Il Segreto dell'Isola

di Sabriel Schermann
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***



Il Segreto dell’Isola

 

 

 

 

 

«Pari agli dèi mi appare lui, quell'uomo
che ti siede davanti e da vicino
ti ascolta: dolce suona la tua voce […]
e mi inonda un sudore freddo, un tremito
mi scuote tutta, e sono anche più pallida
dell'erba […]

Ma tutto si sopporta, poiché...»

(Saffo – Ode della Gelosia)

 

 

 

 

 

 

 

 

415 a.C.

Era l’alba quando Dante mise piede per la prima volta a Sparta. Una paura tremenda gli fremeva in petto, non avrebbe mai dovuto seguire quel pazzo e più avanzava verso il palazzo reale e più se ne convinceva. Gli sguardi fugaci degli uomini e delle donne perbene che si posavano su di loro, puri e agguerriti soldati ateniesi, erano indecifrabili. Si aspettava di essere trafitto dalla lama di una spada in qualsiasi momento; se il suolo si fosse squarciato sotto ai suoi piedi, non avrebbe esitato un istante a buttarcisi dentro, a costo di non rivedere mai più la luce, sua madre, suo padre e l’amata sorella che aveva lasciato indietro. Non sapeva nemmeno se fossero ancora vivi, se avessero abbastanza cibo quanto ne aveva lui quando Alcibiade suggerì di fuggire a Sparta. Nessuna delle persone a lui più fidate aveva opposto resistenza, erano partiti e basta. Avrebbe preferito soccombere nella sua madrepatria o morire a Siracusa o in qualsiasi altro posto che non fosse il territorio nemico. Sentiva già la frusta frantumargli il costato e strisciare violentemente sulla sua schiena, come un rettile affamato nel deserto. Sentiva la morte sempre più vicina, tanto da poterne già patire l’amaro presagio.

 

˜

 

403 a.C.

Camminava altero per le strade della città, osservando con estrema attenzione tutto ciò che la sua visuale comprendeva, come un neonato che scopre il mondo per la prima volta. Adorava passeggiare intorno a quel luogo pieno di vita eppure così pacifico. Spesso si infilava nei prati, si sfilava i sandali e gironzolava a piedi nudi, assaporando il profumo fresco dell’erba e il sole tiepido sulla pelle.
Zacinto era estremamente diversa da Atene e anche se non era stata la sua volontà a spingerlo così lontano da casa, Dante aveva presto fatto dell’isola la sua dimora, il proprio angolo remoto di pace e solitudine, dove avrebbe forse potuto realmente riprendersi dalla miriade di sofferenze che la guerra gli aveva provocato.
Un giorno mite e ventoso però, decise di spingersi ben oltre il solito campo, oltrepassando le calle candide che solitamente osservava solo da lontano, attraversando una collina fino a raggiungerne la cima, la piazza del mercato.
Donne e uomini trotterellavano da una parte all’altra, per lo più trascinando grossi pesi sulle spalle e indossando vestiti di evidente pessima qualità. Alle donne ricche era proibito frequentare l’agorà e gli uomini di alto rango erano soliti ritrovarsi in un angolo dello spiazzo, sotto un portico adibito apposta per ripararsi dal sole o dalla pioggia battenti.
Alle loro spalle si ergeva un ampio cartellone infarcito delle notizie più recenti, tra cui la fine della guerra, che a Dante era costata non solo quasi la vita, ma anche l’ostracismo dalla sua città natia.
In cambio dell’esilio, avrebbe forse potuto rimettersi affondando il proprio corpo nell’acqua del mare e strofinando i piedi contro l’erba fresca del mattino per tutto il tempo che avrebbe voluto.

