I Tre Fili di koan_abyss (/viewuser.php?uid=1023690)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
I Tre Fili
I Capitolo
La ragazza era entrata subito nell’ufficio, senza fermarsi nella sala
d’aspetto. Era probabilmente dovuto a una combinazione di fattori: non
c’era una segretaria all’ingresso a pregarla di accomodarsi mentre lei
“avvertiva il signor Ludlow”, la porta del suo ufficio era già aperta
per vedere arrivare i clienti, cosa che nascondeva la scritta ‘Tom
Ludlow, investigatore privato’ sul vetro ondulato, e infine c’era da
dire che la sala d’aspetto non era per niente accogliente: un tavolino
da caffè, una scrivania un po’ defilata, un vaso sulla piccola finestra
che dava sulla strada principale e due poltroncine che avevano visto
giorni migliori.
‘Farei meglio ad assumere un’altra ragazza che accolga i clienti’, si
disse Tom, mentre si alzava dalla sua sedia e augurava un buon giorno
alla nuova venuta. ‘O quantomeno dovrei bagnare quelle felci…’
In realtà era troppo tardi, per bagnare le felci: erano
irrevocabilmente morte.
“Il signor Ludlow?” domandò la ragazza, facendo un paio di passi verso
la scrivania di legno scuro ingombra di carte.
‘Non mi farebbe questa domanda, se avessi una segretaria’ si disse Tom,
confermandoglielo.
Non doveva aver fatto una grande impressione alla sua potenziale
cliente, finora. Di sicuro non se lei si aspettava l’ufficio di Nero
Wolfe.
La stanza non era granché: piccola, con i pavimenti in legno consumato
e le pareti quasi spoglie, ad eccezione della sua licenza da
investigatore e pochi quadri che non ricordava perché aveva scelto (una
veduta di campagna, il partenone e una nave…proprio non vedeva un
nesso. Alla fine, forse non era poi un granché come investigatore);
mesi prima, in un attacco di depressione aveva tolto tutte le
fotografie in bianco e nero, che ora se ne stavano in uno scatolone
nella stanza sul retro.
La ragazza si accomodò sulla sedia davanti alla scrivania: quello che
aveva visto non l’aveva scoraggiata tanto da girare sui tacchi e
andarsene.
In effetti era successo, una volta: Tom aveva visto apparire uno
schianto di ragazza, alta, bionda come un angelo, con vestito verde
scuro fasciante e una pelliccia appoggiata sulle spalle. La donna aveva
gettato uno sguardo alla stanza, col mento leggermente sollevato, gli
occhi profondi e attenti e terminata la sua ispezione si era
semplicemente girata ed era uscita senza una parola.
Tom era rimasto totalmente ammirato dal movimento fluido ed altero con
cui aveva valutato e trovato mancante ogni aspetto della sua vita,
prima di piroettare sui suoi strabilianti tacchi e sparire per sempre.
Quello era carattere.
Una volta sistemata la sedia alla sua ospite, Tom tornò dietro la
scrivania.
“Sarei curioso di sapere se e come posso aiutarvi, signorina,” le disse
una volta seduto.
La ragazza aveva un’aria particolarmente nervosa. Sedeva rigida, con le
ginocchia strette e la borsetta a farle da scudo. Aveva un viso molto
grazioso, a suo modo, del tutto opposto a quello della sconosciuta
bionda che tempo prima era fuggita da quella stessa stanza. La
carnagione era olivastra, gli occhi scuri e liquidi, i più grandi che
gli fosse mai capitato di vedere; il naso era a patata, ma non del
tutto sgradevole, armonizzato con il resto dei suoi tratti.
Dai capelli e dalle sopracciglia, neri e foltissimi, Tom dedusse che
avesse origini messicane, benché non avesse avvertito tracce di
accento, quando aveva aperto bocca. Non portava la fede, quindi Tom
scartò l’ipotesi che potesse trattarsi di un caso di infedeltà
coniugale. Era piuttosto giovane e l’investigatore si domandò se non si
trattasse dell’ennesima ragazza messa nei guai dal presunto amore della
sua vita, poi scomparso nel nulla.
“Mi chiamo Maria Butler. Mio padre è scomparso,” esordì lei,
coinvolgendolo nella faccenda che gli avrebbe procurato tanti guai da
bastargli per un anno intero.
Ma d’altronde, Maria Butler era solo uno dei capi della matassa in cui
si sarebbe trovato avvolto e forse niente gli avrebbe impedito di
ritrovarsi invischiato in quel casino.
Quando avrebbe ripensato a quella storia, negli anni a venire, Tom
Ludlow avrebbe ripensato a Maria Butler come al ‘filo rosso’, in onore
delle sue labbra.
Tom prese nota del nome della ragazza.
“Quando è successo?” chiese.
“Non ho più sue notizie da una settimana. Io e mio padre non viviamo
insieme, ma ci vediamo spesso. Io ho un piccolo appartamento sulla
quarantasettesima e lui ultimamente stava nei dintorni di Lexington.”
Tom le chiese l’indirizzo esatto.
“Avete detto che vi vedevate spesso?”
Lei annuì: “Sì. Talvolta lui passa qualche settimana a casa mia, prima
di cercarsi un altro posto…si sposta spesso…”
Lo disse arrossendo leggermente e Tom maledisse di non potersi
comportare da gentiluomo e dare così per scontato quello che invece era
necessario chiedere.
“Vostro padre ha dei debiti?”
Maria annuì nuovamente: “Sì, qualcuno…non grandi cifre, è sempre
riuscito a pagare dopo poco tempo. Gioca a poker, da sempre, ma non è
mai stato troppo grave, mia madre quand’era viva non ha mai dovuto
nascondergli dei soldi, o altro. A me non ha mai chiesto denaro, non mi
ha mai chiesto nulla, a parte di potersi fermare a casa mia per qualche
giorno. Ma ora che è scomparso, mi chiedo se non ci sia dell’altro…se
non sia fuggito perché non riesce più a saldare i debiti. Io potrei
aiutarlo, ho dei risparmi da parte.”
‘Padre fuggito per debiti di gioco…cavolo, sarebbe stato meglio un
marito fuggito per debiti’ si disse Tom.
Le mogli prima o poi si staccavano da uomini del genere, ma quale
figlia abbandonerebbe il padre, potendolo aiutare?
“Quand’è stata l’ultima volta che lo avete visto?”
“Venerdì scorso…è venuto a trovarmi al lavoro. Lavoro in un ufficio
contabile. Mio padre è passato nella pausa pranzo.”
“Vi è sembrato diverso dal solito? Ha accennato ai suoi problemi, al
fatto che voleva andare da qualche parte? Come si comportava quando vi
chiedeva di stare a casa vostra per qualche tempo?”
Maria si prese qualche secondo per pensarci su, prima di rispondere:
“Non mi è sembrato strano…di solito, quando è nei guai e viene da me lo
capisco subito, è come una sensazione che mi fa pensare: ecco, ci siamo
di nuovo. Ma stavolta…” scosse la testa, scoraggiata. “Avevamo in
programma di sentirci per telefono, ma lui non mi ha chiamata e a
quell’indirizzo non ha il telefono. Non è un posto molto rispettabile.”
Era un postaccio, concordò Tom. Un pessimo quartiere, il massimo per un
giocatore d’azzardo.
Chiese a Maria se avesse provato ad andare a casa di suo padre per
vederlo di persona.
Lei disse di no.
“Vostro padre aveva un lavoro?”
“Sì, da qualche mese lavorava per una ditta di trasporti, guidava i
camion. Viaggiava per tutto lo Stato.”
“Non può essere in viaggio? Magari lo hanno chiamato per una consegna
improvvisa…”
“Mi avrebbe avvertita. Comunque, dopo un paio di giorni ho provato a
telefonare alla ditta per cui lavora e mi hanno detto che non l’avevano
visto neppure loro.”
“Come si chiama la ditta di trasporti?”
Tom aggiunse sul foglio su cui prendeva appunti il noma della ditta-
Quicktrans- e il nome completo dell’uomo: Andrew Butler, detto Andy,
presumibilmente.
“Vi siete rivolta alla polizia, signorina Butler?” le chiese Tom.
Avrebbe dovuto chiederlo subito, ma in realtà paventava la risposta. Se
un cliente si è rivolto alla polizia e poi si cerca un investigatore
privato, significa che non è molto soddisfatto dell’operato delle forze
dell’ordine, e queste ultime hanno il brutto vizio di prendersela a
male e di sfogare il loro risentimento sui poveri investigatori
privati, quando inevitabilmente le loro strade si incrociano. Se invece
il cliente ha completamente aggirato i canali ufficiali, o la faccenda
è illegale o il cliente vuole rimanere anonimo, o entrambe le cose, e
questo inevitabilmente crea problemi di etica, segreto professionale e
intralcio alla giustizia.
Alla fin fine, quale che fosse la risposta del cliente, il povero
investigatore privato sapeva che molto probabilmente avrebbe avuto
contrasti con le uniformi blu. E Tom Ludlow aveva una lunga lista di
contrasti passati con le uniformi blu, che a quanto pareva non
riuscivano a perdonargli nulla. Come del resto lui non riusciva a
perdonare nulla alla polizia.
“Ho sporto denuncia di scomparsa, ma quando ho parlato del vizio del
gioco ho avuto l’impressione che l’agente con cui stavo parlando abbia
pensato: caso risolto, solo un tizio che fugge dai debiti, e che la
cosa non interessasse a nessuno veramente,” spiegò la ragazza,
adombrandosi.
“Credete che ci sia qualcosa di più?” le domandò Tom, con tono gentile.
“Io temo che qualcuno possa fargli del male!” esplose Maria,
fulminandolo con lo sguardo. “Voglio che lei lo trovi e gli faccia
sapere che gli presterò dei soldi e metteremo tutto a posto,
risolveremo ogni cosa!”
“E se tra sei mesi la storia si ripetesse? Mettiamo che io trovi vostro
padre, voi gli diate tutti i vostri risparmi e tra sei mesi lui
accumuli altri debiti e sparisca di nuovo…vi ritrovereste nella stessa
situazione di oggi e in più senza un soldo. Vi sembra uno scenario
auspicabile?” le domandò Tom, ben sapendo che le sue parole sarebbero
cadute nel nulla.
Maria Butler strinse la sua borsa con più foga e sollevò il mento con
aria di sfida. Era decisamente meravigliosa, così.
“È mio padre,” gli rispose con voce dura.
Tom se lo aspettava, non si era aspettato niente di diverso sin
dall’inizio del racconto. Scrollò le spalle e ricominciò con le domande.
Quando Maria Butler si alzò, Tom l’accompagnò alla porta, promettendole
di telefonarle non appena avesse avuto novità da riferirle.
Tornato alla sua scrivania, ricontrollò gli appunti che aveva preso
durante il colloquio e cominciò a batterli a macchina con ordine per
inserirli nel suo archivio. Era un uomo ordinato, quando si trattava
del suo lavoro…per il resto era una causa persa.
La sua cliente gli aveva fornito un elenco degli indirizzi a cui il
padre aveva abitato negli ultimi anni e gli indirizzi di un paio di
locali di cui l’uomo si era lasciato sfuggire il nome e che Maria
riteneva fossero i luoghi dove andava a giocare a poker. Tom li
conosceva, conoscere come le sue tasche la città era d’obbligo nel suo
campo, e sapeva che benché si giocasse non erano proprio la meta ideale
per un giocatore incallito. Poteva controllare in un altro paio di
posti nei dintorni dell’ultima abitazione di Andy Butler, ma era certo
che gli amici di Andy avrebbero potuto indirizzarlo meglio di chiunque
altro.
Maria non conosceva amici del padre, ma Tom aveva intenzione di andare
alla sede della ditta di trasporti, la Quicktrans, e fare qualche
domanda anche a loro. Un paio di colleghi che passavano le loro serate
libere insieme ad Andy sarebbero saltati fuori, con un po’ di fortuna.
Probabilmente anche la polizia si era recata sul luogo di lavoro di
Andy Butler: era stato certamente il loro primo passo, per controllare
il ruolino delle consegne di Andy e verificare che nessuno lo avesse
visto dal momento in cui Maria aveva telefonato a quello in cui loro si
erano mossi.
In ogni caso, da qualche parte bisognava che Tom cominciasse, e lui non
aveva intenzione di farlo parlando con i vecchi padroni di casa di
Andy.
Inoltre, non avrebbe cominciato quella sera: aveva un impegno.
Finì di battere a macchina i suoi appunti in tempo per andare a cena,
sempre che avere in programma di andare a bere sgranocchiando salatini
potesse definirsi andare a cena. Prese soprabito e cappello e lasciò
l’ufficio, chiudendo a chiave la porta. Scendendo le scale incontrò
altri che lasciavano il lavoro per tornare a casa: il palazzo ospitava
diversi studi e presentava l’innegabile vantaggio di avere un portiere
ventiquattr’ore su ventiquattro.
Adorava quella sistemazione: aveva affittato l’attico una decina di
anni prima (‘Già una decina? Eh, sì, vecchio mio…’) insieme ad un
collega. L’edificio era vecchio e sprovvisto di ascensore, cosa che
influiva positivamente sul costo dell’affitto e sulla psicologia di
quei clienti che preferivano l’anonimato.
L’ultimo piano (il quarto, non è che si trattasse di chissà che
grattacielo) dava una sensazione di privacy, specie perché da un paio
d’anni non c’era nessuno che occupasse i locali al piano di sotto;
inoltre gli altri affittuari erano persone discrete e i loro orari
coincidevano raramente: se quella sera Tom usciva alla stessa ora di
quasi tutti gli altri era dovuto solo al fatto che aveva un
appuntamento; alla mattina era totalmente escluso che qualcuno potesse
incrociarlo sulle scale.
Scese in strada e si avviò verso nord sul marciapiede affollato di
coppie che andavano a cena e poi in qualche locale per un ballo o due.
Diversi taxi affollavano la strada davanti al cinema dove Tom passava
almeno un paio di sere alla settimana. Peggy, la ragazza che vendeva i
biglietti all’ingresso lo salutò agitando la mano, sventolando il resto
dell’uomo in coda davanti alla cassa. Spinto dal senso del dovere e per
sdebitarsi degli ingressi che ogni tanto Peggy gli regalava, Tom
l’aveva invitata a ballare qualche volta. La fanciulla sembrava essersi
presa una bella cotta per lui e la cosa lo metteva un po’ a disagio:
non era interessato a quella mite ragazzina con gli occhiali. Forse era
il caso di diradare un po’ le sue viste al cinema Lux, almeno finché
Peggy non si fosse trovata uno spasimante, rifletté, regalandole un
sorriso.
Passò oltre prima di vederla sospirare con aria beata.
Un paio di uomini lo salutarono per nome mentre si avvicinava al locale
nel quale praticamente viveva: la Pantera Blu.
Quella sera non era particolarmente affollato, ma d’altronde era
piuttosto presto per la clientela abituale della Pantera. La sala
principale era illuminata da luci soffuse e sui tavolini circolari
piccole abat-jours davano ad ogni conversazione dei loro occupanti
un’aria intima e romantica.
Tom puntò dritto verso il bancone del bar, in fondo alla stanza. Dietro
il bancone, in abito da sera, lo accolse Winnie, la proprietaria.
Benché Tom sapesse che il nome del locale derivava da una statua a
forma di pantera che un tempo era esposta nell’ingresso, scelta del
precedente proprietario, talvolta per scherzare chiedeva a Winnie se
invece non fosse dovuto a lei a ai suoi magnifici occhi blu. Lei
sbuffava, con gli occhi che ridevano, e fingeva di schiaffeggiargli una
mano.
Nel suo lavoro era importante conoscere tutti e avere buoni rapporti
con le persone che frequentava: se un tizio di cui non sai nulla se ne
va in giro a fare troppo domande non sei molto portato a rispondergli.
Winnie gestiva un locale molto frequentato e combinando le sue
innegabili doti femminili all’intuito sviluppato dopo anni a servire
alcolici, sapeva più o meno qualunque cosa sulla sua clientela abituale
od occasionaria.
Tom vantava una discreta conoscenza del quartiere e della città in
genere, ma ci sono informazioni cui solo una donna riesce ad avere
accesso, quindi l’amicizia con Winnie gli era spesso d’aiuto con i
piccoli casi per così dire locali.
“Bentornato, tesoro,” lo accolse la donna, avvicinandoglisi e
sorridendo in maniera maliziosa.
Da quando si conoscevano Winnie fingeva di provarci con lui, e lui
stava al gioco. Non era niente più che uno scherzo tra di loro.
L’inconveniente di dover conoscere le persone per ottenere risposte è
che spesso le persone finiscono per conoscere te, e Winnie conosceva
quasi ogni cosa di lui. A Tom non dispiaceva più di tanto: non è che
vivesse nascondendosi. Inoltre, talvolta parlare con Winnie era
un’ottima valvola di sfogo.
“Buonasera, Winnie,” le rispose, accomodandosi in cima a uno sgabello e
buttando il cappello su quello accanto a sé per tenerlo occupato.
“È un po’ presto per te tesoro…qualcosa in pentola?” gli chiese Winnie,
accennando al posto che aveva occupato. “Cosa ti servo?”
“Qualcosa di leggero. Aspetto una persona,” le confermò.
Winnie sembrò illuminarsi, mentre gli serviva un Manhattan: “Aspetti
qualcuno? Finalmente mi porti a conoscere un boyfriend?”
Tom sorrise scuotendo la testa: “Un vecchio amico. E non gradirebbe
questo genere di battute,” aggiunse, più serio.
Winnie annuì, facendogli capire che non avrebbe scherzato.
Era vero, James non avrebbe gradito. In fin dei conti quale graduato
dell’esercito degli Stati Uniti avrebbe apprezzato insinuazioni sulle
sue preferenze sessuali per gli uomini?
Conosceva James da quando aveva deciso di frequentare l’accademia di
polizia: si allenavano insieme in vista in vista dei test d’ingresso.
James aveva finito per scegliere l’esercito, invece dell’uniforme blu,
mentre lui…aveva sopportato per un po’, aveva combattuto, perché era un
tipo tenace, ma alla fine aveva mollato.
Aveva preso la licenza da investigatore e aveva cominciato a lavorare
per Butch Morrison, con cui aveva affittato l’attico in cui si trovava
il suo ufficio, una volta che erano divenuti soci.
James invece aveva fatto carriera. Sembrava nato per la vita militare,
a parte per un piccolo problema, lo stesso che aveva costretto Tom a
lasciare l’accademia di polizia una vola scoperto dai suoi colleghi.
James preferiva gli uomini, come Tom.
Ma spesso Tom si sentiva più fortunato di lui. Tanto per cominciare era
venuto a patti con la cosa, o almeno era riuscito finora a non
impazzire. Non si nascondeva: non che avesse attaccato un avviso sulla
porta dell’ufficio, ma non si era neppure trovato una moglie da usare
come copertura, come facevano certe checche ipocrite nel mondo dello
spettacolo o delle gallerie d’arte dei quartieri alti.
Inoltre, al contrario di James che provava ribrezzo all’idea di labbra
femminili, lui amava le donne. Le apprezzava, le ammirava. Ammirava
soprattutto il carattere e la fermezza di alcune di loro (era forse per
questo che continuava a ripensare ogni tanto alla sventola bionda che
era fuggita dal suo ufficio) e da queste ultime si era sentito
attratto. Aveva avuto un paio di fiamme, accumunate, secondo l’opinione
di Winnie, dalla loro sicurezza e dalla sensazione di controllo che
emanavano.
“Tu cerchi qualcuno che metta ordine intorno a te, a cui lasciare le
redini mentre ti abbandoni. È perfettamente naturale,” gli aveva detto
Winnie una volta.
Era rimasto alla Pantera Blu fino all’orario di chiusura, mentre Winnie
riempiva alternativamente il suo bicchiere e quello di Tom. Entrambi
erano pesantemente appoggiati al bancone, con le fronti che quasi si
toccavano e Tom si sentiva allo stesso tempo esausto, divertito, pronto
a lasciarsi andare all’autocommiserazione. Anzi, probabilmente si era
lasciato andare all’autocommiserazione, se si ritrovava quasi all’alba
a ubriacarsi con la barista.
“Cerchi solo qualcuno che ti ami nel modo giusto,” aveva continuato
Winnie, accarezzandogli una guancia. “Peccato davvero che non possa
essere io. Anch’io cerco la stessa cosa. Non ci conviene mettere la
fame con la sete,” aveva concluso infine, vuotando il bicchiere.
Tom ricordava di essere scoppiato a ridere talmente forte da cadere
dallo sgabello.
Winnie rimase a osservarlo prendere un sorso del suo drink: “Uhm…si
tratta di un amore non corrisposto?” indagò.
Tom scosse la testa: “Solo un vecchio amico che è passato in città.
Preparagli un whisky, è appena entrato,” le disse, studiando il
riflesso di James nello specchio alle spalle della donna.
Il Maggiore James Biggs era alto, imponente, solare, con i capelli
castano-dorati e gli occhi azzurri. Anche in abiti civili dava
impressione di autorevolezza. Praticamente il sogno di ogni madre per
la sua bambina.
“Santo cielo, che schianto. Volevo essere solidale con te, Tom, ma
cavolo se sono grata che non giochi con le tue stesse carte!” dichiarò
Winnie alzando lo sguardo sul nuovo venuto.
Tom ruotò lo sgabello fino a fronteggiare James, che lo aveva raggiunto
e lo fissava con un angolo della bocca sollevato.
“Sai che per trovare il posto mi è bastato chiedere dove va a bere
quell’investigatore da quattro soldi che sta sulla decima?” esordì,
facendosi avanti e stringendogli la mano con calore.
“Spero che tu abbia detto ‘quell’affascinante investigatore da quattro
soldi’,” gli rispose Tom, alzandosi.
James sbuffò e se lo tirò contro. La fronte di Tom gli arrivava più o
meno all’orecchio.
“È un secolo…” sussurrò James.
“Dal funerale di Morrison. Un paio d’anni…” corresse Tom, districandosi
dall’abbraccio.
Aveva avuto modo di notare che James sembrava invecchiato e stanco.
C’erano segni intorno ai suoi occhi che era certo di non aver mai
visto. E il suo sorriso. Era il solito, certo, ma appena malinconico se
non si ingannava. E non si ingannava, lo conosceva troppo bene.
Ma in fin dei conti neanche lui poteva dire di essere passato indenne
attraverso gli ultimi anni: beveva troppo, era disgustato da tre quarti
dell’umanità, si sentiva solo. Certamente tutto questo traspariva dai
suoi tratti.
‘Il giorno che trasparirà da un capello bianco è molto vicino…’si disse
e rabbrividì mentalmente.
Era molto orgoglioso dei suoi capelli castano scuro.
James si accomodò sullo sgabello che Tom gli aveva riservato,
ringraziando distrattamente Winnie per il drink che gli aveva servito.
La donna gli rivolse un ultimo sguardo estasiato, poi fece a Tom un
piccolo cenno di saluto con il capo prima di allontanarsi per lasciar
loro un po’ di privacy.
Tom le fece l’occhiolino.
“Mi aspettavo di vederti in divisa. Winnie sarebbe svenuta,” disse a
James, dando un’occhiata al cappotto scuro dell’amico e alla giacca
sportiva che si intravedeva sotto di esso.
James scrollò le spalle: “Sono arrivato in aeroporto alle due, ho avuto
tutto il tempo di andare in albergo, pranzare e cambiarmi.”
“Credevo fossi in città per lavoro. Per qualche patriottico incarico da
svolgere in alta uniforme e con piglio solenne.”
James annuì: “È per lavoro, infatti, ma non oggi. Mi sono preso qualche
giorno per sbrigare un po’ di faccende personali, vedere te e infine
l’impegno ufficiale: sono a L. A. perché venerdì si riunisce una
commissione d’inchiesta.”
“Commissione d’inchiesta? Avete avuto qualche casino, giù al Sud?”
chiese Tom, riferendosi alla base militare di Encino, dove l’amico era
di stanza.
“Più che un casino direi una catastrofe,” confermò James bevendo. “Più
o meno un mese fa un convoglio che trasportava armi da Encino al nostro
deposito sul confine è sparito. La camionetta di scorta è stata
assaltata, gli uomini messi fuori combattimento.”
Tom fischiò: “E le armi sono sparite? Sembra un attacco alla diligenza,
messa così…”
“Erano un gruppo molto organizzato: il camion che trasportava le armi
si è fermato, forse avevano bloccato la strada in qualche modo. Era
buio, la strada da Encino al deposito 114 è per buona parte sterrata,
non illuminata. La camionetta della scorta si è fermata, gli uomini
hanno pensato che ci fosse da rimuovere qualche ostacolo sulla
careggiata e sono scesi per dare una mano. Erano tutti pivelli,
arruolati dopo la guerra. Appena sono stati a terra li hanno circondati
e disarmati. Ci sono state delle indagini, condotte da noi con
l’appoggio della polizia locale, ma non abbiamo trovato i banditi, per
riprendere la tua similitudine.”
Scosse la testa.
“Hai detto che forse hanno bloccato la strada? Cosa ha detto il
conducente del camion?” chiese Tom.
James buttò giù quanto restava del suo whisky in un sorso: “Niente.
Dopo aver disarmato la scorta gli hanno sparato. Forse ha cercato di
reagire.”
“Ma c’era solo una camionetta? Solo quattro uomini per scortare un
camion di armi e munizioni? Perché?”
Non gli sembrava prudente.
James allargò le braccia, con l’aria di chi aveva dovuto ripetere la
stessa risposta all’infinito, ben sapendo che risultava
insoddisfacente: “Siamo a corto di uomini. Il deposito è vicino,
nonostante le condizioni della strada il viaggio normalmente non
richiede più di due ore e certo non attacchiamo i manifesti per far
sapere a chiunque quando spostiamo carichi pericolosi. In poche parole:
chi se lo aspettava?” concluse, con tono forse troppo leggero.
Ma era una farsa: Tom era perfettamente in grado di capire che la cosa
aveva sconvolto il suo amico.
“E tu come ci entri? Fai parte della commissione d’inchiesta?”
James gli rivolse un sorriso auto derisorio: “Ho autorizzato io la
partenza del convoglio. Mi è stata delegata l’organizzazione degli
armamenti della base. Doveva essere una promozione. Ho festeggiato, lo
scorso anno, quando mi hanno conferito l’incarico.”
Tom imprecò sottovoce, per sottolineare la gravità del fatto.
“Quindi dato che i responsabili non sono stati arrestati, la
commissione cerca qualcuno su cui scaricare la colpa?”
“Sono un ufficiale. Sono responsabile delle decisioni che prendo,”
rispose James. Fece cenno a Winnie di riempirgli di nuovo il bicchiere.
“Non ho sentito nulla, di questa storia. È successo il mese scorso, hai
detto? Non c’era una parola sui giornali.”
“Grazie al cielo. È stato uno smacco incredibile, per l’esercito. Tutti
hanno tenuto la bocca cucita.”
“Chi sospettate?”
“Così vicino al confine? I Messicani. Al di là del confine episodi di
questo genere non sono così infrequenti, girano diverse bande armate.”
Era davvero una catastrofe, ed era evidente che James stava facendo un
po’ di fatica a mantenersi calmo.
“Domani sera ho un incontro informale al palazzo del Governo, per
valutare la linea di condotta da tenere, e venerdì c’è l’incontro
ufficiale davanti alla commissione,” continuò.
“La commissione reclamerà la tua testa?”
“Al massimo formuleranno un’accusa e da quel momento potrò difendermi.
Dai, ora basta parlare di questa storia, sono venuto per vederti. Dimmi
come te la passi,” gli sorrise, facendo un cenno con il bicchiere come
a voler accantonare tutta la faccenda, l’assalto al convoglio, la morte
di un uomo e la sua presunta responsabilità per tutto quello che era
successo.
Tom fece roteare le ultime gocce di liquore sul fondo del suo
bicchiere.
“Non c’è molto da dire. Nessuna grande novità, niente rivelazioni
sconvolgenti, a parte un nuovo foro di proiettile sul fianco destro,”
scherzò.
“Meglio così. Come va il lavoro?”
“Direi bene. La solita routine di fedifraghi, dipendenti disonesti e
truffe assicurative, e da oggi un caso di sparizione, che me lo sento,
mi procurerà un sacco di grane con la polizia. Il distretto è quello di
Kuntz.”
Si poteva dire che il capitano Kuntz non avesse proprio grande stima di
Tom Ludlow, sin dai tempi dell’accademia di polizia che per un periodo
avevano frequentato assieme.
Quando il piccolo e oscuro segreto di Tom era venuto alla luce (parole
di Kuntz stesso; Tom pensava alla cosa come alla sua ‘posizione sul
campo da football della vita’), Kuntz e suoi compagni e tirapiedi
avevano deciso che denunciarlo e farlo sbattere fuori dall’accademia
sarebbe stato troppo facile e poco divertente. Avevano optato per
persuadere Tom ad andarsene di sua scelta, “con le tue gambe o su una
barella, a seconda di quando ci metterai a decidere”, per riportare
esattamente come l’avevano messa loro prima di rompergli due costole.
Tom aveva sopportato sei mesi di continue minacce, umiliazioni e
agguati. A una settimana dalla cerimonia di diploma il bilancio dei
danni comprendeva in tutto tre costole rotte, mignolo e anulare della
mano sinistra spezzate (ancora un po’ storte adesso), un dente saltato,
un taglio che aveva richiesto dei punti dopo una discussione nel bar
dove le reclute andavano a bere a fine giornata.
A sua volta, Tom aveva restituito un discreto numero di colpi: lo
stesso Kuntz si era guadagnato una frattura alla mandibola e uno dei
suoi cari amici aveva preso tante botte da lasciare il gioco e non
avvicinarsi mai più a Tom.
Tutto questo, cercando di evitare l’attenzione dei loro istruttori.
Soprattutto Tom doveva preoccuparsene: se avesse lasciato troppi segni
e i superiori si fossero accorti di qualcosa gli altri si sarebbero
spalleggiati a vicenda e lui sarebbe stato buttato fuori. Si era fatto
amico un dottore che non faceva troppe domande che ancora esercitava,
nella trentasettesima.
All’epoca James si era appena arruolato e anche se si vedevano appena
riuscivano a far combaciare le rispettive licenze, di tutta la faccenda
era al corrente solo di un paio di episodi.
“Cristo, Tom, non puoi stare lontano da quell’uomo? Ho il sospetto che
tu te le cerchi, le grane con la polizia,” fece James, con aria di
biasimo.
Forse non era così lontano dal vero.
“Lo sai come siamo io e Kuntz: non perdiamo occasione di ribadire
quello che siamo, un sadico bastardo e una checca orgogliosa,” replicò
Tom, stringendosi nelle spalle.
“Questa guerra con Kuntz non avresti mai dovuto iniziarla, Tom. E non
sarà mai troppo presto per farla finita. Perché non puoi semplicemente
lasciare perdere?”
“Perché rifiuto di andare a nascondermi ogni volta che quel bastardo
attraversa la strada,” ringhiò Tom, a denti stretti.
Stava cominciando ad arrabbiarsi.
Non aveva lasciato l’accademia a una settimana dal diploma perché ne
aveva finalmente avuto abbastanza dei soprusi di quella banda di
violenti.
Se si fosse diplomato avrebbe semplicemente potuto chiedere di essere
assegnato a un distretto diverso da quello di Kuntz. Prima che le
chiacchere su con chi passava il suo tempo libero lo avessero
raggiunto, non dubitava che sarebbe riuscito a farsi apprezzare per il
suo lavoro e il suo cervello. Sapeva di essere intelligente e sapeva di
poterlo dimostrare. Era certo di riuscire a farsi accettare dai suoi
colleghi e se anche qualche idiota di un altro distretto avesse sparso
la voce che era un invertito i suoi colleghi lo avrebbero comunque
sostenuto, perché così fanno i poliziotti: sono solidali tra loro e
ancor più solidali tanto più l’ambiente è ristretto, come all’interno
dello stesso distretto o dello stesso quartiere.
Avrebbe potuto avere la sua uniforme blu, prima o poi le chiacchere
sarebbero cadute nel nulla. Senonché, così facendo avrebbe dovuto
nascondersi. Non avrebbe dovuto dar sostegno alle dicerie sul suo
conto. Avrebbe dovuto mentire, comportarsi da ipocrita, costruirsi una
vita che supportasse le sue menzogne.
Sentiva di non poterlo fare.
E questo James lo sapeva, era con lui che ne aveva discusso una notte
intera. Per questo si stava arrabbiando.
“Non ho intenzione di comportarmi da codardo. Ho fatto la mia scelta e
devi rispettarla. Non venirmi a parlare di lasciar perdere, di
ignorarli o di far finta di niente! Tu hai scelto la tua vita e io
cerco, per quanto mi riesce, di non intromettermi. Non puoi rendermi la
cortesia?” gli sibilò contro.
“Sappiamo entrambi che tra noi due sono stato io a fare la scelta del
codardo,” gli rispose James, senza perdere le staffe.
Lui non perdeva mai le staffe.
“Anche se ti assicuro che vivere nella paura che tutto possa saltare
fuori non è semplice. Ma l’altra opzione mi spaventa ancora di più. Mi
preoccupo per te, che uno di quei bastardi ti possa sparare in un
vicolo, o…”
“So badare a me stesso,” gli rispose Tom, un po’ addolcito.
“Lo so. Hai intenzione di invitarmi a cena o no?” concluse James,
alzandosi in piedi e lasciando un paio di banconote accanto al
bicchiere per saldare il conto.
Anche Tom si alzò: “Ti va una bistecca? Conosco un posto. È poco più di
una bettola, ma la cucina è grandiosa.”
Uscirono dalla Pantera Blu, lanciando un saluto a Winnie, occupata con
i clienti arrivati negli ultimi minuti.
“Poco più di una bettola? Preferirei un posto di classe: cosa mi sono
portato a fare il frac in valigia, altrimenti?” ridacchiò James.
Si avviarono per i vicoli del quartiere.
“È un posto intimo. Magari non ti va di farti vedere troppo con me. Qui
tutti mi conoscono e le voci girano,” gli rispose Tom con tono leggero.
Non avrebbe mai e poi mai messo in difficoltà James. Il problema non
era solo un eventuale scandalo. James adorava la vita militare, non
avrebbe sopportato di essere cacciato.
James gli si fece più vicino e gli diede una spallata giocosa: “Non è
un problema. Nessuno conosce me.”
“È vero. Se fossi da solo probabilmente qualcuno ti avrebbe già
rapinato. Ma dato che sei con me...” disse Tom.
“Sono venuto fin qui da solo e non mi è successo niente,” gli fece
notare l’amico.
“Vediamo come andrà stanotte quando usciremo dal ristorante e tornerai
in albergo da solo,” lo rimbeccò Tom, leggermente piccato che James
avesse snobbato la sua protezione.
Anche se doveva ammettere che solo un idiota avrebbe provato a derubare
un tipo alto un metro e ottantacinque, con il fisico di un pugile e un
taglio di capelli che urlava ‘forze armate’. Inoltre, forse un pivello
non lo avrebbe notato, ma un delinquente esperto avrebbe riconosciuto
il rigonfiamento provocato dalla pistola d’ordinanza di James. Quindi
forse la sua offerta di protezione era inutile, ma non per questo meno
cavalleresca, no?
La cena fu piacevole. Il ristorante non era un granché, ma le bistecche
erano anche meglio di come Tom ricordasse, e gli alcolici passabili.
Tuttavia non era posto dove passare tutta la sera a bere e dato che
l’atmosfera si era fatta un po’ malinconica (‘Segno della vecchiaia
imminente’ si disse Tom), propose di farsi ancora qualche drink nel suo
ufficio.
Il portiere del palazzo rivolse loro niente più che un cenno della
testa e due uomini salirono indisturbati fino al quarto piano.
“Devi bagnare le felci,” gli ricordò James, con un sorriso un po’
brillo.
Tom lo mandò al diavolo.
Un piccolo mobile bar occupava un angolo dell’ufficio. Era appartenuto
a Butch Morrison, che lo riteneva più elegante che tenere una bottiglia
nel primo cassetto della scrivania.
“Specie quando devi offrirne ai clienti,” gli ripeteva spesso.
Mentre Tom, abbandonata la sua giacca, versava del liquore in due
bicchieri, allungando la bibita con un po’ d’acqua, James diede
un’occhiata alla stanza.
“Non me la ricordavo così spoglia,” commentò.
Tom gli porse il bicchiere: “Ho tolto le foto. Da poco, in realtà. Non
mi hanno mai dato fastidio dopo il funerale, poi un giorno sono entrato
e mi sono ritrovato a pensare che se non le toglievo al più presto
avrei sfasciato tutto in un attacco di rabbia. Hanno cominciato a farmi
impressione così, dal nulla.” Prese qualche sorso. “Le riappenderò,
prima o poi. Quando mi prenderà un po’ di nostalgia.”
“Sei sempre stato un sentimentale,” fece James. “Povero Butch. Dava
l’impressione di essere insormontabile, indistruttibile. Irremovibile.”
“Già, e invece…”
Morrison era morto per un attacco cardiaco. Lui e Tom erano stati
coinvolti in una sparatoria, per un caso di rapina. Avevano sistemato i
delinquenti, la polizia era arrivata a dar loro man forte, per una
volta, e tutto sembrava risolto. Era tornata la calma, Butch si era
acceso una sigaretta ed era caduto nel bel mezzo della strada, sui
piedi del poliziotto che gli aveva prestato l’accendino. Probabilmente
aveva il cuore malandato da tempo.
“Le altre stanze sono chiuse?” chiese James, accennando con un gesto a
una porta laterale.
Tom fece cenno di sì.
“Non ho bisogno di tutto quello spazio. Uso solo la stanza sul retro.
Ancora?” chiese, allungando una mano per prendergli il bicchiere vuoto.
James glielo consegnò.
“Cavolo. Niente più acqua,” constatò Tom, una volta tornato al mobile
bar.
Aprì la porta della stanza sul retro per riempire una caraffa dal
piccolo lavandino di servizio.
James si affacciò nella stanza dietro di lui.
“Ma che…cavolo, Tom, ci vivi, qui?” gli domandò stupito.
La stanza aveva una piccola finestra con gli avvolgibili abbassati, un
letto in ferro sgangherato sulla cui spalliera erano appese un paio di
camicie. Un cassettone conteneva il resto dei vestiti di Tom.
L’investigatore scosse le spalle.
“Fai tu?” disse, consegnando la caraffa a James, e andò ad aprire la
finestra per far circolare un po’ d’aria.
James aggrottò la fronte, ma preparò due nuovi drink.
“Allora? Ti sei trasferito in ufficio?” chiese di nuovo, tornando.
“Ho cominciato a dormirci un paio di volte a settimana. Poi finivo
sempre per fermarmi qui. A volte tornavo a casa e dopo due ore ero di
nuovo qui,” spiegò Tom: “Così ho lasciato l’appartamento e mi sono
attrezzato per restare.”
Si rendeva conto che la sistemazione era quanto mai squallida, e
avvertita una punta di vergogna all’idea della bottiglia in fondo al
suo cassetto della biancheria. Ma quella sistemazione si accordava
perfettamente con il suo stato d’animo degli ultimi tempi: usurato.
“Hai lasciato la casa in Yucca Avenue?” James scosse la testa
incredulo. “E io che mi ero quasi offeso perché non hai provato a
portarmi a casa tua…” commentò con un sorriso.
Tom si affacciò alla finestra: “Era una casa grande…e non ci portavo
mai nessuno.”
James si avvicinò alla sua schiena: “Ma stare qui…non mi sembra
salutare. Dovresti allontanarti da qui ogni tanto, dimenticare il
lavoro. Ci riesci, con lo schedario dei casi a due metri dal tuo
cuscino? E poi, dannazione, Tom, è un attico! Se proprio vuoi viverci
perché non lo arredi come si deve, invece di …bivaccare come un uomo
cacciato di casa dalla moglie?” fece James, con tono leggermente
esasperato.
Cominciava a far fresco per un uomo in maniche di camicia, così Tom
richiuse la finestra.
“Non è così male, alla fine. È luminosa, le tubature del bagno sono
nuove, al mattino non faccio mai tardi al lavoro e in questo momento
nella mia camera da letto c’è uno splendido uomo. Che cosa potrei
volere, di più?” rispose, rivolgendo un ghigno a James.
Vuotò il bicchiere. Fece per scostarsi dalla finestra, ma James non si
mosse.
Gli rivolgeva uno sguardo che Tom conosceva perfettamente: se l’erano
scambiati un milione di volte; era certo, anche se erano passati quasi
quindici anni, che il primo sguardo che James gli avesse mai rivolto
fosse proprio quello. Era uno sguardo caldo, profondo, tenace
nell’attesa che Tom si avvicinasse.
Ogni volta che James lo guardava così finivano l’uno contro l’altro,
pronti a finire a letto.
Non erano mai stati una vera coppia. Erano sempre stati attratti l’uno
dall’altro ed erano sempre andati a letto insieme, più spesso che no,
ma avevano entrambi stabilito che avere un amico con cui condividere
quello che erano, quello che li faceva sentire diversi da tutti gli
altri era molto più importante di una scopata.
