Come un pavone bianco

di Kore Flavia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primo Ricordo ***
Capitolo 3: *** Secondo Ricordo ***
Capitolo 4: *** Terzo Ricordo ***
Capitolo 5: *** Quarto Ricordo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


“Il mondo non è bello se non veduto da lontano”
-Giacomo Leopardi
 
 
 
 

 

 

Prologo
 
 
Avevo vissuto tante vite nel corso della mia esistenza.
Avevo vissuto quella di Salvo, che si svegliava alle sette ed usciva alle nove fumando una sigaretta, quella di Melissa, che aveva tanti, troppi gatti e che era innamorata di tante, troppe persone. Avevo vissuto quella di Licia, i cui genitori l’avevano costretta a fare l'avvocato e che ora, nonostante la giovane età, era grigia in volto come tra i capelli, e quella di Giorgio, che a sua volta viveva per quella della sventurata e che scriveva lettere per il cassetto della scrivania. Ma avevo vissuto le vite di Paola, di Giovanni, di Valerio e di Sara, la parrucchiera, di quel ragazzo col berretto rosso e di quella ragazza dalla gonna rosa e lunga, di quel l'anziano cinico e di quella coppia di innamorati. Avevo persino vissuto la vita di quel gatto che pascolava tra i san pietrini e acchiappava più sole possibile, e di quel cane, nutrito da qualche buonanima e che abbaiava, scodinzolava e tornava da dove era venuto. Avevo persino vissuto la vita di quella lucertola, di quel geco e di una mosca e una lumaca, di quell'uccello e di questa formica e di un fiore.
Come un lettore avevo vissuto quel libro immenso e magnifico che era la vita, quel libro che contiene tutto: la gioia, la rabbia, i bambini e gli adulti, la sofferenza e l’amore, soprattutto quest’ultimo che sembra far girare il mondo e fermarlo, ogni tanto.
Avrei potuto vantarmi in giro di essere un grande lettore, forse il più grande al mondo e poi spiegare perché, in casa, non avessi alcuna libreria. Una spiegazione che non sarebbe stata creduta da nessuno e che, fortunatamente, nessuno avrebbe mai chiesto. Perché per vivere le vite degli altri devi sacrificare la tua, dimenticarti della tua casa bianca e vuota, del divano che da secoli ti dicono di comprare e che da sempre dici di scordare, quando la verità è un’altra: a te non interessa riempire quella casa di te perché di te non esiste nulla da tempo. Devi dimenticarti delle amicizie e rimanere ad osservare da lontano, poggiato ad un albero. Vederli giocare a palla e cadere e rialzarsi e urlare e fare cose che tu solo appunti su un quaderno e non pratichi.
Se me l’avessero chiesto, però, perché mi autoproclamassi il più grande lettore di tutti i tempi con la libreria più spoglia mai esistita, be’, in quel caso avrei risposto che invece di leggere i piccoli caratteri neri che ricoprivano praterie bianche, io leggevo quel vestito a fiori della signora Sofia e quel guinzaglio di cuoio rosso che tanto stonava con la pelliccia arancio del cane. Avrei risposto che a leggere ero sì, bravo, bravissimo, ma che quello che leggevo era il libro più grande e completo di sempre. Un libro senza buchi di trama o mancanza di caratterizzazione dei personaggi, ma pieno dei cliché che tanto piacciono alla gente. O così credetti di vivere -o, meglio, di non vivere- per lungo tempo. Fino ad ora, per lo meno.
 
Fino ai miei primi trentaquattro anni di vita avevo vissuto quattro volte, “le quattro volte più belle della mia volta” oserei dire, ma anche le uniche. Posso, però, almeno vantarmi di ricordarle tutte: cosa che chi vive ogni singolo giorno non potrà mai fare. Durante queste quattro volte ho avuto la fortuna di riscontrare la bellezza della vita. Pensa che delusione decidere di vivere qualche minuto, mettere da parte le vite altrui e aprire gli occhi su un mondo che non ne vale la pena. E forse proprio per questo ho deciso di non vivere oltre la mia vita, per conservare quei quattro ricordi e non perderli nei meandri dell’esistenza. Per non coprire di tristezza e sofferenza quel mondo che da lontano sembrava tanto bello quanto crudele. Fu dal trentacinquesimo anno, però, che qualcosa si inceppò e io mi trovai costretto a vivere. A posteriori non mi rammarico di questa rottura, ma tutto ciò deve aspettare il suo tempo.

Note d'autrice: Ho cominciato a scrivere questa storia nell'agosto 2016 e l'ho terminata a Capodanno 2018 e solo ora mi decido a pubblicarla da qualche parte.
Avendola terminata verrà aggiornata una volta a settimana.
Per il resto: Grazie a chiunque la stia leggendo: significa tutto per me.
Grazie a chi la recensirà: ogni consiglio è il benvenuto, perché il desiderio di perfezionarla è sempre presente.
Grazie. 
Flavia 
 

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Capitolo 2
*** Primo Ricordo ***


Primo Ricordo
 
 


Il primo ricordo, filtrato dalla mia percezione presente degli avvenimenti, consiste in un prato e degli uccelli dai colori sgargianti. Avevo tre anni e ricordo perfettamente quello sprazzo di luce nella mia vita: una vita che avevo già deciso di non vivere. Ricordo che ero sdraiato e che venni svegliato da mia madre o da mia zia -non sono certo, non stavo ancora vivendo-. Quella voce, però, mi aveva svegliato dal torpore di non-vita e per la prima volta mi potei guardare attorno con i miei occhi e non con quelli di Anna, di Giulia o di Enzo, i miei fratelli. Ed era… esageratamente luminoso, ricordo di aver chiuso gli occhi, di averli riaperti e richiusi di nuovo. Quando osservavo il mondo tramite gli altri, i suoni, le luci e tutto ciò che l’essere umano può percepire era ovattato dall’involucro della persona. All’epoca trovai il chiarore esilarante e spaventoso e le stilettate negli occhi aumentavano queste mie emozioni. Risi a crepapelle sotto lo sguardo altrui, risi, risi e risi ancora. Passai mille volte le dita tra i fili d’erba, quasi ad accertarmi che fosse vero, che fosse veramente verde, veramente consistente, veramente erba. Quell’erba che avevo osservato tra le mani altrui, tra i piedi, tra i capelli, ad avvolgere il corpo come un mantello, quell’erba ora avvolgeva me, era tra i miei di capelli, tra i miei di piedi, tra le mie di mani. Quel verde brillante e umido, scuro e opaco, c’erano così tante sfumature nel mondo, tutte attorno a me, tutte tra le mie mani. Ne strappai un filo, poi due, poi tre e continuai a strapparne fino a rimanere con le mani macchiate di verde e brucianti. Vari graffietti si formarono tra le dita cicciotte, sui piedi grassocci, il rosso faceva festa con il verde. Ero un quadro meraviglioso, un’opera d’arte dipinta dalla natura. Mi alzai barcollando, muovendo i piedi nell’erba e zampettando un pochetto. Prima sul piede destro, poi su quello sinistro e poi nuovamente su quello destro. Era un tappeto naturale, madre natura ci aveva donato un meraviglioso tappeto su cui sdraiarci, su cui giocare, in cui gli animali potevano cibarsi e fare i propri escrementi. Improvvisai una corsa, caddi, mi rialzai. La pelle bruciante per le sbucciature che si mostravano trionfanti sui gomiti e timide sulle ginocchia. Il sangue aveva chiazzato i miei pantaloni scuri. Ero felice anche di quel bruciare, non avevo quel forte impulso di piangere che tutti i bambini sembrano sentire. Quello sbigottimento iniziale, quella sorpresa, quella presa di coscienza che “sì, effettivamente si erano fatti male” e quel pianto disperato erano per me emozioni sconosciute. Tutto era una festa e le ferite erano parti del gioco, della scoperta e della mia avventura. Risi un sacco quel giorno, tanto da perdere la voce e da rischiare di soffocare. Tossii tante volte, anche.
Una mano interruppe la mia gioia, era Giulia, mia sorella maggiore, che rideva a vedermi così, a vedermi vivo. Era una bambina dalle guance tonde e piene come due lune e dai capelli castani e dritti come spaghetti. Di queste sue rotondità Giulia ne avrebbe fatto un motivo di fierezza in futuro. I capelli, invece, avrebbe preso l’abitudine di arricciarli, dicendo che le curve dei ricci mettevano in risalto quelle del corpo e che erano belle: che era bella.
Mi strattonò da un lato, dunque, e mi trovai costretto a barcollare goffamente pur di non cadere di nuovo.
“Guarda là, guarda che belli!”
Strepitò indicandomi un punto dietro di me tutta curiosa. Mi girai e rimasi a bocca aperta. Estasiato dal loro aspetto glorioso e luminoso.
“Si chiama pavone.” Ringhiò Anna, la più grande tra le sorelle.
Pavone mi rigirai questa parola tra labbra, denti e lingua, facendola passare tra il palato e la gola mille volte. Mi beai del suono potente che spandeva intorno a sé, l’idea di qualcosa di maestoso, qualcosa di bello. Improvvisai una corsa stentata al loro inseguimento, spaventandoli. Fuggirono di qualche metro, ma non sparirono, forse per continuare ad essere ammirati nei loro colori brillanti, forse per pigrizia, forse per sfidarmi a rincorrerli ancora e ancora e ancora, sapendo di essere irraggiungibili.
“Paoni?” Domandai ad Anna, a Giulia e agli stessi indossatori dell’appellativo.
“Paoni!” Ripetei eccitato.
“Pavoni. Ha una “v”.” Anna mi rimproverò dall’alto dei suoi dodici anni.
Alzai gli occhi ammirando la perfezione di quella parola, perfezione che non riuscivo a simulare a causa di questa tanto famigerata “v”. Me ne infischiai sul momento e ripresi a rincorrerli felice.
Erano meravigliosamente normali ed erano perfetti così, senza nulla di straordinario. La loro maestosità risiedeva nella loro più totale regolarità.
Poi mi interruppi, come colto da un fulmine, a guardare una chiazza bianca che passeggiava poco lontano. Era come gli altri, ma lontano, lontanissimo e bianco, bianchissimo. Timoroso e squallido era diverso da tutti gli altri e lo dimostrava anche con la sua distanza. Sembrava passare inosservato, invisibile agli occhi degli altri e inesistente a tutti. Tranne che a me. E mi fissava con i suoi spilli neri tra le piume bianche. Mi fissava e io fissavo lui.
Lo osservai indeciso: “non mi piace”, fu il primo pensiero che mi colse. Perché non poteva fare lo sforzo di essere come gli altri? Questa sua diversità ostentata mi infastidiva e mi stimolava un forte prurito alle mani. Iniziai a grattarle con gli occhi sempre fissati su di lui. Poi lo indicai alle mie sorelle.
“Guardate.” Strattonai il vestito a fiori di Giulia.
Anna non mi diede ascolto, ma la minore sì, alzò lo sguardo su quella creatura bianca e mi sorrise.
“Guarda che bello che è!”
“No.”
“No?”
“No. Brutto, è brutto.”
“Ma come? È così diverso! Sembra fatto di neve!”
Era incredula. All’epoca non lo capii, ma vi sono al mondo tipi di diversità esaltate ed altre denigrate. Quel pavone pareva rientrare nella prima, io penso di appartenere alla seconda categoria. Trovai l’opinione di mia sorella inconcepibile.
“No, no, no. È cattivo.”
“Cattivo? Che vai a blaterale, stupido?” Anna aveva deciso di degnarci della sua attenzione nella sua deliziosa maniera dell’epoca. Una bomba sempre pronta ad esplodere, Anna, e come tale aveva un boato di capelli biondi in testa. Come una bomba, poi, conteneva la potenziale esplosione all’interno di un corpicino minuto e fragile.
Si mosse tronfia verso di me e mi diede una leggera botta sul capo non ribattere, ho ragione io stava a significare. Affossai il capo tra le spalle e squittii innervosito.
“È cattivo perché non vuole stare con gli altri.”
“Un po’ come te, no? A te gli altri bambini non piacciono.” Mi offesi. Abbassai lo sguardo e corsi verso quel mostruoso essere bianco. Volevo ferirlo e per la prima volta sentii quella cattiveria innocente dei bambini piccoli. La stessa che spingeva mio fratello a catturare le lucertole mentre queste arrostivano al sole e a torturarle con lo sguardo da scienziato negli occhi. Anna mi chiamò, avvertendomi di star attento. Inutile dire che non ascoltai il suo avvertimento e, in pochi istanti, finii a terra. Il pavone bianco mi aveva beccato per difendersi. Sbattei la testa e il mondo sbiadì davanti ai miei occhi.
L’ultima cosa che sentii furono i passi svelti di mia madre e lo sbuffo indispettito di mio fratello. Da quel momento provai una certa intolleranza nei confronti dei pavoni bianchi. Come potrai immaginare dovuta alla rimarchevole somiglianza a cui mia sorella accennò quel giorno. A posteriori ne vedo l’origine totalmente infantile, ma non posso far altro che scrollarmela dalle spalle questa intolleranza.

