lo sguardo verso la porta come se volesse assicurarsi che nessuno stesse arrivando. Poi tornò a guardare Vicky e le sorrise malizioso. “Hai silenziato la stanza?” 

“Sì”. 

Con calma e senza mai perdere il contatto visivo con lei, Teddy le andò incontro carponi e si allungò per baciarle il collo. Vicky indossava solo una maglietta corta e le mutandine e fu facile togliere tutto. Teddy, dal canto suo, non ci metteva mai troppo a spogliarsi.

*** 

Eccomi qui e con un capitolo parecchio lungo. Spero lo abbiate apprezzato. Devo dire che mi è piaciuto molto scrivere dell’incontro tra i Lupin, mi sono commossa io stessa più volte. Non vedevo l’ora di farvelo leggere.
Quindi fatemi sapere che ne pensate. 

A domenica prossima,

C.

LA VERITÀ VIENE A GALLA

Teddy entrò in casa della nonna con leggera esitazione. Sapeva che Andromeda era andata a fare la spesa e che suo padre e sua madre erano in casa da soli. Quindi quello era il suo momento; ne aveva parlato con la nonna e con Harry, ma non era del tutto pronto ad affrontare quella conversazione. In quell’ultimo periodo non era davvero pronto ad affrontare nulla. Si stava rivelando essere un Grifondoro fallito, a quanto pareva. Ma aveva rimandato l’incontro coi genitori per troppo tempo, non poteva ripetere l’esperienza. Ed inoltre, se avesse continuato a rimandare anche quello, prima o poi, Remus e Tonks sarebbero venuti a saperlo comunque. Meglio da lui che da qualcun altro o… qualcos’altro, come ci aveva tenuto a sottolineargli la nonna.
Con un sospiro, facendosi coraggio, entrò in salotto dove trovò i suoi genitori seduti sul divano a guardare la TV. Un vecchio programma comico che Teddy ricordava di aver visto da piccolo, doveva essere una replica.
“Ehi!” lo salutò Tonks non appena lo intravide fermo sulla soglia della porta dopo qualche istante. La ragazza indossava dei pantaloncini corti che dovevano essere stati di Vicky o di sua sorella Dominique, Teddy non ricordava con esattezza su quale delle due sorelle Weasley li avesse visti. Probabilmente su entrambe. Suo padre era vestito decisamente di più rispetto a sua madre. “Tua nonna è andata a fare la spesa”. 

A quel punto anche Remus si era girato a guardarlo, con un sorriso dolce. 

“Lo so”, rispose il ragazzo. “Volevo - volevo parlare con voi”. 

“Oh, okay”. Tonks spense il televisore e mise giù le gambe che aveva tenuto incrociate sul divano.   Anche Remus si accomodò meglio sul bordo del divano. Teddy si sedette su una delle poltrone disposte a lato e appoggiò la borsa da lavoro per terra accanto ai propri piedi. Ormai era troppo tardi per tirarsi indietro.
“Prima di tutto”, cominciò Teddy aprendo velocemente la propria borsa. Sentiva il cuore battere all’impazzata. Non aveva idea di come i suoi genitori avrebbero preso quella notizia; sia Harry che Andromeda - ma anche gli altri - lo avevano avvisato del fatto che suo padre aveva temuto più della morte, forse più di Voldemort stesso, il fatto che anche lui potesse soffrire della maledizione del lupo mannaro ed era stato immensamente felice nello scoprire che così non era. E invece ora… Teddy cercò di non pensarci. Doveva pensare come se fosse lavoro, semplice e banale lavoro, quando doveva dare ai parenti del paziente qualche brutta notizia. Distaccato e neutrale.
Teddy poggiò sul basso tavolino in mezzo al salotto una piccola scatola di legno contenente delle pozioni. Remus ne riconobbe subito il colore e la consistenza, avendole viste troppe volte nella sua vita. Alzò lo sguardo sul figlio con uno sguardo particolare. 

“Le ho preparate per te. Immagino ti servano”.
Remus sorrise e avvicinò la scatola a sé; c’era una boccetta piena di liquido ambrato per ogni giorno della settimana che lo separava dalla luna piena.
“Le hai fatte tu?” 

“Sì. E sono piuttosto bravo a fare pozioni quindi non ti uccideranno, tranquillo”, rispose Teddy in tono ironico. La pozione anti-lupo era piuttosto difficile da preparare e se si sbagliava qualcosa poteva avere conseguenze fatali per chi la prendeva. Ma Teddy ormai era allenato e doveva ringraziare anche il suo ex insegnante di Pozioni, Lumacorno, per essersi preso la briga di insegnargli quella particolare pozione in privato quando ne aveva avuto bisogno.
“Ai miei tempi era difficile procurarsene”.

“Perché gli ingredienti costavano troppo. Ma ora… be’, alcuni costano ancora parecchio ma in ospedale ne teniamo una scorta. E poi, le cose sono cambiate, ci sono leggi che permettono a chi soffre di licantropia di comprarli a un prezzo ridotto”.
Tonks sorrise e strinse una mano al marito guardando affascinata quelle boccette. “È una bella cosa, no? Finalmente le cose sono evolute un po’”, disse con entusiasmo.
Ma Remus non riusciva a condividere del tutto quella gioia; vedeva nell’espressione seria e tormentata del figlio, da come si mordeva il labbro e da come cercava di evitare il suo sguardo, che c’era qualcos’altro sotto. Anche in quelle parole che aveva detto… Certo, Teddy era un medico e probabilmente aveva accesso a tutte le pozioni che voleva per il suo lavoro, ma… 

“C’è un’altra cosa”, disse allora il ragazzo, alzando lo sguardo sui genitori, ma i suoi occhi erano alla ricerca di quelli del padre.
Anche Tonks tornò improvvisamente seria. Remus iniziò a sentire caldo, la mano che stringeva quella della moglie stava sudando. Era sempre stato una persona percettiva e capiva in anticipo quello che gli altri magari ci mettevano un po’ a capire, ma sperava con tutto il cuore di sbagliarsi questa volta. Troppi, troppi indizi lo stavano portando a pensare che… La pozione anti-lupo… Perché Teddy continuava ad alternare lo sguardo tra lui e la pozione anti-lupo? Perché era così serio? Perché esitava?
E, soprattutto, perché i suoi occhi erano così… ambrati? Non ci aveva fatto troppo caso la prima volta che lo aveva visto, ma ora… a una settimana dalla luna piena… 

“Prometti che non ti arrabbi?” chiese il ragazzo fissando il volto di padre con occhi quasi supplichevoli. E per Remus fu abbastanza, tutte le sue paure vennero confermate.
Non riuscì a dire nulla, nemmeno ad annuire o a esalare un suono. Il suo corpo si irrigidì sul divano, il respiro gli divenne corto. Riusciva a malapena a percepire la presenza della moglie accanto a lui. Tutto ciò che vedeva era il volto del figlio e non gli sembrava reale. Non voleva sentire quelle parole dette da Teddy, non voleva vedere quegli occhi ambrati - identici ai suoi - sul suo volto.
“Io- Io non ho ereditato solo il tuo potere di Metamorfomagus da te”, continuò il ragazzo rivolgendosi alla madre stavolta. 

“No!” lo interruppe Remus, la voce che rasentava quella di un ringhio. “No!” 

“Che succede?”
Remus si era alzato in piedi e si era leggermente allontanato da loro, le braccia piegate dietro la testa in disperazione. Anche il suo volto si era corrucciato in un’infinità di rughe che gli attorniavano gli occhi, ma gli altri due non potevano vederlo perché il mago dava loro le spalle. 

“Remmie, che succede?” chiese ancora Tonks alternando lo sguardo dal figlio al marito e senza avere la minima idea di cosa stesse succedendo. Si stava perdendo qualche pezzo.
Remus si voltò di colpo; nei suoi occhi si potevano leggere paura, disperazione… colpa.
“Non capisci quello che ti sta dicendo?” quasi le urlò contro. 

Tonks scosse il capo impercettibilmente. Non capiva, davvero.

Teddy, dal canto suo, non era sicuro se cercare di calmare il padre o la madre. Ma poi si vide puntare addosso gli occhi di Remus pieni di dolore. “Sei un lupo mannaro, vero?” gli chiese sul punto di piangere o di spaccare qualcosa. 

Teddy inalò una grossa boccata d’aria percependo Tonks accanto a lui emettere un singulto. Si strofinò le mani sopra i jeans scuri prima di parlare. “Non proprio”. 

Remus strinse gli occhi ancora fissi sul figlio. L’attenzione dei genitori ora era di nuovo rivolta tutta a lui e persino suo padre sembrava essersi dato un minimo di contegno.
“Non mi trasformo”.

Remus esalò un sospiro. 

“Ma non è detto che non possa succedere”.
Lupin senior si sedette sul bordo del tavolino di legno per fronteggiare Teddy che, a quella improvvisa vicinanza, si sentì ancora più a disagio. Spiegare tutto quello che aveva da spiegare sarebbe stata più dura di quello che aveva pensato. Anche Tonks si era completamente girata verso di lui. 

“Come - come è successo? Spiega, dall’inizio alla fine”, disse Remus cercando di mantenere la voce più ferma possibile ma tremava ancora di rabbia, Teddy non avrebbe saputo dire verso chi. 

Stai calmo, Teddy, ricordati, come al lavoro. 

“Il morbo si diffonde nel sangue e… una volta che ha infettato tutto l’organismo, agisce magicamente anche sul DNA. Perciò nei geni e… Perciò viene ereditato. In minore o maggiore misura, dipende. Ogni persona reagisce al morbo in maniera diversa”. 

“E tu come reagisci?”
“Be’, io non mi trasformo. Probabilmente i poteri di… mamma hanno aiutato. Ma non è detto che non possa succedere. Nessuno sa ancora come funziona il morbo del lupo mannaro. Potrei trasformarmi all’improvviso o magari potrebbe non succedere mai. Prendo anche io la pozione anti-lupo per precauzione. Quando c’è la luna piena sto abbastanza male… mal di testa, nausea, febbre, quelle cose lì. Mi manda KO per un’intera giornata. Ma per il resto è okay”. 

Remus, di fronte a lui, abbassò lo sguardo. Era tormentato, lo si poteva vedere lontano un miglio. Teddy non si aspettava di vederlo reagire con nonchalance, ma almeno avrebbe cercato di alleggerirgli la notizia per quanto fosse in suo potere. 

“E quando lo hai scoperto, tesoro?” gli chiese la madre, molto più calma e tranquilla rispetto al padre. 

“Quando avevo sedici anni. Ero ad Hogwarts e sono stato male un mese intero prima di scoprire cosa avessi. Ero svenuto a lezione. Vomitavo e avevo la febbre alta. Madame Chips non sapeva cosa fare, non aveva idea di cosa avessi perciò mi hanno mandato al San Mungo. Anche lì ci hanno messo un po’ a capire perché il gene del lupo mannaro non è facile da scovare e… Credo non abbiano mai avuto a che fare con discendenti di lupi mannari. Quando però hanno cercato… Be’, hanno visto che… sì, insomma, hanno visto qual è la mia discendenza allora hanno capito. Alcune caratteristiche ereditarie o malattie ci mettono un po’ a manifestarsi. L’adolescenza di solito è il periodo in cui compaiono più spesso”. 

Teddy cercò di orientarsi verso il versante medico perché era quello che sapeva fare meglio; non aveva idea di come reagire alle emozioni dei suoi genitori, non li conosceva, dopotutto. Tonks sembrava essere abbastanza tranquilla, ma Remus era sicuramente sconvolto e Teddy non aveva davvero idea di cosa dire o fare per calmarlo e fargli capire che non era colpa sua.
“E le persone… lo sanno?” gli chiese il padre quasi in un sussurro.
“Certo. Non è più un tabù come un tempo. Harry e la sua famiglia lo sanno. Anche i Weasley e… la mia ragazza. Alcuni miei amici e i miei coinquilini lo sanno. Anche i miei capi al lavoro, ma quando lavori in ambito medico devi segnalare se hai delle malattie o problemi. Ma ci sono delle leggi che impediscono la discriminazione verso i lupi mannari o di venire licenziati per questo. È un po’ come avere una disabilità”. Teddy ridacchiò.

“E nessuno ti ha mai… osteggiato per questo?” gli chiese ancora Remus. Agli occhi del ragazzo sembrava che la situazione non stesse migliorando per nulla. Suo padre era sempre più afflitto. 

Teddy scosse il capo. “No, certo che no”.
Non era del tutto vero, però. Ma dopotutto, non c’era bisogno che i suoi genitori sapessero tutti i dettagli. 

Remus si alzò nuovamente e fece qualche passo lontano dalla moglie e dal figlio come se dovesse pensare a qualcosa. O estraniarsi. 

“Be’, non è la fine del mondo”, disse Tonks a quel punto allungando una mano per prendere quella del figlio. “Non mi è mai importato del problema di tuo padre e di certo non mi importerà che ce lo abbia tu”. Gli sorrise con sicurezza. 

“Dora, tu non capisci!” esclamò all’improvviso Remus, voltandosi a fronteggiare la moglie. Il suo tono era di nuovo aggressivo e disperato e quasi fece sussultare l’altra. “Per te non è un problema. Ma lo è, è un grosso problema. Perché questa non è una bazzecola. Trasformarsi e… è una sofferenza”. 

“Ma lui non si trasforma”. 

“Ma potrebbe succedere, ha detto. E non sa nemmeno quando. Quindi, la cosa potrebbe coglierlo pure di sorpresa. E questo è persino peggio. E sai cosa è peggio? Che è nel DNA. Quindi anche i suoi figli potrebbero ammalarsi”. Girò il capo verso Teddy, gli occhi ripieni di odio verso sé stesso. “Vero?”
Teddy scrollò le spalle e abbassò lo sguardo. Non poteva mentire. 

“Potrebbero. Ma non è detto. Dipende, non è una cosa che si può prevedere. Dipende quanto forte è il gene. È un po come ereditare gli occhi del colore di quelli del padre o della madre. Magari i miei figli ereditano i miei poteri di Metamorfomagus, piuttosto, dipende se sono più forti questi geni o quelli della licantropia. Oppure ereditano quelli di Veela di Vicky, se io e lei facciamo dei figli”.
Remus sospirò pesantemente e lasciò andare le braccia contro il corpo. Sembrava che tutto il suo corpo si fosse appena afflosciato, come se non avesse più le forze o l’energia.
“Io- Io ho bisogno di parlare con Harry”, disse a quel punto, la voce di nuovo calma, stanca, senza guardare né la moglie né il figlio. Tirò fuori la bacchetta dalla tasca e, senza alcun avviso, sparì dal salotto. 

Teddy era rimasto a fissare il punto nel quale suo padre si era appena smaterializzato, non del tutto conscio di quello che era appena successo. Ritornò alla realtà solo quando sentì due mani posarsi sulle sue.
“Ehi”, lo richiamò dolcemente Tonks, leggermente piegata in avanti per riuscire a guardarlo in viso. Un piccolo sorriso di conforto le piegava le labbra. “Non ti preoccupare. Ha solo bisogno di un po’ di tempo per metabolizzare la cosa”.
“Io- Io non volevo farlo stare male”, bofonchiò il ragazzo. 

“Oh no, tesoro. Non è colpa tua. Tuo padre… Tuo padre è così”. Tonks sospirò cercando le parole giuste. Aveva sempre dovuto superare massi enormi quando aveva a che fare con Remus e la sua licantropia. “Non ha mai saputo affrontare bene il suo… Be’, il suo piccolo problema peloso. Ha sempre dato la colpa a sé stesso e ha sempre cercato di allontanare le persone il più possibile per paura… Paura di fare loro del male. Si è sempre visto come un mostro”. 

“Ma questo… Questo non è vero”.
Quando gli avevano parlato di suo padre, Harry e Andromeda avevano sempre accennato qualcosa riguardo alla sua licantropia e al fatto che per l’uomo fosse come una condanna che lo rendeva quasi indegno di essere come tutte le altre persone. Non aveva mai davvero concretizzato quel suo sentimento, ma forse inconsciamente - ora se ne rendeva conto - aveva pensato che stessero esagerando. O che quantomeno ora, dopo tutti questi anni e dopo che potevano finalmente abbracciarsi, non importasse più. 

“Lo so, tesoro. Lo sappiamo tutti e tutti abbiamo sempre cercato di farglielo capire. Ma tuo padre è un po’ testardo. Ma vedrai che prima o poi gli passerà. Di solito esplode all’inizio ma poi torna sempre sui suoi passi”. Tonks abbassò gli occhi pensierosa; forse non era il caso di raccontare a Teddy di quella volta che Remus voleva lasciarla quando gli aveva rivelato di essere incinta. Quella volta la loro relazione aveva toccato il punto più basso e non era stata sicura di perdonarlo. Non serviva che suo figlio lo sapesse. 

“Ma tu… Tu non sei arrabbiata?” le chiese il ragazzo e sembrava che quasi stesse temendo la risposta. 

Il sorriso di Tonks questa volta le illuminò anche gli occhi. “Oh no, tesoro. Per cosa dovrei essere arrabbiata? A me non importa davvero. Mi basta che tu sia a tuo agio con la situazione e che tu sia felice”. 

Teddy le strinse più forte le mani e ricambiò il sorriso annuendo. Non riusciva però a fare a meno di pensare alla reazione del padre. Aveva paura di aver combinato un casino. 

Remus si materializzò a casa di Harry e si girò verso il cancello di ingresso quasi come se fosse smarrito; aveva agito di impulso, lo doveva ammettere. Che senso aveva davvero parlare con Harry? Forse quello che il suo inconscio gli aveva detto di fare era allontanarsi dalla moglie e dal figlio perché non riusciva a guardarli. Non capiva perché non lo stessero odiando, loro, Harry, Andromeda… Perché lui in quel momento si odiava più di… Più di quanto riuscisse a dirlo. 

Il cancello si aprì sotto il suo tocco riconoscendolo come un ospite gradito. Harry era fermo sotto il portico insieme a James, Sirius e Lily, e gli stava dando le spalle, appoggiato contro la ringhiera, una mano impegnata a stringere una sigaretta.
“Ehi, Moony!” lo salutò James non appena lo sentì avvicinarsi, le scarpe che scricchiolavano sulla ghiaia. L’amico si rabbuiò non appena vide l’espressione grigia dell’altro.
Anche gli altri alzarono lo sguardo su di lui, ed Harry si girò a guardarlo. “Perché non me lo hai detto?” sbottò Remus quasi aggredendolo.
Harry alzò un sopracciglio perplesso, ma ci mise pochi secondi per comprendere quella domanda fatta a bruciapelo perché rispose: “Te lo ha detto”.
“Potevi dirmelo tu”.
“Non spettava a me. Sei arrabbiato perché lo hai saputo da tuo figlio?”
Gli altri rimasero a guardare quello scambio di battute confusi e sbigottiti; era raro vedere Remus arrabbiato in quel modo, ma quando lo era, era meglio non intromettersi col suo umore. Non capivano cosa mai avesse potuto avergli fatto Harry o cosa c’entrasse Teddy. 

“No, io…”. Il licantropo si interruppe incerto, gli occhi ora fissi sulle proprie scarpe. “Perché?” 

Harry scese i tre gradini che lo separavano dal suo ex professore e gli si piazzò davanti, guardandolo con uno sguardo sicuro ma non severo. 

“Perché la vita a volte è ingiusta”, gli rispose semplicemente. “E succedono delle cose che non si possono controllare. Credimi, sono stato sempre accanto a Teddy da quel momento, anche Andromeda e tutti quanti in questa famiglia. Non ha mai dovuto passare quello che hai passato tu. Ti ha detto che non si trasforma?”
“Sì, ma soffre comunque”. 

James dietro di loro inspirò forte realizzando quello che aveva appena sentito e lanciò un’occhiata grave a Sirius che ricambiò con la stessa espressione. Poi continuarono a seguire lo spettacolo davanti a loro col fiato sospeso. 

“E se un giorno si trasformasse?” fece Remus. 

“Se dovesse succedere saremo preparati”, rispose Harry con molta calma, come se si stesse occupando di un caso di lavoro. “Sono diventato un Animagus per quell’eventualità. So cosa fare. Ma sono sicuro che non succederà”.
“Non puoi saperlo”.
L’espressione di Remus era sempre più tormentata; nessuno poteva indovinare il conflitto che stava avvenendo dentro di lui. 

Harry scosse leggermente il capo e sospirò forte. “Remus, non puoi farci niente. Non è colpa tua”, gli disse mettendogli le mani sulle spalle. Stava parlando con lo stesso uomo che da giovane aveva osservato come suo mentore e amico, la forma più vicina che aveva a una famiglia, dopo Sirius, ma ora, dall’alto della sua anzianità, poteva permettersi di essere più paternalistico. “E cosa vuoi fare in ogni caso? Ignorare il problema e andartene?”
Remus emise un leggero singulto alla menzione - non poco vaga - di quell’episodio in cui aveva dimenticato la propria dignità e Harry lo aveva riportato sulla propria strada, anche se era finita con un tremendo litigio e lui che scaraventava Harry dall’altra parte della stanza. 

Nessun genitore dovrebbe abbandonare il proprio figlio.

Remus se ne era vergognato immensamente. 

“Parlane con lui. Parlane con tuo figlio”, disse Harry stavolta più calmo, spostando, quasi impercettibilmente e per un solo istante, gli occhi verso qualcosa che stava dietro all’altro, ma questo bastò a Remus per girarsi e vedere che anche Teddy e Tonks lo avevano raggiunto e lui non li aveva nemmeno sentiti avvicinarsi. 

“Andiamo, Sirius”, fece infine Harry, girandosi verso il padrino e allungandogli una mano. Doveva accompagnarlo a Diagon Alley per prendere una bacchetta.

Teddy e Remus si sedettero nel giardino sul retro della casa di Harry, su un paio di sdraio poste a bordo-piscina. 

Rimasero entrambi in silenzio per qualche istante, incerti su cosa dire o su chi dovesse iniziare.
“Mi dispiace”, esordì infine il genitore con la voce roca. 

“Per cosa?” 

Remus scrollò le spalle. Per cosa gli dispiaceva esattamente? Per essersene andato in quel modo? Per averlo condannato a una vita di sofferenza come la sua? Per avergli fatto quell’orribile regalo presente nei suoi geni? 

“Avrei dovuto lasciare che questa cosa morisse con me”, disse semplicemente. 

Teddy fissò i propri occhi ambrati sul volto del padre senza una particolare espressione. “Ti sei pentito di avermi avuto?”
Il voltò di Remus si raggrinzì in una smorfia di dolore e orrore; stava sbagliando quella cosa su tutti i fronti. Non c’era una sola cosa giusta che uscisse dalla sua bocca. 

“Oh Merlino no! Quello mai, Teddy! Sei la cosa migliore che abbia mai fatto nella mia vita”.
“E allora per cosa ti dispiace? Questa cosa non è colpa tua”. 

Continuavano a dirglielo, eppure lui non riusciva a convincersene del tutto. Certo, non era colpa sua se Greyback lo aveva morso tanti anni addietro, eppure… 

“Sai, questa - cosa, questa maledizione…”, cominciò Teddy con calma, gli occhi che guardavano ovunque tranne il padre. “Ora è diverso. Non ti dirò che sia la cosa migliore della mia vita, ma non è nemmeno la peggiore. Mi ha permesso di diventare la persona che sono oggi e io amo la persona che sono oggi. A volte penso a come sarebbe la mia vita senza la licantropia e… Non lo so, penso che tutto sarebbe diverso. E forse mi piacerebbe meno. Perché non avrei iniziato a studiare medicina, non mi sarei messo insieme a Vicky forse, e non avrei avuto le amicizie sincere che ho oggi. E ti giuro, tutto questo mi piace da morire”. Si strinse nelle spalle e finalmente fermò lo sguardo sul padre con un leggero sorriso. “Questa cosa fa parte di me. È ciò che mi rende… me. E mi piace tanto come sono”. 

Remus lasciò andare un sospiro strozzato cercando di trattenere le lacrime; come poteva un ragazzo di soli ventidue anni fare discorsi di quel tipo, così genuini e sinceri e così… intelligenti? Avevano ragione Andromeda ed Harry a dire che era saggio e intelligente. 

Gli prese le mani e gli accarezzò il dorso coi propri pollici. “Sei sicuramente più saggio e intelligente di me. Sono così contento che Harry e tua nonna ti abbiano cresciuto”.
Il sorriso di Ted si aprì di più. “Non ho mai conosciuto altri lupi mannari. E… Insomma, forse a me non succederà mai, ma in caso… Avrò bisogno del tuo aiuto. Non sentirti in colpa, questo non c’entra nulla con te. Voglio solo che resti con me”.
Con uno scatto, Remus tirò il figlio verso di sé stringendolo in un forte abbraccio, nascondendo le piccole lacrime che non aveva potuto impedire di uscire contro il collo del ragazzo.
“Ma certo, Teds. Certo. Ti voglio un bene che non puoi nemmeno immaginare”.
E Teddy si lasciò andare contro quell’abbraccio che non sapeva nemmeno di aver agognato. Sentire le storie sui i genitori dalla bocca di altri e guardare le loro foto non era come averli accanto a sé. Quella era tutta un’altra storia. 

“Quindi Ted è un licantropo”, fece Sirius quando si trovò con Harry fuori dal cancello di casa. Non era una domanda, ma una semplice constatazione.
Il figlioccio annuì tirando fuori la propria bacchetta. “Ha ereditato i geni, ma non si trasforma. Soffre un po’ quando c’è la luna piena”.
“Povero Moony”, sospirò l’altro abbassando lo sguardo. Gli dispiaceva così tanto per il suo migliore amico. Aveva ancora davanti agli occhi l’espressione felice di Remus quando - chiusi in quella stanza del Ministero - gli aveva raccontato del figlio e del fatto che non avesse ereditato la sua maledizione. Scoprire che invece non era così e che il ragazzo si era ammalato anni dopo… Be’, era quella che si poteva chiamare ingiustizia della vita.

“Credimi, Ted sta bene. E non è certo solo in questa cosa”.
No, Sirius poteva ben dirlo. Se quei pochi giorni che aveva trascorso a casa di Harry e della sua famiglia gli avevano mostrato qualcosa, era l’amore e il legame forte che li univa. Anche e soprattutto verso Ted che ormai era un fratello Potter adottato.
Teddy non avrebbe passato quello che aveva passato suo padre.
“Andiamo?” gli chiese Harry allungandogli una mano per Smaterializzarsi.
“Sì ma quando torniamo mi fai vedere in cosa ti trasformi”.

Sirius afferrò la mano tesa e i due scomparvero. 

*** 

Aggiornamento mattutino perché il pomeriggio sarò via : )
Allora, vi è piaciuto questo capitolo? Anche questo per me è stato molto bello da scrivere e spero di essere riuscita a incanalare tutte le emozioni che sentivo io durante la scrittura/rilettura.
No, Teddy non è un licantropo completo XD devo ringraziare i miei ricordi di scienze delle superiori e dei piselli di Mendel per spiegare tutta sta storia dei geni. Per chi non conoscesse il fenomeno, spero che comunque si capisca a grandi linee dalla storia ^^ 

Per quanto riguarda quello che dice Ted al padre, che la malattia ha contribuito a renderlo la persona che è oggi e che ama questa persona, è un pensiero che spesso faccio anche io quando mi ritrovo in quei momenti di sconforto per la mia, di condizione (su cui non scenderò in dettagli comunque). Piccolo dettaglio non importante soltanto per dirvi di provare a vedere il bicchiere mezzo pieno se soffrite di qualche condizione/patologia/malattia/difficoltà/ecc. Fa parte di voi e va bene così, si deve accettare e amarsi anche per questo. 

Ora la smetto con le pillole di saggezza e vi auguro una buona domenica. 
Fatemi sapere nei commenti che ne pensate,

Un bacio. 
C.

ALCUNI SE NE VANNO, ALTRI RITORNANO

“Albus, ti muovi ad uscire dal bagno?” la voce possente di James Sirius sconquassò il secondo piano della casa e, se qualcuno non si era ancora svegliato, ora sicuramente lo aveva fatto. “Devo farmi una sega, sbrigati!”
La porta del bagno si spalancò con un colpo e gli occhi assonnati e contrariati di Albus si posarono sul fratello mentre gli teneva la porta aperta. 
“Devi sempre essere così volgare, Jim?” 
“Grazie, fratellino”, fu la risposta del maggiore mentre entrava di corsa nel bagno con un sorriso sornione. 
Sirius rise genuinamente divertito a quello scambio di battute a cui aveva assistito mentre attraversava il corridoio per scendere al piano terra. 
Lasciò passare Albus sulle scale seguendolo silenzioso. 
Harry e Ginny erano già in piedi e si stavano bevendo il caffè, uno impegnato a guardare qualcosa al proprio telefono e l’altra con la faccia nello schermo del computer. 
“Oh ciao, tesoro!” salutò Ginny non appena vide il figlio avvicinarsi al tavolo. “Buongiorno”, salutò poi con un sorriso incontrando lo sguardo di Sirius. 
“Caffè?” gli chiese Harry mentre se ne versava dell’altro nella propria tazza. 
“Grazie”, gli rispose il padrino esitando un po’. Harry prese un’altra tazza dalla dispensa per offrire il caffè a Sirius. Poco dopo li raggiunsero anche James e Lily. Non erano passati troppi giorni da quando si erano trasferiti a casa di Harry e Ginny, ma nemmeno pochi, abbastanza per iniziare ad abituarsi e a sentirsi a proprio agio - più o meno - ma non avevano idea di cosa fare delle proprie vite, delle proprie esistenze. Si sentivano ancora degli ospiti lì dentro; certo, la famiglia di Harry li trattava bene, i suoi figli li avevano subito accolti come se li conoscessero da una vita, Jim in particolare, ma… Si rendevano conto che non poteva durare così per sempre. E quanto sarebbe durata allora? Finché non scoprivano come mai erano tornati in vita? E quando si sarebbe scoperto? E se si fosse scoperto, cosa sarebbe successo allora? Erano persone tornate in vita dalla morte… Non era qualcosa a cui la gente avrebbe reagito con nonchalance. 
Non avevano il coraggio di porre alcuna di quelle domande ad Harry. E poi, era piuttosto difficile riuscire a beccarlo da solo… o anche solo a beccarlo. Se ne stava sempre in giro da qualche parte. Non avrebbero saputo dire se li stesse evitando o se era davvero così impegnato. 
In quel momento era vestito con un paio di jeans scuri e una camicia bianca, segno che stava andando da qualche parte.“Oggi torno tardi, Gin”, disse sporgendosi verso la moglie. 
“Lavoro?” chiese lei senza togliere gli occhi dallo schermo, ma allungando una mano per sfregargli la leggera barbetta che gli stava crescendo sotto il mento. 
“Sì. Stiamo per risolvere un caso”. 
“Posso chiederti di che caso si tratta?” chiese a quel punto James guardandolo dall’altra parte del tavolo. “So che gli Auror devono mantenere la confidenzialità, ma… se puoi accennare qualcosa. Sono curioso”. 
Harry sorrise leggermente e andò al lavello per riporre la sua tazza vuota. “Abbiamo scoperto un gruppo di trafficanti di pozioni velenose e armi magiche pericolose. Li abbiamo seguiti per mesi con le intercettazioni, cercando di rintracciare tutti i loro spostamenti. E sappiamo che stasera deve avvenire uno scambio tra loro e alcuni clienti che vogliono comprare le loro armi”. 
“Oh wow! Pericolosi?” chiese Lily. 
Harry sospirò. “Diciamo che non è diverso dai tanti casi che abbiamo risolto prima. Andrà bene”. Scrollò le spalle dirigendosi verso il corridoio d’uscita. Aveva ormai il tipico atteggiamento e la tipica confidenzialità di un Auror, specialmente se era a capo dell’ufficio. Lui non poteva permettersi di avere dei dubbi o delle esitazioni. 
“Harry!” lo richiamò Ginny prima che l’altro uscisse. “Di’ a Ron che la mamma vuole che la vada a trovare. Sono giorni che rompe a me”. 
Harry aveva ormai varcato la porta quando lo si sentì ridacchiare. “Te l’ho detto che a lei non bisognava regalare il cellulare”. 
Harry andò via e Ginny non fece in tempo a tornare al suo lavoro che sentì un picchiettio alla finestra. “Deve essere per te, Al”, disse rivolta al figlio mentre si alzava per aprire la finestra a quello che riconobbe essere il gufo reale di casa Malfoy. Slegò la lettera che l’uccello teneva legata alla zampa e gli avvicinò la ciotola d’acqua che tenevano sempre lì vicino per eventuali gufi che consegnavano la posta. 
Albus appoggiò la propria tazza di latte sul tavolo e srotolò subito la pergamena. Era dall’inizio dell’estate che aspettava una lettera dal suo migliore amico. I suoi occhi scorsero velocemente sulle parole quasi minuscole quando il suo volto si rabbuiò e le mani si strinsero forte sul foglio spiegazzandolo. 
“Mamma”, chiamò in tono grave. Lo sguardo di Ginny si alzò subito su di lui, così come quello degli altri presenti. 
“Che c’è?” 
“La madre di Scorpius è morta”. 
“Oh”. 