Winnie gli aveva chiesto se James era un amore non corrisposto: per
Tom, James era prima di tutto un amico. Lo amava, ed era riamato, ma
era un aspetto secondario della loro relazione.
“Mi guardi così perché ti faccio pena per la storia dell’appartamento?”
gli chiese prendendo tempo.
E allo stesso tempo facendo un passo verso di lui.
“Ci penso da quando ti ho visto al bar. Dal momento in cui ti ho
abbracciato,” rispose l’altro.
“Lo sapevo,” fece Tom, allungando una mano dietro di sé e riabbassando
gli avvolgibili.
Entrambi cercarono a tentoni il davanzale della finestra per posare e i
bicchieri, e magicamente quel gesto li addossò l’uno all’altro. Non
appena Tom reclinò la testa all’indietro James prese a baciarlo
stringendolo tra le braccia fino a lasciarlo senza fiato. Tom non ebbe
altra scelta che aggrapparsi alla sua vita, sentendo la testa leggera
come se si fosse ubriacato di nuvole. Sentiva il cuore nel petto
accelerato più del suo respiro e dovette staccarsi dall’amico.
“Dammi un minuto, ti prego…” lo implorò, voltandogli le spalle.
James gli premette il petto contro la schiena e gli baciò una tempia:
“Stai bene?”
“Sì, è solo passato molto tempo. Credo di essere nervoso,” spiegò Tom,
prendendo l’altro per mano e avvicinandosi al letto. “Meglio non stare
a pensarci troppo,” continuò con un ghigno.
Era passato davvero molto tempo. Non si era mai sentito troppo a suo
agio ad agganciare qualcuno in un locale, anche se non erano mai
mancati i damerini che gli avevano proposto un giro su qualche bella
macchina sportiva. Né era un tipo da far sesso in un luogo pubblico,
principalmente perché il rischio di rimorchiare un agente della
buoncostume non lo eccitava minimamente. Sapeva che James, stando così
vicino al confine, trovava tempo ogni tanto per una gita in qualche
bordello messicano. In un bordello messicano si può trovare di tutto.
‘Anche cose che preferiresti non vedere mai’ ricordò a se stesso,
ripensando a un viaggio fatto da ragazzo con altri due amici.
Scacciò l’immagine dalla mente, mentre guardava James mettersi a sedere
di fronte a lui con un sorriso divertito.
Tom cominciò a sbottonarsi la camicia, ma James sostituì le sue dita
con le proprie: “Lascia fare a me…” sussurrò.
Tom si svegliò circa verso le due, a sentire il suo orologio interno.
Nella notte James si era alzato e aveva aperto la finestra di pochi
centimetri, e ora fumava seduto a letto con un ginocchio piegato,
lasciando cadere la cenere in uno dei bicchieri che avevano usato la
sera prima. Aveva lo sguardo rivolto verso la finestra, ma quando Tom
si stropicciò un occhio abbassò gli occhi azzurri su di lui senza dire
nulla.
Ancora non del tutto sveglio, Tom alzò una mano e gliela appoggiò sul
petto, quasi a verificare che fosse davvero lì.
Era contento di essersi svegliato. Negli anni lui e l’amico non avevano
mai condiviso un appartamento: le volte che si erano svegliati assieme
nello stesso letto si contavano sulle dita di una mano. Anche quella
notte James aveva con tutta probabilità l’intenzione di tornare a
dormire in albergo.
Tom gli accarezzò con la punta delle dita i muscoli ben definiti,
scendendo fino agli addominali. Con gli occhi studiò la curva della
spalla, il braccio con cui James reggeva la sigaretta continuando a
fumare.
Gli sarebbe piaciuto dormire con James, svegliarsi tardi, fare
colazione. Talvolta rimpiangeva che non potessero avere una vita
insieme, ma non era cosa per un soldato e un detective privato. Al
massimo lo facevano quei vecchi omosessuali che gestivano esclusivi
negozi di antiquariato.
James continuava a fissarlo, soffiando fumo azzurrognolo a intervalli
regolari. Quante cose avrebbe voluto dirgli, Tom. Mi sei mancato.
Resta, per stanotte. Possiamo sistemarla insieme, la faccenda della
commissione d’inchiesta.
“Scopami,” disse.
James lasciò cadere la sigaretta nel bicchiere che usava come
posacenere e si chinò su di lui.
Note:
Grazie per aver letto fin qui!
Questa è una vecchia storia scritta per un NaNoWriMo, ispirata a 'Il
lungo addio' di Raymon Chandler e a 'L'ultimo caso di Umney' di Stephen
King, ma senza pretese È completa e mi spiaceva
abbandonarla senza averla mai pubblicata.
Non ne sono completamente soddisfatta: il titolo è particolarmente
stupido (ma è sopravvissuto per anni, ad almeno tre revisioni, quindi
restaXD), i riferimenti geografici sono abbastanza raffazzonati, il
periodo storico volutamente indefinito perchè all'epoca non volevo
perdermi in ricerche infinite invece di scrivere e raggiungere le mie
1667 parole quotidiane.
Inoltre, ai tempi non mi ero neanche posta il problema, ma ora mi
domando se io sia davvero la persona adatta a scrivere di un
personaggio bisessuale in un ambiente omofobo....spero di non urtare la
sensibilità di nessuno.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
II Capitolo
Il Maggiore Biggs lasciò il suo ufficio verso le tre e mezza, diretto
al suo albergo. Erano d’accordo di sentirsi durante il pomeriggio, dopo
l’incontro di James, che sarebbe stato a mezzogiorno.
Una volta rimasto solo, sapendo che non sarebbe più riuscito a dormire,
Tom cominciò ad organizzarsi la giornata.
Aveva in programma di visitare l’azienda di trasporti per cui lavorava
il padre di Maria Butler, lo scomparso Andy. Controllò nel fascicolo
che aveva creato il giorno prima l’indirizzo della società, anche se lo
ricordava a memoria.
Maria gli aveva anche consegnato una foto del padre. Nella foto l’uomo
era insieme alla figlia e doveva trattarsi di qualche occasione felice,
forse la cerimonia di diploma o una festa, perché la ragazza sorrideva
in un vestito a fiori delizioso quanto lei. Anche lui era vestito da
festa, con un completo a scacchi marrone.
I due non si somigliavano molto: Andrew Butler aveva la carnagione
chiara e gli occhi nocciola. Era di media corporatura, con fronte alta
e labbra sottili.
Non era particolarmente avvenente: Maria doveva essere il ritratto
della madre.
Tom non prevedeva di aver bisogno della foto nella sua visita al capo e
ai colleghi di Andy, ma non si poteva mai dire: la infilò nella tasca
del soprabito per essere certo di non dimenticarla.
Tergiversò fino alle sei, facendo avanti e indietro davanti alla
finestra che affacciava sulla Decima, fumando qualche cicca. Alla fine
andò a farsi la doccia. Si fece la barba e si vestì con calma, poi mise
su una caffettiera e mentre aspettava il caffè gettò le felci morte
dalla saletta d’aspetto. Bevve un tazzone di caffè dietro la scrivania
dell’ufficio, sorvegliando le pareti della stanza. Finalmente scese in
strada alle sette e cinquantadue e decise di prendere subito un taxi.
Normalmente avrebbe fatto una passeggiata fino davanti al cinema e
avrebbe fatto colazione in una tavola calda dall’altro lato della
strada, gestita da una burbera signora di mezza età che preparava le
migliori frittelle di mele della città e il caffè peggiore dello stato.
Ma quella mattina si sentiva dolorante e rigido, e i quattro piani di
scale che aveva già fatto gli bastavano.
Fermò un taxi con un gesto della mano e vi montò, serrando i denti
quando la schiena protestò improvvisamente.
“Dove vi porto in questa bella mattinata?” domandò il tassista.
Tom gli diede l’indirizzo.
“Nella zona industriale, eh? Non sembrate il tipo da lavori pesanti,”
commentò con piglio indifferente.
“Bisogna sempre fare nuove esperienze.”
Il tassista lo scaricò all’angolo della via desiderata.
La ditta di trasporti era perfettamente riconoscibile: l’ampio
parcheggio era pieno per metà e dalla zona di carico si sentiva
provenire un bel trambusto. Tom si avvicinò e attraversò il cancello
spalancato. Di fianco al portone di una delle rimesse due dipendenti
fumavano scambiando qualche battuta.
“Buongiorno. Cerco il proprietario, o chi organizza le consegne,” fece
Tom ai due quando fu a portata di voce.
I due rivolsero un’occhiata ai suoi abiti e al suo cappello: “Chi lo
cerca?”
Tom cacciò il tesserino: “Forse potete aiutarmi anche voi. Sto cercando
Andrew Butler. La figlia mi ha detto che lavora qui.”
I due uomini si scambiarono un’occhiata.
“Anche voi lo cercate? È venuta la polizia solo l’altro ieri,” rispose
uno.
“Finisce che ha combinato qualcosa, Andy,” fece invece l’altro,
scuotendo la testa.
“La figlia è preoccupata per lui,” corresse Tom. “Voi da quant’è che
non lo vedete?”
Il più anziano, che poteva avere quarantacinque o cinquant’anni,
difficile giudicare dalla pelle gialla di nicotina, si grattò una
guancia: “Sarà da mercoledì scorso, più o meno…sì, mi avevano spedito a
Santa Rosa, e quando sono tornato ho incrociato Andy. Sì, mercoledì,”
confermò, sporgendo leggermente in fuori il mento, come a sfidare
chiunque pensasse di contraddirlo.
Tom ne prese mentalmente nota.
“Voi lo conoscevate bene, Andy?” chiese ancora.
L’uomo si strinse nelle spalle: “Lavorava qui solo da sei o sette mesi.
Quanto si può conoscere un uomo, anche avendo il doppio del tempo?”
“Tanto da sapere che giocava d’azzardo, per esempio,” suggerì Tom.
Tirò fuori il pacchetto di sigarette e ne offrì.
L’altro tizio intervenne: “Qualche volta si giocava a poker, con Andy e
qualcun altro, giù al ritrovo vicino alla stazione soprelevata. Ma non
era niente di che.”
Tom gli chiese l’indirizzo con più precisione.
“Ve la chiesto anche la polizia, per caso?”
“A me nessuno ha chiesto niente, i poliziotti hanno parlato solo con il
capo, ma può benissimo averglielo detto anche lui. Ci viene anche lui
al ritrovo, di tanto in tanto…”
“Anche se non lo conoscevate intimamente,” cominciò Tom, scoccando
un’occhiata all’uomo più vecchio, “vi risulta che avesse debiti? Che
giocasse forte da qualche parte?”
Il più vecchio aprì le braccia, come a dire ‘tutto è possibile, io che
ne so?’
“Anche se non sembrava un uomo con dei debiti. A me è successo, e
credetemi, uno non se ne va in giro tanto tranquillo. È come avere dei
pesi attaccati alle suole delle scarpe, che ti tengono a terra. Hai
l’impressione che se volessi fare un salto non ti staccheresti dal
suolo di un centimetro.”
“Invece Andy se ne andava in giro bel bello? Sereno e cordiale?”
“Beh, più o meno. Non sembrava troppo crucciato, ecco.”
Tom li ringraziò e si fece indicare l’ufficio del capo.
Simon Harrow, il proprietario della ditta, era un tipo che lavorava
gomito a gomito con i suoi. Quando Tom si affacciò alla porta del suo
ufficio lo trovò con le maniche rimboccate sopra le braccia spesse,
intento a distribuire fogli dei turni ad alcuni dei suoi autisti,
gesticolando mentre dava istruzioni sul percorso e su come trattare la
merce.
“Che cavolo, non sono incudini, non sono mai incudini! Sono arance, per
Dio! Trattatele bene!”
Quando la distribuzione dei turni ebbe fine e gli autisti gli furono
sfilati davanti lanciando occhiate torve a quello sconosciuto in
soprabito, Tom entrò nel piccolo ufficio surriscaldato da
quell’assembramento di corpi.
“Signor Harrow? Il mio nome è Tom Ludlow, sono un investigatore
privato. Vorrei farle qualche domanda su Andrew Butler,” esordì, con il
tesserino già in mano.
Harrow si voltò a guardarlo di scatto, con irritazione: “Proprio voi,
mi mancavate stamattina. Ho un autista con un braccio rotto e con
quello scansafatiche di Andy fanno due uomini in meno, per me! Che
volete sapere?”
“Avete il ruolino delle consegne di Andy?” chiese Tom, svelto.
Meglio fare in fretta e non irritarlo ulteriormente.
“Sì, è qui. Me l’ha chiesto la polizia, l’altro giorno, e ancora non
l’ho rimesso a posto.” L’uomo glielo porse di malagrazia.
“Molto obbligato. Posso farne una copia?”
“Tenetevelo. Quando la polizia me l’ha chiesto ne ho fatte fare tre
copie dalla mia segretaria.”
Una bella fortuna.
“Ho solo bisogno di farvi un paio di domande, se potete concedermi
ancora un minuto.”
Harrow sbuffò: “Purché dopo vi leviate dai piedi più in fretta di un
randagio che ha finito di mangiare!”
Tom non colse il significato preciso della similitudine, ma doveva
essere perché non sapeva nulla di animali.
“Che voi sappiate, Andy ha dei debiti per gioco d’azzardo? Due dei suoi
ragazzi fuori mi hanno detto che ogni tanto giocavano a poker…”
“Che avesse un problema con il gioco è sicuro. A volte arrivava in
ritardo con le consegne o non si presentava qui al mattino. E dove
poteva essere se non a giocare? Non beveva, me ne ero accertato. Non si
possono mandare in giro autisti ubriachi con quei grossi camion. Voglio
dormire tranquillo, io. Però anche se gioca troppo, tanto da
dimenticare il resto, il lavoro, la figlia, mi sa che vince, quel
bastardo.”
Tom si fece attento: “Vince? Si può vincere una volta, o due. I
giocatori seriali giocano finché non hanno più niente da perdere…”
“Non so cosa dirvi. So solo che Andy non aveva bisogno di soldi.
Nell’ultimo mese abbiamo avuto un sacco di lavoro e gli ho offerto
delle consegne extra, pagate quasi il doppio. Ma lui ha rifiutato
entrambe le volte. Forse ha vinto una grossa somma e ora, come dite
voi, la vuole dilapidare tutta fino all’ultimo centesimo.” Scrollò le
spalle.
Tom lo ringraziò, ricevette un grugnito in risposta e lasciò la ditta
di trasporti.
Questo sì che era strano: Andy non aveva bisogno di soldi questa volta,
a quanto pareva. I risparmi di Maria erano al sicuro.
Ma se Andy non si nascondeva dagli strozzini, da chi si nascondeva?
Non era comunque da escludere, come aveva detto il suo capo, che Andy
avesse avuto un colpo di fortuna e fosse rintanato da qualche parte, a
farsi cadere gli occhi davanti alle slot machine di un casinò di
quart’ordine. O magari il colpo era stato tanto grosso da catapultarlo
su una spiaggia tropicale in compagnia di una bella donna, con in mano
drink elaborati serviti da camerieri ossequiosi. Ma non era affatto
probabile.
E poi, sarebbe sparito senza dire nulla alla figlia? Secondo Maria era
un padre presente e dalla foto che la ragazza gli aveva consegnato Tom
avrebbe detto che quell’uomo adorava sua figlia.
Stava morendo di fame e non c’era un taxi nel raggio di un chilometro,
sembrava. Per fortuna la schiena andava meglio. Non era ancora
decrepito.
Pensò di incamminarsi verso la stazione sopraelevata, a un isolato di
distanza, dove gli uomini della Quicktrans avevano il loro punto di
ritrovo, come buona parte degli operai della zona.
Il posto non era niente male. Era su due piani, probabilmente sopra si
trovavano un paio di tavoli verdi e magari un biliardo. Il piano terra,
stretto e allungato come un corridoio, era adibito a tavola calda e a
quell’ora del mattino, con tutti gli uomini onesti già al lavoro, era
quasi deserto. Gli unici clienti erano un vecchio seduto in fondo al
locale che faceva colazione con quella che sembrava una pinta di birra
scura e due sfaccendati seduti davanti alla vetrata che dava sulla
strada.
I due lo fissarono, il vecchio non distolse lo sguardo dalla sua birra.
Tom fece un cenno all’uomo dietro il bancone e si sedette a tre
tavolini di distanza dai due sfaccendati, in modo da averli davanti.
Aveva l’ubriaco alle spalle, così, ma non se ne preoccupava più di
tanto: difficilmente un ubriaco riesce a muoversi senza far rumore.
Quando un cameriere dall’aspetto burbero si avvicinò, Tom ordinò uova e
pane tostato con una tazza di caffè.
Osservò il posto attentamente, valutando il cameriere e il cuoco che si
affacciò dalla cucina con la sua ordinazione.
Comunque si guardasse, il ritrovo non aveva l’aspetto di una bisca. Ma
visto che era lì, meglio aprire la bocca e chiedere. Prima però mangiò
di gusto. Non era tipo da saltare la colazione.
Quando smise di sentire quella sgradevole sensazione di vuoto nello
stomaco si ritrovò improvvisamente di buon umore. Salutare James
l’aveva un po’ buttato giù, ma ora che era sazio gli pareva di
avvertire tutti i benefici di una notte di sesso. Finì di sorbire il
caffè con uno sguardo soddisfatto.
Si avvicinò al bancone per pagare, appoggiandosi parzialmente a uno
sgabello mentre tirava fuori il portafoglio.
“Dalla vostra faccia direi che la colazione vi è proprio piaciuta,”
commentò il cameriere prendendo i soldi.
“La migliore della settimana,” confermò Tom, sorridendo.
Poi mostrò il tesserino.
Il cameriere aggrottò la fronte e poi lo fissò facendo un passo
indietro, quasi che Tom avesse tirato fuori un mazzo di carte e stesse
per esibirsi in qualche gioco di prestigio.
Chiese di Andrew Butler, detto Andy, e il cameriere disse che lo
conosceva di vista, più che altro, perché veniva ogni tanto con dei
clienti di lunga data.
“I dipendenti della ditta di trasporti?”
Il cameriere confermò. Sì, giocavano a carte, se a soldi non lo sapeva.
Sì, Andy non voleva mai smettere, invocava sempre un’ultima mano, ma
non aveva mai dato problemi. Non si ubriacava mentre giocava e non dava
in escandescenze quando perdeva. Un tipo normale, insomma.
Tom rifletté un attimo, tamburellando le dita sul bancone, poi sorrise
al cameriere e aggiunse una mancia ringraziando ancora per l’ottima
colazione. Ruotò lo sgabello e saltò giù, attraversando il locale fino
alla porta prima che i due sfaccendati vicino alla vetrata finissero di
districarsi dal loro tavolino per impicciarsi dei suoi affari perché
lui si impicciava dei loro. Passando loro accanto li salutò toccandosi
il cappello.
Una volta fuori sostò per trenta secondi sul marciapiede, aspettando di
vedere se lo avrebbero seguito fuori. Ma quelli rimasero a fissarlo
dalla vetrata, uno alzato per metà, l’altro appoggiato con le mani al
tavolino. Poi lentamente tornarono a sedersi. Tom si incamminò verso la
stazione.
Quindi la polizia aveva cercato Andy al lavoro, ma aveva parlato solo
con il suo capo. Con tutta probabilità si erano limitati a chiedergli
da quanto il tipo non si faceva vedere al lavoro e di consegnare il
ruolino delle consegne.
Il suo collega diceva di averlo visto mercoledì, e Maria aveva
appuntamento con lui il venerdì. Appuntamento che l’uomo aveva mancato,
quindi doveva aver preso il volo tra mercoledì notte e giovedì, o
venerdì stesso.
Chissà da quando non lo vedeva il suo padrone di casa?
Comprò un biglietto cittadino per la zona est, dove Andy viveva, e in
treno studiò l’elenco delle consegne dell’ultimo mese che Harrow gli
aveva dato.
Andy era stato fuori due giorni per una consegna a sud della città, a
cavallo del 31. Aveva passato la notte di halloween guidando, stando a
quanto risultava.
Era stato fuori città un altro paio di volte e aveva girato in lungo e
in largo ogni angolo di L.A.
Erano segnati numerosi ritardi, accanto all’orario di rientro e a
quello di inizio del suo turno. Il suo capo riteneva che si fermasse da
qualche parte a giocare.
Chissà perché non l’aveva licenziato. Forse perché trovare un uomo che
non bevesse troppo era difficile. Un giocatore compulsivo era una
seccatura, ma almeno Simon Harrow poteva dormire sonni tranquilli.
Scese nel quartiere di Boyle Heights alle dieci e mezza del mattino. Il
quartiere era molto popolato e si vedeva parecchia gente in giro
rispetto alla zona industriale. Giusto fuori dalla stazione tre
ragazzini che avevano saltato la scuola giocavano a colpire una fila di
barattoli con delle pietre.
Tom non aveva molta simpatia per i ragazzini. Se un uomo ti fa girare
le scatole, gli molli un pugno, ma con i ragazzini bisognava
trattenersi…erano solo bambini, alla fine. Uno dei tre fece un pungente
commento sul suo aspetto e Tom gli lanciò un’occhiata che avrebbe
inchiodato a terra una tigre pronta a balzare. Ma quello si limitò a
ridacchiare con i suoi amici.
Andrew Butler abitava in uno squallido residence di tre piani che aveva
urgente bisogno di una riverniciata e di una disinfestazione. O di un
incendio, se uno era per le misure drastiche.
Tom entrò, cedendo il passo a una massaia con la faccia da bulldog che
tuttavia rispose cortesemente al suo saluto.
Il portiere era un tipo basso e sottile, quasi calvo tranne che per due
ciuffi di capelli marrone slavato arruffati dietro le orecchie. Leggeva
una rivista tendendola stretta come se volesse farle sputare qualcosa e
quando Tom richiamò la sua attenzione gli rivolse uno sguardo di
profondo disprezzo.
“Che vuole?” chiese accartocciando il suo giornale.
“È lei il padrone di casa?” domandò Tom.
“Sì, sono io. Chi lo vuole sapere?”
Tom mostrò il tesserino.
“Investigatore privato,” lesse l’uomo ad alta voce. “E che diavolo
vorrebbe?”
“Parlare di Andrew Butler. Da quanto tempo non si fa vivo?”
“Sono già venuti due agenti della polizia a cercarlo. Lei non è della
polizia. Se ne vada all’inferno,” lo apostrofò l’uomo, prima di
riprendere la martoriata rivista.
Tom ripose il tesserino facendo spallucce. Se il tipo se le cercava,
lui era lì a disposizione.
“È vero, sono solo un investigatore privato. A differenza della
polizia, non posso contare sul suo dovere di cittadino di collaborare,
quando possibile,” fece con tono suadente, sporgendosi sul bancone
della reception. “Ma esattamente come la polizia posso rendere le cose
molto difficili, quando qualcuno si rifiuta di rispondermi.” Sfoggiò il
suo sorriso più accattivante. “Potrei denunciarla per violazione delle
direttive antincendio della città, o per violazione di quelle
sanitarie-non importa che sia vero, solo un’insinuazione le costerebbe
guai a non finire: quelle ispezioni finiscono sempre per trovare
qualcosa non in regola-o potrei limitarmi a prenderti per il collo e
scrollarti un po’. Farei molto prima,” concluse con voce dura.
La sua mano si strinse sul bavero dell’uomo, senza tirare.
Non aveva nessuna intenzione di colpirlo, alla fin fine si trattava
solo di un maleducato, ma diavolo, quanto lo facevano uscire dai
gangheri i maleducati.
L’uomo si scostò da lui e Tom non fece nulla per trattenerlo.
“Che razza di gente violenta che se ne va in giro! Ma cosa è diventata
questa città?” si lagnò il portiere.
Tom si raddrizzò: “Ho chiesto gentilmente, ma lei mi ha mandato al
diavolo.”
Si sistemò un polsino della camicia.
“E va bene! Che vuole sapere? Andy l’ho visto andare via mercoledì
mattina.”
“Era l’orario in cui andava al lavoro?”
L’uomo fece una smorfia: “Forse, che ne so. Era abbastanza presto. L’ho
detto agli agenti.”
“Butler aveva qualcosa con sé? Una valigia, un borsone?”
“No, nulla.”
Tom accennò al piano di sopra: “Gli agenti sono saliti a dare
un’occhiata?”
“Sì, gli ho aperto io col mio passe-partout. Non ci hanno messo molto.
Hanno detto di avvertirli se Butler fosse tornato.”
“Hanno sigillato l’appartamento?” chiese Tom.
Se avessero trovato qualcosa probabilmente l’avrebbero fatto.
“No. Ma mi hanno detto di non far entrare nessuno. Ma se quello non
torna io devo svuotare l’appartamento. Non posso permettermi di
lasciarlo tanto da affittare!”
Tom meditò se cercare di convincere l’uomo a fargli dare un’occhiata,
ma rinunciò. Maria avrebbe potuto chiedere l’autorizzazione a chi si
occupava delle indagini- un certo sergente Bayles- e a quel punto lui
l’avrebbe accompagnata.
“Avete perso l’affitto?” domandò al portiere.
Quello scosse la testa: “L’affitto è pagato, per questo mese.”
“Butler era mai in ritardo con i pagamenti? Mi hanno detto che era un
giocatore.”
“Stava qui da quattro mesi e ha sempre pagato. Lo so che era un
giocatore, gli piaceva chiacchierare. Ogni tanto annunciava che andava
a tentare la fortuna al Tahiti Bar.”
Tra i locali che aveva nominato Maria il Tahiti Bar non c’era. Quello
sì che era un posto promettente.
Salutò cortesemente il portiere, perché ai maleducati bisogna sempre
dare il buon esempio, e lasciò l’edificio. Per un meraviglioso colpo di
fortuna trovò subito un taxi e si fece portare in ufficio.
Una volta tra le mura del suo rifugio, dato che nessun cliente lo
aspettava si diede alle pulizie. Prima le felci morte, ora questo.
Avrebbe finito davvero per chiamare un’arredatrice e rifare tutto
l’attico.
Una volta soddisfatto pensò di chiamare Maria Butler all’ufficio
contabile, prima che uscisse per la pausa pranzo. Rispose una voce
femminile leggermente impersonale che gli passò Maria dopo pochi
secondi.
“Qui è Tom Ludlow, signorina Butler. Spero di non creare problemi,
chiamandovi al lavoro.”
“No, no, signor Ludlow. Sono stata io a darvi il numero, in fin dei
conti. Avete delle buone notizie per me?” chiese, con voce speranzosa.
“Desolato di dovervi deludere, non mi è riuscito nessun miracolo, in
meno di ventiquattr’ore.”
“Ha ragione, che sciocca che sono. Non avrete avuto il tempo di fare
molto…”
“Voi non avete novità? Vostro padre non si è fatto vivo, magari da
fuori città?”
Lei disse di no. Tom le raccontò della sua mattinata.
“Vi siete dato molto da fare, signor Ludlow,” commentò lei. “Ve ne sono
molto grata.”
“Purtroppo senza grandi risultati. Ma siamo solo all’inizio. A questo
proposito, ho un favore da chiedervi. La polizia ha controllato
l’appartamento di suo padre a Boyle Heights: potrebbero aver
tralasciato qualcosa. A me non è concesso entrarci, ma voi potreste.
Dovreste telefonare al sergente Bayles, e domandargli l’autorizzazione
ad entrare nell’appartamento. Ditegli che dovete ritirare degli effetti
personali, o qualsiasi altra cosa vi venga in mente. Si occuperà lui di
avvisare il padrone di casa.”
Meglio giocare secondo le regole. I poliziotti diventano insopportabili
quando snobbi la loro procedura.
“Io vi accompagnerei a visitare l’appartamento, ovviamente. Se non vi
crea problemi prendere un paio d’ore di permesso dall’ufficio…”
continuò.
“Temo che oggi non sarà possibile. Devo dare un minimo di preavviso,”
rispose Maria, angosciata.
“Nessun problema. Va benissimo anche domani. Potete chiamare Bayles
oggi, così saremo sicuri che per domani sarà tutto a posto.”
Alla fine, Andrew Butler era scomparso da quasi una settimana. Non è
che ormai qualche ora in più o in meno facesse molta differenza.
“D’accordo. Prenderò un paio d’ore di permesso a ridosso della pausa
per il pranzo, domani, se per voi va bene.”
Tom la ringraziò e le promise che sarebbe passato a prenderla in taxi,
alle undici del giorno dopo. Lei gli diede l’indirizzo dello studio
contabile e si salutarono.
Tom si abbandonò contro lo schienale della sua poltrona, riflettendo su
Andy Butler, l’uomo fuggito dai debiti che non aveva.
Gettò uno sguardo all’orologio che segnava mezzogiorno in punto.
James era sicuramente alle prese con il suo incontro informale. I
militari sono gente molto puntuale. Pensare a James lo portò a
riflettere sull’assalto al camion che trasportava armamenti. Gli
vennero un paio di dubbi e pensò di informarsi meglio sulla faccenda,
quando James si fosse fatto vivo.
Aggiornò il dossier del caso Butler e a mezzogiorno e trenta decise di
andare a mangiare un boccone.
Prima di uscire tirò fuori il suo abito scuro da sera. Aveva progetti
per la nottata.
Note random che ho dimenticato di inserire nel primo capitolo:
La storia è già terminata e non avrebbe senso tirare per le lunghe la
pubblicazione, quindi pensavo di postare ogni 4/5 giorni.
Tom Ludlow è il nome del protagonista del film 'La notte non aspetta'
che (stranamente) adoro. Dev'essere per via di Keanu Reeves.
Comunque, moltissimi nomi sono scippati da libri/film/fumetti, qualcuno per
citazione, qualcuno perchè non mi veniva in mente altro e per non
bloccarmi ho usato quello che avevo sotto gli occhi al momento della
scrittura. Non credo avrebbe senso cambiarli ora...Se cogliete le
citazioni fatemelo sapere!
La lunghezza dei capitoli non è molto omogenea, ma di mostruosamente
lunghi come il primo ce ne sono solo un paio, credoXD
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
III Capitolo
Rimase lontano dall’ufficio appena per un’ora, che giudicò il tempo
minimo per l’incontro di James. Una volta tornato si preparò ad
aspettare la sua telefonata.
Il pomeriggio trascorse in un vortice di noia e routine.
Ricevette qualche telefonata, una da un’agenzia di recupero crediti che
talvolta si avvaleva dei suoi servigi, una da un cliente che fissò un
appuntamento per la settimana successiva e infine una per un sondaggio
telefonico. Avrebbe anche potuto rispondere, ma l’argomento era davvero
troppo cretino.
Alle tre e mezzo non aveva ancora ricevuto notizie da James e provò a
telefonare al suo albergo, ma lo informarono che il Maggiore Biggs non
era ancora rientrato. Gli chiesero se voleva lasciare un messaggio.
Rifiutò.
Passò un amico a trovarlo in ufficio e lo invitò a bere qualcosa per
quella sera. Si chiamava Stuart Weizman. Era un tipo sempre allegro, di
quelli che possono raccontarti le loro peggiori disgrazie ridendoci su.
Tom non riusciva mai a capire se enfatizzasse i suoi problemi per
rendere il racconto più interessante o possedesse davvero la capacità
di assorbire tutti i colpi della vita con tale leggerezza e noncuranza.
“Bisogna coltivare il senso del ridicolo,” diceva talvolta Stuart,
sollevando un angolo della bocca come se gli scappasse da ridere.
Tom faceva del suo meglio per provarci, ma quella sera non era il caso.
Declinò l’offerta e Stuart non se la prese.
“Berrò con Winnie alla tua salute,” gli promise.
“Fa sempre piacere, qualcuno che pensa alla mia salute,” rispose Tom.
James lo chiamò alle cinque. “Sono appena arrivato in albergo.”
“Lo so, ho provato a chiamare, prima…dunque?”
A giudicare dal tono dell’altro non si aspettava grandi notizie.
“La situazione non è molto a mio favore,” rispose James con le mascelle
contratte. Tom poteva avvertirlo dall’altro capo del telefono.
“Così nera, eh? È venuta fuori qualche altra novità?”
“Niente che non sapessi già o a cui non fossi arrivato da solo. Ho
autorizzato la partenza del convoglio, quindi ne sono responsabile. Non
ho ordinato che la scorta fosse più numerosa. La data del trasferimento
era nota solo alla mia sezione: se c’è stata una fuga di notizie è
partita da noi. Le misure che applichiamo per evitare queste evenienze
sono quelle standard, e in un caso del genere avrei dovuto rendermi
conto della loro inadeguatezza, tenuto conto dei fattori che conoscevo:
il percorso poco sicuro, la scarsità di uomini, il valore del carico,
il prestigio di tutta la base di Encino,” concluse il rapporto con voce
amara.
“Ma ci sono anche molti fattori di cui non potevi essere a conoscenza,
come il fatto che la scorta sarebbe stata composta solo da pivelli,
invece che da veterani.”
“Sì, quello non dipendeva da me. Ma dubito che sarà sufficiente. Lo
sarebbe forse se le indagini avessero portato a qualcosa…ma non abbiamo
nulla.”
Ora il suo tono era di nuovo normale. Tom se ne rallegrò un poco.
“C’erano un paio di cose che ti volevo chiedere,” cominciò, “per
esempio se avete ritrovato il camion.”
“Il camion? No. Lo hanno usato per portare via le armi, scaricarle
sarebbe stato troppo lungo. Si parla di trecento pezzi tra armi di
medio calibro, fucili d’assalto, qualche mitragliatore. Roba per un
valore di cinquecentomila dollari.”
“Ma potrebbero averle caricate su un altro mezzo più tardi e aver
abbandonato il mezzo militare da qualche parte. Di sicuro dava
nell’occhio e voi avete tenuto sotto controllo le strade verso il
confine.”
“Sì, si era parlato di un’ipotesi del genere, perché siamo certi che il
mezzo non ha passato il confine. Ma non cambia molto.”
“Forse hai ragione. Un’altra cosa: hai detto che hanno sparato
all’autista. Quindi qualcuno di loro si è messo alla guida. Quanti
erano?”
“I testimoni non concordano, su questo…quattro li tenevano sotto tiro e
forse tre uomini stavano vicino alla cabina di guida del camion. Ma
potevano essere di più o di meno. Ma anche questo non ci aiuta. Un
gruppo numeroso avrebbe dato nell’occhio, si saranno sicuramente divisi
dopo il colpo.”
“Intendevo dire che uno di loro doveva essere in grado di guidare quel
camion. E se tra di loro c’era un autista, l’omicidio del conducente
era premeditato.”
“Beh, sì. Ma non credo che avessero intenzione di sequestrare il
conducente, non sarebbe stato prudente. La situazione poteva farsi
imprevedibile.”
“Hai ragione, ha senso. Ma continua a sembrarmi strano: portano via il
camion, al confine nessuno lo vede, ma non viene ritrovato da nessuna
parte.”
James rimase in silenzio.
“Se non fosse andato verso il confine? Se si fossero spostati a nord
per far calmare le acque prima di provare ad attraversare? Le strade
per il Messico sono tutt’ora sorvegliate, vero?”
“Sì, certo. Possiamo provare ad estendere le ricerche a nord…chissà che
il camion non salti fuori. Una proposta del genere potrebbe farmi
guadagnare un po’ di tempo con la commissione, ma non nega comunque la
mia responsabilità per quello che è successo.”
“Un buon avvocato…” cominciò Tom, ma James lo interruppe.
“È la sanzione disciplinare che mi preoccupa. Potrebbe costarmi il
congedo.” Tom udì l’amico schiarirsi la voce. “Senti, lasciamo perdere,
per questa sera. Sono a pezzi e non ho più voglia di parlarne. Il tuo
caso?”
“Senti, James, se vuoi che me ne occupi posso trovare un paio di
colleghi che vengano con me a dare un’occhiata a sud. Male non può
fare.”
“Non servirebbe a niente. Impossibile che scopriate qualcosa prima di
venerdì. Lascia perdere.”
“D’accordo. Vuoi venire a bere qualcosa prima di cena? Dopo pensavo di
fare un salto in un locale che sembra piacesse al mio cliente, mentre
uno della commissione gioco d’azzardo avrebbe molto da ridire. Mi pare
promettente.”
“Mi dispiace, ma non sarei molto di compagnia stasera. Ci vai da solo,
in quel locale? È prudente?”
“Darò solo un’occhiata, sarò la discrezione fatta persona. Non prevedo
guai.”
“Posso venire a guardarti le spalle,” si offrì James.
“No, non è il caso. Da solo mi mimetizzerò meglio con l’ambiente.
Inoltre, solo il tuo taglio di capelli mi attirerebbe addosso tutti i
gorilla del posto.”
James rise un poco: “Sta’ attento.”
“Tu resta ottimista, se ci riesci.” Tom strinse più forte la cornetta,
sentendosi un poco in imbarazzo: “Possiamo vederci, domani?”
“Domattina starò smaltendo la sbornia che sto per prendermi. A cena?”
“A cena,” rispose Tom, con un sorriso. “Ti ubriachi in albergo?
L’esercito non sarà soddisfatto della tua nota spese.”
“Hanno altre grane, per stare a discutere di quello che mi piace bere.
A domani.”
“A domani.”
Riagganciarono.
Tom fissò dubbioso il ricevitore per qualche minuto. Non capiva perché
James non volesse permettergli di indagare sulla faccenda.
Forse per la stessa ragione per cui a lui dava fastidio che James si
impicciasse troppo della sua faida con Kuntz. Un misto di orgoglio,
paura di uscirne sminuito agli occhi dell’altro, un po’ di
consapevolezza di essere parzialmente in torto.
Non poteva certo costringere James ad accettare il suo aiuto.
Era parte del loro accordo: in quanto amici potevano sì appoggiarsi
l’uno all’altro, ma non dipendevano l’uno dall’altro. C’era una sottile
differenza, che in questo caso comportava che Tom rimanesse in disparte
a guardare la caduta dell’amico.
Si preparò per andare a cena. Se c’era una cosa di cui sentiva la
mancanza nella stanza sul retro era uno specchio vero e proprio, oltre
a quello in cui si faceva la barba. Ci sarebbe voluto uno specchio a
figura intera. Ma tanto sapeva già di essere fantastico, con quel
vestito.
Infilò la rivoltella, una piccola calibro 35, nella tasca interna dalla
sua giacca. Prese il solito soprabito e scese in strada.
Si incamminò verso il ristorante italiano all’angolo con la sedicesima.
Era il preferito di Butch Morrison. Quand’era vivo cenavano lì una sera
sì e una no. Butch, e Tom con lui, era di casa. Anni prima aveva
aiutato il proprietario con un brutto guaio e da allora i due erano
diventati amici.
Entrare ‘Da Tony’ per Tom era piacevole e allo stesso tempo più
doloroso di un pugno nello stomaco, da quando Butch era morto.
Tony Morello lo accolse come un nipote che non vedeva da troppo tempo.
“Sei elegante questa sera, Tom. Un incontro galante?” gli chiese,
facendolo accomodare al tavolo che lui e Butch occupavano più spesso.
Tom sorrise: “Magari. Vado in un locale, dopo. Vedremo cosa mi
riserverà la sorte.”
Tony gli scoccò un’occhiata severa: “È per lavoro?”
Era davvero incredibile come quell’uomo riuscisse da quasi dieci anni a
farlo sentire come un monellaccio che ha appena risposto male.
“Sì, in effetti sì.”
“Perché non ti trovi un socio, figliolo? Sono sicuro che sarebbe meno
faticoso e soprattutto meno pericoloso.”
“Non vado a fare nulla di pericoloso. Lo giuro.”
Era già la seconda volta che lo diceva. Si stava tirando addosso una
sfiga pazzesca, di sicuro.
Tony prese la sua ordinazione ˗spaghetti e pollo al forno˗ e lo lasciò
solo.
Da quel tavolo Tom poteva contemplare una foto di Butch, scattata in
quello stesso luogo circa tre anni prima.
Lui e il suo partner stavano festeggiando la risoluzione di un caso.
Tony aveva offerto loro del vino e poi aveva tirato fuori la macchina
fotografica che Butch gli aveva regalato quando ne avevano acquistata
una più moderna per il lavoro. Tony si era appassionato di fotografia e
ogni tanto la macchina saltava fuori. Tra le foto di quella sera due o
tre erano finite nell’ufficio nell’attico e una era appesa al muro ‘Da
Tony’. Il suo vecchio socio si stringeva nelle spalle sorridendo, con
gli occhi che brillavano di divertimento e per il vino.
Era un’immagine che metteva allegria e Tom la adorava. Quasi gli
sembrava di cenare di nuovo insieme a Butch.
Quando Tony venne a portargli il caffè in una piccola tazza di
porcellana anche lui rimase qualche istante a fissare la foto.
“A volte proprio non ci si spiega perché si debbano perdere degli
amici. È difficile digerire quello che ti dicono in chiesa, le menzogne
che fanno da colonna sonora ai funerali. Ed è un tale dolore vederti
seduto da solo a quel tavolo, ragazzo.”
“Me la cavo bene. Sono un uomo adulto,” gli ricordò Tom, bonariamente.
Bevve il suo espresso.
“Già,” concordò l’uomo, con tono poco convinto.
