Peter Pankow e il segreto di Ypa'u Oiyva

di Old Fashioned
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Gli antefatti ***
Capitolo 2: *** II - Peter Pankow è famoso ***
Capitolo 3: *** III - Si cerca nuovo personale ***
Capitolo 4: *** IV - Problemi di convivenza ***
Capitolo 5: *** V - Si parte per la missione ***
Capitolo 6: *** VI - Si ritrovano vecchie conoscenze ***
Capitolo 7: *** VII - Incontri ***
Capitolo 8: *** VIII - In missione di salvataggio ***
Capitolo 9: *** IX - In vino veritas ***
Capitolo 10: *** X - Tutto è bene quel che finisce bene ***



Capitolo 1
*** I - Gli antefatti ***


Carissimi lettori, ecco qui un altro mappazzone, stavolta bello grosso, che rivisita in chiave moderna la favola di Peter Pan. Siccome ho scelto di privilegiare l’atmosfera del cartone animato, scanzonata e leggera, aspettatevi che qualche volta il realismo ceda un po’ il passo all’effetto scenico. Ovviamente ho cercato di ridurre al minimo la cosa, ma ho voluto avvisare perché magari non tutti gradiscono questa scelta ed è bene che lo sappiano prima di leggere.







PETER PANKOW E IL SEGRETO DI YPA’U OIYVA



I – Gli antefatti


In cielo non c'era una nuvola, l'aria era talmente immobile che le foglie di palma della tettoia sembravano dipinte.
Da qualche parte un insetto friniva eroico nonostante la calura. Per il resto, l'unico suono che si udiva era una debole risacca, come se anche il mare fosse troppo spossato per generare onde.
La canna del Bofors 40, che sporgeva dal riparo puntata verso il largo, dava l'idea di volersi afflosciare esausta sui sacchi di sabbia.
All'interno della postazione, sotto l'approssimativa ombra di una rete mimetica e qualche frasca, il soldato Matthews voltò la pagina di una rivista che aveva l'aria di essere stata sfogliata altre centinaia di volte. Comparve una ragazza seminuda e in posa provocante. “Ciao, Betty,” la salutò.
Che fai?” gli chiese il soldato Fulton, dall'amaca su cui era sdraiato. “Parli da solo?”
Raccolse un bastoncino di bambù, lo puntò contro la culatta del cannone e si diede una spinta per dondolarsi.
Ormai l'ho vista così tante volte che siamo quasi amici,” rispose l'altro.
Di nuovo calò il silenzio. Ancora più profondo, dal momento che nel frattempo anche l'insetto si era zittito. Rimanevano solo il rumore ipnotico della risacca e qualche raro cigolio quando Fulton si muoveva.
Il soldato Harlow, seduto su un'improvvisata sdraio, con i piedi appoggiati alla barriera di sacchi di sabbia e il cappello calato sugli occhi, brontolò: “Non succede mai niente.”
Ringrazia,” esalò il caporale Clifton, steso su una stuoia in mutande e scarponi. “Adesso potremmo essere in Europa a farci sparare nel culo dai crauti.” Fece una pausa, che utilizzò per grattarsi accuratamente l'addome, poi soggiunse: “Qui è molto meglio, nessuno ci rompe le palle.”
Io vorrei il cambio,” sospirò Matthews. Girò un'altra pagina, comparve una nuova ragazza, questa volta con un succinto costume alla marinara. “Ciao, Kate.”
Nah,” Fulton scosse la testa, provocando un cigolio della sua amaca, “che cambio e cambio: molto meglio starsene qui, dove il rischio maggiore è quello di morire di noia.”
La conversazione si esaurì, l'insetto lontano riprese a frinire. Lo sciabordio della risacca invitava all'abbandono.
D'un tratto cominciò a farsi udire il ronzio lontano di un aereo.
Avete sentito?” chiese Matthews. Abbandonò da una parte la rivista e prese a scrutare il cielo schermandosi dal sole con la mano.
Sarà quello della posta,” disse Fulton alle sue spalle.
Dalla stuoia provenne: “A quest'ora?”
Senza togliersi il cappello dalla faccia, Harlow chiese: “Perché, che ore sono?”
Il ronzio si fece più intenso, nel cielo comparve un puntino nero. Matthews si alzò e andò ad affacciarsi sul mare. “Viene verso di noi,” annunciò.
E certo,” replicò Fulton, col tono di ribadire l'ovvio, “deve portarci la posta.”
L'altro andò alla ricerca del binocolo, quindi lo inforcò e cominciò a scrutare il cielo. “Ragazzi!” esclamò dopo un po', col tono del cercatore d'oro che ha appena trovato una pepita grossa come la sua testa. “Ragazzi, venite a vedere!”
Il puntino nero continuava imperterrito a muoversi avanti e indietro.
Ragazzi, che mi venga un colpo secco se quello là non è un mangiacrauti!”
L'affermazione fu seguita da un silenzio carico di perplessità.
Un mangiacrauti?” fece eco dopo un po' Harlow. “Qui?”
Come ce le abbiamo noi, delle navi da queste parti, ce le hanno anche loro,” disse Matthews col tono che avrebbe usato parlando con un bambino non troppo sveglio. “E anche loro sulle navi hanno gli idrovolanti da ricognizione.” Andò alla ricerca dell'opuscolo con i profili degli aerei e lo sfogliò rapidamente. “Ecco qui,” disse alla fine, mostrando una sagoma nera. “Arado 196. Più crucco dell'Oktoberfest.”
Fulton dedicò all'immagine un'occhiata svogliata. “Preferisco Betty,” sentenziò poi.
Ragazzi!” Matthews cominciò a togliere freneticamente tutto ciò che nel tempo si era accumulato sul Bofors 40: armi individuali, canne di bambù più o meno intagliate, un paio di calzini stesi ad asciugare. “Ragazzi, datevi una mossa o ci scappa!”
Che palle,” brontolò Harlow abbandonando la sua sedia.
Se mi hai fatto alzare per il nostro postale, giuro che ti prendo a calci nel culo,” promise il caporale Clifton in tono sinistro.

§

Il tenente Pankow diede un'occhiata di lato: la sagoma frastagliata della costa, di un bianco che sotto il sole costringeva a stringere gli occhi, emergeva da un'acqua azzurro chiarissimo, che andando verso il largo diventava di un intenso turchese e poi di un blu profondo e misterioso.
Nell'entroterra, quasi coperte da una vegetazione lussureggiante che aveva tutti i toni del verde, si indovinavano sagome dalla vaga forma geometrica.
L'ufficiale spinse in avanti la barra, l'aereo picchiò appena. “Davanti a noi, Till,” disse, inclinando di lato il velivolo per avere una prospettiva migliore, “vedi niente?”
Nossignore,” giunse la risposta.
Per me sono costruzioni,” insisté il pilota. Le indicò col dito.
Forse sono vecchie case coloniali, signor tenente,” azzardò cauta la voce del radiotelegrafista, “edifici abbandonati.”
E se andassimo a dare un'occhiata?” propose l'ufficiale. Sembrava che stesse invitando il subalterno a fare una gita da qualche parte.
Siamo fuori da parecchio, signore,” giunse la cauta replica. “La benzina...”
Ce n'è sempre un po' di più,” lo interruppe il pilota con un'alzata di spalle, “l'indicatore non è molto preciso. E poi al massimo ammariamo e chiediamo via radio alla Schütze di venirci a prendere.”
Ma signore...” la voce dell'osservatore suonava quasi imbarazzata. “Signore, dubito che il comandante von Stauff devierebbe dalla rotta per venire a raccoglierci in mezzo al Mar dei Caraibi.”
Disinvolto, Pankow replicò: “Ma figurati! Vuoi che il Vecchio lasci il suo unico pilota a mollo come un'anatra? E poi chi gliele fa le ricognizioni aeree?”
Detto questo, puntò verso l'entroterra e diede motore.
A quel punto, un proiettile d'artiglieria passò così vicino che lo spostamento d'aria fece sbandare l'aereo.
Ehi!” esclamò Pankow costernato. Rimise il velivolo in assetto, ma un attimo arrivò dopo un secondo proiettile.
Nell'interfono risuonò la voce preoccupata dell'osservatore: “Signor tenente, andiamo via!”
Aspetta,” Pankow scartò per evitare un altro colpo. “Aspetta, voglio vedere da dove sparano, voglio...”
Un colpo perse in pieno il motore. L'Arado 196 sussultò, l'elica si inchiodò, dalla capottatura cominciò a uscire un fumo nero e denso, che faceva tossire e lacrimare gli occhi.
Il velivolo cominciò a perdere quota.
Signor tenente!” esclamò l'osservatore inorridito. “Signore, stiamo precipitando!”
Accidenti, avevo messo in fresco una bottiglia per stasera.”

La terra si avvicinava con inquietante velocità. Man mano che i metri di quota scemavano, la massa verde della giungla perdeva l'aspetto di uno smeraldo screziato per assumere quello di un sinistro groviglio di piante dal quale spuntavano rami secchi e liane.
Pankow cercò di guardare fuori, ma le folate di fumo gli consentivano solo brevi scorci dell'ambiente circostante. L'unica cosa che si vedeva chiaramente era la terra sempre più vicina. Lavorando di barra e pedali per tentare di mantenere l'assetto, filosoficamente recitò: “Lo sai, Till? Ci sono tre cose inutili in aviazione: il carburante lasciato a terra, i metri di pista dietro le spalle e i metri di quota sopra la testa.” Fece una breve pausa, quindi in tono quasi rassicurante soggiunse: “A noi però non interessano i metri di pista: siamo un idrovolante.”
E poi successe la fine del mondo: qualcosa agganciò uno degli scarponi dell'aereo, il velivolo si rovesciò e cadde fracassando rami, recidendo liane e sollevando nugoli di foglie. All'interno il frastuono era tremendo: si udivano schianti, gemiti, scricchiolii e boati, il rumore del metallo che si piegava e quello del legno che si frantumava. Pankow provò anche a imprecare, ma nel chiasso non riuscì nemmeno a udire la propria voce.
L'aereo capitombolò rotolando come una specie di dado da gioco per un tempo che parve infinito, precipitando sempre più a fondo nella foresta, lasciandosi dietro un pezzo dopo l'altro. Infine, ridotto a poco più di una fusoliera avvolta dalle liane, si fermò penzoloni come un grottesco bozzolo.
Sulla scena cadde un silenzio irreale.

Pankow sbatté gli occhi: la luce verde che regnava ovunque faceva pensare di essere sul fondo di uno stagno e l'umidità favoriva decisamente l'illusione. “Ma che accidenti...” bofonchiò. Poi, a voce più alta: “Schelle? Till? Tutto a posto?”
Da dietro le sue spalle provenne: “Con il dovuto rispetto, signore: tutto a posto un cazzo.”
Il tenente rinunciò a rispondere. Si guardò invece lentamente intorno: innanzitutto realizzò di essere ancora assicurato al sedile tramite le cinture di sicurezza. La capottina era sparita, il muso dell'aereo puntava verso il basso, per cui dalla posizione in cui si trovava vedeva perfettamente il suolo, distante forse due o tre metri. Tutt'intorno c'era uno sfacelo di rami spezzati, foglie e liane contorte.
Al suolo, per quel che poteva vedere, c'era uno spesso tappeto di vegetali marcescenti, dal quale spuntavano arbusti sconosciuti.
Sarà meglio trovare il modo di scendere,” propose.
Alle sue spalle, Till replicò: “Ma signore, come facciamo?”
Preferisci stare qui ad aspettare gli inglesi?”
Nossignore.”
Allora cerchiamo di scendere.” Pankow cominciò ad armeggiare con le cinghie di sicurezza.
Dopo un po', in tono esitante, il radiotelegrafista disse:”Signore, ho sentito dire che in questi posti ci sono insetti velenosi e serpenti.”
E io invece ho sentito dire che ci sono gli inglesi, che non sono velenosi, ma prendono i tedeschi come noi, li interrogano per vedere se sanno qualcosa di interessante e poi li spediscono nei campi di prigionia fino alla fine della guerra.” Fece una pausa che utilizzò per imprecare contro la cintura che non si voleva aprire, quindi concluse: “Io non ho nessuna intenzione di fare questa fine, Schelle. A bordo della vecchia Schütze ho una bottiglia che mi aspetta e ho tutte le intenzioni di berla alla salute del Führer.”
Sissignore,” sospirò l'altro rassegnato.
Quindi ora diamoci da fare e...” La cintura cedette all'improvviso. Pankow piombò giù con un grido e atterrò in un cumulo di fogliame putrido.
Riemerse dallo strato di vegetali soffiando e scrollandosi, poi alzò lo sguardo a incontrare quello del suo subalterno. “Vieni?” gli chiese. Sembrava che gli stesse proponendo di tuffarsi in una piscina dall’acqua particolarmente gradevole.
Ma signore...”
Tanto lassù non ci puoi rimanere, Till.”
Sissignore.”
Schelle sbloccò la cintura di sicurezza, ma invece di lasciarsi cadere si aggrappò a quel che rimaneva delle strutture dell’aereo e riuscì a calarsi lentamente a terra.
Quando i due furono di nuovo faccia a faccia, Pankow disse: “Sarà meglio spostarci di qui.” Si guardò intorno con l’aria di aspettarsi una strada asfaltata da qualche parte. “E poi potremmo dare un’occhiata in giro, che ne dici?”
Il radiotelegrafista quasi sbiancò. “Ma signore,” rispose, “l’isola è controllata dagli inglesi. Posto che la radio sia ancora in funzione, dobbiamo comunicare la nostra posizione alla Schütze e poi nasconderci.
Il tenente fece una risatina. “Sei diventato un gibbone, per caso, Schelle?”
Prego, signore?”
Pankow indicò il relitto, che penzolava a tre metri d’altezza e gli chiese “Come conti di raggiungerlo, senza le doti di una scimmia?”
Merda,” sospirò Till dopo aver alzato gli occhi a sua volta.

Una barca devono averla per forza,” disse il tenente Pankow. “Come fanno a non avere una barca in un posto del genere?” Si fermò e rivolse un’occhiata a Till Schelle, che lo seguiva in silenzio. “Se siamo fortunati c’è addirittura un idrovolante. Magari uno di quei loro Swordfish.” Riprese a camminare di buon passo, apparentemente incurante di caldo, insetti, serpenti ed eventuali presenze nemiche. “È un po’ che non piloto un biplano,” considerò poi, come fra sé e sé, “ma è come andare in bicicletta, no? Una volta imparato, non si dimentica più.”
Sissignore,” sospirò il radiotelegrafista.
Si terse il sudore dalla fronte, e poi dal collo. L’aveva fatto tre minuti prima, ma di nuovo ritrasse la mano grondante come se l’avesse immersa nell’acqua.
Strinse i denti sforzandosi di tenere dietro al tenente. Peter Pankow era una specie di folletto smilzo, dotato di energie apparentemente inesauribili e della mentalità, oltre che dell’aspetto, di un sedicenne. In quel momento, ad esempio, più che un ufficiale dietro le linee nemiche, abbattuto su un’isola sconosciuta, con minime o forse addirittura nulle possibilità di sfuggire alla cattura, sembrava un ragazzino che stava giocando agli indiani.
Non che fosse una cattiva persona, questo no, ed era anche un ottimo pilota, però…
La voce trionfante di Pankow interruppe il filo dei suoi pensieri: “Guarda là, Till: te l’avevo detto che c’erano delle costruzioni!”
Il caporale si voltò verso ciò che il suo superiore stava indicando e dovette reprimere un improperio: poco più avanti la vegetazione sembrava essere stata abbattuta con mezzi efficaci ma frettolosi, forse addirittura un bulldozer, o magari un paio di cariche esplosive, e tra le fronde così sfoltite si intravedeva quello che inequivocabilmente era un edificio vetusto, con l’intonaco un po’ scrostato e la poca pittura rimasta ormai coperta da inflorescenze di muffa nera. La bandiera inglese che pendeva dal terrazzo, per contro, era nuovissima.
Schelle agguantò il suo noncurante superiore e lo spinse al riparo di un tronco, quindi sussurrò: “Dobbiamo andarcene subito, signore.”
L’altro lo fissò come se avesse appena parlato in cinese. “Perché?”
Signore, è pieno di inglesi.”
Pankow alzò gli occhi al cielo. “Caporale Schelle,” replicò, con l’aria del maestro che per la terza volta spiega a un alunno un’operazione semplicissima, “i mezzi per andare via di qui non sono mica parcheggiati nel mezzo della foresta: ce li hanno gli inglesi.”
Sì, ma signore… non potremmo almeno aspettare il buio?”
E stare qui con questo caldo? In mezzo agli insetti? No no, io stasera voglio essere già a bordo. E poi ti dirò di più: voglio proprio vedere cosa c’è in questo posto. Se il Vecchio ci ha mandati a fare una ricognizione, è segno che deve esserci qualcosa di interessante.”
Ma signore,” tentò Schelle in extremis, “hanno visto l’aereo cadere, ci staranno cercando ovunque.”
Staremo nascosti,” gli assicurò Pankow disinvolto, “Non ci vedrà nessuno.” Si incamminò con risolutezza.
Till scosse la testa come di fronte all’ineluttabilità del fato. Lo lasciò allontanare di qualche decina di metri masticando improperi a mezza voce, ma quando vide che scompariva nella vegetazione assolutamente certo che lui fosse alle sue spalle, a malincuore si risolse a seguirlo.

Il tenente si decise a mettersi in copertura solo quando l’edificio era così vicino che si riusciva a sentire una radio che trasmetteva musica leggera.
Till lo imitò e i due avanzarono strisciando sul terreno, tenendosi quanto più possibile sotto gli arbusti.
Giunti al limite della vegetazione, si rintanarono sotto un cespuglio e rimasero a guardare: l’edificio dava l’idea di essere stato ai suoi tempi una graziosa villa coloniale. Era difficile dire di che epoca fosse, perché l’umidità e le piante che ancora gli crescevano negli anfratti meno raggiungibili lo facevano sembrare una specie di reperto archeologico disperso nella giungla.
Tutt’intorno alla costruzione vi era appena lo spazio sufficiente a consentire la manovra a un autocarro, tanto che i rami degli alberi più alti si protendevano fin quasi a coprire la struttura.
Davanti alla porta principale della villetta, due piantoni con il Lee-Enfield in spalla camminavano lenti su e giù. Poco lontano un sottufficiale segaligno, con lo swagger stick sottobraccio, fissava serio i dintorni, con l'aria di aspettarsi proprio l'arrivo di due tedeschi dispersi dietro le linee.
Di là non si entra,” sussurrò Pankow. Scosse la testa deluso.
Schelle si voltò a fissarlo stupefatto. “Scusi?” gli chiese, ancora non ben certo di aver udito correttamente.
Non si entra,” fu la replica, proferita col tono di una banale conversazione. “Troppa gente.”
Per qualche secondo il caporale rimase senza parole. Infine, con la pacata lentezza con cui si parlerebbe a un suicida su un cornicione, disse: “Signore, noi non dobbiamo entrare. Dobbiamo procurarci un mezzo per abbandonare quest'isola.”
Pankow fece un gesto noncurante. “Dopo,” rispose. “Abbiamo tutto il tempo per andarcene, ci sono ancora un sacco di ore prima delle effemeridi.”
Till emise un sospiro. Conosceva l'espressione che il suo superiore aveva assunto: era quella che invariabilmente preludeva alle azioni più avventate e irresponsabili. “Signore...” tentò un'ultima volta.
L'altro alzò le spalle. “Un'occhiatina, che vuoi che sia? Saremo fuori prima ancora che si accorgano che siamo entrati.”
Ma signore...”
Per tutta risposta, Pankow si alzò e camminando piegato per mimetizzarsi meglio prese a girare intorno all'edificio. “Ci sarà una finestra aperta... una botola...” mormorava frattanto fra sé e sé.
Till seguiva il superiore indeciso sul da farsi. Impuntarsi e farlo proseguire da solo? Provare a fermarlo in qualche modo? Consegnarsi spontaneamente agli inglesi, prima che qualche stupidaggine del tenente li facesse passare da prigionieri di guerra a spie passibili di fucilazione sul posto?
La voce dell'ufficiale lo fece quasi sussultare: “Eccola!”
Il caporale abbandonò le proprie elucubrazioni. “Che cosa, signore?” Assunse l'espressione di chi sta per ricevere una secchiata di liquami in faccia.
Guarda quella porta.” Il tenente indicò un'uscita di servizio socchiusa. Accanto a essa, riverso sui sacchi di sabbia della postazione, un soldato dormiva della grossa con una rivista aperta sulla faccia per proteggersi dal sole.
Non vorrà passare accanto a quel tizio, signore,” tentò Schelle, ben sapendo quale sarebbe stata la risposta.
Prevedibilmente, Pankow rispose: “Se facciamo piano non se ne accorgerà nemmeno.”

§

Nello stesso momento, a pochi metri in linea d'aria dai due tedeschi, un capitano di fregata britannico stava tracciando una rotta su una carta nautica. Usava squadra e compasso con una disinvoltura che denotava una lunga pratica, interrompendosi di tanto in tanto per scrivere cifre su un taccuino.
A un certo punto, l'ufficiale abbandonò gli strumenti sul piano della scrivania e volse lo sguardo verso la finestra. Attraverso le fronde si intravedeva il turchese chiaro dell'acqua. Per quanto umida e calda, appesantita dagli afrori della vegetazione tropicale, l'aria conservava una traccia del profumo di salsedine del mare aperto. Egli se ne beò socchiudendo gli occhi, quindi emise un sospiro che aveva al tempo stesso il tono malinconico della nostalgia e quello gagliardo di un anelito a stento trattenuto.
Si udì bussare. Colpi poderosi, sonori, sotto i quali la porta tremò come se dall'altra parte ci fosse un cavallo che scalciava.
Senza scomporsi, il comandante si lisciò appena i sottili baffi neri, raddrizzò di una frazione di millimetro il perfetto nodo Windsor della cravatta e disse: “Avanti.”
L'anta si spalancò, rivelando la figura massiccia di un sottufficiale. Questi si mise più o meno sull’attenti, salutò e annunciò: “Con il suo permesso, comandante, la Jolly Roger è pronta a salpare!”
Hook annuì. “Molto bene, signor Soak,” apprezzò sobrio. Si alzò in piedi, rivelando un’altezza decisamente superiore alla media. Fece qualche passo nella stanza e si fermò accanto alla finestra. Da quella posizione si vedeva bene uno snello incrociatore alla fonda presso il limitare della laguna. Anche a distanza, la nave dava una confortante impressione di ordine, pulizia ed efficienza.
Molto bene,” ripeté il comandante.
Grazie, signore,” rispose l'altro senza muoversi dalla soglia.
Venga avanti, nostromo,” lo invitò l'ufficiale, quindi tornò a rivolgere lo sguardo all'incrociatore. “Abbiamo notizie di quel velivolo?” domandò poi, col tono di chi chiede informazioni sul prossimo torneo di bridge. “Mi consta che fosse nemico.”
È stato abbattuto, signore,” rispose prontamente il sottufficiale, “ci ha pensato una delle nostre batterie costiere.”
Il capitano sollevò un sopracciglio con l'aria di aspettarsi la seconda metà – quella importante – della risposta. Soak deglutì.
Passò qualche secondo, durante il quale l'unico rumore che si udì fu un vago stormire di fronde agitate dalla brezza, poi l'ufficiale gli venne in aiuto: “Che ne è stato dell'elemento umano, signor Soak?”
L'elemento umano...” ripeté l'altro, con l'aria di riflettere furiosamente sul significato della locuzione, “ecco...” Infine gli si accese la lampadina: “L'equipaggio! L'equipaggio, è chiaro.” A quel punto, l'entusiasmo si esaurì come un fuoco malamente alimentato, il sottufficiale emise un sospiro. “Li stanno cercando, signore.”
Il sopracciglio si levò nuovamente, in un silenzio carico di riprovazione. Il sottufficiale incurvò appena le ampie spalle.
Signor Soak,” disse infine il capitano, “È superfluo che io le rammenti l'estrema importanza della nostra missione, non è vero?”
Perfettamente superfluo, signore,” confermò volenteroso l'altro.
L'ufficiale annuì grave. Con andatura misurata tornò alla carta nautica, che rappresentava il Mar dei Caraibi, vi fece scorrere sopra lo sguardo, quindi proseguì: “La Jolly Roger è chiamata a un compito di fondamentale importanza.” Chino sulla mappa, fissò di sottecchi il subalterno. “Un compito segreto,” gli confidò, abbassando appena la voce.
Sissignore,” fu la risposta del sottufficiale.
Il capitano si raddrizzò, di nuovo si lisciò i curatissimi baffi con gesto elegante. “Le nostre spie in Europa hanno acquisito un'arma sperimentale del Reich,” disse con aria di mistero, “e sarà compito della Jolly Roger piazzarla e renderla operativa.” Puntò il dito sulla mappa, in una posizione che sembrava perfettamente equidistante dalle coste di Nicaragua, Giamaica, Panama e Colombia, e disse: “Proprio qui.”
Il nostromo si protese a sua volta sulla mappa. La scrutò grattandosi pensoso la testa, quindi chiese: “In mezzo al mare, comandante?”
L'altro scosse il capo come se si fosse aspettato esattamente quella domanda, e la considerasse anche piuttosto sciocca. “A Ypa'u Oiyva,” rispose. “L'isola che non c'è, in lingua locale.”