Vicky buttò un asciugamano nel borsone che stava preparando e infilò la testa nell’armadio della propria camera per cercare le scarpe da ballo che aveva buttato da qualche parte. Aveva sperato che quelle nuove che aveva ordinato arrivassero in fretta ma così non era successo, e quindi doveva accontentarsi di quelle vecchie che reggevano a malapena.
Dominique sbirciò dentro alla stanza e fece una smorfia perplessa nel vedere solo metà del corpo della sorella piegato sul pavimento.
“Stupido armadio, lascia stare mia sorella!” urlò la ragazza con finta aria minacciosa, restando ferma vicino alla porta.
Vicky si allontanò carponi dall’armadio e alzò gli occhi sulla sorella, una ciocca dei lunghi capelli biondi cadutale davanti agli occhi. Ci soffiò leggermente sopra per cercare di spostarla ma riuscì solo a spettinarsi ancora di più.
“Scusa, stavo cercando le mie scarpe da ballo”, disse alzandosi e pulendosi le mani dalla polvere.
“Dove le hai messe?” le chiese la sorella.
“Non saprei, forse nel ripostiglio. Adesso le vado a cercare”.
Vicky superò la sorella per uscire ma nel mezzo del corridoio si voltò di nuovo verso Dominique rimanendo a guardarla per qualche istante prima di dire: “Tutto bene, Nicky? Ti serviva qualcosa?”
La sorella scosse il capo con un sorriso e un sospiro. “No, tranquilla. Sto aspettando che torni la mamma per Louis e poi esco… con degli amici”.
Vicky annuì. “Okay”. 

Teddy si sedette al tavolo della mensa vicino ai suoi colleghi dell’ospedale sbattendo il vassoio con un colpo e accasciandosi sulla sedia con un sospiro.
“Siamo solo all’ora di pranzo e io sono già esaurito”, disse il Metamorfomagus sotto gli sguardi mezzi divertiti degli altri.
“Resisti, Teds, almeno tu non hai un paziente con dei sintomi strani che però è negativo a tutte le analisi”, gli disse Elijah prima di addentare il suo panino. Elijah era il suo migliore amico dai tempi di Hogwarts e il suo coinquilino da un paio di anni.
Teddy prese il budino al cioccolato e aprì la confezione cercando di non sporcarsi le maniche del camicie bianco.
La sua collega Reina lo osservò con un cipiglio alzato. “Salti il primo e il secondo per il dolce?” gli chiese quasi scandalizzata.  
“Ho come l’impressione che il mio cerca-persone suonerà tra pochi attimi e voglio saltare subito alla parte più buona”, rispose Teddy affondando il cucchiaio di plastica nel budino come a volerlo perforare; i budini in quel posto erano buoni, era tutto il resto  del cibo che lasciava a desiderare. “Non sono stato fermo un attimo questa mattina. Sembrava che tutti i miei pazienti volessero collassare nello stesso momento”.
Chrysta, l’altra collega seduta vicino a Reina, scoppiò a ridere. Si calmò solo quando Teddy le lanciò un’occhiata di sbieco. “Scusa, è solo che lo hai detto con un tono…”. Teddy non si preoccupò di chiederle che tipo di tono intendesse, era un po’ che aveva smesso di preoccuparsi di quello che Chrysta intendeva. Era una ragazza decisamente strana, ma sicuramente una tirocinante valida.
Quando Teddy finì il suo budino anche Alex li raggiunse col suo vassoio e si accomodò sull’ultima sedia rimasta libera al loro tavolo. “Ho un intervento tra un’ora. Un paziente ha avuto un infarto. Callaghan mi fa assistere”. 
“Wow!” esclamò Elijah genuinamente colpito. Tutti sapevano quanto Callaghan fosse bravo nel suo campo, ma anche quanto fosse restio a dare spazio agli specializzandi in quello che faceva; persino Teddy non aveva ancora avuto quel privilegio, eppure aveva dato prova delle sue capacità più e più volte. Ma Alex doveva essere entrato particolarmente nelle sue grazie. Qualcuno diceva che era perché scopavano, ma Teddy non era propenso a credere a quella diceria. Non perché non fosse malizioso, ma semplicemente perché non vedeva Alex come qualcuno propenso al sesso. Non per scopi accademici quantomeno. 
Il cerca-persone di Teddy in quel momento suonò. 

Gli Auror erano in posizione, nascosti a piccoli gruppi o a coppie in diversi punti strategici. Lo scambio doveva avvenire da un momento all’altro e loro sarebbero stati pronti. Seguivano quel particolare gruppo di contrabbandieri da un paio di mesi ormai e non potevano perderli.
Harry, nel buio del porto dove erano appostati, dietro il muro di un edificio in rovina, girò la testa verso i suoi colleghi e subordinati come a volersi sincerare che fossero pronti. Ron ricambiò il suo sguardo con fermezza e così anche Rita e Adam dietro di lui. Harry sentiva il proprio cuore martellare dentro il petto; come al solito, quando si imbarcavano in una missione, sentiva quel po’ di ansia e preoccupazione che erano normali per casi pericolosi, ma anche una buona dose di adrenalina pervadergli tutto il corpo. L’azione - lo aveva ormai capito - era diventata la sua nuova droga. E come capo doveva stare in prima linea e assicurarsi prima di tutto il benessere dei suoi compagni. Per fortuna tutta la sua squadra era formata da giovani ragazzi e ragazze responsabili, capaci e collaborativi. Se la intendevano alla perfezione. Peccato che, come sempre, erano sempre troppo pochi e a giudicare da come stavano andando gli addestramenti delle nuove reclute, pochi ne sarebbero passati anche quell’anno.
Harry intravide un uomo pelato fermo in mezzo al molo fare qualche passo in avanti, le mani infilate nelle tasche e un’aria abbastanza tranquilla. Probabilmente non si aspettava la presenza degli Auror. Harry sperava che le loro barriere anti-localizzazione reggessero. In quegli ultimi anni erano stati inventati nuovi incantesimi, specialmente per gli Auror, ma non era detto che tutti funzionassero sempre al primo colpo.
I due uomini accanto all’uomo pelato, probabilmente i suoi body-guard, tirarono fuori le bacchette. I clienti erano arrivati, diversi pop di materializzazione accompagnarono la comparsa di tre uomini. Lo scambio stava per avvenire.
Proprio quando l’uomo pelato aveva aperto la cassa piena di pozioni e artefatti oscuri, Harry e gli altri due colleghi che aveva messo al comando delle rispettive squadre - uno nascosto sotto coperta in una barca e l’altro dietro un muretto - gettarono alcune pozioni esplosive nella direzione dei contrabbandieri provocando un’enorme massa di fumo e tanto rumore. Il vantaggio di quegli esplosivi era che rallentavano i movimenti e impedivano di vedere bene. Gli Auror, protetti da una bolla magica che li avrebbe protetti dal fumo, si avvicinarono al gruppo di malviventi e iniziarono a scattare subito le manette.
“Potter”, ringhiò il pelato quando Harry lo ammanettò e lo afferrò malamente per le spalle. Quello era il capo della banda da quanto avevano capito dalle intercettazioni. Sperava che farlo parlare sarebbe stato facile tanto quanto catturarlo. C’erano altri della banda da catturare.
“Hai finito di trafficare armi, Melman”, gli disse Harry trascinandolo via. Ron tratteneva uno dei suoi scagnozzi e gli altri Auror avevano catturato anche i due colleghi di Melman che si erano appostati.  

La ragazza era rimasta impietrita; aveva aspettato quel momento da mesi, forse anni - a dire il vero non sapeva più dire da quanto tempo - e ora non sapeva che fare o cosa dire. La donna di fronte a lei, esattamente come l’aveva immaginata e come l’aveva vista dalle poche foto che aveva reperito - capelli ricci lunghi e neri, gli occhi come la notte, la pelle color del marmo - la fissava come una bestia rinchiusa ingiustamente in una gabbia stretta: cauta, impaurita, confusa ma con una certa furia nello sguardo.
“Dove siamo?” le chiese, le mani poggiate contro il muro sudicio dietro di lei e il corpo leggermente piegato in avanti.
“A Little Hangleton”, le rispose l’altra solo per riflesso. Il suo cuore batteva all’impazzata e non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Sperava che con quella informazione potesse darle qualche sorta di sicurezza. Invece la donna inarcò ancora di più le sopracciglia e fece qualche passo verso di lei cercando di apparire minacciosa. Probabilmente era il suo modo di reagire alla paura.
“E tu chi sei, ragazzina?”
La ragazza si passò una mano sotto il naso colante; non era quello il momento di comportarsi come una mocciosa frignona. Per quello bastava Patrick, in attesa da qualche parte in un’altra delle camere della casa secondo il suo ordine.
“Sono - sono Zeudi, mamma”. 
La donna spalancò gli occhi neri. 

Sirius lanciò un’occhiata verso Ginny che stava per addormentarsi sul divano. I ragazzi erano a letto da un po’ e anche James e Lily, ma lui era rimasto a tenere compagnia alla donna mentre guardava quel strano film che aveva finito per affascinare anche lui.
Si chiedeva perché non andasse a letto, ma l’uomo aveva come la sensazione che stesse aspettando il ritorno di Harry. Non aveva potuto fare a meno di notare lo sguardo di preoccupazione - anche se ben celato - che aveva lanciato al marito quando questi l’aveva salutata prima di andare in missione, fasciato nella scura divisa da Auror e gli anfibi, al posto della solita camicia e dei pantaloni eleganti.
Sirius sapeva bene quanto pericoloso fosse il lavoro da Auror, ma Harry era il capo, era capace ed aveva sconfitto il mago più potente di tutti i tempi a soli diciassette anni. Se la sarebbe cavata, ne era sicuro. Eppure, persino lui, forse per empatia o perché voleva un bene immenso ad Harry, non poteva fare a meno di sentire una certa ansia. Si stava facendo sempre più tardi.
Poi, poco prima dei titoli di coda, sentì una chiava entrare nella serratura della porta d’ingresso, seguito dal rumore di passi familiari sull’uscio.
Sorrise sollevato.
Il capo di Ginny si sollevò di colpo, mezzo illuminato dallo schermo della televisione. 

*** 

È un capitolo abbastanza leggero, volevo un attimo far entrare voi, miei cari lettori, nella quotidianità dei personaggi che sto creando (che rimangono comunque di J.K. Rowling). Ammetto che la scena di Teddy in mensa al San Mungo era un po’ da Grey’s Anatomy, e quella di Harry… okay, quello che sappiamo degli Auror è che catturano i Mangiamorte, e immagino anche altri Maghi Oscuri, per cui penso che funzionino un po’ come forze dell’ordine Babbane. Radunano in sé un po’ i lavori che fanno i poliziotti e gli investigatori/agenti dell’anticrimine, anti-mafia, ecc.
Forse di Vicky invece non avete capito molto, ma non importa. Di lei parlerò ancora. Fatemi sapere che ne pensate. Vi invito davvero a lasciarmi dei commenti perché, credetemi, stimolano molto ad andare avanti e a migliorarsi. 

Un bacio,
C.

IL FUNERALE

C’erano diverse persone al funerale di Astoria Greengrass in Malfoy. Parenti, amici, erano tutti raccolti in piccoli gruppetti che parlottavano sottovoce in quell’elegante e spaziosa sala dove si sarebbe svolto il funerale della defunta. Qualcuno piangeva addolorato per la perdita.
Quando Harry e Albus entrarono dalla porta, alcune teste si voltarono nella loro direzione, ma nessuno curiosò troppo e tutti si ritirarono presto al proprio dolore; era troppo chiedere che qualche membro della famiglia Potter non attirasse alcun tipo di attenzione, specialmente al funerale di un membro dei Malfoy.
Albus si staccò subito dal padre per correre verso Scorpius, seduto su una sedia vicino al rinfresco.
Harry invece si incamminò con calma all’interno della sala, in mezzo a una folla di sconosciuti che lo seguiva con la coda dell’occhio, alcuni fallendo miseramente nel non farsi notare. Esitò qualche istante, prima di fare anche quegli ultimi passi che lo separavano dalla bara aperta posta al fondo della sala, affiancandosi a Draco Malfoy.
“Era davvero bella”, disse piano, quasi sussurrando.
Era vero, chiunque avrebbe mentito negando che Astoria Malfoy fosse bella. Persino in morte, col volto pallido, marmoreo come quello della migliore statuaria greca, sembrava davvero scolpito in pietra perché non mostrava alcun segno d’età; ma Astoria era giovane, nemmeno quarant’anni, non aveva nemmeno avuto il tempo di farsi spuntare le rughe o qualche striatura grigia in mezzo ai folti e lunghi capelli neri e lisci come la seta. Il suo corpo, immobile, era fasciato in un vestito verde smeraldo, a richiamare il colore simbolo della sua Casa, Serpeverde, ma anche il colore che le donava di più.
Malfoy non si mosse, non diede nemmeno un cenno di aver sentito Harry o capito che si trovava lì accanto a lui; stava in piedi con le mani appoggiate al bordo della bara e teneva gli occhi fissi sul volto della moglie.
Harry stava quasi per richiamarlo di nuovo quando lo vide voltare il capo nella sua direzione, lentamente.
“Sì, lo era”.
Il volto del Serpeverde era imperturbabile, non si capiva se provava dolore o rabbia o alcun tipo di emozione. Era sempre stato così, gelido e distaccato, soprattutto in pubblico.
“Malfoy… Draco, non hai idea di quanto mi dispiaccia. Ti prego di accettare le mie condoglianze”.
“Ti ringrazio”.
Era sempre strano trovarsi accanto a Malfoy in maniera così tranquilla e pacifica, dopo tutti quegli anni di scuola passati a litigare e maledirsi e chiamarlo persino col nome di battesimo. Ma a quarant’anni non aveva più senso portarsi dietro certi rancori.
“Mi dispiace, temo che potrei aver attirato qualche attenzione”, aggiunse Harry poi.
Le labbra di Draco si piegarono in una smorfia strana. “Non ti preoccupare. Ci ho fatto l’abitudine”. Harry sapeva che non si riferiva a lui; anche i Malfoy avevano ricevuto la loro buona dose di gossip e speculazioni da parte dei giornali.
L’Auror si guardò attorno alla ricerca di Lucius e Narcissa ma non li vide da nessuna parte. Forse non c’erano nemmeno. Sapeva che Draco non era più in ottimi rapporti coi genitori, non dopo la guerra e specialmente da quando aveva sposato Astoria. I due, a quanto si diceva, non avevano approvato quella relazione ma Harry non avrebbe saputo dirne il perché, come non sapeva esattamente di cosa fosse morta Astoria, anche se era conoscenza comune di tutti che la fanciulla non godesse di ottima saluta e passasse gran parte del tempo chiusa in casa a bere pozioni rilassanti e anti-dolorifiche.
Quello però non era il momento più opportuno per fare domande. 

Albus strinse la mano di Scorpius nella propria, intrecciando le loro dita, solo leggermente, un piccolo gesto per fargli capire che lui c’era, che aveva una spalla. Erano sempre così loro due, fatti di gesti silenziosi e leggeri, come se temessero di essere troppo invasivi l’uno con l’altro.
“Mi dispiace tanto, Scorp”, disse Albus quasi sussurrando, lo sguardo fisso sulle loro mani. Avevano quasi lo stesso colore della pelle ma quella di Scorpius era più bianca, quasi albina. Il moro era semper rimasto affascinato dalle sue tonalità, così chiare ed eteree.
Scorpius si voltò verso l’amico e lasciò andare un lento sospiro tremolante. 

“Grazie. Grazie di essere venuto”.
Albus sollevò una parte del labbro in un piccolo sorriso di conforto. “Sempre. Lo sai”.
Rimasero in silenzio per un altro po’, guardando le persone passare, fermarsi a parlare con qualcuno, abbracciarsi.
“Quando torniamo ad Hogwarts… Possiamo fare tutti gli scherzi che vuoi a Gazza. Dobbiamo ancora fare quello che proponevi tu”, disse Albus, solo per avere qualcosa da dire.
Ma la risposta di Scorpius arrivò seria ed eccessivamente dura. “Non so se torno ad Hogwarts”.
“Come sarebbe a dire?” Gli occhi di Albus si erano spalancati, il cuore non ci aveva messo un attimo ad accelerare i battiti in segno di agitazione. 

“Non voglio lasciare papà da solo”.
Albus stava per ribattere ma in quel momento sopraggiunsero Draco e Harry. Draco disse al figlio che era ora di cominciare e lo accompagnò dentro la sala, mentre Harry prese per mano un confuso e disperato Albus e se lo tenne stretto per tutto il tempo della cerimonia. 

“Com’è andata?” chiese la voce di Ginny non appena sentì la porta d’ingresso aprirsi e due zazzere scure comparire davanti ai suoi occhi.
Albus corse subito su per le scale senza guardarsi attorno e Harry sospirò pesantemente, si slacciò la cravatta e si avvicinò al frigo tirando fuori una birra.
“Era un funerale, Gin, come vuoi che sia andata?” le rispose il marito, troppo cinico per i suoi gusti.
Ginny inarcò un sopracciglio dal divano sul quale era stesa a leggere un libro. Harry le si avvicinò e si appoggiò coi gomiti allo schienale, reggendo la birra con entrambe le mani.
“Albus sta bene?”
“Non lo so, è rimasto in silenzio tutto il tempo in auto”.
“Be’, è morta la madre del suo migliore amico. Puoi biasimarlo?”
Harry scosse il capo e si sedette sulla poltrona pensieroso; non pensava che uno dei suoi figli avrebbe dovuto approcciarsi a un funerale o alla morte così presto. Era qualcosa da cui avrebbe voluto proteggerli. Lui ormai ne aveva fatto incetta e poteva quasi dire di aver sviluppato, se non altro, un certo senso pratico alla questione.
Ma i suoi figli… James era tosto, forte, con un carattere abbastanza positivo e non si sarebbe lasciato abbattere troppo. Anche Lily alla fin fine era così, nel suo silenzio celava una maturità di carattere piuttosto rara nelle ragazzine della sua età. Ma Albus era il più sensibile tra i suoi figli, i suoi occhi erano praticamente lo specchio delle sue emozioni che a volte probabilmente nemmeno sapeva come gestire al meglio. Il che poteva essere la sua più grande forza ma anche la sua più grande debolezza. 

James non era certo del perché si sentisse così legato a suo nipote Jim, o meglio, non era certo del perché avesse iniziato a seguirlo un po’ troppo spesso, a interessarsi a quello che faceva.  Senza essere troppo evidente, comunque.
E quindi quando non gli capitava di voler stare con la moglie o con Sirius, se ne andava a zonzo con il nipote.
Quel mondo era troppo strano e assurdo in qualche modo per lui e non voleva starsene fermo a non fare nulla col rischio di pensare troppo, di fasciarsi la testa riguardo al fatto che quella non era la realtà alla quale apparteneva lui - non per come la sentiva almeno - e che la casa nella quale erano “ospiti” non era la sua.
Quel pomeriggio Jim aveva un allenamento di quidditch. Non un allenamento qualunque, a dire il vero. Il nipote si era preso la briga di intrattenere - almeno d’estate quando non doveva essere a Hogwarts - un’orda di una dozzina di ragazzini maghi in età pre-scuola con qualche semplice tecnica sulla scopa e qualche partita di quidditch.
Per quanto quello sport potesse non sembrare abbastanza adatto a dei bambini così piccoli, James Sirius se la cavava alla grande. Aveva davvero la stoffa del leader e i bambini gli obbedivano senza troppi problemi. Li istruiva ma li faceva anche divertire con qualche battuta sagace o presa in giro bonaria se facevano troppa confusione. Ci sapeva davvero fare con i più piccoli. E James si trovò ad ammirarlo ancora di più.
A dire il vero, a soprintendere a quegli allenamenti doveva esserci un uomo sulla cinquantina che si occupava di tutta la baracca - il campo dove i genitori portavano i loro pargoli a sfogarsi - ma il tipo preferiva di gran lunga starsene seduto nel suo ufficio e lasciare tutto il lavoraccio a Jim.
Aveva degnato James solo di un mezzo cenno di testa quando lo aveva visto. Probabilmente nemmeno gli importava molto di chi veniva in quel posto; James si chiese come facessero i genitori a essere sicuri di lasciare i loro figli con una persona del genere. Probabilmente lo facevano per la presenza di Jim.
La sessione di allenamento iniziò con una corsa di riscaldamento attorno al campo. Jim apriva la fila e dietro di lui correvano gli altri bambini, come le paperelle che seguono la coda della loro madre. Solo una piccola bimba con le freccine castane riusciva quasi a tenere il passo di James Sirius e per questo ne sembrava piuttosto fiera. Alcuni altri bambini arrancavano dietro e altri preferivano di più fare confusione e spintonarsi.
Alla fine anche James senior si decise a unirsi; non gli avrebbe fatto male riprendere un po’ la forma fisica. 
Volare invece fu… quasi una riscoperta. Per James era come andare in bicicletta e, anche se non prendeva in mano una scopa da… be’, da troppo tempo, dopo un primo momento di incertezza, riguadagnò tutta la sicurezza che gli era tipica. Si sentì immediatamente bene. Padroneggiare il vento, librarsi in cielo… erano cose famigliari per lui. E lo fece stare bene perché finalmente, in quel mondo assurdo e a lui sconosciuto, finalmente c’era qualcosa con cui lui era famigliare. 

L’allenamento durò un paio d’ore e quando finì James Sirius si fermò a chiacchierare con alcune madri e alcuni padri che erano venuti a prendere i figli - e James senior rimase di stucco nel notare quanto il nipote fosse affabile e spigliato con quei genitori, alcune madri sembravano addirittura pendergli dalle labbra. Insomma, era bravo coi bambini e i genitori lo adoravano.  Gli riusciva così naturale. Nemmeno lui alla sua età riusciva a farsi apprezzare così tanto. 

Mentre James aiutava il più giovane a riporre i palloni e le scope in un borsone, un altro ragazzo li approcciò. Jim gli mostrò subito un enorme sorriso contento. 

“Ehi, Tyler!” salutò allungando il pugno perché l’altro vi battesse il proprio. 

“Hai finito coi bambocci?” 

“Ho finito. Oggi sono stati più calmi del solito”. 

Il nuovo arrivato allungò lo sguardo verso James, fermo dietro a Jim. 

“Ah, lui è James, mio... cugino”. Cercò di nascondere l’incertezza dell’ultima parola con la sua solita nonchalance. 

“Quello babbano?” chiese il ragazzo allungando la mano verso il più grande. 

“Ehm no, quello è un altro. James, lui è Tyler, il mio migliore amico”. 

Tyler gli porse la mano e James la afferrò con un sorriso. Era un ragazzo piuttosto attraente, la camicia larga non nascondeva il fisico formato di un giocatore di quidditch e aveva uno di quei visi morbidi ma tipici di un ragazzo popolare. 

“Piacere, altro James. Non mi stupirò mai di quanti cugini e famigliari ha questo qua”. 

“Ha ha ha”, rise Jim in maniera sarcastica. Poi si piegò per prendere il borsone. 

“Ero passato per chiederti se ti andava di fare una partita a baseball”, chiese Tyler. 

“Perché no?” Jim si voltò verso il suo omonimo. “Ti va?”

“Che cos’è il ... baseball?”

“È un gioco babbano, molto divertente. Ti insegnamo a giocare” 

James senior scrollò le spalle. “Be’, non dirò di no”. 

“Perfetto allora!” esclamò Tyler con un sorriso allegro. “Vado avanti perché devo recuperare il materiale. Ci vediamo direttamente là”. 

E in quel modo Tyler si allontanò correndo, 

“Simpatico”, commentò James.

“Sì, ci siamo conosciuti a Hogwarts e da allora siamo inseparabili”.

I due si incamminarono verso l’uscita del campo, diretti in questo posto di si giocava a questo strano sport babbano. Restarono in silenzio per un po’ finché non fu James a interromperlo per primo. “É stato tuo padre a insegnarti a giocare a quidditch?”

Jim scosse il capo. “Naaaah. É stata la mamma. Con papà giocavo ogni tanto, da piccolo. Ma ora ha appeso la scopa al chiodo da un po’”. 

“Oh e come mai?”

Jim continuò a guardare la strada di fronte a sé. “Non saprei. Probabilmente se chiedi a lui ti dirà che è perché lavora troppo”. 

James ammutolì ma durante il tempo del tragitto ponderò su quelle parole. Si distrasse solo quando Jim e Tyler dovettero spiegargli le regole del baseball.

Quell’incantesimo era veramente complesso e Zeudi non era stata sicura di riuscire a portarlo alla realizzazione almeno fino a che non aveva fatto tornare sua madre. Ci erano voluti mesi a dire il vero. Rivedere sua madre, o meglio, vederla per la prima volta, era stato incredibile. Spaventoso, pazzesco, incredibile, straordinario, tutto allo stesso tempo.
Anche se a dire il vero le cose non erano andate esattamente come si era aspettata; la donna era rimasta diffidente e non aveva mostrato alcun segno di affetto nello scoprire che era sua figlia, che sua figlia era cresciuta ed era riuscita a diventare un’ottima strega, anzi, una strega eccezionale considerando che aveva appena riportato in vita qualcuno. E chissà quanti altri sarebbe riuscita a riportare dal regno dei morti.
Ma c’era solo una persona di cui le importava davvero, un’altra persona - a parte sua madre - che le interessava resuscitare. Zeudi si trovò a sorridere mentre fissava la pozione che bolliva di fronte a lei.
C’erano molte cose da tenere d’occhio: la pozione ribollente all’interno del cerchio magico fatto di rune, a cui bisognava continuamente aggiungere frammenti solidificati di sangue di unicorno, le ossa delle persone che voleva riportare in vita, il sangue da versare di tanto in tanto… Praticamente non poteva uscire di casa. Il che nel lungo periodo la faceva diventare irascibile. La irritava anche il fatto di non poter stare con sua madre al momento e sperava che Patrick riuscisse a tenerle abbastanza compagnia, ma non aveva molta fiducia in questo. Patrick era gradevole quanto un bambino di cinque anni.
Perlomeno le aveva dato una quantità di giornali sufficienti per potersi aggiornare su quello che era avvenuto negli ultimi vent’anni. L’importante era che non trovasse il modo di uscire e andarsene a zonzo, come aveva provato a fare circa un’ora prima. Ma era ancora senza bacchetta e Zeudi aveva sigillato la porta. Sua madre avrebbe dovuto cercare di trattenere la sua sete di vendetta ancora per un po’. 

***

Eccoci qui. Assistiamo al funerale di Astoria. Cosa ve ne è parso della scena? Devo dire che a me è piaciuto molto scriverla. 

Vi invito a commentare in tanti, mi raccomando; noto che ho dei lettori molto perspicaci e mi fa piacere che notate tutti i dettagli della mia storia e alle volte mi correggete. Grazie :) 

Cambiando un attimo argomento, stavo pensando di scrivere una raccolta di spin off dedicata a questa storia. Una raccolta di Oneshot o drabble in cui si narrano le vicende passate dei personaggi che ci sono qui. Che dite? Vi farebbe piacere? Ovviamente se dite di no non lo faccio perché voi che seguite questa storia ne sareste i lettori. Avrei già una prima oneshot pronta però. E mi piace tanto. 

Fatemi sapere e buona domenica a tutti.

C. 

SCUSE IN RITARDO

Il notiziario in TV stava trasmettendo la notizia dell’arresto dei trafficanti di armi oscure da parte degli Auror, senza perdere l’occasione di sbandierare qualcosa sul Salvatore del Mondo Magico che aveva condotto quella missione. Ginny aveva ormai perso il conto di quante volte la televisione e i giornali parlavano di lui e la loro famiglia; era più facile contare le volte in cui non lo facevano e quando non c’era nulla da dire alle volte si inventavano delle notizie.
Da quando anche i maghi si erano avvicinati agli oggetti babbani, come i media, avevano creato anche i loro canali televisivi, anche se molti dei programmi che trasmettevano erano perlopiù copie di quelli babbani, e per accedervi bisognava usare la bacchetta, così almeno non violavano lo Statuto di Segretezza che ancora vigeva, anche se sempre più maghi o streghe finivano per sposare Babbani o Babbani a scoprire di avere figli con poteri magici.
La comunità magica si stava davvero espandendo.  
Ginny ascoltava distrattamente la TV, impegnata a scrivere le domande da fare ai giocatori di quidditch che doveva andare a intervistare tra qualche giorno.
Sirius la raggiunse dopo qualche minuto, i capelli umidi per la nuotata in piscina che si era appena fatto. Li teneva legati in un piccolo codino dietro la nuca e c’era da dire che gli donavano in quel modo, lo facevano apparire più giovane, sicuramente meglio di quando Ginny lo aveva visto l’ultima volta, rinchiuso a Grimmauld Place dopo essere appena evaso da Azkaban. Non che la situazione ora fosse del tutto diversa, né per lui né per gli altri che erano tornati in via, ma sicuramente stare in una casa più grande con accanto a sé i propri cari piuttosto che in un maniero pieno di brutti ricordi e magia oscuro faceva la differenza.
“Ehi!” la salutò l’uomo avvicinandosi al lavandino per prendersi un bicchiere d’acqua. Anche lui guardò in direzione della TV solo di sfuggita.
“Ciao!” ricambiò lei senza alzare gli occhi dal suo lavoro. “Andata bene?”
“Benissimo. Ci voleva un po’”.
Ginny finalmente alzò lo sguardo su Sirius per fargli un piccolo sorriso, poi sospirò e si lasciò andare contro lo schienale della sedia.
“Tanto lavoro?”
La donna sbuffò e attese qualche istante prima di rispondere. “Diciamo che mi piacerebbe averne un po’ meno. Ma gestire la baracca e preparare anche un’intervista non è semplice”.
Sirius ripose il bicchiere nel lavandino e alzò una parte del labbro in una smorfia di comprensione. “Posso immaginare”.
L’ingresso di Harry interruppe qualsiasi conversazione i due avessero voluto intraprendere. I capelli dell’Auror erano sparati in tutte le direzioni e aveva ancora le guance arrossate dal sonno. Indossava solo una maglietta bianca e i pantaloni del pigiama.
“Tesoro, perché sei già in piedi?” gli chiese lei ricordando che il marito aveva fatto tardi al lavoro anche la sera prima.
“Non ho voglia di dormire”, rispose lui, perdendo tutta la credibilità mentre faceva un sonoro sbadiglio crollando sulla sedia di fronte alla moglie.
“C’è ancora del caffè?”
“Lo abbiamo finito, purtroppo”.
Senza dire nulla Harry si alzò e si diresse verso i fornelli per prepararsi il caffè. Soltanto allora si accorse della presenza di Sirius.
“Buongiorno eh?” lo salutò questi con un sorriso sghembo un po’ derisorio. Harry inarcò un sopracciglio e si passò la mano tra i capelli.
“Buongiorno”, mormorò tirando fuori la caffettiera. “Dov’è il resto della ciurma?” chiese poi, non si capiva se a Sirius o a Ginny. A rispondere fu quest’ultima.
“Albus è uscito con alcuni amici, Jim credo sia con… James e Lily… La nostra Lily, in camera a fare i compiti”.
“Okay. E la Lily non nostra?”
“Fuori in giardino. Sta leggendo un libro”.
Dopo essere stato informato dell’ubicazione di tutti i membri della casa, Harry poté finalmente godersi il suo caffè. Se ne versò una quantità abbondante nella tazza e tornò a sedersi di fronte a Ginny.
“Tesoro, ricordati che il prossimo weekend sarò via”, gli disse la moglie senza guardarlo. Solo quando si accorse del silenzio troppo lungo, alzò gli occhi scuri sul marito notando che la guardava confuso. “Vado a Edimburgo, a intervistare i giocatori”, aggiunse con la pazienza di qualcuno che aveva già ripetuto quella cosa.
“Ah, giusto!”
Harry finì il suo caffè in silenzio e tornò al lavello. Poi guardò in direzione di Sirius e sembrò pensare intensamente a qualcosa.
“Vieni con me” gli disse all’improvviso. Senza ripeterlo, imboccò l’uscita sul retro e Sirius lo seguì incuriosito e perplesso.