“Mi serve la macchina di Butch, stasera,” fece Tom, scrollando il
vecchio dalla malinconia.
C’era un piccolo parcheggio dietro il ristorante. Il suo socio aveva
affittato un posto anni prima e Tom continuava a pagare. Ogni tanto la
macchina gli tornava utile. Dato che ufficialmente era intestata alla
loro agenzia di investigazioni, alla morte di Butch era passata a Tom
senza formalità.
“Ma sicuro. L’ho fatta lavare da poco da quel ragazzetto nuovo che ho
assunto. A dir la verità, la uso come punizione: fila a lavare la
macchina del signor Ludlow! E bada di fare un buon lavoro, o ti farà
arrestare!” Rise di gusto.
Quanto a Tom, non era molto soddisfatto di essere usato come
spauracchio. A Morrison riusciva sicuramente meglio, grande e grosso
com’era.
“Cerca di venire più spesso” gli raccomandò Tony quando l’accompagnò
all’uscita, riuscendo ancora di più a farlo sentire un moccioso.
Tom lo salutò con la mano, facendo tintinnare le chiavi della vecchia
Oldsmobile di Butch.
Guidò fino a tre isolati dal Tahiti Bar, poi parcheggiò la macchina a
un lato della strada e fermò un taxi per farsi portare fino al locale.
Il tassista borbottò per la corsa breve, ma già mentre si fermava
davanti alle luci al neon dell’insegna dell’edificio un uomo e una
donna gli fecero un cenno. Corsero al taxi tenendosi per mano, senza
quasi dare a Tom il tempo di scendere. Sembravano piuttosto brilli.
Tom studiò la facciata del locale. Un paio di vetturini si occupavano
di tenere gli sportelli aperti alle signore e poi parcheggiavano le
belle auto sportive su cui erano arrivate, sotto la luminescenza
dell’insegna che annunciava il nome del locale, accompagnato da un
fiore tropicale. Ai lati dell’ingresso palme nane facevano le veci di
colonne in marmo bianco.
Tom passò con disinvoltura tra due corpulenti uomini che accoglievano i
clienti dopo le palme. Uno gli augurò buona serata.
Una volta dentro, Tom si prese qualche secondo per darsi un’occhiata
intorno.
Il Tahiti Bar aveva deciso di sfruttare al massimo il suo nome. Gli
arredi non avrebbero sfigurato in un locale sulla spiaggia in
Polinesia. Tavolini in legno esotico, piante dalle foglie grosse e
lucide, porte seminascoste da cascate di rampicanti finti, in seta e
stoffa. Il bancone dove si servivano gli alcolici sembrava intagliato
nella roccia vulcanica. L’effetto era amplificato dalle luci aranciate
sapientemente nascoste nelle corolle di grossi fiori dai colori accesi.
Sul palco un cantante italiano con una giacca sgargiante e la sua band
suonavano un mambo. Qualche coppia ballava, costringendo le cameriere
ad evitarli abilmente, mentre reggevano i vassoi con le ordinazioni.
Tutte le ragazze che servivano ai tavoli avevano i capelli scuri e
lisci e la carnagione abbronzata; portavano tra i capelli fiori come le
donne dei dipinti di Gauguin, ma Tom dubitava che anche solo una di
loro fosse polinesiana.
Si avviò al bancone del bar, ancora poco affollato a quell’ora e chiese
il drink della casa.
“Prima volta a Tahiti?” domandò il barista, giovale.
Tom ammise di sì.
Gli venne servito una complicata bevanda alla frutta, con delle
decorazioni di scorza di limone e ananas fresco.
“Ma è delizioso…” gli scappò di bocca prima che potesse trattenersi.
“Assaggiatelo. È più forte di quello che sembra,” lo incoraggiò il
barista.
Era vero: il cocktail era sia dolce che aspro, ma l’alcol si faceva
sentire comunque. Non era affatto male.
“Fa per me,” stabilì Tom sorridendo.
Continuò a bere, studiando gli altri avventori del Tahiti Bar.
Sui tavoli i drink colorati si affollavano. L’ambiente era decisamente
rumoroso e movimentato. Gli avventori continuavano ad alzarsi e a
raggiungere altri gruppi ai tavoli più grandi o si dirigeva verso la
pista, dove ora la band aveva attaccato uno swing.
Il bar si fecce affollato in un attimo, non appena la musica fece una
pausa. Accanto a Tom si lasciò cadere seduta una biondina con un
vestito che pareva acqua in un ruscello, con la scollatura ricoperta di
brillanti. Appariva molto accaldata.
“Qualcosa da bere, Marv, prima che muoia soffocata!” gridò con gioia.
Buttò giù quello che le venne servito come fosse stata davvero acqua.
Quando si fu ristorata Tom fu rapido ad accenderle una sigaretta.
“Grazie. Mamma mia quanto ho ballato! Non credo che potrò farvi
compagnia sulla pista per ringraziarvi, signor?”
Tom si presentò, stringendole poi la mano.
“Nessun problema, signorina. Potete farmi compagnia per un drink e
riposare i piedi.”
Lei rise: “Sono Annette Baker, signor Ludlow e credo che berrò un
Martini.”
Tom ne ordinò due.
“Voi non eravate mai venuto qui prima, non è vero? Io conosco tutti qui
dentro,” fece lei, scrutando il suo viso come per un riconoscimento
alla stazione di polizia.
A Tom venne spontaneo farle vedere anche l’altro suo profilo e lei rise
di nuovo.
“In effetti è la prima volta che vengo qui, signorina Baker. Sembra un
posto gradevole per un ballo, a patto che si trovi una ragazza meno
stanca di voi.”
“Oh, è un posto gradevole per molte cose,” rispose lei sorseggiando il
suo martini. “Per le ragazze vestite come nei quadri di quel pittore,
ad esempio. Moltissimi uomini qui dentro ne vanno pazzi. Danno quel
tocco esotico in più, ma sono finte come quelle statue di idoli pagani
in cartongesso. Nessuna di loro è hawaiana.”
“Credo che le donne di quel pittore fossero polinesiane,” corresse Tom.
“Che importa?”
“Niente, in effetti. Perché vi dà tanto fastidio? Il vostro fidanzato
le guarda troppo?”
La ragazza fece spallucce: “Lui apprezza altre cose di questo posto.
Come sa che sono con il mio fidanzato?”
“Una ragazza così carina deve avere un fidanzato. Non era con voi sulla
pista da ballo?”
Lei scosse la testa: “Il mio fidanzato è sparito dietro una tenda non
appena siamo arrivati. Ma faccia pure, mi divertirò con i miei amici e
quando tornerà scornato lo pianterò in asso come ha fatto lui con me.”
“Sparito dietro una tenda? Ci sono altre sale?” chiese Tom, con
studiata noncuranza.
“Allora è davvero la prima volta che venite qui!”
Annette si sporse verso di lui con aria cospiratrice.
“Vedete quella porta?” gli chiese, indicando con il mento un passaggio
dietro una delle cascate di rampicanti che Tom aveva notato entrando.
Lui annuì.
“Beh, lì si gioca d’azzardo. Il mio fidanzato lo fa ogni volta che
veniamo qui. Perde un sacco di soldi e poi è così intrattabile! Mi fa
venire voglia di piantarlo qui e andarmene con un altro,” asserì
Annette, senza scostarsi dal braccio di Tom.
Lo fissò intensamente, per quanto riuscisse con gli occhi un po’
annebbiati dalla leggera sbronza.
“Non merita una seconda occasione, il vostro fidanzato?” le chiese Tom,
invece di baciarla.
Lei fece una smorfia.
“Ha avuto dozzine di seconde occasioni. Oh, no! I miei amici! Mi
ritrascineranno a ballare. Dovete aiutarmi!” gli disse ridendo, mentre
l’orda di amici e amiche la sollevava quasi e la trasportava di nuovo
sotto il palco.
Tom le rivolse un cenno di solidarietà, prima di tornare a girarsi
verso il bancone.
“Siete un tipo fascinoso. Non ci avete messo niente a trovare
compagnia. Perché ve la siete lasciata sfuggire?” gli domandò il
barista, con vago tono di rimprovero.
“Preferisco quando non ci sono fidanzati di mezzo, ecco tutto,” gli
rispose Tom, finendo il drink e lasciando la mancia.
Si alzò e si avvicinò ai tavolini. Ne scelse uno un po’ in disparte,
alle spalle di un gruppo numeroso e si mise ad osservare le porte
dietro le tende di rampicanti.
Ogni tanto qualche avventore vi scompariva attraverso e le ragazze in
costume polinesiano ne emergevano con vassoi di bicchieri vuoti. Tom
aspettò che la musica finisse e, nella ressa di corpi che si
affannavano per raggiungere il bar o le toilette e di ballerini che
riguadagnavano i loro tavoli, si affrettò a farsi inghiottire dalla
penombra del corridoio dietro i fiori finti.
Non incontrò nessuno nel corridoio, né dovette appiattirsi contro il
muro per far passare una cameriera carica di bicchieri e insofferenza
per i clienti ubriachi e invadenti.
Già dopo pochi passi i rumori provenienti dalla sala principale parvero
venire risucchiati dalla penombra e quando il corridoio curvò a destra
sparirono del tutto. Persino le percussioni che provenivano dal palco
erano poco più di un brusio.
In compenso, davanti a lui sentiva del movimento e voci contenute:
dietro una pesante tenda di velluto rosso trovò la sala da gioco
segreta del Tahiti Bar.
La stanza era più grande di quanto si sarebbe aspettato e non era
niente di così volgare come una bisca clandestina (cosa che
nominalmente era). I tavoli da poker erano immersi in quel silenzio
spettrale che tipicamente si instaura tra uomini cui le convenzioni non
impongono la conversazione. Avvolti nelle loro nubi di fumo brumoso,
gli occupanti dei vari tavoli seguitarono a giocare, ignorando Tom che
era appena entrato e chiunque fosse intorno a loro, quasi che non si
trovassero in realtà in un locale chiassoso e affollato, a pochi passi
da dove molti ballavano e si godevano la serata.
Tom si chiese quale fosse il fidanzato di Annette, in ostaggio dei suoi
amici sulla pista da ballo, nel suo splendido abito da sera che tanto
invogliava a lasciarle scivolare gli occhi addosso. Forse il tipo era
uno dei giocatori di poker o magari si trovava al tavolo del back jack,
in fronte a uno dei croupier in gilet e farfallino.
Le donne erano molto poche, due o tre che sembravano lì per la stessa
ragione degli altri e un’oca bionda che un tipo usava da portafortuna,
chiedendole di compiere piccoli riti scaramantici. Sembrava che lei non
potesse farlo senza ridacchiare ogni volta. Il suo compagno non
sembrava altrettanto divertito.
Molti degli uomini presenti sembravano perfettamente padroni di sé, ma
al tavolo dei dadi un tizio faceva un casino d’inferno invocando la
fortuna e maledicendo i lanci degli altri, segno che oltre ai suoi
soldi stava perdendo il controllo.
Qualcuno aveva negli occhi quella luce febbrile che viene spesso
associata alle dipendenze.
Può sembrare un cliché, ma è la verità: ci sono pensieri che bruciano e
devono venir fuori, manifestarsi in qualche modo, in mani che tremano,
lingue asciutte, gioia incontrollata o occhi lucidi. Non siamo fatti
per nascondere niente. Non abbiamo un quadro magico che invecchia per
noi e ci protegge dai segni degli eccessi della vita.
Tom si avviò al bar. Il bancone non era a forma di vulcano, qui. Era
molto sobrio, elegante e lussuoso, certo, ma in linea con il resto
della sala. Niente allestimenti tropicali, niente costumi e scherzi: lì
si faceva sul serio.
Ordinò un whisky, tenendo gli occhi incollati ai giocatori. Andy Butler
non era tra loro, a sperperare qualche vincita passata o a far fuori
gli ultimi spiccioli del suo stipendio.
Col suo drink in mano, Tom si avvicinò al tavolo del black jack. Non
giocare avrebbe dato nell’occhio. Il croupier lo salutò in francese,
perché tale è la lingua di quel popolo dalle dita incredibilmente agili
e dagli occhi astuti e indifferenti.
“Siete nuovo, monsieur,” aggiunse dopo una breve pausa.
Certo al Tahiti tutti i dipendenti conoscevano per bene la loro
clientela.
Tom annuì: “È stato un amico a parlarmi di questo posto. Ho aspettato
un po’, ma alla fine mi sono deciso a farci un salto.”
Allungò venti dollari all’uomo, che glieli cambiò in fiches.
Tom si chiese dove avrebbe riconvertito le fiches in denaro.
Probabilmente parlando con un paio di bestioni grossi e duri come muri
di mattoni.
Quasi evocati dal suo pensiero, due uomini corpulenti si avvicinarono
al tipo che faceva casino giocando a dadi e lo convinsero senza clamore
a seguirli in un’altra stanza. Il tizio pareva sgonfiato, tutto il suo
vociare evaporato in un attimo.
Tom ripuntò lo sguardo sul croupier e chiese una carta. Perse. Giocò
ancora, ma al terzo tentativo, il croupier rifiutò di dargli carta.
Abbassò le braccia e si scostò dal tavolo.
“A voi non importa di giocare, monsieur,” disse, con voce inespressiva
e Tom sentì quasi immediatamente qualcuno che si avvicinava alle sue
spalle.
Si voltò e si ritrovò a fissare un’orribile faccia piatta.
“Sareste tanto cortese da venire con me, signore?” gli domandò il
tizio, calandogli una mano sulla spalla con gentilezza, all’apparenza,
ma cominciando subito a stritolargli le ossa.
Non c’era niente di più ripugnante di un uomo violento che finge di
essere compito, a parere di Tom. Era una tale stonatura di menzogna
sulla realtà.
Scrollò via la mano del bestione con forza mentre rispondeva con tono
tranquillo: “Non vedo perché. Sto giocando.”
“No, che non state giocando. Vedete? Il banco è chiuso,” fece quello,
senza spostarsi di un millimetro.
Il croupier si era allontanato silenzioso come un indiano.
Tom si alzò e il bestione fece un passo indietro, come a cedergli il
passo, poi lo affiancò per scortarlo verso la stessa porta da dove era
scomparso il tizio dei dadi. Nessuno degli avventori della sala segreta
ebbe qualcosa da ridire. Molti non voltarono nemmeno la testa.
I due uomini percorsero un altro breve corridoio, anch’esso poco
illuminato.
“Chi vi ha parlato di questo posto, amico?” lo interrogò il bestione
dalla faccia piatta, abbandonata ogni illusione di cortesia ora che non
erano più in mezzo ai gentiluomini.
Sembrava molto più a suo agio nel ritornare al linguaggio che gli era
abituale.
“Un tale. È un po’ che non lo vedo. Si chiama Andy Butler. Diceva
sempre di essere di casa qui.”
“Certo, come no. E voi siete venuto giusto per fare una puntatina.”
“Credevo che fosse quello che offrite.”
Entrarono in una stanzetta spoglia dall’aria minacciosa. Ma che offriva
a Tom una maggiore libertà di manovra rispetto al budello che avevano
appena attraversato.
Il bestione lo fronteggiò, adesso, tirando fuori dalla giacca un
piccolo randello di cuoio.
“Tu credevi di poterci fregare, furbone. Ma le cose non stanno così.
Sei un poliziotto? Ti conviene dirmelo: non uccidiamo i poliziotti, ci
limitiamo ad assicurarci che abbiamo compreso la lezione.”
“Non sono un poliziotto.”
Quello scrollò le spalle.
“Tanto peggio per te,” disse prima di caricare con il braccio armato
alzato.
Tom fece mezzo passo indietro e bloccò il braccio che impugnava il
manganello mentre calava su di lui. Poi lo fece ruotare verso l’interno
e il bestione, costretto dal suo stesso impeto ad assecondare il
movimento, si ritrovò inginocchiato a terra, con Tom alle sue spalle.
Se avesse avuto entrambi i pedi ben piantati a terra, il suo braccio si
sarebbe spezzato e basta.
Tom glielo disse.
“Ma non è troppo tardi, sai?” fece, torcendoglielo e assestandogli un
calcio nelle reni.
“Fermo così, adesso, da bravo,” intervenne una voce sconosciuta.
Tom alzò lo sguardo e incontrò il luccichio ammiccante di una
rivoltella.
‘Sono un dannato idiota’ si disse, immobilizzandosi.
“Ora vedi di stare calmo, amico, e non succederà niente di niente.”
L’uomo che impugnava la rivoltella con aria tranquilla era uno
spettacolo. Era alto e sottile, con un sorriso tutto appuntito.
Indossava un abito viola, con una camicia bianca e una cravatta a
fantasia nera e bianca. Anche le scarpe erano viola, di pelle
verniciata, così lucide da sembrare nere, se non fosse stato per i
riflessi di colore. Ma la vera chicca era il cappello dell’uomo, con
tanto di piuma sul lato.
Tom rifletté che l’uomo non sarebbe sembrato fuori posto in un solo
luogo: la strip di Las Vegas, possibilmente con una bella macchina, un
sigaro, dei tirapiedi e bellezze in abiti di strass.
Finalmente Tom gli rispose: “Non sono io che ho una pistola. Non penso
che mi muoverò.”
Era vero, non sarebbe mai riuscito a estrarre la sua arma dalla tasca
interna della giacca prima che l’uomo in viola gli rovinasse il suo
sobrio abito da sera nero.
“Ti prego di non rompere un braccio a Nick. Se lo meriterebbe
certamente, visto che ti ha minacciato e aggradito sotto il nostro
tetto, ma sarebbe così volgare vedere il responsabile della sicurezza
della sala con un gesso.”
“Se lo meriterebbe perché mi ha aggredito sotto il vostro tetto?
Avrebbe dovuto portarmi nel vicolo dietro il locale?”
“Avrebbe potuto limitarsi a buttarti fuori, nel vicolo dietro il
locale,” rispose l’altro con voce gelida, fissando il povero Nick,
ancora costretto sulle ginocchia.
Nick grugnì qualcosa, a metà tra una giustificazione e un lamento.
“Da bravo, amico, lascialo,” continuò l’uomo in viola, mentre un altro
bestione entrava alle sue spalle.
Era un gigantesco uomo di colore, che si limitò a passare lo sguardo su
tutti gli occupanti della stanza e rimase immobile.
Tom lasciò andare Nick, pensando incoerentemente tra sé ‘e così ti
piacciono grandi e grossi, eh?’
“Ecco, vedi? Non c’è ragione per non andare d’accordo. Come hai saputo
di questa sala?” chiese l’uomo, abbassando la rivoltella e mettendosi a
sedere dietro una scrivania sgangherata.
“So di un tizio che ci veniva a giocare. Lo sto cercando. Si chiama
Andy Butler.”
L’uomo in viola ebbe un lampo di riconoscimento negli occhi, ma non
disse nulla. Disse invece: “Credo che dovremmo presentarci. Io sono
Randall Flagg e tu sei a casa mai. Vedi di non dimenticarlo. Perché
cerchi quel tipo?”
Tom si presentò: “Sono un investigatore privato. L’uomo è scomparso e
sua figlia mi ha assunto. Una cara ragazza cui hanno inculcato il mito
dell’amore filiale.”
Nick, che si era trascinato un po’ rigidamente dietro Flagg, lanciò
un’occhiata imbronciata a Tom: “Bastava chiedere. Andy non si fa più
vedere qui da un po’. Sarà occupato.”
“Ne dubito. Anche al lavoro non lo vedono da un po’,” rispose Tom. “O
Butler si è dato ad occupazioni più redditizie che guidare i camion?”
chiese, guardando i tre malviventi.
Flagg fece spallucce: “Penso che si possa dire che abbiamo in un certo
senso traviato quel pover’uomo. Non fraintendermi, Andy è un bastardo
fatto e finito, ma non aveva mai infranto più di tanto la legge.
Giocava spesso qui e aveva accumulato qualche debito, tempo fa. Così,
dato che ho il cuore tenero, e tu puoi testimoniarlo...”
“Finora,” intervenne Tom.
“…invece di minacciarlo o altro gli ho offerto un lavoro. Saltuario e
non dissimile da quello che lui sa fare meglio. Guidare.”
“Andy Butler è un autista del crimine organizzato?” chiese Tom.
“Altolà, senza correre. I fatti risalgono a circa tre anni fa. Io gli
ho offerto un lavoretto e poi un altro, ma Andy non aveva grossi conti
in sospeso. Non era un forte giocatore. La nostra collaborazione è
stata breve.”
“Se Andy non aveva debiti perché ha preso il largo, allora? E ha
davvero preso il largo, o è in qualche fosso fuori città?”
Chissà, magari Nick si era fatto trasportare.
“Ti ho detto che la nostra collaborazione è stata breve. Io sono un
uomo d’affari e il mio campo è il gioco d’azzardo, ma ci talmente tante
attività remunerative, in una città come questa…” fece Flagg, facendo
un gesto grazioso con la mano che ancora impugnava la rivoltella.
“Diciamo che forse non siamo i soli uomini poco rispettabili con cui è
venuto a contatto,” spiegò il nero.
Aveva una voce piacevole, da tenore. Denti bianchi balenarono in un
sorriso fuggevole.
Tom soppesò l’informazione.
Per saldare i debiti con Flagg, Andy Butler aveva lavorato per lui come
autista, si presupponeva non per consegnare fiori. Ma in un ambiente
del genere le voci corrono e gli uomini in gamba e discreti non si
lasciano scappare. Qualcun altro poteva essersi avvalso della sua
abilità. Andy integrava lo stipendio lavorando per la malavita? Questo
avrebbe spiegato come riusciva a saldare i debiti e a ben vedere anche
perché cambiasse casa così spesso: forse gli indirizzi che gli aveva
fornito Maria non erano che la metà dei rifugi che si era trovato in
quegli ultimi anni. Chiunque avrebbe avuto difficoltà a trovare casa
sua, ma Andy si premurava di far sapere che amava posti come il Tahiti
Bar. Ed ecco il modo di contattarlo: cercarlo nei club in cui si
giocava. Tranne per il fatto che ora anche nei club in cui andava per
essere trovato non c’era traccia di lui.
Rimaneva comunque un dubbio.
“Perché mi avete dato queste informazioni così spontaneamente?” chiese
a Flagg.
“Non sono informazioni che mi danneggiano,” rispose quello. “Andy non
ha più niente a che fare con me da quel punto di vista. Ogni tanto
viene al locale, ma nulla più. Se tu fossi un poliziotto, ti avrei
comprato perché chiudessi un occhio sulla nostra saletta riservata. Ma
tu sei un investigatore e non ti conosco. Non so cosa cerchi. Hai
chiesto informazioni e bene, le hai avute. Se tu uscissi da qui, sulle
tue gambe e tutto intero, e tenessi il becco chiuso potremmo entrambi
ritenerci soddisfatti dallo scambio, o manca qualcosa?”
“Credevo avessi detto che hai il cuore tenero. Ora mi minacci anche tu
sotto il tuo tetto?”
“Ho detto la verità: l’omicidio non è la prima risposta a tutto, ma
rimane comunque un’eventualità.”
“Non voglio soldi. Alcuni investigatori sono tali e quali ai
poliziotti, ma la maggior parte sono come quei poliziotti che non puoi
comprare. Non perché hanno gli stessi ideali di giustizia, ma
semplicemente perché l’unica cosa che gli importa è arrivare in fondo a
una faccenda, rivoltarla per bene e trovare la spiegazione di tutto.”
“Devono essere perennemente insoddisfatti,” commentò il nero.
“Il più delle volte, certo,” concordò Tom.
Flagg ripose la pistola e allargò le braccia, come a dire: ‘bene,
abbiamo finito?’
“Arrivederci, signor Ludlow. Chissà che non mi possa servire il tuo
aiuto, una volta o l’altra.”
Si alzò e si lisciò la cravatta bianca e nera.
“Potete trovare di meglio, con tutti i soldi che guadagnate in questo
posto.”
“Nick, puoi accompagnare fuori il nostro nuovo amico?” fece Flagg,
dando poi le spalle a Nick e Tom e uscendo accompagnato dal nero.
Nick lo accompagnò nel vicolo posteriore, sbirciandolo di sottecchi,
quasi si aspettasse che Tom lo colpisse. Fece quasi un balzo quando Tom
si infilò una mano nella giacca per prendere le sigarette.
Tom lo salutò cordialmente: “Senza rancore, eh, Nick?”
Si avviò verso la sua macchina, parcheggiata a tre isolati di distanza.
Erano quasi le due quando entrò nel suo ufficio e si lasciò cadere
dietro alla scrivania. Rinunciò al caffè e si versò da bere.
La prossima mossa sarebbe stata cercare di scoprire se Andy aveva dei
precedenti, e se gli agenti assegnati al caso li avevano controllati.
Probabilmente sì, ma poteva anche darsi che su Andy non risultasse
nulla direttamente. Forse però era segnalato come frequentatore di
altri soggetti con precedenti segnalati.
Sua figlia certamente non ne sapeva nulla, o gliene avrebbe parlato:
anche se avesse saputo del secondo lavoro di suo padre, avrebbe forse
taciuto con la polizia, ma non c’era ragione per non rivelare a lui un
particolare tanto importante.
Tom decise che la mattina successiva avrebbe contattato un collega che
gli doveva un favore. Lui non poteva dire di avere amici, al
dipartimento di polizia, quindi controllare eventuali precedenti o le
frequentazioni abituali di Andy negli ambienti del crimine poteva
risultare complicato. Per fortuna poteva contare su un po’ di
solidarietà tra appartenenti alla stessa categoria.
E dopo? Non gli era chiaro che cosa avrebbe fatto dopo. Se anche avesse
accertato che Andy Butler se la faceva con dei delinquenti di
professione, non era pensabile l’idea di andare a pescarli uno per uno
per fare domande. Si sarebbe ritrovato con un buco nella schiena prima
di mettere il punto interrogativo al fondo di una frase. Non poteva
contare di trovare molti soggetti come Randall Flagg, per il quale
l’omicidio non era la prima reazione. Per molti delinquenti di L. A.
commettere un omicidio era un po’ come per un uomo educato togliersi il
cappello per salutare una signora.
Ci avrebbe pensato. Forse, una volta raccolti sufficienti elementi la
cosa migliore da fare sarebbe stata passarli al sergente Bayles. Ma
Maria non sarebbe certo stata molto soddisfatta, se ritrovare suo padre
avesse significato farlo arrestare per contrabbando. Perché di
contrabbando doveva trattarsi. Andy guidava mezzi pesanti e a pensarci
bene, le sue normali consegne avrebbero fornito una copertura perfetta:
la Quicktrans effettuava consegne fuori città e verso sud con
regolarità. Andy ne aveva effettuata una a cavallo della fine del mese
scorso, ad esempio.
Tom sperò di riuscire a trovare qualcosa di utile nell’appartamento
dell’uomo, il giorno dopo.
Sarebbe andato a prendere Maria in macchina al suo ufficio. Se fosse
stato possibile avrebbe tenuto per sé quanto aveva scoperto quella
notte, ma poteva rivelarsi necessario interpellare Maria sulla
possibilità di fornire quegli elementi agli agenti.
Tom se ne andò a dormire, esausto, nella stanza sul retro, dopo aver
risposto con cura l’abito da sera.
Si chiese fuggevolmente se Annette fosse tornata a casa con il suo
fidanzato.
Pensò molto più a lungo a James, che si ubriacava nella sua stanza
d’albergo.
Note:
Questo è forse il capitolo che deve di più a 'Il lungo addio'
Tom mi sta un po' sulle balle, qui, troppo furbo e fortunato. Ah,
rimedieremo, prima della fine!XD
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
IV Capitolo
Tom si svegliò in ritardo rispetto al solito.
Rimase disteso a pensare ai fatti della sera prima e per un attimo il
pensiero di quanto era stato vicino a farsi ammazzare lo congelò fin
nelle ossa. Peccato che questi pensieri non gli venissero mai prima di
cacciarsi nei guai. Lo avrebbero forse indotto a fare un po’ più
attenzione, a comportarsi più prudentemente. O forse avrebbero fatto
venir meno il suo coraggio, e basta.
Fece una colazione rapida con dei pancake alla tavola calda, poi tornò
in fretta in ufficio per fare qualche telefonata.
Una a un collega a cui chiese informazioni sui precedenti di Butler.
Fece lo spelling del nome completo.
“Ti serve una documentazione completa o hai fretta?” chiese il collega,
Mark Phillips.
Era un tipo a posto, anche se piuttosto freddo con Tom, le volte che
avevano avuto a che fare. Ma gli doveva un favore e Tom era più che
lieto di toglierlo dall’imbarazzo di sentirsi in debito.
“Se potessi telefonarmi non appena sai qualcosa sarebbe grandioso. Per
la documentazione completa posso aspettare qualche giorno, non c’è
problema.”
Mark disse che andava bene.
La seconda telefonata fu per Maria Butler, per ricordarle il loro
appuntamento, non che pensasse che se lo sarebbe scordato, e per
assicurarsi che la ragazza avesse parlato con Bayles, di modo che il
portiere li facesse entrare.
“È tutto a posto. Gli ho detto che volevo prendere l’anello di mia
madre, che mi sembrava pericoloso lasciarlo in una casa incustodita in
quel quartiere. Mi ha offerto un agente per accompagnarmi, ma gli ho
detto che ci avrebbe pensato un collega qui in ufficio,” gli disse
Maria.
“Avete fatto bene, signorina Butler. Passerò a prendervi alle undici
precise. A dopo.” ‘Intelligente, la ragazza’, constatò Tom.
“A presto e buon lavoro.”
Recuperò la macchina fotografica e partì.
Alle undici meno cinque trovò Maria Butler ad attenderlo in strada. Il
portiere del palazzo le teneva compagnia, scambiando con lei qualche
amenità.
Tom parcheggiò la vecchia Olds di Butch non distante da loro e andò
incontro alla ragazza.
“Siete in anticipo,” le fece notare.
“È che non ce la facevo più ad aspettare,” spiegò lei,
entrando dallo sportello che Tom le teneva aperto. “Mi chiedo perché
non sono andata a casa di mio padre non appena ho cominciato a
preoccuparmi. Forse lo avrei trovato prima che andasse via. Invece non
l’ho fatto. Non volevo avvicinarmi troppo a quel posto.” Si sedette
tenendo la borsetta sulle ginocchia. “Una parte di me non voleva più
mettere piede in quel genere di case. Piccole, buie, provvisorie, che
ti soffocano con il loro senso di impotenza. Con la loro miseria.”
Tom la guardò scostarsi una ciocca di capelli, mentre si immetteva nel
traffico.
Maria parlava senza alzare gli occhi dalla sua borsa.
Fece scattare il fermaglio di ottone qualche volta, prima di
ricominciare: “Penso di essere diventata una snob. Ho il mio lavoro, la
mia casetta, che non è grande ma è distante anni luce dalle catapecchie
in cui sono cresciuta. La persona che sono diventata non voleva neppure
avvicinarsi per qualche minuto a un posto come quello in cui mio padre
vive.”
“Ora, invece? Avete detto che non potevate più aspettare di andare a
Boyle Heights…” le chiese Tom.
“Ora…in parte non è cambiato niente. Dovrete perdonarmi se mi
comporterò da sciocca, quest’oggi. Ma allo stesso tempo non riesco a
smettere di pensare: lui è scomparso, lo devo cercare, lo devo trovare.
L’idea di trovarmi in un luogo che gli è familiare forse mi farà
sentire meglio, come se lui fosse vicino a me.”
Scoppiò in lacrime.
Tom le passò un fazzoletto.
“Volete che accosti?” le chiese gentilmente.
Lei scosse il capo e i bellissimi capelli neri: “No, no, non vi
fermate. Scusatemi. È che sono molto preoccupata per mio padre.”
“E allo stesso tempo vi sentite in colpa,” fece Tom. “Non dovreste.”
Maria abbozzò un sorriso, col viso ancora seminascosto dal fazzoletto
di Tom.
Non parlarono più per il resto del viaggio fino a Boyle Heights.
Tom evitò di dirle che a quel punto anche lui era piuttosto preoccupato
per Andy Butler.
La faccia del portiere di Boyle Heights, quando rivide Tom, fu un vero
spettacolo. Si accartocciò come la rivista che l’uomo teneva tra le
mani (chissà da dove gli veniva tutto quel disprezzo per la carta
stampata), come se avesse visto e odorato una puzzola.
Tom faticò non poco a mantenersi serio, mentre lo salutava.
“Ancora voi?!” sbraitò l’uomo, allontanandosi un poco dal bancone per
essere fuori dalla portata di Tom. “Si può sapere cosa diavolo volete
da me, razza di maniaco?”
“Sono Maria Butler. Voglio vedere l’appartamento di mio padre. Il
sergente Bayles dovrebbe avervi avvertito del mio arrivo,” disse Maria,
avanzando con aria decisa.
Rimase in attesa davanti al bancone aspettando che il portiere
distogliesse lentamente lo sguardo da Tom e lo portasse su di lei.
Tom la guardò con ammirazione: eccola di nuovo padrona di sé.
Il portiere deglutì, sempre facendo smorfie come se ogni parola che
veniva pronunciata fosse un colpo diretto al suo stomaco: “Sì, i
piedipiatti mi hanno fatto una telefonata. Ma lo sapete con chi andate
in giro, signorina? Quello è un violento, ve lo dico io!”
“Con chi vado in giro riguarda esclusivamente me, signore. Possiamo
vedere l’appartamento, adesso?” lo gelò Maria.
Anche l’occhiata che rivolse a Tom mentre l’uomo si voltava a prendere
le chiavi fu piuttosto freddina.
Tom le rivolse uno sguardo innocente.
Salirono le scale. In sottofondo potevano sentire i borbottii risentiti
del portiere.
“Che gli avete fatto?” chiese la ragazza.
“Niente di che. È stato molto maleducato.”
“Non stento a crederlo.”
Dall’espressione di Maria quando aprirono la porta, Tom dedusse che il
posto le ricordava esattamente quello che aveva temuto le avrebbe
ricordato. Era un mono locale con una stanza da bagno di uno squallore
incredibile. La stanza sul retro dell’ufficio di Tom sembrava un nido
caldo e confortevole a confronto. E almeno era pulita.
“Può esserci davvero l’anello di vostra madre, qui?” chiese Tom,
dandosi un’occhiata attorno, cercando lettere, appunti, nomi o numeri
di telefono appuntati su scatole di fiammiferi.
Maria scosse la testa: “Ce l’ho io, l’anello di mia madre. Me lo diede
lei stessa, anni fa. Mio padre porta il suo nel portafoglio, a quanto
ne so.”
Appuntato al frigo c’era un memorandum delle ultime consegne di Andy,
con il timbro della Quicktrans. Andy ne aveva evidenziata qualcuna con
un tratto di penna. Tom tirò fuori la macchina fotografica e scattò un
paio di foto del documento, per confrontarlo con il ruolino delle
consegne che gli aveva consegnato il capo di Andy. Chissà se le
consegne evidenziate da Andy in quel foglio corrispondevano a quelle
contrassegnate dal ritardo sul suo ruolino. Chissà che Andy non
approfittasse delle consegne ufficiali per effettuare quelle di merce
di contrabbando che il crimine organizzato gli commissionava.
Sempre che risultasse un collegamento tra Andy Butler e qualche
esponente del crimine organizzato. Doveva aspettare i risultati
dell’indagine di Mark, per saperlo. In fin dei conti, Randall Flagg
poteva avergli mentito, o aver fatto supposizioni errate.
Ton scattò qualche foto anche del resto dell’appartamento.
Maria si aggirava per la stanza, toccando ogni tanto un oggetto.
Tom la pregò di non farlo, e lei rimase immobile di fianco al divano
lurido.
“C’è qualcosa che vi sembra strano? Fuori posto o non tipico di vostro
padre?” le chiese Tom, senza nutrire speranza nella risposta.
“Non ero mai venuta qui, gliel’ho detto. Mi sembra tutto perfettamente
logico, nella casa di un uomo solo che qui passava probabilmente poco
tempo,” rispose infatti lei.
Tom alzò le spalle. Era più o meno quello che si era aspettato.
Lasciarono l’appartamento.
Passando davanti al portiere Maria gli disse: “Potrei tornare, o
mandare il signor Ludlow al mio posto. Spero che lo lascerete entrare.”
“Non saprei, signorina, c’è bisogno dell’autorizzazione…”
“Sciocchezze: l’avete già avuta, no? O pretendete che il sergente
Bayles vi telefoni ogni volta?” fece lei.
Poi girò sui tacchi e uscì.
“Molto previdente,” le concesse Tom, mentre salivano in macchina. “Ma
il portiere ha ragione: la visita di oggi è stata un’eccezione e Bayles
non sarebbe affatto contento se approfittassimo della sua buona fede.”
“Se servirà a trovare mio padre, signor Ludlow, non starò certo a
preoccuparmi dei sentimenti del sergente Bayles.”
“Più che giusto. Ma lo sapete cosa fanno i poliziotti, quando i loro
sentimenti vengono feriti? Non potendo arrestare voi, una giovane donna
rispettabile che attraversa un momento difficile, arresteranno il suo
investigatore privato, che del resto è solo un approfittatore di
disgrazie altrui e un individuo dalla moralità più che incerta.”
“Lo siete?”
“Non sono un approfittatore, no,” rispose Tom, con un sorriso.
“E un individuo dalla moralità incerta?”
“Nel mio lavoro difficilmente ci si trova davanti a una situazione o
bianca o nera. Il colore predominante è il grigio. La vita è uguale, in
fin dei conti.”
Tom la riaccompagnò in centro.
Le chiese se voleva mangiare un boccone prima di tornare in ufficio, ma
lei rifiutò: “Non me la sento proprio. Penso che farò un salto a casa
per rilassarmi per un poco prima di andare al lavoro. Abito vicino.”
Tom la accompagnò a casa e la salutò con la promessa di tenerla
aggiornata.
Tornò in ufficio per pochi minuti per controllare i messaggi e uscì per
pranzo.
Aveva sperato di trovare qualche messaggio da James, ma non c’era
nulla. L’avrebbe chiamato nel pomeriggio per ricordargli la loro cena.
Forse sarebbe riuscito a convincerlo a permettergli di fare qualche
indagine.
Il tempo stringeva: l’incontro con la commissione era venerdì a
mezzogiorno, come in un film western, ed era già mercoledì pomeriggio.
Forse avrebbe dovuto ignorare gli ordini di James e fare di testa sua.
Ma c’era quella piccola faccenda del rispetto che bisogna accordare
agli amici che gli legava le mani.
Mangiò due panini imbottiti con una birra prima di parcheggiarsi dietro
alla sua scrivania e aggiornare il dossier di Andy Butler.
Decise che avrebbe raccolto informazioni anche su Randall Flagg: il
gangster poteva averlo definito un suo nuovo amico, ma su tipi del
genere era bene sapere qualcosa di concreto, giusto per sicurezza.
Passò il pomeriggio a sviluppare le foto dell’appartamento di Andy
Butler. Quando alla fine riemerse dalla stanza che lui e Butch avevano
adibito a camera oscura si mise a contemplarle alla luce naturale. Non
gli saltò agli occhi nessun particolare di rilievo.
Prestò quindi particolare attenzione a quella del documento appeso al
frigorifero. Tirò fuori il ruolino delle consegne e confrontò i due
scritti. Bingo. Aveva visto giusto. Tutte le consegne che Andy aveva
sottolineato a penna sul suo promemoria corrispondevano ai ritardi
segnati dal suo datore di lavoro. Le consegne sospette si concentravano
soprattutto nella zona ovest della città, ma non solo. Quindi Andy
usciva per le consegne secondo copione e poi? Che succedeva? Ritirava
la merce da consegnare altrove? Gli appunti che aveva preso dovevano
riguardare la zona in cui caricava o scaricava la merce di
contrabbando. Se avessero riguardato solo la data o l’orario si sarebbe
probabilmente servito di un calendario. Nella casa ce n’era uno, ma era
intonso: Tom lo aveva sfogliato, come certamente avevano fatto gli
agenti che avevano controllato l’appartamento.
Chissà di che merce si trattava. Alcolici? Sigarette? Perché non
persone? O armi?
Tom si fermò un attimo, aggrottando le sopracciglia. Armi? Poteva
trattarsi di armi? Era possibile: i camion della ditta di Andy erano
enormi, c’era sicuramente qualche scomparto in cui nascondere qualcosa
di voluminoso, come una cassa di armi o munizioni. E se non c’era lo si
poteva sempre costruire. Poi si caricava la merce legittima, le arance,
il legname, la stoffa, il materiale da costruzione in modo da
nascondere il carico illegale. Molto semplice. Gli autisti erano
responsabili della manutenzione dei loro mezzi, quindi nessuno ci
metteva il naso.
E fino a qui, poteva trattarsi di qualsiasi cosa, anche di opere d’arte
trafugate da musei europei durante la seconda guerra mondiale.
Ma Andy, tra il trentuno e il primo novembre era stato fuori città. A
sud della città, in direzione della base di Encino, nello stesso
periodo dell’assalto al convoglio militare. E Andy era un autista di
mezzi pesanti. Gli assaltatori avevano portato via il mezzo militare
che trasportava gli armamenti.