 

˜

 

Al fondo del piazzale poteva vedere chiaramente un piccolo gruppo di donne, di cui una sembrava asserire in modo concitato con alcuni uomini. Solo quando fu abbastanza vicino capì che si trattava di schiave sul punto di essere vendute per un pugno di monete.
Si trattava per lo più di giovani robuste e vigorose, probabilmente plasmate dal duro lavoro svolto negli anni, ma una di loro era più gracile e minuta delle altre, dotata di un viso straordinariamente armonioso che a Dante pareva brillare di luce propria.
Si avvicinò con cautela, incuriosito da quella figura insolita, osservandola attentamente. Per un istante, gli balenò nella mente il pensiero, come un ricordo sfocato, che la avesse già vista da qualche parte prima d’allora, ma subito lo ricacciò indietro con convinzione.
Chiunque lo avesse incontrato prima che giungesse a Zacinto, non doveva quasi certamente trovarsi più al mondo. Si sentiva ancora debole a causa delle ferite e della stanchezza accumulate, per cui pensò che qualcuno che avesse badato alla sua salute gli avrebbe probabilmente fatto comodo.
Quella ragazza era una nullità, tanto che la sua vita poteva essere comprata e venduta senza alcun rammarico, ma aveva l’aspetto di una dea. Quando le sfiorò un braccio, lei ebbe un sussulto. La pelle olivastra e liscia sotto il suo tatto gli provocò un improvviso capogiro.
«Come ti posso chiamare?» chiese lui senza preamboli, perdendosi in quegli occhi corvini come i capelli che le ricadevano morbidamente sulle spalle. Lei rispose abbassando lo sguardo al suolo.
L’uomo strinse involontariamente la presa sul suo braccio, esortandola a parlare. Non sembrava imbarazzata. Al contrario, permeava infinita tristezza. Poi, con un improvviso strattone, la ragazza si divincolò dalla sua presa.
Qualcosa gli aveva bagnato la faccia: quella schiava gli aveva appena sputato addosso.

 

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Era un pomeriggio uggioso, il sole era apparentemente intralciato dalle nuvole e solitarie gocce di pioggia si posavano delicate al suolo, unendosi ad esso fino ad esserne assorbite completamente.
Dante osservava il cielo torvo appostato alla finestra del suo laboratorio, dotata di un vetro sottilissimo lavorato apposta per lui dai migliori artigiani della polis. Ebbe la tentazione di uscire e vagabondare sotto il temporale, ma finì per tornare al lavoro, maneggiando dei sottili fili di spago, cercando di infilarli su un’asse di legno il più precisamente possibile.
Da quando era stato cacciato dal Consiglio di Atene la necessità di sopravvivere gli riportò alla memoria tutte le nozioni che suo padre gli aveva impartito riguardo al mestiere di costruttore di cetre, quando era ancora un ragazzo.
Così Dante aveva imparato a tessere tele di legno e a far fuoriuscire dagli strumenti vivaci note che spesso attiravano alla sua bottega le donne più importanti della città. Si presentavano con la scusa di voler acquistare una cetra, magari per donarla a un familiare, o talvolta le più fantasiose raccontavano di volerlo semplicemente osservare all’opera.
A un tratto una sensazione riaffiorò sfrontata nella sua mente, qualcosa di meraviglioso ma al tempo stesso ripugnante. Non riusciva a togliersi dalla testa la ragazza che qualche giorno prima gli aveva inumidito il viso con la sua saliva e respinto con modi sprezzanti.
Si chiedeva cosa le fosse successo, dato che indubbiamente il gesto della donna era considerato estremamente oltraggioso nei confronti di un uomo rispettabile come lui.
Nonostante l’ostracismo, tutti in città lo stimavano come se avesse sempre vissuto lì, forse perché erano a conoscenza del fatto che un tempo fosse un elemento di spicco o forse perché aveva combattuto anche in nome dell’isola di Zacinto.
«Non vi preoccupate» disse Dante alla donna quando, avendo assistito alla scena, minacciò la giovane, di un passo posteriore alle compagne. L’uomo si asciugò, noncurante del gesto, volgendo un tiepido sorriso alla fanciulla prima di girare i tacchi e tornare sui suoi passi.
Sentì un vociare dietro di sé, ma non se ne curò. Immerso in questi pensieri cupi e appaganti insieme, Dante continuava a incrociare lo spago, incidendo poi nuovamente il legno col lo scalpello, riportando alla mente pensieri di una giovinezza troppo lontana.