Harry aveva condotto Sirius in garage; lì l’Animagus notò subito la Mercedes grigia che aveva visto più volte usare a Harry, ma quello che attirò subito la sua attenzione e che gli illuminò gli occhi fu una Lamborghini nera parcheggiata dietro l’altra auto.
“Ma… Ma è tua?”
Harry ridacchiò sottovoce mentre guardava il padrino avvicinarsi alla macchina e toccarla delicatamente come se potesse romperla. Sirius si inginocchiò e guardò dentro i finestrini con la bocca semiaperta come gli orfanelli di Dickens di fronte alle vetrine delle pasticcerie.
“A dire il vero volevo farti vedere quest’altra cosa”, gli disse la voce di Harry dietro di lui e Black per poco non sobbalzò.
Sirius raggiunse Harry vicino a un oggetto coperto da un lenzuolo bianco. Harry vi puntò la bacchetta contro e - con un gesto che aveva un che di teatrale - lo sollevò. Se possibile, gli occhi di Sirius si spalancarono ancora di più: davanti a lui c’era la sua vecchia moto, quella che aveva guidato quando era giovane e che poi aveva ceduto ad Hagrid.
Tutte le parole che avrebbe voluto dire gli rimasero incastrate in gola. Harry voltò il capo verso di lui e notò che aveva gli occhi lucidi. Si infilò le mani in tasca e si appoggiò contro la portiera della Mercedes dietro di lui; forse aveva sbagliato a mostrargliela. 
“Ehi, stai bene?” gli chiese, la voce roca e il tono leggermente apprensivo.
“Sì, sì”, si affrettò a rispondere Sirius, scuotendo il capo come per riprendersi. Si sfregò la radice del naso con indice e pollice e tornò a rivolgere l’attenzione a Harry. “Non pensavo l’avessi tenuta”.
“Me l’ha data Hagrid. Dopo la guerra. A dire il vero, bisogna metterla un po’ a posto ma dovrebbe andare ancora”.
Sirius continuava a spostare lo sguardo dalla moto al figlioccio. Era ancora indeciso su cosa dire.
“Jim continua a chiedermi di fargliela guidare, ma sai…”, disse di nuovo Harry, probabilmente solo per interrompere quel silenzio scomodo e pieno di sentimenti non espressi. “È già uno scavezzacollo con la scopa, figuriamoci su una moto”.
L’Animagus piegò le labbra in un leggero sorriso, gli occhi che ripercorrevano ora la figura di Harry, indugiando sull’avambraccio sinistro dove - Lily glielo aveva fatto notare - erano tatuati i nomi dei suoi figli. 
“Capisco. Tua madre una volta mi ha minacciato con un mestolo se solo avessi osato metterti su quella moto”.
Ci volle una frazione di secondo a Harry prima di scoppiare a ridere, di gusto e a cuor leggero, a quella affermazione. Non sapeva esattamente cosa ci fosse di così divertente, forse l’immagine di quella scena dipinta nella sua testa o il fatto che Sirius e i suoi genitori erano lì e quel viale dei ricordi sarebbe stato un po’ meno doloroso da percorrere. Soltanto un po’.
Sirius si unì alla risata e si appoggiò al muso della Mercedes. Quando smisero, lasciarono che il silenzio del garage li avvolgesse per un po’.
“Comunque, hai veramente fatto un gran bel lavoro qua. Intendo, questa casa enorme, la piscina, le auto… Pensavo che i Black fossero i più ricchi al mondo, ma tu…”.
“Be’, tutta la fortuna della tua famiglia è finita nella mia camera blindata alla Gringott. Insieme a quella dei miei. Faccio un lavoro che paga bene e a tutti quelli che hanno combattuto la guerra hanno dato una sorta di pensione a vita. Anche ai famigliari di chi non ce l’ha fatta. E ti posso assicurare che è un bel gruzzolletto. Faccio anche degli investimenti che fruttano bene. Anche Ginny ha riempito la sua camera blindata”.
Se da piccolo si era considerato un bambino ricco, ora lo era certamente due volte di più. E doveva ammettere che non gli dispiaceva, avendo tre figli - quattro con Teddy - e diversi nipoti che era sempre pronto ad aiutare se ne avevano bisogno. Non per niente era considerato lo zio dei regali costosi. Aveva pagato la scuola di medicina di Teddy prima che ricevesse la borsa di studio - e persino i libri di Hogwarts anche se Andromeda insisteva che non lo facesse - aveva aiutato Bill e Fleur a pagare la scuola di arti sceniche per Vicky e Fred II ad aprire il suo negozio di tatuaggi.
Aveva iniziato questa sorta di beneficienza a quattordici anni quando aveva consegnato il premio del Torneo Tremaghi ai gemelli per il loro negozio e non avrebbe di certo smesso. Non c’era gusto nell’avere tanti soldi se non ne poteva donare un po’.
“Sai, sono davvero contento. Davvero. Sei una delle poche persone che si merita una cosa così. E i tuoi figli sono fortunati ad averti come padre”.
Harry abbassò il capo sentendo il rimbombo del cuore nelle orecchie.
Sirius si tirò in piedi e fece qualche passo verso la porta.
“Sirius!” lo richiamò il figlioccio.
L’altro si voltò guardandolo affettuosamente. Harry tirò fuori la mano destra dalla tasca per passarsela tra i capelli. Stava rimandando da troppo. Forse era stupido, ma anche dopo anni sentiva il bisogno di dirlo, altrimenti non si sarebbe sentito a posto.
“Scusami”, esalò dopo un po’.
Sirius assottigliò gli occhi confuso. “Per cosa?”
Harry non riusciva a guardarlo. “Per… quella notte al Ministero. Se io - se io non avessi creduto alla visione di Voldemort tu non ci saresti mai andato. E non… non saresti morto”. Dirlo suonava diverso da come lo aveva immaginato dentro la propria testa. Ora si sentiva di nuovo come quel ragazzino di quindici anni che cade con facilità nelle trappole, pieno di rabbia, dolore e senso di colpa.
Sirius si paralizzò sul posto, lo sguardo fisso su Harry, la bocca leggermente aperta, la posizione rigida. Il suo respiro divenne più forte.
“Harry”, disse piano ma in tono grave. “Che stai dicendo? È stata Bellatrix a uccidermi”.
“Sì, ma io sono andato in quel posto e tu sei venuto per salvarmi e… Se me ne fossi rimasto a Hogwarts tu saresti… È colpa mia”.
Ora anche Harry si era rimesso in piedi abbandonando il nido sicuro della sua macchina. Sirius gli si riavvicinò e gli poggiò le mani sulle spalle.
“E tu, per tutti questi anni, ti sei preso la colpa di quello che è successo a me?”
Harry annuì piano abbassando lo sguardo.
Sirius sospirò. “È stata Bellatrix a uccidermi. E io sono stato stupido perché l’ho sottovalutata. Tu non hai assolutamente colpa di tutto quello. Avevi solo quindici anni”.
E poi gli circondò la schiena con le braccia per spingerselo contro e abbracciarlo, pensando, solo per una frazione di secondo, che avrebbe tanto voluto riavere tra le braccia il ragazzo di quindici anni che somigliava tanto al suo migliore amico e che considerava come un figlio.
Harry si lasciò andare contro quell’abbraccio; non era sicuro che le parole di Sirius lo avrebbero fatto smettere di incolparsi - aveva ormai perso il conto di quante colpe si era preso, uno dei suoi maggiori difetti probabilmente che lo aveva portato anche su una strada di cui si vergognava immensamente - ma forse ora sarebbe stato un po’ più facile. Diventare adulti e crescere tre figli non è comunque abbastanza per dimenticare i propri traumi. 

Albus tirò i dadi e giocò il proprio turno; erano ormai due ore che lui e alcuni suoi amici - be’, compagni di D&D più che altro - se ne stavano in un piccolo angolo della fumetteria attorno a un piccolo tavolo intenti a cercare di risolvere una missione che si faceva sempre più intricata. Tutta colpa del loro Master che aveva fantasia da vendere.
Dungeon & Dragons era sicuramente uno dei giochi preferiti di Albus, ma quel giorno la sua testa era altrove; continuava a pensare a Scorpius e a come dovesse sentirsi in questo momento, dopo che sua madre era morta. Dopo il funerale gli aveva raccomandato di scrivergli, per qualunque cosa, ma Scorpius non lo aveva ancora fatto e Albus non sapeva davvero come interpretarlo. E poi, quelle parole che gli aveva detto, che non sarebbe andato ad Hogwarts… gli avevano messo un’ansia incredibile. Forse aveva solo bisogno del suo spazio. Era un peccato che non avesse un cellulare, sarebbe stato più facile scrivergli o chiamarlo, ma suo padre - benché non fosse bigotto o antiquato - non amava troppo tutte queste cose babbane, specialmente se avevano a che fare con la tecnologia. Preferiva “il vecchio stampo”, come diceva sempre, ma Albus era convinto che fosse più per il fatto che era impedito a usare un telefono o un computer. In ogni caso, non capiva perché la questione dovesse riguardare anche Scorpius, ma al ragazzo non sembrava disturbare più di tanto, e quindi solo messaggi via gufo.
Dylan, il master, dovette richiamarlo una seconda volta per attirare la sua attenzione. Il suo mago - era un po’ ironico che gli facessero fare proprio quel ruolo, ma erano tutti ragazzi babbani che non avevano idea che lui fosse davvero un mago e che frequentava una scuola di magia - era quello che aveva fatto più strada nella missione, ma essendo una creatura magica aveva anche certi vantaggi in più. 
Smisero dopo un’altra ora, quando i due fratelli, Keira e Kevin annunciarono che dovevano tornare a casa per cena e in ogni caso Tony, il proprietario della fumetteria, stava per chiudere. Era una fumetteria che Albus aveva iniziato a frequentare da un paio di anni, vicino casa sua, si chiamava Alastor. Più precisamente, aveva iniziato a frequentarla quando aveva scoperto la sua passione per i fumetti, i manga e i giochi da tavolo. Era un po’ il suo rifugio, lontano da quella tormenta di suo fratello e dalla sua famiglia. E poi Tony gli piaceva, era un tipo simpatico, sempre cordiale con tutti ma con Albus un po’ di più. Magari erano tutti castelli in aria che si era fatto lui, ma gli sembrava che Tony riservasse a lui un sorriso un po’ diverso; si fermava sempre per chiedergli qualcosa, come stesse, cosa facesse, e gli consigliava dei libri particolari perché secondo me a te potrebbero piacere.
A te, diceva sempre, come se Tony si fosse preso la briga di imparare i suoi gusti.
“Ehi!”, lo fermò proprio Tony quando Albus appoggiò la mano sulla maniglia della porta. “Quando parti per quella tua scuola all’estero?” gli chiese.
“Il primo settembre”, disse Albus.
“Perfetto. Hai ancora tempo per venirmi a trovare”. E poi Tony gli sorrise con i suoi denti bianchissimi che si notavano ancora di più sulla sua pelle scura - era ispanico il ragazzo - e tornò a rimettere in ordine dei libri.
Albus montò sulla sua bici con una strana ma piacevole sensazione addosso. Solo per una frazione di secondo era riuscito a non pensare a Scorpius.      

*** 

Eccomi qua con l’aggiornamento domenicale. Ho notato che l’altro capitolo ha guadagnato un bel po’ di recensioni e questo mi ha fatto molto piacere. Continuate così, ragazzi, almeno so che dove sto andando a parare ha un certo senso e che la storia piace. 
Per chi non conoscesse Dungeon & Dragons: é un gioco da tavolo di ruolo, dove i membri interpretarono un personaggio (mago, elfo, strega, ecc.) e devono risolvere delle missioni che vengono date loro dal leader del gioco, chiamato Master. In realtà non ci ho mai giocato, ma a volte i miei amici super-nerd me lo raccontano, quindi i dettagli non li so. Se ho scritto minchiate, chiedo scusa, correggetemi. 

Una piccola curiosità: Alastor era una fumetteria della mia città che in poco tempo era diventata la mia preferita e avevo fatto amicizia con la commessa. Ci compravo tutte le cose nerd che volevo. Ora purtroppo ha chiuso. Sigh. 

Comunque, ho deciso che aprirò quella serie di oneshot/drabble spin-off su questa fanfiction. Non saranno pubblicazioni regolari, pubblicherò ogni volta che avrò una scena in mente. Tenete d’occhio il mio profilo perché potrebbe uscire già questa settimana. 

Baci,
C.

LUNA PIENA 

Harry si piazzò lo schermo del tablet davanti al volto e sorrise alla moglie dall’altra parte.
“Ehi!” salutò lei allegramente. 
“Come sta andando?” 
Si udì un sospiro leggermente interrotto dalla connessione, mentre Harry si avvicinava al lavello per prendere una tazza reggendo il tablet in equilibrio con una mano. 
“Oggi ho almeno tre partite da vedere e quattro squadre da intervistare. Ne uscirò a pezzi”, disse lei. 
Harry ridacchiò. “Mi dispiace tesoro. Ma confido in te”. 
“Haha grazie”, rispose Ginny in tono sarcastico. “Teddy è già arrivato?” 
“Sì, è qui mezzo morto sul divano”. 
Il marito girò il tablet verso Teddy che era steso a pancia in giù sul divano con la faccia sprofondata nei cuscini. 
“Ehi, Ted, saluta Ginny”. 
Il ragazzo mugugnò qualcosa di incomprensibile. 
“Perdonalo, ha la luna storta”, disse Harry riportando il tablet verso di sé. Ginny alzò gli occhi al cielo a quella battuta. 
“D’accordo. Devo andare, inizia la mia orribile giornata. Salutami i ragazzi”. 
“Ciao, tesoro”. 
“E tagliati la barba”.
La connessione si interruppe mentre Harry si portava una mano alla leggera barbetta che iniziava a ricrescergli. In quel momento arrivarono in salotto anche Sirius, James e Lily che notarono subito il mezzo cadavere abbandonato sul divano. 
“Moony junior!” esclamò Sirius con allegria. 
Teddy mormorò di nuovo qualcosa di incomprensibile e stavolta si mise un cuscino sopra la testa schiacciandolo con le braccia. 
“Ma è oggi la luna piena”, osservò James. Harry semplicemente annuì e si accucciò vicino al divano, all’altezza della testa del figlioccio. 
“Ted”, lo chiamò dolcemente. 
Teddy si tolse piano il cuscino dalla testa e aprì un occhio per guardare il padrino. 
“Sei venuto in auto?” 
“No. Mi sono materializzato. E ho vomitato nel vialetto. Ma non ti preoccupare, ho ripulito tutto”. 
Harry gli sorrise dolcemente e gli spettinò i capelli rialzandosi di nuovo in piedi. 
“Appena Jim si sveglia puoi andare nella sua stanza”. 
Quella era la loro routine nei giorni di luna piena: Teddy veniva a casa del padrino che lo teneva d’occhio e ci passava anche la notte nell’eventualità che quella fosse la volta sfortunata e Teddy si trasformasse. La cosa più sensata da fare sarebbe stata accamparsi in un bosco e dormire in una tenda, così almeno non rischiavano che un lupo mannaro girasse in una casa piena di gente vicino a una città, ma Harry non aveva voluto. Non voleva che il suo figlioccio fosse costretto a dormire in mezzo a un bosco una volta al mese; semmai si fosse trasformato, lui lo avrebbe afferrato al volo e lo avrebbe smaterializzato nella foresta vicino casa di Andromeda e poi avrebbe passato con lui la notte nella sua forma Animagus. E Ginny e i ragazzi erano stati d’accordo. Si fidavano di Harry e anche a loro piangeva il cuore sapere Teddy dormire all’aperto. A Teddy, inoltre, non piaceva affatto il campeggio.  
Harry cominciò a dirigersi verso la porta quando qualcuno lo tirò per un braccio vicino all’uscio. 
“Ehi”.
James lo guardava con una strana espressione; gli ricordava quella dei suoi figli quando gli dovevano chiedere qualcosa e non erano sicuri della risposta. 
“Senti... stasera c’è la luna piena. E... non voglio lasciare Remus da solo”. 
Harry gli sorrise. 
“Vicino casa di Andromeda c’è una foresta. Ci siamo già organizzati per portare Remus lì. Tu e Sirius potete raggiungerlo”. 
Lo sguardo di James si illuminò subito. C’erano poche cose che poteva fare in quella casa, e almeno aiutare uno dei suoi amici era una di quelle. “Grazie! E... tu vieni con noi?” La domanda venne posta con una certa aspettativa che non sfuggi ad Harry. 
“No. Preferisco stare con Teddy”, rispose lanciando una veloce occhiata al salotto.
James annuì “D’accordo”. 

Sirius fumava una sigaretta - presa dal pacchetto del figlioccio - sul portico della casa... del figlioccio... indossando vestiti del suo figlioccio... ultimamente la sua vita non stava andando proprio alla grande... ma quando mai era andata bene? Forse solo in quel breve periodo di Hogwarts. Probabilmente aveva fatto del male a qualcuno in una vita precedente, si trovò a pensare l’uomo. Ma era comunque meglio che stare rinchiuso a Grimmauld Place.
Cercò di distrarsi da quei pensieri, ma diventava difficile quando non avevi molto da fare. Buttò svogliatamente la cenere dalla sigaretta quando vide una persona varcare il cancello. Le protezioni che c’erano attorno alla casa non le impedirono di passare quindi doveva essere qualcuno abituale. Più si avvicinava è più i suoi contorni diventavano chiari: era una ragazza che a Sirius parve subito famigliare. Camminava con passo sicuro ma aggraziato, come se sfiorasse appena il terreno con le sue basse scarpe da ginnastica. Era... bella. Davvero molto bella. Di quella bellezza che non avrebbe saputo descrivere perché gli aggettivi non erano abbastanza per far capire a qualcuno la reale natura della sua bellezza. E fu allora, quando se la trovò a pochi centimetri dalla faccia, che Sirius capì chi era: Victoire Weasley. E le foto che aveva visto di lei in intimo non le rendevano affatto giustizia. I capelli lunghi e biondi sventolavano sulle sue spalle morbidi e leggeri come fossero fatti di seta, il viso chiaro non mostrava nemmeno una grinza o riga o brufolo e gli zigomi erano appena accennati, quel tanto che bastava per condurre lo sguardo verso i grandi occhi castani dalle ciglia lunghe, leggermente velati con un po’ di trucco. 
“Ciao”, lo salutò lei quando gli arrivò di fronte. Sirius ci mise qualche secondo a rendersi conto che stava parlando con lui, troppo concentrato sulle curve delle sue labbra morbide e rosate. 
Sirius, ripigliati, si diceva.
“Ciao”.
Si sforzò tanto a non guardare il resto, davvero tanto. Ma poi l’occhio sulla camicetta bianca gli cadde lo stesso, sui due bottoni lasciati aperti che facevano intravedere un po’ di reggiseno e i lembi legati davanti che scoprivano l’ombelico decorato con un piercing. E infine i pantaloncini neri a metà coscia che scoprivano due gambe lunghe e lisce, senza alcun pelo o eventuale scottatura da sola o cellulite o imperfezione. Quella ragazza non poteva essere umana. Non  per davvero. 
Sirius non ricordava che Fleur fosse così bella. 
“Tu sei?” gli chiese poi lei notando che l’altro non parlava.
“Sirius... Black”.
Spera solo di non sbavare, stupido di un pervertito. 
Vicky sorrise. E Sirius pensò che sarebbe anche potuto morire lì, di nuovo, e sarebbe stato felice. Aveva appena conosciuto una fata.
“Piacere. Io sono Vicky”.
“La ragazza di Teddy”.
“Esatto. Lui è dentro?”
“Sì. Sul divano”.
Sirius si rendeva conto che stava parlando, sentiva la propri voce uscire ma non aveva la minima idea se stesse dicendo cose sensate.
“Grazie”.
La ragazza lo superò ed entrò in casa lasciando una scia di profumo che inebriò le narici di Sirius che si dovette aggrappare forte alla ringhiera; lasciò andare il respiro che non si era accorto di aver trattenuto.
“Lo so, Vicky fa quell’effetto”, disse una voce dietro di lui facendolo sobbalzare. 
Jim sedeva dietro di lui con l’aspetto di uno che si era appena alzato dal letto, capelli sparati in tutte le direzioni e occhi gonfi. Da quanto era lì? Lo aveva visto sbavare - letteralmente o metaforicamente non avrebbe saputo dirlo - davanti alla povera Vicky?
“Devo ricordarmi che è mio cugina per non provarci con lei. Non che io abbia speranze, lei è cotta di Teddy”.
Come facesse Teddy a non svenire ogni volta che la guardava o toccava era un mistero per Sirius.  Portò di nuovo la sigaretta alla bocca prima di accorgersi che si era spenta.

Vicky entrò in casa con la sicurezza di qualcuno che non è affatto estraneo e si piegò su Teddy. Il ragazzo storse subito il naso. 
“Vicky, ti sei messa il profumo?” le chiese in tono lamentevole senza nemmeno aprire gli occhi. 
“No però mi sono fatta la doccia. Scusa”. Victoire apparve subito dispiaciuta. Sapeva quanto a Teddy dessero fastidio gli odori nel giorno della luna piena, specialmente quelli artificiali o dei bagnoschiuma o quelli che in generale non erano naturali, ma lei aveva davvero avuto bisogno di una doccia. 
“Però ti ho portato le cartine che mi hai chiesto”. 
Teddy si sforzò di mettersi seduto e allungò una mano verso Vicky che gli passò qualcosa dalla tasca. 
“Ciao, zio”, salutò poi la ragazza quando Harry le comparve davanti in canottiera e pantaloni di una tuta. 
“Ti fermi a mangiare, Vic?” 
“Se non è un problema”.
“Certo che no. Tu, Ted?”
“Non riuscirò a mangiare niente”.  
“Qualcosa dovrai pur mangiare. Ti preparo qualcosa di leggero, dai”.

Solo dopo pranzo - e dopo aver messo qualche forchettata di riso bianco nello stomaco - Teddy riuscì a riprendersi, quel tanto che gli bastava per aprire i libri e mettersi a ripassare insieme a Elijah, che come Vicky, veniva a tenergli compagnia mentre stava male. Elijah era l’unica altra persona a sapere del ritorno dei suoi genitori e di James, Sirius e Lily. 
I due amici erano seduti sul divano di casa Potter, il libro delle malattie generiche aperto in mezzo a loro e alcune flashcard appoggiate sul tavolo. Vicky stava con loro scorrendo qualcosa sul telefono insieme a Jim e Albus che facevano i compiti appoggiati sul tavolino da caffè. 
“Improvviso dolore addominale, possibile nausea e vomito”, disse Teddy leggendo dalla flashcard che teneva in mano. 
“Questa è facile. Appendicite”, rispose Elijah sicuro, pescando poi una flashcard. A dicembre ci sarebbero stati gli esami per passare di grado e quello stava dando parecchia ansia negli specializzandi, insieme alla mole di lavoro che avevano e agli strutturati e primari che dovevano seguire e che non erano sempre persone semplici con cui avere a che fare. Gli esami poi erano famosi per la loro difficoltà e le domande molto specifiche, talvolta a trabocchetto. 
“Simile all’appendicite, possibile presenza di sangue nelle feci, stanchezza”. 
“Morbo di Crohn”, rispose prontamente Ted. “Ricordati che adesso si può curare con l’estensione della pozione corroborante, senza dover intervenire chirurgicamente”. 
“Sei sicuro?” chiese Elijah guardando l’amico perplesso. 
“Sì. È scritto a pagina 147, paragrafo 3”. 
Elijah prese il libro appoggiato in mezzo a loro e andò alla pagina indicatagli. Ormai avrebbe dovuto imparare che Teddy non sbagliava mai; il suo amico, oltre ad essere un genio, letteralmente, era uno a cui bastava leggere le cose una volta e le memorizzava subito. Madre natura aveva deciso di fregarlo dal punto di vista genetico, ma diamine se si era fatta perdonare donandogli la memoria fotografica che gli rendeva le cose semplici nello studio. 
“Hai ragione”, disse, quasi dispiaciuto, riponendo il libro. Si era promesso, come forma di principio, che prima o poi avrebbe beccato Teddy sbagliare qualcosa. O avere torto. 
Jim all’improvviso sospirò forte e buttò la testa sul tavolino, rischiando di far cadere una pergamena piena della sua scrittura disordinata. 
“Non ci capisco niente!” si lamentò il ragazzo. Vicky ridacchiò e Albus lo guardò storto. 
“Cos’è?”
“Pozioni. Devo risolvere questa formula sull’acidità nelle pozioni, ma a me sti numeri sembrano... lingua Dothraki”. 
Teddy si inginocchiò sul pavimento e diede un’occhiata al foglio del ragazzo. “È questa?” chiese prendendo la piuma e intingendola nell’inchiostro.
“Sì”.
Teddy rimase a osservare l’equazione per mezzo minuto poi si mise a scrivere una serie di numeri e parentesi e quando arrivò alla fine, cerchiò il risultato con fare molto teatrale.  
“Il risultato è 64”. 
James confrontò con il libro e annuì senza esserne particolarmente impressionato. Pensare che lui era rimasto bloccato per mezz’ora davanti a quella equazione e che Teddy invece l’aveva risolta in un attimo lo faceva sentire a disagio. Ma nemmeno troppo perché in fondo era Teddy e Teddy aveva un QI che nessun altro poteva vantare in quella casa, quindi partiva avvantaggiato. 
“Mi chiedo come abbia fatto Lumacorno a promuoverti nella sua materia”. 
“Probabilmente solo perché sono uno dei suoi gioielli del Lumaclub”, rispose Jim passandosi una mano tra i capelli con gran vanto. 
Albus sbuffò e alzò gli occhi al cielo. Se doveva essere onesto anche lui aveva delle difficoltà col suo tema di Trasfigurazione ma non avrebbe chiesto aiuto a Teddy. Se solo si fosse potuto fermare a 800 parole anziché dover arrivare a 1200. Quanto si poteva scrivere sulla trasfigurazione da rana a tazzina?
“Magari ora mi spieghi come lo hai risolto così la prossima volta faccio faville con Luma”, disse Jim.
“Magari più tardi”, si intromise a quel punto Vicky. “Forse è meglio che ora ti riposi, Ted”. La ragazza non aveva potuto fare a meno di notare che il sudore stava iniziando a imperlare la fronte del suo ragazzo e che il respiro gli si faceva sempre più affaticato. Teddy era così, conosceva i propri limiti ma non si preoccupava di non superarli. Odiava perdere tempo e le giornate di luna piena in cui non poteva andare al lavoro e a volte faceva persino fatica a reggersi in piedi lo irritavano più di tutte perché aveva paura di rimanere indietro - col lavoro, lo studio, i suoi colleghi - e quindi studiava anche se il suo cervello, per quanto intelligente, doveva fare il doppio dello sforzo. La soluzione rafforzativa che ingurgitava faceva la sua parte, ma non sempre bastava.
Una volta, quando era al primo anno di medicina, pur di non perdere giornate di lezione e lavoro, Teddy era andato al San Mungo anche con la luna piena e si era attaccato una flebo di pozione corroborante al braccio, che aveva ben nascosto alla vista, pur di non svenire durante il turno. Era stata una tortura, ma ce l’aveva fatta. Al primo anno non erano concesse troppe assenze per i tirocinanti. Meglio se nessuna. 
“Credo che ora mi fumerò quella canna”, disse Ted prendendo l’erba che gli aveva passato il coinquilino. Le canne ad uso medico erano un altro metodo che Ted usava per alleggerire i sintomi della licantropia. 
“Tu ne vuoi, Elijah?”
“No. Tra un paio d’ore inizio il turno”.
I ragazzi abbandonarono il comfort dei divani del salotto e uscirono nell’aria calda di fine luglio; Teddy si buttò subito sulla prima sdraio che trovò all’ombra vicino alla piscina e gli altri gli si radunarono intorno. Il ragazzo tirò fuori dalla tasca le cartine che gli aveva passato Vicky e una bustina trasparente piena di quella che a un occhio poco esperto sarebbe potuta sembrare spezia verde, e si mise a rollare. Quando finì se l’accese con un colpo di bacchetta e si lasciò andare contro le schienale della sdraio.
“A proposito, Jim, quando arrivano i risultati dei G.U.F.O.?”
Jim emise un verso strozzato. “Non ricordarmelo. Settimana prossima credo”. 
“E comunque, per vostra informazione...” continuò il ragazzo sedendosi nel prato accanto a Teddy che gli passò la canna. “Sono bravo. E sarei bravo pure in Storia della Magia se Rüf avesse più vita”.
Era vero e nessuno avrebbe davvero avuto motivo di negarlo. James Sirius era un mago esperto, bravo con la bacchetta e faceva faville in varie pratiche che richiedevano l’uso della bacchetta. Solo quando si trattava di studiare la teoria o scrivere pergamene, o anche creare pozioni, la faccenda gli si complicava. E preferiva sempre fare sfoggio delle sue doti atletiche o battute stupide piuttosto che far vedere quanto in realtà fosse intelligente. 
“Come fa ad avere più vita se è un fantasma?” gli chiese Vicky seduta sul bordo della sdraio accanto a Ted che intanto continuava a passarsi la canna con James. 
“A proposito, Lumacorno li fa ancora servire quei muffin al cioccolato?” chiese Elijah.
“Certo”.
“Quei muffin erano l’unico motivo per cui andavo al Lumaclub”, commentò Ted. 
“Beati voi. Gli elfi domestici non li servivano mai quando c’erano le lezioni. Solo per le feste. E il lumaclub”, si lamentò Elijah. 
“Parlate del Lumaclub?” chiese una voce squillante intromessa nel loro discorso. Lily, James e Sirius li avevano appena raggiunti. “Anche voi facevate parte del Lumaclub?” chiese la rossa. 
“Diciamo che in questa casa tutti abbiamo fatto parte del Lumaclub o ne facciamo parte. Io, Al, Lily”, rispose Jim. “Anche mamma e papà ai tempi. E pure Vicky e Teddy qua”. 
“Certo, certo. Io non ho avuto quel privilegio”, disse Elijah in tono mogio. 
“Non ti preoccupare. Nemmeno io e James ci siamo andati, eppure siamo cresciuti benissimo”, gli disse Sirius, le mani infilate nelle tasche e un’aria quasi annoiata. I tre si erano accomodati su altre sdraio. James non si prese la briga di specificare, però che sia lui che Sirius avevano ricevuto l’invito, però non ci erano mai voluti andare. 
“Tanto tutti noi facciamo parte della sua collezione solo per il nome che portiamo”, aggiunse Teddy, prendendo un’altra boccata dalla sigaretta.
“Certo, certo.  Come se tutti i tuoi E in Pozioni gli facessero schifo”. 
Cadde qualche secondo di silenzio, prima che la voce di James si facesse sentire di nuovo. “Moony! Da quanto tempo”.
“Non pensavo ci fosse un raduno a casa di Harry!”
“Oh taci, Siri. Siamo venuti a vedere come sta Teddy”, disse la voce di Tonks. 
Teddy alzò lo sguardo e tornò di nuovo vigile quando realizzò che i nuovi arrivati erano sua madre e suo padre. Remus aveva lo stesso volto pallido e stanco di Teddy.
“Benissimo! Mai stato meglio”, esclamò il ragazzo. Sentiva già la canna fare effetto. 
“Quella non è una sigaretta... vero?” chiese poi James senior arricciando il naso per sentirne meglio l’odore 
I più giovani si guardarono tra di loro, la canna che pendeva tra l’indice e il medio di Teddy. 
“È una canna”, disse il ragazzo. “Sono un medico, ho tutte le licenze per dire che la cannabis può essere usata a scopo medico”. 
Jim ed Elijah scoppiarono a ridere con uno sbuffo dal naso. Teddy però allungò la sigaretta verso Remus che la guardò perplesso. 
“Prova. Fa stare meglio. Giuro”.
Remus la prese e lentamente se la porto alle labbra. Tirò un paio di boccate e la ridiede al figlio. 
“Che c’è?” chiese notando gli sguardi attoniti di tutti gli altri. “Credete che non abbia mai fumato una sigaretta in vita mia?”
Sirius sollevò le mani e si fece da parte. Remus non aggiunse che aveva iniziato a fumare per calmare l’ansia e la disperazione che gli avevano fatto costante compagnia nei giorni che seguirono la morte di James e Lily e l’incarcerazione di Sirius. 
“Basta che la finite prima che arrivi mio padre’, disse Jim. 
Lily spostò lo sguardo su di lui cercando di carpire qualcosa di più dalle sue parole; qualcosa dentro di lei le diceva che quelle parole non erano dovute alla semplice ansia di un ragazzo che non vuole essere beccato a usare della droga dal proprio padre. 
“E voi due chi siete?” chiese all’improvviso Tonks in tono squillante, guardando verso Vicky ed Elijah. 
Elijah sorrise imbarazzato ma in direzione di Vicky. “Chi l’avrebbe mai detto che un giorno ci saremmo dovuti presentare ai nostri suoceri?”
“Suoceri? Mica state insieme tu e Teddy”.
“Non fare la gelosa. Lo sai che io Ted abbiamo una relazione. Platonica, ma pur sempre una relazione”. 

Verso sera, sempre più spossato e annebbiato dall’erba e da una pozione calmante, Teddy alla fine crollò sul letto di James insieme a Vicky che rimase con lui tutto il giorno. Dormì di un sonno piuttosto agitato e si svegliò sudato. 
Scese in cucina per prendersi un bicchiere d’acqua e in cucina intravide le membra lunghe di Jim sul divano dove era rimasto a dormire. Piegò le labbra in un sorriso intenerito. 
“Ted?” si sentì chiamare da una voce leggera e assonnata mentre lavava il bicchiere al lavello. 
Vicky lo guardava dall’altra parte della cucina. “Sei già sveglio?”
“Sì. Devo andare al lavoro”. 
“Sei sicuro di volerci andare?”
“Oggi lavoro nel reparto cardiologico. Direi di sì”. Era il suo reparto preferito; non era ancora sicuro di quale sarebbe stata la sua specializzazione ma quello era sicuramente tra le sue scelte. Anche se il dottor Kelso, il primario del reparto, era l’incubo di tutti i specializzandi. Non si chiamava così a dire il vero, ma aveva un nome tedesco impronunciabile. Lui e i suoi colleghi lo chiamavano così dal personaggio di Scrubs, un medico sociopatico e stronzo che insulta tutti. Proprio come il loro dottor Kelso.
Vicky gli si avvicinò con passo strascicato e silenzioso e gli poggiò le mani sui fianchi, alzando la testa per guardarlo in volto. Ted era parecchio più alto di lei.
“Ma Jim ha dormito tutto il tempo sul divano?”
“Gli abbiamo rubato il letto. Non aveva molte alternative”.
La ragazza non disse nulla, si limitò ad appoggiare la testa sul suo petto.
“Perché non torni a dormire?” le chiese il ragazzo accarezzandole i lunghi capelli. 
“Mi sa che andrò a casa”.
“D’accordo. Io vado a svegliare James”.
Ted lasciò andare Vicky e si avvicinò al divano chinandosi su Jim e scuotendolo piano. “Ehi, Jim”.
Questi si svegliò e lo guardò con un solo occhio pieno di sonno e un po’ confuso. “Vai nel tuo letto. Io sto andando via”. 
“D’accordo’, rispose il più giovane mugugnando.
“Di’ a tuo padre che sto bene e che sono andato al lavoro”. 
“Okay”.