Poteva trattarsi di coincidenze, ovviamente. La polizia aveva
controllato il camion di Andy e non aveva trovato certo armi nascoste,
altrimenti la sede della ditta di trasporti sarebbe stata sotto
sequestro.
Tom buttò i fogli sulla scrivania, mentre si lanciava sul telefono.
C’era una rapidissima soluzione per appurare se era davvero una
coincidenza: telefonare a James e chiedergli la data esatta
dell’assalto.
Perché non gli era venuto in mente di chiederglielo subito? James aveva
detto qualcosa come ‘il mese scorso’, senza entrare nei dettagli, forse
perché la cosa doveva rimanere segreta e i particolari non potevano
essere divulgati. Se fosse giunta alle orecchie dei giornalisti una
storia del genere, corredata di particolari che permettessero di
controllarla, ciò avrebbe significato la rovina della base di Encino e
di tutti gli uomini che ci lavoravano.
Fece il numero dell’hotel di James e chiese della sua stanza. Ma
nessuno gli rispose. “Dev’essere uscito, signore,” gli disse la
centralinista.
“Siete sicura? Potete controllare?”
“Io sono entrata in servizio da pochi minuti. Datemi un istante.” Dopo
pochi secondi la ragazza tornò all’apparecchio. “Il Maggiore Biggs non
è in albergo. Volete lasciare un messaggio?”
“Sì, ditegli di chiamarmi quanto prima. Si tratta di una faccenda
urgente.”
Tom attaccò, scornato.
Dove cavolo era James? Non poteva essere già uscito per la loro cena.
Diede un’occhiata all’orologio, che segnava le quattro. Tom sperò che
l’altro si ricordasse del loro appuntamento e gli telefonasse anche se
era in giro per confermare la serata.
Si mise a sedere, tamburellando le dita sul tavolo e fissando il
soffitto, mentre rifletteva sull’idea che i due avvenimenti che lo
avevano sfiorato negli ultimi giorni fossero collegati. Qualche punto
rimaneva oscuro: dove diavolo era il mezzo militare, per esempio?
Si impose di non pensarci troppo: non aveva senso investire energie per
trovare spiegazioni per fatti che erano probabilmente slegati tra loro.
Se ci avesse pensato troppo e avesse trovato soluzioni che si
adattavano al caso poi avrebbe finito per innamorarsi delle sue
ricostruzioni, a discapito della lucidità di pensiero che era
necessaria per scoprire la verità nel suo lavoro.
Dopo pochi minuti il telefono squillò. Tom sollevò il ricevitore,
sperando che fosse James.
“Pronto?”
“Qui è Mark Phillips. Ho quelle informazioni cha hai chiesto su Andrew
Butler.”
“Sei provvidenziale, Phillips,” gli ripose Tom, sistemando davanti a sé
un foglio per prendere appunti.
“Addirittura? Sei in alto mare?”
“Più o meno. Comincio forse a capirci qualcosa, ma sarebbe meglio per
tutti se mi sbagliassi. Dai, spara.”
“Ok, senti: Andrew Butler non ha precedenti di sorta, a parte qualche
multa, però c’è stato un episodio promettente, circa un anno e mezzo
fa…è troppo indietro per il tuo caso?”
“No, mi serve tuto quello che puoi dirmi nell’arco degli ultimi tre
anni almeno,” replicò Tom.
“Allora: circa un anno e mezzo fa la polizia pizzica un certo Herbert
Star, per interrogarlo su un caso di aggressione. Sai chi è il tipo?”
“Gangster mafioso. Case da gioco, droga, prostituzione e si vocifera
rapine a mano a armata, ma di questo non l’hanno mai incriminato.
Quindi?”
“Star non è solo, quando i poliziotti praticamente inciampano in lui: è
con un paio di complici abituali e con un certo Andrew Butler. Tutti e
quattro vengono fermati e portati in centrale. Star e i complici noti
ai poliziotti vengono interrogati, Butler viene rilasciato senza
conseguenze, dato che su di lui non risulta niente di niente. Ecco, è
tutto. Ti è utile?”
“Non è un precedente vero e proprio, ma dimostra un collegamento tra
Butler e delinquenti di professione. Mi è molto utile,” confermò al
collega. “Che ne è stato di Star, poi?”
“L’hanno arrestato qualche mese dopo, quando sono riusciti a mettere in
piedi un’accusa. Gli hanno dato dodici anni.”
“Ma l’organizzazione per cui lavora continua con i suoi affari, giusto?”
“Direi di sì, nessuno mi ha chiamato per dirmi che si ravvedeva e
lasciava quella vita di perdizione per una onesta.”
Tom ghignò: “Spiritoso. Altro?”
“La documentazione mi arriverà domani. Ti serve ancora o ti basta
questo rapporto?”
“No, inviamela. Non si può mai sapere, meglio avere qualcosa di
scritto.”
“Te la manderò in ufficio con un corriere, nel pomeriggio, credo. Hai
un cliente o è per interesse personale?” gli chiese Phillips.
“L’uno e l’altro. Mandami il conto.”
Tom lo ringraziò ancora e attaccò. Flagg non aveva mentito: Andy
passava parte del suo tempo con uomini non proprio raccomandabili.
Uomini che avevano alle spalle una organizzazione, scagnozzi e mezzi
per preparare un assalto a un convoglio militare, terreni e proprietà
dove nascondere la refurtiva e il camion militare.
Al diavolo l’obbiettività e la distanza dal caso: la sparizione di Andy
Butler e l’assalto di Encino erano collegati, Tom se lo sentiva.
Ecco il secondo filo della matassa: James stesso, che per una
incredibile coincidenza era amico proprio dell’investigatore a cui
Maria Butler, il filo rosso, si era rivolta per ritrovare il padre
scomparso; James, che nonostante gli ordini e nonostante non volesse
coinvolgerlo, gli aveva raccontato il fattaccio, mettendogli la pulce
nell’orecchio sui particolari che non tornavano. James, che ora era
irraggiungibile.
E dove diavolo era finito Andy Butler? Perché era scomparso nel nulla?
Tom si chiese quante consegne fossero necessarie per distribuire
trecento pezzi e relative munizioni e chi fossero i clienti
dell’organizzazione di cui Andy faceva parte…dubitava che fossero
riusciti a piazzare tutta la merce in meno di un mese. Andy era
probabilmente scomparso a metà lavoro.
Era ancora vivo? Era un tipo loquace, il padre di Maria, su questo
concordavano tutti: aveva parlato troppo in giro della cosa? Potevano
averlo messo a tacere, ed ecco che si spiegava anche la scomparsa di
Andy.
Avrebbe fatto comodo sapere chi l’aveva visto dopo mercoledì sera, dopo
che aveva lasciato la sede della ditta salutando i colleghi del ritrovo.
C’era anche un altro punto da considerare, che probabilmente avrebbe
interessato anche James e tutti gli uomini della base di Encino: come
diavolo avevano saputo dei gangster di Los Angeles del trasferimento
degli armamenti dalla base al deposito? Non era escluso che qualcuno di
quei delinquenti avesse un passato militare e magari un amico
nell’ufficio del Maggiore Biggs, che si era lasciato scappare la cosa.
Certo era un comportamento molto imprudente, ma in fine dei conti
umano.
Ma James e i suoi erano stati interrogati sulle misure di sicurezza per
evitare fughe di informazioni: un comportamento negligente sarebbe
venuto fuori; e il trasporto di armamenti era di certo una notizia
molto sensibile, che qualunque soldato non avrebbe trattato alla
leggera.
‘Non è che in una conversazione davanti a un drink capiti molto spesso
di dire, sai, domani trasferiamo un intero camion pieno zeppo di fucili
e pallottole con pochi uomini di scorta,’ rifletté tra sé e sé Tom.
Forse più che di una fuga di informazioni si era trattato di una
vendita di informazioni. Tom si chiese se gli uomini di Encino e la
polizia locale avessero indagato in quella direzione e per l’ennesima
volta in pochi minuti maledì il fatto di non poterlo chiedere
immediatamente a James.
Tom trascinò quello che restava del pomeriggio fino alla sera. Non
arrivarono messaggi.
Uscì alle sei mezzo per mangiare qualcosa. Fece due passi fino alla
quattordicesima in un piccolo ristorante non privo dei suoi lati
positivi, non ultimo un cameriere bello come un torero spagnolo. Le
signore non gli staccavano gli occhi di dosso, come se sul braccio
portasse davvero una gualdrappa rossa, invece di un asciugamano.
Dopo cena si rifugiò alla Pantera Blu.
“Tesoro!” lo salutò Winnie.
Quella sera indossava un abito di velluto bordeaux. Aveva i capelli
raccolti in una coda alta da cui pendevano boccoli biondi. Sembrava
uscita da un quadro.
“Non c’è il tuo amico, stasera?” gli chiese.
“Ti sei messa in tiro per lui?” le chiese Tom, con un sorrisetto
ironico. “Potrei diventare geloso.”
La donna sbuffò: “Non essere sciocco. Sei il miglior non-amante che
abbia mai avuto.”
“James e io dovevamo uscire a cena, ma dev’esserci stato qualche
imprevisto.”
“Qualcosa di grave?”
“Beh, meno grave di una guerra, spero,” le rispose.
Provò a sorridere, ma gli riuscì male. La verità era che cominciava ad
essere un po’ preoccupato.
Rimase una mezz’ora al locale, ma non riusciva a rilassarsi. Finì di
bere in fretta e tornò in ufficio, col pensiero fisso che il suo
telefono stesse squillando mentre nessuno lo ascoltava. E mentre
nessuno rispondeva gli squilli si facevano sempre più alti, più acuti,
più disperati.
‘Che pensiero idiota’ si disse non appena ebbe messo piede in ufficio.
Il telefono non stava affatto squillando. Rise per un attimo delle sue
ridicole fantasie e il telefono squillò davvero.
Fissò stupidamente l’apparecchio per qualche secondo prima di
rispondere. Sperò che fosse James.
“Pronto?”
“Qui è Mark Phillips. Che fortuna trovarti in ufficio! Pensavo che
avrei dovuto cercarti alla Pantera Blu.”
“Ero lì, ma avevo un brutto presentimento,” rispose al collega.
“Davvero? Strana coincidenza: ci hai preso. Per ottenere le
informazioni su Andy Butler che ti ho passato, ho parlato tra gli altri
con un mio amico che lavora in cronaca nera. Hanno ritrovato il
cadavere di Andy Butler in un terreno da costruzione vicino alla
cinquantesima. Mi ha chiamato per dirmelo appena lo ha sentito per
radio. Io ho chiamato subito te.”
‘Dannazione’.
“Mi ci scaravento subito. Grazie mille.”
Mark gli diede l’indirizzo esatto: “Pare che degli operai scavando
abbiamo rotto un tubo dell’acquedotto. Prima che quelli dell’agenzia
per le risorse idriche mandassero qualcuno a bloccare la perdita,
l’acqua ha fatto franare una porzione dello scavo già ricoperta nei
giorni scorsi e il cadavere è saltato fuori.”
“Quindi Andy Butler non è morto stasera, e neanche ieri.”
“Già, è vero. Potrebbe anche essere morto la settimana scorsa: lo scavo
è rimasto chiuso sabato e domenica.”
Tom sospirò, appoggiandosi il ricevitore alla spalla mentre si infilava
il soprabito: “Vado subito. Grazie. Ora sono io che ti devo un favore.”
“È così che funziona la vita: uno deve qualcosa a un altro e viceversa,
finché uno dei due muore e lascia l’altro in credito di un favore che
non potrà mai riscuotere.”
“Non so te, ma io conto di vivere a lungo.”
Tom prese il cappello.
“Per chi lo cercavi, quell’uomo? Chi è il cliente?”
“La figlia. Una splendida creatura ora sola al mondo.”
“Dio, che schifo. Non ti invidio,” disse Phillips e attaccò.
Tom lo trovò un po’ meno freddo del solito.
Uscì dal palazzo e corse a recuperare la macchina dal parcheggio di
Tony. Quando vide che aveva fretta, Tony mandò il garzone di corsa a
recuperargli chiavi e automobile. Il ragazzo gliela portò davanti al
ristorante facendo ruggire il motore della vecchia carretta.
Quando scese sembrava incredibilmente felice.
“Era un secolo che volevo provare a guidarla, signor Ludlow!” gridò
lanciando la chiavi a Tom.
“Se ti pesco a farlo quando non ci sono emergenze te ne pentirai,
ragazzino,” lo gelò Tom.
Che cavolo: se Tony voleva fargli fare la parte del mangiabambini era
meglio fornirgli un po’ di materiale.
Finalmente partì.
Le scene del crimine erano sempre uno spettacolo, secondo Tom. C’era
confusione, c’era rumore, c’erano assembramenti di curiosi e
giornalisti, ma in sostanza non succedeva niente di niente. La scena
veniva delimitata, agenti stanchi e insofferenti facevano rispettare il
perimetro, ricacciavano indietro i giornalisti e i fotografi quando era
necessario, mentre un paio di detective con una sigaretta in bocca
guardavano il morto, si scambiavano due battute, cambiavano posizione,
soffiavano un po’ di fumo, lanciavano due imprecazioni contro il mondo
(contro la situazione, contro i curiosi, contro gli agenti che non
facevano abbastanza per permettere loro di lavorare in pace, contro
l’ora tarda e infine contro il morto stesso perché era andato a morire)
e infine cambiavano di nuovo posizione.
Tutto questo si ripeteva finché uno dei due non aveva una brillante
intuizione, o più spesso finché non si stufavano e decidevano di
rimettersi ai risultati dell’autopsia prima di formulare qualsiasi
ipotesi.
Praticamente, nessuno faceva niente, su una scena del crimine. Era un
momento di pausa, di riflessione, scollegato dal resto del mondo che
continuava a girare, a lavorare, a produrre, a distruggere, a vivere.
Il morto, con la sua immobilità forzata, attirava tutti in un passaggio
intermedio tra la vita e la morte, li costringeva a fermarsi e guardare
con lui dall’altra parte.
Poi, un cenno ai barellieri, i detective che si allontanavano per
andare a mangiare, la folla di ficcanaso che finalmente si levava dalle
scatole e il mondo circostante ricominciava a muoversi, il tempo
scorreva.
Quando Tom arrivò all’indirizzo che Mark gli aveva dato il nulla era
ancora in pieno svolgimento. Si avvicinò il più possibile, poi mostrò
il tesserino a un agente e superò le transenne e i nastri gialli della
polizia.
Gli operai del cantiere se ne stavano seduti vicino a una baracca di
legno, fissando cupi i due poliziotti che li stavano interrogando.
Il corpo si trovava sul fondo di una fossa poco profonda circondata di
coni di sicurezza e fari, per permettere agli agenti di distinguere
qualcosa.
Qualcuno aveva pulito la maggior parte del fango dalla zona. Aveva
anche portato alla luce la faccia del morto, per procedere a
un’identificazione. E magari per non lasciare un uomo seppellito nel
fango, come una carcassa gettata in una buca. Anche se in fin dei
conti, il risultato finale non sarebbe stato poi tanto diverso.
L’uomo era senza dubbio Andrew Butler. Stessa corporatura, stesso
colore dei capelli, fronte e mascella perfettamente riconoscibili. Tom
tirò fuori dalla tasca del soprabito la foto che Maria gli aveva dato,
quella scattata in occasione di un evento importante e non ebbe il
minimo dubbio sull’identità del cadavere nella buca. Povera Maria.
Mark Phillips aveva ragione: Andy doveva essere morto da giorni. La
pelle del viso era livida, quasi nerastra, gli occhi orrendamente
incavati. Tom dovette farsi più vicino per notare il foro di proiettile
sulla tempia, simile a un’enorme voragine. Intorno al corpo si
aggiravano agenti in uniforme blu e un paio di vecchie conoscenze di
Tom.
Una di esse era il medico legale, il dottor Avery Thompson. Era un
arzillo sessantenne che non si risparmiava mai sul lavoro.
Anche in quel momento si trovava sul fondo della fossa, inginocchiato
accanto al defunto Andy Butler per esaminare le mani e la ferita d’arma
da fuoco alla tempia.
“Direi che è morto da una settimana più o meno. Potrebbe sembrare meno,
ma questa terra è argillosa e deve aver rallentato il processo di
decomposizione,” disse studiando le unghie del corpo.
Si sistemò meglio gli occhiali sul naso.
Uno degli agenti commentò, rivolto al suo sergente: “Dev’essere morto
subito dopo la sua scomparsa. Mercoledì è andato al lavoro, poi nessuno
l’ha più visto.”
Il sergente annuì, ma non disse nulla.
Il medico legale continuò la sua analisi: “Il foro sulla tempia è
abbastanza netto, direi che non è stato un colpo molto ravvicinato.
Inoltre è molto grande. Deve trattarsi di un grosso calibro.”
“Come un calibro militare, ad esempio?” intervenne Tom, facendosi
avanti con il tesserino e la foto di Andrew Butler in mano.
L’altra conoscenza di Tom nel gruppo era il tenente Abel Kuntz, che si
girò piano verso di lui, studiandolo con espressione cattiva.
“Ludlow. Che cosa cazzo ci fai sulla mia scena del crimine?” gli
domandò, con voce bassa.
Si accese un sigaro senza togliergli gli occhi di dosso.
Gli agenti scattarono verso Tom, che sventolò il tesserino.
“Sono stato assunto da Maria Butler per ritrovare suo padre, Andrew
Butler, che temo proprio si trovi accanto a voi, dottore,” rispose,
salutando con un cenno del capo il dottor Thompson.
Il medico si alzò in piedi; le sue ginocchia protestarono
rumorosamente.
“Buonasera, signor Ludlow. Un calibro militare, dite? Verificherò.”
Kuntz fece qualche passo verso Tom, spalleggiato da un agente e da uno
dei suoi detective. Il sergente rimase indietro, guardandosi attorno
come se non capisse che cosa stava succedendo. Doveva trattarsi del
sergente Bayles.
“E così sei stato assunto per trovare Andrew Butler, eh?” fece Kuntz,
soffiando del fumo acre. L’uomo si diede una rapida occhiata alle
spalle. “Direi che l’hai trovato. Perché non ti levi dai piedi, adesso?
Non mi piace avere feccia come te attorno.”
“Pensavo solo che alla polizia avrebbe fatto piacere scambiare qualche
informazione. Non pensavo di trovare te. Mi sarei fatto bello.”
Kuntz ghignò: “Non ne dubito, principessa. Non ci sono informazioni da
scambiare. Il tipo aveva dei debiti, giocava d’azzardo, non è vero
Amos?”
Il sergente Bayles confermò: “Ce lo ha detto la figlia.”
“Quindi io non vedo di quali altre informazioni potremmo aver bisogno.
Il tipo fa dei debiti, non paga, qualche delinquente permaloso gli fa
la pelle come monito per tutti gli altri debitori. Molto semplice,”
concluse Kuntz facendo ancora un passo verso Tom.
Di Kuntz si potevano dire molte cose, che era un sadico, un violento
con difficoltà a contenere la rabbia, un marito poco presente, forse,
ma non che fosse un idiota. Aveva cervello e la sua rapida carriera
nella polizia lo dimostrava. Si vociferava che fosse vicino a diventare
capitano.
Un po’ per attitudine personale, un po’ per non rischiare di prendere
un granchio così vicino a una promozione importante, Tom era sicuro che
l’altro non sarebbe rimasto sordo a quello lui che aveva da dire.
“Non regge,” sentenziò. “Ci saresti dovuto arrivare da solo, Abel.
Bisognerebbe sempre prestare attenzione a dove si ritrova un cadavere.
Si può capire molto da questo: per esempio, se volevano che fosse
ritrovato o meno. Butler era sepolto in uno scavo che sarebbe stato
completato a breve e ricoperto di cemento. Io dico che qualcuno voleva
essere ragionevolmente certo che non tornasse mai più alla luce. Ora,
se io fossi uno strozzino o un tenutario di case da gioco e ammazzassi
un uomo per i suoi debiti, ne farei un monito per tutti gli altri, come
hai detto tu. Ma in questo caso, mi assicurerei che il cadavere venisse
fuori.”
Kuntz fece ancora un passo verso di lui, masticando il sigaro tra i
denti con rabbia trattenuta: “Pensi di poter venire qui a risolvere il
caso, non sapendone niente? Ti credi più furbo di tutti i presenti? E
per te sono il tenente Kuntz, finocchio, vedi di non dimenticarlo.”
Indietreggiò e fece un sorriso malevole: “Ti ho mai raccontato dei
giorni in accademia con Ludlow, qui, Albert?”
Il detective rispose un ghigno altrettanto malvagio: “Sì, tenente.
C’erano molte costole rotte. Servirà un ripasso?”
Tom cercò di rimanere calmo: “Non è vero che non ne so niente. Voi, per
esempio, sapevate che Andrew Butler aveva dei legami con il crimine
organizzato?”
Il sergente Bayles parve confuso: “Ma no. Ho controllato i
precedenti…non mi risulta.”
“Avete fatto un controllo sommario perché il caso vi appariva semplice:
un giocatore che fugge dai debiti. Ma c’è di più.”
“Cosa ci sarebbe di più?!” esplose Kuntz. “Molti giocatori d’azzardo
hanno legami con il crimine organizzato: le case da gioco non sono
gestite da care anziane vecchiette. E cosa c’entra il calibro militare?”
“È scomparso un carico d’armi da una base militare giù a sud, tempo fa.
Butler potrebbe essere l’autista coinvolto.”
“È ridicolo, non ho sentito niente del genere. Non è certo una notizia
che ti passa di mente dopo un paio di giorni. Credo che tu sia qui solo
per creare scompiglio, Ludlow. Per inventare fandonie da rifilare alla
tua cliente per scucirle più soldi. L’unica consolazione è che non ti
approfitterai delle sue grazie…” Kuntz pronunciò queste ultime parole a
un palmo dal viso di Tom, tenendo il sigaro nella mano destra.
Tom ebbe l’impressione che si stesse sforzando per non colpirlo.
“Se vuole dargli una ripassata, tenente, può contare su di me,” fece il
detective.
Il dottor Thompson si fece avanti: “Andiamo, adesso…” ma il detective
lo bloccò afferrandogli una spalla.
“Non so se il tuo tenente ti ha raccontato tutta la storia di quando
eravamo all’accademia assieme, Albert,” fece Tom, fissando Kuntz dritto
negli occhi. Ora anche lui faceva fatica a trattenersi. “Ti ricordi
cos’è successo l’ultima volta che mi sei venuto così vicino, Abel?” gli
domandò in un sibilo.
“Ha provato a baciarvi, tenente?” fece Albert, ridacchiando.
“Gli ho rotto la mandibola in due punti,” rispose Tom.
“Non mi sorprenderesti più con quella mossa, Ludlow,” ribatté Kuntz.
“Ne ho altre.”
“Tenente…” provò a intervenire il medico legale.
Kuntz scattò e afferrò Tom per i capelli, torcendogli la testa
all’indietro, l’altra mano serrata sul suo soprabito per impedirgli di
scostarsi.
Bayles sobbalzò e il dottor Thompson gridò: “Farò rapporto a tutti, se
non la piantate!”
Mentre Kuntz lo fissava negli occhi con i denti scoperti, Tom
improvvisamente gli sorrise: “Ho davvero l’impressione che tu voglia
baciarmi ora, Abel.”
Kuntz parve ritornare in sé. Forse gli erano tornati in mente i guai
che aveva scampato per un pelo solo tre mesi prima, quando aveva perso
le staffe dopo un inseguimento a piedi. In quell’occasione i suoi
colleghi gli avevano coperto le spalle, ma Kuntz non poteva certo
permettersi di fare un altro errore del genere davanti a Thompson e a
Bayles, che Tom si era fatto l’idea avesse il senso dell’onore di un
cavaliere medievale.
Dopo qualche secondo il tenente Kuntz lo lasciò andare di malo modo,
dandogli le spalle e allontanandosi a passo svelto. Tom riconobbe il
passo dell’uomo furioso con se stesso per essersi lasciato andare.
“Fate sparire quel truffatore dalla mia scena del crimine!” ordinò
mentre passava di fianco a Bayles.
Il sergente si scostò dalla sua traiettoria: “Sì, signore. Subito.”
“Fareste meglio ad andarvene di vostra spontanea volontà, figliolo,”
consigliò il dottor Thompson a Tom.
Tom lo giudicò un saggio consiglio.
Non aspettò che il sergente Bayles lo invitasse a lasciare la scena.
Girò sui tacchi rivolgendo un ironico cenno di saluto al detective, che
ora lo fissava con disgusto, e tagliò la corda. Nel suo lavoro ogni
tanto era meglio battere in ritirata.
In macchina, tornando dalla scena del crimine, Tom si sforzò di
mantenere la calma. In parte era su di giri per lo scontro con Kuntz,
anche se riteneva di aver mantenuto il controllo e di non aver lasciato
trasparire nulla del suo stato di nervosismo.
‘Di sicuro, più di Kuntz stesso’ si disse, contorcendosi per prendere
il pacchetto delle sigarette dalla tasca.
Ne infilò una in bocca e l’accese, sfregando un fiammifero preso dal
vuota tasche direttamente sul cruscotto.
Se Butch l’avesse visto fare una cosa del genere, l’avrebbe ucciso. Era
piuttosto severo a proposito della manutenzione della vecchia Olds. Non
era mai arrivato al punto di vietare a Tom di fumare quando era a bordo
(perché, andiamo, chi sarebbe sopravvissuto a un appostamento senza
potersi fare una cicca? O un pacchetto? O anche due, Tom non andava
tanto per il sottile quand’era più giovane e faceva meno fatica a
tirare il fiato), ma l’unica volta che lo aveva visto accendere una
sigaretta così gli aveva tirato una sberla incredibile dietro la nuca,
facendolo strozzare. Aveva quasi sputato un polmone.
Incurvò le labbra sulla sigaretta, incapace di trattenersi.
Ma era il momento di essere seri. Andrew Butler era morto.
Con l’autista del camion ucciso nell’attacco al convoglio militare, i
morti salivano a due, in quella faccenda di cui forse avrebbe risposto
James.
Sempre che le due cose fossero effettivamente collegate.
Tom ne era ormai pienamente convinto: il filo rosso di Maria era
intrecciato a quello dorato di James.
Il problema era che non lo poteva dimostrare. Non disponeva neanche di
sufficienti indizi da indurre la polizia a fare indagini in quel senso,
senza conoscere la data effettiva dell’assalto e senza avere accesso ai
risultati dell’esame balistico sul proiettile che il dottor Thompson
avrebbe estratto dalla tempia del rimpianto Andy. Aveva sperato di
mettere la pulce nell’orecchio a Kuntz, ma l’unico a dargli retta era
stato il medico legale. Forse sarebbe stato disponibile a fare due
parole con lui, in via ufficiosa, si capisce, su quel foro provocato da
un grosso calibro. Si ripromise di chiamare la morgue la mattina
successiva.
Appena arrivato in ufficio dopo aver lasciato la macchina nel
parcheggio da Tony, prese il telefono per chiamare l’albergo di James.
Al concierge risultava che il Maggiore Biggs fosse ancora loro ospite,
ma il telefono della sua stanza suonò a vuoto per quasi tre minuti,
prima che Tom desistesse. Riagganciò, furioso. Perché diavolo James lo
evitava? Quali cazzo di affari aveva di cui occuparsi in città, oltre a
quella dannata commissione?
Erano solo le dieci e mezza. Gli sembrava passato un secolo da quando
era uscito per andare alla Pantera Blu. Era presto, ma allo stesso
tempo era troppo tardi per fare un’altra telefonata importante.
Avrebbe dovuto chiamare Maria Butler. Non per darle la notizia,
certamente il sergente Bayles l’aveva avvertita. Probabilmente non
aveva avuto il tempo di andare da lei di persona, ma Tom era certo che
lo scintillante cavaliere bianco si fosse premurato di inviare due
agenti sensibili e disponibili a consegnare il triste messaggio.
Era tardi, era sconveniente ed era inutile che Tom la chiamasse a casa.
Oltretutto, avrebbe tanto preferito evitarlo. Ma doveva farlo lo stesso.
Si versò da bere, prima di sollevare la cornetta. Si domandò se Maria
non stesse dormendo, spossata magari dalle emozioni della serata, ma in
realtà dubitava che la ragazza sarebbe riuscita anche solo a chiudere
gli occhi nei prossimi giorni. Difatti lei rispose al secondo squillo.
“Pronto?”
Aveva una voce un po’ tremula, ma non stava piangendo. Sembrava
piuttosto distante, come se avesse risposto per abitudine ma non le
interessasse granché sapere chi c’era in linea all’altro capo del filo.
“Sono Tom Ludlow, signorina Butler. Mi dispiace chiamarvi a quest’ora…”
“Signor Ludlow. Speravo di sentirvi.”
Sembrava più presente, ora. Tom si schiarì la voce.
“Immagino che la polizia vi abbia già dato la notizia. Le mie sentite
condoglianze.”
“Sì, è venuta la polizia. Gli agenti sono andati via che non è molto.
Hanno detto di aver trovato il corpo di mio padre in un cantiere…”
“Sì, ci sono stato, questa sera. Signorina Butler, io…”
“L’avete visto?” lo interruppe lei, con foga.
“Sì, l’ho visto,” le ripose Tom, con cautela. “Non ho avuto dubbi che
si trattasse di suo padre, purtroppo. È morto.”
Cercò di evitarle ogni falsa speranza. Preferiva mettere le cose in
chiaro e affrontare una crisi di pianto, che provocarle una crisi
isterica più tardi.
“Anche gli agenti l’hanno detto. È che hanno parlato
dell’identificazione…domani devo andare a identificare il suo corpo, e
ho pensato…non so. Ho dovuto chiedervelo,” concluse, con voce un po’
più ferma.
“State bene? Avete bisogno di qualcosa?”
“Non saprei di che cosa, onestamente. Quando mia madre è morta io mi
sono appoggiata a mio padre, e lui a me.”
“Non c’è un’amica, o un fidanzato, che possa tenervi compagnia, per
stanotte?” le chiese Tom.
“Non ho chiamato nessuno. Neppure il mio capo. Domattina dovrò
avvertirlo che non andrò a lavorare, e poi penso che chiamerò un’amica.
Una ragazza con cui ho studiato. Siamo rimaste unite.”
“Bene, è meglio avere qualcuno attorno,” le rispose Tom.
Quando Butch era morto lui aveva passato la notte in una stazione di
polizia, mentre gli agenti ceravano di capire cosa fosse successo.
Il corpo del suo collega era in un ospedale a tre isolati da dove era
morto. Anche se i soccorsi erano stati immediati non c’era stato nulla
da fare.
Quando la mattina dopo era tornato a casa aveva dato la notizia a
Winnie e a Tony, che l’avevano diffusa per tutto il quartiere. Butch
Morrison era molto conosciuto e apprezzato.
Tom invece si era chiuso in casa, aveva pianto per un’ora, aveva
telefonato a James, che per fortuna non era in servizio, e poi era
uscito, con in corpo più caffè di quanto fosse consigliabile, per
andare a reclamare il corpo del suo amico.
Sì, sarebbe stato meglio avere qualcuno attorno.
“Posso accompagnarvi all’identificazione, domattina, se pensate che
possa farvi piacere,” disse a Maria Butler, che era rimasta in silenzio.
Lei sospirò: “Non lo so. Non potreste venire qui ora? Mi rendo conto
che non vi pago per farmi da balia, ma…”
“Non so quanto sarebbe opportuno, signorina Butler. Non conosco i suoi
vicini, ma tutti si sentono in diritto di ficcanasare, quando un uomo
entra nell’appartamento di una giovane donna sola, a tarda serata.”
“Non pensavo di sedurvi,” rispose lei, e a Tom sembrò che avesse
sorriso, per una frazione di secondo.
“Oh, neanch’io. Lungi da me.”
“Nonostante la vostra morale incerta?” chiese lei, e stavolta Tom fu
certo che sorridesse.
“Proprio a causa di quella,” le rispose, criptico.
Lei rimase in silenzio qualche secondo prima di domandare: “Signor
Ludlow, chi ha ucciso mio padre? Perché?”
“Forse sarebbe meglio parlarne di persona, signorina. Ci sono fatti di
cui avrei fatto meglio a mettervi al corrente quando siamo stati a
Lexington, e altri ne sono emersi.”
“Quali fatti?” domandò lei.
“Per esempio, che vostro padre non aveva debiti. Non è per quello che è
stato ucciso.”
“Non capisco. Allora perché? Cosa aveva fatto?”
Ecco il problema. Tom sapeva cosa aveva fatto Andy Butler: aveva
guidato il camion militare durante la rapina. Aveva spostato o
consegnato le armi rubate. Ma perché era stato ucciso, quello non gli
era poi molto chiaro. Aveva parlato? Voleva farlo? Non con Maria,
questo era certo. Lei non sapeva niente delle attività alternative del
padre.
“Non so perché sia stato ucciso. Posso solo fare qualche ipotesi.
Quando ci incontreremo di persona vi spiegherò tutto, promesso.”
“D’accordo. Preferirei che veniste qui e mi diceste tutto
immediatamente, ma se è fuori discussione…”
“Lo è. Se volete posso tenervi al telefono tutta la notte e farvi
compagnia da qui, ma è meglio che io non venga a casa vostra.”
“Ho capito. Mi accompagnerete all’identificazione, allora?”
“Certamente. A che ora siete stata convocata?”
“Per le nove. Il Sergente Bayles mi ha telefonato, manderà un’auto a
prendermi.”
“Ho conosciuto il sergente Bayles questa sera,” le disse Tom. “È un
gentiluomo.”
Chissà se sarebbe stato contento di vedere l’investigatore che gli era
stato ordinato di buttare fuori dalla scena del crimine. Anzi, come
aveva detto Kuntz? ‘Quel truffatore’, forse?
Promise a Maria che si sarebbe trovato sotto casa sua per le otto e
mezzo e l’avrebbe seguita alla stazione di polizia con la sua auto.
Sbrigate le formalità, le sgradevoli formalità, l’avrebbe
riaccompagnata a casa.
Stava per salutarla e riattaccare, quando lei disse: “Avete detto che i
debiti di gioco non c’entrano niente. Come vorrei che invece si fosse
trattato di quello. Avremmo potuto risolvere tutto. Come vorrei che
fosse tutto più facile.”
Anche Tom non avrebbe desiderato altro.
Note:
Un capitolo interminabile! Scusate. Ma a dividerlo avrei solo ottenuto
due capitoletti brevi che tagliavano in due la stessa giornata senza
scopo...
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
V Capitolo
Tom aveva davanti un’intera notte da far passare. Una parte di lui non
riusciva a togliersi dalla testa come sarebbe stato facile farla
scivolare via se James fosse stato lì con lui. Un po’ lo irritava
sapere che l’altro era così vicino, rispetto al solito, e che non
trovava il tempo di vederlo. O di fotterlo come se fosse l’ultima volta
nella sua vita, e poi di farlo di nuovo.
Erano pensieri sciocchi e meschini, se ne rendeva conto. James era in
un casino gigantesco e cercava di gestire la cosa al meglio.
Tom era anche scocciato dal fatto che non volesse accettare il suo
aiuto. Era certo che fosse in albergo, prima, quando lui aveva
telefonato, e che sapesse perfettamente chi lo chiamava con tanta
insistenza.
Perché non voleva che Tom si intromettesse? Non poteva neanche sapere
quanto effettivamente Tom si stesse intromettendo: non aveva ancora
avuto la possibilità di accennare all’amico che il caso di scomparsa di
cui si stava occupando (o si era occupato? D’altronde Andy Butler era
stato trovato…) poteva essere collegato con l’assalto al camion.
Tom si chiese se anche altri alla base di Encino sarebbero stati così
restii a concedere informazioni a qualcuno che forse poteva indicare
loro una direzione verso cui indagare. Valeva la pena fare un tentativo
e telefonare alla base per chiedere i dettagli dell’assalto? Che
cavolo, si sarebbe accontentato anche solo della data precisa del
fatto!
Decise che avrebbe telefonato la mattina successiva prima di uscire per
l’appuntamento con Maria. Se avesse ottenuto qualche risposta e nel
pomeriggio fosse riuscito a parlare con il medico legale, il dottor
Thompson, forse avrebbe avuto qualche indizio degno di questo nome, e
non solo le sue supposizioni. Cosa ci avrebbe fatto, poi, era ancora da
vedere.
Sbatterli in faccia a James dicendogli: ‘ecco, la tua difesa davanti
alla commissione’ sembrava una buona idea.
Fece avanti e indietro per tutto l’attico, valutando lo stato di
abbandono e sporcizia dei locali usati più raramente. Stato: pessimo.
Era ora di rimettere un po’ in ordine l’attico, l’ufficio, la sala
d’aspetto, possibilmente la sua vita e le sue frequentazioni.
Si diede alle pulizie, per cominciare, e andò avanti per un paio d’ore
filate.
‘Ecco uno dei vantaggi di vivere in un palazzo composto di uffici e
locali commerciali: se mi fossi messo a fare questo lavoro nella casa
in Yucca Road i vicini si sarebbero imbestialiti per il chiasso’, si
disse, entrando sulla stanza sul retro e levandosi la camicia marcia di
sudore.
Fece una doccia con tutta calma, godendosi poi il silenzio della notte
mentre si faceva la barba. Sulla decima non passavano quasi veicoli, i
ristoranti erano chiusi e anche l’ultimo spettacolo del cinema Lux era
finito da tempo. C’era solo un taxi in attesa dei clienti della Pantera
Blu che avevano fatto tardi, ma dopo qualche minuto anche lui e la sua
insegna bianca lasciarono il quartiere al sonno.
Tom si chiese se la Pantera Blu fosse ancora aperta: forse no, non
c’era molto movimento, quando lui era venuto via, e non aveva visto
nessuno rincasare a piedi. Anche il taxi se n’era andato vuoto. Pensò
di fare due passi e controllare, dato che tanto non riusciva a dormire.
Scese in strada, salutando il portiere di notte nell’atrio. L’uomo
sembrava sul punto di addormentarsi e lo salutò meccanicamente,
probabilmente senza neppure registrare la sua presenza.
Tom camminò fino al locale sui marciapiedi deserti passando da un cono
di luce all’altro. Si fermò all’angolo a fumare una sigaretta, sentendo
di meritarsela per aver fatto ordine a casa.
Quando arrivò di fronte al locale si imbatté in Winnie che chiudeva a
chiave la porta.
“È stata una serata fiacca?” le domandò.
Lei si girò di scatto, sussultando, poi lo riconobbe.
“Tom!” gridò sottovoce con tono di rimprovero. “Potevi farmi morire di
spavento!”
“Scusami.”
“Che ci fai in giro? Te ne sei andato presto, ti facevo a letto da un
bel pezzo,” gli disse Winnie, mettendo le chiavi nella borsetta e
avvicinandosi a lui.
Gli sorrise con aria maliziosa, come suo solito.
Tom reclinò la testa all’indietro, dando uno sbuffo di risa.
“Sapessi cosa non è successo da allora…Non volevo spaventarti, prima.
Vuoi che ti accompagni a casa?” le domandò, offrendole il braccio.
Winnie lo prese con aria deliziata: “Che galantuomo, scortare in salvo
una fanciulla abbandonata a se stessa. Sì può proprio dire che stasera
eravamo quattro gatti. Non mi dispiace un po’ meno lavoro, di tanto in
tanto, ma è così presto che non riuscirò a dormire per altre due ore
almeno,” raccontò, stringendosi a Tom e sistemandosi il colletto di
pelliccia del cappotto che indossava.
“Sei in buona compagnia. Sono tre notti che riesco a dormire a
malapena.”
“Il lavoro, tesoro?” domandò lei.
“In parte. Forse è davvero ora che mi trovi un socio.”
“Chi te lo ha detto?”
“Tony,” rispose Tom, con un sorriso.
“A te serve un fidanzato. O una fidanzata, come quella Alyssa. Quella
sì che aveva le palle,” fece lei, scuotendo la testa.
Tom rise. Era un secolo che non gli capitava di pensare ad Alyssa.
Aveva un che di selvaggio: poteva permettersi di ignorare ogni
convenzione sociale perché era sufficientemente ricca; in un periodo in
cui ciò era considerato quasi disdicevole per una donna, aveva un senso
dell’umorismo impagabile.
L’unica convenzione che Alyssa non voleva dimenticare del tutto era il
matrimonio. Si aspettava che Tom la sposasse, prima o poi.
“Non farà di me una donna onesta, e dato che esiste il divorzio non mi
renderà neppure certa di avere qualcuno al mio fianco, quando sarò
vecchia, ma mi darebbe un po’ di stabilità, almeno. Sarei
ragionevolmente sicura di passare con te degli anni felici, mentre ora
come ora non so se ti troverò al mattino.”
Ma Tom non poteva sposarla, non con quello che sapeva su se stesso. Che
avrebbe fatto, se dopo due anni di matrimonio si fosse invaghito del
giardiniere? O del fratello di lei? O di qualunque altro uomo? Non
voleva comportarsi da ipocrita, non voleva neppure correre il rischio
di mettersi nella condizione di diventarlo.