 

Note d'autrice:
Grazie per aver letto. 

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Capitolo 3
*** Secondo Ricordo ***


Secondo ricordo
 

 



 
Il secondo ricordo fu la pancia gonfia di mia madre. Sembrava avesse ingoiato un mappamondo, così, intero e senza masticare, benché ad ogni pasto mi ricordasse di farlo sempre. “Non ingoiare, mastica prima!” e lei, beffardamente, non l’aveva fatto. Quest’ironia mi risvegliò di punto in bianco e tutto quello che i miei occhi videro furono quel ventre enorme e una cucina spoglia.
Vittoria era divenuta per me, in brevissimo tempo, la cosa più preziosa, persino più preziosa del prato verde. Mi innamorai al solo pensiero di saperla a fianco a me a giocare, ad imparare, a fare tutto ciò che una bambina normale farebbe. Una bambina che speravo uscisse diversa da me, che si risparmiasse il mio essere me. Se fosse uscita normale sarebbe stato un bene per tutti, per lei, per i genitori che avrebbero potuto sostituire i loro crucci con gioie e per me, che avrei potuto amare il suo sorriso normale e, che ne so, lasciarmi infettare dalla sua normalità.
"Mamma, fra quanto nasce?"
"Tra un po', tesoro."
"Un po' tanto?
"Un po', ora però stai buono."
Questa sua affermazione finale mi sorprendeva ogni volta che tiravo fuori il discorso. Perché mi diceva di tacere, di starmene buono se era tutto ciò che avevo fatto per anni? Se era proprio di quello che si lamentava con mio padre?
"Gabriele è troppo calmo."
"Ma no, è solo timido."
"Non ci parla mai, se non per chiedere da mangiare o cose così!"
"È quello che di solito chiedono i bambini."
"No, Enzo a quest'età chiedeva giocattoli, ti ricordi quell'incubo della Pong-coso? Gabriele non vuole nulla che non sia strettamente necessario per la sopravvivenza."
"Chissà, forse è contro il consumismo." Scherzava mio padre, il quale non aveva mai dato troppo peso alle mie stranezze. Era sempre con una battuta di questo livello che la discussione s'interrompeva. Quindi Silvia si spostava in salone a guardare la televisione e rammendare i pantaloni squarciati di Giulia, che non stava mai ferma. O a lavorare sul travestimento da "un enormissimo drago" per Anna. O, ancora, a discutere con Enzo sull'ordine "discutibile", per lei, della sua parte di stanza e accettabilissimo -perché non dici anche a Gabriele di mettere in ordine? -, per lui.
Giuseppe, invece, andava a fumarsi una sigaretta sul minuscolo balcone, che affacciava sull'enorme terrazza della signora Carla, la quale si mostrava tutte le sere a quell'ora con un bicchiere di birra in una mano e una smorfia di disgusto sul volto vecchio. Mio padre era un uomo gioviale e buono e tentava di intraprendere sporadiche chiacchiere con l'anziana donna, ma quella sembrava non dargli ascolto, tanto era concentrata sul proprio riflesso nel vetro. Giuseppe si stizziva e dopo un quarto d'ora di mal riposta pazienza, se ne tornava in casa ad aiutare la moglie tra bambini e cucina.
Nessuno di loro sapeva che la povera Carla era semplicemente dura d'orecchie. Tante erano state le otiti di cui aveva sofferto nel corso degli anni, da rimanerne menomata. "Il timpano era stato perforato", le aveva detto il medico anni orsono, e il tutto era iniziato con un interminabile fischio. Ora i suoni che arrivavano al suo vecchio cervello erano attutiti, come se tra l’esterno e l’interno fosse presente un grande batuffolo di panno, come ne aveva per lungo tempo usati lei per curare i mal d’orecchio.
La sua, che da lontano ricordava una smorfia di disgusto, era in realtà la disperazione del non capire. Provava a leggere il labiale di quell'uomo dai tratti gentili e la povera donna falliva, tanto erano distanti le labbra da leggere. Supplicava con lo sguardo di ripetere, ripetere di nuovo, e ancora e ancora, di ripetere fino a che non fosse riuscita a capire. A cogliere quelle solite quattro parole che in pochi le rivolgevano.
Solo che mio padre non era un uomo paziente, voleva sempre fare qualcosa, smanioso di fare e di dare non sopportava che ci fosse gente che si trascinava dietro di lui. Tranne me, il mio strascicare non l’aveva mai indispettito, ero ai suoi occhi un bambino pacifico, un bambino che, a differenza degli altri, non dava problemi. Lui mi amava e ancora oggi penso sia stato uno dei pochi a farlo. Era un bell’uomo mio padre: longilineo e dalle mani grandi e capaci, era un uomo che ispirava fiducia e simpatia. Non sorprendeva che mia madre potesse essersene innamorata. Lei, che invece aveva sempre uno sguardo contrito sul volto stanco e che vi passava una mano tanto spesso quante erano le volte in cui respirava.
Enzo, invece, mi odiava. E i nostri due anni di differenza non aiutavano. Aveva per me una tale invidia da trovare sempre un buon motivo per mettermi in cattiva luce davanti ai miei genitori, come davanti ai suoi amici. Desiderava il mio rapporto con papà, sapendo che io ero quello per cui mio padre provava più simpatia.
Quando gli amichetti di Enzo venivano a trovarci a casa nostra non perdevano tempo e subito cominciavano a insultarmi tra le stanze, tra i muri, tra i mobili. Lì dove sapevano avrei potuto sentirli, ma io non li udivo, io ero uno di loro. Io ero quello più cattivo e quello dagli insulti più pesanti. Ero perciò tra loro. Ero io a insultare quell’insulsa creatura che era il mio involucro.
“Tuo fratello è proprio un rincoglionito.”
“Un troglodita.”
“Un handicappato.”
“Non parla neanche, quell’idiota.”
“Secondo me neanche ci capisce. È troppo ritardato.”
“Non fa mai niente e non ha amici. Chissà se muore.”
“E’ un coglione.”
Avevano dieci anni, io ne avevo otto. Erano nell’età in cui le parolacce si incominciano a dire per sentirsi grandi, ma ancora con una certa timidezza si fanno librare nell’aria. E le orecchie non ancora completamente abituate vengono offese e divertite da questi suoni duri. A me non piacevano, le trovavo sgradevoli e non provavo quel gusto immenso nel rigirarmele tra lingua e denti e tra palato e gola.
Loro invece sì e più passava il tempo e più il loro repertorio si ampliava, si ingigantiva e trasudava odio.
Mio fratello non disse mai loro di smetterla se non una volta: la volta in cui alcuni di loro, per pura cattiveria e persuasi dall’odio che mio fratello riversava su di me, decisero di alzare le mani. A quel punto Enzo si intromise, in parte per pena nei miei confronti, in parte per timore di nostra madre. Silvia, che era una donna tanto affaticata della vita, ma tanto innamorata dei propri figli, gli avrebbe restituito tutte le botte date a me.
Avrebbe ululato che “Sei il fratello maggiore, hai il dovere di proteggere Gabriele.” Enzo non era d’accordo, lo sapevo io come lo sapeva mia madre. Secondo Enzo io non ero neanche suo fratello e non aveva tutti i torti. Io sarei cresciuto diventando sempre più tozzo, mentre lui avrebbe preso i tratti leggeri di nostro padre. Una condanna che lui avrebbe dovuto affrontare ogni volta che si fosse visto allo specchio: colui che tanto aveva odiato nostro padre ne sarebbe divenuto il ritratto. Avrebbe quindi preso anche lui a passarsi la mano sul volto ogniqualvolta si fosse guardato in uno specchio, in parte per imitare nostra madre e in parte per nascondersi da sé stesso.
Ad ogni modo, lui aveva da sempre brillato come una stella mentre io ero lo sfondo nero del cielo. Come potevano essere fratelli un tale miracolo e una tale maledizione? Giulia, Anna e Enzo, invece, sì che erano fratelli. L’uno più intelligente dell’altro, l’uno più meritevole dell’altro, l’uno meglio dell’altro. Probabilmente tutti e tre i miei fratelli pensavano fossi stato adottato, eppure avevano ben visto la pancia di mia madre ingrossarsi gravida. L’avevano vista come io stavo osservando Vittoria crescere nell’involucro di pelle.
La speranza che non fossi un figlio guasto, ma solo un povero randagio raccattato per pietà era la storia che raccontavano a molti, Anna e Enzo. Giulia no, lei provava per me un affetto penoso. Avevamo cinque anni di differenza che però non sembravano pesarle come accadeva ad Enzo. Pensai che, forse, più la differenza tra le età era dilatata più il rancore sembrava svanire. Capitava che dicesse di no alle proprie amiche per rimanere appresso al mio stato “meccanico”. Tutti avevano pensato che fosse la figlia con maggiore senso materno, la figlia che di figli ne avrebbe avuti tanti e avrebbe reso presto nonni i genitori. Fu tanta la sorpresa generale nel vederla innamorarsi di un’altra donna e nell’ammettere che “di figli non ne voglio, non ne ho mai voluti”.
Fu ancora maggiore la sorpresa nello scoprire che fu Enzo il primo a fare figli e che li fece prestissimo: come una rivendicazione personale. Voleva essere un buon padre e dimostrare al mondo -e a noi e alla mamma- che laddove nostro padre aveva fallito lui invece era riuscito.
Giulia, però, con me si comportava come una madre. Riversava su di me l’affetto che mia mamma immancabilmente scordava di darmi. Io questo affetto, però, non lo sentivo. Ero io a darlo, ero anche l’amore che mia sorella provava per me. Avevo vissuto insulti e tenerezza, entrambi riversati con la stessa intensità, entrambi da parte dei miei fratelli e mia.
“Gabriele, ti andrebbe un gelato?”
“Non ho fame.”
“Devo scendere a fare la spesa per la mamma, mi accompagni?”
“Va bene.”
“Al supermercato vuoi qualcosa in particolare? Posso convincere mamma a comprarlo.”
“No, grazie.”
Spronava in ogni modo il mio interesse nelle cose e falliva sempre. Non era colpa mia come non era colpa sua, era colpa di quell’involucro che a me stava stretto. A distanza di tempo mi rendo conto che quell’involucro non era mai stato vuoto, ma era riempito di tutte le fantasie che riversavo al tempo nel mondo esterno.
Ma ora no, ora che Vittoria sembrava arrivare io avevo deciso che non avrei smesso di vivere. Sarei rimasto in vita per lei, per proteggerla dalle cattiverie di Enzo e dalle moine di Giulia e dall’indifferenza sprezzante di Anna. Vittoria neanche era il suo nome, a dire il vero. È un nome che le diedi io al tempo e con cui continuo ad identificare quella bambina tanto bella nella mia mente. Chissà che dopo non l’avrebbero chiamata Sara o Eleonora o, che so io, Girolama, ma per me lei era Vittoria. Vittoria e basta, Vittoria perché sarebbe uscita trionfante dalla lotta contro la vita. Perché lei sì, lei ce l’avrebbe fatta a fare tutto ciò che io non ero riuscito a fare, che non avevo voluto fare. Vittoria sarebbe stata la mia opera d’arte, la mia unica e perfetta opera. Il mio obiettivo era lei e in quel periodo divenne il mio motivo di vita.
Gli insulti incominciarono a tangermi, tante volte in quei mesi corsi tra le braccia di mia sorella, senza piangere. Non scoprii il sapore delle lacrime che da adulto.
“Perché mi trattano così?”
“Perché sono invidiosi.”
“Di cosa?”
“Del tuo essere speciale. La gente normale ha paura di questo.”
“Sono cattivo?”
“No, sei troppo buono, semmai.”
Ma io lo sapevo di essere cattivo. Così come sapevo che lo erano i pavoni bianchi, che invece riuscivano ad ingannare mezzo mondo con quello stupido pretesto della loro presunta diversità.
Rideva, sorrideva, mi accarezzava i capelli con dolcezza. Avevo nove anni quando mia sorella doveva nascere e Giulia ne aveva quattordici eppure ne dimostrava mille di più. Sembrava conoscere più di tutti noi, aver visto più di tutti noi. Persino più di Anna che la superava di quattro anni e che allora ne aveva diciotto. Anna non era ancora la maestra che è ora, era scostante e altezzosa e sembrava vivere in un mondo parallelo al nostro. Al mio in particolare. Non so come sia cambiata -anche se tutt’ora mi piace credere fermamente che sia stato merito di Vittoria-, cosa abbia fatto scattare quella parte di sé che nessuno conosceva, ma giusto dopo la maturità incominciò a studiare con l’obiettivo ultimo di poter insegnare.
Insegnare.
