Il Segreto dell'Isola di Sabriel Schermann (/viewuser.php?uid=411782)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Il
Segreto dell’Isola
«Pari
agli dèi
mi appare lui, quell'uomo
che
ti siede davanti e da vicino
ti
ascolta: dolce suona la tua voce […]
e
mi inonda un sudore freddo, un tremito
mi
scuote tutta, e sono anche più pallida
dell'erba
[…]
Ma
tutto si sopporta,
poiché...»
(Saffo
– Ode
della Gelosia)
415
a.C.
Era
l’alba quando Dante mise piede per la prima volta a Sparta.
Una paura tremenda
gli fremeva in petto, non avrebbe mai dovuto seguire quel pazzo e
più avanzava
verso il palazzo reale e più se ne convinceva. Gli sguardi
fugaci degli uomini
e delle donne perbene che si posavano su di loro, puri e agguerriti
soldati
ateniesi, erano indecifrabili. Si aspettava di essere trafitto dalla
lama di una
spada in qualsiasi momento; se il suolo si fosse squarciato sotto ai
suoi
piedi, non avrebbe esitato un istante a buttarcisi dentro, a costo di
non
rivedere mai più la luce, sua madre, suo padre e
l’amata sorella che aveva lasciato
indietro. Non sapeva nemmeno se fossero ancora vivi, se avessero
abbastanza
cibo quanto ne aveva lui quando Alcibiade suggerì di fuggire
a Sparta. Nessuna
delle persone a lui più fidate aveva opposto resistenza,
erano partiti e basta.
Avrebbe preferito soccombere nella sua madrepatria o morire a Siracusa
o in qualsiasi
altro posto che non fosse il territorio nemico. Sentiva già
la frusta
frantumargli il costato e strisciare violentemente sulla sua schiena,
come un
rettile affamato nel deserto. Sentiva la morte sempre più
vicina, tanto da
poterne già patire l’amaro presagio.
˜
403
a.C.
Camminava
altero per le strade della città, osservando con estrema
attenzione tutto ciò
che la sua visuale comprendeva, come un neonato che scopre il mondo per
la
prima volta. Adorava passeggiare intorno a quel luogo pieno di vita
eppure così
pacifico. Spesso si infilava nei prati, si sfilava i sandali e
gironzolava a
piedi nudi, assaporando il profumo fresco dell’erba e il sole
tiepido sulla
pelle.
Zacinto
era estremamente diversa da Atene e anche se non era stata la sua
volontà a
spingerlo così lontano da casa, Dante aveva presto fatto
dell’isola la sua
dimora, il proprio angolo remoto di pace e solitudine, dove avrebbe
forse
potuto realmente riprendersi dalla miriade di sofferenze che la guerra
gli
aveva provocato.
Un
giorno mite e ventoso però, decise di spingersi ben oltre il
solito campo,
oltrepassando le calle candide che solitamente osservava solo da
lontano,
attraversando una collina fino a raggiungerne la cima, la piazza del
mercato.
Donne
e uomini trotterellavano da una parte all’altra, per lo
più trascinando grossi
pesi sulle spalle e indossando vestiti di evidente pessima
qualità. Alle donne
ricche era proibito frequentare l’agorà e gli
uomini di alto rango erano soliti
ritrovarsi in un angolo dello spiazzo, sotto un portico adibito apposta
per
ripararsi dal sole o dalla pioggia battenti.
Alle
loro spalle si ergeva un ampio cartellone infarcito delle notizie
più recenti,
tra cui la fine della guerra, che a Dante era costata non solo quasi la
vita,
ma anche l’ostracismo dalla sua città natia.
In
cambio dell’esilio, avrebbe forse potuto rimettersi
affondando il proprio corpo
nell’acqua del mare e strofinando i piedi contro
l’erba fresca del mattino per
tutto il tempo che avrebbe voluto.
˜
Al
fondo del piazzale poteva vedere chiaramente un piccolo gruppo di
donne, di cui
una sembrava asserire in modo concitato con alcuni uomini. Solo quando
fu
abbastanza vicino capì che si trattava di schiave sul punto
di essere vendute
per un pugno di monete.
Si
trattava per lo più di giovani robuste e vigorose,
probabilmente plasmate dal duro
lavoro svolto negli anni, ma una di loro era più gracile e
minuta delle altre,
dotata di un viso straordinariamente armonioso che a Dante pareva
brillare di
luce propria.
Si
avvicinò con cautela, incuriosito da quella figura insolita,
osservandola attentamente.