Tra loro finì, come lei aveva previsto sarebbe successo: probabilmente
la sua insistenza sul matrimonio era stata solo una scusa per chiudere.
Forse pensava che separarsi per il fatto di avere due visioni del mondo
inconciliabili sarebbe stato meno doloroso che ammettere che l'amore
era venuto meno.
Era stato un colpo, per Tom, ma in fin dei conti non così brutto. Era
più giovane e complessivamente più felice e soddisfatto del mondo.
Si strinse nelle spalle: “Mi accontenterei anche solo di qualcuno con
cui dividere l’ufficio.”
“Eccoci. Vuoi salire a bere qualcosa, tesoro?” gli chiese la donna.
“Libera di non crederci, ma stasera sei già la seconda ragazza che mi
invita a casa sua,” le disse Tom, entrando nell’atrio del palazzo.
“Te la farò scordare in un attimo,” gli promise Winnie.
Salirono le scale facendosi ‘shht’ l’un l’altra e ridacchiando come
ragazzini.
Nonostante si conoscessero da anni, Tom non era mai stato a casa di
Winnie.
La donna aveva acquistato la Pantera Blu cinque anni prima e si era
trasferita nel quartiere.
Tom sapeva dov’era il suo appartamento, gli era già capitato di
accompagnarla fin lì o di salutarla passando sotto la sua finestra il
giovedì, il giorno di chiusura del locale, ma non era mai entrato.
L’appartamento era piccolo e ingombro di mobili. In confronto alla casa
di Yucca Road che Tom aveva lasciato da poco sembrava uno sgabuzzino.
Anche la sua stanza sul retro dell’ufficio sembrava più grande, ma
quell’impressione era molto probabilmente dovuta al fatto che era molto
spoglia.
Il soggiorno di Winnie, cui si accedeva dalla porta di ingresso senza
passare per un ingresso vero e proprio, era occupato quasi interamente
da un divano imbottito gigantesco e da una poltrona coordinata su cui
ci si sarebbe potuti sedere in due. Entrambi i mobili erano tappezzati
in tessuti pesanti, dai colori caldi, come le coperte e gli scialli
abbandonati sui braccioli.
Le tende erano color mattone e bianco panna, tirate a coprire la luce
gialla dei lampioni.
L’unica luce che Winnie accese proveniva da una abat jour con la
cappelliera rosso fuoco, molto simile a quelle che c’erano sui tavolini
della Pantera Blu, ma più grande, tanto che sul tavolino su cui stava
appoggiata c’era a malapena posto per un libro. Nell’insieme,
l’ambiente era caldo, accogliente e molto seducente.
Winnie gli disse di accomodarsi sul divano mentre prendeva qualcosa da
bere.
Tom sprofondò tra i cuscini dopo essersi tolto il soprabito e averlo
appoggiato allo schienale della poltrona su indicazione della padrona
di casa. Studiò la stanza e decise che se Winnie fosse tornata con
indosso una vestaglia di chiffon su un completino di pizzo nero sarebbe
stata davvero intonata a tutto il resto dell’arredamento.
Ma quando Winnie tornò, con un vassoio, una bottiglia molto strana e
due bicchierini, indossava lo stesso abito in velluto rosso che aveva a
inizio serata. Anche quello si intonava all’ambiente, comunque.
“Ecco qui, tesoro, qualcosa di dolce,” gli disse, posando il vassoio su
un minuscolo tavolino da caffè e sedendosi accanto a Tom. Gli porse un
bicchiere. “Cin cin.”
Era un vino liquoroso, molto dolce, come aveva detto la donna, e molto
forte.
Tom si sentì riscaldare dalla testa ai piedi.
“È fantastico. Cos’è?” le chiese.
Guardò la bottiglia: era a forma di sfera schiacciata ai poli, con un
tappo come quello di un’ampolla, di colore blu con ricami dorati.
“Brodo di giuggiole,” rispose Winnie, versandogliene ancora un po’.
“Conosci l’espressione ‘andare in brodo di giuggiole’? Deriva da questo
liquore.”
Tom conosceva l’espressione, Tony la usava spesso. Lo disse a Winnie.
Lei annuì: “Me lo fa arrivare lui da un suo parente in nord Italia.”
“Non me lo hai mai servito al locale.”
“Me lo tengo tutto per me!” fece lei alzando le spalle.
“È carino qui,” le disse Tom, accennando alla casa. “Non mi sento
propriamente al sicuro, con questa luce soffusa e questo divano così
grande e comodo, ma…” aggiunse, sedendosi più composto, con braccia e
gambe serrate, fingendo di essere a disagio.
Winnie rise: “Che ti devo dire? Una ragazza sola vuole un posto
accogliente, dove rifugiarsi. E sapessi che sollievo non dover arredare
una casa tenendo conto dei gusti maschili…” Scosse la testa. “Ero una
tale stupida. Andarmene è stata la cosa migliore che abbia mai fatto,”
disse, accennando al suo ex marito.
Tom non lo aveva mai conosciuto: Winnie si era trasferita nel quartiere
dopo il divorzio. Era riuscita chissà come a non farsi portare via i
suoi risparmi e aveva fatto in modo di sparire dal radar del vecchio
Martin Sheperd. Ora usava di nuovo il suo nome da ragazza, Hart.
La prima volta che aveva sentito il suo nome ˗Winnie Hart˗ Tom aveva
pensato che fosse un nome falso.
“Dici sempre che devo trovarmi qualcuno. Tu perché non ti trovi uno
spasimante?” le chiese Tom, conscio che lei si sarebbe un po’ piccata.
“Uno spasimante? Neanche avessi diciassette anni! Alla mia età potrei
trovarmi un amante, al massimo. Ma qualcuno che non abbia la minima
intenzione di sposarsi e avere figli, beninteso. Non mi sposerò mai
più. Sono troppo felice di essere libera,” replicò lei, sorseggiando il
brodo di giuggiole.
“Saremmo perfetti, io e te,” scherzò Tom.
“Oh, be’, almeno ci terremmo compagnia!” concluse lei allegra.
Quando il liquore fu quasi finito, un’ora dopo, Tom si sentiva
completamente a suo agio sul divano di Winnie, ma lei cominciava a dare
segni di sonnolenza, stropicciando gli occhi e arricciando il naso, e
Tom decise che era meglio levare il disturbo.
Baciò la donna sulla guancia e si avviò alla porta da solo.
Winnie lo salutò agitando graziosamente la manina e soffiandogli un
bacio.
Tom uscì ridendo sul pianerottolo e subito si fece ‘shht’ da solo. Era
decisamente brillo.
Forse ora sarebbe riuscito a dormire un paio d’ore, prima di andare da
Maria per accompagnarla all’identificazione del corpo del padre.
Tom si svegliò di buon’ora e di buon umore.
Per prima cosa, dopo aver bevuto un caffè seduto dietro la sua
scrivania, decise di chiamare la base di Encino. Era presto, ma
d’altronde l’alzabandiera è alle cinque di mattina, da che mondo è
mondo, se non ricordava male (anche se Tom non aveva fatto l’anno di
leva: quando la guerra era scoppiata lui era appena stato ammesso
all’accademia di polizia), quindi qualcuno di sveglio dietro un
telefono doveva esserci per forza.
C’era, in effetti. Ma a quanto pareva la base di Encino non discuteva
di presunte violazioni alle sue misure di sicurezza con il primo
venuto, fosse anche il detective privato Tom Ludlow, e il militare che
gli aveva risposto rappresentava proprio la base stessa, quindi, di
conseguenza, non intendeva dargli nessunissimo parere personale, né
tantomeno una risposta ufficiosa. Buona giornata.
Non era stato molto incoraggiante, come primo risultato della giornata,
rifletté Tom. Immediatamente dopo chiamò lo studio del dottor Thompson,
che però non c’era. Tuttavia l’uomo sarebbe rimasto tutta la mattina
alla stazione di polizia: c’erano buone probabilità che Tom lo
incontrasse mentre accompagnava Maria all’identificazione, dato che si
era occupato lui dell’autopsia di Andy Butler.
Tom decise che avrebbe colto l’occasione per chiedere informazioni sul
proiettile, o quantomeno un appuntamento al medico legale per parlare
della faccenda.
Alle otto e un quarto Tom afferrò il soprabito, pronto a uscire.
Avrebbe recuperato la macchina e si sarebbe fatto trovare sotto casa di
Maria alle otto e mezza, poi avrebbe seguito la macchina della polizia
mandata a prenderla fino alla stazione di polizia. Era già nella sala
d’aspetto, diretto verso la porta d’ingresso quando il telefono suonò.
Tornò indietro di corsa.
“Pronto?”
“Sono io. Non sono morto,” gli disse James, dall’altra parte
dell’apparecchio.
“Cominciava a venirmi il dubbio,” gli rispose Tom, un po’ freddo.
“C’è stato un imprevisto, ieri sera, non ho fatto in tempo ad
avvertirti.”
“Ti ho chiamato in albergo più o meno tutto il giorno. Ieri sera c’eri,
e non hai risposto.”
“Ero certo che fossi tu, ma non ero in vena di parlare e ho fatto finta
di niente.”
“Senti, James, ho bisogno di chiederti una cosa e sono di fretta…”
“Che devi fare? Hai trovato il tuo uomo scomparso?”
“Sì. Hanno trovato il cadavere di Andrew Butler, il padre della mia
cliente. La devo accompagnare all’identificazione. Ma ho bisogno ci
chiederti la data dell’assalto al convoglio, e possibilmente anche
l’ora.”
“Tom, ti ho chiesto di non immischiarti nella faccenda. Non indagare.
Ho intenzione di sbrigarmela da solo.”
“È importante. Potrebbe esserci un collegamento con…”
“No. Non è importante e non ti riguarda. Stanne fuori.”
Tom fissò la cornetta, stranito: “Che diavolo ti prende? Sto cercando
di aiutarti!”
“Non farlo: mi dici sempre di lasciarti vivere la tua vita, che tu lo
fai con me e dovrei ricambiarti il favore. Fallo anche stavolta, lascia
perdere tutta questa faccenda, dimenticala,” concluse James, con voce
neutra.
“James, al diavolo l’orgoglio! Ci sono di mezzo due morti, è una
faccenda seria!”
“Credi che non mi renda conto che è una faccenda seria?” fece James,
più vicino ad alterarsi di quanto Tom lo avesse mai sentito.
“Se te ne rendi conto, allora c’è qualcosa che mi nascondi,” ribatté
Tom.
Strinse il ricevitore con forza. Che stava succedendo?
“Tom, per favore, per amor mio, stai lontano da questa faccenda,” lo
pregò James, ogni vestigia di rabbia scomparsa dalla sua voce.
“Ora devo andare, o arriverò in ritardo,” decise Tom.
Riattaccò e uscì di casa. Che stava succedendo, si chiese di nuovo.
Cosa gli nascondeva James? Perché non aveva avuto nessuna reazione
quando Tom aveva parlato di due morti coinvolti?
Parcheggiò sotto casa di Maria alle otto e venticinque.
Maria uscì dal portone un minuto dopo. L’investigatore scese e le andò
incontro.
La donna indossava un abito nero, un tailleur di lana che le stava
molto bene, e un cappotto di panno, anch’esso nero. Portava un
cappellino scuro sui capelli acconciati molto semplicemente.
Nel complesso era molto elegante e sembrava padrona di sé, nonostante
fosse pallida e avesse gli occhi rossi e stanchi.
“Signorina Butler. Di nuovo le mie condoglianze. Come vi sentite?”
Maria allungò una mano verso di lui e Tom la prese.
La ragazza strinse con forza: “Avete promesso di raccontarmi tutto,
signor Ludlow. Ricordate?”
Tom la rassicurò: “Vi racconterò tutto, Maria. E a quel punto
decideremo cosa fare.”
La macchina inviata dal sergente Bayles per accompagnare Maria alla
stazione di polizia arrivò in quel momento. Un agente scese e salutò
Maria. L’uomo rivolse poi lo sguardo su Tom, aspettando spiegazioni
della sua presenza.
“Questo è il detective Ludlow,” disse Maria. “Gli ho chiesto di
accompagnarmi a vedere il corpo di mio padre. Ci seguirà con la sua
macchina,” concluse con sicurezza, salendo sull’autopattuglia.
Rivolse un ultimo sguardo a Tom, prima che l’agente chiudesse lo
sportello.
“Non combinerà niente di strano, quando saremo lì, vero?” gli chiese il
poliziotto, scrutandolo con disapprovazione.
“Non combinerò niente di niente,” lo rassicurò Tom.
Si toccò il appello in segno di saluto e salì in macchina. Seguì
l’autopattuglia fino alla stazione del ventitreesimo distretto e si
affiancò a Maria quando la ragazza scese dalla macchina. Le porse il
braccio ed entrambi vennero scortati dentro, nei locali adibiti ad
obitorio che occupavano i sotterranei della stazione e confinavano con
quelli dell’ospedale accanto.
La stazione del ventitreesimo distretto aveva davvero una posizione
strategica, anche se in teoria la sua sistemazione in quell’edificio
doveva essere provvisoria.
Ma dato che lo era da almeno quindici anni, Tom e probabilmente tutti
quelli che ci lavoravano la ritenevano ormai definitiva e immutabile.
Sempre scortati dall’agente si inoltrarono in un dedalo di corridoi
illuminati artificialmente, con le pareti ricoperte di piastrelle
chiare.
Sfilando nel corridoio, Tom notò una porta con una targhetta che gli
permise di riconoscere l’ufficio del dottor Thompson e si ripromise di
passare a bussare, se ne avesse avuta l’occasione.
Le celle frigorifere erano al fondo del passaggio.
L’agente esitò un attimo, rivolgendosi a Maria: “Ci siamo quasi. Siete
pronta? Pensate di farcela?”
Maria annuì, stritolando per un attimo la mano di Tom, poi si scostò da
lui e fece cenno all’agente di aprire la porta.
La stanza in cui entrarono non era molto diversa dal corridoio appena
percorso: pareti ricoperte di piastrelle, soffitti bianchi. Era un
luogo spazioso; diverse barelle erano ordinatamente accostate alle
pareti, parallele a una fila centrale.
Una di queste ultime era occupata da una figura coperta da un telo
verde chiaro. Dietro di essa sostavano un dottore e un’infermiera, in
silenziosa attesa che Maria si facesse avanti.
Alle loro spalle la porta dell’obitorio si spalancò e il sergente
Bayles entrò.
Guardò Tom senza dire nulla, ma le sue labbra si ridussero a una linea
sottile. Poi lo dimenticò e si affiancò a Maria. Scambiarono qualche
convenevole.
Tom ebbe l’impressione che il poliziotto fosse davvero partecipe del
dolore di Maria.
“Quando siete pronta, signorina Butler,” le disse infine Bayles.
La scortò fino alla barella e le presentò il dottore.
Tom fece un passo avanti, intenzionato a vedere più da vicino la ferita
alla tempia che aveva ucciso Andy Butler, ma l’agente che li aveva
accompagnati fin lì si schiarì rumorosamente la voce e gli sbarrò la
strada.
“Oh, andiamo!” protestò Tom sottovoce, ma quello fu irremovibile.
Il dottor Sperling scostò il telo e scoprì il viso del padre di Maria.
Dalla sua posizione, Maria non poteva vedere il foro di pallottola, a
meno di avvicinarsi ancora e sporgersi sul corpo.
Il dottor Sperling e la sua infermiera avevano avuto molto tatto.
Tom, molto più indietro di Maria non riuscì a vedere assolutamente
niente e li maledì più e più volte tra sé e sé.
“È vostro padre, Andrew Butler?” Il sergente Bayles pose a Maria la
domanda di rito, affiancandola e mettendole una mano sulla schiena.
Maria, respirando un po’ affannosamente rispose di sì. Sì, ne era certa.
“Dovrà firmare qualche carta, temo,” le disse il sergente Bayles, con
garbo, cercando di allontanarla dalla barella.
“Vorrei restare qualche minuto sola con mio padre,” gli disse invece
Maria, non accennando a muoversi.
Bayles scambiò un’occhiata con il dottore, che annuì.
“L’infermiera Johnson vi terrà compagnia,” disse a Maria.
La donna annuì.
“Noi saremo qui fuori,” la avvertì il sergente Bayles, prima di girarsi
e uscire. L’agente vicino a Tom gli rivolse un sorriso: “Su, fuori,
amico.”
A Tom non rimase che uscire con l’agente alle calcagna.
Si ritrovarono tutti in corridoio, Tom, il dottor Sperling, l’agente e
il sergente Bayles, a guardarsi in silenzio.
Il dottor Sperling li lasciò per primo.
“Ho alcune faccende da sbrigare. L’infermiera verrà a chiamarmi.
Signori,” li salutò, scomparendo lungo il corridoio.
Tom decise di seguire il suo esempio.
“Qualche problema se esco a fumare, sergente?” domandò a Bayles,
prendendo il pacchetto dalla tasca del soprabito.
“Non ho nessun problema con quello che fate. Purché lo facciate lontano
da lei,” gli rispose Bayles.
“Io ho cercato di aiutarla, come avete fatto voi, Bayles,” gli rispose
Tom, girando sui tacchi.
Si aspettava che l’agente lo seguisse, per essere certo che non si
infilasse dove non doveva, ma quello non si mosse.
Bene. Perché Tom aveva tutta l’intenzione di infilarsi dove non doveva.
Ripercorse il corridoio fino all’ufficio del dottor Thompson e bussò,
rapido. Entrò non appena sentì un flebile ‘avanti’ e si richiuse
velocemente la porta alle spalle.
Il dottor Thompson era chino sulla sua scrivania ad esaminare dei
documenti. Parve molto sorpreso di vedere Tom.
“Detective Ludlow? Che cosa ci fate qui, nella tana del drago?” gli
chiese, posando gli incartamenti e alzandosi per accoglierlo.
“Sono di passaggio, e spero di passare inosservato, in effetti. Ho
accompagnato Maria Butler all’identificazione del padre. Pensavo che
sareste stato presente, Dottore” gli rispose Tom, facendosi avanti e
stringendo la mano al medico legale.
“Avrei dovuto, ma il mio turno è già finito da un pezzo. Le scartoffie
mi hanno trattenuto qui.” L’uomo rimase un attimo in silenzio, come
soppesando le parole che stava per pronunciare. “È strano, signor
Ludlow. Ho pensato a voi, durante l’autopsia. Al vostro accenno a un
calibro militare.”
Tom lo incalzò: “Il proiettile estratto dal corpo è un calibro
militare, allora? Avevo ragione?”
Il dottore gli fece cenno di aspettare: “Non sono autorizzato a darvi
questo genere di informazione, sono spiacente. Non posso tradire il mio
dovere di riservatezza proprio all’interno di queste mura.”
“Capisco. Tuttavia, avete detto che il vostro turno è finito, non è
così?”
Il dottor Thompson annuì: “Sì, l’ho detto. Sono curioso a proposito di
questa faccenda, e allo stesso tempo so che sarebbe meglio se non ne
sapessi nulla. Tuttavia, è nell’interesse della comunità che qualcuno
riesca a mettere insieme tutte le informazioni e a dare un senso a
tutto. A quanto pare, voi possedete già parecchi elementi del caso…”
“Penso di sì, di averne almeno un buon numero. Ma perché non fate
riferimento al tenete Kuntz? Non credete che sarebbe il più adatto a
dare un senso a tutto, per usare le vostre stesse parole, dottore?” gli
chiese Tom.
Ultimamente stava facendo un grande affidamento su un sacco di
informazioni offerte troppo spontaneamente: non gli avrebbe fatto male
un po’ di cautela.
“Il tenente Kuntz è un uomo molto intelligente. Ma anche di voi ho una
buona opinione, Ludlow. Inoltre, non ho digerito il comportamento di
Kuntz, ieri sera. Ultimamente, quell’uomo ha sempre più difficoltà a
mantenere la calma.”
“Non ‘ultimamente’, Dottore. Temo che sia sempre stato così.”
“Voi lo conoscete da tempo, eh?” fece il dottor Thompson. “Ecco cosa vi
propongo: andrò a bere qualcosa, una volta finito qui, in un locale
sull’Exposition Boulevard, davanti al Museo di Storia Naturale.
Potreste raggiungermi.”
Tom fece un rapido calcolo: “Potrei essere là per le undici.
Riaccompagnerò a casa la signorina Butler e la raggiungerò lì. La
ringrazio molto per la sua disponibilità.”
Il dottore fece cenno di lasciar perdere: “Mi piacerebbe proprio sapere
cosa sta succedendo. Ma è meglio di no. Preferisco non immischiarmi
troppo, sono solo un vecchio segaossa.”
Tom lo ringraziò ancora e uscì di soppiatto dall’ufficio. Trovò Maria e
il sergente Bayles che parlavano nell’atrio della stazione.
Maria gli rivolse uno sguardo acuto. Tom ebbe l’impressione che gli
stesse chiedendo: ‘Be’? Sei riuscito a fare quello che sei venuto a
fare?’
Le si affiancò e il tenente Bayles si irrigidì impercettibilmente.
“Posso riaccompagnarvi a casa io, signorina. Il mio turno è finito,”
propose.
“La ringrazio, sergente. Ma il signor Ludlow e io abbiamo diverse cose
di cui discutere. Mi riaccompagnerà lui, è qui apposta.”
Bayles la prese con grazia, non c’è che dire: salutò Maria e la pregò
di chiamarlo se mai avesse avuto bisogno di qualcosa, e infine sparì
senza rivolgere a Tom più di un vago cenno con il capo.
Tom lo salutò.
“Allora?” domandò Maria non appena furono in macchina.
“Potrebbe non farvi piacere, sentire quanto sto per dirvi,” la avvertì
Tom, ma lei continuò a fissarlo, in attesa, così le disse tutto.
Che suo padre non aveva debiti, che era entrato in contatto con dei
criminali, che Tom sospettava avesse preso parte all’assalto di un
convoglio militare e che fosse incaricato di trasportare le armi
trafugate.
Erano un sacco di informazioni, e Maria le assorbì tutte senza parlare.
Tom le lasciò qualche minuto, prima di domandare: “A questo punto,
signorina Butler, dobbiamo decidere cosa fare. Mi avete assunto per
trovare vostro padre sano e salvo, e non mi è stato possibile. Secondo
il medico legale era morto da diversi giorni, quando è stato ritrovato.
Può darsi che sia morto la sera stessa in cui è scomparso, mercoledì
scorso.”
“Il sergente Bayles me lo aveva detto,” rispose Maria con un filo di
voce.
Tom continuò: “Direi che il mio incarico è esaurito, Maria. Continuerò
a indagare sulla faccenda, ma non appena avrò abbastanza elementi li
passerò alla polizia. Hanno più mezzi e più possibilità di trovare
l’assassino di vostro padre,” concluse.
La ragazza sospirò: “Anche se non dovessero trovarlo, non penso che vi
assumerò di nuovo, signor Ludlow. Non so quanto mi sarebbe di
consolazione sapere che chi ha ucciso mio padre è stato arrestato. Non
mi consolerebbe di sicuro da quello che lui era diventato.”
“Capisco.”
“Amavo mio padre. Lo amo tutt’ora. Ma sono molto arrabbiata con lui.
Avrei voluto poterlo ricordare almeno come un uomo onesto. Con dei
problemi, ma onesto. Invece non posso. E non incolpo voi o la polizia,
ma solo mio padre.”
Erano arrivati.
Tom le aprì lo sportello e la aiutò a scendere.
“Non sottovaluti il sollievo di ottenere giustizia, signorina Butler. E
non sentitevi in colpa se ora siete furiosa con vostro padre, è
perfettamente naturale.” Le baciò la mano. “Fatemi sapere la data del
funerale, quando potrete fissarne una, una volta terminate le indagini.”
“Ve lo farò sapere senz’altro, signor Ludlow.” Lo pregò anche di farle
avere il conto. Tom la guardò entrare nel suo palazzo, prima di
risalire in macchina. Si accese una sigaretta e si recò
all’appuntamento con il dottor Thompson.
Non aveva più una cliente, ma il filo rosso di Maria continuava ad
avvolgerlo.
Quando Tom raggiunse il locale indicatogli dal dottor Thompson ˗una
caffetteria˗ l’uomo era già lì. Mancavano pochi minuti alle undici e il
posto era affollato di dipendenti del Museo di Storia Naturale e di
visitatori. C’era anche qualche studente di storia, che consultava
appunti presi da pesanti volumi.
Il medico aspettava Tom bevendo una tazza di latte.
“Niente caffè e soprattutto niente più alcool, per questo povero
vecchio,” disse a Tom quando notò il suo sguardo incuriosito. “Ho
problemi al fegato. Una cosa ereditaria, l’ho sempre saputo. Così mi
sono portato avanti e ho cominciato a condurre una vita sana.”
Tom convenne che era un lodevole proposito, quello di condurre una vita
sana, ma ammise che i suoi propositi, per quanto buoni, solitamente
naufragavano piuttosto in fretta. Nondimeno, ordinò anche lui un
bicchiere di latte. Dopo la sigaretta aveva un sapore orribile.
‘Dovrei correggerlo con il caffè…’ si disse.
“Allora, figliolo. Sono pronto per le domande,” ruppe il ghiaccio il
dottor Thompson. Tom annuì: “Bene. Per cominciare, da quanto tempo è
morto, Andrew Butler?”
“Direi da una settimana, più o meno. Non era un bello spettacolo. Come
se l’è cavata la figlia?”
“Alla grande. È una ragazza molto forte. Credo però che sarebbe
sollevata di sapere che il padre è morto prima che lei ne denunciasse
la scomparsa. Significherebbe che anche se lei avesse agito con più
urgenza non si sarebbe potuto fare nulla. Penso che l’idea le
toglierebbe un peso dal petto, nonostante tutto.”
Il dottore annuì: “Il senso di colpa…a volte però è semplicemente
impossibile liberarsene. Che abbia senso o meno, la logica non ci aiuta
a stare meglio.”
Tom gli rispose che lo capiva perfettamente.
“Vogliamo parlare del proiettile?” chiese poi.
“Il proiettile è un 45 ACP, il diametro è di 11,50 millimetri, sparato
con tutta probabilità da una Colt M1911, cioè l’arma in dotazione allo
U.S. Army fin dal 1911. È una pistola semi-automatica, con alto potere
di arresto e molto precisa. Tuttavia, ha una scarsa gittata e scarsa
forza di penetrazione. Andrew Butler è stato ucciso da pochi metri di
distanza, a giudicare dai contorni del foro di entrata.”
Il medico legale restò in attesa che Tom dicesse qualcosa.
Tom rimase in silenzio, a riflettere.
Ecco il collegamento: Andy Butler era stato ucciso da un’arma in
dotazione all’esercito degli Stati Uniti d’America. Un mese prima, un
convoglio militare era stato attaccato e le armi e le munizioni che
trasportava erano state trafugate. Il conducente del mezzo militare era
stato ucciso e qualcuno aveva portato via il camion. Andrew Butler era
un autista di mezzi pesanti, che un mese prima aveva effettuato con il
suo mezzo una consegna non lontano da dove il convoglio era stato
attaccato. Successivamente, Andrew Butler aveva accumulato diversi
ritardi nel suo lavoro. Da un appunto trovato nel suo appartamento, Tom
sapeva che in quelle occasioni Andrew aveva effettuato delle deviazioni
dal suo percorso.
Ecco tutti gli elementi. Messi insieme, avevano un certo peso.
Gli mancava solo più la data precisa dell’assalto al convoglio, che
James rifiutava di dirgli e che la base di Encino negava fosse accaduto.
Il dottor Thompson era ancora in attesa.
Tom gli sorrise: “Per me ha perfettamente senso, dottore. Ma lei ha
detto che non voleva saperne troppo per non essere coinvolto.”
Il medico emise un verso frustrato: “È così, dannazione! Molto meglio
che io mi faccia gli affari miei.”
“Ha già consegnato il suo rapporto?” gli chiese Tom, bevendo un sorso
di latte.
“Sì, direttamente nelle mani del tenente Kuntz, questa mattina presto.
Ho fatto nottata.”
Quindi ora Kuntz aveva una conferma di quanto Tom gli aveva detto la
notte precedente. Forse se gli avesse presentato gli altri elementi lo
avrebbe convinto. Di certo non avrebbe potuto ignorarlo. Poteva sempre
arrestarlo per intralcio alle indagini della polizia, ma quello lo
poteva fare pressappoco in qualunque momento, non era niente di nuovo.
Non lo faceva impazzire l’idea di doversi rivolgere a Kuntz, ma non
aveva alternative: non poteva interpellare direttamente la Commissione
d’inchiesta sull’incidente, senza l’intermediazione di James. E
qualcosa era indispensabile fare: Andy aveva distribuito le armi,
quindi adesso erano sparse per la città. Chissà in mano a chi, per
farne cosa. Si parlava di un numero di pistole e fucili d’assalto
sufficienti per scatenare una guerra, nel vero senso della parola.
Poteva da un momento all’altro verificarsi una strage.
Possibile, possibile che James non vedesse quello che poteva causare la
sua riluttanza a dare informazioni? Possibile che nessuno a Encino se
ne rendesse conto? Che cosa c’era sotto?
Tom finì il suo latte, come un bravo bambino, e lui e il dottor
Thompson si alzarono. Tom pagò per entrambi e i due uomini uscirono
dalla caffetteria.
“La ringrazio molto, dottore. Il suo aiuto è stato provvidenziale.”
“Bene. Alla mia età è importante sapere di aver fatto qualcosa di
utile, almeno qualche volta nella vita,” gli rispose il medico legale,
con leggerezza.
Salutò Tom raccomandandogli di stare attento alla strada, come se lo
mandasse a scuola dopo la colazione, e si avviò alla sua auto.
Tom fece lo stesso e si diresse verso casa.
Note:
La prima parte del capitolo mi sa un po' di riempitivo: è più che
probabile che sia stata scritta per amore di wordcount e bastaXD
Le riflessioni di Tom sul fatto che non poteva rischiare di sposarsi
perchè bisessuale sono abbastanza stupide: chiunque può mandare
all'aria un matrimonio perchè l'amore finisce o si innamora di qualcun
altro, a prescindere dall'orientamento sessuale. Però in un'epoca di
omofobia internalizzata come quella in cui è ambientata la storia non
mi sembrano troppo poco plausibili...Boh, spero di non offendere
nessuno.
A presto!
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
VI
Capitolo
Una volta nel suo quartiere Tom lasciò come al solito la macchina nel
parcheggio del ristorante di Tony. Passò un attimo dal suo palazzo, per
vedere se il portiere avesse dei messaggi per lui e poi uscì per il
pranzo. James non si era ravveduto, non si era pentito del suo
comportamento e non gli aveva lasciato un messaggio di scuse. Cocciuto
bastardo.
Passeggiò fino alla tavola calda. Comprò il giornale a un’edicola e
diede un’occhiata all’articolo sul ritrovamento del corpo di Andrew
Butler, scomparso dal mercoledì precedente. Il giornale non indicava
elementi degni di nota.
Tom finì di leggerlo dopo essersi accomodato a un tavolo, prima di
ordinare. Mabel, una delle cameriere, gli riempì una tazza di caffè e
prese la sua ordinazione. Posato il giornale, Tom chiacchierò un po’
con alcuni vicini.
La tavola calda era un punto di ritrovo al pari della Pantera Blu, per
gli abitanti del quartiere. C’era anche qualcuno che era stato cliente
suo o di Butch, negli anni passati.
In pratica, la tavola calda era identificabile con un rifugio, per Tom,
allo stesso modo del cinema, o del ristorante di Tony. L’intero
quartiere era una casa per lui.
Fu quindi uno shock non da poco quando la sedia di fronte alla sua
venne scostata di malo modo e il tenente Abel Kuntz si sedette di
fronte a lui.
“Ho tenuto d’occhio il palazzo dove c’è il tuo ufficio, ma non ho
lasciato messaggi. Spero che la cosa non ti crei problemi, Ludlow.”
“Kuntz?!”
“Pensavi che avrei sopportato una tua intromissione sulla mia scena del
crimine senza dire neanche una parola?”
“Direi che ieri sera di parole ne hai spese parecchie,” fece Tom,
appoggiando la schiena allo schienale della sedia, mettendo
inconsciamente più distanza possibile tra sé e il suo avversario. “E
comunque, non avevo idea che fosse la tua scena del crimine finché non
ti sei girato e hai cominciato a fare il pazzo. Come funziona? Le scene
con cadaveri occultati sono tue di diritto? Come le balene appartengono
al re perché la regina abbia sempre stecche di balena di scorta per i
corsetti?”
Kuntz si piegò sul tavolo, annullando lo spazio che Tom si era
ritagliato.
“Sempre spiritosi, voi finocchi. Voglio sapere cosa diavolo sai di
questa storia, e voglio saperlo prima di decidermi a sbatterti nella
prigione della contea con gli stupratori e i violenti. Pensi che ti
troveresti a tuo agio?” gli ringhiò in faccia.
Tom gli sorrise: “Ma ce l’ho già il mio uomo violento di fiducia, Abel.
Non ti cambierei con nessuno al mondo.”
Kuntz fece scattare la mano e lo afferrò per il bavero della giacca,
trascinandolo in piedi.
Mabel, la cameriera, lanciò un grido. Diversi avventori si alzarono in
piedi, compreso un gruppo di quattro uomini seduti alle spalle di Tom.
“Tom, va tutto bene?” chiese uno di loro, Jeffrey Meier.
Aveva una ditta di costruzioni e si era rivolto a Tom dopo aver subito
una serie di furti di attrezzatura nei suoi cantieri. Tom lo aveva
aiutato a individuare i responsabili, due operai licenziati tempo
prima, e a recuperare parte della merce trafugata. Si trovava alla
tavola calda per pranzare con i suoi capicantiere.
Kuntz distolse lo sguardo dal viso di Tom e lo fece scorrere su tutti
gli avventori del locale.
“Sei a casa mia, ora. E sbaglio, o sarebbe la seconda volta che perdi
il controllo in un luogo pubblico?” gli sussurrò Tom.
Kuntz lo spinse indietro e tirò fuori il distintivo.
Lo sventolò alla folla, gridando: “Polizia! Si può sapere che cosa
avete da guardare? Tornate al vostro pranzo! Non sta succedendo niente
di niente!”
“Va tutto bene, Jeffrey, ti ringrazio,” disse Tom, sistemandosi la
giacca.
L’uomo annuì e si sedette lentamente, imitato dai suoi dipendenti.
Quando Tom si fu seduto, Mabel, dopo un’occhiata insieme terrorizzata e
furiosa a Kuntz, si slanciò verso il detective privato: “Signor Ludlow!
Si sente bene?”
“Sì, certo, Mabel, non ti preoccupare. Come procede la mia ordinazione?”
“Arriva, signore!” rispose lei e scomparve in cucina.
Tom rialzò lo sguardo su Kuntz, ancora in piedi di fronte al tavolo,
che fissava torvo ora Tom, ora gli altri avventori. Tom gli fece cenno
di accomodarsi con la mano. Lentamente, senza smettere di cercare di
fermagli il cuore con lo sguardo, Kuntz si sedette di nuovo.
“E così, da queste parti sei un grand’uomo, eh?” fece, sistemandosi la
sedia.
Tom fece una smorfia esasperata: “Sei venuto perché volevi qualcosa,
Kuntz? O sei davvero qui solo per litigare, ficcarti in qualche
scandalo, e giocarti la nomina a capitano?”
Kuntz parve calmarsi: “Sarò presto al centro di uno scandalo. E proprio
a causa di questo stramaledetto caso.”
Tom lo fissò con sguardo attento: “Di che si tratta?”
“Hai detto, ieri sera, che Andrew Butler aveva dei legami con il
crimine organizzato. Da dove veniva questa informazione?” chiese Kuntz,
invece di rispondergli.
“Ho le mie fonti. Una molto affidabile, corroborata da una non proprio
raccomandabile. Hai fatto fare dei controlli più approfonditi?”
Kuntz si accese un sigaro: “Sì, li ho fatti fare alla mia squadra.
Salta fuori che Andrew Butler era legato a Herbert Star, che a sua
volta lavorava per Marcus Collins. Un pezzo grosso, che gestisce un
sacco di traffici. Ha una rete di scagnozzi che ultimamente si sono
dati alle rapine a mano armata. A volte arrestiamo qualcuno, ma sono
sempre pesci piccoli e non riusciamo mai a collegarli a Collins e ai
suoi luogotenenti.”
“E cosa hai fatto di queste informazioni?” gli chiese Tom.
Mabel gli servì in quel momento l’arrosto con verdure che aveva
ordinato e Kuntz fece una pausa.
Il tenente riprese quando la ragazza si fu allontanata: “Alcuni di
questi soggetti ci sono noti. Quando ho saputo che Butler aveva dei
collegamenti con questa organizzazione, ho mandato i miei a fare
qualche domanda e a invitare qualcuno da noi per la colazione. Ma non
abbiamo trovato nessuno da pizzicare. Nessuno. Ci siamo mossi in
fretta, ho mobilitato tutta la squadra, ma niente. Come se fossero
stati avvertiti.”
“Chi può essere stato?”
“Solo uno dei miei. Nessun altro alla stazione era coinvolto o era
stato messo al corrente di quello che avevo chiesto. L’unica
spiegazione è che uno dei miei uomini ˗i miei uomini, capisci? ˗ abbia
avvertito quella feccia di non farsi trovare.”
“Non puoi esserne certo…” obbiettò Tom, aggrottando le sopracciglia.
“Vuoi dire che non lo posso dimostrare. Ne sono certo eccome. Ci sono
anche altri indizi, altre questioni, che mi hanno portato a questa
conclusione. Per il momento, e sottolineo per il momento, non ci posso
fare niente. Ma come posso indagare sul caso Butler se non so di chi
posso fidarmi?”
“E sei venuto da me?” gli chiese Tom incredulo. “Aspetta, aspetta: tu
sei venuto da me, a casa mia, per chiedermi aiuto, e mi hai preso per
il collo?!”
Era un comportamento da pazzi, decisamente.
Kuntz sbuffò: “Quante storie. Avrai visto di peggio.”
“Spesso per merito tuo. Sei venuto per chiedermi aiuto?”
“Vuoi sentirmelo dire per soddisfazione personale?” ringhiò Kuntz.
“No. Intendo dire: perché proprio da me? Non ci sono altri colleghi di
cui ti fidi?”
“Sono venuto da te perché stamattina ho letto il rapporto del dottor
Thompson. L’arma del delitto è una colt M1911, il proiettile un calibro
45. L’arma in dotazione all’esercito.”
Tom finse di non aver già parlato dell’argomento con il medico legale
solo un’ora prima.
“Un calibro militare, come avevo detto. Credi anche al resto?”
“Non ci credevo affatto. Un assalto a un convoglio! Sembra uno di
quegli stupidi film, tipo Giungla d’asfalto. Ma dopo aver letto il
rapporto del medico legale mi è venuto qualche dubbio. Ho chiamato un
amico che lavora nell’ufficio dello sceriffo, giù nella contea di
Encino. A quanto pare, la sera del 31 i militari si sono fatti portare
via da sotto il naso un carico di armi e munizioni. L’ufficio dello
sceriffo ha condotto le indagini nel più stretto riserbo, ma non hanno
concluso nulla, né trovato uno straccio di pista da seguire.
Ovviamente, l’opinione pubblica è stata tenuta all’oscuro di tutto.
Purtroppo lo eravamo anche noi, che potremmo ritrovarci quelle armi nel
giardino di casa.”
‘La sera del 31! Finalmente conosco la data di quel maledetto assalto!’
esultò tra sé e sé Tom.
Per l’eccitazione si sporse in avanti sul tavolo: “La notte del 31,
Andy Butler era fuori città con il suo camion per fare una consegna non
lontana dal confine della contea. Risulta dal suo ruolino delle
consegne. Ecco tutti i collegamenti: il luogo, la data, l’arma del
delitto. Andy Butler era l’autista che ha guidato il mezzo militare
trafugato!”
“Poi le armi sono state trasferite sul suo mezzo e lui le ha portate in
città. Ma dove sono ora? Abbiamo perquisito tutti i ritrovi noti di
Collins e dei suoi e non abbiamo certo trovato armi militari. Non
abbiamo trovato proprio nulla.”
“Se qualcuno li ha avvertiti, non hanno certo lasciato le armi perché
voi le trovaste. Inoltre, se hanno una talpa nella tua squadra, già
sapevano quali delle loro proprietà vi erano note. Non le avrebbero mai
usate come magazzino,” fece notare Tom.
“Quindi devono essere nascoste da un’altra parte.” L’espressione di
Kuntz si fece decisa: “Veniamo al punto, Ludlow! So che stai lavorando
per quelli di Encino. Come avresti potuto sapere che cos’era successo,
altrimenti? Quello che ti propongo è una collaborazione: trova dove
sono nascoste le armi e io li arresto tutti. La base mantiene un ruolo
defilato, possiamo fare passare tutto come una strategia per
smantellare un’organizzazione criminale, invece che il maldestro
tentativo di ritrovare quello che si sono fatti portare via come dei
perfetti imbecilli. Tu vieni pagato, quelle armi non uccidono nessuno
e…”
“E tu ti prendi il merito. Nessuno potrebbe toglierti la promozione a
capitano,” concluse Tom.