Prima di andare al San Mungo e dopo aver salutato Vicky, Ted si materializzò a casa della nonna. Mentre scendeva le scale con un cambio di vestiti, incrociò il padre sull’uscio. Remus aveva cercato di sistemarsi come meglio poteva dopo la notte travagliata che aveva vissuto, ma si vedeva lontano un chilometro che non stava proprio benissimo. Pallido, due borse sotto gli occhi, i capelli un po’ spettinati e, Teddy notò con orrore, una macchia di sangue che gli sporcava un lato della camicia. 
“Sei ferito”. 
Remus guardò la ferita come se la notasse solo ora. “Non è niente”, disse. 
“Fammi dare un’occhiata”. 
Remus esitò. Sembrava che nel suo cervello si stessero svolgendo vari scenari possibili. Alla fine cedette.
“D’accordo”.
Ted lo accompagno in salotto e lo fece sedere sul divano, richiamando una cassetta del pronto soccorso dalla propria camera da letto. 
La aprì e fece togliere la camicia al padre, scoprendo petto e schiena pieni di cicatrici ramificate. 
Non disse nulla e nemmeno sembrò farci troppo caso. 
Gli ripulì la ferita con della garza e della pomata per disinfettare e ci mise dei cerotti incantati che l’avrebbero fatta richiudere da sola. Per fortuna non era profonda. 
Remus lo osservò tutto il tempo, notando le rughe di concentrazione che gli erano comparse tra le sopracciglia.
“Ti lascio anche questa”, gli disse quando ebbe finito allungandogli qualcosa che sembrava una crema dal colore verde piombo. “Serve per far sparire le cicatrici. Non penso che questa resterà, ma puoi usarla su quelle vecchie. Magari spariscono un po’”.
Remus gli sorrise dolcemente e quasi commosso. Prese la crema dalle mani del figlio e le loro dita si sfiorarono.
“State bene?” chiese Tonks, ferma sulle scale che lo guardava, ancor in pigiama e i capelli - stavolta azzurri - sparati in tutte le direzioni. Era peggio dei Potter.
“Sì. Arrivo a letto”. 
Remus salutò Teddy con un ultimo dolce sorriso. Non si dissero altro, né su quella notte né... su tutto il resto.

*** 

Prima che mi linciate dicendomi che non ho approfondito abbastanza la parte dell’incontro di Vicky coi suoceri, non preoccupatevi che ci sarà un capitolo apposta per loro. Non mi sembrava il caso di approfondirlo troppo in questa parte.
A dire il vero questo capitolo è stato abbastanza difficile da scrivere e non ne sono molto soddisfatta. Lascio ai lettori l’ardua sentenza.

Per chi non conoscesse Scrubs: è una serie comedy ambientata in un ospedale e con protagonisti dei medici specializzandi. È davvero molto bella, ve la consiglio. 

Chi invece ha seguito l’altra mia storia, sa quanto a me piaccia trovare i presta-volto giusti per i miei personaggi. Dopotutto, il mio cervello è molto cinematografico quando si immagina le varie scene. Ho scelto il presta-volto per ogni personaggio di questa storia e oggi comincio da Teddy.
Ditemi però se la cosa vi piace oppure no. 

Teddy 1 

Teddy 2

È un cutiepie ^^

Alla prossima,
C.

P.S. Per chi ancora non lo avesse visto, ho pubblicato il primo degli spin-off di questa storia. Lo trovate sul mio profilo. 

RIVELAZIONI

Harry si lasciò cadere sul divano del salotto, il corpo proteso in avanti mentre sfogliava un fascicolo con dei documenti di lavoro; la parte delle scartoffie era quella che odiava di più ma purtroppo come capo dipartimento gli toccava. Quello su cui la sua testa si stava concentrando maggiormente era scoprire in quale modo e per quale motivo alcune delle persone che attualmente stavano sotto il suo tetto e sotto quello di Andromeda fossero tornate in vita; la squadra che ci lavorava non riusciva davvero a raccapezzarsene, e dire che ci lavoravano insieme agli Indicibili e ai membri più esperti del Dipartimento del Controllo della Magia del Ministero. 
Lanciò una veloce occhiata al telefono poggiato sul divano e tornò a leggere uno dei documenti; Ginny sarebbe ritornata entro poche ore, era un tranquillo e caldo pomeriggio d’estate e i suoi figli erano al sicuro sotto il suo tetto, James a nuotare in piscina, Lily a giocare con lo skate e Albus a leggere in camera sua o a guardare qualcosa su Netflix.
Si passò una mano tra i capelli e poggiò i gomiti sulle ginocchia aperte sul divano, i piedi ben saldi per terra. Stava cercando la concentrazione per leggere quei documenti ma forse a pranzo aveva mangiato un po’ troppo. Gli era dispiaciuto aver dovuto rifiutare un altro invito a casa di Molly, ma con James, Lily e Sirius lì non poteva muoversi troppo. Molly, inoltre, non sapeva nulla di quel ritorno, come nessun altro dei Weasley ad eccezione di Ron, Hermione e Vicky.
Riuscì a leggere per altri cinque minuti senza interrompersi quando sentì qualcuno avvicinarsi e soffermarsi sulla soglia. Erano proprio Sirius, James e Lily e le loro espressioni suggerivano che non si trovassero lì per caso.
“Ehi”, lo salutò Lily in tono allegro ma leggermente ansioso.
“Ehi”.
“Possiamo... possiamo parlare?”
Harry richiuse il fascicolo e si strofinò le mani sui pantaloni.
“D’accordo”, rispose indicando con un gesto il divano e le poltrone accanto a lui.
Lily fu la prima a entrare e accomodarsi, gli altro due la seguirono. Sembrava che avessero designato lei come avanguardia di quel... qualsiasi cosa fosse.
Lily sospirò, James si guardò attorno e Sirius osservò Harry. Era la prima volta che lo beccavano in casa e senza che se ne andasse in giro ad aggiustare o cercare cose. Era la loro occasione.
“Come sta andando... si, insomma, avete scoperto qualcosa riguardo il nostro ritorno?” chiese Lily.
Harry scosse il capo. “Ancora nulla. Se scopriremo qualcosa vi prometto che sarete i primi a saperlo”.
“Certo”, disse Lily. Stava chiaramente procrastinando.
“D’accordo!” esordì a quel punto James. Non se ne sarebbe rimasto lì a guardare impotente quella scena imbarazzante. Era pur sempre un Grifondoro. “Volevamo chiederti... tutta la storia di Voldemort. Insomma, ci è stato raccontato degli Horcrux ma a parte quello non sappiamo molto”.
“Che cosa vuoi sapere?” gli chiese Harry dopo qualche istante di esitazione.
“Quello che c’è da sapere... tutto. Quali erano? Come funzionano? Come li avete distrutti?”
Harry abbassò lo sguardo e unì le mani incrociando le dita. Sembrava stesse cercando la concentrazione.
“Gli Horcrux erano sette. Oggetti che avevano un significato per Voldemort e che aveva nascosto in luoghi dove aveva trascorso dei periodi. C’erano l’anello della sua famiglia, i Gaunt, il medaglione di Serpeverde, la coppa di Tassorosso, il Diadema di Corvonero, un diario che aveva tenuto da giovane e il suo serpente, Nagini”.
“Il diadema di Corvonero?” chiese Lily con voce sorpresa. “Ma non era perduto?”
“Sì. Era perduto proprio perché Voldemort lo aveva rubato per usarlo come Horcrux. A dire il vero è una storia piuttosto interessante quella del diadema, se ve la fate raccontare dalla Dama Grigia. Si è sempre trovato a Hogwarts, nella Stanza delle Necessità”.
“La Stanza di cosa?” fece James.
Harry piegò un lato della bocca in un leggero sorriso. “Dal tuo tono immagino che non ci fosse sulla  Mappa del Malandrino perché non sapevate della sua esistenza”.
“Hai sentito, Paddy, c’è una stanza segreta ad Hogwarts di cui non sapevamo nulla”, si lamentò James. Sirius semplicemente lo guardò; non era quello il momento delle battute anche se sarebbe stato il primo a farle per stemperare una situazione pesante. Un tempo.
“L’anello dei Gaunt si trovava nella vecchia casa della madre di Voldemort. Lo aveva trovato Silente ed era riuscito a distruggerlo. Solo che si era fatto ingannare e lo aveva indossato. Dovete sapere che un Horcrux contiene in sé il pezzo di anima di una persona che solitamente è malvagia ed è impregnato di magia oscura. C’è in loro un potere che rischia di portare le persone alla follia o... alla morte. Nel caso di Silente, lui lo aveva indossato e da allora... be’, Silente era sempre più debole e si stava lentamente prosciugando. Probabilmente sarebbe morto per quello se Piton non lo avesse ucciso prima”.
La notizia di Piton che uccideva Silente era già stata loro accennata da qualcuno al Ministero per cui non se ne stupirono quando quell’informazione uscì dalla bocca di Harry.
“Davvero quello era stato tutto un piano?”
“Sì, Piton faceva il doppio gioco per Silente. Silente gli aveva comandato di ucciderlo per assoldare la sua fiducia con Voldemort. Silente sapeva già di essere spacciato”.
Harry non si sarebbe mai dimenticato quella scena sulla Torre di Astronomia. Il preside, il suo ex mentore era morto davanti ai suoi occhi. Quella immagine lo aveva perseguitato parecchio dopo la guerra.
“E gli altri Horcrux?” chiese Sirius cercando di riportare il discorso su quello che lo interessava; non aveva davvero voglia di sentire delle imprese eroiche di Mocciosus. 

“Il diario lo aveva custodito Malfoy. Non so da dove provenisse originariamente, ma con un inganno riuscì a farlo finire nelle mani di Ginny quando lei iniziò Hogwarts. In questo modo venne aperta la Camera dei Segreti”. 
“La Camera dei Segreti? Quindi nemmeno quella era una leggenda”. James aveva come l’impressione che gli sarebbe scoppiato un embolo sotto il peso di tutte quelle rivelazioni.
“No. L’aveva fatta costruire Salazar Serpeverde in persona per custodirvi dentro un Basilisco. Immagino che sappiate che un Basilisco è in grado di uccidere con un solo sguardo e il veleno delle sue zanne è letale. Il diario Horcrux prese possesso di Ginny che aprì la camera al suo primo anno. Non era colpa sua ovviamente. Per fortuna non c’erano state morti. Non come la prima volta che la camera venne aperta ai tempi in cui Voldemort frequentava Hogwarts. Mirtilla Malcontenta è morta così”.
“E come venne richiusa?”
“Il problema non era la camera, ma il basilisco che vi stava dentro. Ginny era stata presa dal Basilisco ed era tenuta prigioniera. Io e Ron siamo andati a recuperarla. Ma l’unica arma per uccidere il Basilisco è la spada di Grifondoro. Per fortuna ero riuscito a trovarla e ho ucciso il Basilisco”.
“Un momento... tu hai ucciso il Basilisco a dodici anni da solo?” lo interruppe Lily attonita.
Harry rise piano. “Sì. Credo che ci sia un qualche libro non autorizzato che racconta delle mie avventure a Hogwarts. Le mirabolanti ed estreme avventure di Harry Potter a Hogwarts dovrebbe essere il titolo. Faccio un baffo a Gilderoy Allock. Anche se non vengono raccontate proprio come sono successe”.
“Per quanto riguarda gli altri Horcrux...”, proseguì Harry. “Il medaglione si trovava in una caverna vicino all’orfanotrofio dove Voldemort è cresciuto, in mezzo a un lago circondato da Inferi”. Harry decise di sorvolare sulla parte di Regulus. Non gli sembrava quello il caso di raccontare una cosa del genere a Sirius. Senza contare che, nonostante i suoi tentativi, non era riuscito davvero a ristabilire il nome di Regulus Black. La società era ancora troppo prevenuta nei confronti dei Black e soprattutto nei confronti di un Mangiamorte riconosciuto, non importa che si fosse sacrificato per la giusta causa alla fine. Con Piton ci era riuscito perché aveva avuto le prove.
“Quello è stato piuttosto difficile da recuperare. Poi c’era stata la coppa che abbiamo recuperato dalla camera blindata di Bellatrix alla Gringott. Non scenderò nei dettagli, ma sappiate solo che siamo riusciti a scappare a cavallo di un drago”. Harry ignorò gli sguardi sbigottiti dei suoi tre spettatori. “E infine Nagini... lei è stata uccisa da Neville durante la battaglia finale con la spada di Grifondoro”.
“Quindi la spada di Grifondoro sconfigge gli Horcrux?” chiese James.
“Non proprio. Il veleno di Basilisco li distrugge. Ma avendo ucciso il Basilisco con la spada, questa si è impregnata del veleno e quindi poteva essere usata per distruggere gli Horcrux”.
Harry si interruppe; non si era nemmeno accorto di aver iniziato a giocherellare con la fede. James continuava a guardarlo con una strana espressione, Lily sembrava pensierosa. Harry evitò di guardare verso Sirius. Fu Lily la prima a interrompere il silenzio.
“Aspetta un momento... hai detto che c’erano sette Horcrux. Ma tu ce ne hai appena elencati sei”.
Harry si morse il labbro. Come si era potuto permettere quella svista? Con una mano andò alla tasca dei pantaloni per prendere il pacchetto di sigarette ma si ricordò che li aveva lasciati nella giacca.
Sospirò sapendo che non poteva fare altro che raccontare la verità. E dopotutto, lo meritavano.
“Be’, il settimo... ero io”.
Fece di nuovo una pausa per lasciare che quell’informazione si insediasse nelle menti dei suoi ascoltatori. Vide Sirius spalancare gli occhi di colpo, James e Lily assumere un’aria perplessa come se non ci credessero o non fossero sicuri che fosse quello che intendeva.
“Che cosa intendi?” gli chiese il padrino, parlando probabilmente per la prima volta da quando si era seduto.
“Che io ero un Horcrux. Proprio come la coppa e il diadema e il diario e tutti gli altri. Per creare un Horcrux bisogna commettere una delle azioni peggiori che esistano, ovvero uccidere un altro essere umano”. Harry prese un altro sospiro e cercò di prendere coraggio; ora arrivava la parte difficile e si pentiva di non avere le sigarette a portata di mano. Smise di torturarsi la fede e si sfregò nuovamente le mani sudate sui pantaloni.
“Quella notte di Halloween Voldemort uccise due persone”. Non c’era bisogna di specificare chi uccise e nemmeno quale notte di Halloween. Lily e James rabbrividirono. Sapevano anche della protezione che vigeva su Harry grazie al potere di Lily. “E quando cercò di uccidere me... l’Anatema che uccide gli rimbalzò contro. Creò così un Horcrux involontariamente che andò a... insomma, un pezzo della sua anima entrò dentro di me”.
“E... questo come... insomma, hai vissuto con un pezzo di anima di Voldemort dentro... di te?” gli chiese James, gli occhi come quelli di un cucciolo smarrito e bastonato.
“Sì, ma non l’ho saputo se non alla fine. Ho avuto delle visioni per un po’... riuscivo a vedere nella testa di Voldemort e sentire quello che provava. Silente lo ha capito a un certo punto ma non me lo ha mai detto. L’unico suo confidente è stato Piton. L’ho scoperto così. Ho visto i suoi ricordi prima che morisse, tutto il piano di Silente, il doppio gioco di Piton e il fatto che io fossi l’Horcrux finale e che dovevo permettere a Voldemort di... distruggerlo”.
Esitò sulla battuta finale decidendo all’ultimo che non era il caso che scoprissero come fossero andate davvero le cose, che lui di fatto era morto e che quello era stato il piano di Silente fin dall’inizio, usarlo come carne da macello. Evitò persino di dire dell’Ufficio Misteri e del fatto che la morte di Sirius fosse colpa del fatto che Voldemort aveva avuto un tale controllo sulla sua mente da riempierla di visioni fasulle. E fu grato al padrino che non avesse detto nulla.
“E come ha fatto?” chiese Lily a voce bassa, quasi inudibile, come se avesse paura della risposta. E probabilmente era così.
“Ho lasciato che mi colpisse. Tutto qua”.
“E sapevi che non saresti morto?”
Harry abbassò lo sguardo e sorrise leggermente cercando di sembrare il più rassicurante possibile. Sentiva il cuore rimbombargli nelle orecchie. “Certo”, disse senza esitazione sapendo di mentire. Decisamente non era il caso che i suoi genitori sapessero che di fatto lui era morto e che, se avesse voluto, avrebbe potuto scegliere di non tornare perché, una volta distrutti tutti gli Horcrux, lui non contava più nello schema delle cose. Non lo sapeva nemmeno il resto del Mondo Magico, ad eccezione di Ginny, Hermione e Ron, le uniche persone con cui si era confidato.
“Voldemort non lo sapeva. Non sapeva che avessimo distrutto tutti gli Horcrux. Alla fine ucciderlo fu facile. Quella parte... be’, quella parte potete chiederla un po’ a chiunque. L’ho uccisa davanti a tutti”.
Calò nuovamente il silenzio, i rumori provenienti da fuori sembravano essersi amplificati dalla carica di tensione che si respirava in salotto.
“Quindi bastava questo? Distruggere gli Horcrux e poi... puff. Voldemort può essere ucciso”, fece James. Si sforzò di mantenere un tono normale ma la frustrazione nella sua voce non era difficile da percepire.
“Non è stato così semplice. Trovare gli Horcrux e capire come distruggerli intendo. E poi Voldemort era un mago abile. Credo di aver avuto in parte anche fortuna. Gli Horcrux permettevano a Voldemort di mantenersi ancorato sulla terra, alla vita. Per questo non morì completamente quando io... tu” guardò verso Lily “lo sconfiggesti la prima volta. Ma in fondo, Voldemort sopravvalutava il proprio potere. Era un essere umano come tutti. Proveniva da una famiglia che... be’, diciamo non era delle miglior. Sua madre era una Gaunt, un tempo una famiglia potente e ricca e poi caduta in disgrazia. Lei era una Maganò e per questo maltrattata dal padre e dal fratello. Un giorno si innamorò di un vicino di casa, un Babbano di nome Tom Riddle. Sapeva di non poter avere speranze con lui quindi lo tenne legato a sé con delle pozioni d’amore. Quando rimase incinta smise di dargli la pozione d’amore e lui la lasciò e ripudiò il bambino. Lei se ne andò di casa disperata e partorì in un orfanotrofio dove morì e il bambino, Voldemort, che lei chiamò come il padre, visse lì fino alla maggiore età. Ma Tom non considerava quel posto come la sua casa, gli altri bambini lo maltrattavano. Solo quando venne ad Hogwarts trovò la propria strada”. ‘
“Peccato fosse quella delle arti oscure”, commentò James. Quella storia li aveva lasciati a bocca aperta. Era difficile pensare a Voldemort come a qualcuno che un tempo era stato bambino e aveva avuto dei genitori. Persino per Harry era stato difficile figurarselo quando lo aveva scoperto la prima volta. Ci aveva pensato a lungo anche dopo la guerra, quando si rigirava nel letto in preda agli incubi, pensando ai traumi infantili che aveva vissuto Voldemort ma anche a quelli che avevano caratterizzato la sua, di infanzia, e quanto ciò li rendesse simili e, nonostante questo, le strade diverse che avevano deciso di prendere.
“I traumi del passato non giustificano le azioni che si compiono”, commentò Sirius asettico.
“No, certo che no”.
“Quindi Voldemort era un Mezzosangue”, fece Lily.
Harry annuì. Nessuno disse nulla su questo. Che cosa si poteva dire? I peggiori malvagi sono pure ipocriti.
“E tutte queste cose su Voldemort come le hai scoperte?” Gli chiese James.
“Da Silente. Lui aveva insegnato a Voldemort ad Hogwarts e lo era venuto a prendere dall’orfanotrofio svelandogli che era un mago. Insieme a Lumacorno”.
“Non mi stupisco che tu abbia dato il suo nome a uno dei tuoi figli”, disse Lily.
Harry piegò le labbra in un sorriso. “Albus Severus. È questo il nome completo di Al”.
A James e Sirius per poco non cadde la mascella. “Che cosa? Scherzi? Hai dato a mio nipote il nome di Mocciosus?”
Sirius stava per dire qualcosa quando venne interrotto dall’ingresso di Jim e l’atmosfera cambiò di colpo. Il ragazzo indossava i suoi jeans preferiti e una felpa dai colori di Grifondoro e la scritta Potter sulla schiena. Era quella che davano ai membri della squadra di quidditch.
“Stai uscendo?” gli chiese Harry, cambiando subito tono, da malinconico e pesante a tranquillo e allegro.
“Sì. Vado con alcuni amici al campo da baseball”.
“Torna per le undici”.
Jim alzò gli occhi al cielo. “Papà dai, è estate”, protestò in tono lamentevole.
“Facciamo mezzanotte”.
“L’una?” cercò di contrattare con occhi supplichevoli.
“Mezzanotte, Jim. Non un minuto di più”.
Jim sbuffò ed esalò un d’accordo girandosi di colpo verso la porta e colpendo tutti col profumo che aveva messo in abbondanti quantità. Prima di varcare la porta si girò di nuovo verso il salotto. “Voi state bene?” chiese passando lo sguardo prima sul padre e poi sugli altri tre.
Harry gli sorrise rassicurante. “Certo”.
Jim non sembrava del tutto convinto, soprattutto per le facce scure di Lily, Sirius e James, ma non aggiunse altro.
Quando il ragazzo se ne fu andato, James, Lily e Sirius tornarono a rivolgere l’attenzione verso Harry.
“Deve essere stato difficile... per te”, fece Lily. Avrebbe voluto prendere la mano del figlio in quel momento, o fargli sentire la sua presenza, ma erano troppo distanti. Poteva solo guardarlo con occhi malinconici sperando di trasmettergli il suo affetto e la sua preoccupazione di madre, ma a dire il vero, non aveva nemmeno idea se lo stesse facendo bene. Forse a Harry non piaceva, forse non era il caso.
Harry sorrise incoraggiante e si alzò dal divano, stanco di percorrere quel sentiero dei ricordi. “Non importa. Sono passati anni ormai e Voldemort è solo un ricordo”. 
E come se avesse voluto mettere un punto definitivo a quel discorso, con un paio di falcate raggiunse la porta, dove era appesa la sua giacca da cui estrasse il pacchetto di sigarette tanto agognato.
In tutti quegli anni che avevano seguito la guerra, Harry aveva imparato di avere dei limiti e che era più che giusto che li rispettasse, che non si spingesse oltre quello che riusciva a sopportare e lui lo faceva; in fondo non doveva niente a nessuno se non a sé stesso. E quella era una cosa che lo spaventava riguardo il ritorno dei suoi genitori e di Sirius, il dover spingersi oltre quei limiti, raccontare cose che non voleva raccontare o rivivere, ma che sentiva di non poter fare a meno perché a loro lo doveva, a quelle persone che lo avevano protetto e gli avevano permesso di avere una vita.
“Harry?” lo chiamò una vocina dietro di lui, un po’ esitante ed incerta. Era Lily.
Harry le sorrise, la sigaretta in equilibrio tra le sue labbra.
Lily prese un sospiro come per farsi coraggio. “Non so come hai fatto, ma... io e James siamo molto orgogliosi di te. Per quel che vale, insomma, vista la situazione”. Arrossì imbarazzata. “Non volevamo che tu affrontassi tutto quello, non spettava a te. Se io e James fossimo stati vivi non avremmo mai permesso una cosa del genere. E non hai idea di quanto mi dispiaccia”.
Harry spostò lo sguardo per qualche istante prima di posarlo nuovamente sulla madre, più bassa di lui.
“Tu...”, iniziò esitando. “Tu e James siete stati molto più presenti di quello che pensate. E avete fatto molto più di quello che sembra. Dico davvero. Senza di voi io non sarei qui”.
“Po-posso abbracciarti?” gli chiese lei perché le sembrava l’unica cosa sensata da fare. E anche per nascondere le lacrime che minacciavano di uscire.
Fu Harry il primo a protendersi verso di lei. Il primo abbraccio che dava a sua madre, il primo di cui avesse ricordo. E la sensazione era... indescrivibile.
L’abbraccio duro più a lungo di quello che normalmente ci si aspettava da un abbraccio e quando Lily rientrò in casa, lasciando Harry fumare in solitudine, tra le altre cose pensava anche a Severus e a quanto fosse felice che alla fine il suo amico si fosse redento e avesse deciso di aiutare suo figlio. Le dispiaceva da morire non avere più occasione di parlarci. Avrebbe chiesto più dettagli a Harry riguardo tutta quella storia e tante altre... un altro nome che le saltava alla mente era Petunia. Ma aveva come la sensazione che non fosse il caso di spingere troppo Harry in una sola giornata. 

Jim era arrivato al campo piuttosto presto, ma per fortuna lo avevano raggiunto anche Tyler, Mac e Cisco. Avevano persino avuto il tempo di comprare delle birre. Stavano aspettando le ragazze che però - e avrebbero potuto dirlo con estrema certezza - sarebbero arrivate più tardi. Lo facevano sempre.
Anche Milo, Emil e Boyko li avrebbero raggiunti quella sera. Emil, Jim ne era sicuro, era gay. Non che gli importasse, ma era una di quelle scommesse che faceva a sé stesso perché gli piaceva scoprire, a un certo punto, di aver avuto ragione e di avere, in qualche modo, un certo spirito d’osservazione. Vicky, sua cugina, lo accusava spesso di avere la sensibilità e l’empatia di un’ameba. Non aveva idea di cosa fosse un ameba, ma non aveva la sensazione che fosse un complimento.
“Non è Emil quello che si sta avvicinando?” chiese Cisco puntando il dito verso una figura che si avvicinava con calma.
“Sì e c’è Boyko con lui”, confermò Tyler che si alzò subito in piedi sbracciandosi per indicare la loro posizione agli altri due ragazzi.
Boyko e Emil li raggiunsero in un paio di balzi, reggendo in mano un paio di bottiglie di vodka.
“Queste le ho prese dalla dispensa di mio padre”, disse Emil.
“Non hai paura che se ne accorga?” gli chiese Mac.
“Ma figurati. Penserà di essersele bevute lui”.
I sei ragazzi cominciarono aprendo le prime birre e spettegolando sulle ultime novità e le loro vacanze; Boyko raccontò di aver conosciuto una ragazza durante le due settimane trascorse in Grecia, una bellissima sirena - come la chiamava lui perché era campionessa di nuoto - dai capelli neri e gli occhi come la notte. Era babbana e non aveva potuto dirle di essere un mago. I greci erano quelli che avevano più pregiudizi nei confronti dei maghi rispetto ad altro paesi. Almeno così si diceva. Ma lui aveva trascorso due settimane fantastiche con lei, un’avventuriera che gli aveva fatto scoprire ogni anfratto nascosto dell’isola e ogni volta che facevano sesso era come se scoppiassero scintille.
“Che poeta”, lo prese in giro Mac, ridendo dal naso.
“Stai zitto. Sei solo invidioso”.
Emil, al solito, se ne rimase sulle sue. James avrebbe voluto raccontare delle persone che in quegli ultimi giorni gli avevano occupato la casa, i suoi nonni, il padrino di suo padre e i genitori di Teddy ma non poteva.
Poi, chissà se gli avrebbero creduto. Perciò si limitò a bere la sua birra.
Poco dopo li raggiunse anche Milo e infine arrivarono le ragazze, ultime come al solito. Georgiana, Carmen e Nausicaa. Erano delle tipette, James non aveva ancora deciso se gli stavano simpatiche oppure no. Sicuramente erano belle. Nausicaa e Carmen erano sorelle e si passavano un anno di distanza ma erano inseparabili e non facevano mai nulla senza l’altra o senza che l’altra quantomeno lo sapesse. Nausicaa, la maggiore, era molto protettiva nei confronti di Carmen e nessuno poteva dire qualcosa contro la sorella, altrimenti iniziava a ringhiare. Carmen non era male, soprattutto se presa da sola e lontano dalla sorella, era una con cui si poteva parlare di tante cose. Nausicaa sapeva irritarsi con poco, però aveva delle labbra che facevano impazzire tutti.
Non appena arrivò, cominciò a battibeccare con Mac come faceva sempre. Lui la provocava apposta ma lei non resisteva dal rispondergli.
Georgiana invece era tranquilla e in generale si faceva i fatti suoi, per questo riusciva ad andare d’accordo con tutti, ma non si capiva mai con chi fosse più amica. Deteneva il record di appuntamenti e persino Jim l’aveva frequentata, per diversi mesi, avevano pomiciato in ogni angolo di Hogwarts ma poi tutto d’un tratto avevano smesso. Jim non avrebbe saputo dire come o perché. Tuttavia, non erano in cattivi rapporti. 
Infine, a sorpresa di tutti, arrivò anche Veronica. Veronica era la ragazza che suscitava sentimenti contrastanti in tutti quanti: i ragazzi la avvicinavano, quelli che volevano qualcosa senza troppe complicazioni, e le ragazze la disprezzavano o le sparlavano dietro la schiena. Molte altre la ignoravano e basta. Nausicaa storse il naso appena la vide. Veronica non era una che si faceva tanti amici, forse perché al primo approccio non era la persona più gradevole e ai ragazzi non piaceva tanto quando qualcuno si mostrava sulla difensiva. Ma, il motivo principale per cui con tutta probabilità faceva tenere alla larga tutti era perché circa un anno fa era stata vittima di uno scherzo orribile; il ragazzo con cui se l’era spassata per un periodo, le aveva fatto un video mentre gli faceva un pompino e poi aveva deciso di mandarlo a tutti i suoi amici vantandosene. In poco tempo quel video divenne di dominio pubblico. Inutile raccontare la ripercussione che questo ebbe, ma solo su Veronica e non sul ragazzo. In giro per i corridoi i ragazzi le facevano il gesto del pompino con la mano e la bocca, o addirittura la banana, qualcuno le aveva chiesto esplicitamente se li faceva su prenotazione e le ragazze la chiamarono troia. Lei si allontanò più o meno da tutti. Nessuno si aspettava che sarebbe venuta quella sera, nemmeno Cisco che l’aveva invitata. Era forse una delle poche persone che poteva definire amico. Il ragazzo le allungò subito una birra e gli altri la accolsero subito tra di loro. Solo le ragazze si tennero a distanza, sedute sul gradino più in basso rispetto ai ragazzi.
Rimasero al campo per un po’ di tempo, condividendo la birra e la vodka e qualche sigaretta, raccontandosela e facendosi foto e video da postare sui social. Non c’era un vero argomento di conversazione o qualcosa di sensato nelle loro parole e azioni. L’indomani non avrebbero saputo ricordare di cosa avessero parlato, colpevole un po’ anche l’alcol, ma solo di aver riso tanto.
Quando terminò quasi la scorta di alcolici, si alzarono perché alcuni ragazzi avevano iniziato a lamentarsi di avere fame. Per fortuna il chiosco che vendeva Burrito teneva aperto fino a tardi. E lì loro strade si divisero. Le ragazze decisero di tornarsene a casa; certo, mollavano sempre sul più bello, come se dovessero farsi desiderare per forza. Jim era un po’ scocciato da tutto quello. Gli piacevano le cose dirette, le persone senza troppe pretese. O ci stai o no.
Come se ormai la serata avesse perso ogni senso, anche i ragazzi decisero che erano stanchi. Ma erano anche piuttosto ubriachi. Milo non si reggeva in piedi e Boyko doveva aiutarlo a camminare. 
Tyler fu l’ultimo a salutare James che se ne rimase sul marciapiede a fissargli la schiena. Solo dopo un po’ si accorse che Veronica era ancora lì e che lo stava scrutando coi suoi occhi scuri. Subito piegò le labbra in un sorriso e poi scoppiò a ridere, una leggera risata quasi nasale. Abbassò lo sguardo e si girò leggermente dall’altra parte, come a voler nascondere il proprio divertimento. Jim sorrise a sua volta a quella vista e al vago imbarazzo di Veronica; non aveva mai notato quanto fosse carina, forse anche lui influenzato dalle dicerie su di lei da soffermarsi troppo a guardarla, e ora gli dispiaceva ammettere di essere caduto in quella trappola. Veronica non era come tutte le altre nell’aspetto fisico, non si vestiva o conciava seguendo degli standard che potevano piacere, a cominciare dallo stile dei capelli lisci e neri che le cascavano lungo il viso in un taglio regolare che non arrivava nemmeno alle spalle e la frangetta che non copriva la fronte intera, rivelando un paio di occhi verde chiaro. Veronica non si vestiva provocante per piacere ai ragazzi, ma per piacere a sé stessa.
“Posso accompagnarti a casa?” le chiese.
Lei alzò lo sguardo su di lui, esitando qualche istante. “Abito qua vicino. Non mi serve la scorta”.
“Non voglio farti la scorta, ma solo camminare con te fino a casa tua”.
Veronica rise di nuovo, questa volta senza nascondersi.
“D’accordo, James”.
Il suo nome pronunciato dalla sue labbra rosse gli piacque molto. Molto. Jim non aveva alcuna voglia di tornare a casa, l’alcol gli aveva persino fatto dimenticare il coprifuoco. Aveva voglia di stare in compagnia di Veronica.
Lei iniziò a camminare con calma, Jim accanto a lei, in silenzio.
“Posso farti un video?” le chiese a un certo punto.
Lei sembrò ponderare la domanda, ma poi annuì semplicemente. Il ragazzo tirò fuori il telefono e lo puntò verso di lei, mantenendosi a una certa distanza per inquadrarla meglio. Veronica continuò a camminare con passo leggero, poi si girò a fronteggiare la videocamera andando all’indietro e sorridendo, muovendo la testa per far agitare i capelli.
“Così va bene?” chiese con voce bassa e sensuale. Jim era sicuro che lei non fosse nemmeno consapevole di quanto fosse sensuale, persino davanti a una videocamera.
“Perfetta”.
Aumentò sul suo viso, sugli occhi, e si accorse che sotto la luce dei lampioni e del telefono sembravano avere delle pagliuzze azzurre. Non aveva mai visto degli occhi così particolari. E così tristi. Il volto pallido, poi, era puntellato da alcune macchie più scure attorno al naso dandole l’aria di una bambina dolce. Veronica aveva certamente tante contraddizioni dentro di sé.
Era sicuro, Jim, che avrebbe postato su Instagram quel video. Voleva che tutti sapessero che aveva trascorso la serata con una bellezza del genere. Sperava solo che l’indomani gli effluvi dell’alcol non si portassero via l’allegria e la leggerezza che stava provando in quel momento.
“Vuoi venire da me? Mia madre è fuori casa”, gli chiese lei appena raggiunsero la casa. Jim aveva spento e il video da qualche minuto. 