 

˜

 

Raggiunta la piazza, si diresse con passo spedito verso il gruppetto di donne presenti allo stesso posto sette giorni prima. Questa volta erano completamente sole, un altro buon motivo per avvicinarsi, pensò.
La ragazza che voleva era ancora lì, aveva la testa bassa e nemmeno quando l’uomo le si posizionò davanti sollevò lo sguardo. Il linguaggio del suo corpo sosteneva chiaramente che non fosse nelle condizioni migliori. Dante la osservò: la massa corvina le copriva quasi interamente il volto rivolto a terra.
«Quanto per lei?» chiese alla donna che ne sembrava la proprietaria, indicando la giovane.
«Ah, quella» ragliò lei di rimando, «vale solo qualche moneta, siete sicuro che la volete?» gli chiese inespressiva, stringendo le braccia di altre due donne più robuste, invitandolo a sceglierle.
«Voglio lei» rispose lui fermamente, «quanto?» aggiunse. La donna tornò al suo posto, confusa.
Fece rapidamente dei calcoli, infine decretò:«sono otto decadracme d’argento» con l’aria di chi vuole sbrogliarsi al più presto da un impiccio, «ma non riportatemela indietro se non si comporta a dovere» aggiunse in tono brusco e distaccato.
Dante la rassicurò, invitando la ragazza a seguirlo. Lei mosse lentamente alcuni passi, mantenendo la testa china. La donna li osservò camminare uno a fianco all’altra fino a quando non scomparvero completamente dalla sua visuale.


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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***



Era una fredda sera d’inverno quando un uomo dall’addome possente e i capelli scuri e arruffati irruppe nella stanza che gli era stata affidata da quando risiedeva al palazzo reale. I due uomini, insieme agli altri disertori ateniesi, si erano garantiti vitto, alloggio e protezione grazie ad informazioni e consigli strategici a favore dell’armata spartana.
Dante non avrebbe mai voluto fare del male al suo popolo; avendo accettato di aiutare il suo amico, però, non aveva avuto scelta ed in qualche modo aveva indirettamente acconsentito a far morire di fame gli abitanti di Atene.
L’uomo, che nonostante l’età pareva ancora agli albori della giovinezza, gli si avvicinò, prendendo posto sul letto accanto a lui. Dante lo osservò perplesso, potendo solamente immaginare l’ultima bravata del compagno di avventure. Tuttavia decise che, qualsiasi oltraggio avesse commesso, lui gli sarebbe rimasto accanto.
Alcibiade era un abilissimo oratore, in grado di ammaliare e convincere anche lo stratega più diffidente. Si trattava però anche di un individuo meschino, pronto a tradire chiunque pur di salvaguardare i propri interessi. Nonostante ciò, era riuscito a convincere il re di Sparta a dargli credito e Dante riconobbe che senza le sue doti, lui stesso e gli altri probabilmente in quell’istante non si sarebbero più nemmeno trovati al mondo.
Il ragazzo lo guardò crucciato: «Dobbiamo andarcene». Dante ebbe un sussulto, ma l’altro lo precedette: «Re Agide ce l’ha con me, non c’è più tempo, vogliono farmi fuori».
Prima di prendere la porta, gli intimò di raccogliere i propri averi al più presto e portarsi dietro anche tutto il necessario per combattere, in caso ce ne fosse stato bisogno.
La pace era stata intensa, ma come tutte le cose positive, non era durata più di un battito d’ali.

 

˜

 

Entrarono in casa e Dante si accomodò su uno sgabello di legno, intagliato da lui stesso tempo addietro, impugnando del pane ormai secco e versando un po’ di latte in una ciotola.
La invitò a prendere posto di fronte a lui, ma alzando lo sguardo la trovò ancora immobile innanzi alla porta. Dopo varie sollecitazioni, l’uomo posò il pane su un tavolino e si avvicinò alla donna, sollevandole il viso con delicatezza.
Ebbe un sussulto quando vide che su un occhio le si erano posate per qualche ragione tutte le sfumature di grigio che conosceva e vari graffi recenti campeggiavano qua e là sull’intero volto.
Scioccato, l’uomo prese un panno, lo intinse nella poca acqua fresca rimasta in casa e glielo passò sul viso. La ragazza, che fino ad allora aveva tenuto gli occhi serrati, li aprì improvvisamente e Dante poté notare quanto in realtà si fosse ingannato inizialmente: un mare di sfumature comprese tra un color erba acerbo e un caldo color miele spiccava dalle iridi della donna, incorniciate da lunghe ciglia scure. La invitò nuovamente a sedersi e le porse il latte fresco che aveva appena versato per lei.
«Come ti chiami?» chiese l’uomo curioso. Lei non rispose, né bevve ciò che l’uomo le aveva porto. Alzò uno sguardo interrogativo su di lui, che si andò presto a posare di nuovo sulla ciotola.
«Devo pur chiamarti in qualche modo» aggiunse l’uomo, cercando disperatamente un modo per ridurre la tensione. «Sai, tu mi ricordi…» mormorò, ma venne interrotto da un crepitio improvviso e insistente: stavano bussando alla porta e Dante capì che probabilmente si trattava di qualcuno interessato a qualche sua creazione.
«Mangia» le suggerì indicando il cibo, lasciandosela poi alle spalle.