Kuntz annuì: “Una volta ripulita la mia squadra, sì. E dividerei la
gloria con l’investigatore che ha partecipato alle indagini.”
“Divideresti la gloria con me? Vieni a chiedermi aiuto, mi offri metà
del profitto. Sei proprio tu, Abel?”
“Ti diverti tanto a farmi saltare i nervi, eh? Ti lamenti tanto quando
ti metto le mani addosso, ma non pensi mai che te le cerchi?”
Tom reclinò la testa da un lato: “Potrebbero avermi già fatto qualche
critica del genere, in effetti.”
“Allora? Quelli di Encino accetteranno?”
Che Kuntz credesse che Tom lavorasse per i militari era un comodo
equivoco. Un discreto colpo di fortuna, davvero. Gli avrebbe permesso
di tenere James fuori dalla faccenda.
“In realtà, non sono tenuto a dirti per chi lavoro,” disse a Kuntz,
prendendo un sorso di caffè. “Ma ti serve tanto saperlo? Se accettano,
sta pur certo che lo saprai. Altrimenti, che facciano pure la figura
dei cretini. A me non importa più di tanto: sono più preoccupato di
quello che gente come Collins potrebbe fare con quelle armi. Tu no?”
Kuntz rabbrividì: “Sì, anch’io. Non riesco a pensare ad altro che a
fucili puntati contro i poliziotti, in strada. Se Collins stesse
armando i suoi, il suo primo obbiettivo sarebbero quelli che gli hanno
dato più fastidio: un sacco di bravi poliziotti. Potrebbe scatenarsi
una guerriglia urbana. Sarebbe una catastrofe.”
Tom annuì: “Quindi siamo d’accordo. Bisogna trovare dove sono nascoste
quelle armi. Suggerimenti?”
Kuntz si strinse nelle spalle: “Abbiamo già controllato i magazzini
noti, di proprietà di Collins o dei suoi prestanome. Deve trattarsi di
un luogo ampio, cui possa avere accesso un camion, come quello di
Andrew Butler.”
Tom tamburellò le dita sul ripiano del tavolo in formica: “Ci penserò.
E se trovo il posto?”
“Chiama. Arriverò con i rinforzi. Farò il possibile per individuare le
mele marce dal mio gruppo da subito. Alla peggio, mi circonderò di
agenti semplici. Sono troppo in basso perché qualcuno si prenda la
briga di corromperli.” Kuntz si alzò: “Aspetterò notizie, Ludlow.”
Uscì senza aggiungere nulla. E senza neanche offrirgli il pranzo.
Tom osservò Kuntz uscire dalla tavola calda, incredulo della piega che
avevano preso gli eventi.
Il tenente Kuntz che si rivolgeva proprio a lui. E lui che
accettava, e di buona grazia, per giunta. Indubbiamente, James sarebbe
stato fiero di lui: pareva che la guerra tra Tom e Kuntz fossi finita.
O quantomeno che si fosse stabilita una tregua duratura. Ecco un altro
filo che si avvolgeva intono a Tom: stavolta il suo colore era il blu
profondo delle uniformi della polizia, che lui non aveva mai indossato
ufficialmente. Tom rifletté che ormai non avrebbe potuto svincolarsi e
dimenticare la faccenda neanche se lo avesse voluto: dubitava che Kuntz
glielo avrebbe permesso.
Tornò in ufficio.
Scoprì che Kuntz era passato di lì: di nuovo non aveva lasciato
messaggi, ma ad attenderlo c’era un plico di fogli con il timbro della
polizia statale infilati in una busta marrone. Salì fino all’attico per
studiarli.
Si trattava dei rapporti delle attività della scorsa notte, con gli
indirizzi dei nascondigli noti di Collins e dei suoi e il resoconto dei
sopralluoghi compiuti da Kuntz e dagli uomini della sua squadra.
Tom non credeva che gli sarebbero stati tanto utili, ma almeno sapeva
che cosa escludere dalla sua ricerca.
O forse potevano servirgli a qualcosa, si disse, colpito da
un’ispirazione improvvisa. Agguantò le fotografie fatte
nell’appartamento di Andy Butler e il suo ruolino delle consegne e
passò diversi minuti a cercare, imprecando copiosamente, uno stradario
della città di Los Angeles.
Quando finalmente lo trovò, si mise a confrontare tutti i documenti in
suo possesso. Confrontando il ruolino di Andy e gli appunti trovati nel
suo appartamento, aveva notato che le consegne in cui Andy aveva
accumulato dei ritardi corrispondevano a quelle che l’uomo aveva
evidenziato. Tom aveva supposto che lo avesse fatto perché erano quelle
più vicine al luogo dove aveva consegnato la merce di contrabbando.
Chissà se…
‘Cavolo, sì!’ esultò Tom.
Alcuni degli indirizzi visitati dalla squadra di Kuntz non erano molto
distanti dal luogo delle consegne ‘speciali’ di Andy. In quei posti la
polizia non aveva trovato nulla, ma non era improbabile che ce ne
fossero altri che non erano noti agli investigatori, magari proprio nei
dintorni delle consegne speciali di Andy.
Tom si preparò un elenco delle consegne da controllare, si armò di
stradario per controllare gli indirizzi e si piazzò al telefono.
Telefono a un’agenzia immobiliare, il cui titolare era stato suo
cliente in un caso di speculazione immobiliare. Chiese di Clive
Crawford e attese che l’uomo venisse al telefono, arrotolandosi
nervosamente il cavo del telefono introno alle dita.
Finalmente Crawford rispose. Per fortuna si ricordava di Tom.
Si trattava di un uomo sulla cinquantina, calvo e gioviale, il
prototipo del perfetto agente immobiliare: ottimista, con la risposta
pronta, capace di vendere un a villa da trecento metri quadri a una
famiglia di tre persone. Era rimasto favorevolmente impressionato dal
lavoro del detective Ludlow (e ci mancherebbe: Tom si era addirittura
fatto sparare, per quel caso) e si dichiarò disposto ad aiutarlo fin
dal primo momento.
Tom gli spiegò di cosa aveva bisogno: Crawford gli avrebbe reso un
grande servizio se avesse potuto controllare se, nei dintorni degli
indirizzi che Tom gli avrebbe fornito, c’erano dei depositi, dei
magazzini o comunque delle proprietà di grandi dimensioni, e se gli
avesse potuto fornire il nome dei proprietari di tali edifici.
“Mi andrebbero bene anche fabbriche in disuso, o imprese fallite da
qualche tempo. Più difficile che si tratti di locali commerciali aperti
al pubblico, come falegnamerie o imprese edili, ma non si mai,”
concluse.
Sperava di trovare qualche indirizzo promettente, adatto a nascondere
un carico di armi. Dato che le consegne di Andy si concentravano nella
zona ovest della città, anche le ricerche di Crawford avrebbero dovuto
rivolgersi prima di tutto ai fabbricati sorti da quelle parti.
Andy aveva effettivamente consegnato parte delle armi nei luoghi che
Kuntz aveva fatto controllare, ma aveva effettuato diverse consegne
tutte nelle stesse zone: aveva avuto quindi la possibilità di spostare
la merce, forse su consiglio della talpa nella squadra di Kuntz. O
forse i gangster avevano finito per concentrare tutto il carico nello
stesso luogo, se prima o dopo la morte di Andy Butler Tom non avrebbe
saputo dirlo con certezza. Valeva la pena controllare.
Crawford promise che gli avrebbe fatto sapere tutto al più presto.
Tom lo pregò di farlo entro sera.
“Non c’è problema, signor Ludlow. Siamo molto orgogliosi della nostra
efficienza,” lo rassicurò Crawford.
Tom lo ringraziò sentitamente, e attaccò il telefono. Ora non gli
restava che aspettare. Sarebbe stato difficile, rimanere ad aspettare
lo squillo del telefono. Aggiornò il dossier del caso Butler,
includendo gli ultimi avvenimenti, compreso l’incontro con il tenente
Kuntz, ma tacendo di quello con il dottor Thompson. Quello sarebbe
stato incluso solo nella versione non ufficiale che Tom non avrebbe
mostrato a nessuno.
I documenti ufficiali potevano servire a Kuntz, o agli uomini di
Encino, una volta che tutto si fosse concluso.
‘O alla commissione, per dare una mano a James.’
A distrarre Tom dalla routine in cui era sprofondato dopo un’ora di
attesa ˗guardare il telefono, sistemare un po’ di fogli, sistemarsi
sulla sedia, guardare il telefono e così via˗ arrivò una cliente.
Era una donna sulla sessantina, con l’aria particolarmente seccata.
Tom la fece accomodare davanti a sé.
La donna lo ringraziò concisamente e chiarì che cosa l’aveva portata
sotto gli occhi di Tom, distogliendolo dal riordino dei documenti del
suo archivio (ma non dalla sorveglianza del telefono).
“Mio marito è morto,” annunciò la donna, con voce stentorea e tono
piccato, come se la cosa, più che dolore, le procurasse tanti fastidi
da non poterne più.
Tom le fece le sue condoglianze, in tono abbastanza neutro, perché gli
sembrava evidente che la signora Wallowitz, questo era il suo nome, non
era una vedova affranta in cerca di consolazione.
Tom, sebbene molto tentato di rifiutare l’incarico, promise alla fine
che il lunedì successivo avrebbe cominciato a cercare il testamento di
Arthur Wallowitz.
Accompagnò la signora Wallowitz, molto soddisfatta, ora, fino alla
porta di ingresso e poi si precipitò di nuovo in ufficio, accanto al
telefono.
E la stessa cosa fece dopo essere andato in bagno. Ma ancora il
malefico aggeggio si ostinava a non strillare.
Tom si versò da bere e marciò per la stanza, per sgranchirsi le gambe.
Ormai erano quasi le cinque e decise di ordinare la cena da asporto dal
ristorante di Tony.
Gliela consegnò il ragazzino che si occupava della manutenzione della
sua macchina.
Tom lo avrebbe immaginato riluttante di vederlo, dato che l’ultima
volta gli aveva gridato dietro con l’intento di spaventarlo, ma quello
sembrava piuttosto allegro e curioso.
“Non avevo mai visto il suo ufficio, signor Ludlow!” esclamò, facendo
qualche passo nell’ingresso mentre Tom prendeva il portafoglio. “Deve
incontrare un sacco di persone interessanti,” continuò, allungando il
collo per curiosare in giro. “Per quanto riguarda la macchina, signore,
io…” cominciò, quando Tom riapparve e gli cacciò i soldi in mano.
Poi prese in una mano la borsa che conteneva la sua cena, con l’altra
agguantò la spalla del ragazzo e lo buttò fuori, quasi di peso.
“Tieni il resto!” gli gridò, chiudendo la porta.
Non gli piacevano i bambini, soprattutto quelli invadenti. E in ogni
caso non era consigliabile che quel ragazzino ˗Manuel, gli pareva che
si chiamasse˗ si comportasse con tanta confidenza. Le malelingue erano
sempre pronte a scatenarsi e in quel caso il pettegolezzo sarebbe stato
davvero odioso.
Aveva appena finito di cenare quando finalmente il telefono squillò.
Tom quasi si strozzò con il sorso di caffè che stava bevendo. Riuscì a
rispondere tra un colpo d tosse e l’altro.
“P-Pronto?”
“Signor Ludlow? Si sente bene? Sono Clive Crawford, dell’agenzia…”
“Sì, sì, signor Crawford, va tutto bene. Aspettavo la sua chiamata.
Cos’ha per me?” gli chiese, al culmine dell’impazienza.
“Beh, ho parecchie cosa per lei, signor Ludlow. Sette indirizzi
compatibili con quello che mi aveva chiesto solo nella zona ovest, e
una quindicina in tutto.”
Tom si sentì sprofondare: quindici indirizzi da controllare? Non ce
l’avrebbe mai potuta fare entro il giorno successivo.
Nessuno gli aveva chiesto di farlo, ma nella sua mente l’incontro di
James con la commissione d’inchiesta aveva assunto l’aspetto di un
capolinea, di una linea rossa che segnava l’ultimo momento in cui era
sicuro saltare dal treno.
Non che la cosa avesse un senso: in fin dei conti, l’autista del camion
e Andy Butler non erano stati al sicuro neanche prima.
Ma Tom, inconsciamente forse (o forse solo non voleva ammetterlo ad
alta voce), si sentiva come se lavorasse per James. Non più per Maria e
non per Kuntz: la risoluzione del caso dal suo punto di vista era la
salvezza dell’amico.
Non era il caso di abbattersi.
Quindici indirizzi erano molti, ma avrebbe cominciato da quelli nella
zona ovest, i più promettenti. Tra quei sette ce ne sarebbe stato
sicuramente qualcuno che il suo istinto gli avrebbe indicato come
inutile e Tom si sarebbe affidato ad intuito ed esperienza.
Comunicò a Crawford che era pronto per prendere appunti e si segnò
tutti gli indirizzi, con la descrizione che l’agente immobiliare gli
fornì di ogni fabbricato, magazzino o rimessa di dimensioni sufficienti
per ospitare dei mezzi pesanti.
Dopo che ebbe trascritto anche l’ultimo indirizzo, ringraziò Crawford
per la collaborazione e gli promise che non appena ne avesse avuto il
tempo lo avrebbe invitato a cena per sdebitarsi. Poi, con il fedele
stradario alla mano si segnò con precisione tutti i luoghi cui aveva
intenzione di rendere visita quella notte.
Come aveva previsto, il suo intuito si fece sentire immediatamente.
Alcuni dei posti indicati da Crawford erano affacciati sulle strade
principali e Tom li escluse senza esitazione: non era pensabile che le
armi fossero state scaricate in un magazzino che era visibile dalla
strada. Anche a notte fonda, il rischio che qualcuno di passaggio
notasse che il carico recava i timbri dell’esercito era troppo grande.
Inoltre, scaricare delle munizioni richiedeva una certa prudenza. Era
un lavoro da fare con la massima tranquillità.
Tra gli indirizzi rimasti, uno era stato controllato dagli uomini di
Kuntz, e un altro era decisamente troppo vicino a quello noto alla
polizia. Se Tom fosse stato un gangster, avrebbe evitato di possedere
due edifici troppo vicini in cui stoccare la merce di contrabbando.
Gli ultimi due indirizzi sembravano perfetti per operazioni illegali e
rischiose come il traffico d’armi: si trattava di una vecchia fabbrica
in disuso, fallita circa cinque anni prima, che era stata acquistata da
un certo Helmut Weimar da meno di dodici mesi; l’altro edificio era
invece un magazzino di stoccaggio di vecchi container: il nome del
proprietario anche in questo caso non diceva nulla a Tom.
Forse Kuntz ci avrebbe capito qualcosa, ma non era il momento di starci
a riflettere più di tanto, era il momento di muoversi e dare una
controllata.
Tom si preparò, prendendo la pistola e infilando nella tasca interna
del soprabito lo stradario, anche se aveva ormai memorizzato
l’ubicazione dei luoghi da controllare. Esitò un attimo, prima di
uscire. Se avesse auto un collega gli avrebbe comunicato dove stava
andando, affidandogli il compito di avvertire Kuntz se non fosse
tornato entro l’alba. Ma lavorava da solo. E in quel momento la cosa
gli pesava.
Dato che Kuntz sospettava una talpa nella squadra, Tom non poteva
semplicemente chiamare la stazione di polizia e lasciargli un
messaggio. Rimase un istante a pensare, poi prese il telefono e chiamò
l’albergo di James, solo per sentirsi rispondere per l’ennesima volta
in pochi giorni che il Maggiore Biggs era uscito. Riattaccò.
Uscì dal palazzo, salutando distrattamente un paio di vicini e si
diresse da Tony.
“Mi serve la macchina, Tony, per favore. Un po’ in fretta,” gli disse
serio.
Tony dovette capire che non era una serata in cui ci si potesse
permettere di perdere tempo scherzando o ricordando il passato. Spedì
immediatamente Manuel a prendere la vecchia Olds.
Il ragazzino parcheggiò la macchina sul marciapiede di fronte al
ristorante a tempo di record, ma quando scese finse di non vedere
neppure Tom. Probabilmente era offeso per il trattamento ricevuto solo
poco prima.
Tom si complimentò con se stesso per l’ottimo risultato raggiunto e
salì in macchina. Troppo tardi si ricordò che avrebbe potuto almeno
telefonare a Winnie.
‘Oh, beh, se non mi vedranno tornare se ne faranno tutti una ragione,’
si disse, con in piccolo ghigno.
Scelse di controllare per prima la fabbrica acquistata l’anno prima dal
signor Weimar. Aveva pensato che un colpo come quello realizzato da
Marcus Collins e dai suoi uomini aveva sicuramene richiesto molta
preparazione e lungimiranza: forse quei gangster, cui certo non mancava
il senso degli affari, erano arrivati al punto di procurarsi apposta un
nuovo magazzino in vista della necessità di nascondere le armi.
Secondo questa ipotesi, Helmut Weimar sarebbe stato un prestanome.
Lasciò la macchina sufficientemente lontana da non dare nell’occhio,
nei dintorni di un negozio aperto ventiquattr’ore su ventiquattro dove
avrebbe potuto trovare un telefono se ne avesse avuto bisogno.
Si incamminò a piedi verso la fabbrica, cercando di stare lontano dalla
zona di carico e scarico merci, che avrebbe potuto essere affollata.
Fece il giro completo del perimetro del fabbricato, ma non vide nessun
movimento, né luci. A quanto pareva, fuori non c’era nessuno di
guardia.
Dato che l’interno era buio (non che l’esterno fosse illuminato in
maniera soddisfacente), decise di arrischiarsi a sbirciare da una
finestra. Le vetrate erano alte e dovette arrampicarsi su una pila di
casse.
Uno sguardo all’interno lo lasciò quanto mai deluso: la fabbrica era
completamente vuota. Tom aveva una visuale perfetta dell’ambiente
principale dell’edificio e anche con la scarsissima luce che filtrava
dalle vetrate poteva vedere che non c’erano né casse, né macchinari né
alcun genere di materiale. Probabilmente il misterioso Helmut Weimar
aveva acquistato la fabbrica solo i macchinari e le attrezzature, e non
per utilizzarla come magazzino per i suoi amici mafiosi.
‘Beh, tanto meglio per Helmut Weimar e tanto peggio per me,’ si disse
Tom, saltando a terra.
Si spazzolò la polvere dalle mani e rimase un attimo a fissare i muri
di mattoni della costruzione, incredulo del gigantesco flop del suo
sesto senso. Finalmente fece spallucce e si rincamminò verso la
macchina.
Per fortuna non aveva perso troppo tempo. Guardò il suo orologio: le
otto. Aveva ancora tempo.
L’indirizzo che gli era più comodo raggiungere da dove si trovava in
quel momento era uno di quelli che aveva escluso facendo affidamento
sul fatto che era troppo vicino a quello noto a Kuntz. Era di strada e
anche se fosse stato un altro fiasco avrebbe quanto meno escluso con
certezza un altro punto della sua lista.
Salì in macchina e raggiunse il posto in circa venti minuti. Ma anche
in questo caso non ebbe fortuna: l’edificio era occupato e in pieno
fermento, in totale antitesi con la fabbrica che Tom aveva appena
controllato.
L’investigatore rimase un quarto d’ora ad osservare il via vai di
persone e dovette alla fine arrendersi e ammettere che si trattava di
una innocente e assolutamente onesta panetteria-pasticceria; i
dipendenti si stavano dando alle pulizie e al rinnovo dei locali,
nell’unico momento a loro disposizione, a quanto pareva.
Fumando e imprecando furiosamente Tom tornò di nuovo alla macchina.
Cominciava a sentirsi piuttosto frustrato.
Decise infine per il magazzino dei container.
Ancora una volta lasciò la macchina abbastanza distante da non essere
notata (anche se, in fin dei conti, un’auto come la sua in una zona
industriale come quella poteva essere notata in ogni caso) e si
avvicinò al posto a piedi.
Fu certo di essere nel posto giusto quasi subito.
Il magazzino era ancora più defilato degli altri che aveva controllato.
Aveva un piccolo parcheggio privato, vicino alla sezione riservata agli
uffici, che ospitava un paio di macchine scure. Davvero improbabile che
a quell’ora, le dieci e qualcosa, ormai, ci fossero ancora operai
volenterosi. O che degli operai guidassero macchine come quelle.
Tom girò l’angolo e si avvicinò all’area retrostante, da dove poteva
vedere la zona di carico e scarico merci. Le gigantesche saracinesche
erano abbassate, ma da sotto di esse filtrava un filo di luce.
‘Bingo…’ fece Tom, sgattaiolando più vicino.
Cercò di rimanere il più possibile in ombra, camminando addossato alle
pareti in cemento grezzo. Quando fu vicino alle saracinesche percepì
dei movimenti all’interno del magazzino. Superò la zona di carico e
scarico, in cerca di un’entrata. Poco più avanti trovò una porta che
permetteva l’ingresso ai dipendenti a piedi.
Non c’era nessuno in vista, nello stretto budello in cui si era
infilato.
Si addossò alla porta e provò la maniglia. Quella si abbassò.
Con cautela, Tom aprì la porta e scivolò dentro.
Quello che Tom si trovò davanti aveva un che di inaspettato, anche se
forse la prudenza avrebbe dovuto indurre l’investigatore a mettere in
conto l’evenienza che la porta fosse sorvegliata.
L’uomo di guardia si voltò a guardarlo con un’espressione leggermente
stolida sulla faccia larga.
Aveva una sigaretta tra le labbra e si frugava la tasca interna del
giubbotto da aviatore con una mano, in cerca dei fiammiferi. L’altra
mano era tranquillamente infilata nella tasca dei pantaloni.
Anche lui doveva trovare la vista di Tom piuttosto inaspettata.
Ma Tom non gli diede il tempo di riprendersi: balzò in avanti e afferrò
l’uomo, stringendogli un gomito intorno al collo, bloccandogli l’altro
braccio dietro la schiena.
Quello strinse le labbra intorno alla sigaretta, prima di lasciarla
cadere a terra, ma l’unico suono che ne uscì fu un gemito senza fiato.
Per sua fortuna Tom era più alto e riuscì a sollevare di peso l’uomo,
appoggiandosi la sua schiena contro lo stomaco. Nel farlo, bloccò del
tutto l’afflusso di ossigeno al cervello dell’uomo, che cominciò a dare
segni di cedimento.
Quando smise di scalciare nel vuoto e si afflosciò tra le sue braccia,
Tom lo depose silenziosamente a terra. Il pacchetto di fiammiferi tanto
agognato scivolò fuori dalla tasca interna del giubbotto dell’uomo,
ormai inutile.
Allarmato, Tom si guardò freneticamente intorno.
L’area centrale del magazzino era sgombra, ma lungo le pareti erano
addossate decine di container, che creavano una serie di anfratti e
corridoi che limitavano la visibilità. Da qui la necessità di
posizionare un uomo di guardia alla porta, la quale tuttavia rimaneva
nascosta dietro un container di metallo dipinto di colore arancione.
Nessuno accorse ad armi spianate. I rumori che provenivano dalla zona
antistante le saracinesche continuarono indisturbati.
Probabilmente nessuno aveva sentito nulla. E lui era riuscito persino a
non perdere il cappello.
Tom cercò di tirare in piedi l’uomo svenuto, ma dovette accontentarsi
di trascinarlo fino all’entrata del container vicino alla porta. Lo
trasportò dentro e chiuse le porte metalliche cercando di fare il minor
rumore possibile. Poi si girò e raccolse i fiammiferi e la sigaretta
spiegazzata per poi infilarseli in tasca.
Avanzò verso i rumori e, badando di restare nascosto alla vista,
sbirciò da un angolo per farsi un’idea della situazione.
Davanti alla saracinesca era parcheggiato un enorme camion, che un paio
di uomini stavano caricando di casse voluminose e dall’aria molto
pesante, a giudicare dai loro movimenti e dagli sbuffi e grugniti che
emettevano.
A sorvegliare il loro operato stavano tre uomini, radunati intorno a
una cassa di legno chiaro che veniva usata come tavolo o piano
d’appoggio per delle carte. Ogni tanto uno di loro lanciava agli
scaricatori un avvertimento o la raccomandazione di fare piano.
Tom si avvicinò ulteriormente, prendendo la pistola e sfruttando la
fortunata posizione dei container e delle svariate casse sparse per il
magazzino.
Infine si accucciò dietro un cassone abbastanza vicino da permettergli
di vedere quello che stava cercando: la dicitura U.S. Army stampigliata
sui contenitori che venivano caricati sul camion.
Aveva trovato il deposito usato dagli uomini di Collins per le armi
sottratte al convoglio militare della base di Encino.
Si preparò a strisciare nuovamente verso la porta da cui era entrato
per andare a chiamare Kuntz e i rinforzi che aveva promesso prima che
il tizio che aveva stordito si riavesse.
Ma poi, uno dei tre uomini diede le spalle al camion e alle operazioni
di carico per gettare uno sguardo cupo alle carte appoggiate al tavolo,
e Tom riconobbe il Maggiore James Biggs.
Note:
Ehehehe. ScusateXD
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
VII Capitolo
Tom rimase pietrificato a guardare l’amico. Nessuna possibilità che si
sbagliasse, era troppo vicino. Poteva perfino sentire quello che uno
degli altri due uomini gli disse.
“Nessun problema se volete dare un’altra occhiata, Maggiore, ma quelle
foto rimangono qui, almeno fino a domani…” disse un tipo vestito di
scuro con tono derisorio.
Raggiunse James nei pressi del tavolo. Anche l’altro uomo si girò, con
un sorrisetto sulle labbra.
James fece una smorfia.
“Non possono sbrigarsi?” chiese con voce aspra, accennando ai due che
caricavano le armi. “Non ho intenzione di rimanere qui tutta la notte.”
“Ci sono un paio di questioni da ribadire, Maggiore. Giusto per essere
sicuri che nessuno di noi si ritrovi in guai grossi. Domani la
Commissione dichiarerà chiuse le indagini, non è così?”
James annuì: “Sì. Faranno finta che non sia successo, o quanto meno che
una sanzione disciplinare possa sistemare le cose. Non avete nulla di
cui preoccuparvi.”
“Bene,” approvò l’uomo.
Aveva un paio di baffi sottili che continuava ad arricciare.
L’altro uomo aveva l’aria molto rozza, a giudicare dalla sua posa e
dalla sua espressione.
“Le armi saranno a dimora, sparpagliate per tutta la città entro il
week end. Nelle mani dei nostri, ovviamente. I messicani e gli italiani
avranno vita dura,” continuò l’uomo con i baffi.
“Anche la polizia, se ci capiterà tra i piedi!” aggiunse l’altro.
James li ascoltò in silenzio, con aria truce.
“Rimane da decidere cosa fare dell’investigatore. Possiamo gestire la
polizia, abbiamo i mezzi giusti. Ma quel tipo…sarebbe più saggio
ucciderlo.”
“Uccidere l’investigatore? E perché?”
L’uomo con i baffi finse sorpresa: “Me lo domandate, Maggiore? Eppure
la responsabilità è vostra: siete stato voi a rivolgervi a quell’uomo,
che si è messo a indagare su Andrew Butler.”
James scosse le spalle: “Vi ho già spiegato che non mi sono affatto
rivolto a lui. Ho fatto visita a un vecchio amico, tutto qui.”
“Davvero? E allora cos’ha spinto quel Ludlow a interessarsi di Butler?”
chiese con voce accusatoria il tipo rozzo.
“Butler era scomparso, la figlia ha assunto un investigatore per
ritrovarlo. Avete creato questo casino completamente da soli. Se non
aveste ucciso quel Butler, Ludlow non si sarebbe mai interessato a
questa faccenda. E ancora non capisco perché l’avete fatto.”
L’uomo coi baffi fece spallucce: “Andy era un chiacchierone. Se il
vostro amico detective fosse arrivato lui, avrebbe finito per fargli
vuotare il sacco. È stato un eccesso di prudenza, una misura di
sicurezza messa in atto quando vi siete rivolto all’investigatore
privato.”
James rispose esasperato: “Non mi sono affatto rivolto
all’investigatore perché indagasse! E quando i vostri capi mi hanno
domandato perché Ludlow si interessava della faccenda, io ho fatto il
possibile per convincerlo a starne fuori. Ma voi, dopo aver ammazzato
Butler, non siete neanche riusciti a evitare che la polizia ritrovasse
il cadavere e il proiettile! Vorrei sapere chi è il deficiente che lo
ha ucciso con una delle pistole rubate!”
“Datti una calmata, amico!” fece il tipo rozzo, facendosi più vicino a
James. “Io non me le bevo queste stronzate! Ti sei rivolto a quel tizio
perché volevi provare a fregarci, poi hai avuto paura che le foto
sarebbero venute fuori comunque e hai lasciato perdere…”
“Pensala come ti pare, feccia. In ogni caso, io vi servo, perché
qualcuno deve rispondere alla Commissione d’inchiesta, domani. Quanto
ad uccidere l’investigatore, non farà che attirare ancora di più
l’attenzione della polizia su questa storia. È un errore,” gli ripose
James, guardandolo dall’alto in basso. “Abbiamo finito?” chiese poi,
rivolgendo lo sguardo sull’altro uomo, che era rimasto a osservare lo
scontro.
“Ma sì, lasciamolo andare, Smitty,” intervenne il tipo più odioso, “il
Maggiore avrà da fare. Se si sbriga, riesce magari a trovarsi un
ragazzino per la serata…” concluse, con un ghigno.
James lo afferrò per il collo e lo sollevò, con una mano sola, il viso
una maschera di granito.
Tom non lo aveva mai visto così furioso. Sembrava capacissimo di
uccidere l’uomo che si divincolava nella sua stretta.
“Andiamo, Maggiore Biggs, non fate così. A che servirebbe, poi?” cercò
di rabbonirlo l’uomo coi baffi, Smitty. Puntò una colt M1911 alla
schiena di James, senza perdere il sorriso. “Su, mettetelo giù.
Ricordate, avrete le foto, quando tutto sarà finito, se vi atterrete al
copione e non ci farete arrabbiare.”
James digrignò i denti, la mascella contratta. Con uno sforzo che parve
sovrumano, lasciò cadere a terra l’altro delinquente. Fece un passo
indietro e si mise le mani nelle tasche del cappotto, poi si girò di
tre quarti per guardare Smitty, che fece per abbassare la pistola.
Tom si preparò a filarsela, per elaborare quello che aveva sentito,
quando un boato infernale esplose dal fondo del magazzino.
Tutti sobbalzarono, mentre il suono si ripeteva, una due tre volte,
come se qualcosa di pesante fosse scagliato contro del metallo.
Tom ricordò l’uomo richiuso nel container, che ora stava con tutta
probabilità prendendo a calci la porta.
Con l’attenzione di tutti rivolta verso il rumore alle sue spalle, lui
si trovava in piena linea visiva, alzato per metà da dietro il suo
nascondiglio.
Passò meno di un nanosecondo prima che qualcuno gridasse: “Ehi! Chi
diavolo è quello?!”
Tom si rituffò a terra mentre il primo colpo di pistola gli sibilava
sopra le orecchie e rimbalzava su una superficie metallica dietro di
lui. Per fortuna anche il rimbalzo del proiettile lo mancò. Si
rannicchiò a terra, prima di riprendere a pensare razionalmente.
Non poteva rimanere fermo.
Strisciò nella direzione opposta a quella da cui era arrivato e si
spostò dalla linea di tiro di qualche metro. Poi si sporse per avere
una visuale libera e sparò un paio di colpi.
Tutti si sparpagliarono, cercando un riparo e allontanandosi dal camion
carico di armi.
Il tipo rozzo, che si era dovuto alzare da terra, fu meno lesto degli
altri. Si girò a sparare in corsa, per coprire la ritirata, ma Tom era
molto più a sinistra di quello che lui credeva e non ebbe difficoltà a
colpirlo in pieno petto.
L’uomo crollò a terra, lasciando la pistola.
Ci fu un istante di stallo.
Poi l’uomo con i baffi parlò dal suo nascondiglio: “Il detective
Ludlow, scommetto! Come siete arrivato qui?”
Tom lo ignorò: cercava di farlo parlare per individuare la sua
posizione.
“Ci avete trovato seguendo il soldato? Eravate d’accordo, o siete
venuto qui pensando di fare un favore a un amico, per trovare invece un
complice di noi altri delinquenti?” All’improvviso, Smitty schizzò in
piedi e sparò, in due direzione diverse.
A Tom sfuggì un’imprecazione: il secondo colpo non era arrivato affatto
lontano.
“A sinistra!” sbraitò Smitty ai due uomini che stavano caricando il
camion. “Sparate a sinistra, idioti, è lì dietro!”
Tom si ritrovò di nuovo sotto il fuoco delle semi automatiche. Un
proiettile di rimbalzo gli strappò un lembo del soprabito e lui capì
che doveva togliersi di lì al più presto.
I due scagnozzi smisero di sparare per un attimo e Tom ne approfittò
per spostarsi, rimanendo basso. Non si arrischiò ad alzarsi e a
rispondere ai colpi, temendo che Smitty fosse lì ad aspettare proprio
quella mossa.
Inoltre, non aveva idea di cosa avrebbe fatto James.
Per fortuna il magazzino era un dedalo di stretti passaggi tra i
container e lui riuscì ad allontanarsi di nuovo e a mettersi
(relativamente) al sicuro.
“Così non funziona! Si è nascosto, cercatelo!” sentì gridare il tipo
con i baffi.
Tom si alzò in piedi e si avvicinò velocemente e in silenzio alla zona
di carico, andando incontro ai due scagnozzi. Si nascose dietro la
porta di un container vuoto. Uno dei due passò lentamente davanti al
suo nascondiglio, riluttante ad addentrarsi in quella selva di angoli
ciechi perfetti per un’imboscata.
Tom aprì di scatto la pesante porta di metallo quando l’uomo gli passò
davanti e lo colpì, facendogli perdere l’equilibrio. Gli sparò mentre
quello inciampava e passò oltre. Sentì gridare gli altri uomini e
quello ancora rinchiuso nel container arancione continuare a prendere a
calci la porta. Nessuno aveva ancora pensato di farlo uscire.
Tom si spostò di nuovo lontano dallo spiazzo in cui si trovava il
camion.
Il rumore del suo ultimo sparo poteva suggerire la sua posizione a
Smitty o al suo uomo.
“Non saresti dovuto venire qui, Tom,” sentì dire a James, con voce
amara. ‘Dannazione, dannazione, dannazione!’ imprecò mentalmente Tom.
Era vero. Avrebbe preferito non sapere niente del coinvolgimento di
James. E probabilmente non ne avrebbe avuto il minimo sospetto, se non
fosse stato proprio l’amico a raccontargli dell’assalto al convoglio
militare. Per quale diavolo di motivo l’aveva fatto, se aveva paura che
Tom scoprisse che lui vi aveva preso parte? Aveva ragione quel tipo con
quei ridicoli baffetti? James aveva pensato di fregare gli uomini di
Collins mettendo in mezzo Tom, ma aveva poi desistito?
E soprattutto: cosa avrebbe fatto adesso, James? Era un ottimo
tiratore. Se Tom avesse sporto troppo la testa da dietro un angolo,
James gliela avrebbe fatta saltare come fosse stato niente più che un
ratto?
Tom scosse la testa per schiarirsi le idee: non era il momento di
pensare a una cosa simile. Doveva concentrarsi per non farsi ammazzare
in quello squallido magazzino.
Forse l’opzione più sensata sarebbe stato tornare verso la porta da cui
era entrato per scappare e tornare con la polizia. Ma dubitava di
riuscire a raggiungere la porta. Sentiva dei movimenti in quella
direzione, provocati sicuramente da Smitty o James che si erano mossi
per bloccargli ogni via di fuga. Oltretutto, anche se fosse riuscito a
fuggire, non sarebbe mai riuscito ad avvertire Kuntz in tempo: gli
uomini di Collins e le armi sarebbero sparite in un lampo,
volatilizzate e impossibili da rintracciare, ormai.
Doveva restare. Era l’unica scelta.
Si ritrovò in uno stretto passaggio tra due file di casse e materiali,
carrelli, pile di bancali e persino un muletto parcheggiato e coperto
da un telo.
All’altra estremità del passaggio apparve lo scaricatore rimasto, con
la pistola sollevata. Anche lui impugnava una colt M1911, una delle
armi rubate. L’uomo individuò immediatamente Tom e si voltò verso di
lui, lanciando un’imprecazione colorita. Sparò d’impulso, cercando allo
stesso tempo di coprirsi la testa e di mettersi al riparo.
Praticamente, sparò ad occhi chiusi.
Tom, molto più freddo e suo malgrado abituato agli scontri a mano
armata, si addossò a una cassa.
I colpi dell'altro lo mancarono di diversi metri.
Prima che lo scaricatore avesse il tempo di indietreggiare fino
all’angolo e mettersi al riparo, Tom prese la mira e sparò, ben fermo
sulle gambe.
Non aveva mai smesso di allenarsi al poligono, dai tempi dell’accademia
di polizia. Ci andava almeno due o tre volte al mese, con un amico del
quartiere che aveva un negozio di armi. Non c’era possibilità che lui
sbagliasse un colpo così semplice.
Lo scaricatore cadde a terra, gridando e chiedendo aiuto.
Smitty non accorse.
“Che cosa conta di fare, investigatore? Uccidere tutti?” gli gridò
Smitty.
Tom aveva ragione: si era spostato verso l’unica via d’uscita. Forse
stava cercando di liberare l’uomo che lui aveva rinchiuso nel
container.
Tom l’aveva perquisito e non gli aveva trovato armi addosso, ma niente
impediva che Smitty ne avesse una in più da passargli.
Dcise di tentare il tutto e per tutto: se si fosse fatto vedere, forse
il gangster avrebbe preferito provare a eliminarlo subito, invece di
andare a cercarsi dei rinforzi. Corse di nuovo verso il camion, facendo
rumore. Si lanciò di corsa in mezzo allo spiazzo, mirando a un
gruppetto di latte di metallo che un tempo dovevano aver contenuto
olio, da usare come riparo.
Capì che il suo piano aveva funzionato quando un proiettile gli sibilò
sopra la testa, mancandolo di pochi centimetri. Tom incassò di più il
capo tra le spalle e accelerò. Vide Smitty sbucare dalla penombra del
magazzino alla zona più illuminata della zona di carico e sparò a sua
volta. Ma, dato che stava correndo, il suo colpo fu tutt’altro che
preciso.
Smitty si chinò d’istinto sentendo il rumore dello sparo, ma Tom non
era andato neanche vicino a sfiorarlo.
Raggiunse i bidoni e ci si tuffò dietro.
Smitty continuava ad avanzare in campo aperto e Tom, fattosi prendere
dall’agitazione sparò di nuovo, prima di riuscire ad assumere una
posizione più agevole che gli avrebbe permesso di essere preciso ed
efficace. Mancò di nuovo il bersaglio.
“Credo che abbiate finito i proiettili, detective. Mi sbaglio?” gli
disse il gangster, con voce soave.
“Avvicinati e te lo faccio vedere, se ti sbagli,” borbottò tra sé e sé
Tom.
Controllò la sua arma. Cristo. Il tipo aveva ragione. Rimase un istante
a fissare il caricatore vuoto, sconvolto.
Era nei guai. Era davvero nei guai.
‘No, calma. Devo mantenere la calma. C’è un intero fottuto camion di
armi e munizioni, alle mie spalle!’ si disse, riscuotendosi.
Si girò a valutare la distanza dalle casse ancora a terra. Poteva
farcela. Forse.
Fece per alzarsi e scattare in avanti, convinto che si sarebbe beccato
una pallottola nella schiena, quando si accorse che il tipo con i baffi
si era avvicinato molto più velocemente di quello che Tom si sarebbe
aspettato. Era in gamba, il bastardo.
Ma forse, si era avvicinato molto più di quanto fosse prudente fare.
Invece di correre verso il camion e basta, Tom schizzò in piedi e
sollevò uno dei fusti di metallo dietro cui si era nascosto e lo
scagliò contro Smitty, ormai a solo un paio di metri di distanza.
L’uomo venne colto di sorpresa e il bidone lo colpì in pieno al braccio
e alla spalla destra, facendogli cadere la pistola.
D’improvviso, l’arma a terra era molto più a portata di mano di quelle
nelle casse e Tom si lanciò in avanti per prenderla.
Lo stesso fece l’altro uomo, con una smorfia feroce di dolore e
sorpresa sul volto.
Tom arrivò per primo e si chinò per prendere l’arma, ma Smitty gli
rifilò un calcio sul lato del collo che gli tolse il fiato.
Mentre il gangster si buttava in ginocchio per recuperare la propria
colt, Tom gli assestò un pugno sul naso, piuttosto debole, però.
I due uomini finirono entrambi a terra, rotolando avvinghiati, lottando
per il possesso della colt.
Smitty riuscì a mettersi in ginocchio, stringendo le mani sulla
pistola, le mani di Tom sopra le sue.
Il gangster lasciò la presa con la destra e colpì Tom sul naso,
rompendoglielo. Accecato dal dolore e dal sangue che schizzò
dappertutto, Tom mollò la presa.