Per un istante, gli balenò nella mente il pensiero, come un
ricordo sfocato,
che la avesse già vista da qualche parte prima
d’allora, ma subito lo ricacciò
indietro con convinzione.
Chiunque
lo avesse incontrato prima che giungesse a Zacinto, non doveva quasi
certamente
trovarsi più al mondo. Si sentiva ancora debole a causa
delle ferite e della
stanchezza accumulate, per cui pensò che qualcuno che avesse
badato alla sua
salute gli avrebbe probabilmente fatto comodo.
Quella
ragazza era una nullità, tanto che la sua vita poteva essere
comprata e venduta
senza alcun rammarico, ma aveva l’aspetto di una dea. Quando
le sfiorò un
braccio, lei ebbe un sussulto. La pelle olivastra e liscia sotto il suo
tatto
gli provocò un improvviso capogiro.
«Come
ti posso chiamare?» chiese lui senza preamboli, perdendosi in
quegli occhi
corvini come i capelli che le ricadevano morbidamente sulle spalle. Lei
rispose
abbassando lo sguardo al suolo.
L’uomo
strinse involontariamente la presa sul suo braccio, esortandola a
parlare. Non
sembrava imbarazzata. Al contrario, permeava infinita tristezza. Poi,
con un
improvviso strattone, la ragazza si divincolò dalla sua
presa.
Qualcosa
gli aveva bagnato la faccia: quella schiava gli aveva appena sputato
addosso.
˷
Era
un pomeriggio uggioso, il sole era apparentemente intralciato dalle
nuvole e
solitarie gocce di pioggia si posavano delicate al suolo, unendosi ad
esso fino
ad esserne assorbite completamente.
Dante
osservava il cielo torvo appostato alla finestra del suo laboratorio,
dotata di
un vetro sottilissimo lavorato apposta per lui dai migliori artigiani
della polis.
Ebbe la tentazione di uscire e vagabondare sotto il temporale, ma
finì per
tornare al lavoro, maneggiando dei sottili fili di spago, cercando di
infilarli
su un’asse di legno il più precisamente possibile.
Da
quando era stato cacciato dal Consiglio di Atene la
necessità di sopravvivere
gli riportò alla memoria tutte le nozioni che suo padre gli
aveva impartito
riguardo al mestiere di costruttore di cetre, quando era ancora un
ragazzo.
Così
Dante aveva imparato a tessere tele di legno e a far fuoriuscire dagli
strumenti vivaci note che spesso attiravano alla sua bottega le donne
più
importanti della città. Si presentavano con la scusa di
voler acquistare una
cetra, magari per donarla a un familiare, o talvolta le più
fantasiose raccontavano
di volerlo semplicemente osservare all’opera.
A
un tratto una sensazione riaffiorò sfrontata nella sua
mente, qualcosa di
meraviglioso ma al tempo stesso ripugnante. Non riusciva a togliersi
dalla
testa la ragazza che qualche giorno prima gli aveva inumidito il viso
con la
sua saliva e respinto con modi sprezzanti.
Si
chiedeva cosa le fosse successo, dato che indubbiamente il gesto della
donna era
considerato estremamente oltraggioso nei confronti di un uomo
rispettabile come
lui.
Nonostante
l’ostracismo, tutti in città lo stimavano come se
avesse sempre vissuto lì,
forse perché erano a conoscenza del fatto che un tempo fosse
un elemento di
spicco o forse perché aveva combattuto anche in nome
dell’isola di Zacinto.
«Non
vi preoccupate» disse Dante alla donna quando, avendo
assistito alla scena,
minacciò la giovane, di un passo posteriore alle compagne.
L’uomo si asciugò,
noncurante del gesto, volgendo un tiepido sorriso alla fanciulla prima
di
girare i tacchi e tornare sui suoi passi.
Sentì
un vociare dietro di sé, ma non se ne curò.
Immerso in questi pensieri cupi e
appaganti insieme, Dante continuava a incrociare lo spago, incidendo
poi
nuovamente il legno col lo scalpello, riportando alla mente pensieri di
una
giovinezza troppo lontana.
˜
Raggiunta
la piazza, si diresse con passo spedito verso il gruppetto di donne
presenti
allo stesso posto sette giorni prima. Questa volta erano completamente
sole, un
altro buon motivo per avvicinarsi, pensò.