 

˜

 

Vagava solo per le strade della città, non sapeva dove andare e aveva paura, si trovava in territorio nemico e aveva perso di punto in bianco ogni tipo di protezione.
Alcibiade si era dileguato insieme agli altri e una volta usciti dal palazzo si erano divisi senza troppi convenevoli, intenzionati a disperdersi sul territorio peloponnesiaco come tanti piccoli ragni appena nati. Dante era furioso, non avrebbe mai perdonato il suo amico per averlo messo in quella situazione, si era comportato come un vigliacco e un approfittatore come lo era stato in patria, interessato solamente a salvare la propria pelle.
Era completamente solo, non aveva provviste e nemmeno armature: aveva dovuto abbandonare tutto prima di fuggire, combattendo contro qualche guardia. Era stremato, affamato e afflitto. Cosa ne sarebbe stato della sua misera vita, per di più così lontano da casa?
Non poteva accarezzare i capelli chiari della madre, che sembravano fili d’erba fresca sotto il suo tocco, non poteva nemmeno stringere la sorella, da sempre sua fedele compagna di marachelle e racconti notturni. Avrebbe voluto dire loro che li amava e che il suo desiderio più ardente era rivederli, almeno una volta, ancora una, prima di cadere nel baratro.
Dopo qualche ora di cammino, ormai lontano dalla vitalità della città, vide un appezzamento di terra simile a della sabbia. Sembratogli un luogo tranquillo e solitario, prese posto tra i granelli morbidi e sottili che lo accolsero con calore, aderendo al suo corpo.
Si distese con lentezza, privo di qualsiasi altra visuale diversa dal cielo poco dopo il tramonto, tinteggiato delle più diverse sfumature di celeste cosparse qua e là di ombre dorate. Aveva sempre amato osservare le tonalità di colori che la natura può offrire.
Disperdendosi nei ricordi più dolci, esausto, si addormentò.
Fu un grido improvviso a svegliarlo, forse di un animale, o il fragore di un tuono mandato da Zeus per rammentargli la sua presenza in terra nemica.
Tuttavia, Dante poteva vedere tanti piccoli barlumi sfavillare nel cielo, con al centro la loro madre creatrice, la dea Selene. Inquieto, si mise a sedere stropicciandosi gli occhi, mettendo a fuoco il panorama davanti a sé.
Una ragazzina dal volto giovane e fresco lo osservava con gli occhi spalancati, brillanti alla luce notturna. Era accovacciata a pochi metri da lui, il capo coperto con del tulle, ma il corpo avvolto in un peplo¹ corto e candido. Dante non aveva dubbi, si trattava di una giovane spartana.
Si portò d’istinto una mano dove solitamente teneva la propria daga, sperando invano di poterla trovare, ma tastando solamente il tessuto ruvido che univa i suoi vestiti.
Lasciò scivolare lo sguardo sul corpo immobile della ragazza, notando che in una mano teneva un oggetto simile ad una lancia. Era piuttosto corta, ma Dante poté notare chiaramente la sua punta affilata risplendere alla luce della luna. L’uomo si tirò in piedi in uno scatto, temendo il peggio.
Lei cominciò a correre rapidamente e Dante si rese conto di quanto la ragazzina fosse agile e allenata, come si aspettava fosse qualsiasi abitante di quella terra maledetta. L’uomo però, di gran lunga più robusto e temprato della giovane, la raggiunse con un balzo, sovrastandola.
Col proprio volto incastrato nel collo della donna, ansimante e visibilmente spaventata, Dante poteva sentire il suo odore fresco, come se fosse stata a lungo immersa nell’acqua.
La osservò meglio in viso: aveva l’aspetto di una dea e se ne sentì subito attratto. Avrebbe voluto possederla lì, in quel momento, ma era un uomo ateniese ed era un uomo perbene. Non avrebbe mai fatto nulla del genere. I loro corpi aderivano perfettamente l’uno all’atro, quando l’uomo si alzò in piedi con indifferenza, tentando di nascondere la propria eccitazione.
I loro sguardi si incrociarono per qualche istante, poi il soldato decise di rompere il silenzio della notte: «Sai dove posso trovare un po’ d’acqua?».
Col volto buio, la ragazza si sistemò i vestiti, che lasciavano fuoriuscire il suo seno piccolo e immaturo. «Certo che lo so» rispose bruscamente, «ma non ho alcuna intenzione di dirtelo» terminò, allontanandosi un poco per raccogliere la propria lancia.
L’uomo la guardò perplesso. Doveva trovarsi davanti la figlia di un ricco personaggio locale, se aveva l’impertinenza di rivolgersi in quel modo.
«Non è bene che una bambinetta come te se ne vada in giro tutta sola durante la notte» ribatté l’uomo con uguale asprezza, «a disturbare la gente in giro per la città, per di più» concluse duramente.
La ragazza si voltò appena:«Non sono affatto una bambinetta» rispose stizzita, «a me non interessa la guerra, né il matrimonio con chicchessia» fece una rapida pausa, «io sono una donna spartana, sono nata forte e libera» continuò, impugnando il giavellotto con fierezza, guardandolo negli occhi. «La mia famiglia mi ha già trovato un consorte» volse lo sguardo alla luna, «ma io non mi sposerò».
Dante la osservò pensieroso e confuso. «Gli dei vorrebbero ti sposassi, in fondo sei abbastanza grande per farlo» considerò l’uomo. Lei si volse verso di lui con uno scatto, puntandogli la lancia al petto con aria tutt’altro che pacifica.
«Gli dei ora vogliono che tu venga con me, sporco ateniese» sibilò. Dante ebbe un sussulto e il cuore cominciò a battergli forte in petto.
«Muoviti!»