Sirius si buttò sul letto sospirando stancamente. Non aveva detto molto dopo il racconto di Harry, ma ci aveva rimuginato tutta la sera. Il suo figlioccio un Horcrux. Chissà come doveva essersi sentito all’averlo scoperto. Almeno adesso c’era una spiegazione per quelle sue visioni. Ma anche se poteva vedere coi suoi occhi che le cose erano andate bene e che Harry lo aveva superato, non riusciva a mettersi il cuore in pace... Non essere stato con lui, non aver lottato al suo fianco fino alla fine... Sapere che Harry si era portato avanti i sensi di colpa per la sua morte tutti quegli anni... Lo faceva stare male da morire. E non poteva farci niente. Non poteva riportare indietro il tempo. Forse per questo lui e gli altri erano lì, per avere un’altra possibilità. Ma si rendeva conto persino lui quanto la cosa fosse ridicola. 

Jim non era sicuro. O meglio, lo era ma aveva una sensazione nel fondo dello stomaco che gli diceva che non doveva esserlo. Ma era stata Veronica a invitarlo in camera sua e a spogliarsi e ora lo fronteggiava con quegli occhi tristi ma seducenti come a volerlo sfidare. Era davvero ben fatta, fianchi, sedere, braccia sottili e cosce toniche. Non aveva un seno particolarmente grande, ma Jim non riusciva a fare a meno di pensare a quanto avrebbe voluto stringere quelle tettine tra le proprie mani da cacciatore.
Si slacciò la felpa col proprio nome e la lasciò cadere a terra.
“Sei sicura?” sussurrò nel suo orecchio, quando si ritrovarono nel letto di Veronica, lui sopra di lei che si reggeva con le braccia per non pesarle totalmente addosso.
Lei annuì guardandolo intensamente negli occhi. Quella ragazza non aveva alcuna paura, o quantomeno non la mostrava. Quegli occhi sembravano sondare l’anima e Jim si ritrovò a rabbrividire un po’. Ma alla fine si chinò per baciarla e lei lo accolse, cingendogli la vita con le gambe e lasciandolo entrare dentro. 

*** 

Se tra i lettori c’è qualcuno di origine greca, vi prego non offendetevi. Il paese è stato scelto totalmente a caso <3

Eccomi qua, col solito aggiornamento domenicale in questa giornata di pioggia.
So che a Hogwarts non danno quelle felpe coi nomi come nelle squadre di football in  America, ma siamo nel 2020, saranno cambiate un po’ di cose ^^ e poi, la felpa sarà importante per i capitoli a venire.
Fatemi sapere che ne pensate di questo capitolo. 

Un bacio, 

C. 

Ho come l’impressione che alla fine di questo capitolo mi vorrete uccidere XD 

— —

QUESTIONI DI FAMIGLIA 

Jim si svegliò all’improvviso e di colpo. Il sole stava entrando dalle finestre con le persiane spalancate, caldo e luminoso. Osservò per qualche istante il dintorno in cui si trovava e i ricordi, un po’ offuscati, della sera prima ritornarono tutti a galla. Non ne aveva avuta l’intenzione, ma alla fine si era addormentato nel letto di Veronica dopo che avevano fatto sesso. 

Non fece nemmeno caso alla ragazza che dormiva accanto a lui, sapeva solo che era terribilmente in ritardo rispetto al coprifuoco. Afferrò i vestiti che aveva lanciato in giro per la stanza e se li infilò il più in fretta possibile. Non si erano nemmeno rivestiti prima di addormentarsi. 

Veronica mugugnò qualcosa e alzò lentamente il capo guardando il ragazzo tra il divertito e il confuso. 

“Veronica”, si sentì qualcuno urlare da fuori. 

Veronica si immobilizzò di colpo e anche Jim rimase fermo ad ascoltare, la maglietta infilata a metà e le braccia ancora in aria. 

“Tesoro, sei sveglia?” 

“Merda! È mia madre. Non dove trovarti qua”, disse Veronica scendendo dal letto e infilandosi la prima canottiera che trovò. 

“Nasconditi”, disse poi a Jim spingendolo verso l’armadio. Il ragazzo si ritrovò spintonato verso l’armadio dietro di lui, incredulo e un po’ frastornato, ma non riuscì a dire niente.

“Aspetta un momento, mamma!” urlò Veronica intanto che Jim cercava una posizione comoda per infilarsi in mezzo ai vestiti e ai cappotti.

Veronica riuscì appena a chiudere l’armadio prima che la madre irrompesse nella stanza. La donna la squadrò dalla testa ai piedi, le labbra strette e un’espressione strana. “Forza, vestiti che oggi mi aiuti in negozio”.

“D’accordo”.

La donna uscì richiudendo la porta e Veronica finalmente liberò James dall’armadio nel quale stava quasi soffocando. Almeno era riuscito a infilarsi la maglietta.

“Scusami”, sospirò la ragazza cercando i propri pantaloni. “Se mia madre mi trova con un ragazzo in camera mi ammazza”.

Jim ridacchiò. “Non ti preoccupare. Lo capisco”.

Veronica pensò che Jim non capisse affatto, non poteva perché lui non sapeva nulla del rapporto tra lei e sua madre. Nessuno lo sapeva. 

“Ti faccio uscire”.

La ragazza controllò che la madre fosse in camera propria prima di dare il via libera a Jim e accompagnarlo alla porta. Il ragazzo fece per andarsene, ma all’ultimo si voltò indietro e diede un veloce bacio sulle labbra di Veronica. Lei lo guardò correre via con un sorriso mal trattenuto dipinto in volto.

James corse a perdifiato per tornare il prima possibile a casa. Avrebbe potuto battere il record di Usain Bolt. Non aveva senso che si sbrigasse così tanto a dire il vero, ormai aveva infranto il coprifuoco di un bel po’ e non importava più se tornava un minuto prima o uno dopo. Le avrebbe comunque sentite da suo padre. O sua madre. A volte era sua madre quella che gli faceva più paura. Sperava solo che fosse abbastanza presto perché i genitori fossero ancora a letto, ma non aveva idea di che ora fosse. Aveva appena afferrato il telefono dal comodino prima di uscire.

Quando arrivò a casa pensò a quale potesse essere la soluzione migliore nel caso se li fosse trovati davanti. Purtroppo suo padre aveva una certa mania sulla sicurezza e protezione della casa e avevo reso impossibile aprire la porta di ingresso con Alohomora. Per cui gli toccava infilare le chiavi nella toppa facendo più rumore di quello che voleva. La sua stanza era al secondo piano e non c’erano scale per salire dalla finestra. Se solo fosse stato in grado di materializzarsi! 

Si rassegnò ad affrontare il proprio destino e si avvicinò alla porta di ingresso come a un cane particolarmente aggressivo, e infilò la chiave nella serratura. 

Aprì la porta e con il passo più leggero possibile, richiudendosi la porta alle spalle talmente piano da non farsi udire nemmeno dai pipistrelli, cominciò a dirigersi verso il piano superiore, evitando con cura di guardare verso il salotto.

Forse poteva scamparla.

“Jim!” Si sentì apostrofare e il suo cuore fece una capriola nel petto, mentre si bloccava con un piede sul primo gradino. Desiderò che il pavimento sotto di lui si aprisse e lo risucchiasse. Prima di voltarsi verso il padre che lo aveva chiamato, con un tono che non prometteva nulla di buono, inspirò un paio di volte e chiuse gli occhi per qualche istante per farsi coraggio. Poi si avvicinò alla soglia del salotto. Suo padre era seduto sul divano con una tazza di caffè e lo guardava con l’espressione di chi si preparava alla ramanzina. Accanto a lui c’era l’altro James. Bene, così gli toccava pure beccarsi l’umiliazione in pubblico.

“Stavi entrando o uscendo?” gli chiese Harry in quella che chiaramente era una domanda retorica. Ma Jim non poteva resistere alla tentazione di rispondere a modo suo. La sua linguaccia lo metteva sempre nei guai ancora di più.

“Ehm... uscendo?” 

“Non ti avevo dato un coprifuoco?” 

Jim capì subito che coi suoi soliti sorrisi smaglianti non avrebbe funzionato, non funzionava mai con suo padre - magari con sua nonna sì e persino qualche insegnante - perciò si limitò ad ammettere lo sbaglio.

Abbassò lo sguardo e sospirò. “Hai ragione. Scusami. Mi sono addormentato a casa di un’amica”.

“Be’, per un po’ non ti addormenterai a casa di nessuno. Sei in punizione per due settimane”.

James alzò la testa di colpo e spalancò gli occhi sconvolto. “Ma papà!” 

“Niente papà. Anzi, dovrei metterti in punizione a vita visto che puzzi di alcol come se ti ci fossi fatto il bagno. E ora vai a farti una doccia prima che ti veda tua madre”.

Jim si incurvò nelle spalle e mogio mogio se ne andò verso la propria stanza, ammettendo la sconfitta. Poteva andargli peggio in fondo. E avrebbe anche giurato di avere visto un sorrisetto furbesco sulle labbra del nonno.

Vicky entrò in casa di Andromeda con lo stesso fare con cui l’avevano vista anche a casa di Harry; probabilmente era solo abituata a frequentare i luoghi famigliari del fidanzato. Intravide con la coda dell’occhio Remus, Tonks e Sirius seduti in salotto, ma prima di andare da loro raggiunse Andromeda e le passò una busta di plastica con dentro gli spaghetti che la donna aveva chiesto di comprare.

“Tieni, nonna”. Le disse con un sorriso gentile e la voce allegra. Sembrava molto più di buon umore rispetto a quando c’era stata la luna piena, persino nel vestiario. Indossava un vestito nero con disegni di piccole ciliegie che le arrivava poco sotto la coscia e sul seno faceva una bella curva elegante. 

“Dov’è Teddy?” chiese la signora Black.

“Sta parcheggiando la macchina”, rispose la ragazza dirigendosi verso il salotto.

“Non capisco perché si ostini a usare quel trabiccolo quando si può materializzare”.

Vicky scosse le spalle ma non disse nulla. Ad Andromeda, come ai suoi genitori e a molti altri maghi, specialmente purosangue, non piacevano molto i mezzi di trasporto Babbani. Andromeda poi vedeva l’automobile come una trappola mortale. Ma Teddy adorava la sua Impala, Vicky era persino convinta che alle volte amasse di più l’auto che non lei, ma ovviamente non glielo avrebbe mai ammesso. Quello che però Andromeda probabilmente ignorava, era che a Teddy non piaceva usare la Materializzazione, ma nemmeno la Metropolvere o le Passaporte. Gli facevano girare la testa. Era però un segreto che sapeva solo lei.

Pochi istanti dopo si sentì la porta di ingresso aprirsi e Teddy fece la sua comparsa, riempiendo l’intera soglia della porta con la sua figura slanciata e sottile. Reggeva in mano un libro. 

Annusò immediatamente l’aria sentendo l’odore del cibo. Appoggiò le chiavi della macchina sul mobile vicino alla porta e si abbandonò sul divano con uno sbadiglio. 

“Noi non ci siamo presentati bene l’altra volta”, disse ad un tratto Tonks guardando in direzione di Vicky che alzò lo sguardo su di lei e indugiò tra lei e Remus. Sirius invece se ne stava in un angolo  a bere la sua birra e cercando di non incantarsi a fissarla. Davvero, come facevano tutti ad essersi abituati nel guardarla? Forse era davvero un pervertito.

“Ho sentito tanto parlare di voi”, disse Vicky.

“Davvero?” fece Tonks con genuina sorpresa.

“Sì. Papà mi raccontava alcune cose di voi come storie della buonanotte quando ero più piccola. A me e ai miei fratelli”.

Questa volta fu il turno di Remus di rimanere sorpreso insieme alla moglie.

“Dici sul serio?” 

“Sì. Come vi ha conosciuti e le cose che... insomma, avete fatto”. Vicky lo disse con una tale nonchalance e onestà che le si doveva per forza credere. Ma non capivano come Bill potesse raccontare storie sulla guerra o sull’Ordine della fenice. Certo era che in ogni caso non si potevano tenere nascosti ai ragazzi le questioni del passato, soprattutto se le loro famiglie erano state coinvolte. In fondo Harry, zio di Vicky, era l’eroe che aveva ucciso Lord Voldemort, il mago più temuto e pericoloso di tutti i tempi.

“A me e i miei fratelli piaceva molto ascoltarle”, aggiunse la ragazza. Non disse nulla sul fatto però che soprattutto aveva amato - tra le tante storie - quella sulla relazione tra i genitori del suo ragazzo, Remus e Tonks. Le piacevano le storie d’amore, non poteva negarlo, specialmente quelle che iniziano male, un po’ tragiche e tristi e che poi però finiscono bene. Anche se non avrebbe saputo dire quanto bene fosse finita la storia d’amore tra Remus e Tonks. Le aveva pianto il cuore a saperlo, erano persone vicine a lei dopotutto, i genitori del suo migliore amico e poi del suo ragazzo. Non aveva potuto parlarne con Teddy all’epoca perché lui non sembrava davvero interessato, ma nulla le aveva impedito di scrivere qualche canzone su di loro.

Forse un giorno gliele avrebbe fatte ascoltare.

“E come stanno Bill e Fleur? Insomma, i tuoi genitori”, le chiese Remus. A Vicky piaceva da matti la sua voce gentile, leggermente profonda, ma dolce. Cercava di capire se l’avesse ritrovata anche in Teddy ma non ne era sicura.

“Bene. Papà lavora parecchio. E la mamma si tiene sempre impegnata”. Fleur, dopo qualche tempo dalla nascita di Louis, specialmente dopo aver scoperto delle sue difficoltà, aveva ridotto gli orari di lavoro alla Gringott, ma col fatto che poi tutti i suoi figli passavano la maggior parte dell’anno a Hogwarts, aveva deciso di sfruttare quel tempo per iscriversi a un corso di yoga e poi di dare lezioni di francese in una scuola di lingue Babbana. Bill la prendeva in giro dicendo che stava soffrendo della crisi di mezz’età, e le lingue un po’ più malevole invece sostenevano che fosse perché non voleva essere come la suocera, tutto il tempo a occuparsi della casa e dei figli prima e dei nipoti dopo.

“Hai detto che hai dei fratelli?” le chiese Tonks con tono che non nascondeva la propria curiosità.

“Sì. Una sorella di diciassette anni che si chiama Dominique. E un fratello di quindici,  Louis”, rispose Vicky.

“Quindi vanno ancora ad Hogwarts?” 

La ragazza incurvò la schiena in avanti protendendosi verso i suoi suoceri come se ora dovesse spiegare qualcosa di difficile. Teddy accanto a lei sfogliava il suo libro e dalla cucina adiacente provenivano i rumori di Andromeda che faceva da mangiare. “Sì. Siamo finiti tutti e tre in case diverse. Domi è in Corvonero e Louis in Tassorosso. Questo è stato un sollievo per i miei visto che Lou ha la sindrome di Asperger e i Tassorosso si sa che sono piuttosto tranquilli come personalità”.

I suoi due interlocutori la guardarono perplessi e stavolta anche Sirius sollevò di colpo gli occhi verso la mezza Veela.

“Sindrome di che?” fece Tonks. 

“Oh. È una specie di disturbo... ehm, diciamo che ha a che fare col cervello...”, iniziò a spiegare la ragazza trovandosi in evidente difficoltà. Non era abituata a spiegare la patologia di suo fratello perché o la gente la conosceva oppure semplicemente non lo diceva. Ma quelle persone erano vicine alla famiglia. Doveva ricordarsi che i maghi che aveva di fronte erano morti molti anni prima, quando certe malattie o patologie non erano nemmeno conosciute o non esistevano nella comunità magica. Lei non aveva mai capito esattamente in cosa consistesse la sindrome di Asperger, ma sapeva cosa comportasse per suo fratello.

Teddy intervenne in suo soccorso chiudendo di colpo il libro come per attirare l’attenzione. 

“È un disturbo neurologico dello sviluppo”, iniziò il ragazzo in pieno spirito della sua professione. Vicky lo ringraziò mentalmente, avvicinando il proprio ginocchio al suo. “Louis ha semplicemente delle difficoltà nell’interagire con le altre persone e nel socializzare. Gli vengono facilmente gli attacchi di panico e alcuni suoi comportamenti sono - come dire - peculiari. Le persone asperger tendono ad avere molti tic o comportamenti ossessivi e odiano quando la loro routine viene improvvisamente cambiata. Inoltre, gli Asperger fanno fatica a mostrare o capire le emozioni. Ma non sono anafettivi. Non hanno problemi intellettivi però”. 

“Lou è molto intelligente”, aggiunse Victoire sentendo un’improvvisa necessità di difendere il fratello. “I miei pensavano di non mandarlo a Hogwarts ma la McGranitt ha deciso di ammetterlo lo stesso. Anche se all’inizio è stato difficile perché la sua routine era eccessivamente cambiata”. Vicky fece una pausa ricordando le volte in cui l’avevano chiamata dalla sua lezione per calmare gli attacchi di panico del fratellino. Dopo che lei era andata via da Hogwarts, c’era Dominique a tenerlo d’occhio ma anche lei era al suo ultimo anno. Presto Louis si sarebbe trovato da solo. Per fortuna però era riuscito a farsi un paio di amici e in generale in Tassorosso erano tutti cordiali e pazienti.

“Sono stata una Tassorosso. Sono sicura che Louis si trova bene lì. Siamo gli unici tra le quattro Case a legare con tutti senza troppi pregiudizi”, disse Tonks con un certo filo di orgoglio per la propria Casa. Vicky le sorrise, grata per quell’intervento spassionato.

“Ehi! Non è che noi Grifondoro fossimo dei delinquenti”, si lamentò Sirius.

“No ma siete delle teste calde. Non vi ci vuole niente per scaldarvi e arrabbiarvi”, spiegò la Metamorphomagus e Sirius non trovò niente con cui controbattere. Non poteva darle torto in ogni caso. 

“Anche noi Serpeverde sapevamo essere più inclusivo di voi Grifondoro qualche volta”, si aggiunse Andromeda, la voce più alta per farsi udire dalla cucina, ma il suo tono non poté mascherare un certo tono divertito sapendo quanto avrebbe irritato il cugino.

“Ti ci metti anche tu?” fu infatti la domanda scocciata di Black.

“E tu invece che fai?” chiese a un certo punto Remus decidendo che ne aveva abbastanza di quella diatriba tra Case.

“Io adesso studio in una scuola di arti sceniche Babbana, qui a Londra”, rispose Vicky.

Teddy allora - decidendo di perdersi le chiacchiere sulla danza e gli spettacoli che Vicky faceva alla sua Accademia - si alzò dal divano per andare in cucina e prendersi un bicchiere d’acqua; Sirius lo seguì con lo sguardo e lo vide sparire dietro la parete da cui si sentì subito la voce smorzata di Andromeda e subito dopo quella di Teddy. L’uomo non distinse le parole ma dai toni sembrava una conversazione piuttosto concitata.

Pochi minuti dopo Teddy ricomparve alla loro vista bofonchiando un “poi non lamentarti che non ti aiuto mai”.

Il ragazzo si risedette sul divano col suo bicchiere d’acqua. 

“Piuttosto, sei dimagrito ancora?” gli chiese Andromeda sbucando con la testa dalla cucina e squadrando il nipote con occhi rapaci. “Lo vedo che hai fatto un altro buco alla cintura. Se guardo nel frigo di casa tua ci trovo di nuovo solo un limone rattrappito?” 

“Hahahaha”, fu la finta risata del ragazzo, seguita da un’occhiataccia. Ogni tanto la nonna ci teneva a ricordargli - con non poca ironia e rimprovero - di quella volta che gli aveva fatto una visita a sorpresa nell’appartamento che condivideva coi suoi coinquilini e aveva trovato un unico limone mezzo marcio perché nessuno aveva avuto il tempo di fare la spesa. Così aveva provveduto lei. Ma la dolce e un po’ velenosa nonna Andromeda era rimasta nel cuore di tutti per quella scorta di cibo che aveva fatto. 

“Sei un medico, dovresti prenderti più cura di te stesso”. 

“Noi medici siamo bravi a prenderci cura degli altri. Non vuol dire che sappiamo badare a noi stessi”, rispose con serietà il ragazzo. Non sembrava nemmeno ci fosse dell’ironia celata dietro le sue parole ed effettivamente chiunque avrebbe potuto dire che fosse parecchio magro. Sicuramente mangiare un po’ di più non gli avrebbe fatto male.

“Ma voi medici non dovreste essere quelli che guadagnano e si nutrono bene?” lo prese ancora in giro la nonna.

“Quelli sono i primari. Noi specializzandi dobbiamo solo obbedire a loro e fare il lavoro sporco quando se ne vanno in vacanza alle Maldive”.

Andromeda fece levitare lo sbattiuova che aveva usato per preparare la crema da servire col dolce in direzione di Teddy che la prese al volo e iniziò a leccare via i residui con occhi luminosi; Teddy era sicuramente un ragazzo che aveva la propria personalità, simile ma anche molto diversa da quella dei genitori, ma una cosa aveva sicuramente ereditato dal padre: la passione per il cioccolato e i dolci.

“Quando hai finito lì, Ted, prepara la tavola”, ordinò Andromeda.

“Non ti preoccupare, nonna, ci penso io”, fece Vicky alzandosi velocemente dal divano e prendendo la bacchetta per lasciare al proprio fidanzato il tempo di finire la crema e riposarsi.

James Sirius lasciò andare un sospiro, l’ennesimo da quando si era sdraiato sul letto ed era rimasto a fissare il soffitto per una mezz’ora buona. Non era felicissimo di essersi fatto mettere in punizione ma non riusciva a smettere di sorridere al pensiero dell’altra sera. E a Veronica. Era sicuramente una ragazza particolare. 

Continuava a guardare il telefono per vedere se gli avesse scritto. Non voleva essere lui il primo a farlo, non così presto dopo il loro incontro. Sicuramente avrebbe raccontato tutto quello a Tyler. Lo avrebbe chiamato nel pomeriggio, ora sicuramente stava dormendo. Non aveva segreti col suo migliore amico.

Lui, Jim, si sentiva un po’ stanco ma non aveva davvero voglia di dormire. Allora si alzò e decise che avrebbe messo in ordine la stanza; magari suo padre sarebbe stato contento e si sarebbe dimenticato della punizione.

C’erano diverse cose buttate a casaccio per terra e la scrivania straripava di pergamene e libri e oggetti vari. Iniziava a fare un po’ schifo persino a lui. 

Per prima cosa aprì la finestra per far passare un po’ d’aria.

Mise un po’ di musica dal telefono - i Gojira - a volume non troppo alto e cominciò col raccogliere le cose che erano per terra e a buttare i vestiti sporchi nel cesto. 

Dopo pochi minuti sentì qualcuno bussare alla porta e voltandosi vide James che gli sorrideva leggermente dalla soglia della porta.

“Disturbo?”

“No, stavo solo mettendo in ordine”.

“Vuoi una mano?” 

Jim lo guardò col labbro leggermente in fuori poi abbassò lo sguardo e tornò al suo lavoro.

“Non ti preoccupare. Non voglio farti mettere le mani nel mio casino”.

“Non è un problema. Non ho molto da fare”.

James si guardò attorno notando quanto la stanza di James ricordasse quella di un tipico adolescente molto vivace: le prime cose che si notavano erano il disordine, i poster dei giocatori di quidditch con i giocatori che si muovevano dentro e fuori la cornice e persino uno stendardo di Grifondoro appeso sopra il letto.

“Puoi sempre chiedere ad Albus di mostrarti una delle sue serie. Ogni tanto guarda delle minchiate ma sono sicuro che ne conosce qualcuno che potrebbe piacerti”.

James scrollò le spalle senza dire niente; non era sicuro di cosa pensasse esattamente di Albus, non era riuscito ad avvicinarglisi troppo. Il fratello più piccolo non era socievole o loquace come il maggiore e sembrava preferire starsene sulle sue. Inoltre aveva uno sguardo che lo faceva sentire a disagio, come se lo scrutasse. Un po’ gli ricordava Remus quando lo aveva conosciuto. Solo che ora non aveva più undici anni e quello era il figlio di Harry, non un qualsiasi ragazzino con cui condivideva il dormitorio. Non voleva fare una mossa sbagliata e rovinare tutto. Lily sembrava essersi avvicinata di più ad Albus, magari avrebbe chiesto a lei come approcciare meglio il ragazzo.

“Tuo padre è... tosto”, commentò allora pur di dire qualcosa.

Jim sospirò. “Si, abbastanza”. Non aggiunse altro però e quello fu il segnale che fece capire a James che forse era il caso di togliere il disturbo.

“Spero ti sia divertito ieri sera almeno”, disse prima di andarsene.

Jim alzò lo sguardo su di lui con un sorriso dipinto sulle labbra. “Oh quello sicuro”. C’era una smorfia soddisfatta dietro quel semplice sorriso gentile che James sapeva di aver indossato spesso anche lui in passato e, ricambiandolo, lasciò la stanza del nipote. 

Teddy era tornato all’ospedale da poco meno di un’ora e prima di iniziare l’intervento di tre ore che doveva eseguire su un paziente, aveva deciso di andare nel laboratorio di analisi. Si era subito estratto una quantità sufficiente di sangue - con la magia - per fare quel veloce test che ormai stava eseguendo da qualche mese a questa parte, o meglio, da quando aveva notato che la sua condizione stava in qualche modo peggiorando. Se lo sentiva ribollire nel sangue. Nausee, mal di testa, svenimenti... stava peggiorando tutto. Non era una sensazione che avrebbe saputo descrivere bene ma sapeva bene cosa sentiva.

La verità, che forse molti ignoravano, era che il morbo della licantropia agiva come un veleno nel sangue e nell’organismo. Per questo era anche così contagioso. E, l’altra verità, era che non tutti erano in grado di sopravvivere alla licantropia. Non tutti sopravvivevano al morso. Suo padre era stato fortunato o magari semplicemente era forte abbastanza da non lasciarci le penne, ma lui no, il suo corpo era debole e stava cedendo poco a poco. La licantropia lo stava letteralmente avvelenando e più faceva i test più diventava preoccupante. In pratica lo stava ammazzando. Lentamente. Forse se fosse diventato un lupo mannaro vero e proprio si sarebbe stabilizzato, ma non poteva indurlo. C’era così poco che poteva fare in questo momento e gli dava sui nervi.

E la cosa peggiore era che non riusciva a trovare una soluzione: non conosceva persone che avrebbero potuto aiutarlo, e aveva trascorso nottate intere a cercare soluzioni, aveva riempito pagine e pagine di appunti, grafici, nomi di pozioni e interventi anche difficili da fare.

Ma la cosa anche peggiore, per Teddy, quello che davvero non sapeva come affrontare, era dirlo a sua nonna, a Vicky, alla sua famiglia e ora ai suoi genitori.

Teddy nascose il foglio con le analisi del sangue nella tasca del camicie e uscì dal laboratorio in fretta e furia. 

“Lily, tesoro, dove stiamo andando?” si lamentò James sbuffando. 

Faceva davvero caldo quel giorno. Sua moglie lo aveva trascinato in giro per il quartiere facendogli rinunciare al suo pisolino post-pranzo. 

Sirius era ancora da sua cugina e non aveva avuto modo di opporsi.

“In biblioteca”, rispose Lily senza guardarlo. Continuò a camminare spedita senza nemmeno fare troppo caso se il marito la seguiva.

James strabuzzò gli occhi. “Lily, amore, lo sai che non siamo più a scuola?” 

Lily non disse nulla. Cercava di ricordare la strada che le aveva indicato Albus. Si erano materializzati lì vicino, in un posto dove non sarebbero stati visti, doveva solo ricordare la svolta giusta. E, ovviamente cercare di non attirare l’attenzione. Ma per strada non c’era nessuno se non qualche passante casuale che non faceva nemmeno caso alla coppia di giovani.

Quando finalmente vide l’edificio che Albus le aveva mostrato in foto come la biblioteca del loro quartiere, sorrise contenta e soddisfatta di sé stessa.

“Forza, siamo arrivati”, esortò il compagno.

“Sul serio però, non capisco che ci facciamo qui”.

Lily a quel punto si fermò, sulla soglia del cancello, e sbuffò forte alzando gli occhi al cielo.

“Siamo qui, caro mio”, iniziò punzecchiando James nello stomaco con l’indice, “perché io vorrei scoprire qualcosa di più sulla vita di mio figlio. Perché non ho altro modo. E forse troverò qualche giornale o rivista che dice qualcosa, magari persino quel libro non riconosciuto che ci ha nominato”.

James inarcò le sopracciglia ancora più perplesso.

“E perché non glielo chiedi?” 

“James!” Esclamò lei ormai frustrata. “Secondo te ci dirà qualcosa? È già tanto se siamo riusciti a cavargli quelle informazioni sugli Horcrux. Perché non ci provi tu a chiedergli qualcosa visto che sei così sicuro di te stesso?” Lily non si aspettava una risposta a quell’ultima domanda perché sapeva che non ne avrebbe avuta una. Anche James avrebbe voluto conoscere altre cose della vita di Harry, ma come lei sapeva che fare a lui le domande dirette non avrebbe portato a nulla. James faceva finta di niente, non chiedeva, ma Lily lo conosceva troppo bene da sapere che era una finta. 

“Andiamo allora”.

James non protestò.

La biblioteca era organizzata alla perfezione, con tutti i cartelli che indicavano le sezioni e i piani. all’ingresso nessuno fece troppo caso a loro. Solo la signora al bancone alzò un attimo lo sguardo, ma non pronunciò parola.

Lily e James si imbucarono nella stanza dove c’erano vecchie riviste e giornali. C’era solo un signore anziano seduto a un tavolo.

“Vedi se trovi qualcosa su Harry o Ginny, o qualsiasi cosa li riguardi”.

James si mise a cercare obbediente. Lily si inginocchiò per cominciare dalle mensole più basse. Aveva provato altre volte a cercare di mettere le mani su uno dei computer di casa per cercare informazioni su quell’internet ma sia Harry che i suoi figli li tenevano come fossero le cose più preziose che avessero. Senza contare che non aveva idea di quali potessero essere le loro parole segrete per riuscire ad accenderlo, e nemmeno li sapeva usare.

Passarono un paio di minuti prima che James parlasse di nuovo, piano. 

“Pensi sia così importante? Insomma”, James si girò verso di lei con la testa bassa. Ora non sembrava scocciato affatto e nemmeno spavaldo come era sempre, piuttosto i suoi occhi tralasciavano una certa ansia. “Quello che troveremo, qualsiasi cosa sia, è importante? Io... non so se sia una buona idea rovistare così nella vita di nostro figlio”.

Lily esitò per qualche istante poi si sedette sul freddo pavimento di parquet, le gambe nude a contatto col terreno. I vestiti di quel secolo lasciavano decisamente troppe parti del corpo scoperte.

“Jamie, anche io vorrei poter chiedere tutto quello che mi interessa direttamente a Harry. Ma mi sono accorta che ci sono alcune cose di cui non vuole parlare. E non è che lo voglio spingere o curiosare, però... non posso non sapere. Vorrei poter fare le domande giuste e sapere in cosa mi sto andando a buttare quando dovrò chiedergli qualcosa”. 

James abbassò le spalle e parlò di nuovo, più piano: “Mi fa male, sai? Sapere che non c’eravamo, che l’abbiamo lasciato da solo a combattere una guerra di cui non sapeva nulla”.

“Anche a me fa male. Per questo adesso vorrei cercare di fare qualcosa. E magari trovare qualche rivista interessante ci può aiutare”.

Lily non era sicura della sua idea, ma era qualcosa a cui si aggrappava. Forse si stava comportando come una madre disperata, ma non era mai stata una che stava ferma a vedere quello che succedeva. 

James annuì e si rimise a rovistare. 

Qualcosa trovarono: riviste per lo più di gossip, articoli sul matrimonio tra Harry e Ginny, le nascite dei loro figli, appuntamenti, incontri con persone dell’ambiente politico, interviste e cose riguardanti anche altri membri della famiglia, come Ron ed Hermione, vacanze, cene e altro.

Persino alcuni giornali che parlavano di Harry a Hogwarts.

Ma quello che interessava di più a Lily le capitò in mano quasi per caso.

Erano cinque riviste e ognuna aveva titoli come “Harry Potter in overdose da cocaina”, “il Salvatore del Mondo Magico trovato svenuto nel parco: era andato in cerca di eroina”, “Il Prescelto: dalla gloria ai bassifondi”, “Harry Potter in riabilitazione per tossicodipendenza”.

Lily lanciò un’occhiata a James che le dava le spalle e con mani tremanti le nascose nella borsa a tracolla che si era portata. Quelle, per ora, le avrebbe tenute per sé.

*** 

Come si è già notato da una mia precedente fanfiction - ma l’ho detto anche all’inizio di questa storia - sono molto sensibile sui temi che riguardano i disturbi mentali e psicologici. Non so se la descrizione della sindrome di Asperger coincida davvero con quello che è, mi sono affidata a google e a quello che ho visto con persone che ho conosciuto. In caso, se qualcuno di voi ne sa di più e vuole correggermi, faccia pure : ) 

Inoltre, la scena di Lily e James che rovistano tra i giornali per scoprire qualcosa sulla vita del figlio: ha senso secondo voi? Era una scena che mi sono immaginata in testa per diverso tempo e ci tenevo a inserirla. Spero di aver trasmesso quello che volevo trasmettere, o meglio, quello che Lily voleva trasmettere.