La
ragazza che voleva era ancora lì, aveva la testa bassa e
nemmeno quando l’uomo
le si posizionò davanti sollevò lo sguardo. Il
linguaggio del suo corpo
sosteneva chiaramente che non fosse nelle condizioni migliori. Dante la
osservò:
la massa corvina le copriva quasi interamente il volto rivolto a terra.
«Quanto
per lei?» chiese alla donna che ne sembrava la proprietaria,
indicando la
giovane.
«Ah,
quella» ragliò lei di rimando, «vale
solo qualche moneta, siete sicuro che la
volete?» gli chiese inespressiva, stringendo le braccia di
altre due donne più
robuste, invitandolo a sceglierle.
«Voglio
lei» rispose lui fermamente, «quanto?»
aggiunse. La donna tornò al suo posto,
confusa.
Fece
rapidamente dei calcoli, infine decretò:«sono otto
decadracme d’argento» con
l’aria di chi vuole sbrogliarsi al più presto da
un impiccio, «ma non
riportatemela indietro se non si comporta a dovere» aggiunse
in tono brusco e
distaccato.
Dante
la rassicurò, invitando la ragazza a seguirlo. Lei mosse
lentamente alcuni passi,
mantenendo la testa china. La donna li osservò camminare uno
a fianco all’altra
fino a quando non scomparvero completamente dalla sua visuale.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Era
una fredda sera d’inverno quando un uomo
dall’addome possente e i capelli scuri
e arruffati irruppe nella stanza che gli era stata affidata da quando
risiedeva
al palazzo reale. I due uomini, insieme agli altri disertori ateniesi,
si erano
garantiti vitto, alloggio e protezione grazie ad informazioni e
consigli
strategici a favore dell’armata spartana.
Dante
non avrebbe mai voluto fare del male al suo popolo; avendo accettato di
aiutare
il suo amico,
però, non aveva avuto scelta ed in
qualche modo aveva indirettamente acconsentito a far morire di fame gli
abitanti di Atene.
L’uomo,
che nonostante l’età pareva ancora agli albori
della giovinezza, gli si
avvicinò, prendendo posto sul letto accanto a lui. Dante lo
osservò perplesso,
potendo solamente immaginare l’ultima bravata del compagno di
avventure.
Tuttavia decise che, qualsiasi oltraggio avesse commesso, lui gli
sarebbe rimasto
accanto.
Alcibiade
era un abilissimo oratore, in grado di ammaliare e convincere anche lo
stratega
più diffidente. Si trattava però anche di un
individuo meschino, pronto a
tradire chiunque pur di salvaguardare i propri interessi. Nonostante
ciò, era
riuscito a convincere il re di Sparta a dargli credito e Dante
riconobbe che
senza le sue doti, lui stesso e gli altri probabilmente in
quell’istante non si
sarebbero più nemmeno trovati al mondo.
Il
ragazzo lo guardò crucciato: «Dobbiamo
andarcene». Dante ebbe un sussulto, ma l’altro
lo precedette: «Re Agide ce l’ha con me, non
c’è più tempo, vogliono farmi
fuori».
Prima
di prendere la porta, gli intimò di raccogliere i propri
averi al più presto e
portarsi dietro anche tutto il necessario per combattere, in caso ce ne
fosse
stato bisogno.
La
pace era stata intensa, ma come tutte le cose positive, non era durata
più di
un battito d’ali.
˜
Entrarono
in casa e Dante si accomodò su uno sgabello di legno,
intagliato da lui stesso tempo
addietro, impugnando del pane ormai secco e versando un po’
di latte in una
ciotola.
La
invitò a prendere posto di fronte a lui, ma alzando lo
sguardo la trovò ancora
immobile innanzi alla porta. Dopo varie sollecitazioni,
l’uomo posò il pane su
un tavolino e si avvicinò alla donna, sollevandole il viso
con delicatezza.
Ebbe
un sussulto quando vide che su un occhio le si erano posate per qualche
ragione
tutte le sfumature di grigio che conosceva e vari graffi recenti
campeggiavano
qua e là sull’intero volto.
Scioccato,
l’uomo prese un panno, lo intinse nella poca acqua fresca
rimasta in casa e
glielo passò sul viso. La ragazza, che fino ad allora aveva
tenuto gli occhi
serrati, li aprì improvvisamente e Dante poté
notare quanto in realtà si fosse ingannato
inizialmente: un mare di sfumature comprese tra un color erba acerbo e
un caldo
color miele spiccava dalle iridi della donna, incorniciate da lunghe
ciglia scure.
La invitò nuovamente a sedersi e le porse il latte fresco
che aveva appena
versato per lei.