 

˜

 

Quando Dante tornò nell’ingresso di casa si aspettava di trovarla lì, esattamente nello stesso posto e nella medesima posizione in cui l’aveva lasciata.
Quando capì che non c’era, provò a cercarla nei campi attorno alla casa, senza però trovare nulla se non il chiarore sfumato del sole incastrato dietro a una collina.
Realizzò di essere genuinamente preoccupato per la sua vita: quella ragazza era vestita di stracci e aveva il volto tumefatto, chiunque avrebbe potuto capire che si trattasse di una schiava e rapirla o seviziarla ancora. Tornò in casa e il suo sguardo si posò accidentalmente sul tavolino, su cui campeggiava solamente la ciotola vuota. La donna doveva essersi nutrita e poi essere scappata mentre lui si intratteneva con qualche cliente.
Si diede dello stupido per non aver pensato a una tale eventualità ed entrando nel laboratorio prese lo scalpello consumato e si avviò rapidamente per i campi. Ormai era sera e il sole era tramontato quasi completamente, ma non sarebbe tornato indietro.
Avrebbe ritrovato quella donna e l’avrebbe portata a casa salva, sana, viva.
Attraversò i prati lucenti della notte, corse su per la collina raggiungendo l’agorà ormai deserta, inoltrandosi nella parte opposta, scoprendo una zona della polis in cui non si era mai addentrato.
Si imbatté in un teatro anonimo circondato da un ampio terreno circolare, fino ad arrivare a un fitto bosco. Poteva sentire la terra bagnata gracchiare sotto i suoi piedi, accompagnata da altri rumori di fondo. Era cosciente di correre forse un pericolo, ma tentò di giustificarsi con il pensiero che quella ragazza, che aveva comprato solo qualche ora prima, fosse in condizioni peggiori.
Ciò gli infondeva una qualche sorta di coraggio, spronandolo a spingersi oltre, a superare il bosco ed i propri limiti, per introdursi in territori sconosciuti e lontani da casa.
Raggiunse uno spiazzo sterrato, circondato da colonne di pietra malandate e debolmente illuminato dal chiarore della luna che fuoriusciva dalle nubi. Sentì un rumore di passi scalpitanti sul terreno, parevano di un cavallo sperduto o forse qualcuno che si avvicinava minaccioso alle sue spalle.
Si voltò, ma vide solamente oscurità. Fu in quel momento che notò una figura nera tra i pilastri, che sembrava sistemarsi quello che doveva essere un peplo: si trattava senz’altro di una donna, la luce della luna ne tracciava le forme delicate, ne illuminava le gambe quasi completamente scoperte e uno dei seni che fuoriusciva dal tessuto, piccolo e tondo.
Poi la vide correre veloce, le gambe agili fluttuanti nell’aria. Dante si sarebbe quasi aspettato di vederla librarsi nel cielo. Si avvicinò, cercando di scoprire chi fosse quella donna misteriosa che si affaticava con tale fervore durante la notte.