§

Addossato alla parete, Pankow scrutò il corridoio in penombra che gli si apriva davanti. Diede appena di gomito al subalterno: in fondo c'era una porta chiusa, contrassegnata da un cartello su cui a caratteri cubitali e con molti punti esclamativi si vietava l'accesso a chiunque non fosse addetto ai lavori. “Roba forte,” commentò, con un brillio avido nello sguardo.
Magari c'è solo il quadro elettrico, signore,” replicò Till, ansioso invece di abbandonare l'edificio.
Macché quadro elettrico,” fu la risposta, “sono sicuro che là dentro ci sia qualcosa di interessante.”
Signore,” tentò Schelle, “non potremmo cercare di prendere quell'idrovolante ormeggiato lungo il molo? Quando siamo passati davanti alla finestra ho visto che lo stavano rifornendo.”
Ma sì, ma sì, dopo,” sussurrò Pankow sbrigativo, “ora voglio vedere cosa c'è.” Rivolse alla porta lo sguardo che un ragazzino avrebbe riservato ai regali ammucchiati sotto l'albero di Natale.
Till ebbe la tentazione di agguantare il suo superiore, metterselo in spalla e andare via così. Lo trattenne solo la certezza che quella specie di folletto si sarebbe divincolato e liberato nel breve volgere di pochi secondi. Considerando che era lui il pilota, non sarebbe stata una buona idea farselo scappare, o peggio permettere che finisse in mani nemiche. Emise un sospiro, quindi aprì la bocca per dire qualcosa, ma il rumore di passi in avvicinamento lo convinse invece a tacere. Tirandosi dietro il tenente arretrò fino al vano di una porta e da lì rimase a osservare lo svolgersi degli eventi.
Da un corridoio laterale sbucarono alcuni uomini. Il primo era un ufficiale di marina alto, elegante, che esibiva una distaccata albagia. Accanto a lui camminava un uomo più basso, con gli occhiali e i capelli brizzolati, che portava un camice bianco sull'uniforme e aveva in mano un mazzo di chiavi. Seguivano un sottufficiale grande e grosso e un paio di marinai. Tutti si stavano dirigendo verso la famosa porta col cartello.
I due si scambiarono uno sguardo.
Il gruppetto si fermò, ufficiale e militare in camice bianco confabularono un po' a bassa voce, poi il secondo infilò una chiave nella toppa e la fece girare, producendo lo scrocchiare di una pesante serratura. La porta si schiuse, rivelando uno scorcio di scaffali ingombri di oggetti.
A quel punto sopraggiunse un altro marinaio, che si mise sull'attenti e riferì qualcosa. Il gruppetto, che stava per entrare nella stanza, si mosse compatto per seguire il nuovo arrivato. L'ufficiale in camice bianco si tirò dietro la porta, ma non fece scattare la serratura. I passi si allontanarono fino a scomparire.
Io vado a vedere,” annunciò Pankow.
Oh, no,” gemette Till. “Signore, la prego, andiamocene. Là fuori c'è l'idrovolante, nessuno ci ha visti. Non si ripeterà più un'occasione del genere.”
Solo un'occhiatina,” ribatté disinvolto l'ufficiale, e senza attendere risposta si diresse risolutamente verso la porta chiusa.
Schelle si passò una mano sul volto con fare esasperato. “Signore Iddio,” sospirò. Si vide già legato a un palo, con la benda sugli occhi e l'ultima sigaretta fra le labbra.
Pankow frattanto aveva raggiunto la porta, e dopo essersi guardato intorno con l'aria di un furetto che scopre un nido incustodito, stava abbassando la maniglia.
Till si appiattì maggiormente contro il muro, l'altro scivolò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle.
Ecco fatto,” sospirò tra sé e sé il radiotelegrafista.
Rimase a fissare la porta chiusa, dalla quale non proveniva il minimo rumore. Col cazzo che entro, si disse. Non sono mica stupido, io. Arretrò di qualche passo, raggiunse una finestra che dava sull’esterno: al di là si vedeva una spianata che terminava in un molo. Ormeggiato a una bitta, un bellissimo Swordfish ondeggiava appena, spinto dal movimento dolce della risacca.

Ooh!” fece Pankow, guardandosi intorno meravigliato. La stanza sembrava una via di mezzo tra un laboratorio e un magazzino ed era piena di cose strane. Da una parte c'era un siluro mezzo smontato, con il sistema propulsivo collegato a quella che sembrava una grossa batteria da camion. Lungo le pareti c'erano scaffali su cui si trovava qualsiasi cosa, dai remi ai fari da segnalazione, passando per oggetti pieni di lenti e di antenne, di cui nemmeno immaginava la funzione. Da una parte era appoggiata una semiala verniciata di uno strano colore iridescente, che sotto la luce prendeva sfumature azzurre e violacee.
In fondo alla stanza c’era una porta aperta.
Il tenente la raggiunse e guardò dentro: c’erano un ponteggio, una fossa d’ispezione e un paranco che pendeva dal soffitto, ma tutto era immacolato, senza la più piccola traccia di sporcizia.
Su uno dei banchi da lavoro c’era una grossa sfera nera e lucida, dal diametro di circa mezzo metro, irta di aculei. Pankow la raggiunse e dapprima la fissò incuriosito, poi toccò una delle protuberanze che la ricoprivano ed essa emise un breve, sinistro ticchettio.
Il tenente si ritrasse aggrottando le sopracciglia, e così facendo urtò col piede contro un carrello che si spostò cigolando.
Abbassò lo sguardo e gli occhi gli si dilatarono per la sorpresa: sulla piattaforma mobile era posato un contenitore che aveva più o meno le dimensioni di una cassetta da vino, a tenuta stagna, contrassegnato con l’aquila del Reich.
Sul coperchio c'era la scritta in rosso GeKaDoS[1].
Merda,” mormorò tra sé e sé.
Senza staccare gli occhi dalla misteriosa cassa, come se smettendo di guardarla avesse potuto scomparire, si chiese come fosse capitata lì, e naturalmente cosa ci fosse dentro. Doveva esserci roba segreta, ovviamente. Forse armi, magari documenti. La afferrò per i manici che aveva sui lati, cercò di sollevarla: non doveva contenere lingotti d’oro, anche se di sicuro non era leggera.
Sollevò lo sguardo verso la porta, poi di nuovo lo rivolse alla cassetta. GeKaDoS: quella era roba che scottava, roba segreta. Roba che non avrebbe assolutamente dovuto trovarsi in mano agli inglesi.
Senza pensarci due volte, agguantò il contenitore per i manici e fece per correre fuori.
A quel punto, la porta che dava sul corridoio si aprì ed egli vide entrare il gruppetto che se n’era allontanato poco prima: l’ufficiale con la scopa nel culo, il tizio col camice e i tre marinai.
Senza mollare la preziosa cassa, il tenente spinse il carrello sotto uno dei tavoli da lavoro, poi saltò dentro la fossa d’ispezione e si rannicchiò nell’angolo più buio di essa.
Sentì dei passi avvicinarsi. Una voce impostata e vagamente sussiegosa chiese: “Cosa sarebbe questo oggetto?”
Una mina navale sperimentale,” rispose un’altra voce, più sollecita, col tono dello scolaro che vuole mostrare le proprie conoscenze al professore. “La Crocodile. No capitano, prego, non la tocchi: basta una pressione di qualche secondo per attivarla.”
Di nuovo la voce impostata: “Che cosa accadrebbe in tal caso?”
Beh… il suo potenziale esplosivo è enorme, potrebbe squarciare senza fatica il fianco di una corazzata.”
Interessante.”
L’apprezzamento conferì alla voce sollecita una vibrante nota di entusiasmo: “Una volta attivata, la mina scompare al di sotto della nave, posizionandosi esattamente in corrispondenza della chiglia. Nessuno si accorge della sua presenza.” Il tono si abbassò di un’ottava, facendosi cospiratorio. “Al momento buono, l’ordigno abbandona la sua posizione, riemerge e comincia a ticchettare. Se a quel punto i suoi sensori incontrano una superficie solida… Boom!”
Quale sarebbe il momento buono?” domandò la prima voce, cui la pittoresca spiegazione non aveva conferito sostanziali variazioni.
Si udì un sospiro. “È questo il problema: non siamo ancora riusciti a scoprirlo. Per ora, la Crocodile abbandona la sua posizione sotto la chiglia in maniera apparentemente casuale e...”
Una terza voce, forte, rude e arrochita da una lunga consuetudine a rum e sigari, interruppe la spiegazione: “Signore, dov’è la cassa che dobbiamo portare a bordo?”
Seguirono non meno di cinque secondi di un silenzio che aveva la connotazione della tregenda.
Pankow a quel punto immaginò il gioco di sguardi fra i tizi, e poi le occhiate che sempre più ansiose dardeggiavano in giro per la stanza.
Pensò che non ci avrebbero messo molto a cominciare a guardare in giro.
Cercò di appiattirsi maggiormente contro la parete della fossa d’ispezione, ma per quanto fosse magro, neppure lui sarebbe riuscito a nascondersi in un buco vuoto.
Sentì una goccia di sudore scendergli lungo la tempia, i pensieri cominciarono a saettargli in giro per il cranio come vespe intorno a un favo molestato.
Pensò a Till, si chiese dove fosse finito, se l’avessero già preso. Pensò alla Germania, alla Schütze che lo aspettava e – perché no – pensò anche alla sua personale pelle, cui in fin dei conti era discretamente affezionato.
Si decise in un attimo: reggendo la cassa fra le mani balzò fuori dalla fossa come un tappo di champagne e cominciò a correre verso la porta con tutta la velocità che le gambe gli consentivano.
Ci furono una cacofonia di interiezioni, un tramestio e infine passi di corsa alle sue spalle. Poi si sentì afferrare per la collottola, capitombolò all’indietro, si raddrizzò con un colpo di reni. Il tizio enorme fece per strappargli la cassa di mano, lui balzò indietro, perse l’equilibrio finendo addosso all’ufficiale azzimato, che senza un attimo di esitazione cercò di abbrancarlo.
Pankow si svincolò rapido, si fece indietro, ma il sottufficiale, spalleggiato dai due marinai, gli si stava inesorabilmente avvicinando.
Senza abbandonare la cassa indietreggiò di un altro passo, finendo a ridosso di uno dei tavoli da lavoro, proprio accanto all’incombente massa nera della mina Crocodile.
L’ufficiale gli rivolse un’occhiata di degnazione, e in un tedesco che non avrebbe sfigurato in una sessione universitaria gli disse: “Sia gentile, tenente, smetta di crearci problemi.”
Vagamente ansante, Pankow fece saettare lo sguardo dall’uno all’altro degli uomini che lo circondavano, quindi fece un sorrisetto e rispose: “Spiacente, comandante…?”
James Hook,” si presentò l’altro con sussiego.
In tal caso, spiacente, comandante Hook: creare problemi è la mia specialità.” Gli tirò addosso la cassetta con un gesto repentino, quindi cercò di schizzare via, solo per essere nuovamente acciuffato dall’erculeo sottufficiale, che subito dopo lo sollevò per la collottola come se fosse stato un gatto.
In quel momento si udirono un colpo e un grido, il sottufficiale mollò la presa e si accasciò al suolo.
Alle sue spalle comparve Schelle, con un remo in mano. “Andiamo, signor tenente!” esclamò il caporale. Qualcuno cercò di colpirlo, ma Till roteò l’improvvisata arma una seconda volta, spargendo in giro meccanismi e attrezzi, ma anche abbattendo uno dei marinai. Hook si chinò per recuperare la cassetta, ma a quel punto Pankow diede una spinta alla mina Crocodile, che cadde dal tavolo sui cui era posata, finendo direttamente sulla mano del comandante. A dispetto di tutto il suo aplomb, questi gettò un grido e lasciò andare il contenitore per stringersi al petto l’arto sanguinante. Ticchettando in modo sinistro, l’ordigno prese a rotolare adagio verso la parete.
A quella vista, il tizio col camice bianco strabuzzò gli occhi e saltò a pesce nella fossa d’ispezione.
Oh, cazzo...” cominciò Pankow, ma non riuscì nemmeno a finire la frase: un’esplosione mostruosa fece saltare il muro come se fosse stato di cartone, lo spostamento d’aria ribaltò gli scaffali con tutto il loro contenuto e spedì oggetti a spiaccicarsi contro le pareti come pillacchere di fango. Polvere e fumo invasero la stanza, da qualche parte cominciò a suonare un allarme aereo. Si sentivano delle urla, la contraerea sparò qualche colpo.
Il tenente saltò in piedi, si scrollò e individuò la cassa sotto un mucchio di detriti. La afferrò per una maniglia. “Till, ci sei?” chiamò, guardandosi intorno. C’erano sagome umane in giro, ma erano talmente coperte di polvere che non si distingueva più il colore delle uniformi. “Till?”
Un cumulo di pietrisco si sollevò con un acciottolio. “Qui, signore,” disse il radiotelegrafista.
Bene, andiamo.”
Corsero fuori. Nella confusione che regnava ovunque nessuno fece caso a loro, tanto che prima di essere notati da qualcuno erano già riusciti a togliere gli ormeggi dello Swordfish, a salire a bordo con la preziosa cassa e a iniziare la procedura di decollo.
L’elica si mise in movimento, l'aereo prese velocità sul pelo dell’acqua e s’involò noncurante, mentre a terra crepitavano salve di fucileria e i Bofors 40 cercavano di piazzare qualche colpo prima che finisse fuori tiro.
Quando si furono allontananti a sufficienza, Pankow scrollò la testa e disse: “Sono ancora mezzo rintronato, Till. quell’aggeggio era veramente potente.”
Ne abbiamo uno sotto, signore,” disse il caporale per tutta risposta.
Il tenente si voltò a fissarlo inorridito. “Tu vuoi dire che noi qui sotto abbiamo uno di quei cosi che non si sa quando possono esplodere?”
Signorsì.”
Beh, non ci tengo a trasformarmi in un fuoco d’artificio dopo tutto questo casino,” rispose Pankow. Inclinò appena l’aereo per scrutare i dintorni e individuò una nave al limitare della laguna. “Lo regaliamo a quelli là,” annunciò. Tolse motore, diede una tacca di flap e scese di quota. Quando fu quasi sul pelo dell’acqua premette il pulsante di sgancio e la minacciosa palla nera cadde giù, rimbalzò un paio di volte sulle onde, quindi si inabissò proprio accanto alla nave.
Il tenente tolse i flap e ridiede motore, lo Swordfish si alzò di quota e in breve scomparve all’orizzonte.







[1] Abbreviazione di Geheime Kommandosache, corrisponde a Top Secret








Una piccola precisazione: i nomi degli “indiani” (che qui diventano indios) che si incontreranno col progredire della storia non sono inventati, ma tradotti in una lingua ormai morta del Centroamerica che la moglie di un amico, originaria del luogo, ha la fortuna di conoscere. Aggiungo qui sotto le traduzioni:

Toro in Piedi = Vaka Ména Oñembo Ýva
Giglio tigrato = Yvoty Jaguarete
Aquila volante = Taguató Ovevéva
Isola Inesistente (che non c'è) = Ypa'u Oiyva

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Capitolo 2
*** II - Peter Pankow è famoso ***


II – Peter Pankow è famoso



L'aviere semplice Hans Liefke si appoggiò con gli avambracci all'impavesata del cacciatorpediniere Walküre e lasciò vagare lo sguardo sulla superficie dell'acqua. Anche se il cielo era azzurro e senza una nuvola, le onde dell'Atlantico rimanevano di un blu cupo, a tratti quasi nero. Solo quando si sollevava qualche cresta di spuma, l'acqua prendeva una trasparenza vetrosa, blu-verdastra come certi mostri marini dei giornaletti della sua infanzia.
Si girò e alzò lo sguardo verso il motivo della sua presenza a bordo, ovvero un idrovolante Arado 196, che in quel momento oscillava adagio assicurato alla catapulta, solidale con il rollio della nave.
Si chiese come fosse essere lanciati da quel meccanismo, e da una parte si trovò a non invidiare il pilota, ma dall'altra il brivido dell'avventura e dell'azione lo pungolò facendogli emettere un sospiro come di nostalgia.
Mentre era immerso in quelle considerazioni sopraggiunse un altro aviere, coi gradi di aviere scelto. Questi lo fissò critico e disse: “Hansi, non stare al sole senza berretto. Poi ti bruci come l'ultima volta.”
Mamma e papà li abbiamo lasciati a Berlino, mi pare” fu la piccata protesta.
Appunto, quindi adesso sono io che devo preoccuparmi di te e Michael.”
Hans sbuffò infastidito e brontolò: “So badare a me stesso, Wendel.”
L'altro fece una risatina. “Con quel naso rosso? Scommetto la decade che tra un po' ti spelli come un serpente.”
Senti, ma perché non sei andato a lavorare in un nido d’infanzia, invece di arruolarti nella Luftwaffe?”
La domanda cadde nel vuoto. Anche il nuovo arrivato si appoggiò all'impavesata, socchiudendo gli occhi per il riverbero del sole. Piegò appena la testa all'indietro, lasciando che la brezza gli scompigliasse i capelli. “Che caldo,” disse dopo un po'. “Si stenta a credere che sia autunno, vero?”
Da noi starà già cadendo la prima neve.”
Se fossimo a Berlino, mamma comincerebbe a tirare fuori i cappotti pesanti,” disse Wendel. Fece una breve pausa, durante la quale fissò lo sguardo sull'ombra mobile che la semiala dell'Arado disegnava sulla coperta, poi chiese: “Ti manca qualche volta?”
Hans scosse la testa. “No, non direi.” Strinse appena gli occhi, con l'aria soddisfatta di un gatto davanti al focolare. “Mi manca solo Nana.”
Il cane?”
Sì, ma per il resto mi piace qui, si sta bene. E poi pensa: adesso siamo nel mezzo dell'Atlantico, a bordo di una nave da guerra. L'avresti mai pensato tu di capitare su una nave da guerra?”
Wendel scosse la testa.
Ti ricordi quando papà ci portò a Kiel?”
Michael non smetteva più di fare domande.”
Beh, direi che fu un'ottima cosa: per farlo stare zitto, papà ci portò a comprare lo zucchero filato.”
La conversazione si esaurì nuovamente, i due rimasero assorti a fissare le onde.
Fu Wendel dopo un po' a rompere il silenzio: “Ora è meglio che tu vada all'ombra, Hans. Non vorrai prenderti un colpo di sole.”
Oh, che palle!” sbottò l'altro.
Io mi preoccupo per te e Michael.”
Io e Michael siamo soldati. Siamo uomini.”
L'altro fece una risatina. “A diciassette anni e mezzo tu e quasi diciannove lui? Ma per piacere.”
Hans strinse le labbra. “Io scommetto che Peter Pankow non ne ha molti di più.”
Chi?”
L'altro sollevò le sopracciglia come se si fosse sentito chiedere una cosa perfettamente nota a chiunque, tipo quante gambe hanno i cani. “Il tenente Pankow è quello che ha recuperato un'importante arma segreta del Reich caduta in mani nemiche e poi è sfuggito alla cattura appropriandosi di un aereo inglese.”
Wendel scosse la testa. “Mai sentito.”
Perché tu hai sempre il naso nei tuoi libri e non leggi mai le riviste di attualità.”
Beh, io almeno ho un obiettivo,” replicò l'altro piccato. “Diventare radiotelegrafista. E poi magari, chissà, potrei anche passare alla scuola di volo.”
Hans gli rispose con una sghignazzata. “Tu che piloti un aereo? Ma se non sei nemmeno capace di andare dritto con la bicicletta.”
La navigazione e la fonia le ho già studiate e poi conosco a menadito tutta la meccanica, date le mie mansioni.”
Certo, ma pilotare è tutta un'altra cosa. Ci vuole il fegato, per pilotare. Bisogna essere come il tenente Pankow.”
Il nostro pilota ha detto che quando c'è un po' di calma mi fa fare qualche volo con lui.”
Hans alzò lo sguardo sull'idrovolante, aggrottò le sopracciglia e rispose: “Allora voglio farlo anch'io.”
Eh no, tu hai detto che non ti interessa diventare pilota.”
Non l'ho mai detto!”
Mentre stavano discutendo, si avvicinò una terza uniforme kaki. “Ciao, Michael,” disse Wendel al nuovo arrivato.
Il tenente vuole che tu vada da lui,” annunciò questi per tutta risposta. “C'è da far funzionare il coso.” Indicò la catapulta.
Ma non ci pensano Möller e Brandt di solito?”
Dice che devi andare.”
Hans lo fissò diffidente. “Non andrai a volare, spero.”
A volare?” intervenne Michael. “Wendel va a volare?”
L'altro annuì. “Dice che il tenente lo porta a fare un giro.”
Cosa? Adesso? Allora voglio andarci anch'io!”
L'ho detto prima io.”
Ma io non c'ero!”
Insomma, basta!” esclamò Wendel. “Possibile che dobbiate sempre fare i bambini?”
Gli altri due gli opposero un silenzio risentito.
Non vado a volare,” continuò il primo. “Non lo so cosa voglia il tenente. Ha detto che devo andare e io vado, d'accordo? Me lo dirà lui cosa vuole.”
Allora veniamo anche noi,” dichiarò Hans, con tono che non ammetteva repliche.

§

Il ronzio dei motorini elettrici aumentò di un'ottava, la catapulta si girò lentamente verso il mare. Il caporale Möller bloccò il movimento quando essa fu in posizione, controllò l'inclinazione dello scivolo con l'apposita manopola e aprì le valvole dell'aria compressa. Rivolse al moto ondoso l'occhiata dell'esperto, quindi alzò un braccio in un segnale positivo.
Da dentro la cabina, il tenente rispose alzando a sua volta la mano, quindi si sporse dal finestrino e gridò: “Elica!”
Subito dopo diede il contatto, il motore partì e le pale si misero in movimento. In breve, la corrente d'aria e il rumore furono così forti da impedire a tutti di parlare. Möller alzò lo sguardo verso la cabina di pilotaggio, ci fu un nuovo scambio di gesti.
Il caporale regolò a questo punto l'inclinazione della rampa, controllò sul manometro che la pressione dell'aria fosse corretta, quindi sollevò ancora la mano. Il motore dell'aereo andò lentamente al massimo dei giri. Il caporale annuì e premette il pulsante di sgancio.
Come una gigantesca fionda, la catapulta lanciò l'idrovolante verso il mare aperto. L'aereo perse qualche metro di quota, arrivando a sfiorare le onde con gli scarponi, ma subito dopo si riprese, si rimise in assetto e riguadagnò la quota perduta. Virò per mettersi in rotta e in breve non fu che un puntino nero nel cielo.
Wendel si voltò verso i due fratelli, che appoggiati al parapetto della piattaforma operativa stavano ancora scrutando l'aereo che si allontanava, e in tono severo disse: “E così, secondo voi dovevo andare a volare con il tenente? C'era un contatto, ecco cosa c'era. Uno stupido contatto. E siccome io sono il capo meccanico, ecco che il tenente mi ha chiamato per sistemarlo prima di andare in volo.”
Gli altri due mugugnarono qualcosa di inintelligibile.
Che ne dite di: scusa, Wendel, abbiamo sbagliato?” propose il maggiore.
Fanculo,” fu la risposta di Hans.
Non si dicono le parolacce,” lo rampognò l'altro.
Merda,” fu il contributo di Michael.
Ah, perfetto. Sentivamo proprio il bisogno di un'osservazione intelligente.”
Hans a quel punto sollevò il coperchio di una cassetta di servizio che si trovava accanto alla centralina dei comandi e ne trasse una copia di Signal. “Guardate qua!” esclamò.
Sulla copertina della rivista c'era nientemeno che Peter Pankow, negligentemente appoggiato al fianco di un idrovolante Arado. Il tenente portava il berretto sulle ventitré come i divi del cinema e sulla fronte gli ricadeva un irriverente ciuffo color carota. Gli occhi celesti avevano uno sguardo brillante, furbetto, come di chi sta ridendo sotto i baffi per qualche birbonata di cui nessuno si è ancora accorto. Sfida agli Inglesi, recitava una scritta rossa con tanto di punto esclamativo e sottolineatura.
Eccolo,” sospirò Hans. Fissò i presenti uno per uno e lentamente scandì: “Il tenente Pankow è sopravvissuto all'abbattimento del suo aereo, si è introdotto di nascosto in una base segreta inglese e dopo aspri combattimenti ha recuperato un'arma segreta del Reich che era caduta in mani nemiche.” Picchiettò un paio di volte l'indice sulla copertina. “Qui c'è tutto, se non mi credete. Ci sono anche le fotografie.”
Ha fatto le fotografie della base inglese?” chiese Möller in tono canzonatorio.
Intervenne a quel punto Michael: “Se anche le avesse fatte – cosa che potrebbe benissimo essere accaduta, visto che Peter Pankow sa fare tutto – di certo non le metterebbero su Signal. Quella è roba GeKaDoS.”
E che arma avrebbe recuperato?”
Non dicono nemmeno quello, ovviamente. È GeKaDoS.”
Möller alzò le spalle ostentando noncuranza. “Per me è un mare di balle,” sentenziò.
Non è vero!” fu l'indignata replica.
Mah, GeKaDoS qui, GeKaDoS là... secondo me si sono inventati tutto perché avevano un paio di pagine da riempire.”
A quel punto, Hans gli rivolse uno sguardo di degnazione e replicò: “Mi meraviglio di te. Peter Pankow è famosissimo, lo conoscono tutti, persino gli inglesi.”

§

In piedi davanti alla scrivania, le grosse braccia allacciate dietro la schiena, il signor Soak fissava il suo capitano.
Il comandante Hook sollevò lo sguardo dalla carta nautica, e invece di fissarlo su di lui lo volse verso gli oblò, dai quali si vedeva l'oceano blu scuro sormontato dal cielo di un azzurro limpido. Emise un sospiro e disse: “Io ero un eccellente pianista, signor Soak.”
Certo, signore,” rispose volenteroso il nostromo. Non che da quando conosceva Hook l'avesse mai sentito produrre una sola nota, tuttavia sapeva che spesso gli ufficiali facevano stranezze, e suonare strumenti musicali era una delle più frequenti.
Hook abbassò lo sguardo sulla propria manica sinistra, dalla quale spuntava un lustro uncino di metallo, e in tono amaro soggiunse: “Sarebbe più esatto dire che amavo suonare, oppure che suonare era la mia stessa vita, ma quell'infame moccioso teutonico non mi ha lasciato nemmeno la consolazione di suonare Ravel.”
Domando scusa, signore?”
Il concerto per la mano sinistra. Le dice nulla, signor Soak?”
Ecco, veramente no, signore.” Pensò che non fosse il caso di spiegare al capitano quale fosse il suo personale concetto di concerto per la mano sinistra. “Nossignore,” ripeté. Tossicchiò un paio di volte.
Anche Prokofiev ne scrisse uno,” disse il comandante, senza nemmeno fare caso al suo imbarazzo. “Per Paul Wittgenstein.”
Sissignore.”
Il fratello del filosofo,” precisò Hook.
Soak annuì con impegno. “Ah, ma certo, signore,” rispose volenteroso. “Il fratello.”
Il comandante volse gli occhi verso di lui, sollevò un sopracciglio e si lisciò i baffi. Tornò alla scrivania. “Venga qui, nostromo,” ordinò poi.
Il sottufficiale fece un passo avanti.
Con l'uncino, Hook agganciò la maniglia di un cassetto e lo aprì. Ne trasse una rivista che posò solennemente sul piano del mobile. Fissò serio il sottufficiale e gli chiese: “Che ne pensa, signor Soak?”
L'altro si chinò sul periodico. “È in tedesco, signore,” disse raddrizzandosi.
Il suo spirito d’osservazione è encomiabile, signor Soak.”
Faccio del mio meglio, signore.”
Hook indicò l'immagine di copertina, che rappresentava un pilota dall'aria simpatica e un po' sfrontata, col berretto sulle ventitré, in posa accanto a un idrovolante. “Riconosce questa sottospecie di catamite, nostromo?”
Giunse pronta la risposta: “È quello là, signore.”
Con minacciosa lentezza, Hook sollevò l'uncino, che scintillò biecamente sotto le luci della cabina. “Quello che mi ha fatto questo.”
Sissignore.”
L'uncino calò a strappare in due la copertina, di fatto decapitando lo sfrontato pilota dell'immagine. Hook sorrise fra sé e sé, poi chiese: “Lo sa cosa dicono i cinesi, signor Soak?”
Veramente no, signore.”
Dicono: siediti sulla riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico.”
Il nostromo ruppe la posizione di riposo per grattarsi la testa, quindi perplesso chiese: “Signore, ma non è in India il fiume dove buttano i cadaveri?”
In tono tagliente, il capitano replicò: “Non sia sempre così concreto, signor Soak: nel linguaggio parlato esistono anche similitudini e metafore. Intendevo semplicemente dire che il Fato prima o poi colpisce anche chi ci ha fatto un torto, pagandolo con la stessa moneta.” Si alzò in piedi con un movimento elegante, di nuovo raggiunse l’oblò. Sotto la luce che proveniva dall’esterno, l’uncino ebbe un luccichio sinistro. Hook strinse gli occhi, le labbra gli si stirarono in un sorrisetto minaccioso. “Io so che ci incontreremo di nuovo,” confidò al nostromo.
Soak mantenne un cauto silenzio.
Non ho fretta,” spiegò allora il capitano. “So aspettare. Potrà succedere fra un mese, fra un anno o fra dieci, ma so che succederà, e quel giorno...” Con un balzo che fece sussultare il nostromo si avventò sulla rivista e vi piantò di nuovo l’uncino, passandola da parte a parte.