Lei che aveva sempre grugnito davanti a un bambino piangente e che ora ne rimane intenerita. Anna disinnescò la bomba che aveva dentro e si riempì di fiori e quasi a rispecchiare questo suo cambiamento interiore incominciò a indossare vestiti dai motivi floreali e ad acconciarsi i capelli con l’uso di cerchietti dai colori sgargianti. Incominciò a lisciarsi i capelli poco prima che Giulia prendesse ad arricciarseli.
Sono tante le sorprese che ci riserva il mondo, lo imparai in quegli anni.
Imparai anche che le sorprese non sempre erano felici, anzi, spesso la gente ne rimaneva spaesata. Non erano sempre torte di compleanno o regali o baci sulle labbra tanto a lungo desiderati. Erano spesso licenziamenti, bocciature, crisi e morte.
“Anna parla tu con Enzo, che io ho da fare.” Le chiedeva la madre, passandosi una mano sul volto struccato. Stava correndo da una parte all’altra per raccattare tutto ciò che era rimasto in giro. Avevamo una cena quella sera e lei svelta, svelta, si era ridotta all’ultimo anche quel giorno e tra me, Enzo arrabbiato e Anna incaponita non sapeva più come fare. Solo Giulia sembrava interessarsi al suo nervosismo e cercava d’aiutarla tra panni e pulizie.
“Devo studiare, perché non lo fa Giulia?”
“Giulia mi sta aiutando, ti prego, ci metti due secondi.”
“Che palle.” Si alzava barcollando ubriaca dal malcontento e, come un fantasma, raggiungeva le spalle di mio fratello. Lo fissava come a volerlo fare esplodere, ma come un contraccolpo era lei a scoppiare: rimaneva pur sempre una bomba ad orologeria. Quando esplodeva ad Anna si rizzavano tutti i capelli in testa e gli occhi si riempivano di fumo. Lui, di spalle e urlante al telefono con un suo qualche amico, non l’aveva sentita arrivare.
“Enzo, stai zitto una buona volta e smettila di fare il bambino piccolo.” Poi aggiungeva, con la precisione di un’assassina. “Persino Gabriele è più maturo di te.”
Non lo credeva davvero, nessuno avrebbe creduto a quelle parole: “Gabriele è più maturo di te”. Erano un’assurdità bella e buona, ma capace di scatenare una reazione repentina in mio fratello. Neanche lui ci credeva, a dire il vero, probabilmente se cedeva a quelle parole era solo per paura che, un giorno, potessero avverarsi. Ora che vivevo anche io, ora che urlavo, ero divenuto una minaccia per lui. A quelle parole, allora, lui si alzava, mollava il suo malcontento nel fondo del cassetto della scrivania e correva ad aiutare la madre con apprensione mai vista. Le sopracciglia di Enzo in quelle occasioni inghiottivano gli occhi neri e rimanevano così per tutta la serata. Fino a che Silvia non andava ad abbracciarlo e a baciargli la fronte. Era Enzo allora a passarle la mano sul viso stanco in una carezza.
“Mamma, ci penso io a pulire il bagno.”
“Mamma lascia piegare a me i panni.”
“Siediti, mamma, qua ci pensiamo io e Giulia.”
Ed era lui che correva su e giù, allora, tra panni e pulizie. Più di Giulia, più di sua madre, spesso arrivava persino a confinarle in una stanza purché gli lasciassero tutto il lavoro da fare. A me nessuno chiedeva aiuto, forse temevano che potessi tornare nel mio stato d’indifferenza se avessi esagerato nel consumo di energie. Solo qualche volta capitava che mio padre mi chiamasse in cucina per aiutarlo tra i fornelli.
“Mi sbucceresti questa mela? Fai attenzione, eh!”
“Va bene.” Rispondevo diligente ad ogni sua richiesta. Ero felice di poter imparare a sbucciare una mela, avrei potuto poi insegnarlo a Vittoria.
Quando capitava che Giuseppe mi chiedesse aiuto mia madre subito appariva dietro la porta, attenta e grigia.
“Sicuro di farcela, amore?” Chiedeva il più calma possibile, stringendosi il ponte nasale.
“Sì sì, così poi la faccio a Vittoria.”
“Vittoria?”
“Mia sorella.”
Allora mia madre se ne andava bianca in volto, dolorante e smunta. Non ne sapevo il motivo e neanche lo intuivo, ma non mi vergognavo, né mi preoccupavo di questa mia ignoranza. Se l’avessi saputo, però, forse avrei sofferto di meno in seguito. Nel frattempo, però, ero molto impegnato a imparare a sbucciare la frutta.
Fu sempre in questo periodo che Giulia disse di essersi innamorata.
“Mi sono innamorata di una persona.”
Disse con una naturalezza devastante durante una cena in cui tutti erano a casa, persino Anna che spesso era fuori tra serate varie.
“Ah, sì? E chi è?” Domandava il padre infilandosi un boccone tra le labbra tirate.
“Si chiama Elena.”
Io non battei ciglio e mio padre sembrò turbato quanto me, ma fummo i soli con una reazione di questo genere. Forse mio padre ebbe questa risposta perché rassicurato dal fatto che non si sarebbe mai sentito in dovere di mettersi -lui, che padre lo era diventato per amore di Silvia e che mai aveva preso quel ruolo sul serio- alla prova con un ragazzo, o forse semplicemente era troppo preso dalla carne che si scioglieva tra i denti. Era un uomo che lasciava vivere, senza mai realmente sporgersi con sguardo critico sulle vite degli altri. Al contrario di nostra madre e, a seguirne l’esempio, nostro fratello:
“Elena? Ma è un nome da femmina!” Borbottò disgustato Enzo. Me l’aspettavo da parte sua una cosa del genere. Lo guardai male, Giulia era la sola che mi avesse mai protetto là dentro, assieme a mio padre quando era a casa, e non amavo l’idea che soffrisse. Spalancai la bocca offeso dalle parole di mio fratello e rammaricato dallo sguardo di mia sorella.
“Sì, è un nome da femmina.” Asserì con tranquillità lei, sorridendomi timidamente quasi a chiedermi “a te sta bene, vero? Siamo entrambi speciali, in fin dei conti”, ma lei non era speciale: lei era semplicemente innamorata. A dire il vero forse neanche io ero così speciale. Ero solo perso.
Enzo tirò fuori la lingua e fece un verso nauseato, lo fissai fino a quando non si ricompose sotto i rimproveri di una madre atterrita. La donna si passò una mano sul volto e cercò di sorridere.
“…Almeno è simpatica? Sei sicura che ti piaccia in quel senso e non solo come amica?” Mia madre, però, non era del tutto convinta e Anna nemmeno, pensai, lo si vedeva dallo sguardo di fuoco con cui scandagliava tutti noi. Era pronta ad esplodere.
“È simpatica e sì, è in quel senso.”
“Amore, lo sai che sono piuttosto aperta, ma ecco, non avrei mai pensato. Non te, almeno. Che poi ora come farai con i figli? E con il matrimonio? Sei proprio sicura di esserti… innamorata? Alla tua età è normale essere confusi, sai.” Gesticolò imbarazzata e colpevole Silvia. Era vero, però, quello che stava dicendo. Nostra madre non aveva mai dimostrato una mente chiusa davanti a situazioni e discussioni di questo genere ed era anche vero che, nella nostra ignoranza, non avremmo mai immaginato una tale piega degli eventi. Probabilmente nostra madre avrebbe accettato maggiormente una tale uscita da parte di Anna. Avrebbe portato le mani sul volto, avrebbe scrollato le spalle, ma alla fine avrebbe detto “ok, da te me lo aspettavo”.
“Lo so, ma’, va bene e te l’ho detto: sono sicura.”
“Io… non so che dire, amore, davvero.”
Enzo esclamò: “Che schifo, innamorata di una femmina, bleah.”
A mio fratello arrivò il primo schiaffo in quella famiglia. Fu Anna a darlo, esclamando:
“Enzo, piantala.” Anna era esplosa, ma coinvolgendo nella propria detonazione qualcuno di diverso da ciò che avevo immaginato.
“Anna! Non si alzano le mani.” La rimproverò flebilmente il padre. L’uomo aveva finito di inghiottire la carne che aveva nel piatto e non aveva più alcuna distrazione che potesse giustificare la sua inadempienza in quanto padre. La giovane maturanda balzò in piedi e, tra gli sguardi sbalorditi di tutti, si girò a fissare prima Giulia e poi Enzo.
“Vi pare normale quello che dice vostro figlio?” Lo disse indicandolo, accusatoria.
Nessuno rispose e mio fratello si mise a piangere.
“Voi due”, indicò mia madre ed Enzo con l’indice destro, “state facendo un bordello per nulla.” Poi si voltò verso mio padre “E tu non dici nulla? Non lo vedi come ci sta rimanendo Etta –l’aveva chiamata così da che aveva memoria-? E non la difendi neanche, incredibile! Rimproveri me, invece: sei assurdo.” Lanciò le braccia in aria con nervosismo. Tutti tacemmo imbarazzati dalle sue accuse, io anche, che non ero stato interpellato, abbassai lo sguardo sul piatto.
Emise un ruggito spazientito e si chiuse in camera sua, come se quella offesa fosse stata lei. E forse lo era davvero offesa, offesa dalla nostra idiozia davanti alla povera Giulia. Quella sera rivalutai Anna e ne abbi un enorme stima. Giulia si alzò perplessa per seguire la sorella, scusandosi mille volte per “essermi alzata prima della fine della cena”.
Pensai che quelle scuse fossero un modo per esprimere il proprio dispiacere nell’essere semplicemente lei e, nel suo esserlo, procurarci tanti problemi. Problemi che non sarebbero dovuti esistere, ma che c’erano e che la nostra famiglia faticò a risolvere.
“Nana si è arrabbiata.” Constatai io nel silenzio. Nessuno rispose.
Giulia incominciò ad arricciarsi i capelli. Le parole che quel giorno mia sorella rilasciò nell’aria come fossero colombe le portarono la libertà. Una libertà che si teneva stretta ai riccioli fatti con la piastra della sorella maggiore.
Nel passare dei giorni Giulia riprese ad essere quella di prima, ma divenne quasi morbosamente attaccata a me e ad Anna. Come se noi due fossimo i suoi scudi contro quel mondo cattivo. Io ed Anna, nell’attesa di Vittoria, ci avvicinammo. Talvolta mi accostavo alla sua scrivania mentre studiava e le chiedevo: “Ripeti?” e allora lei mi passava il libro su cui stava studiando e si metteva a ripetere ciò che aveva appreso.
Io in quel momento stavo imparando anche per Vittoria ed ero affascinato dalle mille cose che si studiavano al liceo. Mi sembrava anche di capirle, come se le avessi già studiate e pensavo d’averlo fatto, vivendo la vita degli altri.
“Con il termine ermetismo si intende non una vera e propria corrente letteraria del Novecento, ma un atteggiamento assunto da un gruppo di poeti…”
Potevamo continuare così per ore, finché Anna non aveva finito di ripetere tutte le lezioni dell’indomani e anche più, quando avevamo il tempo.
Enzo, invece, rimase tagliato fuori. Scoprii di essere capace di istaurare rapporti migliori di quelli di mio fratello, che di anni per esercitarsi ne aveva avuti tanti più di me. Questa mia capacità, però, andò a perdersi con il tempo. Già a sedici anni non riuscivo a legarmi a nessuno, ma è a ventisette anni che notai quanto legarmi a qualcuno fosse difficile per incapacità o per svogliatezza. Il problema fu, inesorabile, che non ripresi a vivere in tempo. Troppo tardi, arrivai sempre troppo tardi. Intorno a me tutti avevano rapporti, figli, amori, lavoro, avevano raggiunto i loro obiettivi o avevano deciso che “no, questi obiettivi no, non fanno per me”. Io, invece, cresciuto a malapena mi persi nella vaghezza della mia esistenza. Fortunatamente, però, a trentacinque anni scoprii anche che avere -e cercarle- delle persone accanto aiuta.
Ad ogni modo, in quelle settimane di attesa concitata conobbi le mie due sorelle meglio di quanto avessi mai fatto vivendo le loro vite. Imparai ad apprezzare la voce un po’ troppo grave di Anna, che diveniva ancora più grave mentre ripeteva o parlava di ciò che amava o mentre, più semplicemente, discuteva. Lo sguardo nero che si posava ovunque, rapido e inesorabile, quelle labbra sempre sottili a causa della gravità con cui viveva la vita divennero la mia guida. Solenne e lenta, ecco cos’era mia sorella maggiore. Fu quasi sbalorditivo il suo cambiamento: oggi Anna dispensa sorrisi ingentiliti e la sofferenza sembra aver lavato via il nero dal suo sguardo maestoso.
Ora quegli occhi sono grigi, talvolta anche tristi, ma bellissimi. I capelli rosa sono tornati ad essere biondi: di quel biondiccio che solo lei sa indossare con tanta leggiadria e superbia.
Era meravigliosa e lo è ancora, anche con il dolore a penzolare giù dalle labbra, pronto a sfuggire in un momento di debolezza. Una sofferenza che le è rimasta aggrappata anche alle ciglia, ma che sta piano piano perdendo la presa. Il tutto anche grazie a Michael e a Londra.