Lascio a voi l’ultima parola e, vi prego, non uccidetemi.
C.

Vi lascio con un paio di foto della presta volto che ho scelto per Vicky (sì, sarà banale ma ce la vedo troppo).

Vicky 1

Vicky 2

PATRICK

Zeudi si sentiva un po’ persa. Non era sicura di quello che stava facendo. Ma sapeva che non poteva esitare proprio ora né tantomeno tirarsi indietro. Si era infilata in un piano, un progetto ambizioso, difficile e pericoloso da cui con tutta probabilità non poteva tirarsi indietro.

Lo sapeva. 

Forse all’inizio, quando ci stava solo pensando, contemplando l’idea e sognandola, non ci aveva creduto davvero. Era solo un’idea, un’utopia.

Se doveva essere sincera con se stessa, non sapeva cosa fare della sua vita. Si era trovata a un bivio, o meglio, sull’orlo di un baratro vuoto, privo di altre possibilità.

La sua vita non era mai stata nulla. Quando viveva con sua nonna, fino ai nove anni, non sentiva parlare altro che dei tempi gloriosi, degli anni in cui Lui governava sul Mondo Magico portando purezza e giustizia per i veri maghi. Con lui sì che si poteva vivere. E Zeudi non aveva dubbi.

Quel mondo, dopo la caduta del Suo potere, era diventato un caos, un guazzabuglio di feccia e creature ibride e sudiciume che gettava nell’ignobilità il loro mondo. Non c’era più rispetto né ordine.

Ricordava con certa inquietudine le lacrime di sua nonna quando le raccontava questo e quanto le dispiacesse che la nipote non avrebbe mai conosciuto il mondo sotto il Suo dominio.

Poi sua nonna morì e Zeudi perse tutto; la casa, il conforto, ma soprattutto perse quelle storie. Nessuno le raccontava più la notte tutte quelle vicende di potere e grandiosità e successo per quelli come lei.

L’orfanotrofio non faceva caso a quelli come lei, anzi, quel mondo, il mondo che navigava nel caos, la costringeva a nascondersi come fosse lei la vergogna e l’errore quando invece era il contrario.

Zeudi era stanca, stanca di esser nessuno e di dover patire l’ingiustizia che non si meritava a causa di persone che pensavano che il mondo in cui vivevano fosse loro dovuto senza che avessero fatto qualcosa per meritarlo.

Perciò decise di esaudire il sogno di sua nonna e il proprio, voleva ascoltare di nuovo le storie di potere e grandiosità, voleva non doversi più nascondere, voleva che tutti la notassero. Voleva avere una famiglia.

Richiuse il calderone ricolmo di pozione bollente e si diresse verso la porta, non prima di aver lanciato un’occhiata alla parete piena di articoli e fotografie, come una sorta di tic nervoso o gesto scaramantico.

Quella parete raccoglieva tutto quello che doveva sapere per mettere in atto il suo piano. La sua vendetta.

Era la stanza dove sua madre non doveva mettere piede.

Sua madre. 

Le cose con lei non stavano andando come sperava. Che cosa sperava poi? 

Sua madre non dava abbracci o affetto. Non era il tipo, si capiva. Ma nemmeno Zeudi. Sua nonna non l’aveva mai abbracciata. Ma sua nonna provava affetto per lei, lo vedeva nelle labbra che si stringevano in un debole sorriso di tenerezza o nei massaggi con la pomata magica quando si faceva male. Erano piccoli gesti ma l’affetto lì si vedeva.

Invece negli occhi duri e glaciali di sua madre non c’era niente. A volte le faceva paura. A Patrick sicuramente faceva paura, soprattutto dopo quella volta che gli era saltata addosso graffiandogli il viso. Lui non osava più stare nella sua stessa stanza.

Sua madre era pericolosa anche senza bacchetta. 

Ci aveva messo diverso tempo a calmare Patrick, ad aiutarlo a gestire l’attacco di panico.

Aveva dovuto usare la sua voce tenera, quella che si usa coi bambini. Odiava doverlo fare. Ma non poteva lasciare Patrick in quello stato. E poi, era Patrick, il suo Patrick, quello che la seguiva ovunque, che si sarebbe gettato in un burrone per lei. Era stato utile e Zeudi era sicura che poteva esserle utile ancora.

Ma non era così per sua madre che lo vedeva come un Babbano inutile, una feccia.

Non poteva biasimarla. Ma non voleva dover scegliere tra sua madre e Patrick. Anche perché la scelta sarebbe stata semplice, fin troppo semplice. 

Trovò sua madre seduta da sola sulla poltrona del salotto - o quello che si sarebbe potuto chiamare salotto fosse quella stata una normale casa arredata e ammodernata. La casa così com’era odorava di muffa e cadeva a pezzi; si reggeva solo grazie agli incantesimi di Zeudi che inoltre impedivano a qualunque curioso di avvicinarsi. Non che in quella zona girasse mai qualcuno.

Zeudi si piazzò davanti al muro scrostato proprio sulla linea di sguardo di sua madre che era rimasta a fissare quel muro per chissà quanto tempo. 

“Dove è Patrick?” le chiese. 

La madre alzò lentamente lo sguardo su di lei come se in realtà fosse indicibilmente scocciata da quella interruzione. Era abbandonata sulla poltrona in una posizione che la sua origine nobiliare sicuramente non le avrebbe concesso, ma la sua natura volubile e imprevedibile glielo faceva fare.

“Vuoi dire quell’inutile essere che striscia perennemente dietro la tua gonna?” 

Zeudi cercò di ignorare quel commento ma uno scatto quasi impercettibile della mandibola la tradì. Se sua madre notò qualcosa non lo diede a vedere.

“Non capisco perché sei sempre così malvagia con lui. Non ha fatto nulla per infastidirti”.

“La sua presenza mi infastidisce”.

Zeudi sapeva che se le avesse dato in mano una bacchetta, nulla le avrebbe impedito di uccidere Patrick. O uscire da quella casa.

Zeudi si voltò verso la porta con l’intenzione di andare a cercare il ragazzo in qualche stanza della casa. Non si allontanava mai troppo da lei, anche se la donna più anziana lo spaventa da morire. Non restava mai da solo con lei senza Zeudi.

“Non so davvero come tu possa essere mia figlia”, disse di nuovo la donna, la voce questa volta si propagò per tutta la stanza come un boomerang che arrivò alle orecchie della giovane con un colpo che quasi la piegò in due.

“Io non ti avrei cresciuta così, a farti rincorrere da un inutile Babbano. Lui non ti avrebbe cresciuta così. Quelli come noi non si mischiano al sudiciume”.

Zeudi inspirò ed espirò profondamente un paio di volte. A volte la donna se ne usciva con queste dichiarazioni. Così, semplicemente, le lanciava apposta per fare del male. O forse, non le importava nemmeno di fare del male. Zeudi non lo sapeva, non sapeva a cosa stesse andando incontro. Come poteva dire di volere bene a una persona che la trattava in questo modo? Ma lei, dopotutto, che ne sapeva dell’affetto?

Si girò di colpo, le lacrime accumulatesi sull’orlo dei suoi occhi pronte a esondare come un fiume in piena, e arrossata dallo sforzo di trattenerle.

“Be’, si dà il caso che tu non mi abbia cresciuta. E che Patrick sia stato con me più di quanto lo sia stata tu”. 

Se ne andò senza dare il tempo all’altra di rispondere. Non voleva sentire altro - per il momento - uscire dalla sua bocca e men che meno voleva farle vedere le lacrime che cadevano in grosse gocce lungo le sue guance pallide.

Evitò di guardarsi allo specchio mentre passava in corridoio. Sapeva di essere stata ingiusta, non era colpa di sua madre se era morta e non aveva potuto crescerla dopotutto. Ma era stanca, era davvero tanto stanca. 

Non capiva quel comportamento, non lo capiva proprio. Era sicura di poterlo cambiare però, voleva cambiarlo. Le avrebbe dimostrato di essere forte, potente, e di essere degna del suo nome, del suo lignaggio, delle  sue discendenze.

Zeudi aprì piano la porta e fece capolino con la testa nella stanza semi-oscura; c’erano solo alcune candele a illuminarla e creavano delle gigantesche ombre piuttosto macabre del mobilio circostante. La ragazza ricordava che in quella stanza c’era la testa di un elfo domestico morto appesa alla parete e l’aveva dovuta togliere perché a Patrick faceva terrore. Quasi tutto gli faceva terrore in quella casa, ma lui non se ne sarebbe andato finché non se ne fosse andata lei. Questo era il punto fino a cui si spingeva la sua fedeltà. O almeno questo pensava che fosse. Non sapeva come altro chiamarlo. O non voleva chiamarlo in altro modo.

“Posso?” chiese in tono basso ma gentile, aprendo di più la porta per permettersi di entrare; aveva intravisto il corpo dell’amico steso sul letto stretto, la testa sotto la finestra. La notte pian piano calava e il sole si era fatto da parte per lasciare spazio alle stelle che in quella strada per nulla illuminata e senza la luna brillavano in maniera splendida.

Zeudi non aspettò che l’altro le rispondesse; si avvicinò al letto ticchettando sul pavimento coi suoi stivaletti e si stese accanto a Patrick che aveva le cuffie del vecchio Walkman che lei gli aveva regalato quando erano piccoli, rubandolo a un bambino.

Lui, sempre in silenzio, le passò una cuffietta. Zeudi se la infilò senza esitare e si lasciò subito travolgere da una canzone di David Bowie, la sua preferita, Life on Mars. 

“Non ti manca a volte?” sentì ad un tratto la voce infantile di Patrick chiederle, dopo diversi istanti in cui erano rimasti in silenzio ad ascoltare la musica. “Intendo, la vita che avevamo prima, in orfanotrofio. Non le cattiverie e la fame, ma… noi due. Quando potevamo fare quello che volevamo ed eravamo piccoli e non ne sapevamo molto del mondo, ma non ci importava nemmeno”.

Zeudi lasciò andare un leggero sospiro, quasi impercettibile, e piegò un lato della bocca in un debole sorriso che Patrick non avrebbe visto perché era girato verso la finestra.

Patrick era così ingenuo, pensò, sentire la mancanza dell’orfanotrofio. Lei no, lei non ne sentiva affatto la mancanza. Lì non aveva alcuno scopo, non aveva niente se non… Be’, Patrick. Ma Patrick nemmeno aveva qualcosa. Che cosa poteva mancargli? Loro due, Zeudi e Patrick e i loro stupidi giochi. Solo ora Zeudi vedeva quanto fossero stupidi. E imbarazzanti. 

Ma Patrick no. Per Patrick erano il mondo. Lei gli aveva detto di andarsene per la sua strada quando avevano dovuto lasciare, ma lui non aveva voluto perché non sapeva che fare senza di lei. E Zeudi si era detta che andava bene, che magari una mano le sarebbe stata comoda.

Quanto si sbagliava…

“Ogni tanto, Patrick, ogni tanto”, gli rispose sapendo di mentire. 

Life on Mars continuava a risuonare nelle sue orecchie. 

***

Scommetto che starete pensando “embé, tutto qua?” 

Sì ragazzi, questo capitolo è così. Mi spiace. Avevo bisogno di una pausa dai capitoli lunghi e carichi come lo sono stati gli altri. E poi devo dire che sono soddisfatta, questo secondo me è il capitolo che mi è riuscito meglio.

Aldilá dei drammi dei personaggi, della vita di Harry e la sua famiglia, della caratterizzazione della nuova generazione - che io mi diverto tanto a descrivere e immaginare - questa storia è nata per avere anche azione e mistero dietro. Stavo trascurando il personaggio di Zeudi e non va bene perché è lei il motivo per cui è nata Estate 2020. 

Per cui beccatevi sto capitolo e vi anticipo già che il prossimo sarà lungo e bello carico. E, spoiler, qualcun altro tornerà in vita. Provate a indovinare chi… 

Per il resto, buona domenica.

C.

P.S. mi scuso di aver aggiornato così tardi, ma ero a casa senza PC e il sito non mi lasciava aggiornare né da tablet né da cell.

Sono quindici pagine di capitolo quindi non lamentatevi che è troppo corto XD

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UN ALTRO INNOCENTE

Una giornata storta si intuisce fin dal primo momento del suo inizio: il piede messo male, la sveglia suonata troppo presto, eccessivi pensieri per la testa, il caffè versato per terra… Jim e Albus che decidono di bisticciare ancora prima di sedersi a tavola a fare colazione per nessun motivo apparente. Jim aveva sparato un’altra delle sue, probabilmente, uscendo dal bagno, quasi sicuro, e Albus si è irritato perché forse quel mattino si era svegliato con la luna storta, e aveva lasciato che l’isteria Serpeverde - come la chiamava il fratello - avesse la meglio su di lui. In tutto questo la piccola Lily aveva alzato gli occhi al cielo, aveva abbandonato la sua tazza di cereali e se ne era andata sbuffando. In giardino a giocare con lo skate. 

Verso l’ora di pranzo non era proseguita meglio.

Ginny non era una donna che amava farsi troppo gli affari degli altri; come era da giovane era più o meno rimasta anche da adulta, forte, indipendente, sicura di sé. Aveva piena fiducia nel marito, non era mai stata una moglie gelosa o una che volesse controllarlo. Harry, poi, non gliene aveva mai dato motivo, anche perché lui non era capace di dire bugie, non a lei. 

Ma Harry spesso e volentieri lasciava il suo telefono in giro e Ginny passava per caso in salotto quando il telefono abbandonato sul tavolino da caffè si illuminò e il nome di una certa Gina comparve sullo schermo come un lampeggiante.

Sono contenta che tu mi abbia contattata. 

Ci vediamo domani.

Ginny non era una che saltava alle conclusioni, e non avrebbe saputo dire davvero che cosa le fosse preso. Forse era la strana sensazione che c’era in casa, il lavoro, i figli, i troppi pensieri per la testa… 

Afferrò il telefono in mano prima ancora di pensare a cosa stesse facendo e in quel momento Harry entrò con espressione distratta passandosi una mano tra i capelli.

“Tesoro, hai visto il mio cell…”. Si interruppe quando si scontrò con l’espressione di Ginny che reggeva in aria il suo telefono.

“Chi è Gina?”

“Cosa?”

“Gina? Ti ha appena scritto un messaggio. Perché la vedi domani?”

Harry aprì bocca per dire qualcosa, ma rimase a boccheggiare senza sapere esattamente cosa dire, colto alla sprovvista. I suoi occhi erano fissi su Ginny che ancora reggeva il telefono e lo confrontava senza alcuna esitazione, con uno sguardo che emanava rabbia più che altro. Non si era mai lasciata intimorire dal fatto di essere più bassa di lui, non era certo più debole. 

Nessuno dei due si era accorto di Albus seduto sui gradini del corridoio, che aveva spento la musica del suo telefono non appena aveva sentito la madre alzare la voce. Non era abituato a sentirli litigare, di solito non lo facevano mai - non quando lui era a casa quantomeno - perciò doveva essere qualcosa di serio. Anche lui voleva sapere chi fosse questa Gina.

“Stanno litigando?” sentì una voce dietro di lui. James lo aveva raggiunto sulle scale. Il ragazzo notò subito che indossava una vecchia maglietta di Teddy, Nirvana scritto sul petto.

Albus si tolse le cuffie e si appoggiò con la schiena al muro. “Non lo so”, disse scrollando le spalle. Alcuni capelli gli caddero sulla fronte.

James sospirò impercettibilmente senza aggiungere altro e riportò lo sguardo sui profili di Harry e Ginny che intravedeva in cucina. 

“Allora? Samantha è la tua legale e Erin la tua commercialista. Quindi chi è Gina?” esortò ancora Ginny quando non ottenne risposta.

Harry si passò una mano tra i capelli stancamente e inspirò una grossa boccata d’aria, spostando un attimo lo sguardo verso la finestra prima di ri-posarlo sulla moglie. 

“Gina è la mia sponsor. Non te l’ho mai presentata e non ti ho mai detto come si chiama. È una signora di 64 anni che ho conosciuto dopo la riabilitazione. Mi ha aiutato a… uscire dalla tossicodipendenza”.

James, rimasto seduto accanto ad Albus sulle scale, spalancò gli occhi e si protese di colpo in avanti. Guardò verso Albus che però non reagì in alcuna maniera e fece per urlare qualcosa, quando però si scontrò con gli occhi verdi del figlio che aveva notato i due seduti in corridoio ad ascoltare la conversazione. Senza dire nulla alzò la bacchetta e lanciò un incantesimo per schermare il salotto, così che nessuno potesse sentirli.

“No!” fece James. “Cazzo! No!” 

“James!”

James alzò lo sguardo su Lily che lo guardava con uno strano cipiglio da sopra le scale, appoggiata alla ringhiera.

“Ma Lily! Hai sentito che ha detto?” 

“James, vieni qua”. 

James obbedì titubante e si avvicinò alla moglie. Albus gli passò accanto senza dire nulla, come se non fosse successo proprio niente. A lui invece sembrava fosse caduto il mondo addosso. Cosa volevano dire riabilitazione e tossicodipendenza? 

Suo figlio aveva avuto problemi con la droga? Come era possibile? Perché?

“Lily! Harry ha detto di essere…”.

“Shhhh!” lo zittì la moglie trascinandolo nella loro camera.

Harry e Ginny, schermati nella loro bolla di privacy, potevano finalmente parlare. La donna aveva abbassato il telefono e ora guardava il marito con occhi pieni di dispiacere e preoccupazione. Non osava avvicinarglisi.

“Hai… hai ripreso…”. Non riusciva nemmeno a pensarci, non avrebbe potuto affrontare di nuovo quel periodo.

“No!” disse Harry, tagliente e veloce. “Ti giuro, Gin, non mi sto drogando. Non ho ripreso e non ne ho l’intenzione. È solo…”.

Ginny finalmente gli si avvicinò, piano, come temesse di spaventare un cervo in un bosco. Sapeva che doveva essere cauta con Harry in alcune reazioni. Gli si piazzò davanti confrontandolo coi suoi occhi castani. Harry ricambiò lo sguardo prendendole le mani.

“Ho sentito il bisogno di ricontattare Gina perché… perché è un periodo difficile per me questo, okay? Il ritorno… il ritorno dei miei genitori, di Sirius e… tutto quanto. Avevo bisogno di parlarne con qualcuno che non fosse della famiglia e Gina mi ha aiutato tanto quando ne ho avuto bisogno. Non ti ho detto nulla perché non volevo preoccuparti. Ma ti giuro che non ho mai pensato, nemmeno per un istante, alla droga. Non lo farei mai”.

Ginny aspettò una frazione di secondo, ma alla fine piegò le labbra in un sorriso dolce e strinse di più la presa sulle mani di Harry.

“Sai, Harry, non ho mai pensato che mi stessi tradendo con un’altra. Non sai mentirmi su questo. E poi… tradirmi con una che ha il nome simile al mio? Andiamo, è troppo persino per te”, rise divertita, imitata dal marito che si sentì subito più sollevato. “Mi ero accorta che qualcosa non andava, ti vedevo nervoso da qualche giorno e volevo che me ne parlassi”.

“Hai ragione, scusami. È solo che… volevo tenere questa cosa per me. Ho sempre cercato di tenere separato da te e dai ragazzi tutto quello che ha avuto a che fare con la mia riabilitazione”.

“Lo sai che non puoi tenermi lontana da questo”.

Harry appoggiò la fronte contro quella di Ginny e lei gli circondò la vita con le braccia. 

“Lo so, tesoro, e ti chiedo scusa”.

“Lo capisco che questa situazione, i tuoi genitori e Sirius, ti stanno mettendo in una situazione poco confortevole. È perfettamente normale. Ma non tenerti tutto dentro”.

“Hai ragione”.

Rimasero in silenzio per un po’, ognuno immerso nei propri pensieri. Era sempre stato un difetto di Harry, quello di tenersi tutto dentro, uno dei motivi che lo avevano portato a dipendere dalla droga inizialmente. 

“Forse dovresti andare a parlare con qualcuno”, disse lei dopo un po’, a bassa voce.

“Già”, fece lui, guardando di sottecchi le scale e temendo quello che avrebbe trovato al piano superiore. Aveva capito a chi si stesse riferendo la moglie senza aver bisogno che glielo dicesse ad alta voce. 

“Jamie, siediti!” ordinò Lily perentoria a un James che sembrava non riuscire più a stare nella propria pelle.

Lui però non ne poteva più, non avrebbe obbedito ciecamente alla moglie, non questa volta. Non capiva come facesse lei a non essere preoccupata o così tranquilla.

“Che succede?” Sentirono la forte voce di Sirius dalla soglia della porta, probabilmente attirato dal loro chiasso.

“Tu lo sapevi? Sapevi che Harry si drogava?” 

“Oh James!” quasi gridò Lily, questa volta esasperata.

“Che cosa?!” esclamò Sirius.

“Oh bene, almeno qualcun altro è sconvolto come me”.

“E quando… te lo ha detto?”

“No, ne stava parlando con Ginny. Ma hanno schermato la porta”.

Lily si arrese, non sarebbe più riuscita a contenere quei due. Sperava solo che non si precipitassero come due buoi da Harry e lo bombardassero con le loro domande e le loro osservazioni. Non era che li considerasse stupidi, ma sapeva quanto fossero precipitosi e quella era una situazione che chiedeva una certa delicatezza.

Ma non fece in tempo a pensare ad alcun piano di contenimento che videro l’alta figura di Harry entrare nella loro stanza.

“Possiamo parlare?” chiese.

James e Sirius annuirono come due bimbi che aspettano la ramanzina. Forse non si erano aspettati che si sarebbe avvicinato proprio lui.

“Quanto di quello avete sentito?” domandò Harry, accomodandosi su una sedia e chiudendo la porta, chiudendola con un colpo di bacchetta.

“Solo la parte più saliente. Ma non abbastanza”.

Harry annuì senza guardare nessuno in particolare.

“Immagino quindi che le riviste siano tue”, disse e alzò gli occhi su Lily.

“Cosa? Quali riviste?” chiese James alternando lo sguardo tra la moglie e il figlio, sempre più confuso.

Harry prese la bacchetta senza quasi farsi notare e richiamó le riviste che la giovane donna aveva nascosto sotto il materasso.

James e Sirius li guardarono posarsi davanti ai loro occhi confusi e impallidirono non appena lessero i titoli cubitali. Lily non osò guardarle invece.

“Sotto il materasso? Davvero? I miei figli nascondono le cose sotto il materasso quando non vogliono farmi trovare qualcosa”, disse Harry con un’espressione che sembrava quasi divertita. 

“Hai frugato tra le mie cose?” gli chiese lei, un vago tono di rimprovero nella voce. Si sentiva tradita e colta in flagrante allo stesso tempo. Aveva pensato di poter essere furba in qualche modo, anche delicata in questa situazione. Invece le veniva da piangere e non sapeva nemmeno perché.

“Pensi che non vi tenga d’occhio? Siete risuscitati, qualcosa che non è mai successo prima d’ora. Farei male il mio lavoro se non vi controllassi almeno un po’”.

“Che cosa vogliono dire queste riviste?” chiese Sirius, improvvisamente interrompendo quella conversazione; non sembrava affatto turbato dal nemmeno troppo velato accenno da parte di Harry sul fatto che li stesse tenendo d’occhio, era solo interessato a sapere a cosa si stessero riferendo quei titoli. E anche James. 

Lily infine decise di lasciar perdere quella conversazione. Era arrivato il momento di sapere tutta la storia.

Harry si alzò dalla sedia, puntò la bacchetta contro la porta e innalzò uno scudo di privacy.

“Vi faccio vedere una cosa”, disse prima di portare le mani alla camicia e iniziare a sbottonarla. Davanti alle espressioni confuse dei tre presenti che non capivano il motivo di quello spogliarello, Potter si slacciò la camicia con calma ma con mani ferme. La estrasse dai pantaloni e la fece scivolare lungo le spalle. Poi si girò e mostrò il tatuaggio di un drago nero che gli ricopriva tutta la schiena. Era un tatuaggio magico, ogni tanto muoveva leggermente le ali come se stesse davvero volando, con gli occhi verdi che luccicavano. 

Senza alcun preavviso però, Harry inarcò le spalle all’indietro esponendo le scapole e il drago sparì, lasciando spazio a una ragnatela di cicatrici bianche che contrastavano con la pelle più scura della schiena. Non sembravano state provocate da artigli di qualche animale feroce, piuttosto sembravano essere il risultato di un violento attacco premeditato.

Harry lasciò loro qualche istante come se stesse facendo vedere un’opera d’arte, poi ritornò a fronteggiare i loro sguardi sconvolti - non prima di aver fatto riapparire il tatuaggio che coprì del tutto le cicatrici. Sempre con calma, si rimise la camicia riallacciandola sui pettorali e addominali torniti.

“Che - che cosa vuol dire?” chiese James piano; lui era quello che sembrava più sconvolto degli altri due, probabilmente perché non era capace di nascondere quello che pensava. Sirius semplicemente lo guardava preoccupato.

“Ho fatto quel tatuaggio per coprire le cicatrici”, disse ri-sedendosi sulla sedia, il petto appoggiato allo schienale.

“E come te le sei fatte?”

“Mentre ero un praticante negli Auror. Ero, credo… al terzo anno”. Si umettò le labbra prima di continuare. “E ho fatto una cazzata. Era da un po’ di tempo che… non facevo molta attenzione. Mi buttavo nelle missioni, cercavo quelle più pericolose, combattevo di istinto e solo perché… be’, avevo trovato conforto nell’azione, nel combattere contro i criminali”.

“Conforto in che senso?” gli chiese James. Non sapeva che cosa quella premessa c’entrasse con un apparente abuso di droga, ma forse era da lì che iniziava tutto.

Harry sospirò e si passò una mano tra i capelli; di nuovo, sembrava incredibilmente stanco. Poteva avere l’aspetto di un uomo di quarant’anni che si porta ancora bene la sua età, ma negli occhi e nello sguardo sembrava aver vissuto mille vite. “Dopo la guerra, dopo che ho sconfitto Voldemort… non tutto è andato bene. Non subito almeno. Riprendersi da una guerra, riuscire ad andare avanti sapendo anche quanto è stato perso, quante persone sono morte, non è stato facile per nessuno. Ricostruire la propria vita e andare avanti… Non è stato affatto semplice”.

Fece una pausa e Lily ne approfittò per guardarlo negli occhi - così terribilmente uguali ai suoi - e cercare indizi di quello che taceva. “E per te è stato difficile, immagino”, disse lei piano, timorosa non tanto di aver detto qualcosa di sbagliato ma di scoprire quello che avrebbe sentito in risposta alle sue domande.

Harry annuì senza guardare nessuno in particolare. “Sì. In un primo momento non mi ero reso nemmeno conto di quanto la guerra mi avesse davvero segnato. C’era da fare così tanto, Hogwarts doveva essere ricostruita e anche l’intera Comunità Magica. Le persone volevano delle risposte da me, volevano sapere come avessi sconfitto Voldemort, quali erano i suoi segreti. Senza contare il fatto che… Be’, ero il loro eroe e tutti si aspettavano qualcosa da me, tutti volevano dire la loro”.

Sirius emise un grugnito come a dire che non faticava a immaginarlo e che non approvava affatto; in fondo, i giornali avevano sempre parlato del suo figlioccio, nel bene e nel male.

“Mi sono buttato subito nell’Accademia degli Auror con Ron perché mi sembrava l’unica cosa giusta da fare, non volevo perdere tempo, non volevo deludere nessuno. Ma poi sono arrivati gli incubi e i pensieri e il senso di colpa”. 

“Il senso di colpa? Per cosa?” lo interruppe James-

“Secondo te per cosa?” ritorse Harry puntandogli addosso uno sguardo affilato. Possibile che non capissero? Possibile che dovesse spiegare tutto?

“Per tutto quanto. Non sono mai stato bravo a gestire i sentimenti, nemmeno quelli sbagliati. Mi sentivo in colpa per tutto, per la guerra, per chi era morto, anche per voi”. Vide James aprire la bocca per protestare, ma lo interruppe subito: “Si, lo so che è stupido. Credimi, ci ho lavorato tanto con la mia psicologa per farmi passare questa tendenza ad auto-incolparmi di cose che non posso controllare. Ma… non lo avevo capito subito. E quindi, per cercare di non pensarci sfruttavo il lavoro, l’allenamento, il combattimento, l’azione. Erano le uniche cose che conoscevo. Sono nato durante una guerra e ho combattuto in una guerra. È stato difficile uscirne davvero, far capire al mio cervello di potersi rilassare. Il problema era che se cercavo di rilassarmi i pensieri distruttivi e gli incubi cominciavano a perseguitarmi”. Guardò di sfuggita verso Sirius che ricambiò lo sguardo, probabilmente richiamando alla mente quella conversazione che avevano avuto nel garage. “Ero entrato in un circolo vizioso”. 

“E come ne sei uscito?” gli chiese Lily per incoraggiarlo ad andare avanti; poteva immaginare da sola come proseguiva quella storia. Si era permessa di lasciar andare qualche lacrima.

Harry si schiarì la gola prima di continuare. “Il mio capo mi diceva di stare attento, aveva notato che ero imprudente e Ron mi aveva fatto notare questa tendenza ad agire impulsivamente, ma non li avevo ascoltati. Sono entrato in una stanza piena di pozioni esplosive durante una missione e… Be’, ho fatto appena in tempo a uscire prima che mi esplodessero in faccia ma mi avevano colpito comunque. Uno dei criminali che stavamo inseguendo ha approfittato del fatto che non riuscivo ad alzarmi per… per scagliarsi su di me. Ero steso a pancia in giù quindi ha usato i peggiori incantesimi taglienti sulla mia schiena”. 

Fece un’altra pausa. Nessuno osò dire nulla.

“Sono stato al San Mungo per un mese ed è stato terribile. Ho rischiato la paralisi. Mi sono salvato solo perché un Medimago ha fatto di tutto per aiutarmi”. 

Le cicatrici che i tre avevano visto sulla schiena di Harry erano la conferma di quanto quelle ferite fossero state terribili. 

“Ginny e la sua famiglia non mi hanno mai lasciato solo ma… avevo dei dolori terribili. Ho trascorso quel mese semi-cosciente per metà del tempo. E quando finalmente mi sono potuto alzare… Be’, avevo dolori allucinanti, facevo fatica a muovermi o a camminare. Ed ero arrabbiato tutto il tempo perché… non lo so perché. Con me stesso, con la mia incoscienza, con la mia vita”. 

Lily non riuscì a trattenere un singhiozzo, ma si asciugò in fretta le lacrime e cercò di ricomporsi. 

“Scusa, vai avanti”.

“La Pozione Corroborante non mi bastava più. Il medimago che mi aveva curato aveva studiato medicina Babbana e aveva iniziato a prescrivermi farmaci più forti. Morfina, Vicodin, Metadone. Sono tutti farmaci che creano dipendenza. Ed è iniziata così. Le ferite erano guarite, non avevo più dolori, ma… Avevo notato che quando prendevo quelle medicine la mia mente era come… come se si svuotasse. Scacciavano via i pensieri e non facevo più incubi. E da lì provare altre droghe è stato più semplice. L’erba mi rilassava, la cocaina mi dava la carica per un po’. Ho provato anche l’eroina, per bocca e in vena. Non scenderò nei dettagli di come ho conosciuto chi me le vendeva, ma ho iniziato a spendere i miei soldi così, pagavo anche parecchio”.

James si portò una mano al collo come a volersi stiracchiare ma stava semplicemente iniziando a sentire caldo e ad avere i sudori freddi. Non si sentiva più il corpo. Dire che quella storia lo stesse riempiendo di dolore era troppo riduttivo. C’era suo figlio davanti a lui a raccontargli di come fosse finito nel giro della droga perché la sua vita era stata piena di sofferenza e perdita e lui… Lui non sapeva che fare. Si sentiva un padre di merda. Non solo non c’era stato per suo figlio, ma lì, in quel momento, davvero non sapeva cosa fare o dire. Continuava a pensare al fatto che forse avrebbe potuto fermare Voldemort in qualche altro modo, anziché farsi uccidere subito. Forse era questo che Harry intendeva con tendenza auto-distruttiva e sensi di colpa. Non aveva il coraggio di guardare Lily perché aveva paura che potesse capire i suoi pensieri e lui non lo voleva. Ma sentiva che anche lei non stava molto meglio. Piangeva in silenzio. Invece cercò Sirius, senza accorgersene il suo corpo si inclinò verso il suo migliore amico. Lui sembrava reggere meglio. Il che era decisamente strano. Si sentiva così inadeguato.

Solo il fatto che Harry fosse lì davanti a loro vivo e vegeto, con un buon lavoro e una famiglia, li rassicurava del fatto che comunque quella storia avesse avuto un lieto fine.

“E come hai fatto a uscirne?” gli chiese il padrino.

“Ginny e gli altri ci hanno messo un po’ a capirlo. E quando lo hanno capito io ho fatto di tutto per respingerli. Ho tentato due volte la riabilitazione prima di riuscirci. La prima volta ho resistito un mese, la seconda sei. Poi ho deciso che era meglio se mi facevo ricoverare in un centro perché non potevo addossare tutto sulle spalle di Gin. Lei ha… Lei ha davvero sopportato più di quello che avrebbe dovuto. Avrebbe potuto lasciarmi”. Scrollò le spalle e fissò lo sguardo in un punto sul pavimento senza in realtà vederlo. “Invece è rimasta. Anche quando persino i giornali lo avevano scoperto. Hanno iniziato a scrivere cose su di lei… Rischiavo di rovinarle la carriera e forse è stato quello che… Insomma, lì ho capito che grosso errore avessi fatto. Ed è stata interamente colpa mia, non importa che fossero stati i medici a prescrivermi quei farmaci… Io ho deciso di continuare ad abusare”. 