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Capitolo 3
*** III - Si cerca nuovo personale ***


Salve gente!
Eccomi qui, non sono scomparso. Grazie come sempre a tutti quelli che sono passati da queste parti!!






III – Si cerca nuovo personale



Il tenente Pankow aprì gli occhi con la sensazione che da qualche parte ci fosse qualcosa di molto strano e probabilmente anche molto sbagliato.
Fece scorrere lo sguardo sulla cabina: la sua uniforme appesa a un chiodo, un paio di fotografie di aerei appiccicate alle pareti, il tavolino con sopra una lettera che gli era arrivata da casa e una copia di Signal, il lavandino.
Tutto nella norma, apparentemente.
Anche i rumori erano a posto: il macinare cupo dei diesel qualche ponte più in basso, la prua che tagliava le onde, il rubinetto che sgocciolava.
Si passò una mano sul viso, strinse gli occhi infastidito dalla luce che entrava dall’oblò e a quel punto gli fu chiaro quale fosse il problema: il sole era già alto.
A quell’ora avrebbe dovuto essere fuori per il primo giro di ricognizione.
Si mise a sedere, di nuovo tese l’orecchio alla ricerca di qualche rumore sconosciuto al di là della porta.
Possibile che durante la notte fossero arrivati gli inglesi e avessero preso la nave? Scosse la testa: come avrebbero potuto, senza sparare nemmeno un colpo di fucile?
Si alzò in piedi, si avvicinò alla porta e la schiuse cauto: il corridoio era vuoto.
Il che non voleva dire nulla, naturalmente, in nessuna unità di superficie della Kriegsmarine la gente bighellonava nei corridoi, tuttavia la sensazione che da qualche parte ci fosse qualcosa di sbagliato continuava a tormentarlo.
Si vestì e uscì in coperta. Alzò gli occhi sulla catapulta e a quel punto proferì con sentimento un’imprecazione che fece emettere un fischio di meraviglia a un paio di marinai.
La parte anteriore dell’aereo era coperta da un telone cerato. Sulla piattaforma di servizio, due pezzi della capottatura del motore rollavano solidali col movimento della nave.
Corse su per la scaletta che conduceva alla catapulta, raggiunse l’idrovolante, sollevò un lembo della copertura: metà del motore giaceva sparsa in cassette sistemate tra gli scarponi del velivolo.
Oh, merda!” esalò disperato.
Si guardò intorno: i meccanici non si vedevano da nessuna parte.
Eppure avrebbero dovuto essere lì a lavorare come matti sull’aereo per la revisione giornaliera, revisione che, peraltro, avrebbe dovuto essere eseguita la sera prima. Perché era tutto smontato e sparso in giro?
A quel punto giunse dal basso la voce del suo radiotelegrafista: “Signor tenente! Meno male che l'ho trovata!”
Pankow corse ad affacciarsi alla ringhiera. “Till! Che cosa sta succedendo?”
Venga, signor tenente.” Poi, a voce più bassa: “Mi promette che non si arrabbia?”

Quella dove Schelle lo condusse era l'infermeria. Pankow si guardò intorno, infastidito dall'odore di medicinali che vi regnava, e per prima cosa ebbe la tentazione di girarsi e scappare via come faceva da ragazzino quando sua madre lo portava dal dottore. A un più attento esame prevalse però un barlume di senso del dovere ed egli perplesso chiese: “Che cosa ci facciamo qui?” Nella sua mente si agitarono fugacemente alcuni spettri: Punture. Vaccinazioni. Cose brutte e dolorose.
Inconsapevolmente rinculò verso la porta.
Si tratta di Pirchstaller e Lipczinski, signore,” spiegò Schelle premuroso.
Pankow interruppe la ritirata strategica. “Prego?”
Hanno avuto un incidente.”
L'ufficiale aggrottò le sopracciglia. “I meccanici? Come sarebbe a dire che hanno avuto un incidente?”
Venga,” lo invitò l'altro per tutta risposta.
Oltrepassarono una porta ed entrarono nella camera di degenza, dove un dottore e due infermieri stavano passando di letto in letto.
All'apparire del tenente, il capitano medico abbandonò il giro visite e lo raggiunse. Lo fissò con disapprovazione e lapidario proclamò: “Queste sono le nefaste conseguenze dell'ebbrezza etilica.” Indicò due letti, occupati da altrettanti corpi.
Il tenente li raggiunse e si chinò sui degenti: Lipczinski giaceva in apparenza stecchito, con una voluminosa fasciatura intorno alla testa. Prichstaller era vigile e accettabilmente lucido, ma con una gamba e un braccio ingessati. “Ci scusi tanto, signor tenente,” disse questi in tono contrito.
Che cos'è successo?”
L’Aviere assunse un'espressione di profondo imbarazzo. “Non volevamo fare niente di male,” avvisò per prima cosa.
Sarebbe a dire?”
Intervenne a quel punto il medico: “Tre bottiglie di Schnaps. Scolate fino all'ultima goccia.”
Il tenente fissò Pirchstaller, che si strinse nelle spalle e con aria contrita spiegò: “Volevamo festeggiare l'articolo di Signal.”
Oh, merda,” sospirò Pankow. Meccanici fuori combattimento significava aereo fuori combattimento. Si rivolse all'ufficiale medico e in tono speranzoso chiese: “Ne avranno per due o tre giorni, vero?”
Per due o tre mesi, come minimo,” fu l'asciutta replica.
Cosa?” boccheggiò il tenente.
Frattura parietale con sospetta emorragia subaracnoidea e trauma cervicale per il letto numero tre, frattura scomposta di tibia e perone, frattura di radio e ulna in tre punti diversi al letto quattro. Dovranno essere sbarcati quanto prima e inviati in un ospedale in Patria.”
Il tenente, che di tutta la spiegazione aveva capito solo le ultime cinque o sei parole, riabbassò gli occhi sul sempre più contrito Pirchstaller, che con la sua larga parlata da tirolese, volenterosamente spiegò: “Io e Franz avevamo messo da parte un po' di bottiglie per le occasioni speciali, signore, e quando abbiamo visto quell'articolo su Signal abbiamo pensato che fosse arrivato il momento di stapparne una.”
E le altre due?”
Per quanto glielo consentivano le medicazioni, il meccanico si strinse nelle spalle. “Eravamo là fuori a lavorare... eravamo molto fieri di lei...” Il resto della spiegazione si perse in un mormorio inintelligibile.
E sono caduti dalla scala della piattaforma,” concluse severo il medico.
E mentre Pankow contemplava annichilito la tragedia, sopraggiunse un marinaio che si mise sull'attenti, salutò e annunciò: “Signor tenente, il signor comandante von Stauff la vuole vedere.”

Il tenente Pankow considerò fra sé e sé che già l'anticamera dell'ufficio di von Stauff era inquietante. L'unica nota di colore, in effetti, era il ritratto del Führer. Per il resto, c'erano un paio di fotografie di navi risalenti alla Grande Guerra, un ritratto dell'Imperatore e una bacheca con disposizioni e fogli d'ordini. Da un lato si trovava una piccola scrivania alla quale sedeva l'aiutante di von Stauff, un segaligno giovanotto con gli occhiali cerchiati d'oro e una scriminatura che sembrava un colpo di mannaia.
A parte il sottofondo ovattato dei motori, l'unico suono che si udiva nella stanza era il ticchettio della macchina da scrivere.
Entri pure senza bussare,” gli comunicò l'aiutante.
Sulle prime Pankow ebbe la tentazione di girarsi e uscire, poi il solito barlume di senso del dovere prevalse ed egli abbassò la maniglia.
Il capitano di vascello Wilhelm von Stauff sedeva alla propria scrivania ieratico come una statua del Duomo di Colonia. Rispose al suo saluto con un sobrio cenno del capo, quindi disse: “Si avvicini, tenente.”
Pankow coprì la distanza che lo separava dall'alto ufficiale elaborando mentalmente scuse in grado di giustificare il mancato volo di ricognizione.
Alla fine tentò con: “Faccio rispettosamente presente al signor capitano di vascello che i miei meccanici hanno avuto un grave incidente, per cui...”
Von Stauff sollevò su di lui uno sguardo che tagliava come una fiamma ossidrica. Pankow ritirò appena la testa fra le spalle. “Per cui...” ripeté, con voce già più incerta. Una seconda occhiata dell'ufficiale lo convinse a tacere.
A quel punto, von Stauff chiese: “Tenente Pankow, le è nota la fondamentale importanza del dispositivo che ha recuperato nel corso del suo atterraggio di fortuna dietro le linee inglesi?”
Il più giovane fu pervaso dal pernicioso senso di inadeguatezza che normalmente lo coglieva a scuola, quando lo sguardo implacabile del professore sembrava leggere come su una pagina stampata quanto poco avesse studiato. Deglutì e rispose: “Sissignore.”
Von Stauff rimase impassibile. “L'oggetto di cui lei si è fortunosamente impossessato è il dispositivo ombra,” dichiarò.
Alla frase seguì un silenzio in cui si sarebbe sentito cadere uno spillo. Pankow frattanto rifletteva furiosamente: avrebbe dovuto saperlo? Forse era una cosa che insegnavano in ogni corso ufficiali? Sarebbe stato tenuto a informarsi una volta riportato a bordo l'aggeggio?
L'altro strinse appena le labbra, quindi si alzò e raggiunse una carta del Mar dei Caraibi appesa alla parete dietro la scrivania. Raccolse una canna d'India e la puntò verso quello che al tenente parve il bel mezzo dell'oceano.
Questi fece un passo avanti e aguzzando la vista al massimo si accorse che nella posizione che von Stauff stava indicando c'era un puntino nero.
Gli indigeni la chiamano Ypa'u Oiyva, ovvero isola che non c'è, perché prima della moderna cartografia veniva raggiunta perlopiù casualmente. Essendo perfettamente equidistante dalle coste di Nicaragua, Giamaica, Panama e Colombia, è stata valutata il luogo ideale in cui installare il dispositivo ombra.”
Pankow annuì con l'aria di trovare tutto ciò perfettamente logico. Più il capitano di vascello parlava, più lui si convinceva che in realtà conoscere a menadito il dispositivo ombra sarebbe stato un suo preciso obbligo, al quale naturalmente non stava ottemperando; ma più procedeva la conversazione, più diventava difficile ammettere che in realtà non aveva idea di cosa fosse. Optò per mantenere un circospetto silenzio, rimanendo in attesa di ulteriori sviluppi.
Due giorni fa è stata inviata sul posto una squadra,” riprese il comandante, tornando a sedersi alla scrivania, “teoricamente avrebbe dovuto piazzare il dispositivo ombra, accertarsi del suo corretto funzionamento e comunicare sulla frequenza riservata l'avvenuta installazione, ma sta mantenendo un completo silenzio radio e non capiamo perché. I tentativi di contatto da parte della Schütze sono falliti, per cui non siamo in grado di capire se siano venuti in contatto con unità nemiche o se abbiano avuto un'avaria di qualche genere.” Fece una pausa, quindi concluse: “Allo stato attuale, non siamo nemmeno in grado di sapere se sono vivi o morti.”
È increscioso, signore,” interloquì premuroso Pankow.
Sempre impassibile, von Stauff proseguì: “Quindi lei andrà in ricognizione con il suo velivolo, perlustrerà le coste alla ricerca del natante o di un suo eventuale relitto e sorvolerà l'entroterra. Qualora le condizioni lo richiedessero, è autorizzato ad ammarare ove le condizioni ambientali e tattiche lo consentono per recuperare i superstiti.”
Ecco, signore...” cominciò Pankow a disagio, ma l'altro soggiunse: “Il tenente di vascello Rogge le darà tutte le informazioni del caso, le fornirà le carte necessarie per la navigazione e tutto ciò che lei riterrà utile per la missione.”
Signore, c'è un problema,” si decise a dire il più giovane.
Negli occhi chiari di von Stauff si accese una luce gelida. “Che genere di problema?”
Il tenente Pankow deglutì. “Ecco, signore, l'aereo non è operativo.”
Di nuovo calò nell'ambiente un silenzio siderale. “Come sarebbe a dire che non è operativo?” chiese von Stauff con voce tagliente.
Il tenente si strinse nelle spalle.
Seguì un fuoco di fila di domande: “Da quando non è operativo? Per quale ragione? Come mai ne vengo informato solo adesso?”
Pankow rifletté velocemente. I miei meccanici si sono ubriacati come scimmie, hanno smontato mezzo motore, ne hanno distribuito i pezzi in cinque o sei cassette diverse e poi sono rotolati giù dalla piattaforma fratturandosi anche ossa che non pensavano di avere in corpo gli parve una risposta decisamente fuori luogo. Optò per un più neutro: “I miei meccanici non sono operativi, signore.”
Per quale motivo?”
Il tenente aggirò con grazia la domanda: “Se i meccanici non sono operativi, nemmeno l'aereo lo è. Allo stato attuale non posso volare, signore.”
Von Stauff aggrottò appena le sopracciglia. Rimase per qualche secondo immobile in atteggiamento meditabondo, infine in tono neutro proferì: “Si ritenga congedato, tenente.”

Pankow non se lo fece dire due volte. Uscì dall'ufficio del comandante con la velocità di un animale che abbandona una foresta in fiamme, e una volta che fu a distanza di sicurezza si concesse anche un sospiro di sollievo.
Tornò in coperta. L'aereo era ancora sulla sua catapulta, con il telo che pudicamente copriva lo sfacelo del motore e i pezzi della capottatura che ondeggiavano lenti.
Seduto sulla scala di ferro che conduceva alla piattaforma operativa, Till Schelle aveva l'aria di chi ha appena subito un tremendo lutto. “Gli volevo bene, signore,” confidò al tenente quando lo vide comparire. Con fare significativo alzò gli occhi verso la catapulta e il suo triste carico.
Il tenente sollevò a sua volta lo sguardo, quindi gli chiese: “Sai mica dove quei due abbiano nascosto lo Schnaps rimasto? Adesso avrei proprio bisogno di un goccetto.”
Pirchstaller conta di tornare a bordo dopo la convalescenza, quindi figurarsi se lo dice, e Lipczinski è steso. Mi sa che dovremo rassegnarci all’acqua, signore.”
Se fossimo inglesi, almeno avremmo il tot di rum tutti i giorni.”
Sì, ma poi saremmo inglesi, signore.”
Ineccepibile, direi.”
Porteremmo la bombetta e l’ombrello, signore.”
Berremmo il tè,” rincarò l’ufficiale.
Parleremmo del tempo.”
Pankow ci pensò un po’ su. “Meglio l’acqua,” concluse.

§

Il capitano di vascello Franz Albach, comandante del cacciatorpediniere Walküre, abbassò il foglio sui cui era stato riportato in chiaro il messaggio cifrato giunto dalla corazzata tascabile Schütze.
Chissà cosa sta combinando il vecchio von Stauff,” disse rivolto al suo secondo.
Perché, signore?” chiese l’ufficiale, un tenente di vascello alto, con le spalle larghe e la croce di ferro di prima classe appuntata sul petto.
Per tutta risposta, il comandante fece scivolare verso di lui il messaggio.
Questi lo lesse, sollevò le sopracciglia e chiese: “Cosa diavolo sarebbe successo ai meccanici del suo idrovolante?”
Albach alzò le spalle. “Sembra che abbiano avuto un incidente. Qualunque cosa significhi.”
Il tenente scosse la testa. “I piccioni creano sempre problemi.”
I piccioni?”
Quelli della Luftwaffe. Piccioni. Se ne dovrebbero stare nei loro nidi sulla terraferma, invece di venire a dar fastidio ai marinai.”
Il comandante recuperò il foglio, lo scorse nuovamente, quindi chiese: “Abbiamo qualcuno da mandargli?”
I fratelli Liefke,” fu la pronta risposta. “Tre mocciosi inutili di Berlino, decisamente più adatti a un asilo infantile che alla coperta di una nave da guerra. Noi ci teniamo gli altri due, Brandt e Möller, che mi sembrano un po' meglio, più il pilota. Sono più che sufficienti.”

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Capitolo 4
*** IV - Problemi di convivenza ***


Salve gente, ecco qui un altro capitolo. Eravamo rimasti alla necessità di nuovo personale per rimettere l’aereo in condizioni di volo, ma spesso risolvere un problema significa crearne un altro…
Grazie come sempre a tutti quelli che mi seguono, e un ringraziamento speciale a chi mi lascia anche un commento!^^










IV – Problemi di convivenza






In piedi accanto ai loro zaini, facendo del loro meglio per mantenere l’equilibrio nonostante il rollio, i tre fratelli Liefke tenevano lo sguardo fisso su una lancia che dalla corazzata Schütze si stava muovendo nella loro direzione.
Il pur pesante battello, flagellato senza posa dal vento teso, saltava come un guscio di noce sulle onde crestate di spuma. Spruzzi d'acqua piovevano senza posa sull'equipaggio, facendo luccicare le cerate sotto il sole dei Caraibi.
I tre, che invece indossavano l'uniforme tropicale della Luftwaffe, contemplavano afflitti la prospettiva di arrivare alla fine della traversata completamente fradici.
La lancia ebbe un sussulto, balzò su un'onda particolarmente alta come una specie di cavallo selvaggio, poi ricadde imbarcando una secchiata d'acqua salmastra. Uno dei marinai prese la sassola e cominciò sgottare con l'aria placida del garzone che spazza il pavimento del negozio.
Dei due feriti che c'erano a bordo, quello incosciente se ne stava immobile al centro del natante, coperto da una cerata che gli lasciava fuori solo mezza faccia, l'altro a ogni ondata si rannicchiava per quanto glielo consentivano gli arti ingessati, e da come gli si muoveva la bocca sembrava intento a imprecare con veemenza.
Sulla coperta del Walküre le cose non andavano meglio. Una volta lontani dall'egida dell'aereo – un sinistro macchinario verso il quale i marinai nutrivano il misto di meraviglia e diffidenza dei selvaggi che vedono il fuoco – i tre fratelli Liefke erano inesorabilmente crollati al rango di marmittoni idioti, per di più digiuni di qualsiasi conoscenza nautica, ed erano ricoperti da ondate di disprezzo, più che d'acqua salmastra.
“Via, terrazzani,” disse passando un marinaio, “qui dobbiamo manovrare.”
I tre si fecero indietro e rimasero in piedi con la testa fra le spalle, stretti l'uno all'altro come pinguini sul pack.
“Via, ho detto!” ripeté l'altro. Strattonò una cima che si trovava proprio sotto i loro piedi. “Se non sapete niente di manovre, stupidi terrazzani, almeno statevene fuori dalle palle!”
I Liefke si rifugiarono ai piedi della scaletta che portava alla catapulta e da lì rimasero ad attendere lo svolgersi degli eventi.


La lancia arrivò e fu assicurata al Walküre da un paio di cime. Hans si sporse a guardare e si ritrasse inorridito. Fece girare lo sguardo intorno, come aspettandosi che qualcuno intervenisse dicendo che sarebbe stato umanamente impossibile con quelle onde passare dal cacciatorpediniere al piccolo natante, ma nessuno sembrava minimamente turbato dall'eventualità. “Sbrigatevi,” disse anzi un graduato, muovendo la mano come per dirigere il traffico, “non abbiamo tutto il giorno.”
Intervenne Wendel, che col tono di chi affronta la morte chiese: “Dobbiamo andare laggiù?”
“E in fretta, anche. La Schütze sta già segnalando di mollare gli ormeggi.”
Allineati come salsicce, tra le sghignazzate dei marinai assiepati lungo l'impavesata, i tre si trovarono a scendere lungo una scala a pioli stretta, scivolosa e sempre più vicina a onde che ai loro occhi di terrazzani sembravano quelle dell'Olandese Volante.
Nel frattempo un bansigo stava issando l'aviere ingessato, che passando li salutò con la mano sana.
Giunsero infine a bordo. Dopo di loro piovvero, legati insieme da una sagola, i tre zaini, che finirono con precisione nella pozza che si era formata sul fondo della lancia.
Poi il Walküre virò e si allontanò, lasciandoli in balia delle onde.
“La nostra casa va via,” pigolò Michael seguendo con lo sguardo il cacciatorpediniere, che ormai mostrava sdegnosamente solo la poppa.
“Quella non era la nostra casa,” replicò Wendel. “Era solo dove prestavamo servizio. Un posto vale l'altro, per il servizio.”
“Non ho salutato il tenente Voss.”
“Tanto non ci distingueva nemmeno uno dall'altro, ci chiamava tutti genericamente Liefke.”
“Non ho finito di incidere le mie iniziali sulla catapulta.”
“Michael!” protestò Wendel indignato, “Non si fanno queste cose!”
“Le ho incise anch'io,” intervenne Hans compiaciuto.
La rivelazione coincise con l'arrivo della lancia presso la corazzata tascabile.
I tre guardarono in su: da quella posizione, la fiancata della Schütze era una specie di bastione inviolabile, in cima al quale si era già raccolta una temuta fila di giubbe bianche. La scala a pioli che si perdeva verso l'alto dava le vertigini.
“Forza!” li incitò genericamente uno dei marinai della lancia. Si accese una sigaretta, schermandola con consumata abilità dagli spruzzi che provenivano da ogni parte.
Giunse ondeggiando un paranco, al quale furono assicurati gli zaini. Wendel li fissò con nostalgia mentre salivano e poi scomparivano oltre l'impavesata. Emise un sospiro.
“Forza,” ripeté il marinaio, manovrando una gaffa per tenere la lancia adeguatamente discosta dalla murata della Schütze. “Vorrei anche tornarmene a bordo, se a lor signori non dispiace.”
Si fece avanti a quel punto Hans. Si aggrappò alla bell'e meglio alla scaletta e cominciò a salire. La nave si alzava e si abbassava con un movimento poderoso, che ogni volta gli rimescolava tutte le viscere in corpo. Quando andava in su, gli sembrava che volesse schiacciarlo contro la volta celeste come una zanzara su un vetro; quando andava in giù, gli dava l'idea di volerlo precipitare nelle più cupe profondità dell'oceano.
Continuò a salire. Ogni gradino maldestramente superato era salutato dai marinai con lazzi e sghignazzate. Uno arrivò addirittura a sporgere dall'impavesata il deretano nudo, consigliandogli di tenerlo come punto di riferimento per l'ascensione.
Hans raggiunse infine la coperta, adocchiò delle uniformi kaki e subito le raggiunse, con l'istinto sicuro dell'animale che riconosce i suoi simili.
A quel punto si immobilizzò come se fosse andato a sbattere contro un muro. “Peter Pankow!” esclamò.
Fece un passo indietro senza riuscire a capacitarsi di quello che stava vedendo: in piedi davanti a lui, con tanto di berretto sulle ventitré ed espressione simpatica e un po' sfrontata, c'era il tenente Peter Pankow, quello della sfida agli inglesi, quello che aveva recuperato dopo aspri combattimenti un'arma segreta del Reich.
“Ciao,” disse disinvolto l'oggetto della sua meraviglia. “Sei il nuovo meccanico?”
“Peter Pankow,” ripeté Hans. “oh mio Dio, Peter Pankow!”
“Sì, è il mio nome,” fu la disinvolta risposta. “Sai anche aggiustare gli aerei, oltre a ripetere come mi chiamo?”
“Io...” Hans si ricordò improvvisamente della disciplina. Scattò sull'attenti e a voce alta e chiara scandì: “Aviere semplice Hans Liefke a rapporto, signore! Sono un meccanico, signore!”
Nel frattempo erano sopraggiunti gli altri due, che a loro volta assunsero la posizione prescritta e scandirono:
“Aviere semplice Michael Liefke a rapporto, signore!”
“Aviere scelto Wendel Liefke a rapporto, signore!”
L'ufficiale parve perplesso. “Tutti Liefke?” chiese.
Vagamente imbarazzati, i tre annuirono.
Con noncuranza Pankow replicò: “Beh, vorrà dire che vi chiamerò per nome. Dicevi che sei un meccanico, Hans?”
“Sissignore.”
“Qualcun altro sa mettere le mani nel motore di un aereo?”
Michael alzò la mano.
Il tenente annuì soddisfatto, poi si rivolse a Wendel e gli chiese: “E tu?”
“Sono radiotelegrafista e mitragliere, signore.”
La cosa parve fare un gran piacere all'ufficiale, che si puntò i pugni sui fianchi e ripeté: “Radiotelegrafista e mitragliere? Allora dovremo fare qualche voletto insieme, una volta o l'altra! Come hai detto che ti chiami?”
“Wendel Liefke, signore.”
“Ah, Wendel. Un radiotelegrafista, nientemeno.” Si girò verso un caporale che fino a quel momento non aveva aperto bocca e disse: “Un radiotelegrafista, hai sentito?”
Il graduato grugnì qualcosa di inintelligibile, ma dal suono indubbiamente poco entusiasta.
Il tenente non se ne diede per inteso. Indicò la catapulta, sulla quale l'aereo era ancora coperto dal telo come la vittima di un incidente stradale, e disse: “Andate lassù, ragazzi miei, e fatemi vedere quello che sapete fare. No, tu no Wendel. Tu ed io dobbiamo parlare di cose molto importanti.”