Un colpo partì accidentalmente, assordando i due uomini.
Prima di rimettersi in piedi Smitty colpì ancora Tom con il calcio
della pistola sulla tempia.
Stordito, l’investigatore crollò all’indietro. Smitty si affrettò ad
alzarsi e impugnò saldamente l’arma.
“Avete qualcosa da dire, detective?” domandò con rabbia, respirando
affannosamente, tenendo sotto tiro Tom, riverso a terra a tenersi il
naso.
L’investigatore sollevò lo sguardo su di lui, cercando di snebbiarsi la
mente e continuare a combattere.
Smitty si preparò a sparagli in faccia.
“’Fanculo,” gli rispose Tom, calciando l’altro a una caviglia,
centrando in pieno il malleolo.
L’uomo barcollò in avanti, perdendo parzialmente l’equilibrio.
Il colpo partì, ma invece di spappolare il cranio di Tom si piantò a
terra, a mezzo metro dal suo orecchio sinistro.
Beh, tanto era già assordato dallo sparo di prima.
Il gangster riprese l’equilibrio, ringhiando: “Ora hai davvero finito,
buffone…”
Tirò di nuovo il grilletto, ma quello scattò a vuoto, con un clic
assordante, anche per le orecchie martoriate di Tom.
“Credo che abbiate finito i proiettili, Smitty,” gli disse Tom, con un
sorriso beota, spossato dal sollievo.
L’uomo fissò per un istante l’arma, ormai inservibile, poi volse lo
sguardo alle sue spalle.
Tom non era in condizioni di approfittare di quell’attimo di
distrazione.
“Maggiore Biggs. Alla buon’ora,” disse l’uomo, incontrando lo sguardo
di James.
Anche Tom lo guardò, distogliendo l’attenzione da Smitty.
James avanzò fino alla zona di carico, poi verso loro con passo lento,
tenendo la pistola all’altezza del fianco. Si fermò a due metri di
distanza dagli altri due uomini.
“Tom. Ti avevo detto di starne fuori, o no?” domandò.
“Già. Avresti dovuto dirmi anche perché. Forse ci avrei fatto un
pensiero,” gli rispose Tom, fissando la bocca della pistola d’ordinanza
di James.
“Volete ucciderlo sì o no, Maggiore? Con tutti questi spari la polizia
ci piomberà addosso da un momento all’altro. Immagino non vogliate
essere trovato qui, con le foto e tutto il resto…” fece Smitty.
Si spostò dalla linea di tiro e cominciò a rassettarsi gli abiti scuri.
Non troppo lucido, Tom pensò che tanto la camicia era da buttare,
macchiata com’era del suo sangue.
“Sì. Non ho nessun desiderio di farmi trovare qui,” gli rispose James,
guardando Tom.
Poi si girò verso il gangster e lo uccise con un colpo al petto.
Tom ebbe l’ennesima dimostrazione del potere di fuoco della calibro 45,
mentre Smitty cadeva a terra con il torace sfondato.
Si tirò cautamente in piedi.
“L’hai ucciso,” disse.
James si strinse nelle spalle: “L’ho desiderato dal primo istante in
cui l’ho visto,” rispose. “Come hai trovato questo posto?” domandò poi.
“Mi interesserebbe di più sapere che cazzo ci fai tu, qui, James!”
esplose Tom. “Che cosa hai a che fare con questa gente, si può sapere?
Avete organizzato tutto insieme?”
James scosse la testa. Sembrava perfettamente calmo, ma ancora non
aveva riposto la pistola nella fondina.
“Non ho organizzato io l’assalto al convoglio. Perché avrei dovuto,
visto che la responsabilità sarebbe ricaduta su di me? Mi ricattavano.
Avrei dovuto autorizzare la partenza del convoglio, anche se le
condizioni di sicurezza non era state rispettate, e poi avrei dovuto
prendermene la responsabilità, senza insistere per ulteriori indagini,
altrimenti mi avrebbero rovinato,” spiegò.
“Ti ricattavano? Per cosa?” gli chiese Tom.
Ricordò le foto a cui Smitty e il suo compare continuavano a fare
riferimento e si girò verso il tavolo.
James gli rivolse un pallido sorriso: “Per cosa, mi chiedi? Tom, cos’è
che nascondo da tutta la vita? Cosa avrebbe potuto costarmi la carriera
nelle forze armate?”
Tom si avvicinò al tavolo e prese le foto.
“Sono venuti da me a Encino, in un locale che frequentano gli
ufficiali, ogni tanto. Un uomo e due guardaspalle. Lui mi ha detto di
chiamarlo Burton, uno degli uomini era quello coi baffi. Mi
hanno fatto vedere le foto. Hanno minacciato di diffonderle, se non
avessi fatto quello che chiedevano. Ma non mi hanno detto subito quello
che volevano. Hanno aspettato che mi crogiolassi due giorni
nell’angoscia,” continuò a raccontare James.
Guardò Tom prendere le foto, ma distolse lo sguardo, con una smorfia.
Non riusciva a guardarle.
Tom le studiò tutte, con attenzione. Ritraevano James e un ragazzo dai
tratti ispanici mentre facevano sesso. Ce n’erano sei, in diverse pose.
James era perfettamente riconoscibile.
Non che avesse poi tutta questa importanza: nell’ambiente militare
anche solo un’insinuazione poteva costare la carriera. E si era già
molto al di là dell’insinuazione, in quelle foto.
Sembravano scattate da non molto lontano, forse da un foro nella parete
della stanza dove si trovavano i due amanti.
“Dove eravate?” gli chiese Tom.
“In un motel, vicino al confine, non ricordo nemmeno dove,” gli rispose
James, fissando il pavimento. Poi sollevò di scatto la testa: “Mettile
via, falle sparire, non sopporto di vederle. Sono oscene. Non posso
credere che sia così ripugnante…” si interruppe e respirò a fondo per
calmarsi.
“Il ragazzo è maggiorenne?”
James lo fissò con espressione scioccata: “Come puoi farmi una domanda
simile? Aveva almeno vent’anni!”
“E non è escluso che fosse d’accordo con quegli uomini. Sto cercando di
capire come stanno le cose, ho bisogno di più elementi possibile,” gli
rispose Tom. “James, non capisco. Perché hai accettato? In fin dei
conti questa faccenda poteva comunque concludersi con il congedo con
disonore, stando a quello che mi hai detto.”
“Non era sicuro. Avevo almeno una possibilità di cavarmela. E non avrei
dovuto sopportare l’umiliazione di dover rispondere di quelle…” fece
James, a voce bassa.
Tom buttò le foto sul tavolo, con esasperazione: “Ma Cristo, James!
Possibile che tu non abbia pensato alle conseguenze? Permettere che dei
gangster rubassero un carico d’armi! Non hai pensato ai morti che
avresti avuto sulla coscienza?”
Tom fissò l’amico, furioso.
“Ci ho pensato. Certo che ci ho pensato. Ho pensato di rifiutare, di
denunciare il fatto, avevo pensato persino di dimettermi prima che mi
dicessero quello che volevano che facessi. Ma ero…terrorizzato,
all’idea che qualcuno vedesse quelle foto. Che qualcuno vedesse quello
che sono. Persino in mano a te mi terrorizzano. Avrei voluto chiederti
aiuto, lunedì sera. Avrei voluto dirti tutto, scongiurarti di trovare
quelle armi e rimediare ai miei casini. Ma non ce l’ho fatta. Te l’ho
sempre detto che tra noi due sono io quello vigliacco,” rispose James.
Rivolse a Tom un sorriso triste.
Tom sospirò: “Quelle foto non rappresentano quello che sei. E non sono
altro che foto: sono squallide, certo, e l’intera situazione è davvero
un casino, e ci sono stati due morti, ma non ti avrei mai rifiutato il
mio aiuto.”
“Non sapevo che avrebbero ucciso Butler, l’autista. Neanche l’omicidio
del conducente era previsto. Non lo avrei permesso, ricatto o non
ricatto.” James scosse la testa. “Mi dispiace, Tom,” disse, con voce
rotta.
Poi sollevò la pistola e se la puntò alla tempia.
Tom scattò prima di rendersene conto. Caricò James con una spallata e
lo atterrò, afferrandogli il polso. Gli scosse il braccio finché
l’altro non lasciò la presa sull’arma. “Che cazzo fai! Cosa credevi di
fare, eh?” gli gridò, con tutto il fiato che aveva.
“Che cosa mi resta, da fare? Due uomini sono morti per causa mia, ho
quasi fatto ammazzare te, e sono rovinato,” ribatté James, senza fiato.
“Sei un idiota! Mi hai appena salvato la vita! E non sei rovinato: le
foto sono qui e quelli sono morti.” Tom si ricompose, alzandosi da
sopra l’altro. “Vedo una facile via d’uscita,” gli disse, con il suo
tono abituale.
Prese le foto dal tavolo e le fece scivolare nella tasca interna del
soprabito. Le avrebbe distrutte, semplicemente.
“A che servirebbe?” gli domandò James, alzandosi a sua volta. “Sono
solo copie. Burton non era che un tirapiedi.”
“Di Marcus Collins,” fece Tom. “Senti, non abbiamo molto tempo, ma
vediamo di chiarire una cosa per volta. Che cosa ti ha chiesto
esattamente, questo Burton? Di comunicargli la data del trasferimento
di armi?”
“No. Ha detto che quando ci fosse stato il trasferimento, io avrei
dovuto autorizzarlo, anche se non era sicuro.”
“Come faceva questa gente a sapere che il trasferimento non sarebbe
stato sicuro?” indagò Tom.
“Te l’ho detto, forse avevano un informatore nel mio ufficio.”
“E ti hanno avvicinato in un posto frequentato da ufficiali,” rifletté
Tom ad alta voce. Poteva essere importante? “Quel tipo ˗Smitty˗ ha
detto che hanno ucciso Butler perché pensavano che se io l’avessi
trovato, lui avrebbe finito per confessare tutto…”
“Sì. Pensavano che ti avessi assunto io per tirami fuori dai guai. La
faccenda è venuta fuori martedì: gli affari che avevo da sbrigare in
città erano incontri con questa banda di delinquenti, per riferire dei
progressi delle indagini.”
“Ma Andy Butler è stato ucciso il mercoledì precedente, la sera stessa
o la notte che è scomparso. Noi ci siamo visti solo lunedì. Anche se ti
tenevano d’occhio, come potevano sapere che saresti passato a farmi
visita? Lo sapeva qualcuno del tuo ufficio?”
James scosse la testa, confuso: “No. Non ne ho parlato con i miei
uomini. Certo non dopo aver pensato che uno di loro era un informatore
di Burton, o di Collins, o di chi diavolo ne so.”
“Non lo sapeva nessuno? Ne sei certo?” insisté Tom.
“Io…forse posso averlo accennato a un superiore, al tenente colonnello
Sterling. Ho chiesto a lui il permesso per i giorni di licenza prima
degli incontri con la commissione.”
“E Sterling conosceva le date dei trasferimenti, sapeva che in questo
periodo siete a corto di uomini…”
“Beh, sì, come un’altra dozzina di uomini. Pensi che possa aver passato
lui queste informazioni? Che la fuga di informazioni non partisse dal
mio ufficio ma venisse da più in alto?” gli chiese James.
“Può darsi. È stato lui a proporti per quella promozione? Quella che ti
ha reso responsabile dei rifornimenti degli armamenti?”
James rimase a bocca aperta.
“Sì, è stato lui,” rispose alla fine.
“Ed è stato lui ad avvertire gli uomini di Collins che avevi un
appuntamento con me. Aveva tutte le informazioni necessarie per fare il
colpo insieme agli scagnozzi di Collins, ma aveva bisogno che qualcuno
si prendesse la colpa. Così ti ha promosso, e Collins ti avrà fatto
pedinare per trovare qualcosa da usare per ricattarti e costringerti a
tenere la bocca chiusa,” concluse Tom.
Aveva senso.
“Ci è riuscito, purtroppo. Ma a cosa serve, Tom?” chiese James,
scoraggiato. “Non cambia nulla. Non possiamo dimostrarlo.”
Tom ci pensò: “Forse invece sì. Quando hai chiesto la licenza?”
“Martedì. Poi ti ho telefonato, ricordi? Per dirti che sarei venuto in
città,” rispose l’altro.
“E quel giorno Sterling è rimasto alla base?” James annuì. “Anche il
giorno successivo?” Di nuovo un cenno affermativo. “Allora, dato che
Butler è stato ucciso mercoledì sera, Sterling deve aver passato
l’informazione ˗che ti eri rivolto a un investigatore˗ martedì o
mercoledì. Deve aver parlato con Collins, o con uno dei suoi. Si
possono richiedere i tabulati telefonici e la chiamata risulterà.”
James lo guardò speranzoso per un istante, poi scrollò la testa: “Non
posso richiedere i tabulati della base senza prove concrete. Senza
contare che Sterling potrebbe aver chiamato da casa.”
“Meglio, se ha chiamato da casa,” rispose Tom, cominciando a camminare.
James lo seguì: “Dobbiamo andarcene?” gli chiese.
“Non ancora. Ho un’idea.”
Si diresse verso la porta da cui era entrato. Si fermò davanti al
container arancione. L’uomo che vi aveva rinchiuso aveva smesso da un
pezzo di dare calci alla porta. Una volta terminati gli spari doveva
aver capito che i suoi amici avevano avuto la peggio, dato che nessuno
era andato a liberarlo. Forse sperava che gli altri si dimenticassero
di lui.
Tom fece cenno a James di stare pronto e aprì il container.
L’uomo, rinchiuso al buio da diverso tempo non sembrò molto soddisfatto
di trovarsi davanti agli occhi accecati dalla luce il tipo che lo aveva
steso e il soldato, con l’aria più truce che mai.
Si rannicchiò contro una parete metallica, mentre il tipo con il
soprabito scuro gli diceva, con feroce allegria: “I tuoi complici sono
tutti morti. Ma tu ci puoi servire. Eccoti la scelta: tu mi dici dov’è
il nascondiglio di Collins, la sua casa o il posto dove fa affari
abitualmente, e io ti lascio uscire di qui. Ti lascio proprio scappare,
prima che arrivi la polizia. Altrimenti, ti sparo, trascino il tuo
corpo vicino agli altri e dico che si è trattata di legittima difesa
nel corso di una sparatoria. Sarà difficile confutare la mia
ricostruzione, dato che sarò l’unico sopravvissuto. Allora, cosa
preferisci?”
L’uomo si leccò le labbra secche.
“Ma se io ti dico dove sta Collins, sarà lui a farmi fuori!” obbiettò
ragionevolmente.
“Non sarò io a dirgli che sei stato tu, stanne certo.”
“Lo verrà a sapere comunque!”
“Mettiamola così: se io non ti uccido adesso, avrai il tempo di
scappare e lasciare la città. Ti ho reso la scelta meno penosa?”
insisté Tom, facendo qualche passo all’interno del container,
impugnando la sua arma (scarica, certo, ma che ne sapeva il pover’uomo
nel container?).
“D’accordo. D’accordo. Sta dietro al club ‘Lions’, sulla Stafford
Avenue. C’è un appartamento, lì, ci passa spesso la notte, dopo aver
fatto affari nel club.”
“E lo troverò lì, stanotte?”
“Sì, sì. Dovevamo passare a fare rapporto per le armi…”
“C’è un’entrata autonoma? O bisogna passare dal club?”
“Si può passare dalla cantina.”
Tom sorrise, nonostante il naso gli si stesse gonfiando come un melone
e avesse solo voglia di prendere a pugni qualcosa: “Molte grazie.
Vattene pure, ora. Noi siamo dietro di te.”
L’uomo si mosse con cautela. Passò di fianco a Tom come se si
aspettasse che l’investigatore gli saltasse addosso all’improvviso.
Ebbe un attimo di esitazione davanti a James, che aveva davvero una
faccia spaventosa, bisognava ammetterlo, e poi si mise a correre,
buttando a terra lo scudo della dignità per correre più veloce. Infilò
la porta e sparì.
Tom e James lo seguirono, avviandosi alla macchina a passo svelto.
“Capisci?” chiese Tom. “Se dai tabulati della linea di Collins
risultasse una chiamata da Sterling, o a lui, avremmo dimostrato il
collegamento. Potrebbero essercene più d’una, se hanno concordato i
dettagli del piano. Forse sono stati prudenti e hanno usato cabine
telefoniche per comunicare, ma credo che almeno la telefonata che li
avvisa del mio coinvolgimento sia stata fatta d’urgenza, dimenticando
la cautela. E il telefono di Collins può essere controllato senza
problemi: non ci crederai, ma ho l’appoggio di Kuntz. Poi ti
spiegherò,” terminò in fretta, mentre salivano in macchina.
Mise in moto e partì.
“Ma se coinvolgerò Sterling, lui farà spuntare le foto. Non c’è modo di
impedirglielo.”
“Tirare in ballo le foto servirebbe solo ad aggiunger il ricatto alle
già lunga lista di reati di cui sarebbe accusato.”
“Ma sarebbe una magnifica vendetta.”
“Non se per allora le foto non esisteranno più,” rispose Tom, criptico.
“Che hai in mente, Tom? Non vorrai rischiare ancora di farti ammazzare,
stanotte?”
“Non ti preoccupare. So perfettamente cosa faccio. Ti lascio qui,”
disse, cambiando argomento. Accostò al marciapiede. “Devo chiamare
Kuntz e spiegare cos’è successo. Chiama un taxi, e torna in albergo.”
“Tom, non ho intenzione di lasciarti andare da solo ovunque tu abbia
deciso di andare,” fece James, deciso.
“Va tutto bene. Ho l’appoggio di Kuntz, ti ho detto. Mi deve altro che
un favore, per aver ritrovato quelle armi e aver risolto il caso
Butler, non credi? Scendi, ho detto.”
Dato che James non si muoveva, fu Tom a scendere dall’auto.
Fece il giro e si appoggiò alla portiera: “Sistemerò tutto, preparerò
le prove e i rapporti della polizia. Domani, va all’incontro con la
commissione: ti porterò tutto il materiale, la tua difesa e il vero
responsabile. Lo giuro.”
Di controvoglia, James scese dall’auto: “Non sopporterei che tu ti
facessi ammazzare perché io non sia umiliato da delle foto
compromettenti, Tom. Lascia perdere. Ho già abbastanza colpe, non
credi?”
Tom strinse le labbra: “Farò del mio meglio senza mettermi troppo nei
guai,” concesse. “Ora devo chiamare Kuntz e farmi trovare là. Ci
vediamo domani.”
James annuì, lanciandogli uno sguardo intenso: “A domani.”
Poi si girò e si avviò lungo il marciapiede, per cercare un taxi.
Tom individuò uno studio medico dall’altra parte della strada e corse a
suonare il campanello. Sperò che gli dessero del ghiaccio da mettere
sul naso, mentre chiamava la polizia.
Note:
Spero sia tutto comprensibile e sensato, in questo capitolo, anche per
chi non è nella mia testaXD
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
VIII Capitolo
Non solo gli avevano dato del ghiaccio da mettere sul naso, ma
l’efficiente dottore e la sua nerboruta infermiera avevano insistito
per ridurgli la frattura.
Tom chiamò la stazione di polizia con due tamponi di cotone idrofilo
infilati nelle narici e una borsa del ghiaccio in mano, in attesa che
l’infermiera preparasse le stecche e il cerotto per tenerle in
posizione.
‘Dio, che male…’ piagnucolò tra sé e sé.
Non ricordava che fosse così doloroso.
Chiese del tenente Kuntz, sperando che non gli rispondessero che se
n’era andato a dormire. In quel caso, Tom sarebbe andato a svegliarlo a
revolverate.
Ma Kuntz c’era.
Dopo essere tornato al lavoro dopo il loro incontro non aveva più
lasciato la stazione di polizia, probabilmente per scoprire il più in
fretta possibile quali dei suoi uomini erano sul libro paga di Collins.
Tom si interrogò oziosamente sui suoi mezzi, mentre aspettava che
l’agente al centralino passasse la chiamata all’ufficio di Kuntz.
“Non mi aspettavo notizie così presto, Ludlow. Sono colpito,” gli disse
Kuntz con sarcasmo, quando finalmente si mise in comunicazione.
L’infermiera fece cenno a Tom che la medicazione era pronta per essere
applicata, sottintendendo che doveva farsi una mossa. Avevano vite da
salvare, loro.
Tom rabbrividì al pensiero delle stecche sul suo povero naso.
“Ho ben altro che notizie. Ho tutto il pacchetto. Vuoi sapere dove?”
rispose a Kuntz. Non poteva sapere chi stava ascoltando, perciò si
mantenne sul vago.
Kuntz si fece immediatamente serio.
“Dove sei?” chiese in fretta.
“Io sono in uno studio medico a farmi rimettere in sesto. Quello che
cercavamo è in un magazzino nella zona ovest.”
“Vengo subito. Posso portare…vediamo, sei o sette uomini, così,
all’improvviso. Servono ambulanze?”
“Direi un paio. Ma dì agli autisti di essere discreti,” rispose Tom.
Non c’era nessun bisogno che accorressero a sirene spiegate. Nessuno
degli uomini nel magazzino ne avrebbe tratto alcun beneficio.
Kuntz rispose che aveva capito.
Tom gli diede l’indirizzo esatto e fece per chiudere la comunicazione.
“Fatti trovare lì,” gli ordinò Kuntz, in tono perentorio. “Dobbiamo
ricostruire la dinamica dell’azione.”
“Dove pensavi che me ne andassi? A caccia di farfalle? Ho fatto anch’io
l’accademia di polizia, almeno a grandi linee so come funziona il
gioco.”
Kuntz grugnì qualcosa in risposta e attaccò.
Tom si fece steccare il naso, dando pessima prova di sé.
“Sembra di sentire un gatto che piange!” sbuffò l’infermiera, per
niente impietosita dal suo dolore.
Nemmeno un po’ partecipe.
Tom lasciò lo studio medico e si affrettò al magazzino.
Kuntz aveva intenzione di ricostruire la dinamica della sparatoria, ma
non sarebbe certo stato facile, in quel labirinto infernale, pieno di
anfratti e metallo su cui i proiettili avevano potuto rimbalzare decine
di volte.
L’unica ragione per cui nessuno era stato ferito da un rimbalzo doveva
essere la scarsa forza di penetrazione dei calibri 45, e la loro
gittata relativamente modesta.
Inoltre, tutti avevano usato lo stesso modello di pistola e le stesse
munizioni.
Le analisi balistiche sarebbero state un vero incubo.
Quando Tom arrivò al magazzino individuò tre macchine della polizia,
parcheggiate in disparte e con i lampeggianti spenti. Le ambulanze non
dovevano essere ancora arrivate. Un paio di agenti stazionavano davanti
alle saracinesche, tutt’ora abbassate.
Tom si diresse verso di loro e mostrò il tesserino: “Vi ho chiamati io.
Il tenente Kuntz mi sta aspettando”
Uno dei due uomini lo scortò fino alla porta da cui era entrato in
precedenza. All’interno, diversi poliziotti stavano frugando il
pavimento in cerca di bossoli, altri stavano compilando rapporti
accanto ai cadaveri degli uomini che Tom aveva ucciso. Non era un bello
spettacolo. Il corpo di Smitty soprattutto.
La sua vista fece fare una capriola allo stomaco di Tom, che dovette
stringere i denti per continuare ad avanzare verso Kuntz, impalato in
mezzo alla zona di carico, con gli occhi puntati fissi
sull’investigatore.
“Ti hanno rovinato quella tua bella faccia?” lo apostrofò il tenente,
dando un’occhiata al suo naso.
Tom sapeva di avere anche la camicia coperta di sangue secco e un paio
di escoriazioni su fronte e tempia.
“Davvero mi trovi bello?” domandò con finta allegria.
Kuntz scosse la testa, a indicare che ormai era un caso disperato.
“Che cazzo di casino hai combinato, Ludlow. Ma che è successo?”
Tom prese una sigaretta e se la infilò con cautela tra le labbra: “Ho
fatto quello che mi hai chiesto,” cominciò, parlando lentamente.
Uno degli uomini di Kuntz ˗erano tutti agenti semplici, tranne il
sergente Bayles, che Tom notò solo in quel momento˗ stava coprendo il
corpo del tipo che James aveva preso per il collo.
“Ho cercato un posto dove si potessero nascondere quelle armi,”
continuò Tom. “Ho fatto una lista di posti e ne ho controllato
qualcuno, stasera. Dopo qualche tentativo a vuoto, ho trovato questo
magazzino e visto che c’era del movimento ho pensato di dare
un’occhiata da vicino. Tombola, c’erano due uomini che stavano
caricando quel camion e due che li tenevano d’occhio. Volevo uscire e
andare a cercare un telefono per chiamarti, quando uno dei due tipi più
eleganti ha fatto il nome di Butler. Mi sono avvicinato per sentire
cosa dicevano. L’hanno fatto uccidere perché aveva la bocca troppo
larga, secondo loro. Temevano che gli scappasse qualche parola di
troppo con la persona sbagliata.”
Kuntz annuì: “E ti hanno visto?”
Tom soffiò un po’ di fumo: “Sì. Avevo estratto la pistola, per
sicurezza, e quando quel tipo lì, il piccoletto,” indicò il corpo
appena nascosto da un telo bianco, “mi ha visto ha lanciato un grido.
Gli altri si sono messi al riparo, lui è rimasto fermo e mi ha sparato
contro. Ho risposto.”
Kuntz gli chiese in che punto era nascosto e Tom glielo mostrò. Poi
raccontò il resto della sparatoria come si era svolta, fino ad arrivare
alla colluttazione con Smitty. “Abbiamo lottato per prendere la sua
arma. Ho pensato che non ci sarei riuscito,” disse Tom. Inclinò la
testa da un lato per far ammirare a Kuntz i segni del calcio della
colt. “Ma alla fine mi sono ritrovato con la pistola in mano e l’ho
colpito al petto.”
Kuntz annuì di nuovo e si avvicinò al cadavere di Smitty,
inginocchiandosi a terra. Studiò il foro d’entrata della pallottola.
“Hai detto che stavate lottando. Eravate a terra?” chiese.
Tom si irrigidì un istante.
“No,” rispose dopo una leggera esitazione. “Ho preso l’arma e mi sono
alzato in piedi. Lui è indietreggiato. Era in piedi davanti a me, a un
metro, un metro e mezzo.”
Kuntz osservò ancora il corpo, poi gli schizzi di sangue.
“Va bene,” disse infine, alzandosi. “Mi sembra tutto normale. Mi
servirà la tua pistola.”
“Cosa? Vuoi mandarmi in giro disarmato?” fece Tom.
“Perché? Hai in mente di andare a ficcarti in qualche altra sparatoria,
per stasera?” lo rimbeccò l’altro. Fece cenno a un agente. “Su, da
bravo, consegna la pistola all’agente Morris.”
Tom, rassegnato, lasciò cadere la pistola nel sacchetto che l’agente
teneva aperto di fronte a lui, per non mischiare le proprie impronte a
quelle già sull’impugnatura dell’arma.
“Posso andare?” chiese Tom.
Kuntz non gli rispose, gli occhi che vagavano per il magazzino.
“È un bel colpo, no?” fece Tom, evitando di fissare gli uomini a terra.
“Hai recuperato le armi, diversi delinquenti sono stati tolti di
mezzo…direi che la nomina a capitano è piuttosto probabile, no?”
“Peccato non avere la possibilità di interrogare nessuno di questi
uomini. Uno di loro avrebbe potuto fare il nome di Collins: lo avremmo
collegato a questo casino e lo avremmo tolto dalla circolazione una
volta per tutte. Ma tu hai il grilletto facile,” gli rispose Kuntz.
“Direi piuttosto che ho un innato senso di autoconservazione. Mi
avrebbero fatto fuori. È stata legittima difesa!” replicò Tom, con la
mascella contratta. “Inoltre,” continuò, sforzandosi di usare un tono
leggero, “non è detto che la proprietà del magazzino non si possa far
risalire a Collins stesso, se ci fosse un collegamento tra il gangster
e il proprietario.”
“il magazzino appartiene quasi certamente a un prestanome,” concordò
Kuntz.
Tom continuò: “Per quanto riguarda gli uomini di Collins…tutti i
presenti erano armati con le armi rubate. Forse tutta la banda lo è.”
Smitty aveva esplicitamente detto che tutti si erano armati con le armi
di Encino, già dall’assassinio di Andy Butler. “Quindi, se arresti
qualcuno, con una scusa, magari, e gli trovi addosso una colt M1911…”
“Posso incriminarlo per complicità nell’assalto del convoglio militare,
nella ricettazione delle armi trafugate e nell’omicidio di Butler. Non
insegnarmi il mio mestiere, Ludlow,” riepilogò Kuntz.
Tom alzò le spalle.
“Volevo essere d’aiuto.” Rifletté un istante, prima di domandare: “Sai
dove potresti pescare Collins?”
Kuntz diede un paio di indicazioni ai suoi uomini, prima di rispondere:
“Sì, conosciamo un paio di nascondigli abituali. Ma non abbiamo la
certezza di trovarci Collins. È un tipo furbo, si sposta in
continuazione. Se ci presentassimo ad armi spianate a suonargli alla
porta e lui non fosse in casa ci saremmo giocati la possibilità di
prenderlo di sorpresa. Cambierebbe giro, cambierebbe aria, come ha
fatto con i depositi che usava prima qualcuno dei miei fosse così
gentile da avvertirlo che ci erano noti.”
Tom alzò gli occhi, studiando il soffitto mentre fingeva di riflettere.
Finì la sigaretta, la gettò a terra e la spense con il tacco. Quando
riportò lo sguardo su Kuntz, l’uomo lo stava fissando a sua volta.
“E se…andassi a dare un’occhiata io, per appurare se Collins è in
casa?” disse.
Kuntz rispose parlando lentamente, con apparente riluttanza: “Se lo
facessi, ho paura che ti dovrei davvero un grande favore.”
“Oltre a quello che mi devi per aver trovato questo posto.”
“Meno quello che ti sei giocato per non essere riuscito a farmeli
prendere vivi.”
Tom sbuffò, con indignazione: “Ma va a cagare.”
Kuntz ghignò.
“E comunque, dove pensi di andare a cercarlo, Collins?” domandò,
accendendo a sua volta un sigaro.
“Ho le mie fonti. Voi dove lo cerchereste?”
“Il nostro amico ha un paio di club, in città. Chissà perché i
delinquenti si trovano tanto a loro agio in mezzo ai festaioli,” si
domandò il tenente.
“Beh, anche loro lavorano sodo e si divertono sodo, credo. C’è altro?”
Kuntz fece cenno di sì: “Collins non è propriamente in ristrettezze
economiche. Ha un paio di case, anzi direi delle ville, che un uomo
onesto come me potrebbe solo sognare.”
‘Onesto e sensibile…’ commentò acidamente Tom con se stesso.
Stava diventando più maturo, se riusciva a tenersi certe sciocchezze
per sé.
“Entrambe le ville sono abitate, c’è sempre un gran via vai di gente:
scagnozzi, guardie del corpo, donne, anche persone del bel mondo: se
hanno i soldi, sono tutti nella stessa barca. Comunque, in tutto questa
confusione, sapere dov’è Collins è difficile,” concluse Kuntz.
“Dammi gli indirizzi. Controllerò stanotte stessa,” disse Tom.
“Stanotte? C’è qualche motivo per avere tanta fretta?”
“Stai scherzando? Questi tirapiedi stavano spostando parte delle armi.
Probabilmente dovevano consegnarle a qualcuno che non le ha ricevute.
Quanto credi che ci metterà Collins a venirlo a sapere?”
Kuntz gli si fece più vicino: “Lo so perfettamente, principessa.
Intendevo dire se tu hai qualche motivo particolare per avere fretta di
scoprire dove sta quel gangster.”
Lo fissò con sguardo penetrante. Aveva fiutato qualcosa.
“Certo che ho un motivo. Sono stato assunto, e non da te per primo, se
ben ricordi,” gli rispose Tom.
Kuntz era convinto che lui lavorasse per i militari di Encino? Be’, che
lo credesse anche quando faceva più comodo a Tom.
“Tra l’altro,” continuò, “mi farebbe piacere avere una copia dei
rapporti di stanotte, il prima possibile.”
“Perché?” chiese Kuntz, indispettito dalla sua riposta elusiva.
“Per amor di completezza. Sai, mi piace avere i miei dossier sempre in
ordine.”
“Voi checche, sempre fissate con l’ordine. È per i militari sì o no?”
esplose Kuntz.
“Ma certo che è per i militari!” rispose Tom, alzando gli occhi al
cielo. “Se proprio vuoi saperlo, domani in tarda mattinata si riunisce
una commissione di inchiesta sull’incidente. In attesa della tua
comunicazione ufficiale alla base di Encino sul ritrovamento delle
armi, pensavo di presentare i miei rapporti e rendere conto di quello
che ho scoperto.”
Kuntz si arrese: “E va bene, avrai i dannati rapporti. Vedrò di farteli
consegnare in tempo da un uomo di fiducia al tuo ufficio, o in quel
locale dove praticamente vivi.”
“Mi pedini, Abel?”
“Ma fatti furbo. Prima di venire da te mi sono guardato attorno,
ovviamente. Andrai a cercare di individuare Collins?”
Tom annuì: “Lo farò. Mi farebbe comodo un’arma, visto che hai
sequestrato la mia.”
“Scordatelo,” lo gelò Kuntz.
“Cosa?!”
“Io ti ho chiesto un pedinamento. Non ti serve nessuna arma.”
“Ma è per precauzione!”
“Forse, ma se tu andassi a farti ammazzare con una pistola fornita
dalla polizia statale io passerei un’infinità di guai. Limitati ad
osservare: chissà che il fatto di essere disarmato non ti insegni ad
usare un po’ di prudenza. Almeno un po’ di più di quella che hai usato
qui. E comunque, scommetterei che tieni un’altra pistola nascosta nella
giarrettiera.”
Kuntz dichiarò chiusa la discussione voltandogli le spalle e tornando a
dirigere l’azione dei suoi uomini sulla scena del crimine. Se c’era una
cosa buona, di Abel Kuntz, era che non ti lasciava mai il dubbio di
dover aggiungere qualcosa.
Quando vide le saracinesche alzarsi per permettere alle ambulanze di
avvicinarsi e portare via i corpi, Tom si decise ad andare. Uscì dalla
porta secondaria che ormai gli era ben nota, superando un poliziotto
messo a sorvegliarla. Una volta fuori si incamminò verso la sua vecchia
Olds.
Cominciava ad essere parecchio tardi. Così aumentavano le possibilità
di sorprendere Collins nel sonno, ma doveva sbrigarsi per riuscire a
far tutto.
Giunto alla macchina salì, e subito cercò nel vano portaoggetti
nascosto la sua arma di riserva. Era una piccola beretta da usare in
caso di emergenza. Un’abitudine che gli aveva dato Butch.
“La macchina è un rifugio di sicurezza: se la raggiungi, puoi filare
via o difenderti, a seconda di cosa richiede la situazione. Ma bisogna
essere sempre pronti,” gli diceva a volte.
Saggie parole. Tom sorrise al pensiero, infilando la beretta nella
fondina sotto al suo soprabito.
Si toccò con cautela il naso, come per controllare che gli facesse
ancora male (sì, eccome, se faceva ancora male), gemette sonoramente e
infine mise in moto, diretto al club ‘Lions’.
Non è che avesse un piano preciso, a differenza di quello che aveva
detto a James.
E non moriva neppure dalla voglia di precipitarsi nella tana del drago
nel tentativo di far secchi tutti quanti prima che facessero secco lui.
Non a così poca distanza dall’avventura nel magazzino. Inoltre, la cosa
probabilmente gli avrebbe procurato un sacco di casini con Kuntz.
Raggiunse subito il ‘Lions’ club, ignorando gli altri indirizzi che il
tenete gli aveva fornito: l’uomo a cui aveva permesso di scappare aveva
detto che avevano appuntamento con Collins al ‘Lions’ per riferire
delle attività della nottata.
Tom fu colto dal pensiero improvviso che quel tipo avrebbe anche potuto
essersi precipitato al club e aver avvertito Collins e tutti i suoi
guardaspalle di quello che era successo, e che un investigatore aveva
chiesto proprio del suo nascondiglio per quella notte.
Ma no, non era probabile: tanto per cominciare, l’uomo avrebbe dovuto
ammettere di essere stato lui a permettere a Tom di entrare nel
magazzino e di avergli dato l’indirizzo preciso a cui trovare Collins.
Tanto valeva spararsi un colpo in bocca. Era molto più ragionevole
pensare che fosse fuggito e si fosse tolto dalla circolazione per un
po’.
Tom parcheggiò in una via deserta a quell’ora di notte, a poca distanza
dal retro del club, dopo aver fatto un giro dell’isolato per studiare
l’edificio. Stando alle sue informazioni, c’era un’entrata autonoma per
l’appartamento dietro il locale. Da quello che aveva visto, riteneva
che potesse trattarsi di una porticina in metallo in cima a tre gradini
di cemento.
Non c’era nessuno a guardia della porta, ma la recente esperienza gli
aveva insegnato che non vedere nessuno fuori non significava che non ci
fosse nessuno dietro la porta, all’interno dell’edificio. Preferiva non
entrare da lì.
Scese dalla macchina e si diresse verso la porta, camminando con
indifferenza. Oltrepassò la porta, deciso a dare ancora un’occhiata.
Poco oltre i tre gradini, a una trentina di centimetri dal pavimento
stradale, si vedeva una finestrella. Probabilmente una finestra dello
scantinato del locale.
Tom continuò ad avanzare. A un paio di metri dalla prima ce n’era una
seconda, nascosta alla visuale dalla porta da alcuni bidoni della
spazzatura.
Ci si accucciò dietro, valutando le possibilità di aprire il vetro
senza romperlo. E quella di riuscire a calarsi nello scantinato senza
rimanere incastrato con le braccia da una parte e i piedi dall’altra.
Sarebbe stato difficile da spiegare, e molto imbarazzante, anche.
Era fortunato: la finestra era abbastanza grande, sicuramente per far
entrare più luce possibile nei locali usati come magazzino costruiti
sotto il livello della strada. Non era un problema neanche aprire il
vetro: gli infissi erano vecchi e usurati, gonfiati dall’umidità e
pieni di crepe. Non fu difficile far scattare la maniglia interna,
chiusa male.
Con poche spinte Tom riuscì ad aprire la finestra, scalfendo senza
rumore il legno dell’intelaiatura in corrispondenza della serratura.
Con qualche sforzo, e strappando di nuovo il suo soprabito, riuscì a
calarsi nel seminterrato del club ‘Lions’.
Rimase immobile nel buio, guardandosi attorno e aspettando
che i suoi occhi si abituassero all’oscurità prima di muoversi. Non
voleva inciampare in qualcosa e provocare dei rumori sospetti. A poco a
poco cominciò a distinguere casse di bibite e alcolici, vecchi arredi
del locale e scaffali di barattoli.
Individuò la porta che portava al piano terra e salì silenziosamente.
Per l’ennesimo inaspettato colpo di fortuna, la porta del seminterrato
non era chiusa a chiave.
Tom sospettava che dopo quella notte la sua scorta di fortuna si
sarebbe esaurita una volta per tutte. Sperò tuttavia che durasse almeno
fino all’alba.
Aprì la porta di pochi centimetri e spiò nel corridoio.
Non c’era molto movimento: il locale doveva essere ormai quasi vuoto.
Vide passare un cameriere con un vassoio pieno di bicchieri e stoviglie
da lavare. L’uomo gridò qualcosa in una lingua che Tom non riconobbe e
dalla cucina qualcuno lo invitò a sbrigarsi. A quanto pareva il
servizio era concluso, e i camerieri e il resto del personale si erano
riuniti in cucina per una cena tardiva.
Il cameriere aprì le porte basculanti della cucina e un improvviso
chiasso di gente che mangiava e chiacchierava lo investì. Quando fu
entrato le porte oscillarono ancora per qualche secondo e quando si
accostarono definitivamente il rumore si ridusse a un leggero brusio.
Tom aprì la porta dello scantinato e avanzò nel corridoio, in cerca di
una rampa di scale. Difficile che Collins fosse al piano terra:
l’appartamento doveva essere ai piani superiori.
Percorse il corridoio verso sinistra, in direzione opposta alla cucina.
Vide l’entrata della sala: il ristorante era deserto, mentre qualcuno
tirava tardi nella zona cabaret, sulle note raffinate di un piano.
Passò oltre velocemente.
Raggiunse le scale e salì senza produrre alcun rumore sul tappeto di
velluto rosso che le ricopriva. L’ambiente era decisamente lussuoso: il
mancorrente era di legno e ottone, le pareti tappezzate di carta da
parati damascata, nei toni del rosso e dell’oro. Tom incoerentemente
ripensò all’appartamento di Winnie, che aveva colori simili.
Al primo piano lampade a muro e lampadari di cristallo illuminavano un
altro corridoio, molto ampio, quasi come quello di un albergo. Porte di
legno scuro si aprivano ad entrambi i lati del passaggio. Mobili
barocchi e console con grandi specchi decoravano l’ambiente.