Improvvisamente la figura si fermò per riprendere fiato, sistemandosi nuovamente il vestito, coprendosi il seno. Poi l’uomo la perse di vista, le tenebre sembravano averla inghiottita fino a quando non rivide una sagoma fluttuare nell’aria per qualche istante, per poi ricadere al suolo esausta. La scena si ripeté per qualche minuto, lasciando Dante estremamente ammaliato: si trattava certamente di qualcuno istruito ad un intenso allenamento fisico.
Forse é una donna spartana, rifletté, conoscendo la dura educazione a cui erano sottoposti gli abitanti di quella terra. Riuscì a nascondersi dietro una colonna alle spalle della giovane senza che lei lo notasse, mentre correva disperatamente per poi schiantarsi al suolo.
Il seno fluttuava libero nell’aria e Dante poteva quasi immaginarsi il capezzolo turgido irrigidirsi sotto gli sprazzi di luce lunare e il sudore imperlare la sua stessa schiena, inumidendo il tessuto sulla spalla sinistra. Immerso in questi pensieri soavi, lasciò che lo scalpello gli scivolasse di mano, provocando un rumore fugace ma assordante nel silenzio spezzato solamente dai passi snodati dell’atleta. La donna si arrestò con uno scatto, stanca e vigile. Prese da terra un oggetto sottile, sulla cui sommità Dante poteva facilmente immaginarsi una punta acuminata.
«Chi c’é?» squittì lei con voce allarmata, voltandosi nella direzione dell’uomo. La luce della luna illuminò il suo volto come un fulmine illumina il firmamento.
Dante non riuscì a reprimere un grido di stupore. La vide avvicinarsi minacciosa, l’oggetto in mano ed il passo spedito. Chiuse gli occhi, rannicchiandosi dietro la colonna, senza accorgersi che ormai la donna lo aveva scoperto.
«Tu!» sibilò indignata puntandogli un dito contro, «hai interrotto il mio allenamento!».
La giovane si ritrovò davanti un incendio di capelli rossastri come le ferite sul suo viso, accompagnati da due sconcertati occhi color ambra. Sbalordito, l’uomo si irrigidì, senza proferire parola. Lei ricominciò da dove si era interrotta.
«Per punizione combatterai con me» disse rivolta a lui, poi la vide puntare la lancia nella sua direzione. Erano questi i combattimenti che intendeva? Ferirlo a morte?
Dante chiuse violentemente gli occhi e senza che se ne accorgesse, la lancia lo oltrepassò, conficcandosi nel terreno. Vide la donna esultare. Poi si volse verso di lui. «Allora, vuoi combattere?».
Lui non rispose, avvicinandosi con aria irrequieta. Dove erano finiti gli stracci di cui era vestita poco prima? E come poteva conoscere quel posto? Aveva troppe domande a cui non trovava una risposta, ma fece appena in tempo a formulare questo pensiero che un pugno potente lo raggiunse allo stomaco, facendolo reclinare su se stesso, inerme.
Poi un forte dolore lo colpì a una guancia, prima di essere inghiottito dall’oscurità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

¹Peplo: abito femminile di colore bianco indossato comunemente dalle donne nell’Antica Grecia.