Seduto su una bitta un po' in disparte, Till scrutava torvo Peter Pankow che parlava con quel tale Wendel Qualcosa.
Così d'acchito gli pareva un ragazzetto senza nessuna esperienza, uno che non sapeva distinguere un identificativo Morse da una segnalazione di avaria, ma ormai conosceva bene il suo tenente e sapeva quanto lo elettrizzassero le novità.
Un nuovo radiotelegrafista, per esempio, era una cosa in grado di accendere prepotentemente il suo entusiasmo.
Razionalmente gli era ben noto che gli entusiasmi di Pankow si accendevano rapidi e con la stessa velocità si spegnevano, ma a livello emotivo non riusciva a convincersene del tutto.
Il tenente era un ragazzino mai cresciuto, un irresponsabile, uno sfrontato, uno che non sapeva comportarsi, che affrontava qualsiasi cosa con una noncuranza disarmante, ma era pur sempre il suo tenente.
Suo, non del primo radiotelegrafista che si presentava a pavoneggiarsi fresco di scuola.
E non era la momentanea fama di Pankow a renderlo geloso, ma la consuetudine che giocoforza, dopo mesi di guerra passati insieme, si era instaurata fra loro. Era lui che sapeva come il tenente voleva la fonia, era lui che sapeva tracciare le rotte sulla cartina nel modo che il tenente preferiva, ed era sempre lui, quando c'era da combattere, che sapeva brandeggiare la mitragliatrice in perfetta sincronia con il suo volo erratico e velocissimo.
Lui, non un moccioso qualsiasi di cui il Walküre si era liberato senza rimpianti, come avrebbe fatto con uno scarto.
Si puntò i gomiti sulle cosce e appoggiò il mento alle mani. Dalla catapulta proveniva il rumore del lavorio frenetico degli altri due mocciosi, che senza nemmeno appoggiare gli zaini sulle loro cuccette si erano fiondati a sistemare il motore dell'Arado.
Si augurò che sapessero cosa stavano facendo, e subito dopo si augurò che non lo sapessero e che Pankow decidesse di andare a fare il volo di prova con il suo nuovo e bravissimo radiotelegrafista, così competente e simpatico.
Rivolse loro un’occhiata poco amichevole: stavano parlando fitto fitto di faccende radiofoniche, li sentiva benissimo. Non poté fare a meno di notare che per quanto lui si trovasse perfettamente nel campo visivo di Pankow, egli evitava di chiamarlo. Anzi, gli pareva addirittura che stesse facendo finta di non vederlo.
Evidentemente non voleva essere disturbato, mentre si intratteneva con il suo nuovo e bravissimo radiotelegrafista.
Si alzò e si girò per andarsene, badando di farlo in un momento in cui Pankow stava guardando nella sua direzione.
Il tenente si limitò a fargli uno sbrigativo cenno di saluto con la mano, quindi tornò a dedicare la sua attenzione al nuovo arrivato.


§


L’Arado 196 sembrava di nuovo un aereo. Non aveva più il telo che lo copriva per metà e le cassette che avevano contenuto i pezzi di motore erano tutte vuote e ordinatamente impilate da una parte. Le capottature erano tornate al loro posto.
I due ragazzotti, unti e macchiati fin sopra i capelli dopo aver lavorato diverse ore, erano fermi sull’attenti. In quella posizione avrebbero dovuto mantenere un’espressione impassibile, possibilmente con lo sguardo fiero rivolto all’infinito, ma non riuscivano a impedirsi di sorridere compiaciuti.
Pankow si avvicinò sorridendo a sua volta da un orecchio all’altro. Contemplò il velivolo redivivo e disse: “Magnifico, ottimo lavoro! Non vedo l’ora di fare un giro di prova. C’è benzina?”
Si fece avanti Schelle, che in tono vagamente ammonitore disse: “Ma signore, sono quasi le effemeridi.”
“C’è ancora un sacco di luce,” fu la disinvolta risposta, “e poi staremo via poco.” Si rivolse a Wendel: “Giusto un giretto, che ne dici?”
“Come vuole lei, signore.”
Il tenente si rivolse a Schelle: “Sai far funzionare la catapulta, vero?”
“Io sono un radiotelegrafista,” dichiarò Till piccato.
“Oh, dai,” Pankow fece un gesto di noncuranza, “per premere due bottoni non ci vuole certo la laurea.”
“Potrei sbagliarmi e farla finire in acqua, signore,” fu la velenosa risposta, che però non scalfì minimamente l’adamantino entusiasmo dell’ufficiale.
“Siamo ai Caraibi,” rispose infatti Pankow, “c’è gente che paga per finire in acqua da queste parti.” Poi, a voce più alta: “Tutti a bordo, ragazzi! Si fa un giretto di prova!”


“Come vuole lei, signore,” ripeté Schelle facendo la vocina da smorfiosa. Poi, in un ringhio cupo: “Specie di stronzetto.”
La catapulta aveva funzionato correttamente, l’Arado si era involato e stava diventando sempre più piccolo in un cielo che ormai andava assumendo le sfumature rosa e viola del tramonto. Till immaginò il volo sul Mar dei Caraibi blu cupo, la comparsa di Vespero sull’orizzonte, il baluginio degli ultimi raggi di sole.
Pankow non aveva mai volato con lui a quell’ora. Quando c’era da volare con lui ci guardava eccome, alle effemeridi. Non ne sbagliava una.
Immaginò il rientro: il tenente e gli stronzetti – lo erano diventati anche gli altri due, per estensione – che parlavano fra di loro, che rievocavano ridacchiando episodi da cui lui era escluso.
E lui in un angolo come un povero scemo, a guardarli mentre si divertivano.
Provò di nuovo a ripetersi che Pankow era come una specie di cane da caccia, che correva dietro a ogni pista però alla fine tornava sempre indietro, che nonostante l’apparente spensieratezza era uno che sapeva riconoscere il vero valore delle persone, ma di nuovo la cosa non riuscì a convincerlo.
Si chiese se esistesse qualcosa che Peter Pankow prendeva seriamente. La guerra, ad esempio, non sembrava minimamente instillargli quel senso di reverente timore che in generale suscitava nell’animo di chiunque altro. L’autorità era il bersaglio di scherzi da scolaro discolo, il nemico stesso era qualcosa come la banda di ragazzini del quartiere vicino, con cui ci si picchiava furiosamente, ma così, tanto per giocare, e poi ognuno tornava a casa propria.
Aveva il coraggio di Sigfrido o l’irresponsabilità noncurante di un bambino mai cresciuto? Un dubbio che probabilmente non sarebbe mai riuscito a togliersi.



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Capitolo 5
*** V - Si parte per la missione ***


Gente mia, ecco un altro capitolo del mappazzone. Con pazienza ci stiamo avvicinando all’obiettivo e stiamo entrando nel vivo della vicenda.
Grazie come sempre a tutti quelli che sono passati da queste parti e un grazie particolarmente sentito a chi mi ha lasciato un commento!^^








V – Si parte per la missione



A oriente il cielo si stava colorando di arancione. Sotto la volta celeste azzurro cupo, ancora punteggiata delle ultime stelle, l’acqua era di un blu metallico, a tratti screziato d’oro laddove i primi raggi danzavano sulle lievi increspature della superficie. L’aria conservava il fresco della notte e portava con sé il profumo vago della costa, suadente e carico di promesse.
La lieve brezza faceva tintinnare appena le sagole contro i pennoni delle bandiere, creando uno scampanellio lontano, vago, fatato in quell’atmosfera sospesa.
D’un tratto si udì un canto. Una voce giovane e vigorosa intonava una vecchia canzone militare: Al mattino presto, quando i galli cantano.
Un gabbiano, che aveva scelto la torretta dei cannoni prodieri per trascorrere la notte, si alzò in volo con uno strido di disappunto e si allontanò con grandi battiti d’ala.
Comparve il tenente Pankow, che evitando con eleganza i marinai intenti a pulire il ponte di coperta, senza smettere di cantare, procedeva di buon passo verso la catapulta.
Lo seguivano, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi, i tre fratelli Liefke. Buon ultimo, con le mani allacciate dietro la schiena e lo sguardo torvo di Napoleone alla battaglia di Lipsia, camminava Schelle.
Oggi è la giornata perfetta per volare!” esclamò Pankow interrompendo i vocalizzi. Sottrasse con abile mossa la redazza a un marinaio, mimò con essa qualche giro di valzer, quindi la rese al legittimo proprietario. Divorò a due a due i gradini che portavano alla piattaforma di servizio della catapulta, strappò via il telone che copriva l’aereo col gesto elegante di un toreador che mulina il capote poi disse: “Eccolo qui, il mio Bucefalo! Il mio Balio, il mio Xanto, il mio Sleipnir!”
Il mio Ronzinante,” ringhiò Till dal basso.
Che cosa?” chiese Pankow affacciandosi al parapetto.
Niente, signore.”
Il nostro volo di ricognizione aspetta,” gli ricordò il tenente.
Sissignore.”
Schelle salì su per la scaletta che portava alla piattaforma, e prima ancora di metterci spora il piede si sentì chiedere: “Puoi prestare le tue carte a Wendel?”
Si immobilizzò. “Cosa?”
Le carte,” replicò il tenente con la massima naturalezza. “Sai, lui non ha ancora le sue...”
Till rivolse al tenente uno sguardo che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto incenerire. L’ufficiale notò i suoi occhi semichiusi e premurosamente gli disse: “Eh già, è una levataccia.” Gli diede una pacca come di incoraggiamento sulla spalla. “Allora, queste carte?” chiese poi.
Quali carte, signore?” chiese Schelle, stavolta ben deciso a non farsi defraudare del suo ruolo.
Le carte con la navigazione verso quell’isola. Come si chiama? Bula-Bula? Jonzondjupa?”
Ypa'u Oiyva, signore,” ringhiò il caporale.
Insomma, quella,” rispose disinvolto il tenente. “Ti spiacerebbe dargliele?”
Schelle assunse l’espressione stolida del mulo intenzionato a bloccare un convoglio a metà di una salita e rispose: “Le carte mi servono per navigare, signore.”
Il tono di Pankow suonò addirittura rassicurante: “Ma no, ci penserà lui, tranquillo. Gli bastano solo le tue carte.”
Di nuovo scattò l’occhiata inceneritrice, al solito serenamente ignorata dall’ufficiale, poi Till replicò: “Con tutto il dovuto rispetto, signore, io ho molta più esperienza in contesti operativi.”
L’altro lo fissò quasi con un’ombra di riprovazione. “E non vuoi dare anche a lui l’occasione di farsela?” Sembrava che stesse rimproverando un bambino straricco, sazio e soddisfatto perché non voleva regalare qualcuna delle sue caramelle a un bambino povero.
Schelle non demorse: “Sempre con il dovuto rispetto, signore, questa è una missione operativa, non un’esercitazione.”
Ma no, che missione operativa!” replicò il tenente. “Cioè sì, teoricamente lo sarebbe, nel senso che siamo in guerra, ma è solo una banale ricognizione, su un’isola piena di giungla. Al massimo rischiamo che un tucano ci si infili nel parabrezza.”
I tucani stanno in Sud America, signore.”
Ah.” Pankow parve perplesso. “E qui dove siamo?”
America centrale, signore.”
Tu sì che conosci la geografia, Till,” apprezzò il tenente, poi stabilì che la conversazione era finita e gli girò le spalle per dedicarsi all’aereo, senza il minimo dubbio che lui avrebbe con gioia dato allo stronzetto tutte le carte che si era comprato con i soldi della sua prima decade e su cui aveva passato innumerevoli ore di studio e fatica.

La luce nel frattempo era aumentata, l’aria si era fatta più calda e più carica di profumi misteriosi. In attesa di virare all’azzurro intenso della tarda mattinata, il cielo conservava un colore perlaceo, tenue, vagamente dorato intorno al disco solare, che da poco aveva abbandonato l’orizzonte. Le tonalità rosate dell’alba cedevano il posto al fulgore nitido del giorno, scompariva la sottile foschia che durante la notte aveva ammantato il pelo dell’acqua.
Il tenente strinse appena gli occhi per proteggersi dal riverbero della luce sulle onde. L’aria era pulita come dopo un acquazzone primaverile, c’era calma di vento. Piegò leggermente la testa all’indietro e inspirò profondamente. Per un attimo desiderò di poter essere lui stesso a spiegare le ali e a librarsi, poi il momento di lirismo lo abbandonò rapido com’era giunto e il pensiero successivo fu che gli sarebbe piaciuto scovare qualche barattolo di latta vuoto da attaccare alla coda del gatto di bordo.
Volse di nuovo lo sguardo all’orizzonte. Sulla base di quello che ricordava della mappa cercò di calcolare i tempi della missione e stabilì che sarebbero senz’altro tornati per l’ora del rancio, dopo un breve volo comodo e facile intorno a un’isola deserta. Si chiese dove fossero finiti i marinai e i tecnici che von Stauff aveva inviato sul posto qualche giorno prima e stabilì che dovevano essere spaparanzati da qualche parte all’ombra, a godersi cocchi e banane.
O almeno, questo era ciò che avrebbe fatto lui se si fosse trovato nella stessa situazione. La cosa gli fece venire in mente che in effetti avrebbe potuto davvero fare una piccola sosta per un po’ di cocchi e banane, tanto cosa ne poteva sapere un ufficiale di marina di quanto durava una ricognizione aerea? Sarebbe bastato fare qualche foto, magari ricordare alla squadra dispersa che a bordo avrebbero avuto piacere di sapere che fine avevano fatto, e nessuno avrebbe rotto le scatole con domande importune.
Captò un’occhiata livida di Schelle e per qualche secondo si chiese anche perché mai da un paio di giorni il suo radiotelegrafista fosse così torvo, poi il pensiero venne soppiantato da quello, molto più piacevole, di cocchi e banane sulla spiaggia. Il malumore di Till fu liquidato con un’alzata di spalle.

Peter Pankow, in combinazione di volo e giubbotto di salvataggio, osservò soddisfatto l’aereo, già puntato verso il largo per il decollo, quindi proclamò: “Molto bene, direi che possiamo partire.” Come al solito, sembrava che stesse per andare in gita. Si girò verso Hans e Michael Liefke: “Siete pronti?”
I due si scambiarono un’occhiata, poi lo fissarono con l’aria di chiedergli spiegazioni. Pankow fece un passo verso di loro e a bassa voce rivelò: “Se le condizioni lo permettono, ci facciamo un bel bagno.”
Ma…” interloquì Michael.
Che c’è, aviere?”
Ecco… dobbiamo venire anche noi, signore?” Lo sogguardò incerto, l’espressione era di chi non sapeva se fosse meglio aspettarsi un sì o un no.
Pankow gli strizzò l’occhio con fare complice e rispose: “Se ci stringiamo un po’ ci stiamo tutti. Lo sai che una volta caricammo nella postazione di Schelle due casse di birra, un prosciutto lungo come il mio braccio, un barile di crauti e mezzo quintale di salsicce? Ah, e naturalmente pane e patate. Till ha fatto tutto il volo con una cesta di Brezeln appesa alla culatta dell’MG34, sembrava una massaia di ritorno dal mercato.” Poi, a voce più alta: “Ti ricordi, Till?”
Dalla postazione di comando della catapulta giunse un lugubre Sissignore.
Pankow annuì soddisfatto, quindi disse: “Ora a bordo, ragazzi. Un giubbotto di salvataggio per ciascuno, magari un bel telo da bagno se ce l’avete, e si parte.” Si rivolse a Hans: “Tu che sei piccoletto vieni in cabina con me. Ti faccio anche tenere la cloche, se si mantiene questa calma di vento.”
Grazie, signore!” rispose felice il ragazzo.
Pankow chiamò Wendel. “Hai dato un’occhiata alla navigazione?”
Sissignore.”
Hai visto che belle carte? Devi ringraziare Till. Dì: grazie, Till, le tue carte sono bellissime!”
Obbediente, il ragazzo ripeté: “Grazie, Till, le tue carte sono bellissime.”
Dalla postazione di comando provenne qualcosa che somigliava decisamente a fanculo.
E tu non vieni?” gli chiese l’ufficiale, al solito serenamente noncurante del suo umore plumbeo.
Io devo azionare la catapulta, signore, mentre lei se ne va in volo con il suo nuovo radiotelegrafista.”
Per me va bene anche un marinaio,” considerò Pankow, con il tono con cui un altro avrebbe detto per me va bene anche una scimmia. “In fin dei conti, basta uno che prema un bottone, il resto lo fa tutto l’aereo.” Andò ad affacciarsi alla ringhiera, scrutò la gente in coperta fino a che non trovò un tipo che gli pareva adatto e gli disse: “Ehi, tu! Vieni qui!”

Pochi minuti dopo, l’Arado 196 era in volo su un mare liscio come l’olio, sotto un cielo nel quale non si vedeva una nuvola nemmeno all’orizzonte. Un po’ impacciato dal ragazzo che gli sedeva quasi in braccio, Pankow si godeva comunque la missione. Pilotare è una serie di automatismi, era solito ripetergli il suo istruttore, finché non ce li hai, ai comandi di un aereo non sai cosa fare; appena li hai acquisiti, pilotare diventa facile come camminare.
Tutti automatismi, niente di che. Roba che si faceva senza sprecarci un minimo di materia grigia.
Una volta imparato a sentire l’aereo, una volta acquisite le reazioni istintive alle variazioni d’assetto, manovrare la cloche era come muovere il manubrio della bicicletta.
Buttò giù il muso in una piccola picchiata. Niente di che, per lui, tuttavia Wendel emise uno strillo nell’interfono e con voce concitata chiese: “C’è il nemico, signore?”
Pankow richiamò e fece una virata. Di nuovo niente di che, solo sessanta miseri gradi, ma ugualmente un coro di esclamazioni preoccupate si levò dai tre ragazzi. Quelle di Wendel le sentì bene attraverso l’interfono, quelle degli altri due le immaginò, più che altro, vedendo l’espressione preoccupata e la bocca aperta di Hans.
L’unico muto come un trappista era Schelle, ma la cosa non lo stupì: in fondo lui era abituato al suo modo di volare.
Diede motore, cabrò puntando con decisione il muso verso l’alto. Hans gli piombò addosso, roteò gli occhi, cercò di aggrapparsi da qualche parte col movimento frenetico di un gatto che sta per essere buttato in acqua, poi l’assetto inusuale lo disorientò ed egli lasciò crollare la testa, che cominciò a muoversi solidale con gli spostamenti dell’aeroplano.
Picchiò di nuovo. Una cosetta di poco conto, non è che da un idrovolante a scarponi si potessero pretendere le prestazioni di un Messerschmitt 109, tuttavia a un tratto nell’interfono la voce concitata di Wendel fu sostituita da quella gelida di Till, che sobriamente comunicò: “Il suo nuovo e bravissimo radiotelegrafista è svenuto, signore. Sono autorizzato a prendere il suo posto?”
Fa’ come se fossi a casa tua,” rispose sbrigativo il tenente, riprendendo un volo livellato in linea retta. Hans gli si afflosciò sulla spalla come una pianta senz’acqua.
Pankow regolò giri e quota, controllò la bussola e infine sistemò il trim in modo che l’aereo si mantenesse in assetto. Cercò di spostare l’aviere, che nonostante tutto si ostinava a stragli addosso come una specie di cataplasma.
Tutto a posto, là dietro?” chiese dopo un po’.
Per fortuna nessuno ha vomitato, signore.”

Trascorse un altro po’ di tempo, poi il colore del mare passò dal blu al turchese intenso. All’orizzonte comparve una striscia verde scuro.
Mi sa che ci siamo,” disse il tenente. Tolse un po’ di motore, scese di quota. Man mano che si avvicinava, la striscia verde si differenziava in palme, mangrovie, alberi ad alto fusto e arbusti.
L’acqua si era fatta ancora più chiara e trasparente, si vedeva già la spiaggia bianca. Lungo la costa lussureggiava magnifica la foresta vergine, in tutto il suo primigenio splendore. Per quello che poteva vedere, in giro non c’era nessuno.
Avranno tirato in secco la barca, disse fra sé e sé, come sempre immaginando il gruppetto di marinai intenti a godersi cocchi e banane in qualche posticino all’ombra.
Percorse con lo sguardo la linea della battigia, alla ricerca di un posto dove fosse possibile ammarare. “Bagno per tutti!” annunciò deliziato nell’interfono.
Poi gli parve di notare un lampo arancione nella boscaglia, immediatamente seguito da uno sbuffo di fumo.
Merda!” urlò.
Allungò la mano per ridare tutta manetta, ma in quel momento la semiala sinistra esplose. L’aereo cominciò a perdere quota, il motore su di giri urlava, i tre fratelli Liefke urlavano ancora di più.
Privo di portanza da un lato, l’Arado rischiava di ribaltarsi, i grossi scarponi rendevano difficile compensare con la cloche e la pedaliera.
La foresta si stava avvicinando con inquietante velocità.
Pankow proferì una serie di sentite imprecazioni.
Si udì la voce esasperata di Schelle: “No! Di nuovo!”
La semiala superstite cominciò a falciare le cime degli alberi, uno scarpone si agganciò a un ramo, l’aereo capitombolò pancia all’aria, lasciò un pezzo degli impennaggi di coda sul tronco di una palma, proseguì la sua caduta abbattendo rami con un fracasso da fine del mondo.
All’interno del velivolo tutti urlavano, chi imprecando e chi raccomandandosi l’anima a Dio. Siccome perlopiù non erano legati con le cinture, essendocene a disposizione solo due, ad ogni giravolta dell’areo tutti finivano gli uni addosso agli altri, venendo a trovarsi aggrovigliati in posizioni laocoontiche.
Dopo una caduta che a tutti parve molto più lunga del tratto di volo che l’aveva preceduta, quel che rimaneva dell’aereo finalmente raggiunse il suolo e perlomeno smise di girare come il cestello di una lavatrice.
Niente di rotto?” chiese Pankow non appena riuscì a recuperare le funzioni cognitive di base. Si guardò intorno: erano nel bel mezzo di una giungla, l’aereo sembrava non avere più nulla di intero, a parte forse i seggiolini. Di Hans si vedevano solo i piedi, il resto doveva essere sul pavimento della carlinga. “Ehi, ragazzo,” biascicò con la sensazione di avere una patata in bocca. “Ragazzo, mi senti?”
Dal basso giunse un lamento.
Ragazzo, muoviti. Qui rischia di saltare tutto.”
Cosa?”
C’è ancora benzina nel serbatoio,” spiegò il tenente. “No so tu, ma io non ci tengo a finire arrosto.”
Quelle parole, che secondo Pankow avrebbero dovuto convincere l’aviere ad abbandonare senz’altro il relitto, scatenarono invece un parossismo di eccitazione fine a se stessa in cui Hans prese a divincolarsi come una specie di sardina presa all’amo, senza peraltro concludere niente di utile.
L’altro rimase per un po’ a osservarlo con cortese interesse, quindi gli chiese: “Ti sembra il momento di mettersi a fare il contorsionista?”
Aiuto!” provenne dalle profondità della carlinga.
Hans, non per farti fretta, ma qui tra un po’ salta tutto.”
Dopo il sobrio ammonimento, il tenente si voltò verso la postazione del radiotelegrafista: anche da quella parte era in corso un frenetico abbandono del mezzo.
Afferrò Hans per la cintura dei pantaloni, lo spinse fuori mentre ancora si contorceva, poi si lasciò cadere a terra a sua volta.
Un’esplosione assordante segnò la fine dell’Arado 196.
Pankow osservò le fiamme che avvolgevano la fusoliera, prese un’aria assorta e sospirò: “Peccato, un così bell’aereo…”
Il secondo in meno di due mesi,” gli fece notare Schelle.
Dulce et decorum est pro patria mori,” replicò il tenente con solennità.


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Capitolo 6
*** VI - Si ritrovano vecchie conoscenze ***


Salve a tutti, eccomi qui con una nuova puntata delle demenziali avventure del nostro Peter Pan(kow). Come sempre un grandissimo ringraziamento a tutti quelli che passano a dare un’occhiata al mappazzone, particolarmente sentito se nel frattempo mi lasciano anche un parere^^






VI – Si ritrovano vecchie conoscenze



Perfetto,” ringhiò Schelle, fermo a distanza di sicurezza dal rogo dell’aereo. “Perfetto, davvero. Siamo di nuovo in una zona occupata dagli inglesi, senza mezzo per rientrare né possibilità di comunicare con la Schütze.”
Lungi dal sentirsi chiamato in causa, il tenente gli restituì uno sguardo serafico e disse: “Il tuo problema, Till, è che fai fatica a vedere il lato positivo delle cose. In primo luogo, siamo tutti più o meno incolumi, e poi gli inglesi penseranno che siamo morti nel rogo e non ci cercheranno nemmeno.” Fece una pausa e compiaciuto soggiunse: “Potremo trovarci un posticino tranquillo e mangiare cocchi e banane in pace. Nessuno ci disturberà”
E come torneremo indietro, signore?”
Pankow alzò le spalle. “Ci inventeremo qualcosa, anche Robinson Crusoe alla fine riuscì a tornarsene a casa. Intanto però possiamo divertirci un po’.” Si guardò intorno e si chiese: “Chissà da che parte è la spiaggia?”
Schelle si limitò ad alzare gli occhi al cielo.
Il tenente nel frattempo stava continuando a guardarsi intorno. Dappertutto c’era una giungla intricata e inospitale, con rampicanti, liane che pendevano dagli alberi e un fondo di foglie marce nel quale si affondava fino alle caviglie. Salì su un albero con la velocità di una bertuccia che ha visto arrivare un leone, rimase per qualche tempo ad agitarsi fra i rami con gran frusciare di foglie, poi tornò giù deluso. “Non si vede niente,” brontolò.
I tre fratelli Liefke gli gettarono un’occhiata, quindi si strinsero l’uno all’altro a disagio. Schelle era pronto a scommettere che stessero alquanto ridimensionando le proporzioni della loro ammirazione per Pankow.
Di qua,” concluse infine il tenente. Si incamminò con fare risoluto, inoltrandosi fra gli arbusti come un bufalo di palude, e in breve scomparve alla vista, lasciandosi dietro solo una scia di frasche calpestate.
Till si mise a sua volta in movimento – il tenente sarebbe stato capace di scomparire chissà dove, se faceva tanto di perderlo di vista per troppo tempo – e i ragazzi gli si accodarono in fila indiana, immersi in un silenzio greve di preoccupazione.