«Come
ti chiami?» chiese l’uomo curioso. Lei non rispose,
né bevve ciò che l’uomo le
aveva porto. Alzò uno sguardo interrogativo su di lui, che
si andò presto a
posare di nuovo sulla ciotola.
«Devo
pur chiamarti in qualche modo» aggiunse l’uomo,
cercando disperatamente un modo
per ridurre la tensione. «Sai, tu mi
ricordi…» mormorò, ma venne interrotto
da
un crepitio improvviso e insistente: stavano bussando alla porta e
Dante capì
che probabilmente si trattava di qualcuno interessato a qualche sua
creazione.
«Mangia»
le suggerì indicando il cibo, lasciandosela poi alle spalle.
˜
Vagava
solo per le strade della città, non sapeva dove andare e
aveva paura, si trovava
in territorio nemico e aveva perso di punto in bianco ogni tipo di
protezione.
Alcibiade
si era dileguato insieme agli altri e una volta usciti dal palazzo si
erano
divisi senza troppi convenevoli, intenzionati a disperdersi sul
territorio peloponnesiaco
come tanti piccoli ragni appena nati. Dante era furioso, non avrebbe
mai
perdonato il suo amico per averlo messo in quella situazione, si era
comportato
come un vigliacco e un approfittatore come lo era stato in patria,
interessato
solamente a salvare la propria pelle.
Era
completamente solo, non aveva provviste e nemmeno armature: aveva
dovuto abbandonare
tutto prima di fuggire, combattendo contro qualche guardia. Era
stremato,
affamato e afflitto. Cosa
ne sarebbe stato della sua misera vita, per di più
così lontano da casa?
Non
poteva accarezzare i capelli chiari della madre, che sembravano fili
d’erba
fresca sotto il suo tocco, non poteva nemmeno stringere la sorella, da
sempre
sua fedele compagna di marachelle e racconti notturni. Avrebbe voluto
dire loro
che li amava e che il suo desiderio più ardente era
rivederli, almeno una
volta, ancora una, prima di cadere nel baratro.
Dopo
qualche ora di cammino, ormai lontano dalla vitalità della
città, vide un appezzamento
di terra simile a della sabbia. Sembratogli un luogo tranquillo e
solitario,
prese posto tra i granelli morbidi e sottili che lo accolsero con
calore,
aderendo al suo corpo.
Si
distese con lentezza, privo di qualsiasi altra visuale diversa dal
cielo poco
dopo il tramonto, tinteggiato delle più diverse sfumature di
celeste cosparse
qua e là di ombre dorate. Aveva sempre amato osservare le
tonalità di colori
che la natura può offrire.
Disperdendosi
nei ricordi più dolci, esausto, si addormentò.
Fu
un grido improvviso a svegliarlo, forse di un animale, o il fragore di
un tuono
mandato da Zeus per rammentargli la sua presenza in terra nemica.
Tuttavia,
Dante poteva vedere tanti piccoli barlumi sfavillare nel cielo, con al
centro
la loro madre creatrice, la dea Selene. Inquieto, si mise a sedere
stropicciandosi
gli occhi, mettendo a fuoco il panorama davanti a sé.
Una
ragazzina dal volto giovane e fresco lo osservava con gli occhi
spalancati,
brillanti alla luce notturna. Era accovacciata a pochi metri da lui, il
capo
coperto con del tulle, ma il corpo avvolto in un peplo¹
corto e candido. Dante non aveva dubbi, si trattava di una giovane
spartana.
Si
portò d’istinto una mano dove solitamente teneva
la propria daga, sperando
invano di poterla trovare, ma tastando solamente il tessuto ruvido che
univa i
suoi vestiti.
Lasciò
scivolare lo sguardo sul corpo immobile della ragazza, notando che in
una mano teneva
un oggetto simile ad una lancia. Era piuttosto corta, ma Dante
poté notare
chiaramente la sua punta affilata risplendere alla luce della luna.
L’uomo
si tirò in piedi in uno scatto, temendo il peggio.
Lei
cominciò a correre rapidamente e Dante si rese conto di
quanto la ragazzina
fosse agile e allenata, come si aspettava fosse qualsiasi abitante di
quella
terra maledetta. L’uomo però, di gran lunga
più robusto e temprato della
giovane, la raggiunse con un balzo, sovrastandola.
Col
proprio volto incastrato nel collo della donna, ansimante e
visibilmente
spaventata, Dante poteva sentire il suo odore fresco, come se fosse
stata a
lungo immersa nell’acqua.