Tom si abbassò sulle scale, per non essere scorto da una delle porte,
ma erano tutte chiuse. Una si aprì all’improvviso e uno scoppio di
risate si riversò nel corridoio, insieme a una bella ragazza con
indosso solo biancheria intima bianco panna e una cascata di gioielli
d’oro. Un uomo con espressione ebete uscì dietro di lei. Era grosso
come un armadio e a giudicare dal rigonfiamento sotto la sua giacca
doveva trattarsi di una delle guardie del corpo di Marcus Collins.
‘Chissà, forse è la sua serata libera’, si disse Tom seguendo con lo
sguardo lui e la ragazza correre verso un’altra porta e rinchiudersi
dentro.
Con cautela, sperando che non ci fossero altri movimenti improvvisi,
Tom avanzò, chiudendosi con cura il soprabito per nascondere la camicia
macchiata di sangue e sbirciando alternativamente le porte alla sua
destra e alla sua sinistra.
Passò oltre le prime due: troppo vicine alle scale per essere il
rifugio del boss. Più probabile che Collins dormisse in fondo al
corridoio. Ma chissà dov’era che conduceva i suoi affari…
Un’altra porta si aprì, giusto alle spalle di Tom e lui si voltò di
scatto, per ritrovarsi a fissare un’altra ragazza che indossava un
abito da sera nero. La ragazza gli rivolse uno sguardo moderatamente
curioso, mentre si accendeva una sigaretta, poi assunse un’aria
completamente indifferente.
“Non ti conosco,” gli disse, soffiando la prima boccata di fumo.
Rimise l’accendino dove lo aveva preso, in una delle coppe del
reggiseno. Rivolse a Tom un sorriso professionale, aspettando una sua
reazione.
“Sono nuovo,” le ripose Tom.
Kuntz aveva parlato di belle donne che frequentavano le case di
Collins, e la ragazza in questione era davvero molto bella. I capelli
erano foltissimi, una criniera di boccoli castani lucidissimi. Doveva
essere abituata e vedere uomini conciati male, perché non fece una
piega alla vista del naso rotto di Tom, né commentò le sue ecchimosi.
“E cosa ci fai qui, novellino?” chiese all’investigatore, sbirciando al
tempo stesso il proprio riflesso in uno specchio.
Ne parve soddisfatta.
“Sono qui per lavoro,” rispose Tom, non riuscendo suo malgrado a
toglierle gli occhi di dosso. Notò che era a piedi nudi. “Sto cercando
il capo,” continuò. “Sai dirmi dov’è? Ci aspettava.”
Lei scosse la testa: “È andato a dormire, per quel che ne so. È
importante?”
“No, volevo solo dirgli che è andato tutto bene. Nessun problema.”
“A giudicare dalla tua faccia, direi che qualche problema c’è stato,”
commentò lei, scrutandolo con occhi attenti.
Soffiò dell’altro fumo.
Tom si toccò il naso, per riflesso: “Nah, questo è per un’altra
faccenda. Non farci caso.”
“Se lo dici tu,” replicò lei, indifferente. “Comunque, Marcus dorme.
Odia essere svegliato e tu sei già abbastanza conciato. Vuoi compagnia
mentre lo aspetti?” gli chiese, ammiccante.
“Mi piacerebbe. Ma dato che il capo dorme, meglio approfittarne. Devo
portarmi avanti per una cosa che mi ha chiesto. Non sarebbe felice di
sapere che ho sprecato la nottata,” le ripose Tom, con la giusta dose
di rammarico.
“Non sarebbe sprecata,” gli fece sapere la ragazza, ma non insisté.
“Aspetterò il capo nello studio. Pensi vada bene?” le domandò Tom,
accennando vagamente con il capo al fondo del corridoio.
Era un azzardo, ma ci provò.
“Non so, penso di sì. Solo, non farti trovare sulla sua sedia,” rispose
la ragazza.
Gli voltò le spalle, dimenticandolo all’istante.
Tom rimase a fissarla ritornare da dove era sbucata e chiudere la
porta. Poi si girò e proseguì lungo il corridoio. Accostò l’orecchio ad
ogni porta, cercando di captare qualche suono che gli desse
un’indicazione utile per trovare lo studio di Collins. Dietro una porta
sentì un respiro regolare, dietro un’altra le voci di un gruppetto di
uomini che giocava a carte senza troppi schiamazzi. Magari non volevano
svegliare il capo. Se era vero, forse la stanza che occupava Collins
era quella attigua, e lo studio poteva essere la stanza accanto.
Tom mise una mano sulla maniglia e ascoltò attentamente. Non sentì
nulla. Abbassò la maniglia di una frazione di centimetro, preoccupato
che emettesse qualche rumore molesto.
Con infinita cautela, un millimetro alla volta, fece scattare la
serratura e aprì di una fessura la porta, sentendosi come ne ‘il cuore
rivelatore’ di Edgar Allan Poe. Il silenziò parve dilatarsi attorno a
lui, quando si ritrovò a fissare una strisciolina di buio. Era
impossibile distinguere alcunché.
Fece entrare un po’ più di luce e riuscì a vedere lo schienale di una
poltrona rivestita di pellame pregiato, posta dietro quello che
sembrava uno scrittoio antico. Ce l’aveva fatta, aveva trovato lo
studio.
Entrò in silenzio, richiudendosi la porta alle spalle con ancora più
attenzione di quella usata per aprirla.
Note:
Mmmmh, anche qui Tom riceve informazioni da un comodo personaggio
femminile...non mi fa impazzire questa soluzione, ma erano gli ultimi
giorni del NaNo, dovevo essere molto stanca XD
Ho deciso di postare assieme gli ultimi due capitoli perchè non sono
molto soddisfatta della divisione che creano, ma un solo capitolo di
più di 9000 parole sarebbe stato troppo....
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
IX Capitolo
Di nuovo Tom rimase ad aspettare che gli occhi si abituassero un po’
all’oscurità. Grazie anche alla luce di un lampione che filtrava dalle
persiane riuscì a mettere a fuoco la diposizione dei mobili nella
stanza e avanzò senza inconvenienti fino alla scrivania.
Nonostante le raccomandazioni della ragazza del corridoio, la prima
cosa che fece fu sedersi alla scrivania di Collins, per controllare i
cassetti.
Accese la lampada da tavolo verde che stava sul ripiano della scrivania
e la tenne in mano mentre frugava tra le carte e il contenuto dei
cassetti. Il primo conteneva solo fogli bianchi, qualche penna e una
scatola di sigari cubani. Un classico.
Il mobile bar, a forma di mappamondo antico, era accanto alla poltrona.
Tom immaginò Collins seduto al suo posto a sorseggiare del porto con un
sigaro tra le labbra. Lo immaginava, chissà perché, alto, corpulento e
completamente calvo, con sopracciglia folte e cespugliose, l’ideale per
lanciare sguardi minacciosi.
Forse avrebbe fatto meglio a chiedere a Kuntz una descrizione, o
qualche informazione in più: sarebbe risultato più credibile quando lo
avesse chiamato per dirgli che Collins si trovava effettivamente al
club ‘Lions’.
Sospirò, irritato da quella mancanza (ma di certo non sarebbe stato
l’ultimo errore della sua carriera; probabilmente neanche l’ultimo
della nottata) e continuò la sua ispezione.
Sperava di trovare i negativi delle foto con cui quella gente aveva
ricattato James. Non era assolutamente certo che fossero proprio nello
studio di Collins al ‘Lions’. Potevano anche essere in una delle sue
svariate case, ma il tipo del container aveva detto che era lì che
Collins concludeva gli affari, quindi era quanto meno possibile che vi
conservasse tutte le carte necessarie. In fin dei conti, meglio che i
documenti compromettenti se ne stessero al club, piuttosto che in casa
sua.
Il secondo cassetto conteneva degli atti di proprietà immobiliari di
vario genere.
Tom scommise con se stesso che Kuntz avrebbe certo apprezzato l’idea di
dargli un’occhiata.
L’ultimo cassetto conteneva un libriccino di pelle.
Tom si stupì. Avrebbe pensato che Collins fosse molto più furbo: tenere
un’agenda, con nomi, numeri e indirizzi? Non era affatto prudente,
anche se l’agenda in questione pareva cifrata.
Tom ne scorse le pagine, solo per assicurarsi che non contenesse i
negativi che stava cercando. Niente.
Scrutò il resto della stanza, dirigendo il fascio di luce della lampada
da tavolo in ogni anfratto, evitando con cura la porta e le finestre.
Un mobile di cristallo con sopra un vaso di fiori. Un tavolino da caffè
con un paio di poltrone più piccole di quella della scrivania. Due
enormi librerie gemelle sistemate ai lati di un imponente quadro con
una scena di caccia nella campagna inglese.
Tom si avvicinò al quadro, posando la lampada per avere le mani libere.
Afferrò la cornice del quadro e lo staccò dalla parete, adagiandolo a
terra con attenzione. Apparve alla vista una piccola cassaforte
incassata nel muro.
Tom rimase a fissarla, domandandosi cosa fare adesso.
La combinazione per aprirla poteva essere scritta sul libretto in cuoio
che aveva trovato nella scrivania, ma non aveva certo il tempo di
mettersi a decifrare il codice. Collins la sapeva di certo a memoria.
Doveva trattarsi di un numero impossibile da dimenticare o comunque
facile da ritrovare.
Molti proprietari di casseforti usavano la loro data di nascita,
rendendo sostanzialmente inutile l’impiego della cassaforte stessa: un
ladro professionista si sarebbe certamente informato sulle date di
nascita di tutti gli occupanti della casa che voleva ripulire. Collins
era certamente più furbo di così. E anche se non lo fosse stato, Tom
non era un ladro professionista e non si era informato su un bel
niente, in quella storia. Andava avanti a casaccio, come un
principiante molto fortunato.
C’era da dire che aveva anche avuto poco tempo e che la ricerca di
informazioni non era il suo forte. Se avesse deciso di trovarsi un
altro partner, avrebbe cercato qualcuno che fosse un genio con queste
cose, come lo era Butch.
Studiò la libreria, mentre pensava al da farsi. Teso l’orecchio verso
il corridoio, sentendo un rumore di passi, ma nessuno aprì la porta
dello studio.
Tornò a concentrarsi sui titoli dei volumi rilegati in pelle, in cerca
di ispirazione.
E la trovò: uno dei libri aveva un titolo a caratteri molto sgargianti.
Lepanto1571. Poteva essere? Non era l’unico libro che avesse una data
nel titolo, ma la sua posizione, all’altezza degli occhi, primo della
sua fila, facevano ben sperare a Tom. Fece girare la combinazione con
le dita un po’ contratte dalla suspense, sperando ad ogni clic di
riuscire ad aprire la dannata cassaforte.
Le alternative erano fosche: se non fosse riuscito a recuperare i
negativi e avesse chiamato Kuntz, gli stessi sarebbero finiti in mano
della polizia e il coinvolgimento di James sarebbe saltato fuori, non
appena un esperto avesse forzato la serratura. D’altro canto, mentire a
Kuntz e dirgli che non era riuscito a trovare Collins lo avrebbe
lasciato al punto di partenza: il gangster avrebbe avuto ancora i mezzi
per ricattare James e Tom non avrebbe potuto provare che la
responsabilità era del tenente colonnello Sterling, senza poter
chiedere a Kuntz i tabulati telefonici del rifugio di Collins.
Quindi, la dannata cassaforte doveva aprirsi. Doveva.
Si concentrò talmente intensamente su questo pensiero che quando lo
sportello della cassaforte scattò in avanti con un rumore sordo, Tom
rimase a fissarlo per due secondi buoni, prima di rendersi conto di che
cosa era successo. Gli venne quasi da ridere, ma si trattenne.
Aprì lo sportello e ispezionò il contenuto della cassetta di sicurezza:
contanti, altri documenti, una pistola e…i negativi.
“Sì!” esultò sottovoce Tom, stringendo il pugno.
Li prese e li studiò controluce con la lampada da tavolo. Sì, non c’era
dubbio: erano le foto che incastravano James. Li infilò nella tasca
interna del cappotto, insieme alle loro versioni sviluppate, poi
accostò lo sportello della cassaforte, senza chiuderlo. Avrebbe
lasciato la via spianata per la polizia.
Riappese il quadro al suo posto e riportò la lampada sulla scrivania.
Cercò di risistemarla esattamente come l’aveva trovata, come aveva già
fatto precedentemente con il contenuto dei cassetti che aveva frugato.
Infine spense la luce e attraversò la stanza in fretta: ormai conosceva
a memoria la disposizione dei mobili. Raggiunse la porta senza
incidenti.
Ascoltò e osservò dalla serratura prima di uscire nel corridoio e
attraversarlo alla massima velocità che riusciva raggiungere senza
produrre alcun rumore di passi. Una porta si spalancò, ma lui era ormai
sulle scale, che scese tenendosi basso.
Era passato inosservato. Il piano terra era deserto ormai. Anche dalla
cucina non proveniva più alcun suono.
Tom si diresse verso la porta dello scantinato, ma quando prese la
maniglia si accorse che qualcuno aveva provveduto a chiudere a chiave.
Forse i camerieri, prima di andare via.
Tom imprecò e si inginocchiò a terra, frugandosi rapidamente nelle
tasche, in cerca del coltellino svizzero. Scelse la lama più sottile e
la infilò tra la porta e lo stipite, cercando di spingere all’indietro
la serratura.
Ci riuscì dopo tre tentativi.
Era in qualche modo riuscito a non scalfire più di tanto lo stipite, ma
era molto facile che qualcuno si accorgesse che la porta era stata
aperta, anche se non aveva rotto la serratura. A una prima occhiata si
poteva pensare che fosse solo scattata male, ma ad un esame più attento
il tentativo di forzarla sarebbe stato evidente. Gli uomini di Kuntz se
ne sarebbero accorti.
Tom si domandò se sarebbe stato un problema. Forse no. In fin dei
conti, Kuntz non si aspettava davvero che lui si limitasse a un
appostamento, per trovare Collins.
Il tenete doveva sapere che trovare qualcuno solo standosene seduti in
macchina a fumare e a bere caffè caldo è certamente possibile, ma
richiede un sacco di tempo, che loro non avevano. E d’altra parte,
Kuntz era così ansioso di acciuffare Collins che avrebbe chiuso un
occhio sui metodi di Tom, no? A bene vedere, quelle scalfitture sulla
serratura del seminterrato potevano essere lì da sempre. E comunque, la
polizia statale non collaborava con nessun investigatore privato. Come
avevano saputo del nascondiglio di Collins? La denuncia anonima di un
privato cittadino spinto da un doveroso senso civico.
Tom si ripeté queste giustificazioni nella testa, mentre attraversava
lo scantinato e riapriva la finestrella a bocca di lupo che dava sul
vicolo.
Si issò fuori facendo una fatica tremenda. Quando la fondina gli si
impigliò contro il legno dell’intelaiatura della finestra, temette
seriamente di stare per spararsi da solo in una gamba. Riuscì a
liberarsi, alla fine, e si alzò in piedi in mezzo al vicolo.
Aveva il respiro accelerato e si sentiva coperto di sudore, che gli si
gelò subito addosso.
‘Un vicolo ventoso a fine novembre non è posto per me,’ si disse, prima
di scivolare nell’ombra per raggiungere la vecchia Olds.
Una volta in macchina, valutò la situazione: ridotto in quello stato
non poteva semplicemente entrare in un negozio aperto ventiquattr’ore
su ventiquattro e chiedere di usare il telefono. Aveva davvero un
aspetto spaventoso. C’era il rischio che suscitasse reazioni
indesiderate nei commessi, e inoltre qualcuno si sarebbe potuto
ricordare di lui. Preferiva rimanere il più possibile anonimo, in
quella fase delle indagini.
Il suo quartiere non era così lontano e lui aveva comunque bisogno di
tornare a casa. Un bisogno quasi fisico di sentire lo schienale della
sua poltrona avvolgerlo, per sentirsi di nuovo sicuro, dopo quella
folle nottata. Avrebbe chiamato Kuntz da lì. Ormai il tenente doveva
essere rientrato in centrale a preparare i rapporti della nottata, e le
copie per Tom, si sperava. Inoltre, aveva ancora un favore da chiedere
a Kuntz, ed era meglio farlo il prima possibile.
Mise in moto e si diresse a casa.
Erano quasi le quattro quando abbandonò la macchina sul marciapiede
proprio davanti all’ufficio. Non aveva la forza di portarla al
parcheggio e poi fare il tragitto da lì al suo palazzo a piedi. Che gli
facessero pure una multa.
Entrò nell’atrio e dovette svegliare il portiere notturno.
L’uomo, Morty, risvegliato bruscamente e spaventato dalle condizioni
della faccia dell’investigatore, cominciò a tempestarlo di domande, ma
Tom lo ignorò completamente. Prese le chiavi e lo ringraziò, prima di
girarsi e salire all’attico.
Si lanciò sul telefono e chiamò la stazione di polizia.
“Il tenente Kuntz. Per favore. Gli dica che è molto urgente,” annunciò
al centralinista.
Non dovette attendere a lungo: Kuntz doveva essere in attesa spasmodica
di fianco all’apparecchio telefonico.
“Sei tu, Ludlow?” gli chiese, sollevando il ricevitore.
“Io. Avete finito, al magazzino?”
“Mancano le ultime formalità. Dovrai venire domattina a firmare una
deposizione, lo sai. Cos’hai per me?” chiese con impazienza.
“Sono stato in un club, sulla ventesima. Il ‘Lions’, lo conosci? A
quanto pare, il nostro amico è di casa, lì. Intendo letteralmente, di
casa. Pare che abbia un appartamento al primo piano, nell’edificio
sopra il ristorante.”
“Ed è ancora lì?” chiese Kuntz.
A Tom parve di vederlo chinarsi di più verso il telefono, di sentirlo
stringere la presa sul ricevitore.
“Beh, non l’ho visto personalmente, ma i suoi dicevano che era andato a
dormire e che era meglio non svegliarlo. A quanto pare, odia essere
svegliato.”
Sentì Kuntz ghignare: “Oh, ma davvero? Ha ragione, il sonno è sacro. Ma
magari dipende dal modo, in cui lo si sveglia.”
“Lo farete con dolcezza, mi auguro.”
“Stanne certo: la bella addormentata si risveglierà convinta di sognare
ancora,” rise Kuntz.
Allontanò il telefono e gridò una serie di ordini concisi.
“Hai abbastanza uomini?” gli chiese Tom.
Non che si stesse offrendo volontario: lui aveva ancora parecchio da
fare, quella notte.
“Ho recuperato qualcuno, sì. C’è molta gente?”
“Non lo so, di preciso. Direi una decina di uomini.”
Forse anche meno, ma meglio essere più preparati che troppo spensierati.
“Bene. Bel lavoro. Ora dobbiamo andare.”
“Prima,” lo bloccò Tom, “ho una richiesta: puoi avere i tabulati
telefonici del ‘Lions’?”
“Perché?”
“Per provare il coinvolgimento di una persona nell’affare dei militari.
Puoi richiederli alla compagnia telefonica? Quanto ci vorrà?”
“Posso chiederli come elementi di indagine, ma solo dopo l’arresto di
Collins. E ancora non ce l’ho nel sacco,” rispose Kuntz.
“Potresti richiederli domattina, allora.”
“E va bene. Ci vorrà qualche giorno, però. Non potrai presentarli
davanti alla tua commissione militare.”
Tom sospirò: se l’era aspettato.
“Non fa niente. Integrerò le prove quando le avrò. Siamo d’accordo?”
“D’accordo. Buona notte, principessa. Grazie dell’aiuto.”
“Buon lavoro,” rispose Tom, senza offendersi.
Si abbandonò contro lo schienale della sua poltrona, sospirando. Era
esausto. Aveva ancora un milione di cose da fare, ma prima di tutto si
sarebbe fatto una bella doccia, decise. E poi un caffè. Se lo meritava.
Ci ripensò: c’era una cosa che non poteva rimandare.
Di malavoglia, ma con celerità, ora che il pensiero l’aveva sfiorato,
andò nell’atrio a recuperare il portaombrelli di ferro battuto. Dovette
cercarlo brevemente, poi lo trovò nascosto dietro alla porta, accanto
ai vasi delle felci, in cui prima o poi avrebbe ripiantato qualcosa.
Portò il portaombrelli nel suo ufficio dopo averlo svuotato (conficcò
il triste e solitario ombrello che c’era dentro nella terra delle
felci) e ci buttò dentro i negativi e le foto che Collins e i suoi
avevano usato per ricattare James. Scorse di nuovo le foto, ricordando
quanto James le trovasse ripugnanti, per via del senso di colpa,
probabilmente. Le lasciò cadere sul fondo del portaombrelli, poi si
frugò le tasche in cerca dei fiammiferi. Ne approfittò per accendersi
una sigaretta.
Gettò il fiammifero su foto e negativi e si assicurò che bruciassero
completamente.
‘Tutto a posto, amico’, pensò tra sé e sé.
Cercò di far arrivare il pensiero telepaticamente a James, per
rassicurarlo. Fantasticò di riuscire a raggiungerlo, nel sonno, e di
permettergli di dormire senza pensieri.
Ma dubitava che fosse possibile: James era troppo su di giri e
sconvolto per dormire. Tuttavia, non poteva perdere tempo a
telefonargli, se voleva essere sicuro di riuscire a sistemare tutte le
carte entro la mattina successiva, prima di andare alla stazione di
polizia a firmare la sua deposizione.
E poi, accidenti, aveva necessità di dormire qualche minuto, se solo ci
fosse riuscito, prima di rendersi effettivamente conto di tutto quello
che era successo quella notte. C’era mancato davvero poco che morisse,
in quel magazzino, cazzo. Né la visita al club ‘Lions’ era stata una
rilassante passeggiata priva di eventi e di rischi.
Tom scosse la testa, per allontanare quel pensiero.
Si alzò d’impeto dalla scrivania, prese il portaombrelli, che conteneva
ormai solo delle ceneri fumanti e lo portò nella stanza sul retro. Lo
accostò al lavandino e vi fece scorrere un po’ d’acqua dentro, lavando
via ogni prova dell’incontro peccaminoso di James e quel tizio,
chiunque fosse.
Poi si spogliò, gettando vestiti alla rinfusa per terra, mentre andava
nella stanza da bagno e apriva l’acqua calda. Lasciò a terra camicia,
pantaloni e biancheria (le scarpe erano rimaste accanto al lavandino,
con il portaombrelli; la giacca e la cravatta si erano perse nel
tragitto) e quando il getto d’acqua fu bollente, quasi ustionante, si
buttò nella doccia, cercando goffamente di non bagnare la fasciatura al
naso mentre si sfregava il viso con le mani umide.
Rimase con le mani appoggiate alle piastrelle fredde, mentre l’acqua
gli scivolava lungo la schiena, sciogliendo i muscoli contratti e
doloranti.
Da quanto era in tensione? Dal primo pomeriggio, probabilmente.
Gemette, appoggiando la fronte alle piastrelle, tra le mani. Il fresco
ero un sollievo per il suo naso.
Uscì dalla doccia quando l’acqua cominciò a diventare più fredda. Una
volta rivestito si sentì meglio e più in forze.
Si preparò il caffè che si era promesso, una tazza enorme e strapiena e
alla fine dovette decidersi a sedersi alla scrivania, dopo aver
ripescato dal suo archivio tutto quello che aveva scritto su quella
faccenda, a partire dall’incontro con Maria Butler, fino ai risultati
che l’agenzia immobiliare gli aveva passato. Ne fece un riassunto,
mettendo in evidenza i punti principali della storia, poi cominciò a
scrivere tutto quello che era successo dal momento in cui uscito di
casa per andare a cercare il magazzino dov’erano nascoste le armi.
Quella parte sarebbe stata integrata con i rapporti della polizia,
gentilmente forniti dal tenente Kuntz.
Kuntz aveva detto che li avrebbe fatti arrivare al suo ufficio, oppure
alla Pantera Blu. Se Winnie avesse ricevuto un plico per lui glielo
avrebbe portato la mattina dopo all’alba, era già successo. Sarebbe
potuto passare lui stesso a prenderlo, per evitarle problemi. Rifletté
che sapendo cosa c’era nei rapporti avrebbe potuto trattare quella
parte diversamente, nel suo resoconto.
Guardò l’ora: anche se era tardi, per Winnie non era poi così grave.
Con tutta probabilità era ancora sveglia.
E se non lo era, pazienza, si disse Tom, prendendo il telefono. Aveva
preso un sacco di botte, era molto stanco e non era in vena di fare
favori agli amici, almeno per un bel po’.
Chiamò direttamente a casa, certo che il locale fosse chiuso da un
pezzo.
Winnie rispose al secondo squillo: “Pronto?”
“Sono Tom.”
“Tom! Meno male, sei tornato. Ho provato a chiamarti, meno di un’ora
fa, ma non c’eri. È passato un poliziotto, un certo tenente Kuntz, a
lasciarti dei fogli,” gli disse la donna.
“Sì, lo so, mi aveva avvertito, ma me lo sono dimenticato,” le rispose
Tom.
Era felice di sentire l’amica, tutto sommato.
E così Kuntz era passato di persona. Beh, chi fa da sé fa per tre,
soprattutto se hai il sospetto che alcuni dei tuoi uomini siano sulla
lista paga dei cattivi, si disse l’investigatore.
“Stai bene? Quell’uomo ha detto che saresti passato, e quando non ti ho
visto mi sono preoccupata. Poi quando non hai risposto al telefono sono
quasi morta di paura! Si può sapere cos’è successo?” continuò Winnie,
in tono concitato.
“Sì, sto bene, tesoro, grazie. È stata una serata movimentata, tutto
qui. Ti racconterò tutto un’altra volta, ma ho bisogno di quei fogli
subito. Posso passare?” domandò Tom, contorcendosi sulla poltrona per
cercare con lo sguardo i suoi vestiti.
Ah, già, il suo soprabito era da buttare.
“Sì, certo, ti aspetto. Vieni subito?”
“Il tempo di trovare un cappotto e sono lì, ho la macchina. Solo, non
ti spaventare, quando mi vedrai,” la avvertì Tom.
“Oh dio, tesoro! Hai detto che stavi bene!” lo rimproverò Winnie, con
voce ansiosa.
Tom rise: “Sto bene, sono solo un po’ conciato. Arrivo.”
Si vestì e riportò il portaombrelli nell’ingresso. Il portiere parve
molto sorpreso di vederlo scendere di nuovo, ma non disse nulla.
Tom salì in macchina e parcheggiò, sempre completamente a caso, giusto
sotto il palazzo di Winnie.
La donna lo salutò da una finestra.
Tom salì le scale, ricordando la sua precedente visita. Sembrava
passato un secolo. Ma gli sembrava passato un secolo anche dalla
colazione di quella mattina, quindi forse la stanchezza lo faceva
straparlare.
Winnie gli aprì la porta prima che bussasse.
“Oh, cavolo! Solo un po’ conciato, hai detto? Chi ti ha rotto il naso?
Non sarà stato quel poliziotto: mi hanno raccontato che è venuto alla
tavola calda, oggi…” esordì Winnie, mentre si faceva da parte per
lasciarlo entrare.
Tom fece cenno di no: “Non è stato lui. Diciamo che in parte è colpa
sua, ma non è stato lui. Mi ha chiesto aiuto per un caso.”
“Hai collaborato a un caso della polizia?”
“Veramente sarebbe più giusto dire il contrario,” la corresse Tom.
“Siediti, avanti,” fece Winnie.
Tom guardò con rammarico il divano. Quasi gli salirono le lacrime agli
occhi.
“Non sai quanto mi piacerebbe, ma mi servono quei fogli e devo subito
mettermi al lavoro, Winnie. Non posso proprio fermarmi. Non oso
fermarmi prima di aver finito, ho paura di addormentarmi. Almeno in
ufficio, se cadessi addormentato sulla scrivania il naso mi
sveglierebbe all’istante.”
Winnie annuì, comprensiva, e gli porse il plico di rapporti consegnato
da Kuntz in persona. Studiò con occhio critico il suo naso ammaccato e
poi si offrì di dargli una borsa del ghiaccio.
Tom accettò, non avendo idea di quanto ghiaccio ci fosse ancora nel
mobile bar.
Tornò in ufficio e si mise a leggere i rapporti.
Verso il fondo, si sentì mancare il fiato per un istante, poi si sentì
la faccia diventare tutta rossa.
C’era un proiettile di troppo!
Gli uomini di Kuntz avevano diligentemente raccolto tutti colpi esplosi
all’interno del magazzino e avevano reso conto, approssimativamente, di
quando e da chi erano stati esplosi.
Chi aveva redatto così in fretta quelle pagine non se ne era reso
conto, né poteva rendersene conto qualcuno che non lo sapesse, ma i
conti non tornavano: c’era un proiettile in più, rispetto alle pistole
che erano state trovate sulla scena.
Il proiettile con cui James aveva ucciso Smitty, salvando la vita a
Tom.
Come aveva potuto non pensarci? Certo, aveva pensato che le
ricostruzioni balistiche sarebbero state complicate (difatti, si
basavano principalmente sulla versione che Tom aveva dato), ma aveva
completamente rimosso il fatto che le colt M1911 a sparare erano state
sei, e non cinque.
Poteva essere un problema? Dal rapporto non era percepibile, quella
mancanza. Ma Kuntz, quello era più furbo del diavolo, e già gli aveva
fatto domande sulla colluttazione con Smitty. Non c’era modo di sapere
se aveva notato la discrepanza. A meno che non glielo dicesse
apertamente la mattina successiva, al momento di firmare la
deposizione.
Tom respirò a fondo, cercando di calmarsi. Ci avrebbe pensato quando
fosse stato faccia a faccia con Kuntz, inutile lambiccarsi il cervello
adesso.
Forse in quel momento Kuntz stava leggendo a Marcus Collins i suoi
diritti, e la cosa poteva soddisfarlo al punto di fargli dimenticare
qualche piccola incongruenza. In fin dei conti, non esiste un caso
senza incongruenze o punti oscuri. In quella faccenda ce n’era un ben
più grande: che fine aveva fatto il camion militare sottratto durante
l’assalto, che Andy Butler era stato assoldato per guidare? Forse
l’unico che poteva fornire una riposta era il tenente colonnello
Sterling, oppure Collins.
Tom continuò a leggere e a redigere il suo resoconto. Allegò le
fotografie scattate nell’appartamento di Andy Butler e quelle allegate
all’autopsia. Gli uomini di Kuntz avevano anche scattato delle foto del
magazzino, e degli uomini che Tom aveva ucciso.
Mise da parte quelle ultime: sarebbero finite nel suo archivio.
Finalmente terminò.
Quasi incredulo, timoroso di aver dimenticato qualcosa di importante,
Tom rilesse tutto da capo, ma ormai non riusciva più a mettere a fuoco
le parole.
Lasciò tutto in vista e andò a letto, mettendo la sveglia per le sette
e mezza, appena due ore dopo, in modo da aver qualche minuto per
rivedere il tutto prima di andare alla stazione di polizia. Chissà che
con un po’ di riposo non gli venisse in mente qualche spiegazione
plausibile per giustificare quel dannato proiettile di troppo.
Quando aprì gli occhi, Tom si sentiva meglio.
Certo, era sempre a pezzi, ben lontano dal sentirsi completamente
riposato, ma si sentiva lucido e il naso gli faceva meno male (era
probabilmente merito delle pasticche che l’infermiera gli aveva
lasciato). Gli sembrava anche di riuscire a respirare meglio.
Uscì per la colazione, nell’aria fredda di fine novembre. La sua
macchina era ancora parcheggiata davanti al palazzo. Sul parabrezza
campeggiava già una multa.
Tom se ne fregò e andò a mangiare alla tavola calda.
Il posto non era affollato e quindi dovette ripetere che non gli era
successo niente di grave solo tre o quattro volte.
Dopo aver divorato una quantità imbarazzante di uova e salsiccia, Tom
partì per la stazione di polizia.
La stazione era in fermento: un nugolo di giornalisti si accalcavano
nell’atrio, parlando ad alta voce, chiedendo aggiornamenti, scattando
foto delle scale che portavano alle stanze degli interrogatori e agli
uffici.
In quella confusione, Tom riuscì a spiegare a un agente che il tenente
Kuntz lo aspettava per firmare una deposizione; l’uomo era stato
avvertito, o comunque non aveva nessuna intenzione di irritare il
tenete Kuntz, l’eroe della nottata, che aveva sgominato la banda di
Marcus Collins, e sventato il loro tentato traffico d’armi.
Tom si mostrò doverosamente impressionato.
Giunti davanti all’ufficio di Kuntz, Tom ne vide uscire il sergente
Bayles, con l’aria molto indaffarata. Lo salutò.
L’uomo alzò lo sguardo su di lui.
“Detective Ludlow. Ieri sera non ho avuto occasione di dirglielo, ma
complimenti per aver trovato quel magazzino,” gli disse in tono
formale. “Collins verrà, tra le altre cose, incriminato come il
mandante dell’omicidio Butler. Dovrebbe avvertire la signorina Butler.”
“La contatterò sicuramente, sergente. Ma forse sarebbe meglio se fosse
un poliziotto, a darle la notizia. In fin dei conti sarete voi a
ricercare le prove per sostenere l’accusa. Non ho niente in contrario
se le date voi la buona notizia,” gli rispose Tom.
Maria aveva promesso di avvertirlo quando avesse organizzato il
funerale del padre. Che il sergente Bayles approfittasse pure di questa
occasione per parlare con la sua bella.
Bayles rispose con un cenno del capo e sparì nei corridoi.
Tom entrò nell’ufficio di Kuntz senza bussare.
“L’eroe della nottata? Ma davvero?” gli chiese, con un ghigno.
Kuntz sollevò gli occhi da una pila di scartoffie: “Così dicono. Ma non
mi ha certo evitato la maledetta burocrazia. Vieni avanti, Ludlow.
Firma e facciamola finita.” Si mise a frugare tra i fogli sparsi sul
suo tavolo. Ne trovò alcuni intestati e li passò a Tom: “Scrivi.
Puntuale, preciso e chiaro. Tutto quanto. Se ti viene in mente perché
ci sono più colpi che pistole, fammi sapere anche quello.”
“Più colpi che pistole?” chiese Tom, prendendo tempo.
‘Dannato bastardo col colpo d’occhio.’
“Già. Abbiamo ritrovato diciannove bossoli, su una potenza di fuoco
totale di venticinque colpi. Cinque pistole: quattro colt e la tua. Il
primo che hai steso ha sparato solo due volte, gli altri due avevano
ancora due colpi a testa. Dovrebbero esserci diciotto bossoli.” Kuntz
lo fissò, le labbra sottili e contratte. “Me lo spieghi?”
“Hai davvero avuto tempo di preoccuparti di questa roba?” chiese Tom,
imprecando mentalmente.
Possibile che fossero riusciti a ritrovare tutti i bossoli? In quel
labirinto di container e casse?
Aggrottò la fronte, fingendo di cercare una spiegazione.
“Non lo so, Abel,” rispose, con voce esitante. “Ma quando me ne sono
andato ieri sera, mi ha colpito una cosa: tu avevi messo un uomo di
guardia alla porta da cui io ero entrato. Mi sono domandato perché non
lo avessero fatto anche loro. E ora che mi dici che forse c’era una
pistola in più, mi viene da pensare che ci fosse un uomo in più, di
guardia alla porta. Forse si era allontanato un attimo, proprio quando
io sono entrato, e quando ha sentito sparare è tornato e ha sparato
anche lui.”
“Ma ha visto che le cose si erano messe male, ed è scappato,” finì per
lui Kuntz, sempre tenendogli gli occhi piantati in faccia. “Potrebbe
anche darsi. In effetti, non ho tempo di preoccuparmi di questa roba,
come hai detto tu. Su, scrivi.”
Tom sospirò di sollievo.
Dopo aver passato la notte a rivedere tutto, non pensava di metterci
poi troppo tempo a scrivere quella deposizione. Si sedette di fronte
Kuntz, facendosi un po’ di spazio.
“Che cazzo fai?” gli domandò l’altro.
“Scrivo la deposizione.”
“Non ho nessuna intenzione di dividere con te il mio ufficio. Sparisci.”
“Ma fuori è una bolgia! Dove dovrei andare?”
“Non mi interessa. Tra poco porteranno qui Collins per il primo
interrogatorio. Non ho tempo di tenere d’occhio te,” fece Kuntz,
tornando a dedicare tutta la sua attenzione ai suoi incartamenti.
“Sei davvero un bastardo. E io che pensavo si potesse seppellire
l’ascia di guerra.”
Tom si alzò.
“Nella conferenza pensavo di citarti come un prezioso collaboratore. E
di farti avere un adeguato compenso da parte della polizia statale,”
gli disse Kuntz, senza alzare la testa, con tono indifferente.
“Sarà meglio! E ricordati i tabulati telefonici,” rispose Tom, piccato,
sbattendo la porta.
Scese nei sotterranei, fino all’ufficio del dottor Thompson.
Il medico legale parve molto più felice di vederlo.
“Non ho problemi a prestarle metà della mia scrivania, detective. Ma a
patto che lei mi racconti tutta la storia,” gli disse con un sorriso.
“Pensavo non volesse saperne niente,” gli rispose Tom, sorridendo a sua
volta.
“Oh, be’, ora che è tutto finito, non c’è niente di male, no? E ho il
sospetto che quello che scriveranno sui giornali sarà leggermente
diverso dalla realtà.”
Tom dovette ammettere che era vero: “Ma le dirò tutto un’altra volta, a
cena, dottore. Ho un appuntamento in mattinata e non posso rischiare di
fare tardi.”
Scrisse la sua deposizione e la firmò. Dato che Kuntz non era lì a
controllarla, se la sarebbe fatta andare bene.
La affidò al dottor Thompson, perché la facesse avere al tenente, poi
lasciò la stazione di polizia, non senza sollievo, e si mise in
macchina alla volta del palazzo del governatore, dove si sarebbe svolto
l’incontro con la commissione d’inchiesta per il caso dell’assalto al
convoglio militare.
Per entrare, Tom dovette mostrare il tesserino e aspettare che qualcuno
controllasse se il suo nome era su una lista. James lo aveva segnato, e
lui poté passare.
Un soldato semplice lo scortò fino al secondo piano, dove la
commissione aveva stabilito il proprio quartier generale. Erano quasi
le undici.
In cima alla scalinata di marmo che avevano appena salito si apriva un
piccolo salone che faceva da anticamera alla sala udienze. Due soldati
in alta uniforme stavano ai lati della porta. In disparte, vicino a una
finestra che affacciava sul suntuoso giardino, stava James, con la
schiena dritta, alto e solido come sempre.
Tom lo chiamò: “Maggiore Biggs.”
L’amico si girò e quando lo riconobbe Tom poté leggere il sollievo sul
suo volto.
Gli fece immensamente piacere. Si ritrovò a pensare che ne era valsa la
pena.
Si avvicinò a sua volta alla finestra, allontanandosi dalle orecchie
indiscrete dei soldati.
“Che succede? Hanno già cominciato?” gli chiese.
“La commissione è riunita da quasi un’ora. Io sono convocato per
mezzogiorno. Dio, Tom, non posso credere che tu sia qui.”
“Non potrai credere neanche al resto. Kuntz ha arrestato Collins, e
tutti i suoi. Lo ha pizzicato nel suo club. Le cose che ci
preoccupavano,” disse, guardandolo fisso negli occhi, “non sono più un
problema.”
James si lasciò scappare un ansito e poi rise brevemente: “Oh, Dio,
grazie, Tom. Grazie. Non so cosa avrei fatto…”
Gli strinse la mano.
Tom sorrise, poi gli porse il dossier che aveva preparato nel corso
della nottata: “Qui c’è tutto. Dal coinvolgimento di Butler
nell’assalto, al suo assassinio, alla responsabilità di Collins, al
fatto che aveva davvero un informatore, che sarà individuato non appena
avremo i tabulati telefonici del suo rifugio. Due o tre giorni. Sarà
sufficiente, per toglierti dalla griglia?”
James prese il fascicolo: “Sì, credo proprio di sì.” Scosse la testa,
incredulo. “Tom, io…”
Tom diede un’occhiata furtiva ai due uomini ai lati della porta, poi
rivolse a James un ghigno: “Pretendo che tu ti sdebiti. Stasera, da me.
Lasciamo perdere la cena.”
James rise apertamente, questa volta: “Sarà un piacere.”
“Devo andare. Ho bisogno di dormire, non sai quanto.”
“Dovrai essere in forze, stasera,” gli rispose James. “Davvero, Tom,
grazie, per aver sistemato questo casino.”
Tom gli rivolse ancora un cenno del capo, poi si girò e se ne andò.
Si meritava un buon pranzo e una sigaretta, pensò, sedendosi in
macchina.
Note:
Ed eccoci alla fine! Grazie a chiunque sia arrivato fin qui. Un grazie
particolare a blackjessamine, per aver recensito tutti i capitoli
*abbraccio*
Ci sono cose di questa storia che ancora non mi convincono e che non so
se sistemerò mai, ma tutto sommato sono felice di non averla
abbandonata a languire per sempre nel mio computer.
A presto, spero!
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