Quando rialzò lo sguardo sui suoi tre interlocutori li trovò immobili come se qualcuno avesse gettato loro un Petrificus Totalus. Ma lo guardavano con occhi pieni di sofferenza e un misto di altre cose. Lily non si preoccupava nemmeno più di trattenere le lacrime.

“Ora sono pulito da quasi vent’anni. Anche se ho smesso veramente di pensare alla droga quando Gin è rimasta incinta di Jim. Ho tre figli, non oserei mai più fare quello che ho fatto… Per loro. I miei figli e Gin mi hanno salvato la vita”.

Harry si zittì di colpo e gli altri capirono che il racconto era finito. E, anche se forse erano ancora pieni di domande da un lato, dall’altro erano felici che non ci fosse altro da aggiungere, che fosse finita perché non sapevano quanto ancora avrebbero resistito. Come avesse fatto Harry a raccontare tutto quello senza crollare, con voce ferma e senza mai tentennare, era un mistero. Forse ci era abituato, forse lo aveva accettato. 

“I tuoi figli lo sanno?” gli chiese Sirius.

“Sì, qualcosa sanno. Non posso tenerli all’oscuro di certe cose”.

“Quindi fammi capire…”, fece James con un tono che non prometteva nulla di buono. “Una Profezia ti ha condannato a dover sconfiggere il più potente Mago Oscuro di tutti i tempi, quando lui è tornato hai dovuto dare la caccia ai suoi Horcrux, tu stesso eri un Horcrux e… dopo la guerra hai lottato contro la droga”, elencó contando sulle dita tutte le disgrazie che erano capitate al figlio. Perché era proprio questo che lo sconvolgeva di più. Ora si sentiva più che mai colpevole di non aver davvero trovato un altro modo per sconfiggere Voldemort prima.

Harry piegò le labbra in un piccolo sorriso divertito; forse non era il caso che gli raccontasse dei Dursley.

“Diciamo che la mia vita non è stata noiosa”.

Un rumore vicino alla porta distrasse tutti quanti. Sirius si era alzato di colpo e aveva aperto la porta. “Scusate, ho bisogno di aria”, disse, quasi mormorando, è uscì senza guardare nessuno.

Harry non lo seguì, in quel momento voleva concentrarsi su James e Lily. Si alzò e si sedette vicino alla madre, allungando le braccia per abbracciarla. Lei quasi si lanciò contro il suo petto, quasi per inerzia, e nascose il volto nell’incavo del suo collo. James si sedette dietro di lei, una gamba piegata sotto l’altra allungata sul letto, e rimase a guardare i due mordendosi il labbro inferiore.

“Quello della droga è stato interamente colpa mia”, disse Harry dopo un po’, porgendo un fazzoletto a Lily che aveva trasfigurato. 

“No!” esclamò lei con voce spezzata ma forte, asciugandosi gli occhi. “Non è stata colpa tua invece, nemmeno quello. Dopo tutto quello che ti è capitato… Ci credo che ti serviva un modo per… andare avanti”.

“Sì, ma ho scelto il modo peggiore”.

“Non posso biasimarti. Se qualcuno era autorizzato a commettere questo errore quello eri tu”.

Harry le sorrise dolcemente. Poi guardò il padre che ricambiava il suo sguardo in silenzio; Harry non avrebbe saputo dire a cosa l’altro stesse pensando. 

“Ha ragione lei”, disse James infine, forse più per dire qualcosa che per necessità di parlare. “Però… Ne sei uscito e questo è ciò che conta”.

“Sì, proprio così”.

Sirius sparì per un po’. Harry iniziò a preoccuparsi solo quando arrivò alla sua seconda sigaretta, ma presto vide un grosso cane nero varcare il cancello di casa con un salto.

Quando l’animale si approcciò al portico, Harry spense la sigaretta e si sedette sui gradini di ingresso, lasciando che il cane gli avvicinasse il muso al grembo. Harry sorrise leggermente e accarezzò la testa di Felpato. “Ti capisco”, disse Harry a bassa voce. “Anche io mi trasformo in Animagus quando ho bisogno di scacciare i pensieri”. 

Felpato gli si posizionò accanto e senza alcuno sforzo tornò nella sua forma umana. Harry lo percepì ma non voltò la testa verso di lui. Rimasero seduti in silenzio per un po’, uno vicino all’altro.

“Quello che mi hai detto in garage… Hai iniziato a drogarti perché ti sentivi in colpa per la mia morte?” 

Harry sospirò. “Tra le altre cose, sì”.

“Harry!” Sirius girò la testa verso il figlioccio e lo guardò, cercando qualcosa da dire, qualcosa che potesse rimediare ad anni di… mancanza e senso di colpa.

“È stata colpa mia. Mi sono fatto uccidere come un pivello da Bellatrix”.

“Avresti dovuto dirlo al me di allora”.

Sirius sfregò la mano sul braccio di Harry e allungò le gambe puntando gli occhi sull’orizzonte davanti.

“Almeno hai avuto Ginny con te. E i tuoi amici. Sono contento che almeno ci fossero loro, e che tu sia riuscito a crescere dei figli così splendidi, e a trovare un ottimo lavoro, sono contento di tutto questo perché… Perché non so come rimediare a tutti questi anni in cui sarei dovuto essere con te”.

Harry si voltò verso il padrino scuotendo piano il capo. Posò la mano libera su quella di Sirius che ancora gli accarezzava il braccio e, in qualche modo, sentì di aver ritrovato quel legame che lo legava a lui quando era ragazzino, anche se erano passati vent’anni e ora avevano pochi anni di differenza.

Ginny non aveva assolutamente idea di quanto quella giornata sarebbe stata… piena di emozioni. Il messaggio che aveva scoperto sul telefono di Harry quella mattina non era nulla in confronto.

La sorpresa arrivò invece nel tardo pomeriggio, quando Harry rientrò a casa, stranamente presto, e rimase immobile sulla soglia guardandola con una strana espressione.

“Gin, c’è una cosa che dovresti vedere”.

Il cuore di Ginny iniziò subito a martellare nel petto, in ansia, immaginando i peggiori scenari nella sua testa, anche se il tono del marito non suggeriva nulla di brutto.

Quello che invece le si piazzò davanti… o meglio, chi le comparve davanti agli occhi le fece quasi venire un mancamento.

Un ragazzo alto, snello, coi capelli rossi e un po’ lunghi, il naso lentigginoso… Lo riconobbe subito perché nonostante fossero passati diversi anni lei non lo aveva mai dimenticato, le sue fotografie popolavano ancora la Tana e lui veniva ricordato quasi tutti i Natali, e durante tutte le riunioni di famiglia.

Una sola unica lacrima le scivolò lungo la guancia quando pronunciò piano, quasi sussurrando, quasi spaventata: “Fred”.

“Ehi, sorellina”.

Quello che avvenne dopo… fu una di quelle situazioni che avvengono come in sogno, le stai vivendo ma non ti sembra di essere tu che le vivi, il tuo io si dissocia dal tuo corpo che agisce di istinto.

Ginny si buttò tra le braccia del fratello, ancora più alto di lei, e lo abbracciò forte, stretto, più forte di quanto la madre lo abbia mai abbracciato, e affondò la faccia nell’incavo del suo collo. Ma non pianse. Rimasero così per un po’.

Harry era seduto al tavolo della cucina di casa propria, insieme a Ron e Evanna, una delle Auror più anziane e tra quelle che lavoravano al caso dei “Resuscitati”, come ormai li chiamavano tutti. Era già calata la sera e avevano bisogno di un posto più sicuro in cui parlare di quella situazione.

Ginny era andata alla Tana, dopo che avevano spiegato tutta la situazione a Molly e Arthur e al resto dei Weasley - tranne a Charlie che in quegli ultimi mesi si stava trovando negli Stati Uniti e dovevano trovare un modo adeguato per spiegarglielo che non fosse in una lettera - e tra sorprese, svenimenti, grida di gioia, pianti e tante altre cose, tutti si stavano godendo il ritorno di Fred o comunque cercavano di venire a patti con la cosa, e col fatto che era rimasto ventenne, molto più giovane rispetto ai fratelli. 

Ron era riuscito a rimanere circa mezz’ora, travolto da tutte quelle emozioni d’un colpo che non sapeva gestire e se n’era dovuto andare, preferendo concentrarsi sul lavoro. 

Harry non aveva fatto domande.

“Quindi tutti questi… ritorni, sono collegati con le vostre famiglie”, disse Evanna cercando di mettere il punto alla situazione.

“Così parrebbe, però non possiamo esserne sicuri”, disse Ron. “Insomma, forse è il caso di non escludere che anche altre persone possano ritornare, non per forza legate a noi”.

Harry alzò la testa e puntò lo sguardo sul muro di fronte a sé pensieroso; quello era un punto che aveva tormentato anche lui negli ultimi minuti. Chi altri poteva ritornare, si chiedeva mentre elencava nella propria testa i nomi di chi ricordava aver perso o visto morire. Erano un bel po’. Alcuni brividi gli percorsero la schiena e non erano tutti piacevoli.

“Sì, ma dobbiamo trovare un filo conduttore. Per ora, quelli che sono tornati, sono legati a voi e soprattutto sono morti durante la prima e la seconda guerra magica”, disse Evanna, l’unica tra i due che riusciva ad avere un punto di vista obiettivo e freddo al problema.

“Quindi dobbiamo concentrarci su questo se pensiamo che qualcun altro possa tornare”.

Ron sospirò e si lasciò andare con un colpo pesante contro lo schienale della sedia. “Siamo in un vicolo cieco. Come facciamo a sapere dove torneranno? Come facciamo a rintracciarli?”

“Be’, per ora si è sempre trattato di posti vicino a voi, il Ministero e Diagon Alley”.

Fred era comparso nel mezzo di Diagon Alley ed era stato trovato da un dipendente del Ministero che lo aveva accompagnato al San Mungo vedendolo in stato un po’ confusionale, dove lo aveva preso in cura Ted e, quando questi aveva capito di chi si trattava - o quantomeno quando aveva intuito la situazione - aveva subito chiamato Harry. Per fortuna non era piombato ai Tiri Vispi Weasley o avrebbe provocato un bell’infarto a George.

Ron e Evanna continuarono a parlare ma Harry ascoltò poco. Si riprese solo quando vide i due alzarsi, la riunione evidentemente finita.

“Domani ci aggiorniamo con gli altri Auror. Scusate, ma devo andare a fare la cena al pupo”, disse Evanna afferrando la propria borsa.

In quel momento Sirius scese le scale, proprio quando Evanna aveva conquistato l’ingresso e l’uomo fu catturato immediatamente dalla sua lunga coda di capelli castani legata in alto dietro la nuca. 

“Salutami Adrian”, le disse Ron prima che la donna uscisse. 

“Certo. Buona serata, ragazzi”, disse e sorrise a Sirius prima di varcare la porta.

“Vado anche io, non so se Hermione è a casa stasera”, disse Ron mettendo a posto la sedia.

“Impegnata con le elezioni?”

“Stanno ancora scrivendo il programma. A quanto pare, persino le virgole sono un problema”.

Harry rise e accompagnò Ron alla porta. Una volta che se ne andò anche lui, Harry iniziò a preparare il tavolo per la cena; non si preoccupava di aspettare Ginny, probabilmente non sarebbe tornata se non tardi quella sera.

“James viene a mangiare?” chiese a Lily mentre questa lo aiutava a preparare da mangiare.

La ragazza esitò un attimo prima di dire: “Credo ce l’abbia un po’ con me perché non gli ho detto nulla delle riviste”. Lei aveva deciso di non arrabbiarsi con Harry dopo aver scoperto che li spiava di nascosto; o meglio, dopo la storia che le aveva raccontato, non poteva arrabbiarsi. E, in fondo, anche lei era stata un Auror, sapeva come funzionavano queste cose. 

Harry non disse nulla ma la sua espressione si inarcò provocandogli un paio di rughe tra gli occhi.

“Vuoi che ci parli io?”

“Se vuoi provare, accomodati”.

Harry salì con calma le scale verso il secondo piano e raggiunse la stanza dove dormivano i suoi genitori. La porta era socchiusa e da un piccolo spiraglio si intravedeva la luce accesa.

Harry si accostò alla porta e diede un paio di colpi, tranquilli ma decisi. La scostò piano, incontrando subito gli occhi nocciola di James che aveva girato la testa nella sua direzione, seduto a gambe incrociate sul letto, la schiena appoggiata alla testiera e una rivista aperta davanti. Una di quelle che aveva trovato Lily, riconobbe Harry.

“Posso entrare?” gli chiese, la voce un po’ roca. 

James annuì e richiuse la rivista.

Harry si avvicinò e si sedette sul bordo del letto, di fronte al padre.

“Trovato qualcosa di interessante qui dentro?” gli chiese indicando la rivista.

L’altro scosse le spalle. “Dipende. Quanta verità c’è qui dentro?”

“Non ricordo cosa dicesse questa particolare rivista, ma non hanno pubblicato notizie altamente false. Anche se sono riviste di gossip e sensazionalismo”.

James si lasciò andare in un debole sorriso divertito che Harry ricambiò con uno più dolce e un po’ nervoso.

Si piegò in avanti con la schiena e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, giocherellando con la fede al dito.

“Perché sei arrabbiato con Lily?” gli chiese a bruciapelo, decidendo di andare subito al sodo.

James sospirò. “Te lo ha detto lei?”

“Può darsi”.

“Mi fa arrabbiare che mi abbia tenuto nascosto queste cose quando le ha trovate”.

Harry si voltò a guardare James, pensando a cosa dire. “Credo lo abbia fatto per rispetto nei miei confronti. E a dire il vero, la ringrazio per questo. Non è qualcosa di cui sono felice di parlare e… mi dispiace che voi l’abbiate scoperto in questo modo”.

James sembrò soppesare le parole del figlio, le mani che facevano su e giù lungo le proprie cosce.

“Non ti incolpo per questo, sai? Per la droga intendo. Sono d’accordo con tua… ehm, con Lily. È perfettamente comprensibile perché l’hai fatto. Però insomma, ho già perso gran parte della tua vita e… non voglio che altre cose mi vengano tenute nascoste. Non so se mi spiego, è una sensazione strana”.

Harry si passò una mano tra i capelli e abbassò lo sguardo. Il modo in cui James gli ricordava suo figlio maggiore, nella maniera di parlare, nel tono usato, persino nelle espressioni facciali, gli faceva venire i brividi. A volte era difficile da guardare.

“Ti capisco”, gli disse, lo sguardo fisso sulle venature del legno della testiera. Capiva perfettamente quella sensazione strana, la stessa che provava lui, anche se forse per motivi diversi.

Harry non sarebbe mai riuscito a vedere James e Lily come i suoi genitori. Voleva loro bene, li adorava, era felice di poterli conoscere finalmente - quelle due persone che per tanti anni aveva potuto solo immaginare e eroicizzare nella propria testa perché si erano sacrificati per lui - ma non avrebbero mai avuto quel rapporto tra genitori e figlio che aveva lui con Jim, Al e Lils. C’erano troppi anni di differenza, persino nell’aspetto, e chiunque avrebbe potuto confermarlo.

Non era qualcosa che poteva ignorare.

“Ma… è inutile arrabbiarsi per queste cose. Quello che puoi fare è raccogliere l’informazione e... andare avanti. Non so esattamente che ne sarà di voi ragazzi, ma mi assicurerò che non vi succeda niente e che… Che tutto si sistemi”.

James ci mise un istante a reagire, ma alla fine sorrise e si lasciò andare contro la testiera, rilassato. La rabbia a lui passava sempre velocemente.

“Fammi indovinare, è la tecnica che usi anche coi tuoi figli?” lo prese in giro.

Harry rise. “Può darsi. Ma a loro faccio anche una pernacchia sulla pancia quando sono arrabbiati”. 

“Oh Merlino, quello no, ti prego”.

*** 

Eccolo qua, un capitolo denso di informazioni. Finalmente è venuto fuori il segreto della droga e della dipendenza di Harry. Un bel colpo per Lily, James e Sirius.
Comunque non so mai se sono abbastanza soddisfatta del modo in cui li faccio interagire, quei tre, con Harry; è troppo strano da descrivere un rapporto del genere, con due genitori che hanno la metà dei tuoi anni e che praticamente non hai mai conosciuto.
Ditemi voi cosa ne pensate.

Comunque, qualcuno di voi ha indovinato su Fred. Spero invece che chi sperasse in qualcun altro non sia rimasto troppo deluso; effettivamente, forse avrebbe avuto più senso far tornare Piton o Silente - sono personaggi importanti dopotutto - o magari qualche Mangiamorte, qualche cattivo di turno, ma Fred è uno dei miei personaggi preferiti e la fangirl in me non poteva resistere.
Ma non vi preoccupate che la storia è ancora lunga e ci sarà tempo.... per tutti quanti XD 

Grazie e buona domenica a tutti,

C.

SHALLOW

Quando James, Sirius e Lily scesero dalle loro stanze la mattina dopo, trovarono Harry e il figlio maggiore impegnati nel fare flessioni al centro del salotto, davanti alla tv. Erano uno di fronte all’altro e ci stavano mettendo parecchio impegno. 

Ginny era appoggiata al muro che dava sulla cucina, una tazza di caffè in mano e un sorrisetto divertito sulle labbra. 

Albus e Lily li osservavano seduti sul divano. 

“65, 66, 67… papà, sei un pappamolla”, disse Jim tra un piegamento e l’altro.

“Stai zitto e non farmi sprecar fiato”.

Sirius lanciò un’occhiata perplessa verso Ginny che scrollò semplicemente le spalle.

“Ogni tanto succede anche questo”.

Harry riuscì a fare qualche altra flessione, i muscoli delle braccia che tremavano, le vene marcate, e le scapole che si piegavano all’indietro sulla schiena scoperta dove svettava il tatuaggio del drago, ma alla fine crollò sul tappeto con un sospiro.

“Questo significa che ti arrendi?” gli chiese Jim continuando a fare flessioni, apparentemente senza essere nemmeno un po’ stanco.

“Sì sì, mi arrendo. Dammi tregua almeno oggi”, rispose il padre, girandosi sulla schiena e chiudendo gli occhi per recuperare fiato.

“Sei proprio invecchiato, eh”, lo prese in giro il figlio, mettendosi seduto a gambe incrociate e osservando l’altro che intanto era più o meno tornato in sé. 

“Ehi! Abbi rispetto per tuo padre. Te li ho cambiati io i pannolini quando ti cagavi addosso”. 

Jim rise e la sua forte voce invase tutta la stanza. “Gli 

 ti fanno proprio male”.

“Potevi farmi vincere almeno come regalo di compleanno”. 

“Certo! Come no!” 

Jim si alzò con uno scatto e andò verso la porta. 

James, Lily e Sirius avevano strabuzzato gli occhi a quel punto; possibile che fosse il compleanno di Harry? Era il 31 luglio e non se ne erano nemmeno accorti. O meglio, non ci avevano proprio pensato.

“Aspetta! Harry!! Oh Merlino! È il tuo compleanno!” esclamò Sirius guardando il figlioccio che nel frattempo si era rimesso in piedi. 

“Sì, ma non ricordarmelo. Non voglio ricordarmi di aver compiuto 40 anni”. 

“Oh, ma se ne dimostri comunque 10 in meno”, gli disse Ginny allungandogli la maglietta che si era tolto durante la sfida col figlio. 

“Ho trovato un capello bianco prima”, le rispose il marito.

Gli occhi di Lily corsero subito sulla sua zazzera spettinata che non poteva essere più scura di quanto già non fosse. “Be’, buon compleanno”. 

Gli disse con un debole sorriso, sentendosi morire dentro. 

“Grazie, ragazzi, e tenetevi liberi stasera”, disse Harry correndo verso le scale. 

Non era che avessero molto da fare, dopotutto. 

Jim lesse il messaggio che Veronica gli aveva mandato e uscì di casa verso il cancello. Vide la ragazza ferma a metà via. Le sorrise subito. Dopo la storia di Shannen e sua madre - e in generale per la loro privacy - suo padre aveva innalzato barriere potenti attorno alla casa e nessuno li poteva trovare se non veniva invitato da qualcuno che sapeva dove fosse, ovvero solo la famiglia e le persone di cui si fidavano.

Gli dispiacque che Veronica avesse dovuto girare a vuoto perché non riusciva a trovare la casa, ma quella era una questione sulla quale suo padre non avrebbe mai cambiato idea.

“Ehi! Scusami, le protezioni di mio padre…”.

“Figurati. Eccoti la felpa”.

“Grazie”.
James Sirius non si era nemmeno accorto di aver lasciato la felpa a casa di Veronica quella mattina.
“Di niente. Te l’ho pulita”.
Le loro mani si sfiorarono quando Veronica gli allungò la felpa e lui la presa. Jim le sorrise. Aveva le lentiggini Veronica, non se ne era accorto prima. Strano, su una persona col volto così pallido.
“Spero di non… averti messa nei guai con tua madre”.
Lei scosse il capo. “Non si è accorta di nulla”. Non gli disse che sua madre aveva trovato la felpa e l’aveva sgridata perché aveva osato portare a casa un ragazzo. Un Potter, oltretutto. Il nome scritto a caratteri cubitali sulla schiena rendeva difficile nascondere la cosa.
Veronica le aveva detto che gliel’aveva prestata perché aveva avuto freddo mentre la ri-accompagnava a casa. Ma nemmeno quella scusa era stata una buona idea. La madre le aveva fatto promettere che non sarebbe più uscita, altrimenti non l’avrebbe rimandata a Hogwarts. Sua madre odiava Hogwarts. Odiava la magia. Odiava più o meno tutto.
A volte Veronica aveva l’impressione che odiasse persino lei. Non capiva perché.
“E tu? Non sei finito nei guai per essere tornato a casa il giorno dopo?”
Jim scosse il capo. “No, tranquilla”. Non le disse che era in punizione.
“Scusa, ti inviterei in casa ma c’è un po’ di casino. Oggi è il compleanno di mio padre”.
“Non ti preoccupare. E poi, devo tornare ad aiutare mia madre con il negozio”.
“Okay”.
“Okay”. 

Rimasero in silenzio per qualche istante, come se nessuno dei due sapesse che dire. Perché si sentiva così a disagio con quella ragazza, si chiedeva James. Forse erano i suoi occhi così intensi… Non avrebbe saputo dire perché, ma di solito sapeva essere spigliato con le ragazze.

“Vieni alla festa di Ferragosto in spiaggia?” le chiese alla fine, in mancanza di altro da dire.

Veronica abbassò lo sguardo. “Non saprei”.

“Dai vieni, ci sarà gente e ci divertiremo”.

Lei gli sorrise. “D’accordo, ci penso”.

“Perfetto”.

Si salutarono così, Jim con la sua felpa in mano mentre guardava Veronica allontanarsi, la sua figura elegante che si ergeva nel sole alto del mattino. “Ti scrivo!” Le urlò lui.
“Va bene!” ricambiò lei girandosi e continuando a camminare all’indietro, i capelli corti leggermente mossi dal vento, la frangetta a nasconderle gli occhi.
Era bella, pensò James, bella in maniera diversa dalle altre ragazze.

James e Lily erano tornati nella loro stanza, Sirius che aveva preso dimora del letto della coppia come fosse il suo. Sembrava essere tornati ai vecchi tempi, quando James e Lily si erano appena sposati e Felpato aveva ancora l’abitudine di piombargli in casa senza avvisare e usare il loro letto e mangiare il loro cibo senza troppe cerimonie. Era come avere un figlio adottivo. 

Solo che ora erano passati 40 anni, loro non erano una coppia di novelli sposi e Sirius non era il loro figlio adottivo. 

Anzi, il loro vero figlio aveva appena compiuto gli anni e loro non ci avevano neppure pensato. 

C’erano così tante cose con cui venire a patti che quello era un dettaglio che poteva sfuggire, no? Certo, ma nessuno dei tre la pensava esattamente così.

“Forse potremmo fargli un regalo”, disse James rovistando nella scatola in cui tenevano i vestiti che erano stati loro regalati. Voleva trovare una maglietta neutra, senza scritte di gruppi musicali o serie TV che non conosceva.

“Cosa gli piacerebbe?” 

“Possiamo  chiedere a Jim o Al qualche idea”, suggerì Sirius.

“Anche se sapessimo cosa regalargli, non abbiamo i soldi per comprarlo”, fece notare Lily e i due uomini abbassarono lo sguardo mogi. 

Non avevano il becco di un quattrino, non avevano nulla che fosse loro, nemmeno i vestiti. Era tutto… un casino. Si trovavano sempre più spesso a pensare che - se fossero rimasti in quel mondo a vivere quella vita - prima o poi quel problema avrebbero dovuto risolverlo. Insomma, non potevano restare nascosti per sempre in casa di Harry e Ginny. Non era giusto nemmeno verso di loro. 

Lily si appuntò di chiedere a Harry che fine avesse fatto la loro casa di Godric’s Hollow. A Harry non sarebbero di certo mancati i regali, quindi era inutile che si preoccupasse del fatto che non avrebbe regalato nulla a suo figlio. Sapeva già che i suoi figli gli avevano fatto qualcosa - li aveva visti confabulare nella stanza di Al poco prima - e a giudicare dalla quantità di gufi che si stavano ancora aggirando attorno alla casa portando lettere e pacchetti, ci avevano pensato persino i suoi fan e le sue ammiratrici. Anche il telegiornale dei maghi aveva dato notizia del compleanno del Salvatore del Mondo Magico. Era strano che non fosse diventato una festa nazionale. Forse ci aveva pensato Harry stesso a impedirlo. E se Lily non ricordava male, con tutti i fratelli che aveva Ginny, avrebbe sicuramente ricevuto qualcosa anche dai Weasley.

“Be’, potremmo sempre provare a incantare qualcosa”, buttò lì James casualmente. Lily si girò verso di lui con gli occhi luminosi.

Il motivo per cui si dovettero tenere liberi quella sera, Sirius, James e Lily lo scoprirono abbastanza presto; a quanto pareva Harry era solito festeggiare il suo compleanno in un locale in stile 

 con poster di vecchi divi del cinema e della musica - come Marylin Monroe, Ingrid Bergman, James Dean, Elvis Presley e altri - e l’arredamento vintage; persino un Jukebox faceva la sua bella figura in un angolo.
Lily ne rimase abbastanza affascinata, l’atmosfera la riportava agli anni in cui era giovane lei, o meglio, agli anni in cui aveva vissuto, e le venne da ridere a vedere le espressioni perplesse di Sirius e James che non avevano idea di chi fossero le persone dei poster o di cosa fosse un Jukebox. La cosa che però la lasciò sbigottita di più però fu il fatto che il locale fosse un locale magico e in pieno territorio magico, in cui lavoravano elfi domestici e camerieri che facevano levitare i vassoi con le ordinazioni.
“Il proprietario ha sposato una Babbana”, le disse Harry a mo’ di spiegazione e Lily semplicemente si accontentò. 

Alcuni goblin sedevano al bancone quando loro entrarono. Un giovane con un grembiule rosso li accolse subito e li accompagnò al loro tavolo, decorato a scacchi bianchi e neri, con sedie rosse.
Erano ormai abituati a ricevere almeno una volta all’anno - il 31 Luglio di solito, ma non sempre - il Salvatore del Mondo Magico e i suoi invitati ed era quello che dava lustro al loro locale che forse ci guadagnava parecchio dalla cosa. Bastava dire che Harry Potter era stato lì e la gente si precipitava in massa. Per fortuna avevano la decenza di non dire nulla su quando sarebbe venuto, ma forse perché Harry aveva fatto amicizia col proprietario un po’ di tempo prima e questi ci teneva di più all’amicizia che non ad attirare un’accozzaglia di ammiratori a caso. 

C’era poca gente, forse perché era ancora presto ed era un giorno infrasettimanale. James si guardò un po’ attorno prima di sedersi, notando subito la spaziosità del locale, le luci soffuse e un palco proprio davanti al loro tavolo. Prima di partire Harry li aveva rassicurati che era improbabile che qualcuno li avrebbe riconosciuti - chi mai sarebbe saltato alla conclusione che cinque persone presenti a quel tavolo potessero essere resuscitate -. E poi, finalmente avevano occasione di uscire ed esplorare un po’ quel nuovo mondo, non se ne sarebbero lamentati. 

James si sedette tra Remus e Lily e adocchiò subito Jim e Rose che battibeccavano per qualcosa - qualcosa gli disse che era il loro standard - Al che alzava gli occhi al cielo accanto a loro, serio come sempre, e Harry, Hermione e Ron presi da una qualche conversazione dalla parte opposta. Ginny fece sedere la piccola Lily accanto a sé. All’appello mancavano altri membri della famiglia Weasley - che avevano preferito restare a casa per Fred - ma anche così la tavolata era già piena.
“Che fine hanno fatto Ted e Vicky?” chiese James a bassa voce verso la moglie.
“Non lo so, sono spariti appena siamo entrati”, gli rispose lei. 

Non fecero in tempo ad aggiungere altro, però, che una corpulente strega di mezz’età, dal trucco piuttosto marcato e i capelli cotonati - più probabilmente una parrucca - attirò l’attenzione di tutti i commensali parlando dal palco.
“Buonasera, signore e signori, maghi, streghe… folletti ed elfi”, disse. “Vorrei che tutti vi giraste in questa direzione per dare il benvenuto, o meglio, il bentornato a un paio di ragazzi che per diverso tempo hanno deliziato le vostre cene con la loro bravura musicale. Non li abbiamo visti per un po’, sapete com’è con queste super-star, sono sempre così impegnate, però questa sera hanno deciso di tornare, ecco”.
James notò che sia Harry che Ginny stavano sorridendo trepidanti, come se sapessero già chi doveva apparire sul palco, così come gli altri; persino qualche commensale del locale aveva abbandonato il proprio cibo per fissare il palco. 
“Ma tu sai di chi sta parlando?” chiese Potter a Remus seduto accanto a lui.
Questi scosse il capo. Intanto le sedie di Teddy e Vicky erano ancora vuote.
“Quindi, facciamo un applauso a Teddy e Vicky!” urlò infine la presentatrice.
James ci mise un po’ a capire che si trattava dei loro Teddy e Vicky, almeno finché non li vide apparire sul palco.
Il locale si spalancò in un enorme applauso, e non era un applauso di circostanza. Sembrava quasi che tutti non vedessero l’ora di vedere la loro performance.
“Grazie, Dorothy!” disse Vicky gentile, parlando dal microfono che era comparso magicamente al centro del palco e guardando la presentatrice che si era spostata verso le quinte. Poi la ragazza spostò i suoi grandi occhi castani sul pubblico e ormai tutti sembravano catturati dal suo sguardo. “Io e Teddy non siamo soliti cantare le canzoni che componiamo in pubblico, però… oggi è il compleanno di una persona speciale per noi quindi abbiamo deciso di fare un’eccezione”.
Sorrise in direzione di Harry dal palco e lui ricambiò con un sorriso dolce.
“Quindi speriamo che questa canzone vi piaccia”.
Teddy si sedette sullo sgabello davanti ad un altro microfono, e imbracciò la chitarra che aveva portato con sé nel momento dell’ingresso sul palco. Vicky si girò verso di lui. “Sei pronto?” gli chiese.
Il ragazzo annuì. Tutta l’attenzione era rivolta a loro.
Teddy cominciò pizzicando le prime corde con la punta delle dita e subito una melodia dolce si propagò nella sala; la chitarra era stata amplificata con la magia, altrimenti non c’era verso che una chitarra acustica producesse questo tipo di suono.
Poco dopo attaccò col primo verso della canzone.
“

C’era qualcosa di potente nella sua voce, qualcosa di… indescrivibile. E non si poteva ignorarlo, non era una di quelle voci che passavano inosservate in un ristorante.
Anche i prossimi versi furono di Vicky e poi la sua voce si unì a quella di Teddy e il pubblico, se possibile, si incantò ancora di più, erano tutti concentrati sulle parole. Le loro voci insieme erano perfette, come fossero fatte apposta per cantare insieme; quella di Ted non sovrastava mai quella di Victoire, e quella di Victoire riusciva a raggiungere profondità tonali che non ci si aspettava da lei. 