La
osservò meglio in viso: aveva l’aspetto di una dea
e se ne sentì subito
attratto. Avrebbe voluto possederla lì, in quel momento, ma
era un uomo
ateniese ed era un uomo perbene. Non avrebbe mai fatto nulla del
genere. I loro
corpi aderivano perfettamente l’uno all’atro,
quando l’uomo si alzò in piedi
con indifferenza, tentando di nascondere la propria eccitazione.
I
loro sguardi si incrociarono per qualche istante, poi il soldato decise
di
rompere il silenzio della notte: «Sai dove posso trovare un
po’ d’acqua?».
Col
volto buio, la ragazza si sistemò i vestiti, che lasciavano
fuoriuscire il suo
seno piccolo e immaturo. «Certo che lo so» rispose
bruscamente, «ma non ho alcuna
intenzione di dirtelo» terminò, allontanandosi un
poco per raccogliere la propria
lancia.
L’uomo
la guardò perplesso. Doveva trovarsi davanti la figlia di un
ricco personaggio
locale, se aveva l’impertinenza di rivolgersi in quel modo.
«Non
è bene che una bambinetta come te se ne vada in giro tutta
sola durante la notte»
ribatté l’uomo con uguale asprezza, «a
disturbare la gente in giro per la
città, per di più» concluse duramente.
La
ragazza si voltò appena:«Non sono affatto una
bambinetta» rispose stizzita, «a me
non interessa la guerra, né il matrimonio con
chicchessia» fece una rapida
pausa, «io sono una donna spartana, sono nata forte e
libera» continuò,
impugnando il giavellotto con fierezza, guardandolo negli occhi.
«La mia
famiglia mi ha già trovato un consorte» volse lo
sguardo alla luna, «ma io non
mi sposerò».
Dante
la osservò pensieroso e confuso. «Gli dei
vorrebbero ti sposassi, in fondo sei
abbastanza grande per farlo» considerò
l’uomo. Lei si volse verso di lui con
uno scatto, puntandogli la lancia al petto con aria
tutt’altro che pacifica.
«Gli
dei ora vogliono che tu venga con me, sporco ateniese»
sibilò. Dante ebbe un sussulto
e il cuore cominciò a battergli forte in petto.
«Muoviti!»
˜
Quando
Dante tornò nell’ingresso di casa si aspettava di
trovarla lì, esattamente
nello stesso posto e nella medesima posizione in cui l’aveva
lasciata.
Quando
capì che non c’era, provò a cercarla
nei campi attorno alla casa, senza però trovare
nulla se non il chiarore sfumato del sole incastrato dietro a una
collina.
Realizzò
di essere genuinamente preoccupato per la sua vita: quella ragazza era
vestita
di stracci e aveva il volto tumefatto, chiunque avrebbe potuto capire
che si
trattasse di una schiava e rapirla o seviziarla ancora.
Tornò in casa e il suo
sguardo si posò accidentalmente sul tavolino, su cui
campeggiava solamente la
ciotola vuota. La donna doveva essersi nutrita e poi essere scappata
mentre lui
si intratteneva con qualche cliente.
Si
diede dello stupido per non aver pensato a una tale
eventualità ed entrando nel
laboratorio prese lo scalpello consumato e si avviò
rapidamente per i campi.
Ormai era sera e il sole era tramontato quasi completamente, ma non
sarebbe
tornato indietro.
Avrebbe
ritrovato quella donna e l’avrebbe portata a casa salva,
sana, viva.
Attraversò
i prati lucenti della notte, corse su per la collina raggiungendo
l’agorà ormai
deserta, inoltrandosi nella parte opposta, scoprendo una zona della
polis in
cui non si era mai addentrato.
Si
imbatté in un teatro anonimo circondato da un ampio terreno
circolare, fino ad
arrivare a un fitto bosco. Poteva sentire la terra bagnata gracchiare
sotto i
suoi piedi, accompagnata da altri rumori di fondo. Era cosciente di
correre
forse un pericolo, ma tentò di giustificarsi con il pensiero
che quella
ragazza, che aveva comprato solo qualche ora prima, fosse in condizioni
peggiori.
Ciò
gli infondeva una qualche sorta di coraggio, spronandolo a spingersi
oltre, a
superare il bosco ed i propri limiti, per introdursi in territori
sconosciuti e
lontani da casa.
Raggiunse
uno spiazzo sterrato, circondato da colonne di pietra malandate e
debolmente
illuminato dal chiarore della luna che fuoriusciva dalle nubi.