Se non avessi incontrato Alice avrei detto che il mio vero amore erano state le mie tre sorelle, anche Vittoria. Soprattutto Vittoria. Lei che avrebbe avuto due occhietti neri come petrolio e furbi e svegli come quelli di una volpe, lei che avrebbe avuto gambette rapide e secche, l’aspetto leggermente malaticcio e la pelle pallida. Sì, sarebbe stata estremamente pallida, sarebbe stata presa in giro per questo: per il suo essere fragilissima e pallida, così simile ad un fantasma, ma con una forza che nessuno avrebbe mai potuto raggiungere. E sarebbe stata forte grazie a me, al suo fratellone.
Giulia, invece, era tutto il contrario della sorella. Aveva uno sguardo gioviale da sempre, aperta, pronta e con le labbra carnose sempre piegate in un sorriso. Solo poche volte la vidi forzarlo, vidi gli angoli tremolarle per la fatica a tenerli sempre così. Sorrideva per sé stessa e per gli altri.
Giulia era l’unica ad avere gli occhi chiari. Occhi che sembravano attendersi grandi cose dal mondo, che speravano e sospiravano innamorati ogni due per tre. Giulia si innamorava, è questo il mio principale ricordo di lei. È così che la descriverei: innamorata. Innamorata di cosa, poi, non sembrava neanche interessarla: semplicemente lo era e la cosa la rendeva felice. La colmava di gioia la sola idea di potersi dedicare completamente a qualcuno o a qualcosa. Ironicamente, però, come ripeté mille volte, di figli non ne volle mai. Il suo vero amore era la vita, aveva una fiducia sconfinata in essa e in tutto ciò che poteva portare di buono. Sembrava non poter concepire negatività o morte, ma forse era solo quello che voleva mostrare agli altri e forse, e io credevo fosse così, era proprio a queste due cose che pensava maggiormente. Pensava spesso di voler sfiorare la morte e guardarla da vicino. Dirle “ehi, ti ho visto ieri e penso di essermi innamorata di te, ma non può funzionare, sai, sono ancora troppo legata alla vita per concedermi a te”. Erano pensieri da squilibrati concepiti da una ragazzina perfettamente normale agli occhi di tutti. Erano i miei di pensieri.
“Ehi, Gabriele, dove hai nascosto le mie scarpette?”
“Non le ho toccate.”
“Oh, eccole! Che sbadata:”
Capitava spesso che si distraesse pensando a certe cose e perdesse coscienza del luogo in cui si trovava, poi la tensione accumulata si disperdeva in una risata imbarazzata e un “Oh, ecco! Che sbadata!” e una debole schiaffata sulla fronte. Era divertente osservarla correre per casa e vederla, puntualmente, dimenticarsi cosa volesse fare in quella stanza. Anche quando andava in bagno era facile che si scordasse dei propri bisogni impellenti e ne uscisse con un nulla di fatto. Poi tornava quando al bagno ci era entrato qualcun altro e pigolava infastidita.
“Ecco, lo sapevo, lo sapevo che dovevo farci qualcosa!”
E poi la fatidica domanda: “Mannaggia, ne hai per molto, Enzo?”
“Devo fare la cacca.”
“Cavoli.”
A quell’età non coglievo il gusto agrodolce di quelle scenette, ero troppo stupido e immaturo per farlo. Ridevo.
Passando da lì era inevitabile che scoppiassi a ridere davanti alla faccia concentrata di mia sorella. Poi sbuffavo e correvo via, fuggendo dalla mia stessa risata e dai rimproveri di Anna. Anna lo sapeva, Anna sapeva tutto in quella casa, anche questo era inevitabile. Questo perché Anna aveva un carattere indagatorio e sentiva la necessità di sapere tutto su di noi per sentirsi partecipe delle nostre vite. Questa era una caratteristica che si portò dietro anche durante la sua età adulta.
Anna mi sgridava: “Gabriele smettila di ridere.”
“Ma è divertente!” Mi lagnavo sogghignando all’ennesimo sbuffo disperato di Giulia.
Fu in quelle settimane che scoprii l’allegria nella sofferenza altrui. Quel perverso piacere che attraversa chiunque almeno una volta nella vita, quei denti che si scoprono senza imbarazzo davanti al malessere altrui. Si mostrano nudi e banchi. Pronti a mordere l’aria in una risata sprezzante. Era la risata di Enzo e divenne anche la mia.
L’uomo è cattivo, gode delle pene altrui e se ne compiace come se tali avvenimenti non potessero tangerlo. Poi, però, eccolo, toccato anche lui dalla sofferenza, infettato dai pianti notturni e dalle grida nei cuscini.
A tre anni imparai la luce e i colori della natura e a otto conobbi la mia famiglia. A sedici anni, poi, scoprii i lividi, ma non è questo il momento di parlarne. Non è ora, no, ora è di Vittoria che si dovrebbe parlare.
Vittoria che, chissà, avrebbe addolcito persino Enzo e le sue spalle larghe tanto simili a quelle che mio padre aveva da bambino. Fu un periodo felice tutto sommato, felicissimo anche. E se qualcuno soffriva se lo teneva per sé, senza disturbare gli altri, senza sbuffi.
Giulia soffriva per tutto l’amore donato e mai ricambiato, Anna soffriva per lo studio che era sempre troppo, Enzo anche a causa mia, ma soprattutto a causa propria, mio padre arrancava tra la famiglia e il lavoro e mia madre a causa della gravidanza. Anna lo sapeva e forse anche Giulia l’aveva intuito. Io e Enzo ne eravamo ignari o forse ci proteggevamo all’idea o forse, semplicemente, non pensavamo che la vita potesse riservare brutte sorprese. Peccato che ne riservi, per tutti e per tutto, in ogni momento come in nessuno. Nessuno disse nulla, troppo spaventati, forse, o troppo speranzosi.
Vittoria non nacque. La vita sembrò rifiutarla ancora prima di darle la possibilità anche solo di provare a viverla.
Non ne uscì trionfante, non ne uscì affatto, infatti. Una crudeltà indicibile da parte della tanto amata vita. Vittoria o Sara o Eleonora o Girolama si limitò ad uscire morta. Ricoperta dal sangue di mia madre, coperta da un tessuto bianco che ne celava le fattezze, il pallidume e le gambette secche. Gli occhietti neri non si aprirono, non si posarono neanche un solo attimo sul mondo.
Vittoria non divenne lo splendido pavone che avevo immaginato. Non ebbe le piume dai mille colori e lo sguardo intelligente, non le fu concesso neanche di essere bianca come me. Mamma non volle seppellirla e preferì cremarla. Un modo, forse, di bruciare così anche il dolore ed asciugare le lacrime.
Io decisi di tornare a vivere le vite degli altri, vedendo il mio obbiettivo disperdersi nell’aria come la mia coscienza. Mia madre pianse molto, mio padre l’accarezzò lungamente. Anna decise la propria università e forse fu per questo che la scelse, per Vittoria. Giulia si innamorò mille volte, forse per lottare contro il dolore del lutto, forse per dimenticarlo proprio. Passò da una ragazza all’altra con indifferenza, provò anche a stare con un ragazzo, ma si annoiò ancora prima di quanto avrebbe fatto con una ragazza. Persino Enzo rimase colpito dall’avvenimento: smise di trattarmi male, quasi timoroso che anche a me la vita potesse rifiutare, come aveva fatto con Vittoria, e incominciò a parlarmi civilmente, seppur sempre con un certo distacco. Io che avevo smesso nuovamente di vivere. E tra i pianti disperati, tra l’amorevole atteggiamento di mio padre, tra l’affetto nei confronti dei bambini, tra gli innamoramenti e tra il trattamento distaccato di Enzo c’ero sempre io. Pensavo di esserci anche io.
Il nostro quotidiano si dipinse di colori freddi e parole gelide. Parole gettate con rabbia da Silvia contro nostro padre:
 “Esci.”
“Silvia, non ragioni.”
“Vai via, via da questa casa. Prendi le tue cose.”
Litigarono per le più piccole faccende. Un euro di troppo che era servito a comprare un dolcetto a Enzo, uno sguardo verso quelle due donne sedute e impegnate in un chiacchiericcio fitto fitto. Una parola di troppo, un gesto, un voto, tutto divenne fonte di litigi. Anna fuggì presto, entrata all’università si trovò dei lavoretti e andò a stare da un’amica. Persino lei era impaurita dall’aria che si respirava in quella casa, quel gas che dava alla testa, ammattiva, faceva urlare improperi e piangere e ridere istericamente. Un giorno, quando io avevo trentacinque anni e lei tanti di più, ammise: “Avrei voluto aver la forza di rimanere, ma mi sentivo soffocare. Avevo bisogno di andarmene.” Le avevo risposto che nessuno le rimproverava nulla e che aveva fatto bene a partire.
Giuseppe, dunque, guardava l’amata esasperato ed esclamava:
“Amore, ragiona, non è successo nulla di grave.”
“Come nulla di grave? Cosa diavolo vai dicendo?!”
“Silvia, Enzo ha solo scordato le chiavi a casa, succede.”
“No, non deve succedere. Rischiava di non trovare nessuno e che faceva? Rimaneva chiuso fuori?” Silvia si passava allora una mano sul volto, stufa di tutto.
“Ma tu lavori da casa, ragiona.”
“Non dirmi di ragionare e prendi le tue cose.”
Poi la rottura di mio padre:
“E che? Ti sei ammattita? Ripijate che qui non si può andar avanti così.”
“Io?” rideva istericamente lasciandosi andare sul divano e spingendosi il palmo delle mani contro la fronte. Sperando così di non pensare più, forse. Continuava, allora, in un soffio: “Stanotte vai a dormire dal tuo collega o dalla tua troietta.”
Mia madre lo sapeva, mio padre anche e io con loro che lui non aveva nessuna “troietta”. Era l’unico rimasto saldo e pronto a crollare anche lui con noi. Era il muro portante e devo ammettere che in quel periodo si comportò egregiamente. Lo fece per Silvia più che per noi, ma il motivo non era importante. Per Enzo sì, ma non per me.
“Va bene, vado.” Si rassegnava, allora.
Raccattava un paio di cose: una mutanda, una maglietta, spazzolino da denti e dentifricio e anche una lametta, le chiavi e un paio di sigarette. Aveva cominciato a fumare sempre di più da quando Vittoria non c’era più. Ora inspirava nicotina come fosse ossigeno o come fosse il profumo che Silvia si metteva dalla prima volta che si erano visti.
Poi usciva, si sedeva davanti alla porta dell’appartamento con le sue quattro cose in mano e aspettava. Paziente si guardava attorno, salutava cordiale il vicino, il quale era solito dire in una risata pesante:
“Ancora fuori, a’ Giuse’!”
“E daje, te va ‘na sigaretta?”
“E certo, come no.”
E si sedevano vicini, lui e il dirimpettaio Matteo, a fumare, aspettando. Matteo era quindi solito chiedere, la sigaretta tra le labbra e le grosse braccia pelose poggiate sulle ginocchia:
“Ma c’hai mai pensato ad andartene davvero?”
“Quelli poi le muoiono” rideva amaro.
“Eh, ma Silvia? Ancora tanto male sta?”
“Avvoja, ce vorrebbe uno specialista.”
“E perché non lo chiamate?”
“Quella si fa ammazzare prima d’andarce.” Aspirava la nicotina a pieni polmoni, dunque, e la teneva al loro interno fino a che non gli mancava il respiro. Solo allora la rigettava fuori in un colpo di tosse. Era il suo modo di liberarsi dall’amarezza.
“Ah-ah.”
Dopo dieci minuti e le solite battute ripetute Matteo entrava in casa pronto a vedersela con il figlio che non aveva ancora trovato lavoro.
E poi eccolo, i rumori della tv mischiati al pianto, il silenzio dei figli intimoriti chiusi nelle proprie camere che chissà, forse piangevano anche loro. E allora mio padre rientrava mimando il fiatone di chi ha corso chilometri e che ha bisogno di stravaccarsi da qualche parte. E con lui entrava il buio dalle finestre.
Con il respiro pesante si andava a sedere vicino alla moglie, la stringeva con delicatezza ed esordiva:
“Ho dimenticato i sordi, che mi fai dormire qui stanotte?” E ridacchiava ad una battuta del comico in tv, distratto, in un altro mondo. Disperato e forte si mostrava tranquillo e sbadato. Penso che, se avessi voluto vivere come si deve, avrei preso esempio da lui, da Giuseppe Ognissanti un lavoratore che dava anima e corpo per garantire all’amata lo stile di vita promessogli.
Mia madre si limitava ad accoccolarsi contro di lui e borbottare “Non faceva ridere.”
Allora Giuseppe le passava una mano sulla guancia e le sorrideva piano:
“No, hai ragione.”
Il teatrino si ripeteva spessissimo e terminava sempre allo stesso modo. La pace era accolta dall’oscurità che si distendeva sulla città appagata e stanca della lunga giornata.
Si amavano, nessuno l’avrebbe messo in discussione. Era l’amore di mio padre a spingerlo a rientrare sempre, era l’amore di mia madre e farla piangere ed era anche quello stesso amore a separarli e riunirli ogni giorno.