§

Il capitano Hook batté un paio di volte l’uncino sul sottomano della scrivania, quindi andò all’oblò e rimase per un po’ a contemplare il cielo azzurro tagliato verticalmente da una densa colonna di fumo nero.
Si rivolse al nostromo e lo squadrò con l’aria di considerare la faccenda una sua precisa responsabilità.
Un altro aereo tedesco, signor Soak?” domandò tagliente.
Il sottufficiale ritirò appena la testa fra le spalle. “Sì, comandante.”
Abbattuto mentre curiosava?” Lo sguardo del comandante prese una sfumatura ferina. “Mentre, novella Niobe, cercava i suoi figli perduti?”
Con fare volenteroso, Soak rispose: “Mi risulta che la Niobe sia attualmente nel Mare del Nord, signore, però se vuole posso informarmi.”
Hook alzò gli occhi al cielo. “Era un paragone mitologico, nostromo.”
Mi scusi, signore.”
La tendenza al mito è innata nella razza umana. È la protesta romantica contro la banalità della vita quotidiana.”
Soak fissò lo sguardo all’infinito. “Come dice lei, signore.”
È una frase di William Somerset Maugham, nostromo.”
Sissignore,” rispose il sottufficiale, chiedendosi frattanto su quale accidenti di unità prestasse servizio quel dannato Maugham. E chi accidenti fosse, soprattutto.
Hook tornò a sedersi alla scrivania e riprese: “In ogni caso, nostromo, sembra che nella foresta giaccia il relitto di un aereo del Reich, non è così?”
Soak si sentì pervadere dal sollievo per il ritorno ad argomenti nuovamente di ambito militare. “Sissignore,” rispose con entusiasmo, “è stato abbattuto da una delle batterie costiere.”
Ci sono superstiti?”
È bruciato tutto, signore,” rispose il nostromo, con l’aria di voler chiudere con quella frase l’argomento.
Peccato,” disse invece il capitano. Sollevò l’uncino, che sotto la luce della lampada da tavolo mandò un sinistro brillio metallico. Aggrottò appena le sopracciglia e proseguì: “Io prego tutti i giorni, nostromo.” Fissò lo sguardo sul lucido gancio d’acciaio e gli occhi gli divennero due fessure. “Vuole sapere per cosa prego?” soggiunse in un basso ringhio.
Soak non poté impedirsi di deglutire. “Ho quasi paura di chiederlo, signore,” confessò.
La voce di Hook si abbassò ancora, diventando un sibilo carico di minaccia: “Ebbene, a Dio o al Diavolo, chi dei due sarà disposto ad ascoltarmi, io chiedo che quell’ignobile moccioso, quel maledetto, disgustoso ragazzino che mi ha fatto questo mi capiti ancora una volta davanti. Non desidero altro da questa vita.” Strinse a pugno la mano superstite con tale forza che le giunture scricchiolarono.
Detto questo, recuperò l’abituale compostezza e chiese: “Ancora nulla sugli occupanti della lancia?”
Le ricerche continuano, ma sembra che abbiano fatto perdere le loro tracce, signore.”
In un’isola grande a malapena quanto un fazzoletto e per metà controllata da noi? Senza dubbio sono stati nascosti dagli indigeni. La ragazza ha detto qualcosa?”
Finora perlopiù parolacce, signore.”
Un comportamento decisamente inadatto a una giovane donna,” sentenziò Hook. Poi, in tono più duro: “Continuate a tenerla prigioniera, prima o poi o lei o suo padre si decideranno a parlare.”
Sissignore,” rispose Soak.
Nella cabina calò un silenzio rotto solo dalla fioca eco di qualche ordine gridato all’esterno.
Hook aprì un cassetto e ne trasse alcuni messaggi cifrati, li sparse sul sottomano e picchiettandoli con l’uncino disse: “Non è mio costume infierire sule fanciulle, signor Soak, ma in guerra e in amore tutto è lecito.” Scrutò l’espressione del nostromo, impenetrabile e fissa all’infinito. “Qui siamo in guerra,” si sentì in dovere di specificare. Raccolse uno dei documenti, lo scorse brevemente, quindi proseguì: “Oltre ad avermi reso un triste simulacro dell’uomo affascinante e mondano che ero un tempo, oltre ad avermi privato per sempre della gioia di suonare il pianoforte, quella specie di sottoprodotto di un postribolo in fallimento si è anche appropriato di un’arma segreta di proprietà della Corona britannica.”
Signore, ma non era un’arma del Reich?” interloquì zelante il nostromo.
Hook aggrottò le sopracciglia e in tono tagliente replicò: “Nel momento in cui la Corona britannica ne è venuta in possesso, ha cessato di appartenere al Reich ed è diventata nostra. Primum tollo, nominor quoniam leo.”
Disorientato dalla massima in latino, Soak preferì mantenere un cauto silenzio.
Il capitano abbandonò allora la scrivania, fece qualche passo, di nuovo si fermò presso l’oblò e guardò fuori. La colonna di fumo continuava imperterrita a innalzarsi verso il cielo. “Sa perché la Jolly Roger è stata inviata qui a Ypa'u Oiyva, signor Soak?” chiese, con tono apparentemente svagato ma in realtà carico di oscura minaccia. “Siamo in missione segreta. Sappiamo che la squadra di tecnici inviata dalla nave tedesca è in possesso del nostro dispositivo ombra e ha il compito di installarlo e collaudarlo.” Batté l’uncino sul tavolo, facendo sussultare il nostromo. “Noi dobbiamo recuperarlo a qualsiasi costo. La Corona conta su di noi per tornare in possesso del dispositivo ombra, ma soprattutto per impedire che esso venga messo in opera dal Reich.”
Sissignore.”
E io pregherò che quel maledetto Peter Pankow, quel luetico ereditario, quel trovatello di una meretrice da cinque marchi, sia in qualche modo coinvolto nella missione, così che io possa finalmente restituirgli con gli interessi quello che mi ha fatto.”
Intende tagliargli una mano, signore?” s’informò cauto il nostromo, disorientato da quel momento di ferocia.
Sul volto liscio di Hook si dipinse un ghigno ferino. “Non mi interessa la sua mano,” dichiarò minaccioso. “Io voglio la sua testa.”

§

Peter Pankow si fermò di fronte a un groviglio di rampicanti così fitto che non si vedeva al di là, saldamente avvinto ai rami delle piante più grosse, ma soprattutto pieno di ragni larghi come il palmo di una mano. “Accidenti,” borbottò grattandosi la testa. Di nuovo cercò di scrutare al di là dell’intrico di rami, ma il contatto ravvicinato con un aracnide lo spinse ad arretrare. “Eppure avrei giurato che il mare fosse da quella parte,” protestò. Si girò verso gli altri con l’aria di considerare tutta la faccenda uno scherzo di pessimo gusto fatto specificamente a lui. “Beh, possiamo almeno approfittarne per riposarci un po’,” disse alla fine, di nuovo col suo sorrisetto noncurante sul volto. Cercò un posto approssimativamente libero alla base di un albero e si sedette.
Wendel strappò via qualche arbusto per creare un po’ di posto, poi chiamò i fratelli: “Hans, Michael, venite a sedervi qui.”
Fa caldo,” protestò Hans.
Fammi vedere quel graffio che hai sulla fronte,” ordinò il più grande per tutta risposta. “L’hai pulito bene?”
L’altro non poté trattenersi da ridere: “ Wendel, siamo in mezzo alla giungla. Con cosa vuoi che lo pulisca, con le foglie?”
Potresti usare il tuo fazzoletto.”
E dai, è solo un graffietto.”
Con questo clima, anche un graffietto può infettarsi,” sentenziò l’altro.
Hans emise un sospiro di esasperazione, quindi replicò: “Senti, perché non vai da Michael? Scommetto che si è fatto più male di me nell’atterraggio.”
Non è vero!” esclamò il chiamato.
Sì, invece,” replicò Hans, “giri zoppo come Long John Silver. Per me ti sei come minimo rotto una gamba.”
E tu invece ti sei rotto il...”
Michael!” intervenne Wendel in tono tagliente. “Non si dicono le parolacce.”
Che palle.”
Che cosa ti ho detto?”
Mi hai detto che non si dicono le parolacce, e io ti ho risposto che palle.”
L’altro, che stava per ribattere, si appoggiò una mano sulla coscia e subito assunse un’espressione preoccupata. Si palpò allora con più urgenza, spostando la mano verso la tasca della combinazione di volo, e l’espressione da preoccupata si fece sgomenta. “Oh no!” esclamò.
Tutti si voltarono nella sua direzione. “Cosa c’è?” chiese Pankow.
Le carte! Ero convinto di averle messe qui...” si interruppe.
A quel punto, Till fu pervaso da un orribile presentimento. “E invece…?” lo incoraggiò.
Ecco...”
Gli occhi di Schelle divennero due fessure. “Ecco, cosa?”
Non ho fatto apposta,” si affrettò ad assicurare Wendel, “non ci ho pensato, e poi c’è stato l’atterraggio fuori campo… il fuoco...”
Sì, poi le inondazioni, le cavallette e il terremoto,” lo interruppe il caporale con l’aria di volergli saltare addosso da un momento all’altro. “Dove sono le mie carte?”
Io… nell’aereo,” si decise a dire Wendel.
A quel punto però si intromise Pankow, che col suo solito tono svagato disse: “Eh, capirai! Ne comprerai delle altre, no?”
Till gli rivolse uno sguardo omicida.
Comprerai delle carte nuove, più belle. E se devo dirti la mia opinione, quelle vecchie avevano proprio bisogno di una bella rinnovata.”
Le avevo comprate con la mia prima decade,” ringhiò Schelle pallido di rabbia, “ci ho studiato sopra giorno e notte, quando ho preso la qualifica di radiotelegrafista. Perché io ho studiato per andare in missione operativa, non mi ci sono trovato solo perché qualche pilota era un po’ stanco della solita routine e voleva volare con una persona nuova.”
Andò a sedersi a qualche metro di distanza, avendo cura di dare le spalle al gruppo.

§

Nello stesso momento, il capitano di fregata James Hook stava passeggiando lentamente sul ponte di coperta. Fedeli alle secolari tradizioni della Royal Navy, marinai e ufficiali si tenevano scrupolosamente sul lato sottovento rispetto a lui ed egli camminava, immerso nei suoi pensieri, in una perfetta solitudine.
Sollevò lo sguardo sulla colonna scura che si alzava dalla macchia. Il fumo non era più denso e nero come all’inizio, ormai aveva una tonalità grigio-biancastra, segno che non erano più gomma e olio – o magari grasso organico – a bruciare, ma legno. Si augurò che il fuoco non si estendesse troppo, perché pur non disprezzando l’eventualità di contemplare un incendio e frattanto comporre carmi, cosa che prima di lui poteva vantarsi di aver fatto solo Nerone, nondimeno riteneva che la foresta avesse una sua selvaggia, primigenia bellezza, e avrebbe trovato disdicevole che finisse in cenere.
Mentre stava passeggiando assorto, lo raggiunse il nostromo, unica persona, in virtù della loro lunga consuetudine, che avesse il permesso di avvicinarlo in simili frangenti.
Hook interruppe il suo lento camminare e assunse una posa che ricordava vagamente quella del re Sole. Si lisciò i baffetti neri, quindi chiese: “Che cosa c’è, signor Soak?”
Signore, volevo solo riferirle che i sommozzatori non hanno ancora trovato nulla.”
Hook assunse uno sguardo di disappunto. “Eppure sono certo che il dispositivo ombra sia sott’acqua. Sulla lancia hanno trovato una mappa delle grotte subacquee che ci sono verso la scogliera. Questo vorrà dire qualcosa, no?”
Sissignore.”
E comunque,” replicò con sussiego Hook, “sott’acqua o sottoterra, il dispositivo ombra è su quest’isola e non può andarsene, quindi è solo questione di tempo, poi lo troveremo.”
In quel momento cominciò a farsi udire un ticchettio. I due si scambiarono un’occhiata perplessa e presero a guardarsi intorno per scoprire la provenienza del rumore.
Infine il nostromo disse: “Sembra che venga dall’acqua, signore.”
Hook andò ad affacciarsi all’impavesata: poco lontano dalla murata della nave galleggiava una sfera del diametro di circa mezzo metro, nera e lucida, irta di aculei. Il ticchettio proveniva da lì.
Istintivamente, il comandante si fece indietro come se la sfera avesse potuto improvvisamente saltargli addosso. “Oh mio Dio,” disse.
Che cosa c’è, signore?” chiese Soak. “Cosa succede?”
Quell’affare,” rispose Hook, indicando genericamente la direzione in cui si trovava l’ordigno. “La Crocodile.”
Vuole dire quella roba sperimentale, signore?”
La mina continuava a ticchettare inesorabilmente.
Proprio lei,” rispose rapido Hook. “Prenda una gaffa, dobbiamo tenerla lontana.”
Una gaffa?” Soak diede un’occhiata alla Crocodile, che continuava a flottare con aria sorniona, emettendo il gaio rumore di una vecchia sveglia. “Non c’è una gaffa così lunga su tutta la Jolly Roger, signore.”
Beh, trovi il modo di tenerla lontana,” fu la concitata replica, “si ricorda quello che una Crocodile è stata in grado di fare al laboratorio, vero?”
La mina continuava a ticchettare placida, andava lentamente su e giù per effetto del moto ondoso, ogni tanto si avvicinava un po’ alla murata, ma pigramente, come se in realtà non ne avesse tutta quella voglia, poi si allontanava di nuovo.
Mentre il comandante seguiva i suoi movimenti col fiato sospeso, arrivò di corsa il signor Soak reggendo una lunga asta graduata. “Ecco qui, signore!” esclamò facendolo sussultare. “È quella che usiamo per vedere quanta nafta c’è nei serbatoi, può andare bene?”
In quel momento, la mina smise di ticchettare. Hook trattenne il fiato mentre gli episodi salienti della sua vita gli passavano davanti agli occhi, ma non successe niente. Lui e il nostromo si scambiarono un’occhiata, poi di comune accordo andarono a vedere: la Crocodile non c’era più.


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Capitolo 7
*** VII - Incontri ***


Carissimi, continuano le improbabili avventure dei nostri eroi sull’isola che non c’è. Grazie a tutti quelli che sono passati di qui, mi hanno letto e magari si sono fatti due risate. Un grazie particolare va come sempre a chi mi ha anche commentato^^






VII - Incontri




Pankow si girò verso il suo radiotelegrafista: il caporale Schelle sedeva su una pietra a qualche metro di distanza, con le spalle ingobbite, girando rigorosamente la schiena al resto del gruppo.
Per un po' rimase semplicemente a scrutarlo in silenzio, poi stabilì che molto probabilmente il caporale aveva qualcosa che non andava.
Si alzò dunque premuroso, lo raggiunse e ostentando il tono allegro di un vecchio amico – uno di quelli che scherzano sempre ma al momento buono sanno anche ascoltare – gli chiese: “Qualcosa non va, Till?”
Schelle lo squadrò gelido. “Nossignore, è tutto a posto,” rispose lapidario. Tornò a girarsi con la faccia verso la vegetazione.
Pankow rimase interdetto. Aveva dato prova di empatia, si era dimostrato premuroso, aveva addirittura offerto una spalla sui cui eventualmente piangere. Cioè, non esplicitamente, ma nel caso non l'avrebbe certo negata. Perché allora Till non ne voleva approfittare?
Fece un altro tentativo: “Sicuro che sia tutto a posto?”
Questa volta Schelle non si girò nemmeno. “Non vedo perché le dovrebbe interessare, signore,” rispose.
Il tenente trasecolò. Per quanto si sforzasse, non riusciva a spiegarsi il suo strano atteggiamento, così diverso da quello che aveva di solito: forse aveva ricevuto brutte notizie da casa? La sua fidanzata lo aveva lasciato?
“A me interessa che tu stia bene,” gli assicurò con calore.
Fu come aver avvicinato un fiammifero a un fusto di benzina: Schelle si girò di scatto e lo fissò con occhi spiritati, poi in tono minacciosamente basso ringhiò: “Non si direbbe proprio, signore. Perché se le interessasse qualcosa del sottoscritto, forse adesso lo capirebbe da solo cosa c'è che non va.”
Pur con tutta la sua buona volontà, a quel punto Pankow alzò gli occhi al cielo e sbuffò: “Cosa fai, Till, la fidanzata acida?”
“Io non sono una fidanzata acida,” rispose Schelle con insospettata violenza, “però sono uno che ne ha piene le palle! Wendel di qua, Wendel di là, e com'è bravo Wendel, e com'è simpatico Wendel, e dagli le tue carte, e dagli il tuo posto di radiotelegrafista... io ho sudato sangue per avere quella qualifica, ho passato notti in bianco, ho trascorso intere domeniche chiuso nella mia stanza a studiare... E questo è il risultato?”
Pankow sbatté gli occhi come se gli fosse appena arrivato in faccia un secchio d'acqua. Fissò Till, che stava ansimando paonazzo d'ira, e gli chiese: “Ma non sarai mica geloso?”
“Strano, vero?” replicò sarcastico l'altro. “Vengo relegato in un angolo, costretto a subirmi i panegirici su quell'impiastro, costretto addirittura a cedergli le mie carte, che per inciso sono anche finite in cenere, e pensa un po': la cosa non mi fa piacere.” Scosse la testa e concluse: “Sono proprio strano, vero?”
A quel punto, anche l'allegro, svagato e noncurante Pankow aggrottò le sopracciglia e in tono duro replicò: “Beh, allora vedi di normalizzarti in fretta, Schelle, perché non hai proprio motivo di comportarti come un bambino!”
“Ah, adesso sarei io che mi comporto come un bambino?”
“Perché, sarebbe un comportamento da adulti stare seduto qui girandoci il culo come stai facendo? Hai qualcosa da dire? Dilla e facciamola finita!”
“Ma certo, visto che ci tiene tanto, facciamo gli uomini adulti, scommetto che sarà un'esperienza nuova anche per lei: io sono incazzato a morte perché ha fatto stare quel moccioso nel mio posto, perché gli ha concesso tutto quello che era mio e perché non si è nemmeno preoccupato di sapere se la cosa mi andava a genio o no. Vorrei tirargli il collo come si fa con i polli!”
A quel punto si fissarono ansimanti, scambiandosi occhiate di fuoco. Infine Pankow inspirò come per calmarsi, poi disse: “Va bene, Till, sai che ti dico? Che di fidanzate rompicoglioni ne ho già una in Germania e mi basta. Ora tu te ne stai qui con Hans e Michael e io vado con Wendel a fare una ricognizione nei dintorni.”
“Beh, sarà un piacere non avere fra i piedi quel moccioso.”
“E per me sarà un piacere maggiore non avere più dietro al culo un rompicoglioni acido che brontola in continuazione.”
Detto questo si girò: i fratelli Liefke, muti e immobili, si stavano fissando con estremo interesse la punta delle scarpe.
“Wendel, vieni qui,” ordinò.
“Sissignore.” Il chiamato si alzò in piedi e lo raggiunse. Schelle, che nel frattempo si era di nuovo girato con la faccia verso la macchia, mantenne ostinatamente la sua sdegnosa posizione.

Wendel faceva del suo meglio per tenere dietro al tenente Pankow, del quale però vedeva ormai solo la nuca di un vivido color carota che appariva e scompariva in mezzo al fogliame. “Aspetti, signore,” sussurrò.
“Cosa?”
“Aspetti, per favore. Non riesco a starle dietro se va così veloce.”
L'altro rallentò il passo lasciando che l'aviere lo raggiungesse, quindi gli domandò: “Perché ti sei messo a parlare come se fossimo in chiesa, Wendel?”
Il ragazzo si guardò intorno con circospezione poi, senza modificare il tono di voce, rispose: “Per precauzione, signore. Ormai cominciamo ad avvicinarci al relitto.”
Pankow corrugò la fronte, l'aviere si sentì in dovere di specificare: “Potrebbero esserci pattuglie nemiche alla ricerca di superstiti.”
A quelle parole, al tenente parve accendersi la metaforica lampadina sopra la testa. “Ah, certo,” approvò, “molto acuto. In effetti penso anch'io che sia meglio non attirare troppo l'attenzione.”
Ripresero la marcia con la silenziosa cautela di felini in cerca di preda.
Raggiunsero quel che rimaneva dell'aereo, ovvero qualche lamiera annerita al centro di un cratere fumigante. Wendel fissò il relitto, quindi in tono esitante chiese: “Immagino non ci sia speranza, vero, signore?”
Il tenente si voltò a guardarlo. “Per cosa?”
“Quelle carte, signore.”
Pankow fece un gesto di noncuranza. “Ah, lascia stare. Schelle abbaia come un vecchio cagnaccio bisbetico, ma vedrai che gli è già passata.”
Wendel non rispose. Pur concentrato nello sforzo di fissarsi le scarpe, aveva sentito tutta la lite – sarebbe stato difficile non sentirla, del resto – ma soprattutto aveva visto lo sguardo di Till, e non gli era affatto sembrato lo sguardo della persona a cui l'incazzatura sarebbe passata in fretta.
Proseguirono la marcia. Il terreno era in leggera ma costante salita, qua e là affioravano rocce. Seguendo una scia di rami rotti e foglie smosse cominciarono a un certo punto a intravedere attraverso l'intrico della vegetazione il baluginare azzurro del mare. Man mano che avanzavano, si udiva sempre più forte il rumore di frangenti.
Sbucarono dalle frasche alla sommità di una bassa scogliera. L'acqua era di un turchese intenso, che si faceva color smeraldo nei punti più profondi. Qua e là affioravano rocce che le onde coprivano e ricoprivano di schiuma candida.
Dal basso una voce urlò qualcosa, un'altra le rispose. Si udì il rumore di un corpo che si buttava in acqua.
I due si scambiarono un'occhiata e di comune accordo rincularono verso la foresta.
“Erano voci inglesi, signore,” sussurrò Wendel in tono appena udibile.
“Più inglesi del tè al bergamotto,” confermò Pankow. “Andiamo a vedere.”
L'altro lo fissò sgomento. “A vedere?” balbettò.
“Piano piano, strisciando.” Pankow mimò il gesto. “Ci affacciamo in silenzio e diamo un'occhiatina.”
Senza attendere risposta, il tenente si allungò su gomiti e ginocchia e cominciò a procedere verso il bordo della scogliera. Wendel dapprima si limitò a fissarlo da lontano mentre avanzava in un disinvolto passo del leopardo, poi di malavoglia lo raggiunse e si appiattì a terra accanto a lui.
Poco più in basso c'erano degli uomini con la muta di gomma e le pinne, che in continuazione si buttavano, stavano sott’acqua un po' e poi riemergevano.
L'aviere rimase a fissarli affascinato: sotto i raggi del sole, le lucide mute di gomma facevano pensare ai corpi di mostri mitologici e le lunghe pinne completavano l'illusione. Coperti dalle maschere, i volti perdevano ogni connotazione umana e diventavano qualcosa di deforme e spaventoso.
Pankow gli diede di gomito e a bassa voce disse: “Non gran che come sirene, vero?”
Il ragazzo annuì zelante, poi chiese: “Cosa staranno facendo, signore?”
L’ufficiale strisciò un po’ più avanti e rispose: “È quello che intendo scoprire.”
Uno degli uomini con la muta ripescò una cassetta di legno. La cosa sembrò generare negli altri una certa soddisfazione, tanto che tutti si riunirono intorno al reperto. A Wendel parve di sentire qualcosa a proposito di un’ombra.
Poi arrivò un altro uomo, al quale tutti gli altri sembravano rapportarsi con estremo rispetto. Questi esaminò la cassetta, quindi scosse la testa e se ne andò.
La cassetta fu ributtata in acqua, e lì rimase a galleggiare.
A quel punto, Wendel vide in faccia al tenente un’espressione che non gli piacque per nulla: era un misto di curiosità, audacia, sfida e noncuranza. Lo fissò sgomento e scosse la testa come per invitarlo a non muoversi dalla già esposta posizione che occupava, ma l’ufficiale gli fece cenno di non preoccuparsi. Strisciò un po’ più avanti, ma così facendo spinse un sasso giù dalla scogliera.
Immediatamente i sommozzatori si animarono, se lo indicarono l’un l’altro. Alcuni saltarono in acqua, altri raccolsero delle armi individuali che si trovavano su un telone in una zona asciutta e fecero fuoco nella loro direzione.
Wendel saltò indietro come una molla mentre schegge di pietra e forse proiettili gli fischiavano tutt’intorno, si girò, raggiunse di corsa la foresta e ci si buttò a pesce.
Poco dopo lo raggiunse Pankow, che lungi dal manifestare preoccupazione ridacchiava come il discolo del quartiere dopo aver suonato tutti i campanelli di una bottoniera.
“Gli abbiamo fatto prendere un accidente,” disse allegro.
“Veramente l’hanno fatto prendere loro a me, signore,” protestò Wendel. Rallentò per guardarsi alle spalle e chiese: “Ci inseguono, signore?”
Il tenente fece una risata. “Chi, le sirene? Prima che riescano a togliersi quella roba e a infilarsi un paio di scarponi, noi abbiamo già fatto il giro dell’isola tre volte!”
Continuarono a correre col ritmo della ginnastica mattutina di una caserma delle retrovie.