Sentì un rumore
di passi scalpitanti sul terreno, parevano di un cavallo sperduto o
forse
qualcuno che si avvicinava minaccioso alle sue spalle.
Si
voltò, ma vide solamente oscurità. Fu in quel
momento che notò una figura nera
tra i pilastri, che sembrava sistemarsi quello che doveva essere un
peplo: si
trattava senz’altro di una donna, la luce della luna ne
tracciava le forme
delicate, ne illuminava le gambe quasi completamente scoperte e uno dei
seni
che fuoriusciva dal tessuto, piccolo e tondo.
Poi
la vide correre veloce, le gambe agili fluttuanti nell’aria.
Dante si sarebbe
quasi aspettato di vederla librarsi nel cielo. Si avvicinò,
cercando di
scoprire chi fosse quella donna misteriosa che si affaticava con tale
fervore
durante la notte.
Improvvisamente
la figura si fermò per riprendere fiato, sistemandosi
nuovamente il vestito,
coprendosi il seno. Poi l’uomo la perse di vista, le tenebre
sembravano averla
inghiottita fino a quando non rivide una sagoma fluttuare
nell’aria per qualche
istante, per poi ricadere al suolo esausta. La scena si
ripeté per qualche
minuto, lasciando Dante estremamente ammaliato: si trattava certamente
di
qualcuno istruito ad un intenso allenamento fisico.
Forse
é una donna spartana, rifletté, conoscendo la
dura educazione a cui erano
sottoposti gli abitanti di quella terra. Riuscì a
nascondersi dietro una
colonna alle spalle della giovane senza che lei lo notasse, mentre
correva
disperatamente per poi schiantarsi al suolo.
Il
seno fluttuava libero nell’aria e Dante poteva quasi
immaginarsi il capezzolo
turgido irrigidirsi sotto gli sprazzi di luce lunare e il sudore
imperlare la
sua stessa schiena, inumidendo il tessuto sulla spalla sinistra.
Immerso in
questi pensieri soavi, lasciò che lo scalpello gli
scivolasse di mano,
provocando un rumore fugace ma assordante nel silenzio spezzato
solamente dai
passi snodati dell’atleta. La donna si arrestò con
uno scatto, stanca e vigile.
Prese da terra un oggetto sottile, sulla cui sommità Dante
poteva facilmente
immaginarsi una punta acuminata.
«Chi
c’é?» squittì lei con voce
allarmata, voltandosi nella direzione dell’uomo. La
luce della luna illuminò il suo volto come un fulmine
illumina il firmamento.
Dante
non riuscì a reprimere un grido di stupore. La vide
avvicinarsi minacciosa,
l’oggetto in mano ed il passo spedito. Chiuse gli occhi,
rannicchiandosi dietro
la colonna, senza accorgersi che ormai la donna lo aveva scoperto.
«Tu!»
sibilò indignata puntandogli un dito contro, «hai
interrotto il mio
allenamento!».
La
giovane si ritrovò davanti un incendio di capelli rossastri
come le ferite sul
suo viso, accompagnati da due sconcertati occhi color ambra.
Sbalordito, l’uomo
si irrigidì, senza proferire parola. Lei
ricominciò da dove si era interrotta.
«Per
punizione combatterai con me» disse rivolta a lui, poi la
vide puntare la
lancia nella sua direzione. Erano questi i combattimenti che intendeva?
Ferirlo
a morte?
Dante
chiuse violentemente gli occhi e senza che se ne accorgesse, la lancia
lo
oltrepassò, conficcandosi nel terreno. Vide la donna
esultare. Poi si volse
verso di lui. «Allora, vuoi combattere?».
Lui
non rispose, avvicinandosi con aria irrequieta. Dove erano finiti gli
stracci
di cui era vestita poco prima? E come poteva conoscere quel posto?
Aveva troppe
domande a cui non trovava una risposta, ma fece appena in tempo a
formulare
questo pensiero che un pugno potente lo raggiunse allo stomaco,
facendolo reclinare
su se stesso, inerme.
Poi
un forte dolore lo colpì a una guancia, prima di essere
inghiottito
dall’oscurità.
¹Peplo:
abito
femminile di colore bianco
indossato comunemente dalle donne nell’Antica Grecia.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Appena
vide l’acqua, luccicante alla prima luce dell’alba,
Dante si precipitò ai bordi
del fiume, trangugiandone più che poté,
sentendosi improvvisamente rinvigorito,
come rinato.