 
Note d'autrice: Mi sono detta che è stupido far passare una settimana tra un capitolo e l'altro dal momento che la storia è già bella che stesa.
Posterò una volta al giorno, dunque.
Grazie mille
.

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Capitolo 4
*** Terzo Ricordo ***


Terzo Ricordo

 


 
Il terzo ricordo fu una scazzottata a sedici anni. Non ricordo neanche come avvenne, probabilmente a qualcuno non andava a genio che io non parlassi, che non guardassi, che non vivessi. Probabilmente la cosa li fece infuriare: dovevano essere invidiosi perché io avevo vissuto centinaia di vite e loro a malapena stavano gestendo la loro. Perciò un pugno corse dritto contro il mio volto indifferente e io sobbalzai, spalancai gli occhi e barcollai. Ero lì, senza avere idea di come rispondere ad un cazzotto. Avrei potuto lasciare correre il suo gesto, ma era evidente che aveva voglia di continuare e che voleva una risposta da parte mia. L’accontentai.
In fin dei conti questo corpo mi serviva per poter vivere le vite degli altri e senza di esso le mie mille vite sarebbero finite, troppe sarebbero state dunque le perdite.
Quello davanti a me era Marco, un ragazzo largo e nerboruto il cui volto assomigliava ad una patata schiacciata e il cui naso troneggiava tra l’acne. Aveva spesso fatto a botte con altri ragazzi e io avevo pensato di vivere anche la sua di vita. Una madre sempre assente, che tornava solo per ricordargli quanto fosse superfluo, un padre che passava le notti a bere e masticare parole senza significato, magro e grigio, due fratelli, entrambi più grandi, entrambi più intelligenti, entrambi più amati. Lui era l’ultimo ed era stupido, stupidissimo e largo e brutto e superfluo. Con gli anni si era incattivito, una volta aveva mandato all’ospedale un altro ragazzo, un’altra aveva minacciato una prof e un’altra volta ancora aveva dato un pugno al padre. Marco odiava il grigio, perché grigio era suo padre e grigia era la sua vita. Ecco il motivo per cui mi picchiò quel giorno: perché grigio ero anche io.
Eravamo fatti della stessa pasta, entrambi stentavamo a vivere la nostra vita, ma se io lo facevo per scelta per lui era una condanna. Mi urlò cose terribili vedendomi tranquillo e con lo zigomo spaccato.
Io mormorai piano:
“Marco…”
“Taci, cane!”
Mi venne da ridere, ma mi trattenni. Era una sensazione estrema l’adrenalina. Solo in seguito imparai che, una volta passata, mentre l’amore ti lascia saturo, l’adrenalina ti svuota. In quel momento, però, mi sentivo euforico. Avevo voglia di saltare, correre, ballare e ridere e piangere e prenderlo a pugni, così, per provare ancora questa euforia, ancora e ancora. Saltellai prima sul piede destro e poi sul piede sinistro e di nuovo e di nuovo, ne volevo ancora. Volevo sentirmi vivo come mai e avevo bisogno di quella droga, di quell’adrenalina.
Davanti al mio repentino cambiamento da grigio a vivo Marco barcollò. In quel momento non eravamo più uguali, perché l’unico a essere rimasto incolore era lui. Allora un altro pugno colpì la mia guancia, questa volta la destra e anche lì lo zigomo si spaccò. Sentii il sapore del sangue sulla lingua e immaginai i denti rossi.
Risi. Alcuni pensarono che fossi coraggioso, la maggior parte che fossi pazzo. Avrei propeso per la seconda: una persona coraggiosa non si limita ad illudersi di vivere la vita degli altri e non ride, se ne va.
Questa volta risposi, fui svelto e preciso e lui piombò a terra per la sorpresa. Ringhiò, bestemmiò e si passò una mano sulla bocca e sputò.
“Bastardo. Lurido cane.” Vomitò su di me insulti sterili. Aveva lo sguardo feroce di un predatore rinchiuso in gabbia e come tale aveva i denti spogliati dal labbro in un ringhio che di umano aveva ben poco.
“Sei tu ad aver cominciato.” Gli feci notare con un gesto febbrile di nonchalance. La mano mi tremava ed era colta da spasmi, volevo prenderlo ancora a pugni. E sarò io a finire, pensai, percependo l’adrenalina scorrermi nelle vene. Prendere a pugni qualcuno e essere preso a pugni a tua volta è liberatorio, è euforia e dolore, è rabbia e pena. È simile per certi versi all’amore. Ora mi rendo conto che forse il secondo fa un poco più male e per più tempo.
Si rialzò troppo rapidamente e barcollò, poi saltellò e sogghignò, quindi si avvicinò a passi rapidi verso di me e sputò. La saliva mista a sangue era il disgusto e l’euforia che stava provando, che stavamo entrambi provando. Eravamo corpi in movimento, eravamo macchine pronte a scattare e io scattai nel momento stesso in cui sputò. Questa volta il pugno colpì la bocca dello stomaco con precisione sorprendente.
“Io ti sto solo rispondendo.” Mi giustificai in un calo di adrenalina che mi lasciò svuotato per qualche istante. “Non è colpa mia se sei grigio” Continuai.
Qualche ragazzo attorno a noi aveva tirato fuori il telefono, nascondendosi dietro allo schermo luminoso, sghignazzando davanti alle immagini che scorrevano nel video che stavano riprendendo. Altri, i vigliacchi, si nascondevano tra la folla, impauriti e ridicoli non riuscivano a distogliere lo sguardo, ma non avevano neanche la forza d’intervenire. C’era chi urlava, le ragazze soprattutto, e le urla erano di una tale varietà che quasi lo trovai divertente. C’era chi ci incitava, chi ci intimava di smettere, chi sussurrava un “basta, basta, basta” e chi gridava e basta, senza sviluppare parole concrete. Un urlo animalesco e nient’altro. In fin dei conti noi stessi eravamo cani da combattimento.
I prof sembravano essere spariti, alcuni usciti prima, altri ancora tra le aule. Nessuno a fermarci, né giovani, né adulti.
Marco diede un calcio al vuoto, stizzito, non si sarebbe mai aspettato che reagissi, che sapessi reagire. Emise un verso stridulo, così bestiale, così lontano dall’essere umano, poi si passò nuovamente una mano sulla bocca. I primi lividi si formavano timidamente sulla pelle pallida e arrossata, neri, blu, violacei, alcuni rossi e altri giallastri, eravamo chiazzati come cani. Marco si passò una mano sul braccio destro, là dove una cicatrice correva a nascondersi sotto la manica corta della maglietta. Era una cicatrice gonfia di rabbia e sporgeva violacea sulla pelle chiara di Marco.
Fissò dunque il suo sguardo su di me, rimase in silenzio. Se avesse parlato non l’avrei sentito ugualmente: sarebbe stato sovrastato dal brusio e dalle urla. Poi, in un istante di calma, si decise a dire:
“Mi fai schifo.”
“Lo so. Pure tu fai schifo.”
Rise e poi un altro pugno andò a colpirmi la guancia destra e ora la sinistra e poi ancora la destra. Non risposi, mi limitai a barcollare e perdere sangue. L’interno della guancia era stato maciullato dai denti e disperdeva il sapore del sangue nella bocca, se avessi sorriso i denti avrebbero dato l’idea di essere ciliegie mature.
Lo zigomo destro era oramai spaccato e quello sinistro era una grossa macchia nera. Ad un occhio la vista si era oscurata al terzo pugno e mi lasciava intravedere solo un’ombra scura che si avventava su di me. Un’ombra dalla risata sguaiata e dalla grande collera.
“Sei un verme!”
“Pure tu e tu lo sei più di me. Meni chi è più debole di te pur di sentirti forte, ma tu forte non lo sei, Marco. Tu sei il più debole di tutti, sei scadente. Tu hai paura, Marco, io no.” Un ampio gesto verso tutti gli altri. “Guardali. Riprendono la tua pateticità perché sono divertiti dalla tua miseria. Fai pena, Marco, la fai a tutti. Ma tutti hanno paura dei pugni. Io no. Io non ho paura di te. Non posso che provare sconforto nel vederti così grigio e meschino.”
La tranquillità con cui avevo pronunciato quelle poche parole era accolta con grande sorpresa e riguardo da chi ci stava attorno. Marco mi si avventò addosso prima che potessi continuare il mio discorso. Non potevo vederlo, ma potevo chiaramente immaginare i denti rossi di sangue stringersi e le labbra sollevarsi in un ringhio. Le urla diminuirono nel momento stesso in cui la tempesta di pugni terminò. Marco ammirò la propria opera: un ragazzo basso e tarchiato era ridotto ad una maschera di sangue, grondante di sudore e adrenalina. Il mio volto deturpato rispecchiava il suo: eravamo orribili, ma eravamo anche magnifici. Malati e distrutti.
“Ti ammazzerei.” Ringhiò.
“Fallo.” Fallo, fallo, fallo.
Nel buio che in quel momento vivevo, nei rumori ovattati dal sangue, una mano si posò con forza sul mio braccio. Lo strinse con forza, mi divincolai infastidito: volevo che mi ammazzasse, volevo riservare a lui l’onore di farlo.
“Uccidimi, uccidimi. Sarà l’unica azione coraggiosa che avrai compiuto. Fallo.”
Marco, però, coraggioso lo divenne davvero crescendo.
Fu la prima volta in vita mia in cui la morte mi sembrò accogliente e liberatrice. Liberatrice di cosa? Ancora non lo sapevo. In fin dei conti all’epoca ero troppo preso dalle mie fantasie per soffrire realmente.
Arrivai persino a pregarlo, a supplicarlo di finirmi tra gli schiamazzi della gente, sotto gli occhi di tutti. Qualcuno ci interruppe, strattonandomi via, urlandomi parole di rimprovero nelle orecchie. Ma come le forze mi vennero meno, così fece la vita stessa.