§

Hans si terse per l’ennesima volta il sudore dalla faccia, quindi chiese: “Qualcuno ha un orologio?”
Per tutta risposta, Michael gli fece vedere il polso sinistro nudo.
L’altro scosse la testa e indicò Schelle, ancora di spalle, con i gomiti puntati sulle cosce e il mento appoggiato alle mani. Ripeté con aria da nulla la domanda. “È un po’ che quei due sono via,” soggiunse poi.
Passò qualche secondo, poi il caporale grugnì: “Chi se ne frega. Per quanto mi riguarda, possono starsene via anche un mese. Non mi interessa minimamente.” Si girò a squadrare i due. “Io ho altro da fare che preoccuparmi di quello là, è chiaro?”
I ragazzi si scambiarono un’occhiata, poi Michael rispose: “Certo, è chiaro. Però è un po’ che sono via, non vorrei che li avessero catturati.”
“E chi se ne...” cominciò Till, poi si immobilizzò in ascolto.
“Stanno tornando?” azzardò Hans.
Schelle gli fece segno di tacere.
I due si zittirono e dopo un po’ cominciarono a sentire il rumore di passi che si avvicinavano con circospezione. Erano decisamente più di due persone.
I tre si nascosero come meglio potevano nella vegetazione e rimasero in attesa degli eventi. Schelle, che era l’unico armato del gruppo, aprì la fondina della pistola e si tenne pronto a estrarre l’arma.
I passi si avvicinarono, comparvero delle gambe rivestite di panno blu scuro. Una voce chiese, in tedesco: “È qui che avevi sentito le voci?”
Un’altra rispose: “Sì.”
Intervenne una terza: “Signore, quello sente le voci perché è matto, non gli deve dare ascolto.”
“Non è vero!”
Rannicchiati sotto un cespuglio, i tre si scambiarono occhiate perplesse.
I nuovi arrivati frattanto avevano ripreso a parlare: “Ancora niente dalla Schütze, ormai sono… quanti giorni?”
“Con questo quattro, signore.”
“Sarà meglio che si sbrighino, giocare a nascondino con gli inglesi diventa sempre più difficile.”
A quel punto, Schelle richiuse la fondina, poi a voce alta disse: “Non sparate, siamo tedeschi.” Uscì tenendo le mani ben alzate.
Si trovò davanti un guardiamarina della Schütze, tre marinai e un paio di uomini di mezz’età con qualcosa che somigliava a un'uniforme ma non aveva né gradi né distintivi.
Ad ogni buon conto, si mise comunque sull’attenti.
L'ufficiale lo riconobbe: “Lei è quello dell'aereo.” Si guardò intorno. “Dov'è il pilota? Siete venuti a prenderci?”
Schelle si strinse nelle spalle. “Ecco, signore, è una faccenda un po' complicata...”
“Sarebbe a dire?”
Il radiotelegrafista riassunse brevemente gli ultimi avvenimenti. Man mano che il racconto procedeva, l'espressione del guardiamarina si faceva sempre più mesta. Alla fine l'ufficiale emise un sospiro e disse: “Quindi l'aereo è distrutto?”
“Temo di sì, signore.”
“Niente radio?”
“Nossignore.”
Il guardiamarina si rivolse a uno dei due uomini con gli abiti strani: “Professor Dachs, oltre a essere docente di dialetti caraibici all'Università di Heidelberg si intende per caso anche di segnali di fumo?”
L'altro si strinse nelle spalle. “Temo di no, signor Bär.”
L'ufficiale si rivolse al secondo. “E lei, signor Hase?”
“Sono solo un tecnico degli armamenti, signor Bär.”
Sul gruppo calò un consapevole silenzio.
E nel silenzio, d'un tratto, si udì il tramestio di decine di piedi: tra le fronde comparvero, armati di archi e rudimentali lance, degli uomini perlopiù nudi, dalla pelle color caramello, coi corpi dipinti e monili al collo e alle orecchie.
“Indios,” constatò il professore, “della zona mesoamericana, forse addirittura discendenti degli antichi arawak. Molto interessante.” Proferì qualcosa in una lingua incomprensibile e quello che sembrava il capo del gruppo indigeno aggrottò le sopracciglia e rispose in tono duro, verosimilmente nello stesso idioma. Agitò la lancia ornata di piume e quelli che erano con lui fecero lo stesso. Tutti dissero cose dal suono decisamente minaccioso.
Il guardiamarina fissò Dachs in una muta richiesta di spiegazioni.
L'altro si strinse nelle spalle e rispose: “Signore, in quanto bianchi, gli indios ci ritengono responsabili del rapimento della figlia del loro capotribù, Yvoty Jaguarete.”
“Cosa? Del rapimento di chi?”
“ Yvoty Jaguarete,” ripeté il professore, “Giglio Tigrato. Un nome molto poetico, in verità.”
Il guardiamarina aggrottò le sopracciglia e replicò: “Ma saranno stati gli inglesi! Glielo dica, professore, che sono stati gli inglesi.”
Il docente annuì grave, quindi chiese: “Lei conosce le cinque fondamentali differenze tra le pitture corporee di un arawak e quelle di un cuna, signor Bär?”
“Eh?”
“Allora come può pretendere che un selvaggio vissuto per tutta la vita nella foresta distingua un tedesco da un inglese?”
“Beh, glielo spieghi lei, professore,” rispose pronto il guardiamarina. “Faccia capire loro che anche noi siamo nemici degli inglesi.”
Gli indios frattanto apparivano sempre più innervositi dalla situazione. Uno di essi disse qualcosa che suonò piuttosto aspro, quindi tese l'arco puntando una freccia contro il gruppo di tedeschi. Il capo gli fece un cenno e l'arco si riabbassò, ma l'indio continuò a fissarli sospettoso.
Il professore scambiò qualche altra frase con gli indios, quindi disse: “Vogliono che andiamo al villaggio a parlare con il capo.”
Tra i tedeschi passò un mormorio di disappunto e occhiate a metà tra la preoccupazione e la rabbia dardeggiarono frenetiche.
“Io non ci...” cominciò uno dei marinai, ma lo scricchiolio di un arco che si tendeva lo convinse senz'altro a tacere.
“Prima il capo vorrà parlare con noi civilmente,” spiegò il professor Dachs con un tono che voleva essere rassicurante, “le torture cominceranno solo dopo.”

Appiattiti alla base di un cespuglio, Peter Pankow e Wendel osservavano muti la scena. L'indio più autorevole – quello che aveva piume più colorate sulla testa e monili più grandi – diede un ordine e gli altri spogliarono i tedeschi di tutte le armi, poi le raccolsero e se le spartirono. Successivamente si allontanarono nella boscaglia spingendo i prigionieri davanti a loro.
In breve, sulla piccola radura calò di nuovo il silenzio.
Pankow e Wendel si scambiarono uno sguardo, poi il primo disse: “Sembra che non ci abbiano visti.” Si alzò in piedi stiracchiandosi.
“Pare di no, signore,” rispose l'altro.
“Molto bene, allora seguiamoli.”
L'aviere trasecolò. “Cosa?”
“Hai sentito, no?” replicò Pankow, “Se non interveniamo, li tortureranno.”
“Ma signore... siamo solo in due, cosa possiamo fare?”
Il tenente alzò le spalle. “Boh, qualcosa mi inventerò.” Si incamminò risolutamente nella direzione che avevano preso gli indios.


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Capitolo 8
*** VIII - In missione di salvataggio ***


Gente mia, ecco qui il pessimo Pankow nelle vesti di salvatore di fanciulle in difficoltà…
Grazie a tutti quelli che passeranno di qui a dare un’occhiata, e un ringraziamento particolare a chi mi lascerà anche un commento nonostante l’odiosità del protagonista^^





VIII – In missione di salvataggio



Nascosto nella vegetazione, protetto dalle incipienti ombre della sera, Pankow scrutava con interesse il villaggio degli indios. “È come nei film,” sussurrò al terrorizzato Wendel, che si trovava al suo fianco rannicchiato in un'ottima imitazione dell'inoffensivo sasso. “Guarda: quella là dev'essere la capanna del capo, con tutti quegli ornamenti strani, e poi c'è il fuoco al centro dello spiazzo.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Scommetto che tutti ci ballano intorno, al momento giusto. Si fanno le pitture di guerra, prendono i tomahawk e poi fanno la danza rituale.”
Signore, credo che quelli siano i pellerossa,” obiettò Wendel.
Uhm, forse hai ragione. Riesci a vedere i nostri?”
I tedeschi sedevano con aria decisamente poco soddisfatta in un angolo dello spiazzo, un gruppetto di indios armati di lance e archi faceva loro la guardia.
Anche se la luce andava scemando, si distinguevano bene le tre uniformi kaki della Luftwaffe, le quattro blu della Kriegsmarine e i due personaggi in abiti più o meno civili, genericamente vestiti di scuro.
Mi chiedo perché non cerchino di sopraffarli,” considerò Pankow tra sé e sé. Attinse alle proprie reminiscenze di fumetti d'avventura e concluse: “Sicuramente le punte delle frecce saranno avvelenate, ecco perché.”
Nel villaggio frattanto alcuni indios stavano accendendo un falò. Passarono delle donne con vasi e fagotti in testa, un gruppetto di bambini attraversò lo spiazzo schiamazzando. Cominciarono a suonare tamburi dalle varie tonalità, acute e legnose, ma anche profonde e cupe, e i colpi si alternavano in un ritmo incalzante.
Quando il battere degli strumenti divenne un frenetico parossismo, dalla capanna più grande uscì un uomo imponente, autorevole, con un lungo ornamento di piume colorate che dalla sommità del capo gli arrivava fin quasi a terra. Il suo unico indumento era un gonnellino di rafia, ma al collo, agli omeri e ai polsi portava monili di turchese e giada. Ossa decorate gli perforavano naso e lobi, complicate pitture gli coprivano il corpo.
L'uomo – di certo il capo della tribù – si avvicinò solenne al gruppetto dei prigionieri e in tono aspro disse loro qualcosa.
Uno dei tedeschi si alzò in piedi, si inchinò e rispose evidentemente nella stessa lingua dell'indigeno, perché fra i due cominciò un dialogo. Pankow notò però che nonostante ogni apparente tentativo da parte del tedesco di mantenere toni concilianti, l'altro sembrava alterarsi sempre di più. Alla fine gridò qualcosa brandendo una specie di bastone decorato di piume e feticci, e tre prigionieri furono prelevati e legati a tre pali sinistramente allineati vicino al falò.
Qui si mette male,” disse il tenente.
Wendel, più che mai rannicchiato, gli chiese: “Ora che cosa faranno, signore?”
Pankow alzò le spalle. “Credo che li tortureranno, se non interveniamo.” Dopodiché si alzò e si diresse di buon passo verso il villaggio. Quando fu allo scoperto alzò le mani e a voce alta disse: “Vengo in pace! Pace, capite? Siamo tutti amici, ci vogliamo tutti bene! Non possiamo parlarne, prima di cominciare a seviziare gente per bene? Io credo che il dialogo...”
Senza nemmeno aspettare la fine del discorso, quattro guerrieri gli saltarono addosso e lo atterrarono.
Ehi, che modi,” protestò Pankow in tono offeso. Uno degli indios gli puntò un coltello di selce sotto il mento. “Scherzavo,” gli assicurò in tono soave l'ufficiale.
Lo trascinarono verso il gruppo dei prigionieri. L'uomo autorevole, che aveva seguito immobile tutta la scena, a quel punto chiese qualcosa.
Il professor Dachs tradusse: “Il grande capo Vaka Ména Oñembo Ýva – Toro in Piedi, nella nostra lingua – chiede chi è lei, tenente.”
Pankow, al quale sembrava di essere finito dritto dritto in uno dei fumetti di avventura con cui si dilettava da ragazzino, assunse dapprima un'aria assorta, infine proferì: “Io sono un vostro grande amico. C'è un problema? Sono qui per risolverlo.” Distribuì a destra e a manca sorrisi incoraggianti, come per far capire che non dovevano preoccuparsi, che avrebbe sistemato tutto lui.
Il professore gli spiegò la faccenda della figlia rapita. Pankow ascoltò con attenzione, immaginando frattanto una graziosa fanciulla india dalle forme flessuose e dagli occhi di cerbiatto, magari con un succinto abitino dal bordo frangiato.
Quindi crede che siamo stati noi?” chiese alla fine del resoconto.
Precisamente. Come già spiegavo al guardiamarina Bär, questa gente non è in grado di distinguere tra inglesi e tedeschi: per loro siamo tutti genericamente uomini bianchi.”
Non avrebbe senso spiegare loro la differenza tra un salutare colorito tedesco e un malsano colorito britannico, frutto dell'eccessivo consumo di tè e del clima umido e freddo, vero?”
Temo di no, tenente.”
Allora dica che gliela andiamo a liberare noi, la sua bambina.”
Dachs lo fissò stupefatto. “Prego?”
Andiamo dagli inglesi e ce la portiamo via. Come si chiama, a proposito, la giovinetta?”
Yvoty Jaguarete, Giglio Tigrato.”
Pankow emise un sospiro. “Bellissimo,” apprezzò. Poi, in tono deciso: “Dica al tizio con le collane che non si deve preoccupare: gli riporteremo la sua bambina prima di domani. Dov'è che la tengono, a proposito?”

§

Appena illuminata da un'esile falce di luna, la scogliera era scivolosa e costantemente battuta dai frangenti.
Pankow avanzò cauto, quindi si appiattì contro la parete di roccia. “Attento,” sussurrò.
Alle sue spalle, la voce di Wendel rispose: “Sissignore.”
Senza muoversi, il tenente aggiunse: “Il tizio con le collane ha detto che da queste parti ci dovrebbe essere un'apertura che conduce a una grotta.”
Sissignore.”
È lì che tengono la ragazza.” Emise un sospiro, poi in tono accurato proseguì: “Poverina, chissà quanto sarà spaventata.”
Avanzarono cauti un altro po', il rumore dei passi coperto dal frangersi delle onde, e infine videro sui rivoli di schiuma che scorrevano verso il basso il vago baluginare dorato di un riflesso di luce.
Subito dopo si udirono una specie di ruggito da orco, un trambusto che faceva pensare a oggetti pesanti lanciati a caso contro le pareti e il tintinnio di vetri infranti. Una lanterna uscì in volo da quella che doveva essere l'imboccatura della grotta, rimbalzò un paio di volte sugli scogli e precipitò in acqua.
Cazzo,” commentò Pankow. “Che succede là dentro?”
I rumori di colluttazione frattanto proseguivano. Ci furono un altro paio di ruggiti da orco, nei quali parve ai due di indovinare l'articolazione di una qualche forma di linguaggio.
Infine una voce impostata e vagamente sussiegosa disse in inglese: “Suvvia, signorina, le sembra un comportamento adatto a una giovane donna?”
Seguì il rumore di oggetti infranti, quindi un’altra voce che esclamava: “Stia attento, signore, calcia peggio di un mulo!”
Approfittando della confusione, Pankow avanzò cauto e gettò un’occhiata all’interno: sulle prime gli parve di vedere un gorilla inferocito che si agitava. A un più attento esame, il gorilla si rivelò essere una persona, più precisamente una donna sudata e scarmigliata, con le mani legate dietro la schiena. Il tenente constatò che era alta quattro dita buone più di lui e larga come lui e Wendel uno accanto all’altro.
In quel momento stava emettendo muggiti che avevano tutta l’aria di essere imprecazioni nella sua lingua, mentre due o tre marinai cercavano di ridurla all’impotenza con dei lazo avvolti intorno al corpo massiccio.
Un po’ discosto, un sopracciglio alzato in segno di sobrio disappunto, il capitano di fregata James Hook osservava la scena.
Cercate di ricondurre all’obbedienza questa creatura,” disse, “sarebbe disdicevole e indegno di un gentiluomo dover passare a vie di fatto nei confronti di un’esponente del gentil sesso.”
Uno dei marinai fu scaraventato urlante fuori dalla grotta, descrisse una perfetta parabola davanti agli occhi attoniti dei due tedeschi e finì in acqua con un tonfo.
Wendel, che era alle spalle del tenente, chiese: “Cosa c’è là dentro, signore, un orso inferocito?”
Vorrei sbagliarmi,” fu la cupa risposta, “ma temo di aver trovato la leggiadra e flessuosa Yvoty Jaguarete.”
È prigioniera dell’orso, signore?”
No, a quanto pare è lei l’orso.”

Attesero un po’ immobili nel buio. all’interno della grotta il trambusto sembrava essersi placato, le imprecazioni indie avevano avuto un deciso calo. Ora erano solo un brontolio cupo, come tuoni lontani in un cielo che promette tempesta.
Pankow fece un cauto passo avanti e scrutò all’interno della grotta: la ragazza era seduta su una cassa rovesciata, aveva ancora le mani legate dietro la schiena e tramite una robusta cima era assicurata a una massiccia stalagmite. A rispettosa distanza, un paio di marinai la tenevano d’occhio.
È il momento,” proclamò il tenente, poi impugnò la pistola ed entrò risolutamente nella grotta. “Mani in alto, signori!” consigliò ai due marinai, in un inglese che sembrava il rumore di una raspa su un vecchio pezzo di legno.
Nonostante la pronuncia non ineccepibile, l’arma spianata convinse senz’altro i due a obbedire, ma mentre essi alzavano le mani, sopraggiunse attraverso un’altra uscita della grotta, James Hook in persona.
Ci fu un attimo di immobilità assoluta, nel quale persino la risacca sembrò congelarsi, poi il capitano esibì un ghigno feroce e disse: “Ma bene, sembra che dopotutto il demonio mi abbia ascoltato.” Con gesto repentino sfoderò la pistola. “Mani in alto,” ordinò brusco.
Marameo!” fu tutto ciò che Pankow si degnò di rispondergli, quindi schizzò via con un agile balzo. Hook sparò, il rumore improvviso, che in quell'ambiente chiuso rimbombò come una cannonata, fece sussultare l’orchessa, che balzò in piedi e strillò: “Tu… merda! Tu grossa merda!” Tentò di sferrare uno dei suoi temibili calci a Hook, che però si era già portato a distanza di sicurezza.
Yvoty Jaguarete si girò allora verso il tenente, lo squadrò con occhi di fuoco e disse: “Tu… piccola merda!”
Hook sparò di nuovo, e ancora una volta Pankow evitò il colpo, che rimbalzò sulla parete di roccia con un minaccioso ronzio, quindi aggirò la figlia del capotribù e segò con un pugnale la cima che la assicurava alla stalagmite. “Tu piccola merda!” ripeté irosa la ragazza. Cercò di tirargli un calcio, poi si accorse di essere libera. Subito si disinteressò del tenente e partì a testa bassa verso l’imboccatura della grotta, mandando al suo passaggio uno dei due marinai a gambe all'aria. Scomparve nel buio con la velocità di chi conosce alla perfezione i dintorni.
Pankow valutò in un attimo la situazione: il marinaio abbattuto dall’orchessa si stava alzando, l’altro aveva già raccolto da terra il fucile, Hook aveva il dito sul grilletto.
Marameo!” gridò ancora una volta, quindi diede un calcio alla lanterna superstite mandandola a fracassarsi contro la parete e si buttò fuori a pesce. “Vieni, Wendel!” esclamò passando, “muoviamoci, o quella arriva al villaggio da sola!”
Io la lascerei andare, signore!”
No di certo! Poi come facciamo a dimostrare che l’abbiamo liberata noi?”

La fiammella di un accendino scattò nel buio, traendo per prima cosa un lampo sinistro dall’uncino d’acciaio di Hook. Successivamente, la debole luce tratteggiò il volto del comandante, in quel momento atteggiato a un ghigno astuto.
Chi si crede troppo furbo fa una brutta fine,” sentenziò l’ufficiale. “Quell’irriverente macaco pensa di poter prendere in giro chiunque con i suoi giochetti, ma questa volta si fa sul serio.” Poi, a voce più alta: “Signor Soak!”
Comparve il nostromo. “Signore?”
Signor Soak, mi mandi una squadra. Questa volta Pankow avrà quello che si merita.”
Sissignore.”
Poco dopo, Hook procedeva sicuro nella foresta, con il debole chiarore della luna come unica luce.
Adagio, uomini,” sussurrò ai marinai che armi alla mano lo seguivano. “Non ci interessa arrivare presto, ci interessa non farci scoprire.”
Si addentrarono silenziosi tra le fronde, seguendo la scia di rami spezzati ed erba calpestata che Giglio Tigrato si era lasciata dietro correndo.

§

A Pankow sembrava di avere i polmoni in fiamme: quell’accidenti di orchessa era sovrappeso, con le mani legate dietro la schiena e scalza, eppure correva come una specie di cinghiale aizzato, evitando ogni ramo troppo basso, tronco o radice con un’abilità che aveva del soprannaturale.
Abilità che lui non possedeva, peraltro: era già rovinato al suolo due o tre volte, e altrettante era finito in mezzo a rovi o fango. Ormai si augurava quasi che Hook lo acciuffasse, almeno avrebbe potuto riposarsi un po’.
Tutto a posto, Wendel?” chiese, troppo stanco anche per abbassare la voce.
Sissignore,” boccheggiò il ragazzo alle sue spalle. “Manca molto, signore?”
Un ultimo sforzo e ci siamo, almeno spero. Non facciamoci distaccare proprio adesso, però.”
La ragazza continuava a correre imperterrita, senza rallentare minimamente l’andatura.
Ehi, tu!” ansimò Pankow, cercando di scorgere nel buio l’ampia schiena di Yvoty Jaguarete. “Ehi! Aspetta, no?”
Tu piccola merda!” provenne dall’oscurità.
Proprio quando Pankow aveva stabilito che si sarebbe sdraiato per terra e si sarebbe lasciato morire, si intravide fra gli alberi un baluginio di fiaccole.
L’ufficiale ringraziò mentalmente – anche perché non avrebbe avuto fiato sufficiente per farlo a voce – ogni divinità di sua conoscenza, comprese quelle caldee e sumere, per non averlo fatto morire d’infarto e si apprestò a coprire le ultime decine di metri che lo separavano dal riposo.
All’apparire di Yvoty Jaguarete, nel villaggio esplose un’ovazione. Il falò fu rinfocolato, chi era legato ai pali fu liberato, e al suono di canti e tamburi cominciò una danza sfrenata intorno alle fiamme che si levavano sempre più alte.
Le donne entrarono nelle capanne e ne uscirono portando vasi e cesti colmi di cibi e bevande.
Pankow raggiunse il gruppo dei tedeschi. Essi sedevano ancora dove li avevano lasciati, ma ormai potevano considerarsi liberi, dal momento che chi avrebbe dovuto sorvegliarli si stava dando a balli e libagioni.
Com’è andata?” chiese il guardiamarina Bär. Si alzò in piedi e fece qualche passo per sgranchirsi.
Ancora ansante, Pankow rispose: “La parte più complicata è stata correre dietro a quella là.”
L’altro si voltò a fissarlo. “È sicuro che non vi abbia seguito nessuno?”
Il tenente sbuffò infastidito: era stanco, aveva sete, si voleva riposare e non vedeva l’ora di scoprire cosa c’era nelle anfore che gli indios si stavano passando con gran soddisfazione di mano in mano. “Si figuri se ci hanno seguiti,” replicò, “era buio pesto.” Poi per evitare altre domande si alzò e fece per allontanarsi, ma a quel punto venne raggiunto dal capo della tribù, che aveva in mano un copricapo simile a quello che indossava.
Prima che Pankow potesse realizzare quello che stava succedendo, l'uomo glielo pose sulla testa, quindi solennemente proclamò: “Taguató Ovevéva!”
Alla frase seguì un’ovazione.
Taguató Ovevéva!” ripeté l’uomo, indicando il tenente col copricapo di piume.
Alle spalle di Pankow, il professor Dachs spiegò: “L’ha nominata Aquila Volante. È un grande onore.”
Beh, allora bisognerà brindare, direi!” esclamò il tenente, spostandosi con noncuranza il copricapo sulle ventitré. “Purché la qualifica non comporti sposare la figlia del tizio con le collane.”
Gettò uno sguardo fugace a Yvoty Jaguarete, che finalmente libera, con le trecce che le ballonzolavano sulla schiena e un abito discinto, conduceva le danze intorno al fuoco. Distolse lo sguardo con un brivido di orrore.
Si girò poi a cercare i suoi: Wendel ce l'aveva di fianco, Hans e Michael, a torso nudo e variamente imbrattati di pittura, stavano saltellando assieme agli indigeni. I marinai erano riusciti ad accaparrarsi una delle anfore e la stavano con gioia vuotando. Il tizio che parlava la lingua locale era immerso in una fitta conversazione con un indio, mentre quello che si era qualificato come tecnico – il professor Hase, se ricordava bene – stava parlando di fenomeni elettrostatici con il guardiamarina.
Non vedeva Schelle da nessuna parte: magari il furbastro si era già trovato qualche ragazza india e le stava facendo vedere le costellazioni, per così dire.
Liquidò la faccenda con un'alzata di spalle, si liberò della camicia e gridò: “Ehi, ci sono anch'io!”
Corse a raggiungere quelli che stavano ballando intorno al fuoco.

Appena fuori dal villaggio, seduto su una pietra, Schelle emise un sospiro. Da una parte si augurava che nessuno andasse a cercarlo, ma dall’altra il fatto che tutti si stessero divertendo e a nessuno interessasse sapere che fine aveva fatto lo metteva in uno stato d’animo plumbeo.
Aggrottò le sopracciglia. Chi aveva colpa di tutto era ovviamente il tenente Pankow. Lui e la sua stupida noncuranza. In quel momento sentiva la sua voce allegra, squillante, vagamente appesantita dall’alcol, intonare maldestramente quello che doveva essere un canto indigeno, chiaramente storpiato come un indio avrebbe potuto storpiare Die Fahne hoch.
Le strofe finirono in grandi risate, qualcuno urlò qualcosa e le risate ebbero un parossismo.
Corrugò la fronte: si stavano divertendo alla grande laggiù. Si stavano ubriacando, magari, incuranti della guerra e dei nemici che senza dubbio infestavano l’isola. “Un comportamento molto responsabile,” borbottò, e poi non riuscì ad aggiungere altro, perché una robusta mano lo afferrò per il collo togliendogli il respiro e un’altra gli tappò la bocca.
D’istinto si divincolò, ma altre mani lo immobilizzarono e lo trascinarono via.