La
giovane si sedette sulla riva, immergendo i piedi in acqua. Lo
osservò togliersi
delicatamente la corazza che gli proteggeva il petto, scoprendo un
ventre
possente quanto le spalle massicce. Si slacciò i saldali e
si tolse la cintura,
restando completamente denudato. Lo vide immergere le caviglie
nell’acqua
fresca, poi i polpacci, le natiche e infine la schiena bianca.
Esaminò
il suo modo di scrollarsi l’acqua di dosso, di immergere
completamente la testa
e lasciare che tante piccole gocce gli scivolassero tra le ciglia,
sulle
guance, raggiungendo le labbra piene.
Anche
se non lo avrebbe mai ammesso, avrebbe voluto succhiare quelle labbra
fino a
farle bruciare e accarezzare quei capelli rosso fuoco, tirarli,
annusarli e
stringerli fra le dita. Per la prima volta da quando erano giunti in
quel
posto, l’uomo si voltò a guardarla, avvicinandosi
lentamente.
Quando
fu abbastanza vicino, lei mosse i piedi nell’acqua,
schizzandolo e ridendo
quando l’uomo cercò di proteggersi inutilmente,
rischiando di annegare. Quando
si riprese, la ammonì: «Sei terribile,
bimbetta».
In
tutta risposta lei continuò veemente, costringendolo ad
allontanarsi. Poi la ragazza
si rabbuiò improvvisamente, sdraiandosi sul suolo, gli occhi
rivolti al firmamento
e i piedi ancora immersi nell’acqua. L’uomo,
incurante della sua nudità, si
distese accanto a lei.
Il
sole cominciava a illuminare il cielo e un nuovo giorno stava per
cominciare,
ricordando loro quanto la vita fosse effimera e talvolta angosciosa.
«Immagino
tu voglia tornare dalla tua famiglia» fu la ragazza a rompere
il silenzio, ma
solo per poco. L’uomo si mise a sedere, osservando
l’acqua in cui era stato
immerso fino a poco prima.
«Io
so come fare» disse la giovane, tirandosi in piedi,
guardandolo in volto. I
loro sguardi si incrociarono ancora e l’uomo poté
constatare quanto i suoi
lineamenti fossero delicati, la pelle color caramello splendeva alla
luce
dell’alba e degli splendidi capelli scuri ne risaltavano la
bellezza. «Ci
vediamo qui domani al tramonto» decretò, prima di
correre via sulla strada di
casa.
˜
Quando
Dante riaprì gli occhi si trovò di fronte una
scena inverosimile: la schiava gli
stava tamponando la guancia ferita con un panno, intingendolo in
dell’acqua
fresca.
I
loro volti si trovavano così vicini che Dante poteva sentire
il soffio sottile
del suo respiro sulla pelle. Seppur con un occhio malandato, da quella
distanza
la donna era ancora più attraente. I capelli lucenti le
ricadevano sulle
spalle, solleticando dolcemente il volto dell’uomo. Dante
allungò una mano e li
carezzò, stringendoli a sé, assaporandone la
morbidezza.
«E
tu avresti combattuto la guerra?» lo provocò lei
con un sorriso. La guancia gli
bruciava, ma non si lamentò. Quella era la prima vera volta
che la ragazza gli
rivolgeva la parola. La sua voce era melodica e calma, come una strana
sinfonia
nascosta nella memoria.
«Vieni da Sparta, vero?» chiese l’uomo
sollevandosi su un gomito. Lei si voltò,
intingendo nuovamente il panno nell’acqua. «Sei
molto brava» asserì, tastandosi
l’addome reduce dal pugno ricevuto qualche ora prima.
Lei
abbassò lo sguardo. «Perdonami»
sussurrò, «io pensavo che…».
Dante
la interruppe, prendendole il viso tra le mani. La vide arrossire
violentemente, la sua pelle scottava sotto i suoi palmi e gli occhi
brillavano
di una luce nuova e sconosciuta. Le carezzò la testa e
improvvisamente venne
pervaso da un intenso istinto protettivo. Lei posò lo
sguardo sul suo viso e
Dante sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
«Bimbetta
mia…» sussurrò sfiorandole le guance.
Lei si strinse al petto dell’uomo, sentendo
le sue mani scivolarle dolcemente sul volto, sui capelli, sul collo,
lasciando
che i loro corpi si abbandonassero a quel pugno di ricordi che erano
riusciti a
salvare dalla polvere della memoria.