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Capitolo 5
*** Quarto Ricordo ***


Quarto Ricordo

 
 
Il quarto e ultimo ricordo riguarda uno dei tanti mali del mondo, come uno dei maggiori beni di cui l’uomo possa godere. Quel fattore che fa andare avanti anche l’uomo più miserabile e la cui ricerca non è mai finita. Quell’elemento che in molti hanno cercato di catturare nella sua natura più pura racchiudendolo tra parole e musica, tra pennellate e marmo. L’ho sentito chiamare “malattia” talvolta, “maledizione” altre, e Amore più spesso. Il quarto ricordo è quello che -forse- mi ha maggiormente colpito e mi ha reso felice e triste e pieno e vuoto. Troppe sensazioni per una persona che non ha creduto di vivere che tre volte in precedenza.
Perciò, come ogni comune mortale, ho provato l’amore e sono arrivato alla conclusione che, almeno una volta nella vita, tu debba averlo provato per dire d’aver realmente vissuto. Io posso vantarmi, dunque, di aver vissuto. Vissuto davvero. Perché l’amore è un concentrato di tutto ciò che si può provare in una vita, con le sue contraddizioni e controindicazioni. E ti può andare bene come ti può andare male.
Ho visto gente morirne e ne ho vissuto la morte, ho osservato gente crogiolarsi nelle loro lettere d’amore mai spedite, ma nulla sarà mai come viverlo in prima persona. È una sensazione –e su questo metto la mano sul fuoco- che ti devasta o ti salva o tutte e due assieme, che è peggio.
Bada, però, che non credo di saperne più di nessun’altro, anzi! Penso d’avere ancora un sacco da imparare.  Nella mia esperienza da innamorato non sono stato fortunato, ma ciò non significa che la cosa abbia cambiato la mia visione dell’amore, penso ancora che sia un’esperienza magnifica.
Il quarto ricordo mi deve aver saturato, forse per questo ho deciso di smettere di vivere la mia vita e dedicarmi nuovamente a tessere quella degli altri.
 