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Capitolo 9
*** IX - In vino veritas ***


Gente mia,
penultimo capitolo del mappazzone, grazie a tutti coloro che con grande abnegazione mi stanno seguendo, e grazie a chi mi ha lasciato un commento.
Scusate se stavolta non risponderò subito a eventuali recensioni, ma per un po’ non avrò internet: non sono disinteressato, solo impossibilitato!
Comunque grazie in anticipo se passerete di qui^^







IX – In vino veritas



Legato e imbavagliato, Schelle veniva spinto lungo un sentiero dalla canna di un'arma da fuoco puntata in mezzo alla schiena.
Che non fosse uno scherzo di cattivo gusto di Pankow gli era purtroppo chiaro, dal momento che chi lo stava tenendo sotto tiro parlava un cockney strettissimo, con suoni che nessun tedesco, nemmeno disperatamente ubriaco come in quel momento doveva essere il suo tenente, sarebbe mai stato in grado di riprodurre.
Si chiese cosa sarebbe successo. L'avrebbero interrogato sul tenente Pankow?
Quel pensiero ebbe il potere di fargli comparire sulle spalle la ben nota accoppiata di angioletto e diavoletto.
L'angioletto gli suggeriva di sopportare eroicamente ogni sevizia pur di non rivelare nulla di ciò che gli inglesi gli avrebbero sicuramente chiesto su Pankow, ma il diavoletto faceva con aria da nulla notare che il comportamento di Pankow negli ultimi tempi non era certo stato così rispettoso nei suoi confronti. Se n'era fregato di qualsiasi cosa, con quella sua odiosa arietta noncurante, svagata, di ragazzino che non ha una preoccupazione al mondo.
Sarebbe opportuno che imparasse a prendere le cose con la dovuta serietà, suggeriva il diavoletto, non può continuare a fare il bambino.
L'angioletto però accorato interveniva: Pankow è pur sempre un ufficiale tedesco. Tradirlo, e tradire con lui tutti gli altri, significherebbe tradire la Patria.
Il diavoletto però obiettava: sì, ma una piccola porcata, giusto per fargli pagare le ultime cose, giusto per insegnargli a stare al mondo. In fondo è solo un pilota di idrovolante qualsiasi, è un pesce piccolo...
Angioletto: No! Lui si fida di te!
Diavoletto: sai che spettacolo la sua faccia?
Angioletto: Sarebbe tradimento!
Diavoletto, suadente: Però se lo meriterebbe, non è vero?
L'ideale scambio fu interrotto dal diradarsi della vegetazione. Più avanti, al limitare della laguna, comparve una nave da guerra ormeggiata, visibile più che altro come una specie di macchia scura sugli scintillii che la luna traeva dalle increspature dell’acqua.
Schelle deglutì ed ebbe un momento di esitazione. La canna dell'arma gli fu premuta con più forza contro la schiena, una voce rude lo incitò ad andare avanti.
Poco dopo si trovò seduto in una scialuppa mentre quattro marinai vogavano di buona lena. La canna del Lee-Enfield era sempre puntata contro di lui, ne coglieva di tanto in tanto il baluginio sinistro, per cui ritenne più saggio non muoversi. Si voltò solo fugacemente verso la giungla, nella direzione in cui riteneva si trovasse il villaggio, e gli parve di scorgere il lucore dorato del falò.
Si chiese se lo stessero già cercando. A quel pensiero, le spalle gli si alzarono quasi involontariamente in un gesto di scetticismo: Pankow doveva essere già ubriaco e gli altri probabilmente non si ricordavano nemmeno della sua esistenza.
Gli sfuggì un sospiro. Sollevò lo sguardo sul capitano inglese ed egli, che era in piedi a prua e sembrava assorto nella contemplazione del mare notturno, si girò a fissarlo con l’aria di essere perfettamente al corrente dei suoi patimenti.
Schelle tossicchiò a disagio e distolse lo sguardo.

Poco dopo Schelle entrò vagamente imbarazzato nella cabina personale del comandante Hook. Questi si sedette alla scrivania e gli fece cenno di prendere posto su una sedia che si trovava davanti al mobile. “Si accomodi, prego,” lo invitò in perfetto tedesco. “Caporale Till Schelle, non è così?”
Come fa a…?”
Hook alzò le spalle con fare noncurante. “Signal arriva anche da noi, caporale.”
Capisco.” Il tedesco si accomodò come se si stesse sedendo sui carboni ardenti.
Inoltre ci siamo già visti, non ricorda?” Sollevò lentamente l’uncino, che brillò sinistro sotto la luce da tavolo.
Till quasi sussultò sulla sedia quindi, in un empito di coraggio, disse: “Io non parlerò mai!”
L’altro annuì con indulgenza. “Ma certo, capisco. Del resto, il silenzio è d’oro. Non è così che si dice?” Si piegò a fissarlo negli occhi mentre con la mano sana si lisciava i curatissimi baffetti neri.
Schelle deglutì. “Sì… credo di sì.”
Ma certo. Del resto, per citare Buddha, prima di parlare domandati se ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno, se è utile, e infine se vale la pena di turbare il silenzio per ciò che vuoi dire.”
Si raddrizzò con signorile eleganza, consentendo a un erculeo sottufficiale di posare sulla scrivania un vassoio d’argento con sopra una bottiglia di Porto e due bicchieri.
Grazie, signor Soak,” disse compito.
Dovere, signore,” rispose l’altro, quindi salutò e uscì.
Hook a questo punto stappò la bottiglia e riempì a metà i due bicchieri, poi ne spinse uno verso Schelle. “Lo assaggi,” gli consigliò. “È un’ottima annata.”
Nonostante la paura, anzi forse proprio per quella, il caporale non si fece pregare. Il Porto del resto aveva un cupo color rubino ed emanava un profumo che ricordava legni preziosi, frutta e spezie. Bevve un lungo sorso, quindi emise un sospiro.
Niente male, vero?” disse Hook.
Nossignore.”
Posso chiederle cosa faceva tutto solo su quella roccia?”
Il caporale strinse le labbra. “Niente. Avevo voglia di stare per conto mio.”
Hook assunse un’aria costernata. “Nessuno dei suoi camerati ha pensato di trattenerla? Come ha visto lei stesso, sono zone pericolose.”
Il più giovane si limitò ad alzare le spalle, il comandante annuì come se la sua reazione fosse esattamente quella che si era aspettato. Lasciò passare un po’ di tempo, in cui l’unico rumore che si udì fu quello dell’orologio a parete che ticchettava, poi chiese: “E del tenente Pankow cosa mi dice, caporale?”
Schelle aggrottò le sopracciglia, posò il bicchiere come se scottasse e ritirò la mano. “Niente,” rispose brusco.
L’altro si concesse addirittura una risatina. “Quanto zelo,” commentò. “Ma non voglio sapere faccende militari, ovviamente. Parlavo del suo aspetto umano.”
Schelle fece tanto d’occhi. “Umano?”
Ma certo. Qualche aneddoto, qualcosa sull’amicizia che vi lega.”
A quelle parole il caporale si incupì. Hook sollevò con fare sollecito le sopracciglia e chiese: “Ho detto qualcosa che non va, forse?”
No, niente.” Till recuperò il bicchiere e bevve un altro lungo sorso. Quando lo appoggiò, Hook provvide con aria da nulla a riempirlo nuovamente.
Il caporale bevve di nuovo.
Qualche aneddoto,” propose ancora Hook. “Qualcosa sulla sua vita privata.”
Di nuovo il porto nel bicchiere di Schelle calò fin quasi a esaurirsi e fu riportato ai livelli iniziali. Till cominciò a trovare quel vino molto buono e il suo interlocutore molto simpatico.
Lei non è come immaginavo,” gli scappò detto.
Davvero?”
E neanche… Peter.”
Oh, mi rincresce sentirlo,” disse Hook. Riempì di nuovo il bicchiere, gli fece cenno di bere un sorso.
Schelle sbatté gli occhi con l’aria di un gufo finito in piena luce. “Lo credevo diverso.”
Il comandante si alzò, fece qualche passo nella stanza e si atteggiò come se fosse stato in procinto di recitare il monologo dell’Amleto. “È terribile quando la gente che stimiamo ci delude, non è vero?” disse invece. Lo fissò di sottecchi.
Prima di rispondere, Till vuotò di nuovo il bicchiere, quindi afferrò la bottiglia e provvide autonomamente a riempirlo di nuovo. “È uno stronzo,” proclamò infine apodittico.
Hook si sedette di nuovo, lo fissò negli occhi. “Mi rincresce sentirlo,” disse. “Dall’articolo pare una persona così divertente, così coraggiosa...”
È un ragazzino irresponsabile. Uno che non capisce il vero valore delle cose.”
Hook appoggiò il gomito sul piano del mobile e il mento sul palmo.
È uno che ha dato la mia mansione di radiotelegrafista a un pivello appena arrivato perché lo trovava più divertente di me.” Vuotò un altro bicchiere. “Perché era una novità.”
Questo è increscioso,” considerò Hook.
È uno stronzo.”
Non posso che convenirne.”
A quel punto, il ticchettio dell’orologio a parete parve farsi decisamente più forte. Hook si voltò in quella direzione e realizzò che il rumore proveniva in realtà dall’oblò aperto.
Corse fuori con un’imprecazione, disinteressandosi momentaneamente dell’attonito Schelle. Questi rimase per un po’ a fissare la porta da cui l’ufficiale era uscito, quindi si riempì di nuovo il bicchiere, borbottò Prosit e lo scolò.

Un gruppetto di marinai riunito lungo l'impavesata di dritta diede corpo ai peggiori sospetti di Hook. “Largo!” ordinò il comandante, e si sporse a scrutare le acque scure: i contorni sinistramente delineati dai raggi argentei della luna, irta di aculei, una sfera larga circa mezzo metro flottava seguendo il moto ondoso e ticchettando come una simpatica vecchia sveglia.
Maledizione!” ringhiò Hook, quindi, a voce più alta: “Signor Soak!”
Comparve l'immancabile nostromo. “Signore?”
Signor Soak, c'è di nuovo quella cosa.”
Cosa, signore?”
Il comandante ebbe un moto d'impazienza. “Quell'affare. La Crocodile!”
Il sottufficiale si sporse a sua volta dall'impavesata, scrutò per qualche tempo l'ordigno, quindi propose: “Vado a prendere l'asta della nafta, signore?”
Prenda quello che vuole, basta che la tenga lontana.”
Soak annuì grave, quindi propose: “Vado a chiamare un paio di tiratori, signore?”
Eh? Per fare che?”
La risposta del nostromo ebbe il tono dell'ovvio: “Per spararle, signore. Così la coliamo a picco una volta per tutte.”
Idiota!” ringhiò Hook, “A questa distanza? Saremmo noi a colare a picco, con tutta la Jolly Roger!” Di nuovo rivolse un'occhiata torva alla mina, quindi ordinò: “Bisogna allontanarla.”
Il ticchettio cessò.
Nonostante la presenza del comandante e le regole non scritte della Royal Navy, tutti si assieparono lungo l'impavesata, i più vicini praticamente a contatto di gomito con la sacra persona del comandante.
Se n'è andata?” chiese un marinaio.
Cos'era?” volle sapere un altro.
Ci furono alcuni secondi di un silenzio denso, sotteso dai mormorii di curiosità e preoccupazione della gente, quindi una voce gridò: “Ehi! È qui!”
Tutti si precipitarono all'impavesata di sinistra.
Silenzio a prua e a poppa!” gridò a quel punto Hook, infastidito dal cicaleccio che la misteriosa apparizione aveva suscitato. “Ognuno torni alle sue mansioni!”
Nella quiete che come per incanto si diffuse ovunque, il ticchettio della Crocodile parve ancora più forte.
Hook si piegò a fissare l'acqua, poi disse: “È passata sotto la nave, non c'è altra spiegazione.” Senza distogliere lo sguardo dalla mina tese all'indietro il braccio sano e disse: “Mi dia un po' quell'asta della nafta, signor Soak, e un fucile: voglio occuparmi di questa cosa una volta per tutte.”
Come se avesse potuto sentirlo, la Crocodile immediatamente s'inabissò. Per un po' rimasero a fissare la superficie dell'acqua col fiato sospeso, ma la mina non ricompariva.
Mi avvisi se torna,” ordinò brusco il comandante, quindi raggiunse la sua cabina.

La prima cosa che il comandante notò rientrando in cabina fu che nella bottiglia di Porto era rimasto forse un dito di vino.
La seconda fu che con ogni evidenza il caporale tedesco non era precisamente un bevitore: giaceva sulla poltroncina in stato di languido abbandono e l'unica parte del suo corpo che non aveva la consistenza di una medusa morta era la mano destra, tenacemente serrata intorno al bicchiere ormai vuoto.
Hook lo scrutò con occhio clinico, quindi a bruciapelo gli chiese: “Dov'è il tenente Pankow, caporale?”
Il più giovane alzò lo sguardo su di lui e faticosamente gli chiese: “Perché lo vuole sapere?”
Per fargli uno scherzo,” fu la risposta.
Schelle rise con aria ebete. “Uno scherzo,” ripeté.
Mellifluo, Hook buttò lì: “Se lo merita, non è vero?”
Il caporale annuì cauto, come se stesse cercando di ricordarsi quali muscoli si dovessero usare per far andare su e giù la testa. “Mi gira tutto,” ridacchiò poi.
Mi dica solo dove posso trovare Pankow, poi la lascerò dormire tranquillamente in questa bella cabina comoda e fresca.”
Ha presente il villaggio dei cosi... degli indiani?” borbottò Till con voce incerta. “Ecco, sono tutti là. C'è lui, ci sono i marinai, c'è lo stronzetto con i suoi fratellini...”
Ma guarda un po'. Tutti insieme?”
Fratellini di merda,” imprecò Schelle per tutta risposta. “Da quando sono arrivati loro, è andato tutto a catafascio.”
Ma certo,” rispose Hook in tono conciliante. Gli vuotò nel bicchiere l'ultimo dito di vino. “Allora, abbiamo detto che sono tutti al villaggio, non è vero?”
Tutti là, a divertirsi come stupidi. Non gliene frega niente di me, non gli importa se ho sudato sangue per avere la qualifica di raro... radio... fonico... radiatore...”
Certo, certo. Ora pensi a dormire, eh?”
Non ci fu bisogno di ripeterlo: con la testa penzoloni, Schelle stava già russando.

§

Infastidito da un pizzicore al naso, Pankow grugnì qualcosa e mosse dapprima la mano in un maldestro tentativo di scacciare qualche insetto, poi realizzò che il fastidio proveniva dal copricapo rituale, le cui piume colorate gli si stavano infilando in ognuno dei ricettacoli che la Natura aveva ritenuto di creare nella sua testa: naso, bocca, orecchie e occhi.
Se lo fece scivolare via con gesti incerti e si girò per voltarsi a pancia sotto, ma a quel punto la vescica protestò vivacemente contro tale risoluzione.
Stoicamente, Pankow cercò di resistere, ma il disaccordo del viscere per la posizione prona era di quelli con cui non si può venire a patti.
Si sollevò quindi carponi, con la sensazione di essere un’incudine nel cestello di una lavatrice – e di avere la stessa cosa anche dentro il cranio – poi guadagnò faticosamente la stazione eretta. A quel punto il suo stomaco si unì alle proteste della vescica ed egli a passi incerti, barcollando peggio che col mare forza 9, si inoltrò nella foresta alla ricerca di un luogo in cui lasciare ogni suo più intimo contenuto.

Hook, che aveva visto qualche fotografia di campi di battaglia dopo l'uso di gas asfissianti, trovò lo spiazzo del villaggio non molto dissimile da quelle immagini.
Del fuoco rimanevano ormai solo poche braci, dappertutto vi erano vasi e anfore rovesciati, alcuni su piccole pozze di quello che doveva essere stato il loro contenuto. Sparsi qua e là c'erano piatti che contenevano resti di frutta e altri cibi.
Lo spettacolo che colpiva maggiormente era senza dubbio quello offerto dalla componente umana: maschi e femmine giacevano riversi nella posizione in cui l'ebbrezza li aveva fatti crollare, e se non fosse stato per un diffuso russamento, davvero si sarebbero detti le vittime di un'esposizione al sarin.
Il comandante si avvicinò a un marinaio che giaceva supino e lo spinse appena col piede. Questi emise un brontolio vago, poi ripiombò nel torpore.
Legate tutti quelli che non sono indios e portateli via,” ordinò allora, quasi deluso per la facilità dell'operazione.
Man mano che i prigionieri incoscienti abbandonavano il villaggio per essere trasportati verso la Jolly Roger, Hook sentiva crescere in sé l'inquietudine: non vedeva, tra quei corpi ciondolanti e inerti, nessuna zazzera rossa. Molti biondi, molti castani, ma l'odiosa, sfacciata tonalità pel di carota che lui stava cercando si ostinava a non comparire.
Chiamò il nostromo. “Dov'è il maledetto Pankow, signor Soak?” volle sapere.
Il sottufficiale si strinse nelle spalle. “Forse l'hanno già portato via, comandante.”
Non l'ho visto.”
A quel punto, Hook estrasse la pistola e passò personalmente di capanna in capanna alla ricerca dell'irriverente giovanotto.
S'imbatté in dormienti di ogni età, però di razza rigorosamente india. Alla fine trovò qualcosa che suscitò il suo interesse: in una delle capanne, abbandonato in un angolo, c'era un vistoso copricapo di piume colorate accanto al quale era posato un berretto da ufficiale della Luftwaffe. Il comandante lo raccolse servendosi dell'uncino. Dapprima lo scrutò stringendo gli occhi come se si fosse trovato davanti Pankow in persona, quindi guardò al suo interno e un paio di P ricamate sulla fascetta gli diedero la conferma che il berretto fosse proprio suo.
Signor Soak!” chiamò.
Subito si presentò il nostromo. “Comandante?”
Signor Soak, mi faccia avere una granata e un filo, presto. Le garantisco che l'ignobile macaco avrà una bella sorpresa, quando proverà a indossare il suo berretto.”

§

Quando Schelle recuperò una parvenza di cognizione di sé, nella cabina si stava diffondendo il chiarore dell'alba.
Fuori c'era un certo trambusto, ma dalla sala macchine non giungeva alcun rumore, quindi la nave doveva essere ancora ormeggiata. Si sentivano però ordini gridati e gli parve di riconoscere anche qualche parola in tedesco.
La cosa gli diede una certa inquietudine. Per qualche motivo, quelle voci nella sua madrelingua non gli sembravano foriere di novità positive. Se ci fosse stato un assalto dei suoi alla nave, per esempio, ci sarebbero anche stati i suoni di una lotta. E poi quale assalto, se le uniche armi che avevano a disposizione erano i moschetti dei tre marinai, la sua pistola e quelle dei due ufficiali?
Si voltò verso l'oblò con l'intenzione di raggiungerlo per dare un'occhiata fuori, ma in quel momento percepì dei passi in avvicinamento.
Richiuse gli occhi e lasciò ciondolare la testa come una carcassa in cella frigorifera.
Nella stanza attigua entrarono due persone, che presero poi a parlare fra di loro.
Riconobbe subito la voce del comandante Hook. Per quanto non capisse tutto quello che diceva, gli fu comunque chiaro che erano stati catturati dei tedeschi.
Nonostante il mal di testa, nonostante lo stomaco sottosopra, la lingua felpata e la vescica che gridava vendetta al cospetto di Dio, cercò di concentrarsi al massimo per cogliere il maggior numero possibile di particolari della faccenda.
A un certo punto, l'ufficiale disse: “Un buon lavoro: tutti catturati tranne Pankow. Ma gli ho lasciato una sorpresa che non dimenticherà facilmente.” Ci fu un compiaciuto silenzio, quindi proseguì: “Pagherei per vedere la faccia che farà quel dannato moccioso quando proverà a raccattare il suo berretto.”
Un'altra voce, più rude, appesantita da una lunga consuetudine con rum e sigari, rispose: “La Mills farà davvero un bel botto, signore. Secondo me la sentiremo anche da qui.”
Till dovette farsi forza per non sussultare: la combinazione nello stesso discorso di granata Mills, berretto e Pankow dipinse nella sua mente, pur non ancora del tutto lucida, scenari dei più foschi.
Gli fu chiaro che doveva cercare di raggiungere prima possibile il tenente, ma come?
A quel punto si udì un ticchettio, il comandante inglese proferì una tremenda imprecazione, poi lui e l'altro uomo lasciarono in tutta fretta la cabina per correre in coperta.
Appena fu certo di essere solo, Schelle saltò in piedi e si avvicinò all'oblò: lungo l'impavesata di sinistra, una frotta concitata di marinai stava trafficando con un'asta graduata che gli parve quella che si usava per misurare il livello della nafta. L'attenzione di tutti era concentrata su quel lungo bastone.
Senza esitare uscì dalla cabina e saltò in acqua dall'impavesata di dritta, quindi si allontanò a nuoto più veloce che poteva, pregando che il diversivo, qualunque cosa fosse, durasse abbastanza da consentirgli di raggiungere la terraferma.



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Capitolo 10
*** X - Tutto è bene quel che finisce bene ***


Gente mia,
almeno un o dei tre mappazzoni in corso giunge oggi a compimento. Grazie di cuore a tutti coloro che mi hanno seguito, che hanno letto, messo in qualche lista o addirittura commentato.
Come dico sempre, sono i lettori che rendono vive le storie, quindi grazie ancora a tutti per aver reso vivi i miei personaggi e la mia storia!






X – Tutto è bene quel che finisce bene



Quando la mente di Pankow tornò in grado di elaborare pensieri coerenti, il primo che formulò fu il fermo proponimento di non bere mai più nulla che fosse stato preparato dagli indios.
Nonostante nel corso di quell'infausta notte avesse vomitato anche quello che aveva mangiato a Natale, la testa gli doleva come se dentro ci fosse stato un troll inferocito, in bocca aveva un sapore che gli evocava quello di un ossario sotterraneo e la sola idea di introdurre qualcosa nello stomaco era in grado di provocargli i conati.
Si alzò faticosamente in piedi e constatò che ormai era giorno.
Intorno a lui c'erano degli alberi, gli unici rumori che si udivano erano quelli della foresta che si stava svegliando. I primi raggi del sole facevano brillare le perle di rugiada che durante la notte si erano raccolte sulle foglie.
Ragazzi?” biascicò. “Wendel? Guardiamarina Bär? Dove siete?”
Si passò una mano sulla fronte, se la fece scorrere tra i corti capelli rossi, che gli passarono fra le dita come esili lingue di fiamma. “Ragazzi?” riprovò.
Si guardò intorno e intravide da una parte la sommità della capanna del tizio con le collane.
Cominciò a camminare in quella direzione.

Gli abiti fradici, ansante, Schelle correva per la foresta con tutta la velocità che la lunga nuotata e i postumi dell'alcol gli consentivano.
Peter Pankow è uno stronzo, si ripeteva correndo. Uno stronzo, un irresponsabile e un superficiale. Uno che non ha rispetto. Uno che se ne frega di qualsiasi cosa e fa solo quello che gli pare.
Saltò un tronco caduto, si piegò per evitare una liana che pendeva di traverso.
Una persona inaffidabile, uno che non si preoccupa di ferire i sentimenti altrui.
Mise il piede in una pozzanghera fangosa, imprecò, barcollò e imprecò di nuovo.
Stronzo!” ansimò, questa volta a voce alta. “Brutto stronzo. Uno meno buono di me ti lascerebbe saltare in aria come lo stronzo che sei!”
Passò a guado un torrentello, saltando di sasso in sasso.
Ma io sono troppo buono,” proseguì a denti stretti. “Anzi, talmente buono che sono quasi coglione, per cui eccomi qui.”
Finalmente comparvero in lontananza le capanne del villaggio. Schelle raggiunse l'agglomerato e per prima cosa si imbatté in un indio riverso.
Si immobilizzò stupefatto e mentre ansante si chinava ponderando il da farsi, gli capitarono sotto gli occhi altri due o tre indigeni nelle stesse condizioni. Adocchiò delle anfore vuote e a quel punto tutto gli fu chiaro: né suicidi collettivi né epidemie fulminanti, ma solo una sbronza generale, dalla quale, a quanto pareva, non erano rimasti immuni neppure i bambini.
Usanze locali,” disse fra sé e sé alzando le spalle.
Si guardò intorno alla ricerca del tenente Pankow.

Peter Pankow abbandonò il protettivo abbraccio della foresta e subito il sole caraibico gli ferì gli occhi.
Maledizione,” biascicò, sollevando una mano per ripararsi. Tra luce e caldo, l'agitazione del troll che abitava il suo cranio ebbe un parossismo ed egli si trovò a desiderare con intensità qualcosa da mettersi sulla testa.
Si guardò intorno e la prima cosa che lo colpì fu che nessuno dei suoi era in vista. “Ma dove sono finiti tutti?” chiese. Di nuovo fece scorrere lo sguardo in giro, poi a voce più alta chiamò: “Ehi, dove siete? Non è che siete andati a mangiare cocchi e banane senza di me?”
Tutt’intorno c’erano solo indios in vari stadi di ebbrezza etilica.
Finalmente adocchiò una capanna che aveva una vaga connotazione familiare. La raggiunse e si affacciò all’interno. Riconobbe il copricapo di piume, la cui vista gli procurò subito una sensazione di fastidio, ma accanto a esso notò il suo berretto da ufficiale.
Un involontario sorriso gli comparve sul volto: niente robaccia che si infilava in naso o orecchie, niente puzza di selvatico, niente roba ingombrante in testa.
Si chinò a raccoglierlo.
Incontrò una resistenza inaspettata, che con uno scatto metallico venne poi improvvisamente meno. Abbassò lo sguardo e si rese conto che aveva appena tolto la sicura di una granata Mills. I postumi della sbronza lo abbandonarono all’istante. “Oh, mer...” cominciò.
Qualcosa di pesante gli arrivò addosso e lo trascinò lontano giusto un attimo prima che l’ordigno esplodesse. Ci fu una detonazione che quasi gli sfondò i timpani. Seguirono il crollo delle assi del soffitto e lo sfondamento delle pareti di stuoie, che si aprirono come la buccia di una banana. Una nuvola di polvere e frammenti di paglia rese l’aria praticamente irrespirabile.
Seguirono alcuni secondi di silenzio irreale, poi si udì il rumore di legname smosso. Qualcuno si sollevò facendo rotolare giù macerie e frammenti.
Tutto bene, signore?” chiese una voce, tra un colpo di tosse e l’altro.
Till!” esclamò Pankow. “Till, dove sei, stai bene?” Individuò una sagoma nella caligine, si precipitò ad abbracciarla, per ritrovarsi con le braccia al collo di un feticcio di legno. Si scostò e riprese a sondare i dintorni. “Till, dove sei?” ripeté.
È meglio che andiamo, signore,” si limitò a rispondere il caporale.
Si alzò in piedi e finalmente Pankow riuscì a individuarlo attraverso la nebbia. Ripeté il tentativo di abbraccio e stavolta riuscì ad agguantarlo.
L’altro cercò di farsi indietro, ma il tenente imperterrito rinsaldò la presa. “Sei venuto a salvarmi!” esclamò.
Sissignore.”
Beh, Till, sappi che non ti serbo rancore per quella lite. Fra noi è tutto come prima.”
Ma veramente ero io che...” cominciò l’altro, che da alcuni minuti stava rimuginando le poche ma sentite parole con cui gli avrebbe nonostante tutto concesso il suo perdono. Incontrò il sorriso disarmante di Pankow. “Va beh, è lo stesso,” concluse, accompagnando la frase con un gesto di noncuranza.
Dove sono gli altri?” chiese il tenente.
È questo il problema, signore. Gli inglesi li hanno catturati.”
Dobbiamo liberarli,” rispose subito Pankow.
Schelle non poté trattenere un sospiro di esasperazione. “Signore, sono a bordo di un incrociatore. Ha presente quanta gente c’è su un incrociatore?”
Qualcosa ci inventeremo,” fu la disinvolta risposta.
È proprio quello che temevo.”