˜
Camminarono
per tutta la notte e per tutto il giorno successivi, permettendosi
solamente
qualche breve pausa durante il viaggio. Quando finalmente videro
Corinto, il
sole stava calando sul mare, pronto a inghiottirlo. Quando capirono di
aver
raggiunto la destinazione ambita, si presero per mano e corsero per
tutta la
città, fino al porto, dove quella notte una nave diretta a
Corcira, più vicina
ad Atene che a Sparta, avrebbe portato clandestinamente il soldato
ateniese in
salvo, lontano dai nemici.
«Perlomeno
hai una possibilità di sopravvivere»
mormorò la ragazza osservando il trireme
in lontananza. «Se ti unirai a loro, nessuno ti
caccerà», proseguì con fermezza,
«non possono permettersi di rifiutare un paio di braccia in
più» terminò.
Il
sole tingeva l’acqua d’oro. Esausta, la giovane si
accovacciò a terra. Avevano
sete, erano affamati e avevano terminato tutte le provviste che era
riuscita a
portare con sé. L’uomo prese subito posto accanto
a lei.
«Dimmi
come posso ringraziarti» disse in tono serio, quasi come
un’ammonizione. La
ragazza alzò gli occhi verso il cielo, che appariva sempre
più scuro all’orizzonte.
L’ora della partenza si stava avvicinando.
«Noi
dovremmo essere nemici» disse in un sussurro. Poi, come
memore di qualcosa, si
tirò in piedi con uno scatto. «Trova la salvezza,
ateniese» si volse verso il
guerriero un’ultima volta, ma lui la fermò:
«Dimmi almeno il tuo nome».
«Gli
dei hanno voluto che mi chiamassi Zhalia» rispose la donna,
correndo via verso
la città, con ben altri piani in mente che tornare verso la
propria
madrepatria. Ciò che l’uomo ignorava era che non
avrebbe avuto affatto bisogno
di evitare di svelare la propria identità.
L’equipaggio del trireme sapeva bene
di chi si trattasse, ma aveva preteso, in cambio della sua
ospitalità
sull’imbarcazione, la vendita di una schiava. Quella schiava
era una ragazzina
spartana di buona famiglia, con il desiderio di poter prendere posto,
un
giorno, tra le fila di atleti allo Stadio di Olimpia.
˜
393
a.C.
Dante
riusciva a scorgere una decina di donne dalla postazione in cui si
trovava, in
cima alla collina. Poteva distinguere chiaramente i giudici,
rigorosamente
donne, sedute sull’esedra²,
attendendo l’inizio
della gara.
La
prima disciplina del pentathlon sarebbe stata la corsa, per questo
motivo le
atlete si erano radunate all’inizio della pista sterrata,
pronte a partire. Tra
di loro, la donna che lo aveva salvato, tempo prima, da una fine in
tutta
probabilità atroce, pronta ad esaudire il suo sogno
indossando il chitone³
e gli splendidi capelli corvini raccolti in una
fascia bianca.
Le
donne si misero in posizione e Dante la vide fluttuare
nell’aria, riportando
alla memoria in un istante il momento in cui la vide correre per la
prima volta,
prima che si allontanassero per sempre da Sparta, insieme, quando gli
chiese di
combattere e lui rifiutò per risparmiare le energie, quando
si incamminarono e
lei gli raccontò di come fosse fuggita prima di incontrare
il suo futuro sposo
quella stessa mattina, e lui si abbandonò di rimando ai
ricordi del mestiere
del padre, che, fiero del proprio figlio, batteva lo scalpello sul
legno
ricavandone dei veri capolavori.
Accoccolato
sull’erba verde e fresca, pensò che nonostante la
sua famiglia fosse morta a
causa della peste durante la guerra, l’aveva in parte
ritrovata in quella donna
spartana, su quell’isola che aveva imparato ad apprezzare fin
da quando ci mise
piede la prima volta.
La
storia dei due amanti sopravvisse nei secoli, divenendo così
popolare da
modificare per sempre il destino dell’isola in cui essi
videro sbocciare il proprio
amore, Zacinto, successivamente ribattezzata Zante,
dall’unione dei nomi dei
due sposi che tuttora riposano, stretti l’uno
all’altro, nel suo ventre più
profondo.
²
Esedra: piattaforma di pietra sulla quale sedevano i giudici durante i
Giochi
Olimpici nell’Antica Grecia.
³
Chitone: tunica di stoffa leggera senza maniche comunemente utilizzata
nell’Antica Grecia.
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