Era una ragazza dai capelli di nuvole e gli occhi di cielo. Capitava, tuttavia, che le nubi dei capelli venissero colte da forti venti e, in questo caso, andassero ad adombrare lo sguardo azzurro. Così il colore diventava squallido e la giovane brutta. Amavo anche questo di lei: le sue brutture. Penso che sia anche questo l’amore: amare i difetti proprio perché tali, perché ti fanno infuriare, urlare, piangere, odiare e amare. Abbracciali e cullali tra le tue braccia.
Una cosa che mi aveva sorpreso di questa ragazza -non tanto speciale, né tanto normale- era il suo sorriso pieno di pianti. Non si poteva dire che il suo fosse un sorriso triste, no, lei quando sorrideva lo faceva veramente e con ogni muscolo facciale. Gli occhi scacciavano le nuvole e divenivano azzurri, un azzurro così bello e così normale. I denti erano scoperti e non perfettamente dritti, ma fieri di sé, e orgogliosi si svestivano delle labbra per mostrarsi al mondo. Il naso si arricciava ai lati e le occhiaie si mostravano trionfanti. I capelli sembravano rischiararsi, imbiondirsi per poi tornare a quel colore desolato. Il suo sorriso era svergognato: si mostrava in tutti i suoi difetti senza turbarsene minimamente. Era, però, un sorriso che non nascondeva in alcun modo le lacrime versate la notte precedente e la mattina stessa.
Trovavo fosse bella nella sua normalità.
Probabilmente era anche questo che mi aveva colpito: che fosse simile a tanti, troppi, ma uguale a nessuno. Avevo provato a vivere anche la sua vita. Ci ho provato con tutti, ma con lei tesserla pareva più complicato. Che la sua semplicità mi impedisse di creare favoleggiamenti straordinari? Ora penso di sì.
La sua perciò non riuscii a viverla. Passai nottate a chiedermi perché di questa mia incapacità e mi resi conto che anche solo nel chiedermi questo avevo ripreso a vivere la mia, di vita. Accade così, un battito di ciglia, uno schioccare di dita, e io ero di nuovo nel mio corpo, ero di nuovo nella mia mente, ero di nuovo nel mio cuore. Una mente che trovai in subbuglio e un cuore che pareva appesantito. Fu sgradevole e gradevole. Incominciarono le contraddizioni, insomma, e così incominciò il mio amore.
C’è gente che dice d’odiare l’amore. Penso che questa gente sia idiota. C’è gente che dice di averne paura. Penso che questa sia inetta. L’amore è bello e può esser distruttivo -fa parte del contratto. In fin dei conti anche la vita non è molto più che questo: bellezza e distruzione. - Personalmente mi sono innamorato del sentimento stesso prima che della ragazza a cui questo sentimento volgeva il proprio sguardo.
C’è gente che ama innamorarsi, che passa la propria vita alla ricerca di qualcuno per cui perdere la testa. Un esempio era mia sorella Giulia che, ancora oggi quando guarda la sua ragazza, si re-innamora di lei per semplice hobby. Ecco, io sono tra questo tipo di gente e penso che siano le persone che hanno capito il senso della vita. Al bando il lavoro, al bando i beni materiali, al bando le case, i letti, la cucina, al bando i giochi da tavola come quelli elettronici, al bando tutto ciò che non è amore. Vivremmo meglio, ve lo assicuro.
Spero che chi starà leggendo i pensieri di questo povero pazzo potrà perdonare tali divagazioni. L’ho detto: ho passato una vita a intrecciare i pensieri altrui e ora i miei pensieri mi sfuggono dalle mani. Non ho mai imparato a controllarli e sulla carta sembrano rincorrersi, sbattere, nascondersi, toccarsi, sembrano bambini capricciosi. Farò del mio meglio per tenerli a bada, ma devo ammettere di non essere mai stato bravo a gestire i bimbi.
La ragazza si chiamava Alice, un nome che sembrava calzarle a pennello. Perfetto per il suo viso e per il suo carattere, quasi come se i genitori già sapessero come sarebbe stata. È raro che una persona abbia un nome adatto a lei, spesso una ragazza di nome Giulia ti farà pensare ad una Francesca e un ragazzo chiamato Edoardo avrà l’espressione da Andrea.
Che guaio i nomi, spesso così sbagliati. Dovrebbero lasciare il bambino senza nome fino ai dieci anni, così ad abituarlo ad essere “io” e non “Giuseppe” e chiamarlo, quindi, come più gli si adatta. Alice, però, era il nome perfetto per lei. Ogni suo gesto riportava quel nome: le dita affusolate e piccole, le alzate degli occhi, le risate delicate e quelle sguaiate, gli sguardi innocenti e quelli maliziosi e la sua caratteristica abitudine di stringersi nelle spalle ogniqualvolta si sentiva in imbarazzo. Aveva un talento naturale nell’indossare quel nome. Io no, non ero bravo ad indossare il mio.
Ero troppo tozzo, avevo gli arti troppo corti e le loro estremità erano troppo imbranate per chiamarmi Gabriele. Per non parlare della mia faccia, l’espressione era sempre contrita, concentrata e mai rilassata, i capelli erano carbone e gli occhi fuliggine. Ero una caricatura di quel nome. Se fosse stato possibile alla domanda “come ti chiami” avrei risposto “Io, sono solo io”, ma se lo fai sembri pazzo e forse io lo sono davvero pazzo. In una società, però, la tua follia deve essere ben celata, l’ho imparato intessendo la vita della povera Viola, la vedova che abitava vicino a casa mia. Quella donna striata di bianco, pallida e malinconica, era spesso colta da forti sbalzi d’umore, capitava di udirla in piena notte urlare, piangere e cantare. Un giorno vennero a prenderla per via di numerosi richiami da parte dei vicini. Nessuno mai le si era avvicinato per parlarle, per chiederle come stesse. No, si erano limitati a chiamare e senza preavviso erano venuti a prenderla. Chissà che cosa sarebbe successo se qualcuno l’avesse avvicinata almeno una volta. Anche solo per darle un preavviso di ciò che sarebbe successo da lì a poco. Le urla di quella donna straziata dal dolore erano state portate via una mattina e non erano più tornate. Eppure risuonavano ancora nelle scale dell’immobile.
“Tutto bene?”
“No, tutto va male, malissimo.”
“Vuoi parlarne?”
“La gente non vuole sentirti parlare di cosa va male.”
“Ma tu vorresti parlarne?”
“Sì, ma nessuno lo chiede mai”
“Allora sarò io a chiedertelo. Ora però rispondi.”
“Potrei mettermi a piangere parlando, però.”
“Va bene, aspetterò che tu smetta.”
“Allora…”
Sarebbe divenuta un fiume di parole in pochi istanti, lo sapevo, io stesso ero Viola. Sarebbe stata lunga e noiosa per molti e avrebbe ammorbato gli animi di chi la stava ascoltando con i suoi dolori, le sue sofferenze.
Alice, comunque, non era mezza matta. Non come me, né come Viola. Non era marchiata dalla propria stranezza, non era pedinata dall’ombra dei propri squilibri. Era una normalissima ragazza, di ventitré anni e qualche giorno, quando la conobbi. Frequentava i corsi di psicologia. Se le si doveva attribuire una stranezza era questa: amava i folli, gli strani, quelli che tutti definiscono malati e che spesso lo sono davvero. Malati di quelle patologie che non si vedono, che si nascondono tra occhiaie e sguardi sfiniti, tra urla e pianti, quelle malattie che possono ucciderti lentamente, come un cancro. Ma, se un malato di cancro lo si compiange, un malato di questo genere è spesso incolpato del male che lo coglie. Provo una certa compassione per questa gente pregiudicata, io, che ho vissuto milioni vite e costruito mille malattie come fossero fortezze inespugnabili, posso dire che i veri menomati sono loro.
Alice era così gentile, invece, non incolpava nessuno. Non mi odiava.
Aveva uno sguardo attento e timido in quel mondo di strambi e correva da una parte all’altra tra Bianconiglio e il Cappellaio matto. Era nel suo habitat naturale. Non c’era da sorprendersi, perciò, che i suoi esami fossero visti quasi come dei regali e che conducesse una brillante carriera universitaria e, in futuro, una meravigliosa carriera lavorativa. Era delicata come una farfalla, ma era sicura come una montagna. O, almeno, lo divenne con il tempo.
Il nostro fu un normalissimo incontro che tanto stonava con la mia persona. Pensai -scioccamente, certo- che già la sua influenza si stava facendo sentire. La incontrai all’entrata dell’università, seduta al bar con un caffè tra le dita di una mano e una matita tra quelle dell’altra.
“Ehi, hai bisogno d’aiuto?”
Gli occhi azzurri si piantarono in quelli ancora offuscati d’incoscienza e fantasie che erano i miei.
Ero stato colto in fallo, ancora troppo preso dal tentativo di vivere anche la sua di vita. Dovevo averla osservata più del dovuto. Risposi:
“No, grazie, stavo solo guardando.”
Rise.
“E’ la tipica frase che si dice in un negozio, sai?” Fu la prima volta in cui la vidi ridere e la sua normalità e i suoi difetti mi stupirono.
“Già.”
“Be’, visto che non hai bisogno io vado, eh.” Aveva poggiato la tazzina sul piattino e si era stretta nelle spalle, rapida.
“Ok. Ciao.” Feci.
“Ciao.”
Si era dunque alzata, aveva scosso una mano ed era sparita, inglobata dai corridoi e dalla gente. Trovai quest’incontro tanto banale da passare nottate a cercarci qualche cosa di strano. O, almeno, questa fu la scusa che inventai per ripensarci ancora e ancora e ancora. Era come se stessi vivendo la mia prima cotta adolescenziale e la cosa non mi sembrava affatto strana, in fin dei conti ora come ora l’adolescenza dura più a lungo, giusto? Alice stessa me lo dice con gli occhi stretti in un sorriso.
Cominciai a tornare da lei.
Il nostro non fu un rapporto intimo. Fu un gioco di sguardi, non di parole. Di parole, infatti, ve ne furono veramente poche tra noi. Mi limitavo ad accennarle un saluto, a offrirle un caffè quando aveva tempo e rimanevamo prevalentemente in silenzio. Lo sguardo fisso sulla tazzina, sulla schiuma di latte, sul tavolino dalla vernice verde scrostata, sulle proprie mani o su quelle dell’altro. Poi si alzava, facendo spallucce e spostando la sedia con un cigolio, mi fissava con gli occhi pieni di un affetto tutto strano e si avviava per la propria strada con un cenno di saluto. Non una parola veniva liberata tra noi se non quelle due, tre che erano proprie di ogni incontro. Se uno dei due, poi, si azzardava a fare una domanda come “come stai?”, “come va?” o, persino, “come vanno gli esami?” l’altro rimaneva qualche istante con gli occhi sgranati prima di rispondere. Eravamo forse troppo presi da noi stessi per poter credere che l’altro potesse porgerci la propria attenzione.
Era sempre lei ad alzarsi per prima ed era sempre lei a pronunciare quelle parole di troppo.
“Come stai?”
“Bene, tu?”
“Bene, grazie.”
E talvolta lasciavo sfuggire commenti sul caffè o sul tempo, così casuali e così ben studiati e rimuginati sulla punta della lingua.
“È buono il caffè oggi, non trovi?”
“Sì, buono.” Rispondeva distrattamente, girandosi un anellino al dito. Un giorno mi disse che quell’anello era stato della nonna e che da quando era morta lei non aveva più avuto il coraggio di toglierselo. Era tutto ciò che le restava di quel volto pieno di rughe e di quelle giornate passate a giocare a carte con lei.
“Il tempo non è granché, hai l’ombrello?”
“Dovrebbe essere in borsa, sì.” Ribatteva senza ragionare sulle parole dette, pensava alla prossima lezione.
Alice era sempre in un altro mondo, tanto era distratta. Gli occhi correvano ovunque, scandagliavano il terreno, osservava i compagni di corso, poi pensava alla lezione, poi si ricordava che “oh, accidenti, è tardi!” e allora correva via, via dentro al suo mondo fantastico.
Io rimanevo seduto al bar con i miei ventisette anni a farmi da compagni. Quei ventisette anni di cui me ne sentivo addosso solo sette, forse. Chiedevo un altro caffè e un altro ancora, poi mi guardavo intorno affascinato da quell’ambiente di ansie e esami.
Alla fine mi alzavo anche io, lasciavo la mancia e mi allontanavo con le mani nelle tasche e il nome di Alice sulle spalle.
“Gabriele!” talvolta capitava che Alice uscisse in tempo dalle lezioni per raggiungermi al bar. E io mi giravo ad attenderla richiamato dalla sua voce e non dal mio nome. Se fosse stato qualcuno altro a chiamarmi l’avrei probabilmente ignorato -lo devo ammettere- e avrei pensato che “quel nome non sono io” nel farlo. Nessun altro avrebbe trotterellato per chiamare il mio nome e nessun altro avrebbe meritato i miei commenti vuoti di significato
Facevamo la strada a braccetto con il silenzio, avevamo paura di ferirlo con le nostre parole. Poi ci lasciavamo davanti alla fermata della metro e questa volta definitivamente.
Vivevo -e vivo ancora- in un monolocale ereditato dalla famiglia e potevo sostentarmi grazie ai soldi che mia madre mi mandava: ero il figlio venuto male e tutti ne eravamo coscienti. Gli zii, i miei genitori, i miei fratelli, persino io a cui questo dato era stato celato il più possibile. Era un fatto di cui avevo preso coscienza nell’arco degli anni, fino ad arrivare all’amara conclusione che in ogni famiglia vi sarà sempre un figlio venuto male. Che poi tocchi a te esserlo è un'altra questione. Io lo ero e non avevo problemi a sostenere un ruolo così semplice, non portai rancore per nessuno e avevo preso la notizia con un’alzata di spalle.