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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***



Appena vide l’acqua, luccicante alla prima luce dell’alba, Dante si precipitò ai bordi del fiume, trangugiandone più che poté, sentendosi improvvisamente rinvigorito, come rinato.
La giovane si sedette sulla riva, immergendo i piedi in acqua. Lo osservò togliersi delicatamente la corazza che gli proteggeva il petto, scoprendo un ventre possente quanto le spalle massicce. Si slacciò i saldali e si tolse la cintura, restando completamente denudato. Lo vide immergere le caviglie nell’acqua fresca, poi i polpacci, le natiche e infine la schiena bianca.
Esaminò il suo modo di scrollarsi l’acqua di dosso, di immergere completamente la testa e lasciare che tante piccole gocce gli scivolassero tra le ciglia, sulle guance, raggiungendo le labbra piene.
Anche se non lo avrebbe mai ammesso, avrebbe voluto succhiare quelle labbra fino a farle bruciare e accarezzare quei capelli rosso fuoco, tirarli, annusarli e stringerli fra le dita. Per la prima volta da quando erano giunti in quel posto, l’uomo si voltò a guardarla, avvicinandosi lentamente.
Quando fu abbastanza vicino, lei mosse i piedi nell’acqua, schizzandolo e ridendo quando l’uomo cercò di proteggersi inutilmente, rischiando di annegare. Quando si riprese, la ammonì: «Sei terribile, bimbetta».
In tutta risposta lei continuò veemente, costringendolo ad allontanarsi. Poi la ragazza si rabbuiò improvvisamente, sdraiandosi sul suolo, gli occhi rivolti al firmamento e i piedi ancora immersi nell’acqua. L’uomo, incurante della sua nudità, si distese accanto a lei.
Il sole cominciava a illuminare il cielo e un nuovo giorno stava per cominciare, ricordando loro quanto la vita fosse effimera e talvolta angosciosa.
«Immagino tu voglia tornare dalla tua famiglia» fu la ragazza a rompere il silenzio, ma solo per poco. L’uomo si mise a sedere, osservando l’acqua in cui era stato immerso fino a poco prima.
«Io so come fare» disse la giovane, tirandosi in piedi, guardandolo in volto. I loro sguardi si incrociarono ancora e l’uomo poté constatare quanto i suoi lineamenti fossero delicati, la pelle color caramello splendeva alla luce dell’alba e degli splendidi capelli scuri ne risaltavano la bellezza. «Ci vediamo qui domani al tramonto» decretò, prima di correre via sulla strada di casa.

 

˜

 

Quando Dante riaprì gli occhi si trovò di fronte una scena inverosimile: la schiava gli stava tamponando la guancia ferita con un panno, intingendolo in dell’acqua fresca.
I loro volti si trovavano così vicini che Dante poteva sentire il soffio sottile del suo respiro sulla pelle. Seppur con un occhio malandato, da quella distanza la donna era ancora più attraente. I capelli lucenti le ricadevano sulle spalle, solleticando dolcemente il volto dell’uomo. Dante allungò una mano e li carezzò, stringendoli a sé, assaporandone la morbidezza.
«E tu avresti combattuto la guerra?» lo provocò lei con un sorriso. La guancia gli bruciava, ma non si lamentò. Quella era la prima vera volta che la ragazza gli rivolgeva la parola. La sua voce era melodica e calma, come una strana sinfonia nascosta nella memoria.
«Vieni da Sparta, vero?» chiese l’uomo sollevandosi su un gomito. Lei si voltò, intingendo nuovamente il panno nell’acqua. «Sei molto brava» asserì, tastandosi l’addome reduce dal pugno ricevuto qualche ora prima.
Lei abbassò lo sguardo. «Perdonami» sussurrò, «io pensavo che…».
Dante la interruppe, prendendole il viso tra le mani. La vide arrossire violentemente, la sua pelle scottava sotto i suoi palmi e gli occhi brillavano di una luce nuova e sconosciuta. Le carezzò la testa e improvvisamente venne pervaso da un intenso istinto protettivo. Lei posò lo sguardo sul suo viso e Dante sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
«Bimbetta mia…» sussurrò sfiorandole le guance. Lei si strinse al petto dell’uomo, sentendo le sue mani scivolarle dolcemente sul volto, sui capelli, sul collo, lasciando che i loro corpi si abbandonassero a quel pugno di ricordi che erano riusciti a salvare dalla polvere della memoria.