§

Sotto i raggi del sole al tramonto, le acque della laguna sembravano metallo liquido. Le palme erano nere sagome che si stagliavano contro un cielo che in basso era color fiamma e salendo acquisiva man mano un azzurro cupo, nel quale brillavano le prime stelle.
Il comandante Hook si appoggiò all’impavesata e lasciò vagare lo sguardo sull’isola. “Lo sa, signor Soak?” disse in tono nostalgico, “Mi dispiacerà un po’ lasciare Ypa'u Oiyva.” Emise un sospiro.
Il nostromo lo fissò dubbioso. “Davvero, signore?”
L’altro annuì. “La selvaggia bellezza di questo luogo incontaminato ha finito per conquistarmi, signor Soak.” Sospirò di nuovo, quindi concluse: “Ma ahimé, la vita del guerriero non concede nulla ad agi e mollezze. Domattina salperemo per non tornare mai più e questo luogo diverrà l’eterno custode del dispositivo ombra e dei suoi foschi segreti.”
Sissignore,” si limitò a rispondere il nostromo.
Il sole scomparve dietro l’orizzonte, la calma bellezza della notte tropicale, con i suoi profumi e i suoi mille rumori, si sostituì alla magnificenza del tramonto.
A un tratto, a Hook parve di vedere baluginare qualcosa di dorato in lontananza. Aggrottò le sopracciglia e si sporse in avanti. “Cos’è?” chiese sospettoso.
Soak guardò a sua volta e disse: “Sembra una zattera incendiata, signore.”
Una zattera incendiata? Che significa?”
Dalla costa se ne staccarono altre due, e poi ancora altre due. Dopo un po’ la laguna ne era piena.
Un faro,” ordinò Hook, senza distogliere gli occhi dall’insolito spettacolo.
Lo strumento fu portato in coperta, un potente fascio di luce spazzò il pelo dell’acqua rivelando le strutture galleggianti per quello che erano: piccole zattere di legno su cui era stato acceso un fuoco.
Che sia qualche rito di quelli là, signore?” ipotizzò Soak.
Pescatene una,” ordinò il comandante.
La zattera fu issata a bordo, ma si confermò una piattaforma fatta di pochi pali legati fra loro, con sopra foglie secche incendiate. Fu ributtata a mare.
Un'altra,” ordinò Hook.
Di nuovo la zattera fu esaminata e buttata a mare.
Può bastare,” disse a quel punto il comandante, ma il tono era poco convinto, come se qualcosa si ostinasse a sfuggirgli.

Speriamo che non gli venga in mente di controllarle tutte, signore,” sussurrò Schelle.
Sta’ zitto e nuota.”
Pagaiando cautamente con i piedi, attenti a non sporgere dalla sagoma della loro zattera, Pankow e Schelle si dirigevano adagio, col moto casuale di un legno affidato alle correnti, verso la Jolly Roger.
E se mi si appicca il fuoco ai capelli?” chiese il Radiotelegrafista.
Metti la testa sott’acqua e li spegni.”
Come faremo per salire a bordo?”
Ci sono un sacco di modi. Dalla scaletta laterale, per esempio.”
Schelle rinunciò a insistere. Continuò a nuotare adagio, cercando di non produrre alcun rumore. Se guardava la nave, vedeva la gente – un sacco di gente – che si muoveva in coperta.
Tutti sembravano interessati alle zattere su cui il fuoco brillava più vivace: qualcuno stava addirittura togliendo la capottatura a un cannoncino prodiero, con il chiaro intento di usare quegli improvvisati bersagli per fare un po’ di esercitazione notturna.
Hai visto? Funzionano!” esclamò Pankow. “È valsa la pena di lavorare tutto il pomeriggio.”
Signor tenente, ma se sparano a noi?” non poté fare a meno di chiedere Schelle.
Tanto non ci sparano.”
Si udì una detonazione, accanto a una delle zattere si sollevò una fontana d’acqua. Dalla nave provennero risate e acclamazioni.
I due continuarono a nuotare.
Ci furono un secondo colpo e poi un terzo. Una zattera esplose lanciando lapilli infuocati tutt’intorno.
Il cannoncino brandeggiò.
Schelle si girò in quella direzione e disse: “Signore, sta puntando verso di noi!”
Ma no, a quella dietro.”
No no, a noi, signore!” rispose il caporale inorridito.
Lascia la zattera,” gli consigliò il tenente, “e non mettere la testa sott’acqua, se no le esplosioni ti fanno scoppiare i timpani.”
Ma signore!”
L’impalcatura di legno e paglia, lasciata a se stessa, fu colpita da un tiro teso e si disintegrò, provocando la solita salva di acclamazioni sulla coperta. I due continuarono a nuotare fino a che non raggiunsero una delle scalette: i primi pioli erano corrosi, arrugginiti, incrostati di alghe e concrezioni. Schelle la fissò sgomento, poi chiese: “Signore, come facciamo a salire qui sopra?”
Fa’ finta di essere in palestra.”
Il caporale scosse la testa. “Ah, ma certo,” replicò cupo. “Stupido io a non pensarci.”
Pankow intanto, agile come un furetto, si stava già arrampicando. Di tanto in tanto si fermava per guardarsi intorno, poi riprendeva come se niente fosse. Sembrava che quell’esercizio non gli costasse il minimo sforzo.
Schelle proferì fra i denti un paio di imprecazioni, poi agguantò un piolo e a forza di braccia cominciò a issarsi.
Raggiunsero la coperta mentre ferveva il tiro al bersaglio, tanto che nessuno fece caso ai due fagotti fradici e ansanti raggomitolati sul castello di prua.
Pankow fu il primo a rialzarsi. Si scrollò come un cane e disse: “E ora, andiamo a cercare i nostri.”

Schelle ormai aveva rinunciato anche ad arrabbiarsi. In quel momento, ad esempio, Pankow stava camminando rasente a una parete su un incrociatore nemico, a cinque metri dall'equipaggio, certissimo che nessuno li avrebbe notati.
Per l'ennesima volta rinunciò a chiedersi se al suo superiore mancasse l'area del cervello che generava la paura o se fosse semplicemente stupido. Si limitò a seguirlo rassegnato.
Ora dobbiamo solo trovare i nostri,” sussurrò il tenente, come se si fosse trattato della cosa più semplice del mondo.
Il caporale alzò gli occhi al cielo: ma certo, niente di più facile. E poi come li avrebbero fatti evadere? Come si sarebbero difesi dagli inglesi, ma soprattutto dai loro Lee-Enfield?
Tutto ciò ovviamente non interessava a Pankow, che al momento sembrava un ragazzino intento a una partita di guardie e ladri particolarmente emozionante.
A un tratto si accesero tutti i fari e la coperta venne illuminata a giorno.
I due rimasero congelati, Pankow addirittura non proferì parola per quasi trenta secondi. Poi aprì la bocca per farlo, ma a quel punto una voce impostata e un po' sussiegosa disse: “Lei è solo un ostacolo sul mio cammino.”
Il comandante Hook avanzò con la sua andatura misurata e si fermò a debita distanza, con una posa degna del Re Sole e una pistola nella mano sana.
Alle sue spalle c'erano il sottufficiale corpulento e svariati marinai armati.
Schelle sentì il cuore piombargli nei pantaloni. Si vide già in un campo di prigionia in Canada ad aspettare i pacchi viveri della Croce Rossa.
Pankow fece un sorrisetto e tentò di nuovo di aprire bocca, ma Hook lo prevenne: “No, tenente, si faccia un favore, non dica una delle sue scempiaggini. Anzi, mantenga proprio il silenzio, già che c'è.”
L'altro rimase sì immobile e muto, ma Schelle vedeva già il suo sguardo guizzare alla ricerca di una via d'uscita da quella situazione. Via d'uscita che non c'era ovviamente, ma che Pankow avrebbe continuato pervicacemente a cercare, anche a costo di mettersi in guai più grossi di quelli in cui si trovava già.
Io ero un abile pianista,” disse Hook, senza abbassare l'arma, “e ora, per colpa sua non lo sarò mai più. Ero candidato a una promozione, ma il fatto che lei si sia impadronito del dispositivo ombra mentre era sotto la mia custodia l'ha fatta sfumare. Avevo un'intensa vita mondana, ma questo,” sollevò con fare minaccioso l'uncino, “questo l'ha resa un deserto.”
A quel punto, Pankow intervenne: “Perché? Mi sembra un ottimo argomento di conversazione.” Imitò la voce impostata dell'altro: “Volete sapere come ho perso questa mano, signori? E poi racconta qualche storia avventurosa.”
Quindi, a sentir lei, dovrei quasi ringraziarla,” ringhiò Hook assottigliando lo sguardo.
Schelle ritirò la testa fra le spalle. Gli spara, pensò, ora gli spara, lo fa secco e poi alla faccia della Convenzione di Ginevra lo butta ai pesci. E dopo tocca a me.
Pankow sorrise spavaldo e disse: “Le faccio una proposta: lei lascia andare tutti i tedeschi che ha catturato, ci dà una scialuppa e noi ce ne torniamo alla nostra unità.” Tacque.
Passarono alcuni secondi, poi Hook chiese: “E io cosa ci guadagnerei?”
Che conserverei un buon ricordo di lei.”
Il capitano fece una breve risata di scherno e scosse la testa. “Mi dispiace, tenente, ma temo di non poter accettare. Vede, io spero che d'ora in poi lei mi ricorderà esattamente come io ricordo lei.”
Come un simpatico giocherellone?” propose Pankow.
No, come la persona che mi ha rovinato la vita. Nel pensare a lei in futuro, tenente, avrò una sola e unica consolazione: che grazie a me sarà finito nel campo di prigionia più orrendo, pericoloso, violento e difficile di tutte le forze armate britanniche. Sto pensando alla Tasmania, tanto per darle un'idea.”
Speravo l'India, comandante. È tanto che voglio visitarla.”
Schelle di nuovo ritirò la testa fra le spalle, chiedendosi quanto sarebbe venuta a costare, in termini di disagi e patimenti, la sfrontatezza del tenente.
Si voltò verso di lui, ma Pankow era concentrato sul comandante Hook e sembrava che in quel momento nulla gli interessasse di più che rendere colpo su colpo all'avversario.
Emise un sospiro sconsolato.
A quel punto si fece udire un ticchettio. Proveniva dal basso, sembrava una simpatica vecchia sveglia.
Alla comparsa del suono, il nostromo inglese rivolse uno sguardo preoccupato al comandante Hook, ma questi non aveva occhi che per Pankow.
Il ticchettio frattanto continuava.
Signore...” tentò a un certo punto il sottufficiale.
Hook fece un gesto come per allontanare un insetto.
Signore, c’è di nuovo la Crocodile,” tentò di nuovo l'altro.
Il comandante strinse i denti e in tono tagliente replicò: “Cosa vuole che me ne importi? Usate l'asta della nafta come al solito, io ho da fare.” Rivolse di nuovo l'attenzione a Pankow. Con un ghigno diabolico disse: “Torniamo a noi, tenente. Penso proprio che la affiderò ai nostri servizi segreti, saranno molto curiosi di sapere che fine ha fatto il dispositivo ombra.”
Peccato che io non lo sappia,” replicò l'altro.
Il ghigno di Hook si accentuò. “Questo è del tutto irrilevante,” gli assicurò. “L'importante è che loro siano convinti che lei lo sappia, perché questo li spingerà a usare ogni sistema di persuasione, anche e soprattutto il più drastico, nei suoi confronti.” Emise un sospiro di nostalgia e concluse: “Peccato solo non essere presente.”
Il ticchettio si fermò.
Seguirono alcuni istanti di un silenzio cristallizzato e gravido di minaccia, in cui tutti parvero immobilizzarsi come in una sorta di grottesco tableau vivant.
Poi ci fu un’esplosione mostruosa. La detonazione fu talmente forte che Schelle sentì una fitta di dolore irradiarsi dai timpani fin dentro il cranio. Un’onda d’urto rovente sbatté a terra chiunque fosse in piedi, dalla fiancata della nave si alzò un geyser di fiamme che illuminò a giorno tutti i dintorni e si innalzò nel cielo come se avesse voluto arrivare fino alla luna. Roventi schegge di metallo si dispersero sibilando.
Il caporale si rialzò disorientato, con le orecchie che fischiavano. Gli sembrava di assistere alla proiezione di un film muto: vedeva la gente agitarsi, vedeva il fumo che si alzava e il ponte di coperta che assumeva un’inclinazione sempre più decisa, ma non sentiva assolutamente nulla.
Qualcuno lo afferrò per un braccio. Si girò bruscamente e si trovò di fronte Pankow. Lo vide muovere le labbra e immaginò, più che sentirlo, che gli stesse dicendo di muoversi.
Si rialzò un po’ incerto, barcollò un paio di volte, poi si risolse a seguirlo.

La nave stava chiaramente affondando. Pankow, che si era sporto per vedere l’entità del danno, si era trovato davanti una falla nella quale sarebbe senza sforzo passato un Opel Blitz con tanto di cassone rialzato. Non si intendeva molto di natanti, questo bisogna dirlo, ma anche da neofita capiva che una voragine del genere non era decisamente compatibile con il galleggiamento.
Non abbiamo molto tempo,” dichiarò.
Schelle, che correva al suo fianco, brontolò: “Ma che scoperta.”
La risposta fece supporre a Pankow che il caporale avesse già recuperato l’udito. “Andiamo,” disse quindi, “dobbiamo trovare i nostri.”
Adocchiò un marinaio della Jolly Roger che stava tentando di srotolare un naspo. Le pompe avevano già portato l’acqua in pressione, quindi il poveretto sembrava alle prese con i serpenti di Laocoonte. Lo raggiunse, agguantò il tubo, vigoroso e guizzante come una creatura viva, e disse: “Ti aiutiamo a portarlo se ci dici dove sono i prigionieri!”
Il tizio lo fissò con aria sbigottita, Pankow realizzò di aver parlato in tedesco. Ripeté la proposta in inglese, e nonostante la sua pronuncia ricordasse una raspa sul legno, l’altro sembrò capirlo.
Accennò di sì con la testa.
Il naspo richiese gli sforzi congiunti del marinaio e dei due tedeschi, soprattutto perché la coperta era ormai inclinata lateralmente di venti gradi, scivolosa e ingombra di detriti. Dalla falla si levava una colonna di fumo nero, di tanto in tanto salivano lingue di fiamma.
Qualcosa dentro la nave stava crepitando e sibilando.
Il marinaio pronunciò quelli che probabilmente erano ringraziamenti, quindi indicò un boccaporto che conduceva sottocoperta. Disse anche qualcosa a proposito di corridoi e svolte, ma tra la confusione che regnava ovunque e il suo cockney strettissimo, Pankow capì praticamente una parola su ventidue.
In ogni caso ringraziò compitamente e raggiunse il boccaporto. Appena fu sottocoperta, a pieni polmoni cominciò a urlare: “Guardiamarina Bär! Professor Hase! Professor Dachs! Mi sentite?”
Dopo un po’ che sbraitava come un banditore in un giorno di mercato, dal fondo di un corridoio provenne una voce: “Qui!” Qualcosa di pesante cominciò a battere ritmicamente contro una parete, forse per dare un’idea migliore della posizione.
Pankow sorrise. “Eccoli, i bimbi sperduti!” esclamò.
Correndo a braccia spalancate per bilanciarsi nel corridoio inclinato ormai di trenta gradi, il tenente raggiunse una fila di porte chiuse. dall’altra parte, qualcuno ci stava battendo contro con impegno.
In tono apprensivo, la voce di Bär disse: “Faccia presto, tenente! La nave sta per rovesciarsi.”
Ovunque si udivano scricchiolii, gorgogli e gli sfiati di masse d’aria che l’acqua spingeva fuori dai locali che man mano invadeva. La luce andava e veniva, le ventole che si trovavano sul soffitto funzionavano a intermittenza.
Pankow individuò un armadio antincendio, lo aprì e ne estrasse l’ascia, poi con la punta dello strumento colpì la porta, creando un buco passante.
Guardò di là e incontrò lo sguardo teso di Bär. “Ci siete tutti?” gli chiese.
Sì, si sbrighi!”
Pankow sfondò la prima porta, per la seconda gli diede una mano il guardiamarina. Uscirono tutti: i fratelli Liefke, i due studiosi e i marinai Murmeltier, Marder e Fuchs.
Caliamo una scialuppa, finché siamo in tempo,” disse Bär.

§

Ormai era l’alba. Vista da lontano, la Jolly Roger era uno spettacolo apocalittico. L’incrociatore era praticamente sdraiato su un fianco e un denso fumo usciva da tutti i suoi boccaporti. Le file di uomini che lo stavano abbandonando creavano uno spettacolo degno dell’Inferno illustrato dal Dorè.
In piedi a prora della piccola lancia, Bär osservò serio il relitto e disse: “Spostiamoci in copertura dietro l’isola.”
Perché?” chiese Pankow, che stava seguendo la faccenda come avrebbe fatto un ragazzino con le evoluzioni degli acrobati di un circo.
Quel fumo non mi piace. Per me tra un po’ salta la santabarbara.”
Mi ha convinto, Bär. Forse è meglio che ce ne andiamo.”
I marinai si misero ai remi, la scialuppa si allontanò rapidamente. Avevano appena doppiato un piccolo promontorio quando si udì dapprima un’esplosione assordante e poi una serie di detonazioni più piccole, raffiche, crepitii e fischi. Allo stesso tempo, dal relitto ormai sventrato si levò una colonna di fiamme alta come un palazzo a tre piani, sormontata da un nuvolone di fumo rosso aranciato alla base e violaceo nella parte superiore.
Bär emise un sospiro e disse: “È sempre un dolore vedere una nave che affonda.” Rispettosamente si tolse il berretto e chinò il capo. I tre marinai lo imitarono.
Pilota e avieri si scambiarono un’occhiata poi, più che altro per non fare brutta figura, assunsero a loro volta un atteggiamento di compostezza grave. Chi era riuscito a conservare il berretto se lo tolse, gli altri si limitarono a un silenzioso raccoglimento.
Nel generale clima di mestizia, si fece udire la voce del professor Hase: “Non sarebbe meglio recuperare il dispositivo ombra, prima di lasciare l’isola? Costa un sacco di soldi.”
Bär gli riservò l’occhiata che avrebbe rivolto a un mercante nel tempio.

§

Sulla coperta della Schütze erano state drappeggiate bandiere da combattimento della marina e bandiere del Reich, inoltre erano stati confezionati ornamenti di foglie per decorare un palco su cui era posata una scatola a tenuta stagna, delle dimensioni di una cassa di birra, con la scritta GeKaDoS stampigliata sopra in rosso.
Tutti gli uomini che non erano impegnati in servizi indispensabili erano schierati in attesa.
Si fece avanti il comandante von Stauff, in uniforme di gala nonostante il caldo, e tutti scattarono sull’attenti come un sol uomo.
L’ufficiale diede il riposo, poi estrasse un foglio e si apprestò a leggerlo.
A quel punto, nel silenzio perfetto della coperta si udì un gnaulare infernale, accompagnato dal rumore fesso di barattoli di latta percossi. Davanti ai piedi di von Stauff passò come un fulmine il gatto di bordo, emettendo strida demoniache e trascinandosi dietro, legate alla coda, un certo numero di lattine vuote.
Pankow assunse l’aria innocente di un agnellino neonato.

Hans Liefke alzò gli occhi verso il tenente Pankow, che momentaneamente privo di un velivolo era sdraiato sulle guide della catapulta in calzoncini corti e occhiali da sole, e disse: “Io voglio diventare come lui.”
Anch’io,” disse Michael.
Appena possibile voglio fare domanda per la scuola di volo.”
Anch’io!”
No, tu no.”
E perché io no?”
Perché l’ho detto prima io!”
E allora? Pensi che il Reich abbia bisogno di un solo pilota? E poi sai che ti dico? Che io non vado a fare la scuola sugli idrovolanti: io voglio diventare un pilota da caccia!”
Hans si concesse addirittura una sghignazzata. “Anche tu vuoi andare alla scuola di volo come Wendel? Ragazzi, ci vuole il fegato per fare i piloti da caccia.”
E sentiamo, tu ce l’avresti?”
Hans lo fissò con degnazione, “Certo.”
Ma figurati. Quando ci hanno catturati gli inglesi a momenti te la facevi sotto.”
Parla quello che quasi quasi si metteva a piangere.”
Non è vero!”
A quel punto intervenne Wendel dicendo: “Hans, Michael, andate a fare i vostri bagagli, partiamo fra mezz’ora.”
I due lo fissarono sgomenti. “Fra mezz’ora?” ripeterono all’unisono. “Ma...” Partire significava niente più avventure divertenti, niente più scherzi al gatto di bordo, niente più risate. Solo serietà e dovere.
Torniamo sul Walküre,” spiegò il maggiore.
I due si voltarono verso Pankow già con l’espressione di nostalgia. Michael emise un sospiro e chiese: “Possiamo almeno andare a salutarlo?”
Wendel assentì.
I due partirono festanti, fecero di corsa i gradini che portavano alla piattaforma di servizio, poi Hans gridò: “Signor tenente!”
Svegliato di soprassalto, Pankow sobbalzò e si girò come per scendere da un immaginario letto, ma trovò sotto di sé solo il vuoto. Freneticamente cercò di aggrapparsi da qualche parte, ma non ci riuscì.
Si udì il tonfo di un corpo che piombava in acqua.
Uomo in mare!” urlò qualcuno.

§

Sotto una tettoia di foglie di banano, seduto a un tavolino recuperato dagli arredi della Jolly Roger, Hook guardava pensoso l’orizzonte parzialmente nascosto dalla mole dell’incrociatore rovesciato.
Disseminati lungo la spiaggia, o ai margini della foresta, vi erano i ricoveri di fortuna che gli uomini avevano costruito e i depositi con quello che era stato salvato. La cosa non lo preoccupava, sarebbe arrivata presto un’altra nave di Sua Maestà a trarli d’impaccio.
Quando non c’è più rimedio è inutile addolorarsi,” prese a recitare assorto, “perché si vede ormai il peggio che prima era attaccato alla speranza. Piangere sopra un male passato è il mezzo più sicuro per attirarsi nuovi mali. Quando la fortuna toglie ciò che non può essere conservato, bisogna avere pazienza: essa muta in burla la sua offesa. Il derubato che sorride, ruba qualcosa al ladro, ma...” si interruppe e tese l’orecchio: gli pareva di sentire tamburi, cimbali e strumenti a fiato che suonavano tutti insieme in una spaventosa cacofonia.
Signor Soak!” chiamò.
Comparve il nostromo. “Signore?”
Signor Soak, dica agli uomini di smetterla con questo fracasso. Non riesco a pensare.”
Il sottufficiale lo fisso stupito. “Signore, nessuno degli uomini sta facendo fracasso.”
I clamori frattanto stavano aumentando di intensità. Ora di distingueva anche un canto dissonante, che sembrava non aver nulla a che fare col chiasso degli strumenti.
Comparve infine una torma di indios festanti. Tutti indossavano abiti colorati e monili, le donne erano adorne di cascate di fiori.
In testa al corteo, sotto un tendale retto da quattro uomini, incedeva l’imponente figlia del capo, agghindata da gran festa.
Sotto gli occhi esterrefatti di Hook, la processione si arrestò e da essa si staccò un uomo vecchissimo, dalla pelle incartapecorita, vestito di una specie di stuoia di erbe, con una collana da cui pendevano ossa e feticci. Costui si fece avanti reggendosi a un bastone, pronunciò un discorso e fece gesti benedicenti verso la figlia del capo e verso di lui.
Il comandante continuava a fissare gli indios ammutolito.
Si fece avanti a quel punto un altro indigeno, che con qualche fatica proclamò: “Ecco moglie.” Indicò l’orchessa che aveva abbattuto non meno di tre dei suoi marinai col solo ausilio dei piedi.
Prego?” chiese Hook, più che mai stupito dalla piega che stava prendendo la faccenda.
Moglie,” ripeté l’altro in tono ovvio. Prese per mano la ragazza e gliela condusse davanti. Yvoty Jaguarete ebbe anche il coraggio di assumere un’aria timida e virginale.
Ad ogni buon conto, Hook si alzò dal tavolino e arretrò di un passo. “Come sarebbe a dire, moglie?” chiese sospettoso.
L’indio lo fissò come se si fosse sentito chiedere perché l’acqua messa sul fuoco si scalda. “Tu portata caverna,” spiegò col tono di ribadire l’ovvio. “Lei moglie.” Annuì per sottolineare il concetto. “Caverna, moglie,” ribadì.
Alle spalle di Hook, il nostromo intervenne: “Signore, forse questa gente quando si vuole sposare ha l’usanza di rapire una donna e portarsela da qualche parte.”
Beh, io no,” rispose precipitoso il comandante, arretrando ad ogni buon conto di un altro paio di passi.
Yvoty Jaguarete gli scoccò un’occhiata languida, l’indigeno che faceva da interprete parve soddisfatto. “Lei moglie!” proclamò. Ripeté verosimilmente la stessa cosa nella lingua della tribù e tutti esplosero in un’ovazione.
Il capo in persona si avvicinò e pronunciò solennemente un discorso di cui nessuno degli inglesi capì una parola, quindi si girò e si allontanò assieme al resto della tribù, mentre cimbali e tamburi riprendevano a suonare e i canti si innalzavano verso il cielo.
Hook alzò lo sguardo sull’orchessa: vestita in paramenti nuziali sembrava ancora più alta e più grossa di come la ricordava. “Puoi andartene,” le disse. Fece un gesto come per scacciare i polli. “Puoi andare via, mi capisci? Sciò sciò.”
Yvoty Jaguarete fece un passo verso di lui.
Il comandante arretrò. “Signor Soak, me la tolga di dosso!” ordinò. Il nostromo cercò di afferrarla, ma fu mandato con facilità gambe all’aria.
L’orchessa riprese la sua inesorabile avanzata.
Signor Soak!” tentò di nuovo Hook. Adocchiò una scialuppa che era stata tirata in secca, la raggiunse, la spinse in acqua e saltò a bordo giusto un attimo prima che Yvoty Jaguarete riuscisse a ghermirlo. Infilò a quel punto i remi negli scalmi e prese a pagaiare verso il largo con tutta la forza, mentre l’orchessa, ormai con l’acqua a metà coscia, tendeva le braccia verso di lui ed emetteva muggiti che di sicuro nella sua lingua dovevano essere struggenti dichiarazioni d’amore.

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