In ogni famiglia vi sarà un figlio difficile, meno intelligente degli altri e a cui, alle cene di famiglia, diranno solo “che begli occhi che hai” o commenti sporadici sul suo vestiario. Non faranno domande sulla scuola, conoscendone le risposte, sulla vita sociale, intuendone la povertà, o sulle idee politiche, sapendone la superficialità. Io tra i quattro ero quello venuto male, ma penso che i miei siano stati incredibilmente fortunati, hanno avuto solo un figlio difettoso. Un figlio “strano”, che “stia male?”.
Mamma era solita dire:
“Caro, cosa dovremmo fare con lui?”
“Amore, è solo timido.”
“Ma guardalo, non ha interessi, ci guarda senza vederci. A volte ne ho paura.”
“Stai dicendo cose terribili, Silvia!”
“Dovremmo portarlo da uno specialista?”
“Stai drammatizzando. È solo strano.”
E in ogni famiglia ci sarà uno dei famigliari che proverà in tutti i modi a negare l’evidenza, a ridurre il problema ad una parola, o a due, o a tre.
Forse avrei davvero avuto bisogno di uno specialista, ma io ero troppo preso dal mio mondo per fare questa richiesta e mia madre era troppo impegnata per portare avanti il proprio dubbio.
Non ebbi problemi ad accettare questa mia realtà. Anna era diventata una maestra dagli occhi gentili e un amore incommensurabile per i bambini, Giulia un’impiegata e lei e la sua ragazza dell’epoca erano persone splendide. Enzo, infine, si era dedicato alla propria famiglia, lasciando lavorare la moglie e preferendo prepararsi ad essere un buon padre. Mio fratello era abile con le mani -eredità di nostro padre, che mio fratello non poté rifiutare-, poteva aggiustare una qualunque cosa senza difficoltà, perciò accettava lavoretti di questo genere. Io, invece, ero un mantenuto. Un mantenuto simile ad un morto vivente, che accetta passivamente i soldi e non si adopera mai per ricavarne.
“I soldi di questo mese sono sul tuo conto.” Sbottava Silvia al telefono. Potevo sentirla passarsi una mano sul volto smunto.
“Grazie.” Rispondevo.
“Hai trovato lavoro?”
“No.”
“Non l’hai cercato, vero? Gabriele, dio santissimo, cercati un lavoro e non sederti sulla nostra fortuna.”
“Sì, ciao.”
Allora mia madre esclamava piano: “Gabriele, cazzo, hai ventiset- “
La chiamata era interrotta sempre a metà discorso, prima che la furia di quella donna disperata che era mia madre si riversasse su di me come un fiume in piena. Senza lasciare traccia.
Non sarebbe stato l’ideale per Alice vivere con me, lo devo ammettere. Non l’avrei mai potuta rendere felice. Il nostro sarebbe stato un rapporto di poche parole e molta insoddisfazione. Io, però, devo anche concedere d’essermi sentito felice in quel periodo. Sembrerà un periodo a molti squallido come il grigiore di quelle giornate d’autunno, ma per me era la scoperta dell’amore, era la riscoperta della vita, era un’avventura. Era come un salto nel vuoto.
Alice ed io stavamo l’uno accanto all’altro per un solo motivo: avevamo l’uno bisogno dell’altro. In silenzio e a distanza di sicurezza, ma vicini. Io avevo bisogno della sua normalità e lei della mia follia, eravamo come attratti da questo elemento opposto al nostro. Ci bilanciavamo e trovavamo un equilibrio che da soli non avremmo avuto, ma era ovvio che questa diversità poteva renderci solo amici. Amici, però, forse è il termine sbagliato. Mi sento sciocco in questo momento a non trovare un termine adatto a definire il nostro rapporto. Amici è riduttivo, amanti è troppo. Eravamo qualcosa, ma non sapevamo che cosa. Io l’amavo, però, quello sì. Lei no, lei aveva bisogno di me, ma non voleva che io avessi bisogno di lei. Il che non esclude che mi volesse bene -e che me ne voglia ancora, con il candore di sempre- e che non abbia mai smesso d’aver a cuore la mia felicità. Solo che, lo sapeva lei come lo sapevo io, non era lei a potermela dare.
“Siamo amici, quindi?” Un giorno mi chiese di punto in bianco, la tazzina tra le dita e lo sguardo altrove. Nel suo mondo di fantasia.
“Non credo.”
“Cosa intendi?”
“Penso che non sia il termine adatto.”
“E allora? Cosa siamo?” Si passò una mano sull’anellino della nonna, insicura.
“Siamo qualcosa.”
Rise di cuore posando il proprio sguardo su di me. Sembrava voler dire che “sì, è ovvio che siamo qualcosa, ma che cosa?”. Era una domanda senza risposta, lo sapevamo entrambi.
Ero cosciente di tutto ciò, come lo sono ora. Sapevo che nulla sarebbe potuto accadere tra di noi, a causa mia e a causa sua e a causa del mondo.
Ho vissuto la vita di molta gente rifiutata. Melissa, ad esempio, vide il suo amore frantumarsi davanti a sé e si rinchiuse in casa per diversi giorni, in compagnia dei suoi gatti. L’uomo che tanto aveva amato era andato da lei, aveva sorriso, era divenuto rosso e lei aveva creduto che quel sorriso fosse per lei e che fosse imbarazzato dalla sua di presenza. Lo credetti anch’io nella mia ingenuità, ci cascai come ci cascò Melissa che era sempre stata tanto amica con il suo amore. Edoardo ci mise poco a smentirla.
L’uomo stava guardando oltre, oltre i suoi occhi, oltre, oltre e ancora oltre. Quando parlò, però, la sua voce era lì e fu per lei, solo per lei.
“Melì, lo sai della ragazza del quinto piano? Quella bella? Ecco mi ha concesso un appuntamento. Penso di amarla, sì.” Rideva mentre lei rimaneva spezzata dal dolore, rideva senza crudeltà. Rideva imbarazzato del proprio sentimento verso quella ragazza bella. Quando ci si immagina una musica che ci faccia da sfondo nel nostro dolore l’ultima che vorremmo sentire è una risata. Men che meno quella della persona che per te era tutto. Melissa rimase interdetta. Quel rossore sulle gote non era per lei, quel sorriso neanche, quegli occhi neppure. Nulla era per lei e tutto era per quella ragazza bella. Edoardo smise di ridere vedendola sbiancare.
“Melì, stai bene? Sembri pallida come un cencio, forse dovresti sdraiarti. Dai, ti accompagno.”
Un passo indietro e un passo avanti. I riccioli di Melissa avevano perso tutto il loro calore e sedeva smunti sulle clavicole della giovane.
“Sto bene, bene, bene, benissimo, perché non dovrei?” Rise anche lei, allora. Non di gioia, ma di rassegnazione. Era così ironica e ridicola quella situazione, così imbarazzante. E lei che aveva creduto, creduto davvero. È questo che è incredibile nelle persone: continuare a credere anche nell’impossibile, anche davanti ai fatti. Cullare quel briciolo di speranza che “forse a me ci tiene, forse ci tiene davvero”, baciare quel pensiero come una mamma iperprotettiva. Non la si fa scappare quell’aspettativa, senza rendersi conto che, tenendola stretta, si verrà distrutti maggiormente. È un errore che tutti si permettono di fare, Melissa per prima e io per ultimo.
Anche lei lo sapeva di non essere amata, aveva finto che niente stesse accadendo davanti ai suoi occhi per un così lungo tempo da dimenticarsi della ragazza bella del quinto piano. Ora però se ne ricordava e così rammentava gli sguardi sfuggevoli, i saluti imbarazzati, le avance e l’amore di Edoardo.
Melissa rimase a casa per tre giorni, poi ne uscì infreddolita e pallida. Dava l’idea d’essere malata. Era uscita per fare la spesa e potersi rintanare a casa appena possibile. Trovai estremamente ironico che uscisse allo scoperto come un ratto arruffato e malato lei che aveva tanti gatti. Immaginai che una volta tornata potesse esserne divorata a causa della sua mutazione. La storia di un roditore che aveva tanti gatti non si era mai sentito, neanche nei libri più fantasiosi. Edoardo, passato un primo momento di sgomento, divenne un maestoso pavone. I colori sgargianti del volto lo rendevano incredibilmente bello, sembravano rendere più piccolo il grosso naso che trionfava solitamente vittorioso sul suo volto, illuminavano gli occhi troppo piccoli per una faccia tanto grande. Capii cosa ci vedesse Melissa in lui: una volta felice diveniva magnifico, tanto da sembrare un’altra persona e lei si era innamorata dell’idea di farlo sorridere, di essere lei la fautrice di tale trasformazione.
Lo vedevo destreggiarsi in lunghe chiacchiere con la sua bella, fare facce buffe e serie, infischiandosene dello sguardo impetuoso del vecchio cinico che era solito sedere nel nostro cortile.
E invece fu lui a trasformare lei, rendendola il fantasma di sé stessa.
Un pavone ed un ratto. Non avrebbe mai potuto funzionare.
Io feci altrettanto, seppur di esperienza ne avessi avuta tanta da capire il grave errore in cui stavo incappando. Senza rendermi conto cullai la speranza che anche solo una minima parte di lei ricambiasse il mio sentimento.  Fui io a rompere quel silenzio, quella promessa di noi, di me, di lei e del mondo. Ruppi il silenzio, come ruppi lei.
“Ehi, Alice.”
“Gabriele?” Si voltò sotto il mio richiamo, si passò una mano tra i capelli, nervosa. Si guardò attorno e poi parlò nuovamente: “Che ci fai qui? Ora ho lezione, lo sai!” Rise inquieta, la vedeva la Regina di cuori, la vedeva pronta a mozzarle la testa e la temeva.
“Posso parlarti due secondi? Ti offro un caffè.”
“Ora proprio non posso.” Aveva intuito il succo del discorso; era troppo intelligente per non comprendere, per non capire me e la mia follia. Lei che della follia aveva fatto il suo regno ora sembrava voler sfuggire alle mie parole. “Nel caso dopo le lezioni?”
Lo sapevo che dopo le lezioni non ci sarebbe stata o avrebbe inventato un’altra scusa o mi avrebbe ignorato.
“Ci metto un attimo.”
Fece un passo indietro, poi si arrestò, mi fissò, tentò un sorriso.
“Rapido.” Consentì, alzando leggermente le spalle, sperando così di nascondersi o di non sentire ciò che avevo da dire.
“Ti amo.”
Rimase immobile a fissarmi, un sorriso sciocco dipinto sulle labbra. Sperava ancora che scherzassi, io che non scherzavo mai.
Disse, toccandosi l’anulare in cerca di conforto: “Lo sai, no, di Giacomo. Te l’avevo detto di amarlo.”
“Lo so.”
“E allora perché mi dici questo?”
“Perché non amo i bugiardi.”
“Non avresti mentito, avresti omesso. È diverso, Gabriele, è diverso.”
“Ma tu, tu mi ami?”
“No.” Si passò una mano davanti al viso stravolto, pallido, brutto. Eccola la tempesta spostarsi sullo sguardo, imbruttirlo, ecco i capelli divenire squallidi, ecco la bocca piegata in una smorfia. Ed ero io la causa di tutto ciò, ero io ad aver causato tale imbruttimento, mi sentii potente e inutile. “Mi dispiace, Gabriele, ma non ti amo.”
Misi le mani in tasca, mi voltai e mi avviai. Non ricevetti quella tanto decantata stoccata al cuore, quel dolore immane a colmarmi le ossa. No, tutto ciò che provai fu rassegnazione e delusione, nulla di lacerante, nulla di devastante. Solo una lenta e tenue agonia, simile ad una spina, una spina entrata nella carne con lentezza e disinvoltura. Un fastidio che, se si premeva troppo, diveniva dolore. Io però non avevo pinzette per levarmela. Non ne avevo ora e forse non le avrei mai avute.
Non mi chiamò, non mi rincorse, non fece nulla. La sentii ferma a dieci metri di distanza, ora undici, ora tredici e poi venti. Lei rimaneva fissa dove l’avevo lasciata, potevo sentire il rumore della sua immobilità, del suo respiro instabile come la mia salute mentale. Si scordò della lezione e si avviò verso il bar dell’università lenta e a piccoli passi. Tra i due, ad aver ricevuto la tanto decantata stoccata fu lei.
Si sedette, prese il suo caffè e la sua testa venne mozzata dalla regina di cuori. Entrai nella sua testa per la prima volta, ci riuscii, finalmente, e ci trovai un arazzo vuoto e disordinato. E, per questo, l’amai un poco di più.
Presi posto sulla metro, partì, sfrecciammo a lungo tra le gallerie, non feci caso alle fermate, alle persone, al tempo. Sentivo già gli arti intorpidirsi, cominciai a perdere la vista. Stavo per divenire di nuovo un involucro vuoto, un automa, un corpo senza anima. Un’anziana signora si sporse su di me. Le rughe che perdevano forma, lo sguardo della donna sfocato.
“Scusi, giovine, potrei sedermi?”
Fu l’ultima cosa che sentii, poi sparii nuovamente alla ricerca delle menti altrui.
 
Ed ora sono qui, a trentacinque anni, davanti ad una tastiera a raccontare tutto ciò. È da un anno oramai che ho ripreso a vivere la mia di vita ed è un anno che non riesco a rientrare nel mio solito stato d’incoscienza.  
Tornai in me, sacrificando il mio immaginario per il mondo reale solo per scoprire che essere un pavone normale era oramai divenuto impossibile.
Ci ho provato, ci ho provato davvero. Ho stretto i denti, ho osservato i colori degli altri e ho provato ad emularli, ma non ce l’ho fatta. Non ce la farò, lo so. Sono accadute un sacco di cose durante questo anno, troppe per ricordarle così, in ordine, alla perfezione, ma ci proverò. Proverò a parlarne il meglio possibile. Così da lasciare traccia, così da lasciarla ad Anna e a Giulia e, chissà, anche ad Alice, ma, soprattutto, per lasciare una traccia a te, Francesca. Riporterò delle date messe così, alla bell’e meglio, sperando nella loro veridicità e nella loro cronologia.
Non potrò mai diventare un pavone comune, ma, perlomeno, sono riuscito a raccogliere i pezzi della mia vita. Ho vissuto come un pavone bianco.

 


 

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