 

˜

 

Camminarono per tutta la notte e per tutto il giorno successivi, permettendosi solamente qualche breve pausa durante il viaggio. Quando finalmente videro Corinto, il sole stava calando sul mare, pronto a inghiottirlo. Quando capirono di aver raggiunto la destinazione ambita, si presero per mano e corsero per tutta la città, fino al porto, dove quella notte una nave diretta a Corcira, più vicina ad Atene che a Sparta, avrebbe portato clandestinamente il soldato ateniese in salvo, lontano dai nemici.
«Perlomeno hai una possibilità di sopravvivere» mormorò la ragazza osservando il trireme in lontananza. «Se ti unirai a loro, nessuno ti caccerà», proseguì con fermezza, «non possono permettersi di rifiutare un paio di braccia in più» terminò.
Il sole tingeva l’acqua d’oro. Esausta, la giovane si accovacciò a terra. Avevano sete, erano affamati e avevano terminato tutte le provviste che era riuscita a portare con sé. L’uomo prese subito posto accanto a lei.
«Dimmi come posso ringraziarti» disse in tono serio, quasi come un’ammonizione. La ragazza alzò gli occhi verso il cielo, che appariva sempre più scuro all’orizzonte. L’ora della partenza si stava avvicinando.
«Noi dovremmo essere nemici» disse in un sussurro. Poi, come memore di qualcosa, si tirò in piedi con uno scatto. «Trova la salvezza, ateniese» si volse verso il guerriero un’ultima volta, ma lui la fermò: «Dimmi almeno il tuo nome».
«Gli dei hanno voluto che mi chiamassi Zhalia» rispose la donna, correndo via verso la città, con ben altri piani in mente che tornare verso la propria madrepatria. Ciò che l’uomo ignorava era che non avrebbe avuto affatto bisogno di evitare di svelare la propria identità. L’equipaggio del trireme sapeva bene di chi si trattasse, ma aveva preteso, in cambio della sua ospitalità sull’imbarcazione, la vendita di una schiava. Quella schiava era una ragazzina spartana di buona famiglia, con il desiderio di poter prendere posto, un giorno, tra le fila di atleti allo Stadio di Olimpia.

 

˜

 

393 a.C.

 

Dante riusciva a scorgere una decina di donne dalla postazione in cui si trovava, in cima alla collina. Poteva distinguere chiaramente i giudici, rigorosamente donne, sedute sull’esedra², attendendo l’inizio della gara.
La prima disciplina del pentathlon sarebbe stata la corsa, per questo motivo le atlete si erano radunate all’inizio della pista sterrata, pronte a partire. Tra di loro, la donna che lo aveva salvato, tempo prima, da una fine in tutta probabilità atroce, pronta ad esaudire il suo sogno indossando il chitone³ e gli splendidi capelli corvini raccolti in una fascia bianca.
Le donne si misero in posizione e Dante la vide fluttuare nell’aria, riportando alla memoria in un istante il momento in cui la vide correre per la prima volta, prima che si allontanassero per sempre da Sparta, insieme, quando gli chiese di combattere e lui rifiutò per risparmiare le energie, quando si incamminarono e lei gli raccontò di come fosse fuggita prima di incontrare il suo futuro sposo quella stessa mattina, e lui si abbandonò di rimando ai ricordi del mestiere del padre, che, fiero del proprio figlio, batteva lo scalpello sul legno ricavandone dei veri capolavori.
Accoccolato sull’erba verde e fresca, pensò che nonostante la sua famiglia fosse morta a causa della peste durante la guerra, l’aveva in parte ritrovata in quella donna spartana, su quell’isola che aveva imparato ad apprezzare fin da quando ci mise piede la prima volta.
La storia dei due amanti sopravvisse nei secoli, divenendo così popolare da modificare per sempre il destino dell’isola in cui essi videro sbocciare il proprio amore, Zacinto, successivamente ribattezzata Zante, dall’unione dei nomi dei due sposi che tuttora riposano, stretti l’uno all’altro, nel suo ventre più profondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

² Esedra: piattaforma di pietra sulla quale sedevano i giudici durante i Giochi Olimpici nell’Antica Grecia.

³ Chitone: tunica di stoffa leggera senza maniche comunemente utilizzata nell’Antica Grecia.


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