In the sha-ha, sha-la-low / In the sha-sha-la-la-la-low / In the sha-ha, sha-ha-ha-low / We're far from the shallow now”.
La canzone non durò a lungo e il finale non era uno di quelli scontati, che abbassano il volume della musica o della voce per far capire che erano terminate. Si interruppe di colpo e i due ragazzi si guardarono emozionati quando finirono, quando il pubblico applaudì forte, quando qualcuno si alzò e urlò che voleva il bis. Jim fischiò in approvazione e persino Rose - che appariva sempre così indifferente a ogni cosa - pareva estasiata.
Non c’erano dubbi che la canzone era piaciuta a tutti.
“WoW! Che performance!” urlò la presentatrice, ritornata sul palco, mentre Teddy e Vicky sparivano dietro le quinte e il pubblico ancora non aveva smesso di applaudire. “Loro due non deludono mai”.
“Però, sono bravi”, commentò Lily.
“Sì, cantano insieme da quando sono piccoli”.
“Davvero?”
Ogni commento si interruppe quando videro Ted e Vicky venire verso il loro tavolo; qualcuno lungo il tragitto li fermò per far loro i complimenti.
“Allora, zio, ti è piaciuta la canzone?” chiese la ragazza, accucciandosi vicino a Harry e stampandogli un bacio sulla guancia.
“È bellissima, ragazzi”. 
“Sì, davvero magnifica”.
Vicky sembrava essere quella più contenta ed emozionata per quelle lusinghe - anche se ci era ormai avvezza considerando tutto il tempo trascorso a cantare davanti a qualche pubblico, che fossero parenti o sconosciuti - mentre Teddy si sedette al suo posto, di fronte a Jim e accanto alla madre.
“Dimmi solo una cosa”, fece Sirius guardando verso Vicky. “Non hai incantato la voce, vero?” “Oh, no. Quello si chiama imbrogliare. Che gusto ci sarebbe a cantare poi?”
Sapevano tutti che Victoire frequentava una scuola di arti sceniche dove studiava canto, danza e recitazione, non c’era da stupirsi quindi che sapesse cantare; e le sue discendenze di Veela si aggiungevano al tutto - oltre alla bellezza, le regalava anche questa qualità.
Ma Teddy? Nessuno si aspettava che qualcuno che avesse scelto la professione del medico, con un QI così alto, sapesse cantare altrettanto bene, e suonare uno strumento. Ma il ragazzo non sembrava in vena di spiegazioni, rifugiatosi dietro il menù. 

La festa non poté proseguire meglio; in quel ristorante si mangiava bene, si beveva tanto e l’atmosfera era piacevole. Alla fine qualche fan si avvicinò ad Harry per chiedergli una foto o un autografo, spesso e volentieri donne o bambini che mandavano i propri figli piccoli. Harry aveva bevuto abbastanza birra da essere allegro e avere voglia di chiacchierare. E un paio di fan del quidditch riconobbero pure Ginny.
Altri performer si esibirono sul palco, ma nessuno attirò l’attenzione quanto Ted e Vicky; doveva essere poco incoraggiante salire sul palco dopo di loro.
Remus si stava lavando le mani nel bagno del locale quando James uscì da una delle cabine.
“Ehi, Moony”, lo salutò l’amico. “Tuo figlio ha una voce pazzesca. Non sapevo sapesse cantare”.
“Nemmeno io”, fece l’altro in tono strano. Non si voltò nemmeno a guardarlo.
James aprì il rubinetto lanciando un’occhiata a Remus e notando subito la sua espressione un po’ mesta. Alcuni ciuffi dei capelli chiari gli cadevano sulla fronte. Sembrava tormentato.
“Ehi”, lo chiamò allora piano richiudendo l’acqua. Remus nel frattempo si era già asciugato le mani, ma si fermò quando notò che James lo osservava.

“Andrà bene. Avrai tempo per conoscerlo. Per sapere tutto di Ted”. 

Remus inarcò le sopracciglia con sorpresa, ma per James non era strano capire quel sentimento perché era quello che provava anche lui, verso Harry, lo sconforto del non sapere nulla del proprio figlio. 

E tutte le cose che aveva scoperto fino ad ora non erano positive. 

“Almeno tuo figlio ha poco più di vent’anni e non ne ha il doppio di te. E non ha nemmeno avuto un passato da tossicodipendente”. 

Remus abbasso lo sguardo sulle proprie mani questa volta sentendosi un po’ colpevole. Quando James e Lily gli avevano raccontato dei problemi di droga di Harry ci era rimasto; non se lo era aspettato affatto e non aveva idea di quanto avesse sofferto da giovane. 

“Mi dispiace, James”, disse perché gli sembrava l’unica cosa sensata da dire.

“E di cosa? Non è colpa tua di certo, anzi…”. James interruppe il discorso fissando un punto sul pavimento sporco, come a cercare le parole giuste. “Continuo a pensare a Peter”.

“Peter?” 

“Sì. Se lui non ci avesse traditi… Be’, non avremmo perso quarant’anni della nostra vita, io e Lily, e Sirius non sarebbe finito ad Azkaban”. Era vero, non aveva potuto evitare di pensarci. Non sapeva che fine avesse fatto Pete. Sperava fosse a marcire ad Azkaban ma non era sicuro di volerlo chiedere a Harry.

Remus sospirò e posò le mani sui fianchi, riflessivo.

“Le cose sarebbero andate in maniera diversa. Ma chi lo avrebbe mai detto che il piccolo Pete fosse un Mangiamorte. Un traditore per giunta”.

“Già”.

Ci aveva riflettuto spesso anche Remus, dopo averlo scoperto, che cosa avesse potuto portare Codaliscia a tradirli in quel modo e a scegliere il lato oscuro. Forse qualcosa nel loro atteggiamento, nel modo in cui a volte lo avevano trattato con condiscendenza a Hogwarts? Ma no, non era abbastanza. Non era una motivazione sufficiente per fare quella scelta.

“Ehi!”. La voce forte di Sirius li fece quasi sobbalzare. “Che sono quei musi lunghi? Dai, tornate di lá che qua c’è puzza di morto”. 

Felpato aprì con un colpo la porta di una delle cabine e pochi istanti dopo si sentì il suono della pipì che cadeva nel water. 

“E comunque quella Vicky è qualcosa di fenomenale. Meglio che Teddy se la tenga stretta o qualcuno gliela potrebbe rubare”, urlò da dietro porta chiusa. 

James ridacchiò e alzò lo sguardo su Remus che aveva un sorriso divertito stampato in volto anche lui; forse almeno qualcuno che aveva recuperato un minimo di sé stesso c’era. Sirius era un raggio di sole in una settimana di maltempo.

“Tieni le tue luride zampe lontano da quella ragazza o te le spacco”, lo minacciò scherzosamente James prima di uscire, seguito da Remus.

Verso mezzanotte decisero che era il momento di levare le tende, ormai non era rimasto nessuno nel locale. 

Harry lanciò le chiavi della macchina a Ginny - non era abbastanza sobrio per guidare - e salutò tutti. Teddy salì sulla sua Impala insieme a Vicky e ai tre Potter che doveva accompagnare a casa perché non ci stavano tutti sulla Mercedes di Harry. Remus e Tonks si smaterializzarono, così come Hermione e Ron coi loro figli. 

“Mi raccomando, trattala bene”, mormorò Harry prima di crollare sul sedile del passeggero.

“Voi uomini e le vostre auto”, sbuffò Ginny mettendo in moto e seguendo la coda dell’auto di Teddy che stava girando verso l’uscita del parcheggio.

Una volta a casa, nessuno ci mise molto a prepararsi per andare a dormire. Harry stava percorrendo il corridoio del primo piano pigramente quando Lily lo richiamò dalla soglia della stanza che condivideva con James.

“Fermati un attimo. Dobbiamo darti una cosa”.

Harry si avvicinò e guardò prima la madre e poi il padre con occhi stanchi. James gli allungò una piccola scatola scura, sul volto un’espressione quasi tesa. 

Harry la prese e la guardò per qualche istante prima di aprirla, piano, come fosse una creatura che non andava agitata. 

“È da parte nostra e di a Sirius”, disse James. “Lo abbiamo trasfigurato stamattina. L’incantesimo dovrebbe durare. Speriamo che ti piaccia perché ecco…”. Si passò nervosamente una mano tra i capelli. “Non avevamo molte risorse ma ci tenevamo a farti un regalo di compleanno”. 

Harry guardò l’oggetto come fosse la cosa più preziosa del mondo, ma quando alzò gli occhi sui genitori erano umidi. Non stava piangendo, ma si stava sforzando enormemente per non farlo.

“Ragazzi”, disse poi, la voce bassa. “Non dovevate. Il fatto che voi siate qui è il regalo più bello per me”.

I due gli sorrisero un po’ imbarazzati.

“Comunque questo è bellissimo. Grazie”.

Allargò le braccia quasi spontaneamente e Lily vi si fiondò subito, stringendosi contro il suo petto. Ogni volta che abbracciava il figlio le sembrava di sbattere contro qualcosa di marmoreo e se lui riusciva quasi ad avvolgerla tutta, lei faceva fatica a unire le mani dietro la schiena. Poteva sentire il suo cuore battere sotto la maglietta leggera.

Era stata una giornata perfetta 

***

Probabilmente starete pensando che l’autrice si è un po’ rincitrullita perché non ha detto qual è il regalo che James, Lily e Sirius hanno fatto ad Harry. Hehehe, in realtà l’ho fatto apposta. Non so se lo rivelerò, forse in qualche capitolo futuro o forse… mai ^^
Vi lascio nel dubbio e nelle ipotesi.
Questo capitolo mi frulla da un po’ in testa comunque, Harry e James che fanno le flessioni e la canzone che cantano Ted e Vicky (ve l’ho detto che questa storia avrebbe avuto tanta musica); per chi non la conoscesse, la canzone è Shallow, di Lady Gaga e Bradley Cooper dal film A Star Is Born. Ve la ho linkata perché merita davvero più di un ascolto. 

La cosa che mi fa ridere è che questa storia è ambientata in estate ma ho riletto il capitolo ascoltando canzoni di Natale XD
Vabbe’, detto questo, vi auguro buona domenica e aspetto i vostri commenti.

Un bacio,

C.

In questo capitolo non succede molto, ma chi mi ha chiesto di vedere qualche scene tra i Malandrini e i Weasley - Fred compreso - potrebbe venire soddisfatto.
E’ un capitolo disseminato di gag abbastanza inutili, ma la vostra autrice ha il cervello abbastanza in pappa quindi perdonatela per la demenzialità di questo capitolo XD (avviso anche che ci sono un po’ di riferimenti sessuali, nel caso qualcuno si imbarazzi facilmente). 

Buona lettura

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CAPITANO DI QUIDDITCH E ALTRE COSE

La mattina del primo agosto arrivarono le tanto attese lettere da Hogwarts; a essere onesti, l’unico che in realtà non le attendeva con chissà quanta impazienza era James Sirius. Non ci teneva particolarmente a sapere i voti dei suoi G.U.F.O. ed eventualmente vedersi rovinato il resto dell’estate. Invece, a dispetto di tutti i pronostici, persino dei suoi, gli esami gli erano andati meglio del previsto. Ma persino lui doveva ammettere che probabilmente lo aveva salvato la parte pratica di tutte le materie, non era certo uno che amasse trascorrere ore sui libri a leggere fermo e rinchiuso in una stanza. Non c’era dubbio che preferisse l’aria aperta e tutte le attività che poteva fare in spazi aperti, anche d’inverno.
Aveva ottenuto un’A persino in Storia della Magia, non bocciato come aveva pensato, ma non c’era modo che riprendesse quella materia il prossimo anno. Piuttosto, avrebbe continuato con Cura delle creature magiche, Hagrid che gli stava simpatico. Le sue materie forti, comunque, erano sicuramente Trasfigurazione e Difesa contro le arti oscure.
“Be’, direi che dovremo fare un salto a Diagon Alley al più presto”, disse Harry osservando le liste dei nuovi libri dei suoi figli. In quegli ultimi, Hogwarts aveva preso l’abitudine di cambiare i libri di anno in anno - non tutti, certo, ma nemmeno pochi - e quindi non c’era la possibilità che i fratelli maggiori potessero passare i loro vecchi libri ai fratelli; Ron aveva scherzato su una cospirazione da parte delle librerie che volevano stampare libri scolastici diversi ogni anno solo per guadagnarci - e se uno ci faceva caso poteva notare che il contenuto non cambiava affatto, soltanto la grafica e le immagini, quindi il discorso poteva avere un certo senso - ma di certo non aiutava le famiglie meno abbienti. Harry non osava pensare come avrebbero fatto i Weasley se fossero vissuti in un’epoca così, senza potersi passare i libri di mano in mano.
Lily aveva sicuramente bisogno di una divisa nuova, era in quell’età in cui le cose il giorno dopo già le stavano strette, ma nemmeno James scherzava, anche se più che in altezza, metteva su i muscoli. Albus era l’unico che non aveva bisogno di cambiare vestiti così spesso, non era cresciuto particolarmente.
Jim notò che c’era qualcos’altro nella sua busta, un oggetto piccolo e rotondo, e la capovolse, ritrovandosi in mano una spilla con scritto “capitano” e i sgargianti colori rosso-oro tipici della sua Casa.
“Oh no!” esclamò Albus, alzando gli occhi al cielo dopo aver capito di cosa si trattava.
Tutti i presenti rivolsero l’attenzione al maggiore dei fratelli Potter che esibiva due occhi enormi come quelli di un bambino di fronte a un negozio di dolci; immediatamente si aprì in un enorme sorriso raggiante.
“Oh!” fu la sua unica esclamazione. Stava ancora fissando la spilla del Capitano della squadra di quidditch come fosse un oggetto raro.
“Adesso non la smetterà più di vantarsene”, disse Albus.
“Taci tu! Sei solo geloso”, lo rimbeccò Jim senza rivolgergli veramente l’attenzione.
“Certo, come no!” disse il fratello buttandosi sul divano e iniziando a fare zapping alla tv con fare disinteressato.
“Be’, complimenti, Capitano!” gli disse Harry con un sorriso.
Jim alzò lo sguardo sul padre, ora orgoglioso e fiero. Ma sembrava essere ancora a corto di parole.
“Direi che questa famiglia sta collezionando un bel numero di capitani di quidditch”, aggiunse Ginny.
“Che bravo! Segue le orme di suo nonno”, disse James senior in finto tono commesso.
“Di suo padre, vorrai dire!” lo corresse Harry ridacchiando.
“O di sua madre”, si aggiunse Ginny.

“Siete seri, ragazzi?” domandò Teddy in tono serio, guardando tutti i presenti da sopra gli occhiali rettangolari che stava indossando in quel momento e che gli regalavano un aspetto persino più attraente… intellettualmente attraente. Per tutto quel tempo era rimasto a scrivere qualcosa al computer, digitando i pulsanti della tastiera in maniera quasi frenetica. Nessuno aveva idea di cosa stesse facendo, se non che vedevano immagini di organi scoperti e corpi aperti su dei tavoli. Nessuno, d’altronde, aveva il coraggio di interessarsi veramente al funzionamento degli studi di Teddy.
“Okay, forse è meglio che io torni al lavoro”, concluse Ginny dirigendosi verso le scale e al suo studio.
Ma la cucina rimase affollata comunque; quell’estate sembrava che casa Potter fosse diventata un sito di incontro e di condivisione.
“Papà, mi compri la scopa nuova?” chiese Jim.
“Perché? Quella che hai non va bene?” fece Harry alzandosi dalla sua sedia.
“Sì, ma… è vecchia. Quella nuova va più veloce”. 

“Ricordati, anche la scopa più vecchia e lenta può essere un’ottima scopa se usata da un mago preparato”.
Jim inarcò le sopracciglia. “E questo che cosa dovrebbe dire?”
Sirius rise, seguendo con lo sguardo Harry che saliva le scale. 

In cucina rimasero lui, Ted con Vicky seduta accanto a lui e un piede appoggiato sulla sua sedia, Lily, Albus e Lily buttati sui divani, e i due James che stavano giocando a scacchi. Si era aggiunto anche Remus abbandonando Tonks con la madre che l’aveva costretta ad accompagnarla a fare compere, rigorosamente per negozi babbani. Remus non se l’era sentita di andare, anche se lo avevano invitato; aveva come la sensazione che quello dovesse essere un momento madre e figlia.

“Se muovi quella torre ti fa scacco matto”, disse Teddy in tono quasi scocciato e senza nemmeno guardare verso la scacchiera; i suoi occhi rimasero puntati sul computer. 

Jim lasciò perdere la torre e voltò lentamente la testa verso l’altro, inarcando le sopracciglia. 

“Ma se non stai nemmeno guardando la partita”. 

“Non mi serve guardare per sapere che sei pessimo a scacchi e intuire tutte le tue mosse”. 

“E questo che dovrebbe dire? Perché siete tutti così criptici oggi?” si lamentò il ragazzo. 

“Vuol dire solo che sei prevedibile, Jim”, disse Vicky, anche lei senza guardare il ragazzo. Per tutto quel tempo era rimasta a scorrere qualcosa sul telefono. “Ted, quanto è il 20% di 45,60?”

Teddy assunse un’espressione pensierosa per qualche istante poi disse: “Trentasei e quarantotto”. 

“E 30% di 57,89?”

“Quaranta e cinquantadue”. 

Vicky sospirò alzandosi: “Direi che questo sito aspetterà la paghetta del mio compleanno”. 

“Cioè, sei in grado di fare calcoli complicati così, a mente?” fece Sirius, il tono genuinamente sorpreso. 

Quello sembrò finalmente distrarre Teddy dal suo computer. “Non sono così complicati”. 

“Lo sono eccome. Sei solo tu che non vuoi ammettere di essere un genio”, gli disse Jim, decidendosi finalmente a fare la sua mossa, ma spostando stavolta l’alfiere. 

James allora si mangiò il suo cavallo. 

Teddy per tutta risposta scrollò le spalle. Lui non si sentiva un genio, non nel vero senso della parola. Sapeva di avere un QI più alto, ma perché lo avevano detto i test che gli avevano fatto fare. Semplicemente, incanalava informazioni e riusciva a ricordare facilmente le cose che leggeva e studiava. Non è che si sforzasse apposta a essere più degli altri. 

“Davvero, Remmie, tuo figlio è un mostro!” 

Remus sorrise dolcemente in direzione del figlio che ricambiò, afferrando un pezzo di carta che aveva sul tavolo e mettendosi a scrivere qualcosa con una scrittura minuta. Remus non era ancora del tutto sicuro di come comportarsi col figlio, condivideva con James e Lily quelle stesse insicurezze e i disagi che sentivano loro con Harry. Era, senza ombra di dubbio, orgoglioso di lui e felice che fosse così intelligente, che nello studio non avesse difficoltà e - da bravo padre che desidera sempre che il proprio figlio scelga una professione alta - che facesse medicina. Insomma, in generale era felice come una pasqua che Teddy avesse potuto avere più opportunità di lui. Ma comunque, c’erano tanti anni di vuoto e di assenza che non poteva ignorare. A Tonks veniva più naturale. E lui preferiva stare zitto che parlare a sproposito. 

“Si può sapere cosa stai facendo da tutta la mattina?” gli chiese Vicky alzandosi e stiracchiandosi sul posto. “E quella sarà probabilmente la quinta tazza di caffè che bevi oggi”, aggiunse, indicando la tazza di caffè ormai vuota vicino al suo computer.

“Ehm… una ricerca. Per un progetto che ho in mente”.

“Di lavoro?”

“Una specie, sì”. 

“D’accordo, io vado in palestra a fare un po’ di pratica. Mi trovo con Michael”. 

“Se mi aspetti un attimo ti accompagno”. 

“Non serve. Devo passare da casa a prendere la roba”. 

Vicky raccolse la propria borsa e si diresse verso il camino. “Ciao, ragazzi”. Salutò tutti prima di sparire attraverso il camino. 

“Che tipo di progetto è?” chiese Lily guardando verso Ted. 

Il ragazzo si spettinò i capelli come se stesse cercando le parole esatte con cui spiegarlo, e forse era così. “Diciamo che è qualcosa che potrebbe… essere una scoperta importante nella medimagia. Ma ancora non sono sicuro. Devo fare un po’ di esperimenti”. 

Il ragazzo ripose gli occhiali nella custodia e abbassò lo schermo del computer. “Devo andare in laboratorio. Ci vediamo più tardi magari”, disse prendendo le chiavi della macchina e riponendo le sue cose in borsa con un colpo di bacchetta. 

“Ehi, Ted!” lo richiamò Jim prima che il ragazzo avesse il tempo di muoversi. “Sai qual è la manovra automobilistica di un lupo mannaro?”

Ted inspirò ed espirò lentamente, preparandosi a una battuta pessima tipica di James Sirius. 

“Non lo so, sentiamo”. 

Jim si aprì in un sorriso sghembo poi rispose con tono solenne: “L’inversione a UUUU”. 

La cucina piombò in un silenzio tombale per qualche istante, prima che la risata sguaiata di Sirius attraversasse le pareti, seguita da quella di James senior che quasi cadde dalla sedia. 

Teddy sbatté le palpebre un paio di volte di fronte al volto di Jim che lo fissava con occhi canzonatori, poi si aprì in una risata anche lui. “Okay, questa te la concedo, Jim. Era bella”. 

“Prongy, perché a noi non è mai venuta in mente una battuta del genere?” chiese Sirius faticando a tornare serio. 

“Paddy, tu nemmeno sapevi cos’era un’auto”, gli rispose Remus. “Però avevate una raccolta di battute davvero fantasiose sui lupi mannari che di questa potevo anche farne a meno”. 

“Siete davvero pessimi, ragazzi”, commentò Lily allontanandosi dagli altri, come a voler prendere le distanze fisicamente oltre che a parole da tutto quello. 

“Sì, concordo”, si udì la voce di Albus dal divano. 

“Oh, Al, sei ancora qui. Non me ne ero accorto”, fece Jim. 

La testa del fratello spuntò dal divano e il ragazzo guardò il maggiore con un’occhiata torva. “Dovrei ridere?”

“Be’, ogni tanto potresti. Se stai sempre così corrucciato ti vengono le rughe prima del tempo”. 

“Tu invece potresti morire prima del tempo, seppellito dal tuo ego”.

Era divertente vedere Jim e Al battibeccare, a Lily ricordavano lei e James quando erano più giovani e ai tempi di Hogwarts non facevano altro che scontrarsi verbalmente, nessuno dei due desideroso di lasciare l’ultima parola all’altro. Ma allo stesso tempo, le loro espressioni serie, specialmente quella di Al - e su questo Jim aveva ragione, raramente il ragazzo rideva e i suoi occhi erano spesso assottigliati in un’espressione che voleva quasi attraversare da parte a parte il suo interlocutore - mettevano in dubbio l’affetto che i due fratelli potevano sentire l’uno nei confronti dell’altro. 

“Bene, io me ne vado. Con l’ego di Jim la mia intelligenza potrebbe venire schiacciata”, disse infine Ted andando verso la porta. I battibecchi tra Ted e Jim invece erano diversi, si vedeva subito che erano fatti solo per prendere in giro e scherzare genuinamente, erano sempre accompagnati da un sorrisetto divertito. 

“Ciao, Teddy!” salutò la piccola Lily, anche lei dal divano. 

“Ciao, puzzola”. 

Teddy si sedette in macchina con un sospiro e chiuso per un istante gli occhi. Era stanco. E non sapeva nemmeno dire cosa lo stancasse di più: il lavoro, lo studio, il suo problema con la licantropia, il fatto che prima o poi avrebbe dovuto dirlo a tutti - o comunque in ogni caso sarebbe saltato fuori - o tutte quante le cose insieme.
Tirò fuori il suo taccuino - quello in cui teneva gli appunti sui casi più interessanti che aveva seguito, gli interventi fatti, le pozioni e i loro effetti, le medicine magiche e babbane, e altre cose che potevano venirgli in mente - e andò subito alla pagina in cui aveva annotato tutto ciò che riguardava il suo caso. Le sue ultime analisi non erano promettenti, il morbo non faceva che avvelenargli il sangue e lui non aveva idea di come fermarlo. O meglio, una mezza idea ce l’aveva, ma era estremamente difficile, pericolosa, nessuno l’aveva mai fatta prima e - soprattutto - non poteva eseguirla da solo. Sarebbe dovuto rimanere incosciente sul tavolo operatorio come prima cosa. 

Con un altro sospiro Teddy richiuse il taccuino e mise in moto la macchina. In quella frenetica ricerca di una soluzione per la propria cura, aveva scoperto però qualcos’altro, qualcosa che avrebbe potuto invece salvare altre centinaia di persone. Forse qualcosa di positivo c’era nella sua vita.
Certo, doveva prima risolvere il primo problema però: la sua scoperta non sarebbe servita a niente se lui ci avesse lasciato le penne.
No, Teddy non voleva morire. 

Dopo la scoperta del ritorno dei resuscitati, tutti nella famiglia avevano voluto rivederli e - nel caso di James e Lily - conoscerli. 

I due poveretti si erano trovati quindi tra le grinfie di una famiglia numerosa e piuttosto caotica, ma almeno ora conoscevano i genitori e tutti i fratelli della loro nuora, nonché avevano avuto l’opportunità di assaggiare qualcuno dei dolci fatti dalla Signora Weasley che li aveva presi particolarmente in simpatia, forse perché così giovani e spaesati in un mondo totalmente cambiato, o perché conosceva la loro tragica storia da vicino o perché erano i genitori di quello che poteva praticamente considerare un figlio adottivo. O magari tutte e tre le cose. Molly Weasley non faceva mai sentire nessuno estraneo, non con la gioia che la caratterizzava da quando era tornato Fred.

Quest’ultimo aveva poi deciso di scapparsene - almeno per un po’ - a casa di suo fratello Bill che li aveva invitati per un caffè pomeridiano. L’atteggiamento di sua madre gli era diventato soffocante, il suo continuo stargli addosso, le lacrime di commozione che la assaltavano nei momenti più disparati della giornata, il suo insistere nel parlare di cose che Fred ancora non voleva affrontare…

Bill era più calmo, più tranquillo, non insisteva e non lo spingeva a fare nulla. Così come Ron e Ginny. E George… be’, con George doveva ancora parlare per davvero.

“Ehi”, lo chiamò piano James, sedendoglisi accanto dopo aver notato il suo sguardo assorto sul divano. Uno sguardo assolutamente raro in quel ragazzo, se doveva giudicare da quello che gli avevano detto di lui. Lo aveva immaginato molto simile a sé e James non assumeva mai quello sguardo così assorto, a meno che non ci fosse qualcosa che lo preoccupava. “Tutto bene?”

“Diciamo di sì”, rispose Fred scrollando le spalle. Non alzò lo sguardo su James ma si sforzò di tornare con la mente al presente.

“Immagino che anche per te sia tutto un po’... strano”.

“A chi lo dici”.

James piegò la gamba pensando a qualcos’altro da dire, ma fu lo stesso Fred a interromperlo: “Insomma, non so come comportarmi o… cosa fare. Tutti i miei fratelli sono cresciuti e hanno dei figli e, insomma, scoprire che il tuo gemello ha finito per sposare quella che era la tua ragazza e ci ha pure fatto due figli… ecco, si insomma…”. 

James strabuzzò gli occhi. “Oh. Questo è… si, è piuttosto strano”.

Fred sospirò e allungò le gambe. “Tu invece? Con… lui?” Indicò con un cenno del capo Harry seduto a tavola con Bill e il resto della combriccola.

Fu il turno di James di sospirare. “Come dicevo prima, è strano… ma mi ci sto abituando, immagino. Non è che possa fare molto altro”.

“Già”.

“Ehi! Penso che dovremmo fondare un club, una cosa tipo… supporto per i poveri disgraziati che sono tornati in vita e ora non sanno cosa farsene di queste vite dopo che tutti i loro cari sono andati avanti”, disse James con tono entusiasta.

“Che ne dici, Paddy?” Chiese poi rivolto all’amico.

“Penso che dovresti trovare un nome più corto”. 

“Possiamo usare una sigla”.

“Sapete che il primo club venne fondato il 28 febbraio del 1657 da un gruppo di maghi e streghe che si ritrovavano per parlare delle radici di Mandragola? Era ufficiale, aveva pure la firma del Ministro su un documento di carta. Si trovavano una volta a settimana e parlavano di radici di Mandragola. Cosa ci sia di interessante nelle radici di Mandragola non lo so, ma non spetta a me giudicare i gusti delle persone”, disse Louis facendo quasi sussultare tutti. Da quando erano arrivati il ragazzo aveva a malapena parlato. Tutto quel tempo se ne era rimasto in disparte seduto a una scrivania vicino alla finestra a scrivere qualcosa. Era vero quello che Vicky aveva raccontato loro sul fratello, non sembrava uno molto propenso alla socializzazione o alla compagnia e men che meno al contatto visivo coi suoi interlocutori. Ma dovevano ancora inquadrare bene tutta questa situazione dell’Asperger, eccetto il suo tono di voce e l’espressione molto piatti.

“Oh non fote troppo caso a lui. Gli pioce memorizzare le dote”, disse Fleur con l’accento francese che non aveva mai perso mentre passava di lì,.

“Devi essere bravo in storia, ragazzo”, gli disse James.

“Non mi dispiace la storia”, rispose Louis, l’attenzione rivolta ancora a quello che stava scrivendo.

Bill e Fleur, dal canto loro, non erano cambiati molto in quegli anni; Fleur non aveva perso un briciolo della sua bellezza di Veela e il fisico di Bill era rimasto sempre forte e muscoloso. Un uomo affascinante, nonostante le cicatrici che gli deturpavano il volto. James e Lily avevano pensato fosse un lupo mannaro come Remus, e Bill gli aveva spiegato che ci era mancato poco. Nessuno dei due esibiva particolari rughe o altri segni della vecchiaia, nemmeno i capelli bianchi - anche se a quello poteva pensarci la magia, come faceva la Signora Weasley. E si amavano ancora come quando erano agli inizi della loro relazione, questo lo poteva vedere chiunque.
Louis, come voleva la sua discendenza, era davvero un bel ragazzo, un quindicenne dai capelli rossi e folti, gli occhi azzurri e qualche lentiggine sparsa attorno al naso. Era poco più basso del padre, magro, slanciato, sicuramente avrebbe attirato tante ragazze per l’aspetto fisico. Somigliava molto a Bill in viso. 

“Allora, Teddy e Vicky…”, disse Bill con un sorriso sghembo, guardando verso Remus e Tonks. “Sai, mi ricordo delle volte in cui Teddy si arrampicava sul balcone di mia figlia quando ancora non era capace di materializzarsi. Pensava non me ne accorgessi. Invece me ne accorgevo eccome, e lo osservavo mentre saliva le scale sperando di non cadere. Avrei potuto invitarlo a usare la porta principale, ma mi divertiva un sacco”.
James, Sirius e Tonks scoppiarono a ridere, Remus si limitò a una risata divertita ma più contenuta. Non ci aveva pensato, che ora si trovava di fronte al suo presunto consuocero.
“Ti aspetti delle scuse, Bill?” fece Tonks in tono ironico.
Bill si appoggiò contro lo schienale della sedia. “Oh no, assolutamente no! Non ho mai visto Vicky così felice da quando sta con Teddy”, rispose lui con un sorriso.
“Victoire e Edward sono dovvero una bolla coppia”, aggiunse Fleur sedendosi accanto al marito. 

“Qualcosa mi dice che presto ti ritroverai nonno anche tu, Moony”, disse James mentre si riuniva al gruppo.
“Oh, por faveur no, sono ancora troppo giovane por quello”, rispose Fleur.
“Non dirlo a noi”, disse Lily. 

In quel momento la porta d’ingresso si aprì e proprio Teddy e Vicky fecero il loro ingresso. Il ragazzo sgranò leggermente gli occhi, forse sorpreso nel trovare tutti lì, genitori compresi.
“Ehi, stavamo proprio parlando di voi”, disse Tonks salutando i due ragazzi.
“Be’, direi che è un argomento di conversazione interessante”, rispose Vicky. Teddy si limitò a passarsi una mano tra i capelli con aria stanca. 

Si udirono dei passi lungo le scale e anche Dominique fece la sua comparsa. Avevano avuto occasione di vederla solo al loro arrivo, di sfuggita, poi si era ritirata subito in camera sua. I fratelli Weasley non si facevano mancare nulla in fatto di aspetto fisico, e Dominique somigliava molto alla sorella e alla madre, ma aveva una bellezza più aggressiva rispetto a Victoire. Tanto per cominciare, i capelli, lunghi poco oltre le spalle e rigorosamente lisci, erano biondi ma si vedeva lontano un chilometro che li tingeva - Vicky e Fleur probabilmente erano le uniche due a essere bionde naturali in quella casa - e il trucco era più pesante, con contorni neri attorno agli occhi, il rossetto rosso scuro, i vestiti più attillati di quelli della sorella maggiore - anche se entrambe avevano sicuramente un certo gusto in fatto di abbigliamento - e il piercing sullo sterno, proprio tra i due seni. 

“Teddy, mi hai portato quello che ti ho chiesto?” chiese la ragazza saltellando verso il Metamorfomagus che le passò subito il sacchetto che teneva tra le mani.

“Tieni, sono anche per voi due”, rispose, guardando verso la fidanzata e sua madre. “Mi spiegate perché avete sempre il ciclo nello stesso momento?” 

“Non lo sai che quando le donne vivono assieme il loro ciclo si sincronizza?” gli disse Vicky con nonchalance mentre la sorella prendeva il pacco di assorbenti che Teddy portava dall’ospedale quando le donne della sua famiglia - Potter e Weasley - glieli chiedevano.

“Pensa a me, che devo sopportare tre donne che hanno le mestruazioni nello stesso momento”, disse Bill facendo di nuovo scoppiare a ridere i suoi ospiti.

“Edward, ti formi a cena?” gli chiese Fleur.

“Oh no, devo andare al lavoro tra mezz’ora”.

“Lavori la notte?” 

“Faccio doppi turni questa settimana, pomeriggio e notte”. Evitò di dire che lo faceva solo perché la prossima settimana c'era la luna piena e sarebbe dovuto mancare dal lavoro un paio di giorni.

“Oh Merlino! E quando dormi?” gli chiese Lily.

“Di mattina”.

“Non è un po’... stancante?” domandò Tonks.

“Un po’, ma in realtà lavorare la notte in ospedale non è male. Non ci sono sempre emergenze e quelle che ci sono spesso sono divertenti. Una volta è venuto questo giovane paziente che si era trasfigurato il pene in una pietra. Pensava che l’incantesimo Duro servisse per irrigidire le cose anziché trasformale in pietre. Voleva fare sesso tutta la notte con la sua ragazza che invece aveva dovuto portarlo in ospedale perché non riusciva più a farlo tornare normale”.